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Editoriale È davvero difficile iniziare questo editoriale. Sia perchè è il primo editoriale che mi trovi a scrivere, sia perchè è l'editoriale del primo numero di questa nuova avventura targata Spazio NBA, quindi è denso di significato.
AUTORI DEI TESTI
Se state ancora leggendo dopo queste prime quattro righe, probabilmente vi starete chiedendo che cosa troverete in questo Magazine. Lo SpazioNBA Magazine conterrà al suo interno una raccolta degli articoli pubblicati sul sito, corredati da immagini e grafiche talvolta inedite. Non sarà nulla di nuovo, ma sarà un modo per poter leggere, o rileggere, i nostri migliori articoli, proprio come se steste leggendo una rivista dedicata alla nostra amata palla a spicchi.
GRAFICA
Il primo numero, come potete immaginare dal titolo, vi riporta nel passato e contiene una raccolta delle nostre tre rubriche dedicate alla storia di questo sport: NBA Legends, NBA Stories e NBA Anthology. È probabilmente, anzi sicuramente, è il più grande progetto che mi sia trovato a gestire, e la realizzazione di questo primo numero mi ha tenuto sveglio parecchie notti. Spero ne sia valsa la pena e spero che anche questo progetto, insieme agli altri progetti legati alla nostra community, sia apprezzato e sostenuto da tutti voi, che in un modo o nell'altro rappresentate la nostra grande, grandissima famiglia. Come sempre il nostro obiettivo è quello di proporvi un prodotto di qualità, che possa con il tempo diventare un punto di riferimento per tutti gli appassionati di NBA e di basket in generale. Per raggiungere questo obiettivo però non basta essere la più grande community cestistica in Italia, abbiamo bisogno che voi diffondiate la nostra voce.
Sebastian Aucello Mattia Fiorani Pasquale Russolillo
Sebastian Aucello
PARTNER PUBBLICITARI Superbasket I 999 cestisti più forti della storia dell' NBA Baskettari brutti Pick&Roll Chiamarsi "MVP" tra cestisti senza apparenti meriti sportivi Miami Heat - Italia NBA Memes Italia Lebron James Italian Page i SpazioNBA Magazine è un progetto del sito internet www.spazionba.it, con lo scopo di raccogliere il materiale in esso contenuto. Non è pubblicato con una periodicità regolare, pertanto non può essere considerato un prodotto editoriale. Gli articoli e la grafica di questo magazine sono frutto del lavoro di tutta la redazione del sito, senza alcun scopo di lucro. Vi invitiamo quindi a non riprodurre totalmente o parzialmente il suo contenuto. Tutte le immagini e le dichiarazioni inserite in questo numero appartengono ai rispettivi autori.
Lo so, vi ho già annoiato abbastanza, per cui chiudo questo piccolo spazio introduttivo ringraziando chi mi aiuta ogni giorno nella gestione di SpazioNBA e di tutto ciò che gli gira intorno, scrivendo articoli, gestendo il gruppo e la pagina e sopportandomi nelle mie mire espansionistiche. Non posso fare altro che augurarvi una piacevole lettura, nella speranza che questo sia il primo di molti appuntamenti con il nostro SpazioNBA Magazine. Sebastian Aucello
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Leonard Kevin Bias, per il mondo intero semplicemente Len Bias. A molte persone questo nome non dirà nulla, ad alcuni suonerà come una storia conosciuta, ad altri parrà una ferita ancora aperta nel petto.
Chicago nel 1 984, Bias raccoglie la sua eredità vincendo l’ACC Player of the Year per due anni consecutivi. Il suo anno da senior è il migliore tuttora mai visto nel Maryland, caratterizzato da una prestazione scolpita nella memoria dei presenti che lo proietta ai vertici del Draft dell’estate seguente. I Maryland Terrapins (1 4-11 ) devono affrontare la squadra col miglior record, 25-1 , e ancora imbattuta in casa: North Carolina Tar Heels. Bias mette a referto 35 punti totali, ma l’episodio rappresentativo di quella partita è il jumper a cui segue una rubata con schiacciata (minuto 0:08) che cambia l’inerzia della partita e permette a Maryland di recuperare da uno svantaggio di nove punti; segna inoltre quattro degli otto punti sufficienti ai Terrapins per sconfiggere North Carolina in un favoloso upset che lo consacra a star dell’NCAA.
"Dio era in campo con noi stasera, e quando dico Dio intendo Len Bias.” Keith Gatlin, compagno di squadra di Len Bias La March Madness del 1 986 vede i Terrapins uscire al secondo turno. Nonostante Bias segni 1 9 degli ultimi 21 punti della squadra, mettendone a referto dieci negli ultimi due minuti per un totale di 31 , Maryland viene battuta da UNLV in quella che sarà l’ultima partita di Bias.
Corre l’anno 1 963 quando Len Bias vede la sua prima luce in una piccola città del Maryland. Pochi anni più tardi quel bambino, oramai diventato un ragazzo corpulento, si guadagna il soprannome di Frosty a causa del suo carattere tranquillo e riservato. Nonostante il suo amore iniziale sia in favore del football americano, Len si ritrova ad esprimere il proprio talento con la palla a spicchi tra le mani, entrando al college con i migliori auspici per il futuro. Arriva alla University of Maryland come un giocatore grezzo e indisciplinato, andando subito allo scontro con la personalità poco accomodante di coach Lefty Driesell. Nel giro di un paio d’anni, però, Bias accresce vertiginosamente le sue qualità cestistiche fino ad arrivare a contendersi lo scettro di collegiale più amato dai tifosi con Michael Jordan. Entrambi giocano con una sorta di furore controllato, ma non è quel tipo di rabbia che ti annebbia la vista, anzi, è una cattiveria agonistica che non ti permette di perdere la concentrazione neanche per un istante. Quando Jordan abbandona il college per andare a giocare a
"A quel tempo c’erano due giocatori contrapposti che risaltavano su tutti gli altri: Michael Jordan e Len Bias. Len era talentuoso, era davvero speciale – e la nostra lega era piena di giocatori molto forti – quando penso a Len Bias oggi, penso a quanto intensamente giocasse e al suo sconfinato talento. Insieme a Michael Jordan, era il giocatore a cui nessuna squadra poteva opporre una contromossa. Ecco quanto era forte.” Mike “Coach K” Krzyzewsky Il Draft del 1 986 è il coronamento del sogno di Len. I Boston Celtics di Red Auerbach aspettavano quel momento da due anni, cioè da quando, due anni prima, avevano mandato Gerald Henderson a Seattle in cambio di una scelta al primo giro. I Cavs alla prima scelta selezionano il solido centro Brad Daugherty da North Carolina, così i Celtics possono accaparrarsi il promettente Len Bias. Uno dei collegiali più in vista del decennio si unisce ad una squadra non solo fresca di titolo NBA, ma che può vantare tra le sue fila giocatori come Larry Bird, Kevin McHale e Robert Parish. La dinastia dei Celtics aveva ricevuto nuova linfa vitale, era pronta per sconfinare anche negli anni ’90. Il giorno seguente Bias si reca alla sede della Reebok, a New York, per firmare un contratto che avrebbe fatto di lui l’uomo simbolo del brand, così come era successo due anni prima a Michael Jordan con la Nike; dopodiché torna al
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campus dell’università per festeggiare con i suoi compagni, andando prima a cena e poi spostando le celebrazioni nel dormitorio. Here we are, siamo arrivati al punto in cui le domande fin qui accumulatesi nella mente di chi legge questa storia per la prima volta trovano una risposta. Come mai questo Len Bias non è nella Hall of Fame se era davvero così talentuoso? Perché non si sono mai visti cartelloni della Reebok che lo raffigurano? E poi, com’è possibile che i Celtics abbiano dovuto aspettare più di vent’anni prima di tornare al titolo dopo quel Draft?
incompleta, a volte travisata (come la falsa voce che sia stato il crack a uccidere Len Bias), con lo scopo di indirizzare l’opinione pubblica, far scoppiare l’allarme droga nel Paese e creare i presupposti per l’Anti-Drug Abuse Act del 1 986, perfezionata poi nel 1 988. Questa legge, soprannominata non a caso “Len Bias Law”, introduce fra le altre cose i cosiddetti minimi scontabili per reati legati alla droga, quantificandoli con un rapporto di 1 /1 00 a seconda che si tratti di crack o cocaina: il possesso di 500 grammi di cocaina e di soli 5 grammi di crack erano equiparati, nonché punibili obbligatoriamente con una condanna di almeno cinque anni in prigione.
La risposta sta in un numero stampato su un foglio. Autopsia n°86-999 Prince George’s County Leonard K. Bias 1 9 Giugno 1 986 Causa del decesso: intossicazione da cocaina. L’intera nazione è scioccata, molti rifiutano di credere che quel ragazzo a tanti parso invincibile sia morto. Fuori dall’ospedale le lacrime si sprecano, nelle case degli americani sintonizzati sul notiziario lo sgomento spadroneggia, è emblematico il caso di un conduttore che, riportando l’evento in diretta, non riesce a reggere l’emozione e scoppia in un pianto. A casa Bias arriva un mazzo di peonie con le condoglianze di Michael Jordan, poi è il turno di Larry Bird e di lì a poco Lonise, madre di Len, si trova subissata di messaggi di cordoglio provenienti dal mondo sportivo e non solo. Molti, nel corso degli anni, etichetteranno la morte di Len Bias come l’evento sportivo con maggiori ripercussioni a livello sociale nella storia dello sport moderno.
"Le persone della generazione precedente alla mia segnano il tempo con l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy. Per me, e molti della mia età, il tempo è scandito dalla morte di Len Bias. Ricordiamo esattamente il luogo e la situazione in cui eravamo quando abbiamo saputo della sua morte, per noi era un superuomo, una divinità indistruttibile.” Jay Bilas, analyst per ESPN ed ex-cestista La sua scomparsa viene strumentalizzata dai media, ma soprattutto dalla politica che la utilizza (rincarando la dose quando un’altra stella dello sport americano, Don Rodgers, muore a causa della cocaina solamente otto giorni dopo Bias) per far scoppiare un caso nell’intera nazione, a livello istituzionale e legislativo. I fatti sono presentati in maniera
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Gli avvenimenti della notte in cui Len Bias perde la vita sono tuttora avvolti da una cortina di mistero, che difficilmente potrà diradarsi col tempo. Bias s’incontra con Brian Tribble, col quale escono per andare a comprare dei superalcolici, prima di fare ritorno al dormitorio. Qui, nella stanza 11 03, insieme ad altri compagni di squadra, tra un sorso di birra ed uno di liquore, entra in scena la cocaina. Come dirà in seguito Tribble, era una situazione tranquilla, intima, non il tipo di sballo frenetico (concedetemi il termine) cui siamo abituati oggi. Ad un certo punto Bias sente il bisogno di sdraiarsi sul letto, perdendo conoscenza di lì a poco. Inizialmente Tribble, il più grande fra i quattro rimasti in stanza, ritiene di avere sotto controllo la situazione, essendo familiare con episodi di sincope, ma la situazione si trasforma immediatamente in panico nel momento in cui Tribble si rende conto che Len non sta più respirando. Subito prende in mano il telefono e chiama il 911 :
“È Len Bias, dovete riportarlo in vita. Non può assolutamente morire, è fuori discussione. Sul serio, signore, venite presto per favore.” I tentativi dei paramedici, e in seguito dei medici, per rianimarlo sono inutili, la mattina stessa Len Bias lascia un vuoto incolmabile nel cuore degli Stati Uniti. Il processo penale e mediatico in pochi mesi passa da accuse a tappeto nei confronti delle persone che gravitavano intorno a Len, ad una gogna dove l’unico
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imputato risulta essere Brian Tribble. Le accuse nei confronti di Terry Long e David Gregg, i due compagni presenti in stanza quella notte, vengono fatte decadere in cambio di informazioni significative sul conto di Tribble. Alla fine del processo, nessuno viene condannato, ma Brian Tribble viene incriminato quattro anni più tardi per traffico di droga, essendo costretto a scontare una pena decennale in carcere. Bias consumava abitualmente cocaina o, come è stato raccontato dalle televisioni nei mesi seguenti alla sua morte, è rimasto vittima del primo sfortunato incontro con la droga? I tre compagni presenti nella stanza 11 03 sostengono che non fosse la prima volta che Len utilizzava cocaina. I parenti, la fidanzata e svariati altri amici dicono invece il contrario, raccontando di come Len persino non bevesse alcolici neanche nelle serate più scatenate al campus. L’autopsia, seppur priva di certezze, sembra dare ragione ai primi, così come la cocaina trovata sotto il sedile dell’auto di Len (ritrovamento avvenuto, però, giorni dopo la sua morte). Che Bias avesse nascosto questo suo lato per non perdere i contratti di sponsorizzazione e la fiducia in lui riposta ai piani più alti? Buona intuizione, ma c’è un elemento nella storia che pare essere inspiegabile, o quantomeno inspiegato. L’autopsia ha rivelato presenza di cocaina non solo nel sangue di Bias ma anche nello stomaco, a livelli non raggiungibili con una semplice sniffata né, tanto meno, fumandola. Alla luce di ciò sorge un più che lecito dubbio: come ha fatto un così grande quantitativo di cocaina ad infilarsi nello stomaco di Len Bias? A seconda della fonte cui ci si affida, la versione della storia cambia. Dove stia la verità non è dato saperlo. Forse, la verità non è nemmeno così importante ai fini dell’eredità lasciata da Len Bias. La realtà, quella con cui tutti noi abbiamo a che fare quotidianamente, non è fatta di verità ma di emozioni. Ognuno esprime la sua verità compatibilmente con la propria capacità di percepirla, rendendo la verità una comprensione emozionale, non intellettuale. Mi sarebbe piaciuto molto terminare qui l’articolo, trovare qualche significato recondito alla morte di Len Bias e mettermi il cuore in pace. Purtroppo non mi è possibile, devo prolungare il racconto di altri quattro anni circa. L’eredità lasciata da Len Bias sul corpo del fratello minore James (soprannominato Jay) non è tangibile, ma risulta ben visibile a chi gli sta accanto. Jay Bias è anch’egli un promettente giocatore di basket, capace di trascinare la sua high school al titolo statale nella stagione da junior, con una prestazione da 28 punti nella partita decisiva, e di mettere a referto 25 punti e 1 2 rimbalzi di media nella stagione da senior. Qualcosa però inizia ad andare storto: Jay litiga con
lo staff, diventa collerico e i suoi voti crollano. Dopo un anno di contrasti, interni ed esterni a sé stesso, Jay lascia la scuola. Il 4 Dicembre del 1 990, il ventenne Jay si reca al centro commerciale, dicendo di voler comprare un anello alla sua fidanzata. Pochi minuti più tardi, nel parcheggio, muore trafitto da una raffica di proiettili sparati dal titolare del negozio di gioielli. La causa è la gelosia, la difesa del negoziante è che Jay nei mesi precedenti aveva flirtato con sua moglie, il corpo immerso nel lago di sangue è sempre quello del figlio di Lonise Bias.
La madre di Len si trova ad affrontare nuovamente la morte di un figlio, per la seconda volta nel giro di quattro anni. Le premonizioni, che aveva avuto mesi prima del Draft 1 986, di una sciagura incombente sulla testa di un membro della sua famiglia si erano avverate, due volte. Quelle premonizioni la cui ombra non era mai riuscita a scacciare, neanche quando tutti intorno a lei festeggiavano Len Bias, la nuova stella dei Boston Celtics. Si era rialzata dopo la morte di Len, si rialza ancora dopo quella di Jay, convinta che faccia tutto parte di un disegno del fato al quale ha poco senso opporsi. Decide così di dedicare la sua vita ad una missione, mettere in guardia i ragazzi delle scuole dai rischi che la crescita porta congenitamente con sé, convinta che Len e Jay siano morti per “donare vita” al mondo restante. Migliaia, forse milioni, di ragazzi ad oggi hanno potuto ascoltare la storia di Lonise ed il forte messaggio insito in essa. Era al corrente del fatto che suo figlio si drogava?” chiede una ragazza. “È stato detto che era la sua prima volta.” Anche Lonise Bias sembra dello stesso avviso: la verità non è poi così importante.
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SpazioNBA Anthology
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Boston, 1 985. Madison Square Garden, meglio noto al grande pubblico come Boston Garden. Se durante una normale sessione di tiro dei Celtics, vi foste trovati in quel tempio pagano, seduti più o meno comodamente sugli storici seggiolini gialli, con gli occhi persi nel parquet incrociato, a catturare la vostra attenzione sarebbe stato con ogni probabilità Michael Leon Carr. Più che sessioni, quelle di Carr erano veri e propri duelli all’ultima tripla. In allenamento era una macchina, accompagnava ogni canestro alla solita frase:
“Sono il Re delle triple, sono il Re delle triple” La vittima preferita era Larry Bird. Lo conosceva fin troppo bene, lo rispettava ma sapeva con certezza aritmetica quanto quella frase lo facesse incazzare. Larry dal canto suo non reagiva, un po’ per rispetto un po’ perché sapeva che quando contava, quando la partita andava messa in ghiaccio, M.L. Carr posava scettro e corona e preferiva passare la palla a lui piuttosto che fingere di regnare.
In quel periodo Larry dominava la Lega. Stava per diventare ancora una volta MVP e di lì a poco i suoi Cletics avrebbero vinto un altro anello. La sua forza però, non risiedeva solo nel talento, era quell’aria da truffatore, da spaccone, la
capacità di sottomettere l’avversario non solo con la forza ma con la parola. Se fosse esistita una statistica per mappare l’incisività di un giocatore nel trash-talking, Larry sarebbe arrivato primo, secondo e terzo. Era un profeta. Durante una partita contro i SuperSonics, a 1 3 secondi dalla fine con le squadre in perfetta parità, Larry guardò negli occhi Xavier McDaniel, che stava inutilmente provando a marcarlo, e gli espose nei minimi dettagli la sua strategia: “Ora ci sarà la rimessa, la palla arriverà a me in questo punto ed io ti segnerò in faccia”; dopo il time-out Bird ricevette palla in post alto, esattamente nel punto che aveva indicato e malgrado il tempestivo aiuto difensivo, segnò il canestro della vittoria proprio in faccia a McDaniel. O come quella volta nell’84, durante un incontro contro i Sixers. Il cliente di turno era Julius Erving, tutt’altro giocatore rispetto a McDaniel. I giornali avevano ricamato per l’intera settimana sulla sfida tra Bird e Erving, alimentando, qualora ce ne fosse ulteriore bisogno, la già sentitissima rivalità tra i due. Ebbene, durante la partita Larry cominciò a provocare
Doctor J comunicandogli ogni qual volta la palla entrasse nell’anello, il parziale della loro sfida personale “Ehi J siamo 2-0, ehi J siamo 7-2, ehi J siamo[”. All’ennesimo “Ehi J[”, Julius Erving decise che fosse giusto terminare l’incontro
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come due gentiluomini, scaraventando Bird a terra sul finire del terzo quarto. Dopo l’inevitabile rissa, uscendo verso gli spogliatoi, Larry chiamò a gran voce Erving: “Ehi J[siamo 42 a 6”. Larry Bird aveva sempre ragione. Quando nel 1 986 l’NBA istituì la gara del tiro da 3 punti a Bird non pareva vero, avrebbe dimostrato a Carr (che nel frattempo si era ritirato) che il suo rilascio non era poi così lento, e sarebbe riuscito ad unire in un solo colpo le due cose che preferiva fare sul parquet: tirare e prendere in giro l’avversario. L’8 febbraio 1 986, passerà alla storia come il giorno in cui venne redatto il compendio dell’Ars Birdiana, una summa irripetibile di agonismo e talento in cui l’arte del trash-talking raggiunse vette di soggiogamento psicologico che nessuno aveva ma raggiunto prima e che nessuno riuscirà nemmeno a sfiorare dopo. Quella mattina Bird è sul parquet della Reunion Arena di Dallas, mancano otto ore alla gara, ma lui è già lì. Accanto a Larry, c’è Leon Wood, sophomore dei New Jersey Nets e candidato principale alla vittoria finale. Oggi Leon Wood è un arbitro affermato della NBA, ma all’epoca era uno dei migliori tiratori della lega, tirava con il 40.4% da oltre l’arco e lo stesso Larry lo considerava l’ostacolo più grosso che lo separava dalla vittoria. Dopo aver terminato la sua sessione, Bird cominciò ad osservare Leon tirare, stava provando una serie di tiri da otto metri di distanza. Non sbagliava mai. “Ehi Leon, ” gli chiese “hai cambiato il tuo tiro ultimamente? Sembra diverso”. Ovviamente la meccanica di tiro di Leon non era cambiata di una virgola e Bird lo sapeva bene, ma conosceva anche l’enorme influenza che poteva avere nei confronti di un giovane sophomore. Leon Wood sembrò turbato, se Bird diceva che la sua meccanica era cambiata, allora era cambiata sul serio. “Non lo so, non ci ho fatto caso” rispose balbettando prima di prendersi un altro tiro che non arrivò neppure al primo ferro. Non contento Bird piazzò la stoccata finale. Prese una palla colorata, la moneyball, quella che vale 2 punti, e sbagliando il tiro di proposito sentenziò: “Dannazione Leon, queste palle scivolano”. Wood ingoiò di nuovo e se prima sembrava turbato, ora era terrorizzato. Nell’86 Quentin Tarantino lavorava ancora ai Video Archives di Manhattan Beach, ma Larry Bird aveva appena cancellato il nome di Leon Wood dalla sua “Death List Five”, ed ora era il turno degli altri. Larry era sempre stato così, un po’ genio un po’ spaccone, sin dall’infanzia a French Lick quando il suo coach del liceo, avendo capito che il fulmine aveva colpito due volte nello stesso luogo, gli regalò l’elisir che lo avrebbe cambiato per sempre. Abbassò il canestro e prendendo due palloni gli disse: “In un canestro puoi far entrare due palloni
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contemporaneamente, mi aspetto che uno come te ne metta almeno uno. Tira con una parabola alta e i liberi semmai lunghi, mai corti. Va’ figliolo e ricorda che questo è il tuo gioco”, per il giovane Larry Legend è una rivoluzione copernicana e ricorderà per tutta la vita le parole del suo coach. Le ricorderà soprattutto durante una partita a Springs Valley, quando dopo 20 minuti ne mette già 30. Lo zio, presente alla partita, si sente un po’ come il cugino di Chuck Berry in “Ritorno al Futuro”, mette un quarto di Dollaro nel telefono e chiama suo fratello: “Joe vieni in palestra, tuo figlio sta esagerando”. Alla fine dei 40 minuti, davanti agli occhi di suo padre il giovane Larry finirà con 54 punti e 38 rimbalzi.
Era fatto così, si esaltava e adorava farlo notare agli altri, come quando giocava a knockout col suo compagno ai Celtics Quinn Buckner: il compagno tirava a canestro, lui lanciava la palla in aria e non solo deviava il tiro dell’avversario, ma faceva finire la sua palla in buca. Giocava a tiro al piattello e basket allo stesso tempo. L’unica spiegazione possibile, la più credibile quanto meno, la trovò il commentatore dei Cleveland Cavaliers durante una partita contro i Celtics: “Bird tira, e Dio muove il canestro”. E come per tutte le cose che hanno a che fare con il divino, la gente ha bisogno di toccare con mano, ecco perché la
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sua presenza alla gara di tiri da tre fu un trionfo non solo per le masse dei fedeli, ma anche per le casse della NBA. Malgrado tutto però, la vittoria finale di Bird era tutt’altro che scontata, certo era il miglior tiratore del pianeta – e questo aiutava – ma si trattava di una gara che univa precisione e velocità di esecuzione, argomento nel quale Bird non primeggiava. E così, dopo aver giocato al gatto e al topo con l’autostima di Leon Wood, Larry entrò negli spogliatoi e ripeté la solfa dei palloni scivolosi. Non soddisfatto, guardò gli altri due favoriti, Craig Hodges e Dale Ellis, e col suo solito sorriso da baro domandò:
“Allora, chi di voi arriverà secondo?” Cancellate pure i nomi di Craig e Dale dalla lista dei cattivi, la faccenda era praticamente conclusa. Al primo round, Leon Wood, il temibile sophomore, arrivò penultimo totalizzando appena 1 3 punti. Quando andò a sedersi in panca sembrava turbato, sul suo volto non c’era nemmeno l’ombra del sorriso che di solito campeggia sulle facce di chi partecipa a questo genere di manifestazioni. Nei primi due turni Larry non si tolse neppure la giacca. Letteralmente.
“Sto più comodo così” disse, ma non gli credette nessuno. La finale era contro Craig Hodges, guardia dei Milwaukee Bucks, che quello stesso anno in regular season aveva tirato con oltre il 45% dall’arco. Un cecchino. Bird decise che era arrivato il momento di fare sul serio. Tolse la giacca dei Celtics e rimase con la divisa rossa degli East All-Star. Fu un massacro. Hodges totalizzò solo 1 2 punti. Il peggior risultato in una finale per più di una decade. Quell’anno solo Norm Nixon, che a distanza di tempo ancora non comprende il perché della sua presenza allo shootout, fece peggio. Quando arrivò il suo turno, proprio come in Macbeth, c’era un pugnale nel sorriso di Larry. Dopo aver tirato corto il primo pallone, mise a segno 1 3 punti, uno dietro l’altro. Aveva appena cominciato il terzo carrello ma aveva già vinto. Alla penultima moneyball, annoiato dalla sua grandezza, fece partire di proposito un tiro ad effetto di tabella; dopo aver ballato per un istante sul ferro sapete tutti dove sia finita la palla. Appena tirò l’ultima moneyball, senza nemmeno guardare se la palla entrasse oppure no, si diresse verso il centrocampo con le braccia alzate. Aveva appena vinto il primo “Three point shootout” della storia della NBA con ben 22 punti. Larry era al settimo cielo. Guardò sugli spalti e sorrise. In prima fila ad applaudirlo come un tifoso qualsiasi c’era Michael Leon Carr. Il compagno di tante sfide era lì a rendergli omaggio. Larry allora alzò i pugni al cielo e con voce stridula cominciò ad urlare: “Sono il Re delle triple, sono il Re delle triple”. Anche quella volta, come al solito, il ragazzo di French Lick aveva esagerato.
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"Io non voglio essere Michael Jordan, io non voglio essere Bird o Isiah. Io non voglio essere nessuno di questi ragazzi. Sapete, quando la mia carriera sarà finita voglio guardarmi allo specchio e dire: ho fatto a modo mio!” Allen Iverson
e ritorna un punt per un touchdown da 60 yards, vincendo il premio di miglior giocatore dello stato per ben due volte. Come detto però gioca anche a basket e, nonostante non sia il suo sport preferito, risulta uno dei migliori prospetti anche sul parquet, tanto che gli osservatori collegiali lo definiscono il miglior giocatore liceale degli ultimi 1 5 anni.
WHO IS: Allen Ezail Iverson nasce il 7 giugno 1 975 ad Hampton, Virginia. Sua madre, Ann Iverson, ha 1 5 anni e il suo padre biologico, Allen Broughton, anche lui un teenager, li abbandona. Ann però conosce un ragazzo di quattro anni più grande, Michael Freeman, che la aiuta con il piccolo Allen ma la situazione resta delle peggiori: senza un diploma per Ann è molto difficile trovare un lavoro, ma lei è una ragazza forte, con un cuore immenso, e non si lascia abbattere rassicurando il figlio che le cose sarebbero migliorate. Il quartiere è uno dei peggiori di Hampton, il piccolo Allen a 8 anni ha già assistito a più omicidi di quanti la maggior parte delle persone assista in tutta la vita, ma continua per la sua strada giocando a football come quarterback, kick returner, defensive back e running back nella squadra della Bethel High School. Ha davanti a sè una splendente carriera da giocatore di football, grazie alla sua rapidità, alla sua forza fisica e alla sua intelligenza, ma Allen è uno sportivo a tutto tondo e come secondo sport gioca a basket, anche se la sua grande passione resta la palla ovale. La vita a Hampton non migliora, Iverson pensa addirittura di inizia a spacciare pur di raccimolare dei soldi per aiutare la sua famiglia, ma proprio quando sta per fare questo passo ecco che Tony Clark, un ragazzo di 7 anni più grande, vede qualcosa di speciale in lui e gli sta accanto come un fratello maggiore.
Il destino però si mette ancora in mezzo e nel 1 993 in una sala da bowling c’è uno scontro verbale con alcuni ragazzi bianchi, che degenera poi in una rissa. Nonostante abbia dichiarato di essersene andato non appena si è passati alle mani, Allen è la persona più conosciuta del gruppo, viene arrestato e condannato a 5 anni di prigione ma qualche mese dopo il Governatore della Virginia, Douglas Wilder, gli concede la grazia.
All’età di 1 5 anni un’altra svolta: Tony viene ucciso dalla fidanzata dopo una lite e il patrigno, Michael, viene arrestato per spaccio. Come se non bastasse Ann, che ha appena partorito, ha problemi di salute e a causa delle spese mediche i pochi risparmi stanno per terminare. Allen abbandona la scuola, inizia a frequentare i brutti ambienti del quartiere e cerca in tutti i modi di aiutare economicamente la famiglia. Questa vita però non è adatta a lui e allora pianifica il suo futuro, torna a scuola con lo scopo di diplomarsi, andare in un college prestigioso grazie a una borsa di studio e lasciarlo il prima possibile per approdare in NFL. La madre però non riesce più a pagare l’affitto, viene sfrattata e Allen va a vivere con Gary Moore, suo allenatore di football, in attesa che lei riesca a trovare una casa vicino alla scuola. La carriera di giocatore di football continua a gonfie vele, i Bruins vincono il titolo statale nel 1 992, guidati proprio da Allen che lancia per oltre 200 yards, intercetta due passaggi
Iverson non torna alla Bethel High, decide di lavorare con un tutor per ottenere il diploma e nel frattempo la madre, conscia che con l’arresto e il conseguente salto dell’anno da senior tutte le possibilità di ottenere una borsa di studio sono praticamente svanite, contatta John Thompson, head coach di Georgetown, e lo convince a dare una chance al figlio. Dopo un colloquio e dei work out Thompson è impressionato dal ragazzo nonostante non giochi in una squadra di basket da quasi due anni, e decide di portarlo a Washington DC segnando per sempre il suo futuro. Nonostante giochi come playmaker non costruisce il gioco per gli altri, tende sempre a concludere a canestro creando malumore nei compagni che, quando hanno la palla in mano, preferiscono non passargliela. Lui però non bada a queste cose, ha una missione da compiere e gioca con un’aggressività da professionista, vincendo i premi di Big East Rookie of the Year e di Big East’s Defensive Player of the Year, chiudendo la stagione con 20.4 punti, 4.5 assist, 3.3 rimbalzi e 3 rubate di media e guidando gli Hoyas fino le Sweet 1 6 del torneo NCAA. Nella stagione da sophomore capisce che per far breccia nei cuori degli scout NBA deve sviluppare il suo gioco, non
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può giocare sempre 1 contro 5 ma deve saper leggere ciò che la difesa gli concede. Ci sono le partite in cui segna 30 punti, quelle in cui smazza 1 0 assist, quelle in cui ruba 1 0 palloni e quelle in cui prende 1 0 rimbalzi. Guida gli Hoyas alle Elite 8 con 25 punti, 4.7 assist, 3.8 rimbalzi e 3.4 rubate di media, vince ancora il premio di Big East Defensive Player of the Year e viene nominato All-American. Decide allora che è giunto il momento di fare il grande salto e si dichiara per il Draft NBA del 1 996.
Stackhouse, Coleman e Weatherspoon, il livello del resto della squadra è parecchio basso. Le vittorie sono soltanto 22 ma la prima stagione di Iverson tra i pro è super: 23.5 punti di media, con 7.5 assist, 4.1 rimbalzi e 2.1 rubate, che gli valgono il premio di Rookie of the Year. Non sono soltanto i numeri però a far sgranare gli occhi, infatti la cosa che meraviglia è il suo gioco frizzante e divertente, caratterizzato da cambi di direzione repentini che mettono in difficoltà chiunque. Ci sono anche delle note stonate, come
NBA CAREER: Phila arriva da una stagione in cui ha vinto soltanto 1 8 partite e nonostante l’approdo di AI e la presenza a roster di quattro giocatori solidi come
le 4.4 perse a partita e le tante forzature, ma il ragazzo è destinato a fare strada e ciò è ancor più evidente quando, dopo che Jordan ha dichiarato che Iverson avrebbe dovuto
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portare un po’ di rispetto ai veterani presenti nella Lega, la matricola gli risponde senza mezzi termini, con un crossover passato alla storia.
La seconda stagione inizia nel migliore dei modi. Arriva a Philadelphia Larry Brown, coach che aveva reso grandi gli Indiana Pacers di Reggie Miller, e che vuole rendere grande, grandissimo, Allen. Brown gli spiega che per crescere e diventare veramente immarcabile deve modificare il suo atteggiamento. Nessuno può tenerlo nell’uno contro uno, ma se cercherà sempre di terminare le azioni con un canestro allora l’altra squadra non si dovrà più preoccupare di marcare i suoi compagni e per lui sarà più difficile poter essere incisivo. La stagione dei Sixers è solo leggermente migliore di quella precedente, 31 vittorie, ma vengono gettate le basi per il futuro con le cessioni di Stackhouse, Weatherspoon e Jackson e gli acquisti di Theo Ratliff, Joe Smith, Aaron McKie e Eric Snow. Iverson dal canto suo resta il leader della squadra, ma non sembra ascoltare pienamente i consigli del coach e chiude con 22 punti, 6.2 assist e 3.1 perse di media. A causa del lockout la stagione ’98-’99 vede le squadre giocare soltanto 50 partite. Brown decidere di promuovere Snow come play titolare e di spostare Iverson nella posizione di guardia per togliergli il peso della regia e poter sfruttare la sua rapidità contro avversari più pesanti e lenti. Scelta azzecata. Chiude con 26.8 punti (top scorer), viene inserito nell’All-NBA First Team e guida Philadelphia ai playoffs, con 28 vittorie. Nel primo turno i Sixers eliminano i Magic 3-1 ma nel secondo turno vengono eliminati dai Pacers con uno sweep. Iverson torna un po’ quello di Georgetown e si prende quasi 27 tiri a partita, subendo parecchie critiche dopo l’eliminazione. I Sixers però sono una squadra in continua crescita, con la trade che porta nella Città dell’amore fraterno Toni Kukoc in cambio di Larry Hughes arriva un giocatore di grande esperienza che aiuta la truppa di Brown ad arrivare a 48 vittorie. Iverson dal canto suo continua a tirare parecchio, ma è la prima (e unica) opzione offensiva. Il suo gioco però,
fatto di continue penetrazioni contro giocatori molto più fisicati di lui, comporta molti contatti e di conseguenza AI subisce diversi acciacchi durante la stagione, che pregiudicano alcuni aspetti del suo gioco, ma non gli impediscono di chiudere con 28.4 punti, 4.7 assist e 2.1 rubate di media, che gli valgono la convocazione all’All-Star Game e l’inclusione nell’All-NBA Second Team. Snow prende in mano la squadra quando ce n’è bisogno e Phila arriva ai playoffs con la convinzione di poter far bene e, nonostante Iverson e Snow non siano al 1 00%, riesce a sbarazzarsi agevolmente degli Hornets, 3-1 . Al secondo turno però arrivano ancora i Pacers e altra sconfitta, questa volta per 4-2. La sensazione è che i Sixers e Allen abbiano dato veramente tutto: hanno giocato sopra tanti infortuni e hanno trovato le partite della vita di alcune riserve, ma non è bastato per proseguire nella post season.
La consapevolezza di dover dare ancora di più fa bene alla squadra che l’anno successivo migliora ancora arrivando a 56 vittorie (secondo miglior record di stagione al pari dei Los Angeles Lakers), guidata da un Iverson scintillante, che con 31 .1 punti vince per la seconda volta il premio di miglior realizzatore, con 2.5 rubate quello di miglior ruba palloni, viene convocato all’All-Star Game (di cui vincerà l’MVP), incluso nell’All-NBA First Team e soprattutto nominato Most
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Valuable Player, dopo che nella stagione precedente aveva ricevuto l’unico voto non andato a Shaquille O’Neal. È il giocatore più immarcabile della Lega, nessun pari ruolo riesce nemmeno a limitarlo e non solo domina offensivamente ma aiuta la sua squadra anche nell’altro lato del campo. Sì, perché quei Sixers sono probabilmente la miglior difesa del campionato, soprattutto dopo aver acquisito Dikembe Mutombo (poi Defensive Player of the Year) dagli Atlanta Hawks in cambio di Kukoc e Ratliff. Nel primo turno di playoffs ci sono ancora i Pacers, questa volta eliminati, nonostante gara 1 persa in casa 79-78. Al secondo turno arrivano i Toronto Raptors di Vince Carter: la serie è stupenda, è un vero e proprio duello tra le due superstar. In gara 1 Toronto vince 96-93, ma in gara 2 Iverson pareggia la serie segnando 54 punti per il 97-92 finale. Si va in Canada per gara 3, vinta dai padroni di casa 1 02-78 con il cinquantello di Carter, e gara 4, vinta da Phila 84-79. Le squadre tornano in terra americana sul 2-2 e Iverson va ancora sopra i 50, 52 per l’esattezza, portando Phila alla vittoria 1 21 -88. Gara 6 è dei Raptors 1 01 -89, grazie a i 39 di Carter, e gara 7 viene vinta da Phila 88-87, con Carter che sbaglia il tiro della vittoria. I Sixers arrivano quindi alle Finali di Conference e affrontano i Milwaukee Bucks di Ray Allen, già avversario di Iverson ai tempi degli Hoyas. La serie è equilibratissima, in gara 6 Iverson ne mette 26 (46 totali) nel quarto periodo ma i Bucks vincono 11 0-1 00 e costringono i Sixers a gara 7. Non c’è partita: AI chiude con 44 punti, 6 rimbalzi e 7 assist, Mutombo ne aggiunge 23, 1 9 rimbalzi e 7 stoppate e i Sixers vincono 1 08-91 approdando alle Finals, dove affrontano i Los Angeles Lakers, campioni uscenti e con 11 vittorie su 11 partite disputate nei playoffs. Si sa da subito che l’impresa è delle più proibitive, i Lakers, guidati dal trio O’Neal-Bryant-Jackson, sono una schiacciassi, ma Iverson è nato per questi momenti e in gara 1 raggiunge probabilmente il punto più alto della sua carriera: con 48 punti, 6 assist, 5 rimbalzi e altrettante rubate guida i suoi alla vittoria 1 07-1 01 all’overtime, costringe Bryant a tirare 7/22 dal campo e infligge a quella corazzata la prima e unica sconfitta di quei playoffs. Come detto i Lakers vincono la serie 4-1 , ma le medie delle Finals di AI recitano 35.6 punti in 47.4 minuti giocati.
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Nelle stagioni successive AI resta ad altissimi livelli, ma i Sixers non riescono più a ripetere quell’exploit incredibile. L’anno dopo infatti vengono eliminati al primo turno dai Celtics dopo aver chiuso la regular season a quota 43 vittorie, con Iverson che viaggia a 31 .4 punti (terza volta top scorer) e 2.5 rubate (seconda volta top stealer) di media, venendo convocato ancora alla partita delle stelle ed incluso nell’All-NBA Second Team, ma torna in parte il solita degli anni precedenti prendendosi quasi 28 tiri a partita soprattutto a causa dei molti infortuni subiti dai suoi compagni. Durante l’estate del 2002 viene arrestato con diverse accuse tra cui il possesso illecito di armi, e nonostante venga poi scagionato la sua immagine ne risente molto. Tornando al basket giocato, i Sixers arrivano ancora ai playoffs dopo aver vinto 48 partite in stagione, guidati sempre da Iverson a quota 27.6 punti e 2.7 palle rubate (terza volta consecutiva top stealer), convocato per la quarta volta all’All-Star Game e inserito nell’All-NBA Second Team. Ai playoffs però, dopo aver eliminato gli Hornets 4-2, serie in cui stabilisce in gara 1 il record di franchigia con 55 punti, deve arrendersi ai Pistons. In estate Larry Brown decide di accettare l’offerta proprio dei Pistons e va ad allenare nella Motor City (vincendo il titolo al termine della stagione) e i Sixers ne risentono così tanto che chiudono con 33 vittorie e 49 sconfitte. Iverson salta 34 partite e chiude la stagione con 26.4 punti e 6.8 assist tirando però con il 38.7% dal campo (career low). La mancanza di una figura forte come guida destabilizza Iverson, che era già stato criticato per non impegnarsi troppo negli allenamenti (basta vedere la sua famosissima conferenza stampa a riguardo), e i compagni, che non riescono più ad esprimersi al meglio delle loro possibilità. Nella stagione ’04-’05 Phila ci riprova con un roster ricco di veterani, Iverson torna il giocatore di prima, realizza 60 punti (career high) contro i Magic il 1 2 febbraio e chiude con 30.7 punti (top scorer), 7.9 assist e 2.4 rubate, portando i suoi a vincere 43 partite, venendo convocato all’All-Star Game (di cui verrà eletto MVP per la seconda volta) e guadagnandosi l’inclusione nell’All-NBA First Team. Ai playoffs però altra eliminazione al primo turno per mano dei Pistons con un secco 4-1 . Il ciclo è ormai alla fine, i Sixers ci provano la stagione seguente aggiungendo al roster Chris Webber ma chiudono con 38 vittorie non qualificandosi ai playoffs. Iverson viene convocato all’All-Star Game, incluso nell’All-NBA Third Team e segna ben 33 punti di media conditi da 7.4 assist, medie che tiene anche all’inizio della stagione successiva, ma la dirigenza dei Sixers decide di rifondare e lo cede ai Denver Nuggets. In Colorado forma con Carmelo Anthony una delle coppie offensive più devastanti della Lega, termina la
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stagione con 26.3 punti e 7.2 assist di media, ancora AllStar, i Nuggets si qualificano ai playoffs ma escono al primo turno contro i San Antonio Spurs. La stagione ’07-’08 è l’ultima giocata ai livelli che lo hanno da sempre contraddistinto: chiude con 26.4 punti, 7.1 assist e 2 rubate di media, nona volta tra gli All-Star, i Nuggets arrivano a 50 vittorie e sono sicuramente uno dei migliori attacchi della Lega, ma ai playoffs conta difendere ed escono ancora al primo turno, sweeppati dai Lakers. Nella stagione seguente, dopo sole 3 partite Denver decide di cedere il nativo di Hampton ai Detroit Pistons in cambio di Chauncey Billups. Iverson vede il suo minutaggio e le sue cifre ridursi, ma la sua popolarità è sempre alle stelle e nonostante segni “solo” 1 7.4 punti di media in maglia Pistons viene comunque convocato per la decima volta all’All-Star Game. AI perde ancora al primo turno di playoffs, questa volta contro i Cavs, ma non gioca in post season a causa di un infortunio, anche se il motivo reale pare sia un altro. Pochi giorni prima infatti aveva dichiarato che, piuttosto che partire dalla panchina come avrebbe voluto coach Michael Curry, si sarebbe ritirato e la dirigenza sembra abbia deciso di punirlo mandandolo in tribuna. In estate diventa free agent e viene firmato dai Memphis Grizzlies con cui però gioca solo 3 partite prima di abbandonare la squadra per motivi personali, per poi tornare ai Sixers. Dopo sole 25 partite, in cui segna 1 3.9 punti di media, decide di lasciare Philadelphia a causa delle condizioni critiche della figlia di 4 anni. Ritorna al basket giocato nel 201 0, firmando con i turchi del Besiktas, con cui però gioca solo 1 0 partite, per poi ritirarsi definitivamente il 30 ottobre 201 3. 24368 punti, 5624 assist, 3394 rimbalzi e 1 983 rubate in 91 4 partite giocate tra i pro. MVP nel 2001 , Rookie of the Year, All-Rookie First Team e MVP del Rookie Challenge del 1 997, 4 volte miglior marcatore, 3 volte miglior ruba palloni, 3 volte nell’All-NBA First Team, 3 volte nell’All-NBA Second Team, una volta nell’All-NBA Third Team, 11 volte All-Star, 2 volte MVP dell’All-Star Game e maglia ritirata dai Philadelphia 76ers l’1 marzo 201 4.
Ha sempre dato il massimo, anche quando non è riuscito a vincere. Le sue prestazioni ai playoffs (29.7 punti di media in post season) sono state sempre di altissimo livello ed ha sempre portato il suo gioco ad un livello superiore quando necessario. Ha decisamente fatto a modo suo. Un mix esplosivo di genio, sregolatezza, talento e soprattutto tanto, tantissimo cuore, che lo hanno reso uno dei giocatori più amati della sua generazione. Ha segnato il basket dentro e fuori il campo, cambiando per sempre tanti aspetti di questo mondo, diventando un idolo delle folle e dominando la Lega dall’alto dei suoi 1 80 centimetri. Un giocatore e un personaggio unico, che ha portato lo stile di vita della strada nel mondo della pallacanestro. Un uomo che si è fatto da solo, è sempre ripartito dai suoi fallimenti e non ha mai rinunciato a cercare di raggiungere un obiettivo. Semplicemente The Answer.
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Appena l’autobus svoltò su Lasalle Street lo videro, il mitico Louisiana Superdome era davanti ai loro occhi. Jimmy e Matt si scambiarono un’occhiata complice, erano sbalorditi, e sapevano con certezza che malgrado tutto, il loro futuro era lontano da posti come quello. James era concentratissimo, quello sarebbe stato l’ultimo anno con quei ragazzi e voleva più di ogni altra cosa vincere quel titolo collegiale che gli era stato scippato da Isiah Thomas appena un anno prima; Sam, invece, folgorato dalla magnificenza del palazzo, dimenticò per un istante Patrick Ewing, l’uomo che gli toglieva il sonno. In fondo al pullman però, c’era qualcuno che non sembrava impressionato. Non importava quello che ci fosse al di là del finestrino, per quanto gli riguardava poteva esserci anche la Tour Eiffel. Michael aveva lo sguardo perso nel vetro. Ripassava come uno scolaretto prima dell’esame tutto quello che aveva studiato la notte precedente. Sapeva già come sarebbe andata la partita contro Georgetown. Al mattino aveva chiamato sua madre: “Mà, vinciamo noi!” aveva detto alla signora Dolores, e nonostante la perplessità di sua madre, rincarò la dose “[vinciamo di 1 e il tiro della vittoria lo metto io”.
Vedeva se stesso muoversi senza palla e posizionarsi sul lato debole pronto a ricevere la palla. Immaginò quale difesa avrebbe potuto usare Georgetown in un ultimo possesso contro di loro. “Useranno sicuramente la zona 1 -3-1 ” pensò. Dean Smith si alza dalla panca e Michael pensa a tutte quelle volte in cui Coach Smith era stato criticato per non aver mai vinto nulla nei suoi 21 anni a Chapel Hill, le tre sconfitte in finale – l’ultima delle quali l’anno prima contro Indiana – le semifinali perse. Mike voleva disperatamente regalare il titolo a Smith, voleva portare il titolo a North Carolina. L’orologio continuò a ticchettare e Michael si sforzò di sognare ancora. Mancano 3 secondi alla fine. Palla a Jordan[ Il pullman parcheggiò frettolosamente nel garage privato del Superdome costringendo Michael ad abbandonare il suo sogno ad occhi aperti. La realtà lo chiamava. Di lì a poco quelle emozioni le avrebbe provate davvero.
Poco importa che lui fosse un freshman e che coloro a cui spettava l’eventuale tiro della vittoria si chiamassero Sam Perkins e James Worthy, nel suo mondo ideale il tiro sarebbe toccato a lui. Qualcosa nella mente di Michael iniziò a ticchettare, era il cronometro della partita, mancavano 6 secondi alla fine, 5.
È il momento chiave della partita e Coach Smith in piedi di fronte ai suoi ragazzi lo sa bene.
l palazzo era strapieno e la partita, come da pronostico, scorreva sulle ali dell’equilibrio con James Worthy (28 punti) e Patrick Ewing (23 punti e 11 rimbalzi) a contendersi il premio di Most Outstanding Player. Mancano 32 secondi alla fine e Georgetown conduce 62-61 . Time-out Carolina.
“Ragazzi, andiamo ad attaccare la zona 1-3-1” Coach Dean Smith
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Mike sorride, questa volta non ha bisogno di chiudere gli occhi, sa già cosa fare. Smith va da Black, il suo playmaker, e gli dice: “Jimmy, la nostra prima opzione è Worthy, tieniti pronto per un lob dentro per lui. Se non è possibile, ribalta sul lato debole per Jordan.” Le squadre stanno rientrando in campo. “Michael” urla Coach Smith “mettila dentro”. Jordan annuisce, deve solo eseguire quanto sognato sul pullman. Guarda i 62 mila spettatori e decide di renderli felici. La palla è come da copione delle mani di Black. Guarda dentro ma Worthy è circondato da maglie blu. Si va in automatico, palla a Jordan. Mancano 1 7 secondi alla fine, Dean Smith è in piedi, Michael tira fuori la lingua e fa partire l’arcobaleno.Canestro. Georgetown è alle corde e all’ultimo possesso Fred Brown, regala la palla a James Worthy. North Carolina è campione! Quella sera di fine marzo a New Orleans nacque Michael Jeffrey Jordan e di lì in poi nulla sarebbe stato più lo stesso, il mondo del basket sarebbe cambiato per sempre e perfino il nostro modo di intendere lo sport più bello del mondo sarebbe stato figlio di quel tiro preso a 1 7 secondi dalla fine da un freshman. Non un semplice tiro, ma “Il Tiro”, “The Shot”.
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WHO IS: Shaquille Rashaun O’Neal nasce a Newark, New Jersey, il 6 marzo 1 972. Suo padre, Joseph Toney, ha problemi legati all’abuso di sostanze stupefacenti e, nel 1 973, viene arrestato per possesso di droghe. Toney non è mai stato parte integrante della vita del figlio, che è stato cresciuto dalla madre, Lucille O’Neal, e dal patrigno, Phillip A. Harrison. Shaq non ha mai voluto ristabilire i rapporti con il suo padre biologico, affermando più volte “Phil è mio padre”. Passa la sua gioventù nella Germania dell’Ovest poichè il patrigno era d’istanza alla base di Wildflecken con l’esercito americano, venendo addirittura scambiato da Dale Brown, coach di LSU, per un militare in servizio, per poi trasferirsi a San Antonio, dove guida la Robert G. Cole High School a un
Arabo significa proprio “Piccolo Guerriero”) decide di andare proprio alla Louisiana State University di coach Brown, che per primo aveva riconosciuto il suo talento. Dopo una prima stagione di ambientamento, in cui comunque mette a referto 1 3.9 punti, 1 2 rimbalzi e 3.6 stoppate di media tirando con il 57% dal campo, esplode nella stagione da sophomore: 27.6 punti, 1 4.7 rimbalzi, 5 stoppate e il 62.8% al tiro, numeri che gli valgono l’Adolph Rupp Trophy come miglior giocatore del Paese. Chiude l’esperienza universitaria dopo la stagione da junior, in cui mette a referto 24.1 punti, 1 4 rimbalzi e 5.2 stoppate, decidendo di entrare nel Draft del 1 992, per poi successivamente completare gli studi per corrispondenza nel 2000.
record di 31 vittorie e una sola sconfitta nella stagione da junior, 36 vittorie e nessuna sconfitta nella stagione da senior. In questa stagione Shaq, che ha già superato i 2 metri di altezza e i 1 20 chilogrammi di peso, domina letteralmente chiudendo con 32 punti e 22 rimbalzi a partita, guadagnandosi il titolo di All-American e portando il suo liceo al titolo statale.
NBA CAREER: O’Neal non è soltanto pura potenza, è anche tanta tecnica e una personalità incredibile, qualità che fanno intravedere in lui un giocatore che potrebbe fare grandi cose tra i pro. Viene scelto con la prima chiamata assoluta dagli Orlando Magic, con cui vince il premio di Rookie of the Year dopo una stagione da 23.4 punti, 1 3.9 rimbalzi e 3.5 stoppate, che con la sua presenza vincono 20 partite in più dell’anno precedente e mancano i playoffs per un soffio, arrivando alla pari con gli Indiana Pacers. Durante la stagione da rookie inoltre diventa la prima matricola dopo Michael Jordan ad essere votato come titolare nell’All-Star
Diversi college, tra cui Louiville, UNLV, North Carolina e North Carolina State, sono in fila per assicurarsi il suo talento, ma alla fine Little Warrior (Shaquille Rashaun in
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Game. La stagione però viene anche ricordata per due episodi particolari, due schiacciate incredibili con cui il giovane O’Neal rompe la struttura del canestro.
I Magic vincono ancora incredibilmente la lottery, scelgono Chris Webber ma lo cedono ai Warriors in cambio di Anfernee “Penny” Hardaway, terza scelta assoluta. Shaq nel frattempo migliora le sue cifre mettendo a referto 29.3 punti, 1 3.2 rimbalzi, 2.4 assist e 2.9 stoppate a partita, realizzando la prima tripla doppia della sua carriera il 20 novembre contro i Nets (24 punti, 28 rimbalzi e 1 5 stoppate, QUINDICI!), guadagnandosi ancora l’All-Star Game e per la prima volta l’inclusione nell’All-NBA Third Team. I Magic si qualificano per la prima volta nella loro storia ai playoffs con un record di 50 vittorie e 32 sconfitte, ma perdono 3-0 al primo turno contro gli Indiana Pacers. La stagione 1 994-1 995 è quella della definitiva esplosione. 29.3 punti (miglior realizzatore nella Lega), 11 .4 rimbalzi, 2.7 assist, 2.4 stoppate che valgono l’All-Star Game, l’inserimento nell’All-NBA Second Team e il secondo posto, dietro a David Robinson, nella classifica per l’MVP. I Magic vincono 57 partite e arrivano ai playoffs come testa di serie numero 1 . Al primo turno si sbarazzano dei Celtics, 3-1 , con Shaq che, sull’1 -1 , domina gara 3 realizzando 20 punti e 21 rimbalzi; al secondo turno battono 4-2 i Chicago Bulls, orfani
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di Jordan, guidati dal solito O’Neal, autore di 24.3 punti, 1 3.2 rimbalzi, 4 assist e 2 stoppate; alle Conference Finals si trovano davanti gli Indiana Pacers di Reggie Miller. La serie è equilibratissima nelle prime 5 partite, con scarti da 1 a 5 punti. I Magic sono in vantaggio 3-2 ma vengono distrutti a Indianapolis in gara 6, 1 23-96 nonostante uno Shaq da 35 punti e 1 3 rimbalzi. In gara 7 però, nonostante il #32 faccia una partita nella norma, realizzando 26 punti e 6 rimbalzi, Orlando vince 1 05-81 , accedendo alle Finals. I numeri della serie di O’Neal sono impressionanti considerando che è un giocatore al terzo anno e alla prima vera esperienza ai playoffs: 27.3 punti, 9.6 rimbalzi, 2.4 assist, 1 .1 rubate, 1 .7 stoppate e il 66% dal campo. In Finale ci sono gli Houston Rockets di un altro centro dominante, Hakeem Olajuwon, che vincono 4-0 nonostante il fattore campo fosse a favore dei Magic. A Orlando non bastano i 28 punti, 1 2.5 rimbalzi, 6.3 assist e 2.5 stoppate di Shaq. La squadra della Florida ci riprova la stagione seguente. O’Neal salta 28 partite per infortunio ma con 26.6 punti, 11 rimbalzi, 2.9 assist e 2.1 stoppate partecipa ancora alla partita delle stelle e viene inserito nell’All-NBA Third Team. I Magic arrivano a 60 vittorie, ma sono secondi a est dietro la stagione record da 72 vittorie dei Bulls. Al primo turno eliminano con un secco 3-0 i Detroit Pistons, al secondo 4-1 agli Atlanta Hawks ma in Finale di Conference arrivano i Bulls, che vincono senza problemi 4-0. Shaq chiude i playoffs con 25.8 punti, 1 0 rimbalzi, 4.6 assist e 1 .3 stoppate di media, dimostrando di essere pronto a vincere, così in estate, dopo aver vinto la medaglia d’oro olimpica a Atlanta, decide di cambiare aria, di andare in una squadra dalla grande tradizione, e firma un contratto da 1 21 milioni di dollari in 7 anni con i Los Angeles Lakers. I gialloviola sono una squadra in piena ricostruzione dopo lo Showtime. Hanno alcuni giovani interessanti come Eddie Jones, Nick Van Exel e il rookie Kobe Bryant, a cui si affiancano veterani e giocatori già affermati come Elden Campbell e Byron Scott. Con l’arrivo di Shaq le aspettative sono molto alte, ma ci vuole qualche anno prima che queste aspettative vengano rispettate. Nella prima stagione da Laker O’Neal salta 31 partite per infortunio, realizzando però 26.2 punti, 1 2.5 rimbalzi, 3.1 assist e 2.9 stoppate nelle 51 partite giocate, che gli valgono l’All-Star Game e l’All-NBA Third Team. I Lakers vincono 56 partite, si qualificano ai playoffs ma, dopo aver battuto 4-0 i Blazers con uno Shaq da 33 punti di media nella serie, vengono eliminati al secondo turno, 4-1 dagli Utah Jazz. La stagione seguente salta ancora 22 partite a causa di infortuni, chiude con 28.3 punti, 11 .4 rimbalzi, 2.4 assist e 2.4 stoppate, partecipa ancora all’All-Star Game, viene inserito nell’All-NBA First Team e guida i Lakers a vincere 61 partite, conquistando il tiolo della Pacific Division. Ai
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playoffs, dopo aver eliminato i Blazers 4-0 (29 punti e 11 .8 rimbalzi di media nella serie per O’Neal) e i Sonics 4-1 (30.6 punti e 9.6 rimbalzi di media), sono ancora i Jazz ad eliminare Shaq e compagni, con un perentorio 4-0.
I Lakers stanno crescendo, guidati dalla coppia O’NealBryant, ma la stagione 1 998-1 999 è caratterizzata, oltre che dal lockout, da diversi cambi a livello di staff e giocatori. Van Exel, Jones, Campbell e coach Del Harris salutano El Segundo, mentre in arrivo ci sono Glen Rice e Kurt Rambis, come nuova guida tecnica. La sostanza però non cambia: O’Neal gioca probabilmente la peggior stagione da quando è nella Lega e chiude con 26.3 punti, 1 0.7 rimbalzi, 2.3 assist e 1 .7 stoppate, per la prima volta non è un All-Star ma viene comunque incluso nell’All-NBA Second Team. La squadra arriva ai playoffs, elimina Houston in 4 partite ma viene eliminata dagli Spurs con uno sweep. Manca qualcosa, quel qualcosa che renda un gruppo di ottimi giocatori una squadra da titolo. Quel qualcosa ha un nome e cognome: Philip Douglas Jackson. Con l’arrivo del coach protagonista dei 6 titoli di Chicago, a LA si respira una nuova aria. Jackson motiva Shaq, dichiara che il trofeo di MVP sarebbe dovuto essere stato rinominato
al ritiro del #34 e, grazie alla Triangle Post Offense di Tex Winter, costruisce un sistema che permette a O’Neal, Bryant e agli altri interpreti di esprimersi al meglio. O’Neal chiude la stagione con 29.7 punti (leader della Lega), 1 3.7 rimbalzi, 3.8 assist e 3 stoppate, vince l’MVP, partecipa all’All-Star Game (di cui vince l’MVP con Tim Duncan), viene incluso nell’All-NBA First Team e nell’All-Defensive Second Team. È il primo giocatore da Kareem Abdul-Jabbar, nella stagione ’76-’77, a finire tra i primi tre nella Lega per punti, rimbalzi, percentuale dal campo e stoppate. I Lakers arrivano ai playoffs con 67 vittorie, al primo turno eliminano i Kings 3-2, al secondo i Suns 4-1 , alle Conference Finals i Portland “Jail” Blazers 4-3, dopo un’incredibile rimonta in gara 7. Nelle Finals si sbarazzano dei Pacers 4-2 e O’Neal viene nominato MVP, chiudendo la serie con 38 punti, 1 6.7 rimbalzi, 2.3 assist, 1 rubata, 2.7 stoppate e il 61 % dal campo, probabilmente la miglior serie finale di sempre. I Lakers sono una corazzata, la stagione 2000-01 si chiude con 56 vittorie, il duo O’Neal-Bryant domina la Lega, con il primo che realizza 28.7 punti, 1 2.7 rimbalzi, 3.7 assist e 2.8 stoppate a partita, e il secondo 28.5 punti, 5.9 rimbalzi, 5 assist e 1 .7 rubate. Altro All-Star Game per Shaq, altro AllNBA First Team, altro All-Defensive Second Team e altro viaggio ai playoffs. 3-0 ai Blazers, 4-0 ai Kings, 4-0 agli Spurs, 4-1 in Finale ai Sixers. Il miglior cammino di sempre nella postseason. O’Neal viene ancora nominato MVP delle Finali, con 33 punti, 1 5.8 rimbalzi, 4.8 assist, 3.4 stoppate e il 57.3% dal campo, il tutto essendo marcato da Dikembe Mutombo, Defensive Player of the Year. In gara 3 Shaq viene espulso proprio a causa di un fallo in attacco commesso contro il congolese, e, al termine della partita, dichiara:
"Non avrei mai pensato che il miglior difensore della Lega avrebbe floppato in quel modo. È vergognoso che gli arbitri ci siano cascati. Avrei voluto che lui fosse stato in piedi e mi avesse affrontato come un uomo, piuttosto che floppare e piangere ogni volta che andavo contro di lui." Shaquille O'Neal Prima della stagione 2001 -2002 viene operato al piede sinistro, ma è pronto per l’inizio della stagione. Tuttavia il piede gli dà diversi problemi e lo costringe a saltare 1 2 partite che, aggiungendo 3 partite di squalifica dopo una rissa con Brad Miller, diventano 1 5. Realizza comunque 28.7 punti, 1 0.7 rimbalzi, 3 assist e 2 stoppate a partita, ma la sua leadership è messa in dubbio da Bryant, alla sua prima stagione da vero trascinatore della squadra. O’Neal è ancora All-Star, viene incluso nell’All-NBA First Team e vince per la terza volta consecutiva l’MVP delle Finals, dopo aver
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eliminato 3-0 i Blazers, 4-1 gli Spurs, 4-3 i Kings e 4-0 i Nets, chiudendo le Finali con 36.3 punti, 1 2.3 rimbalzi, 3.8 assist e 2.8 stoppate di media. Shaq fatica ad accettare che Kobe lo stia superando nelle gerarchie e tra i due il rapporto inizia ad inasprirsi. Durante l’estate O’Neal decide di sottoporsi ad una nuova operazione al piede, ma aspetta fino al giorno prima del training camp, dicendo di essersi infortunato lavorando e che quindi sarebbe guarito durante il periodo di lavoro. La situazione peggiora dopo la stagione 2002-2003 con O’Neal autore di 27.5 punti, 11 .1 rimbalzi, 3.1 assist e 2.4 stoppate, di nuovo All-Star, nell’All-NBA First Team e nell’All-Defensive Secon Team, ma con i Lakers eliminati al secondo turno dei playoffs, 4-2 dagli Spurs, dopo aver battuto i Wolves 4-2. La dirigenza decide di provare il tutto per tutto e, nella free agency, firma Karl Malone e Gary Payton. Shaq però chiede un aumento salariale, urlando “Pagami!” a Jerry Buss, propietario dei Lakers, durante una partita di preseason, e la tensione con Bryant è ormai palpabile. I due si criticano durante le interviste, con Bryant che afferma che il compagno sia fuori forma e anteponga i soldi agli interessi della squadra, e Shaq che non si esime dal parlare delle accuse di stupro del #8. La stagione del centro si chiude con 21 .5 punti, 11 .5 rimbalzi, 2.9 assist e 2.5 stoppate, con l’MVP All’All-Star Game e l’inserimento nell’All-NBA First Team. I Lakers arrivano alle Finals con i favori dei pronostici dopo aver battuto 4-1 Houston, 4-2 San Antonio e 4-3 Minnesota, ma perdono malamente 4-1 contro i Pistons di Larry Brown.
Durante l'estete O'Neal firma un’estensione contrattuale con gli Heat, 1 00 milioni in 5 anni, ed è pronto ad iniziare la nuova stagione dopo aver perso per una manciata di voti l’MVP 2004-05 (vinto da Steve Nash), ma alla seconda partita subisce un infortunio alla caviglia che gli fa saltare 1 8 partite. Al suo ritorno Stan Van Gundy, fortemente criticato da O’Neal durante i precedenti playoffs, si dimette e al suo posto arriva Pat Riley. Riley decide di preservare O’Neal durante la regular season, che chiude con 20 punti, 9.2 rimbalzi, 1 .9 assist e 1 .8 stoppate, venendo convocato all’All-Star Game e inserito nell’All-NBA First Team. Gli Heat eliminano i Bulls 4-2, i Nets 4-1 , i Pistons 4-2 e vincono in rimonta il titolo, 4-2 contro i Dallas Mavericks. È il quarto e ultimo anello per Shaq.
In estate Shaq critica l’operato della società, rea di aver lasciato andare Phil Jackson e di voler puntare su Bryant, e chiede di essere ceduto. Kupchack prova a scambiarlo con i Mavericks in cambio di Dirk Nowitzki, ma alla fine cede alle richieste dei Miami Heat, che mandano in California Caron Butler, Lamar Odom, Brian Grant e una prima scelta futura.
"O’Neal se ne è andato perché non poteva ottenere ciò che voleva – un aumento contrattuale. Non c’è nessuna proprietà che gli darebbe ciò che vuole. Le richieste di Shaq hanno tenuto in ostaggio la franchigia e il suo modo di fare non è affatto piaciuto a Jerry." Tex Winter, assistente di Phil Jackson Nel primo anno a Miami, O’Neal promette ai fan che avrebbe portato l’anello in Florida. Gli Heat vanno subito fortissimo e, già alla prima stagione, chiudono con il miglior record della Lega. Shaq realizza 22.9 punti, 1 0.4 rimbalzi, 2.7 assist e 2.3 stoppate, partecipa all’All-Star Game e viene incluso nell’All-NBA First Team. Gli Heat eliminano i Nets e i Wizards 4-0, ma perdono nelle Conference Finals contro i Detroit Pistons, cedendo solo in gara 7, 88-82.
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Nella stagione 2006-07 salta 35 partite dopo essersi sottoposto ad un nuovo intervento, questa volta al ginocchio sinistro, nel mese di novembre. Gioca soltanto 40 partite, realizzando 1 7.3 punti, 7.4 rimbalzi, 2 assist e 1 .4 stoppate, ma viene comunque convocato all’All-Star Game. Gli Heat faticano senza Shaq, chiudono con il quarto seed come campioni della Southeast Division, ma al primo turno affrontano in Bulls che, a causa di un miglior record, hanno il fattore campo. Miami viene eliminata 4-0, nonostante una buona serie di Shaq che però, all’età di 34 anni, non è più un fattore come un tempo. Nella stagione successiva, dopo 33 partite sottotono, diversi infortuni e una lite con Riley, gli Heat decidono di cederlo ai
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Phoenix Suns in cambio di Shawn Marion e Marcus Banks. Shaq chiude la stagione con 1 3.6 punti, 9.1 rimbalzi, 1 .5 assist e 1 .4 stoppate di media, aiutando i Suns a raggiungere i playoffs, in cui però vengono eliminati dagli Spurs 4-1 . Lo staff medico dei Suns, si sa, fa miracoli. Nella stagione seguente infatti O’Neal migliora sensibilmente le sue cifre, chiudendo con 21 .3 punti, 1 0.1 rimbalzi, 2 assist e 1 .7 stoppate in 75 partite giocate (mai così tante dalla stagione ’99-’00 e soltanto quinta stagione in carriera con almeno 75 partite giocate), tornando all’All-Star Game, di cui vince di nuovo l’MVP insieme al suo amico-nemico Kobe Bryant, e venendo inserito nell’All-NBA Third Team, ma i Suns non raggiungono i playoffs. Phoenix decide così di tagliare i costi e cede O’Neal ai Cleveland Cavaliers in cambio di Sasha Pavlovic, Ben Wallace e una seconda scelta.
numero 34 ritirato dai Los Angeles Lakers. Ci sarebbe ancora tantissimo da dire, soprattutto per quanto riguarda la sua vita fuori dal campo. Dalle interviste contro Van Gundy alle canzoncine contro Divac, dalla sua strabordante personalità al feud con Bryant. Tante cose di cui, prima o poi, vi prometto che parleremo, perché Shaq è un giocatore e personaggio unico, che merita più di un semplice articolo.
"Il mio motto è molto semplice: Win a Ring for the King!" Shaquille O’Neal Lontano dall’Ariziona, Shaq torna ad avere problemi fisici, salta 29 partite ma chiude comunque con 1 8.5 punti, 1 0.3 rimbalzi, 2.3 assist e 1 .8 stoppate. Torna in campo per il primo turno dei playoffs, in cui i Cavs hanno la meglio sui Bulls 4-1 , ma il sogno di vincere il quinto titolo si spegne al secondo turno, in cui Cleveland, testa di serie #1 , viene eliminata 4-2 dai Boston Celtics. La carriera di Shaq è agli sgoccioli, prova a raggiungere il quinto anello andando dai rivali di sempre, i Boston Celtics di Rondo, Allen, Pierce e Garnett. Nonostante i diversi infortuni di O’Neal, la dirigenza decide di cedere Perkins ai Thunder in cambio di Jeff Green, per lasciare più spazio al #36. Le sue condizioni però sono peggiori del previsto: gioca soltanto 37 partite, in cui comunque realizza 1 6.3 punti, 8.5 rimbalzi, 1 .2 assist e 2 stoppate di media, ed è costretto a saltare tutto il primo turno dei playoffs, che i Celtics vincono 4-0 contro i New York. Torna in gara 3 del secondo turno ma non è sufficiente per evitare la sconfitta, 4-1 contro i Miami Heat dei suoi vecchi compagni Wade e James. L’1 giugno, attraverso il suo account Twitter annuncia il ritiro. 1 9 anni di carriera, 28596 punti segnati (sesto all-time), 1 3099 rimbalzi, 3026 assist, 2732 stoppate (nono all-time), 4 titoli NBA, 3 MVP delle Finals, un MVP della regular season, 8 volte nell’All-NBA First Team, 2 volte nell’All-NBA Second Team, 4 volte nell’All-NBA Third Team, 3 volte nell’AllDefensive Second Team, 2 volte miglior realizzatore dell’NBA, 1 5 volte All-Star, 3 volte MVP dell’All-Star Game,
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"Era il caos assoluto, al punto che temevi davvero per la tua vita. Non sapevamo se a quel punto qualcuno avrebbe tirato fuori un coltello o una pistola. I tifosi invadevano il campo e provocavano i giocatori cercando di scatenare delle risse. Non avevo mai visto nulla del genere.” Tim Donaghy, arbitro Ci sono situazioni, eventi, talmente causali che credere alle coincidenze diventa un arduo compito. Quella sera di Novembre è una delle circostanze in cui il disegno del Caso si fa talmente articolato e tempestivo da costringerti ad inchinarti alla sua maestosità, oppure iniziare a dubitare della sua effettiva esistenza. Tendendo a far parte del secondo gruppo, voglio presentarvi questa vicenda come l’opera scaturita dalla mano di un abile drammaturgo. Lascio dunque la parola alle maschere principali di questa tragedia contemporanea, in modo che le loro parole e le suggestive immagini possano appassionare il lettore più di quanto sia in grado di fare un semplice narratore. PROLOGO La stagione precedente dei Pacers, nonostante il miglior record della lega, si era chiusa con la sconfitta in Eastern Conference Finals per mano dei Pistons, laureatisi poi campioni. Gara 6 di quella serie, giocata con O’Neal e Tinsley infortunati, era stata teatro dei primi veri screzi tra le due franchigie, con Artest che nel momento cruciale dell’ultimo periodo aveva rifilato una gomitata sul viso a Rip Hamilton. I Pacers avevano passato tutta l’estate a rammaricarsi per la sconfitta, convinti di essere più forti dei Pistons, sensazione accresciutasi ancora di più con l’arrivo di Stephen Jackson durante quell’estate. La stagione 2004/05 dei Pacers era cominciata con le migliori aspettative e con la squadra decisa ad arrivare fino in fondo, potendo contare su un roster di primissimo livello ed un allenatore competente come Rick Carlisle, licenziato l’anno prima dai Pistons per un rapporto non idilliaco con la società e subito messo sotto contratto da Indiana. L’occasione per sovvertire le gerarchie dell’anno precedente era arrivata, proprio all’inizio della Regular Season, ed i Pacers dovevano soltanto coglierla. EPISODI 1 9 Novembre 2004, The Palace of Auburn Hills, Michigan. La partita è intensa, aggressiva, ferina. Indiana domina, si mette davanti e non permette ai Pistons di tornare sotto. A metà dell’ultimo quarto Rip Hamilton colpisce Tinsley con una gomitata nella schiena, la panchina dei Pacers esplode ma nessun flagrant foul viene chiamato. Due canestri consecutivi di Stephen Jackson chiudono la partita a 3’ dal
termine. Non c’è storia, Indiana è entrata nella tana del lupo e l’ha pure fatto fuori, ma i giocatori non smettono di giocare duro. Ben Wallace spinge Artest contro il supporto del canestro durante una stoppata giudicata regolare dagli arbitri.
"Verso la fine della partita, ricordo di aver sentito qualcuno dire a Ron “Puoi farne uno adesso”. L’ho sentito. Penso che qualcuno stesse tirando un tiro libero. Qualcuno ha detto a Ron “Puoi farne uno adesso”, intendendo che poteva fare fallo su qualcuno con cui aveva avuto problemi durante la partita.” Stephen Jackson Artest avverte Wallace che l’avrebbe colpito. E così avviene pochi secondi dopo. Il fallo di Artest sarebbe stato al massimo un flagrant one, c’era davvero poca cattiveria in quel contatto, e guardando le immagini ci si stupisce davanti alla reazione spropositata del giocatore dei Pistons. Quello che spesso si dimentica di raccontare, però, è che Ben Wallace stava attraversando un periodo difficile: suo fratello era morto da una decina di giorni a causa di un tumore al cervello, ed egli era da poco tornato a giocare nel tentativo di superare il lutto. Era decisamente la persona sbagliata a cui fare un fallo gratuito in quel momento.
"È difficile dire “non faro più questo” o “non farò più quello”, perché in una situazione del genere non sai come potrai reagire. È stata una situazione unica con così tante cose che accadevano troppo in fretta.” Ben Wallace Dopo lo scontro, Artest è sdraiato sul tavolo degli assistenti di gara nel tentativo di placare i suoi istinti, Wallace continua ad agitarsi ma la distanza tra i due parrebbe non creare alcun pericolo. L’animo più caldo, in quel momento, è senza dubbio quello di Stephen Jackson.
La cosa che mi ha più infastidito mentre cercavamo di dividere Ben e Ron, è stata che un sacco di compagni di Ben continuavano a provocare. Stavo cercando di aiutare a calmare l’ambiente quando ho sentito Rip Hamilton e Lindsey Hunter parlare, allora mi sono detto “Ok, non hanno intenzioni di farla finita, continuano a provocare. Fammi vedere cosa vogliono.” Ero in modalità combattimento. Gli dico “Siete stati molto irrispettosi, ragazzi. Noi stiamo cercando di farla finita. Dunque, se volete combattere , vi darò quello che state cercando.” Era solo un mucchio di rumore, solo trash talking. Io e Rip siamo davvero buoni amici. Ma, in quel momento, le emozioni erano davvero incontrollabili.
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Loro erano seccati perché erano stati coinvolti. Li stavamo battendo di quindici punti. Erano davvero infastiditi, quindi gli ho detto “Se è questo che volete, fatevi sotto.” Stephen Jackson
Jack viene portato via e la situazione sembra essere sotto controllo. Wallace, al culmine dell’agitazione, si toglie l’armband (la fascia elastica sul braccio) e la lancia in direzione di Artest. Non lo prende, anzi, lo manca di parecchio, ma il gesto viene colto dai tifosi come se fosse un “aprite il fuoco”. Nel giro di pochi secondi un bicchiere pieno colpisce Artest dritto sul petto ed il vaso mentale di Ron trabocca. Salta in piedi sul tavolo e si butta sugli spalti, scavalcando Mark Boyle (radiocronista dei Pacers) alzatosi nel tentativo di fermarlo, che ne ricaverà ben cinque vertebre fratturate dopo essere stato calpestato da parecchie persone.
"Avevamo miliardi di piani di sicurezza per il Palace, ma nessuno includeva la possibilità che un giocatore saltasse sugli spalti. È qualcosa che nessuno aveva mai previsto.” E. Olko, comandante di polizia Artest prende per il bavero un tifoso dei Pistons urlandogli se sia stato lui a tirare il bicchiere. La risposta è negativa, colui che ha innescato la miccia (John Green, l’uomo con la maglia blu ed il cappellino) sta già tenendo Ron da dietro nel tentativo, piuttosto vano, di immobilizzarlo per evitare che colpisca la persona sbagliata. In quel momento un altro tifoso decide di vuotare un bicchiere di birra in faccia ad Artest, birra che bagna anche l’accorrente Stephen Jackson il quale non esita a stendere il suddetto tifoso con un pugno.
"La mia idea iniziale era di andare a prendere Ron, ma appena sono salito sugli spalti un altro uomo gli ha tirato una birra in faccia. Istintivamente ho reagito. Non mi pento di esserci stato per il mio compagno, ma mi pento di essere andato sugli spalti a fare a pugni con i
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tifosi. È stato assolutamente sbagliato, ma non ci pensi quando qualcuno che chiami fratello è in pericolo. L’unica cosa a cui pensi è andare ad aiutarlo. Questa è la definizione di un compagno e, come dice Tim Duncan, io sono il miglior compagno possibile. Molte persone pensano che io sia stato un delinquente a farlo. Il mio unico pensiero era “il mio compagno sta lottando sugli spalti ed io sarò lì al suo fianco”. Sapevo appena fatto il primo passo sugli spalti che ci sarebbero state delle conseguenze, senza dubbio, ma potevo affrontare quelle conseguenze sapendo che il mio compagno era vivo e stava bene; al contrario non avrei potuto affrontarle se fossi rimasto in campo a guardare, preoccupandomi per la mia carriera ed i miei soldi, mentre lui era sugli spalti sanguinante.” Stephen Jackson
Nel frattempo gli spalti si riempiono di giocatori e dirigenti. Fred Jones, andato per sedare la rissa, è assalito alle spalle da David Wallace, fratello di Ben, anche lui in pieno clima guerrigliero. Mike Brown, allora vice-allenatore dei Pacers, viene colpito dallo stesso tifoso che cercava di tenere fermo Artest, nonostante fosse salito per cercare di riportare quest’ultimo in campo.
"È stato terrificante essere lì nel mezzo perché dovunque ti girassi, ti sembrava che dovessi combattere. C’erano migliaia di persone contro venti. Probabilmente non era quello il caso, il 99,9999% delle persone erano spaventate e sconvolte tanto quanto noi, ma sembrava che fossero tutti contro di te.” Mike Brown Grazie anche all’aiuto di Rasheed Wallace il focolaio di rissa in quella zona si spegne, ma i tifosi iniziano ad invadere il campo. Un paio, in particolare, si para davanti ad Artest uscente dalla rissa precedente, Ron stende il primo con un pugno mentre il secondo (tale Haddad) gli salta subito addosso facendolo finire a terra; neanche il tempo di
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rialzarsi per Haddad a cui si para davanti Jermaine O’Neal in corsa, pronto a recapitargli un pugno dritto in faccia. Per sua immensa fortuna il lungo dei Pacers scivola mezzo metro prima della collisione, riuscendolo a colpire solo con parte della forza predestinata a quel pugno. Numerosi giocatori dichiareranno in seguito che credevano che O’Neal avrebbe ammazzato Haddad con quel pugno se non fosse scivolato. Quest’ultimo era già noto alla sicurezza per aver minacciato, poco tempo prima, Yao Ming di versargli addosso una bevanda, tanto che era già stato invitato ad allontanarsi dal Palace. La situazione sta velocemente precipitando, i tifosi iniziano a lanciare oggetti in campo e sempre di più si spingono sul parquet. I Pacers capiscono che è giunto il tempo di abbandonare il campo, il più velocemente possibile. I giocatori vengono scortati verso il tunnel che conduce agli spogliatoi, ricevendo degli allegri souvenir dai tifosi del Palace tra cui bevande, pop-corn, scope e addirittura una sedia che passa poco lontano da O’Neal, bersaglio preferito dei tifosi di Detroit. Sul campo rimangono solo i giocatori di Detroit e gli arbitri che, finalmente, dichiarano la partita conclusa: Indiana batte Detroit 97 a 82.
Mi sentivo come se stessi combattendo per la mia stessa vita là fuori.” Rick Carlisle Giunti negli spogliatoi, fra i Pacers scoppia un diverbio piuttosto acceso, O’Neal accusa Carlisle e lo staff di averli scortati fuori dal campo bloccandogli le mani in basso e quindi di non avergli permesso di ripararsi dagli oggetti provenienti dagli spalti. Gli animi si placano quando si accorgono di Mike Brown sanguinante dalla bocca per un pugno preso sugli spalti.
"Dopo esserci calmati, Artest mi ha guardato e mi ha detto “Jack, credi che avremo dei problemi?” Jamaal Tinsley è scoppiato a ridere. Gli ho risposto “Sei serio, fratello? Problemi? Ron, saremo fortunati se avremo ancora un cazzo di lavoro”. Questa domanda mi ha fatto capire che non c’era con la testa, non era lucido. Scot Pollard: Verissimo, siamo morti dal ridere. “Sì, Ron, ci saranno dei problemi, amico. Hai colpito un tifoso.” Non potevo crederci. Era scioccato che quello che aveva appena fatto fosse sbagliato. Non so cosa pensasse, ma vedendolo da fuori veniva da pensare “Wow, è incredibile come qualcuno possa avere un’esperienza del genere e chiedere se ci saranno ripercussioni.” Stephen Jackson
La notte è ancora lunga per i Pacers, che devono tentare di uscire dal palazzetto senza che nessuno venga arrestato. Il personale del Palace, infatti, li informa che da lì a poco sarebbe arrivata la polizia ed avrebbe portato via due giocatori ed un coach (Mike Brown, accusato, ingiustamente, di aver preso a pugni un tifoso). Incontrata l’opposizione dell’intera squadra, gli ufficiali si concentrano su Artest, chiedendo che gli venga consegnato, ma lo staff riesce a farlo sgattaiolare fuori dallo spogliatoio e portarlo sul bus. La polizia decide così di lasciare andare l’intera squadra e di valutare meglio l’esistenza e l’entità dei reati guardando le registrazioni video.
"La parte migliore, la più assurda della serata è stata quando siamo saliti sul bus. Eravamo così eccitati. Ci sentivamo non solo di aver vinto la partita, ma di aver vinto l’intera rissa. In quel momento ci sentivamo come se avessimo rubato il cuore di Detroit. È durato finché siamo tornati a casa ed abbiamo visto le multe e le sospensioni, poi la realtà ci ha travolti.” Stephen Jackson ESODO David Stern, allora commissioner, non esita a far calare la scure sui giocatori ritenuti responsabili di quello che viene definito da molti l’episodio più spiacevole nella storia dell’NBA. Contemporaneamente, a Detroit, il tribunale condanna alcuni dei partecipanti alla rissa. Ecco l’elenco dei principali provvedimenti: Ron Artest*: sospeso per l’intera stagione (73 partite di Regular Season e 1 3 di Playoffs) con accusa di aggressione e percosse. Stephen Jackson*: sospeso per 30 partite con accusa di aggressione e percosse. Jermaine O’Neal*: sospeso per 25 partite (poi ridotte a 1 5) con due accuse di aggressione e percosse. Anthony Johnson*: sospeso per cinque partite con accusa di aggressione e percosse. David Harrison*: accusa di aggressione e percosse. Ben Wallace: sospeso per sei partite. Chauncey Billups: sospeso per una partita. Reggie Miller: sospeso per una partita. Elden Campbell: sospeso per una partita. Derrick Coleman: sospeso per una partita. John Green (tifoso che ha tirato il bicchiere ad Artest): colpevole di aggressione e percosse e condannato a 30 giorni di prigione e due anni di libertà vigilata. Charlie Haddad: ha fatto causa a Anthony Johnson, O’Neal, e ai Pacers. O’Neal ha dovuto pagare 1 .686,50$ come risarcimento a Charlie Haddad, il quale ha patteggiato per
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aver violato un’ordinanza locale ed essere entrato al Palace, ed è stato condannato a due anni di libertà vigilata e dieci weekend di lavori socialmente utili. David Wallace: condannato a un anno di libertà vigilata e lavori socialmente utili. Bryant Jackson (tifoso che ha lanciato la sedia dagli spalti): ha patteggiato un’accusa di aggressione e una di aggressione e percosse, condannato a due anni di libertà vigilata e 6.000$ di risarcimento. *I giocatori accusati di aggressione e percosse hanno patteggiato e sono stati condannati a un anno di libertà vigilata e di lavori socialmente utili, ad una multa di 250$ e sedute di gestione della rabbia. 1 46 partite di sospensione ed un totale di dieci milioni di dollari di salari andati in fumo, spazzando via qualunque record precedente della lega. Tutti sono d’accordo sul fatto che le sospensioni ordinate da Stern siano troppo severe, ad eccezione di Jackson che si definirà fortunato ad avere ancora un lavoro dopo quello che è successo. L’episodio dà occasione all’NBA di cambiare la politica in fatto di alcool, di barriere a bordo campo e di vestiti. Di vestiti? Eh sì, perché s’inizia a mettere in discussione il carattere “troppo hip hop” della lega, legato ad una cultura di strada che poco si addice all’immagine intonsa dell’NBA desiderata da Stern. Così, poco tempo dopo The Malice at the Palace viene introdotto l’ormai noto dress code.
"Non ho mai detto a mia figlia cos’è successo, l’ha scoperto a scuola. Un giorno è tornata a casa e ha chiesto “Papà, sei stato sospeso per aver fatto a pugni?”. È stata dura per me. È stata dura andare al Boys&Girls Club, nel quale ero benvoluto ad Indianapolis, andare al St. Vincent Hospital a parlare con le persone. È stata dura per me, come persona di spicco della comunità, avere quelle conversazioni e vedere l’effetto che quella sera ha avuto non solo sulla nostra squadra, ma sulla percezione della comunità.” Jermaine O'Neal Le conseguenze ricadute sui Pacers, però, sono molto più gravi di quanto in un primo momento si possa pensare.
"Avremmo vinto il titolo quell’anno. Avevamo la miglior squadra, avevamo un Hall of Famer come Reggie Miller. Avevamo ogni pezzo del puzzle, grandi allenatori, grande squadra, grande dirigenza, grande proprietà, e tutto stava funzionando. Credo che un sacco di ragazzi siano ancora amareggiati, pensando “Ehi, quella era la mia chance di vincere un titolo e Ron è stato egoista a comportarsi così”. Stephen Jackson
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La squadra dopo la richiesta di cessione di Artest si sfalda, i compagni che quella sera di Novembre erano stati al suo fianco, ora si sentono traditi, pugnalati alle spalle. Lo spirito di squadra svanisce e le vicende fuori dal campo mettono a dura prova psicologicamente i componenti della squadra.
"Ti metti nella posizione di compromettere la tua carriera, la tua vita e quella della tua famiglia e poi, improvvisamente, la sola ragione per cui tutto questo è successo si chiama fuori. Nessuno sa di tutti gli avanti e indietro fatti, dell’essere messi in una stanza e dover restarci seduto per ore, del rischiare la prigione, e tutto questo durante la stagione. La nostra squadra volava a Detroit per le udienze non potevamo neanche andare a Toronto perché avevamo bisogno dei permessi per raggiungere il Canada. Nessuno sa tutte queste cose. (T) Alla fine, non riguardava più il basket. Non era piacevole, non era bello giocare le partite. Sentivi come la città fosse divisa: c’erano persone che erano ancora dalla nostra parte, e molte altre persone che non lo erano più” Jermaine O’Neal La città di Indianapolis ne esce distrutta. Le persone perdono progressivamente fiducia, anche solo interesse, nella squadra dei Pacers che lentamente si sgretolerà negli anni. Si passerà da una squadra dal futuro roseo, destinata a vincere il titolo, ad una franchigia in completa ricostruzione nel giro di soli tre anni; ricostruzione che avverrà puntando su una nuova generazione di “facce pulite” ancor prima che ottime individualità e che porterà i Pacers ad essere nuovamente competitivi solo nella stagione 2011 /1 2, ben sette anni dopo quell’infausta sera a Detroit. Non posso non concludere il racconto di questa metaforica tragedia come si soleva fare nell’antica Grecia, lasciando cioè che il deus ex machina sciolga i nodi di questo racconto, permettendo al lettore di districarsi fra le parole ed avere una visione chiarificatrice dell’intero dramma. Pecco di umana adorazione, lo so, ma l’artefice di questo prodigio non può essere che uno.
"Credo che molti di noi abbiano fatto delle scelte egoiste. Io ho fatto una scelta egoista smettendo di cercare di placare gli animi e andando ad affrontare Lindsey Hunter e Richard Hamilton. Quella è stata la mia scelta egoista. Ron ha fatto una scelta egoista andando sugli spalti. Tutti noi abbiamo fatto delle scelte egoiste, ma allo stesso tempo, ci stavamo proteggendo l’un l’altro. È difficile stabilire se sia stato giusto o sbagliato.” Stephen Jackson
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"I really tried to create a Laker image, a distinct identity. I think we’ve been successful. I mean, the Lakers are pretty damn Hollywood." Jerry Buss Lunedì 1 8 Febbraio 201 3 il triste annuncio: il Dottore si è spento al Cedars-Sinai Medical Center di Los Angeles dopo una lunga battaglia che lo ha costretto a passare gran parte degli ultimi 1 8 mesi in ospedale. Proprietario dei Los Angeles Lakers dal 1 979, non solo è l’owner più vincente della storia dell’NBA ma è anche il principale artefice della nascita dell’NBA moderna. Gerald Hatten Buss, Jerry per il resto del mondo, nasce a Salt Lake City il 27 Gennaio 1 933, ma cresce con la madre a Kammerer, nel Wyoming, dopo il divorzio dei genitori. Nel 1 955 si laurea in chimica all’Università del Wyoming per poi trasferirsi alla University of Southern California di Los Angeles dove ottiene un Master of Science e un dottorato di ricerca in chimica fisica a soli 24 anni. Inizialmente viene assunto come chimico dallo U.S. Bureau of Mines, la principale agenzia governativa che conduceva ricerche scientifiche sulle risorse minerarie, ed in seguito lavora brevemente nell’industria aerospaziale ed insegna chimica alla USC. Negli anni ’60 si affaccia sul mercato edilizio per garantirsi delle entrate che gli permettano di continuare a dedicarsi al suo grande amore, l’insegnamento, e con $1 000 fa il suo primo investimento acquistando un condominio di Los Angeles. Ben presto però si rende conto di come la speculazione edilizia possa essere redditizia e così decide di abbandonare la carriera accademica e di dedicarsi soltanto a quella immobiliare. Grazie a una mente brillante e ad un grandissimo fiuto per gli affari ottiene rapidamente successo nel campo edilizio e fonda, insieme a Frank Mariani, suo socio sin dai primi investimenti, la Mariani-Buss Associates, un’impresa di investimento immobiliare. Nel 1 979 la carriera imprenditoriale del Dr. Buss è in continua ascesa e così, dopo essere diventato proprietario dei Los Angeles Strings (squadra della World Team Tennis), decide di acquistare da Jack Kent Cook i Los Angeles Lakers, i Los Angeles Kings (team dell’ NHL), il Los Angeles Forum e un ranch di 1 3 mila acri, per la cifra di 67.5 milioni di dollari, cifra record per le transazioni sportive all’epoca. La mentalità vincente del Dr. Buss porta i Lakers a giocare un basket spettacolare e guidati da Kareem Abdul-Jabbar, Jamaal Wilkes e dal rookie Magic Johnson vincono subito il titolo NBA dando il via all’epoca dello Showtime. Nei 1 0 anni dello Showtime i gialloviola giocano ben 8 finali NBA laureandosi campioni 5 volte. Guidati da Pat Riley in
panchina, promosso capo allenatore proprio da Buss nella stagione 1 981 -82, l’apice dello Showtime si ha nella stagione 1 984-85, quando per la prima volta nella storia i Lakers battono i Boston Celtics, i loro acerrimi rivali. In quell’occasione Jerry Buss affisse per Los Angeles dei cartelloni pubblicitari con scritto “Lakers have never beaten Celtics” con una grossa croce sulla parola “never” e la scritta “Thank guys” con la sua calligrafia.
Nonostante i successi in ambito sportivo, l’imprenditore che è in lui continua a fiutare gli affari, infatti è il primo ad introdurre lo show-business all’interno delle partite NBA, con la nascita delle Lakers Girls ad esibirsi durante le pause di gioco ed il gran numero di celebrità che si potevano scorgere tra il pubblico a ogni partita. Grazie a queste innovazioni la popolarità dei Lakers e dell’NBA crescono vertiginosamente sia a livello nazionale che a livello mondiale. Nel 1 985 fonda la Prime Ticket Network, un’emittente televisiva che in breve tempo diventa la principale emittente sportiva regionale della nazione, venduta 1 0 anni più tardi e diventata poi la Fox Sports West, e nel 1 987 vende i Kings a Bruce McNall per un totale di 20 milioni di dollari. Inoltre nel 1 997, con la nascita della WNBA, è tra i fondatori delle Los Angeles Sparks (di cui diventerà propritario nel 2002 e che cederà nel 2006) e nel 1 999 è tra i finanziatori dello Staples Center, dove poi si trasferiranno le tre franchigie, con la cessione del Forum. Da non dimenticare la sua passione per il poker, a livello professionistico da sottolineare il terzo posto nelle World Series of Poker del 1 991 e il secondo posto nel World Poker Tour del 2003, e la donazione di 7.5 milioni di dollari al Dipartimento di Chimica della USC nel 2008. Un uomo incredibile, che si è costruito da solo, che non si è mai posto limiti è che ha contribuito tantissimo all’evoluzione dell’NBA e alla consacrazione dei Lakers. Nei 33 anni di presidenza la franchigia non ha raggiunto i Playoffs soltanto 2 volte e ha giocato ben 1 6 NBA Finals vincendone 1 0. A questi successi vanno aggiunti 2 titoli con le Sparks, la
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Stella nella Walk of Fame di Hollywood nel 2006 e la nomina di Hall of Famer nel 201 0. Per lui hanno giocato grandissimi campioni come i già citati Jabbar, Wilkes e Johnson, Worthy, O’Neal, Bryant, ha ingaggiato due dei migliori allenatori della storia, Riley e Jackson, ed ha portato i Lakers a valere oltre un miliardo di dollari, intuendo per primo come il basket potesse essere anche un grandissimo business.
è stato il secondo miglior momento della mia vita, possedere i Lakers. Gli sono grato per questo. La prima telefonata che ho ricevuto quando ho acquistato i Dodgers è stata da parte sua. Era molto felice per me. Era come una padre orgoglioso di suo figlio. Quando ho annunciato il mio ritiro per l’HIV lui non sapeva cosa sarebbe successe, si sentiva come persone, come se stesse perdendo un figlio. Dopo che abbiamo fatto l’annuncio e ho iniziato le cure lui era sempre al mio fianco. Non lo avevo mai visto piangere fino a quel
"Il Dottor Buss amava il divertimento. Era molto intelligente, ed estremamente competitivo. Voleva vincere, ha fatto di tutto per darci la possibilità di farlo, e allo stesso tempo voleva essere amico dei giocatori. Ci ha dato tutto ciò di cui avevamo bisogno per vincere: alloggiavamo nei migliori hotel, avevamo i migliori allenatori, il miglior materiale.. E di fatto siamo stati capaci di vincere il titolo al nostro primo anno, quando eravamo entrambi rookie. Ma in realtà lui è diventato il mio secondo padre. Mi ha portato per la prima volta a vedere una partita di football alla USC e ci andavamo ogni sabato quando giocavamo in casa. Inoltre giocavamo a biliardo, quella era la cosa che preferivamo, uscivamo spesso insieme e mi portava a Las Vegas. Ed infine, mi ha insegnato il business dei Lakers. Mi permetteva di leggere i suoi libri e mi incoraggiava a farlo. È per questo che oggi sono un uomo d’affare, è grazie a Dr. Buss. Lui mi ha permesso di acquistare delle quote dei Lakers. Dopo i titoli questo
momento. Questo mi ha mostrato che mi amava e che gli importava di me, della mia salute.. Ogni volta che mi accadeva una cosa positiva o negativa, lui c’era. Era un eroe, una leggenda, e ho avuto modo di vederlo da vicino e di essere parte dell’impero che ha costruito. Posso non avere il cognome Buss, ma mi sento proprio come se fossi uno dei suoi figli." Magic Johnson
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WHO IS: Yao Ming nasce il 1 2 settembre 1 980 a Shangai. Il padre, Yao Zhiyuan, e la madre, Fang Fengdi, hanno fatto parte entrambi della nazionale cinese di pallacanestro, quindi il piccolo (ma grande) Ming cresce con la palla a spicchi tra le mani. Inizia a giocare agonisticamente all’età di 9 anni nella Youth Sports School e all’età di 1 3 anni entra a far parte della squadra giovanile degli Shangai Sharks. Grazie alle sue doti fisiche e tecniche dopo quattro anni viene promosso nella prima squadra degli Sharks, che milita nella Chinese Basketball Association, e nell’anno da rookie, a soli 1 7 anni, mette a referto 1 0 punti e 8 rimbalzi di media. Nella seconda stagione gioca soltanto 1 2 partite poiché si rompe un piede per la seconda volta in carriera, mentre nelle due stagioni seguenti diventa un punto fermo degli Sharks: nel 1 999-00 chiude con 21 .2 punti, 1 4.6 rimbalzi e 5.3 stoppate, nel 2000-01 i punti diventano 27.1 , i rimbalzi 1 9.4 e le stoppate 5.5 e Yao viene nominato MVP. Nella sua quinta e ultima stagione in terra cinese guida gli Sharks al loro primo titolo con medie spaventose, giocando dei playoffs incredibili in cui realizza 38.9 punti, cattura 20.2 rimbalzi e tira con il 76.6% dal campo, mettendo a referto un incredibile 21 /21 in una partita delle finali. Grazie a questi numeri e alle sue super prestazioni, gli scout NBA mostrano grandissimo interesse, soprattutto data la carenza di centri nella Lega, e Yao decide di compiere il grande passo rendendosi eleggibile al Draft 2002 in cui viene chiamato con la prima scelta assoluta dagli Houston Rockets.
NBA CAREER: Inizialmente però c’è grande scetticismo intorno al gigante cinese, infatti molti commentatori ed esperti NBA, tra cui ad esempio Charles Barkley, Bill Simmons e Dick Vitale, sono convinti che Yao fallirà nella lega migliore del mondo. Le prime partite di Yao danno ragione agli scettici, infatti inizialmente fatica ad abituarsi al nuovo mondo e nelle prime 7 partite gioca solo 1 4 minuti di media realizzando 4 punti a partita. Gradualmente però riesce ad integrarsi e chiude l’anno da rookie con 1 3.5 punti,
8.2 rimbalzi, 1 .8 stoppate in 29 minuti di media, venendo votato nello starting five della Western Conference all’AllStar Game, ma non riesce a vincere il premio di Rookie dell’anno, che viene assegnato ad Amar’e Stoudemire. Nonostante venga provocato e deriso diverse volte, celebre la frase di O’Neal che prima di una partita dice “Tell Yao Ming, Ching chong-yang-wah-ah-soh”, dimostra come riesca a gestire egregiamente le pressioni e le provocazioni, diventando subito uno dei personaggi più interessanti del basket a stelle e strisce.
Nell’estate del 2003 i Rockets ingaggiano Jeff Van Gundy come head coach, e nella stagione 2003-04 i numeri di Yao migliorano (1 7.5 punti, 9 rimbalzi e 1 .9 stoppate), arriva il secondo All-Star Game, l’inserimento nell’All-NBA Third Team e Houston si qualifica ai Playoffs ma viene immediatamente eliminata dai Lakers. La dirigenza texana decide quindi di rivoluzionare il roster e cede Francis, Mobley e Cato, tre titolari, in cambio di Tracy McGrady. La stagione 2004-05 si conclude con 1 8.3 punti, 8.4 rimbalzi e 2 stoppate, Houston si qualifica ancora per la post season ma arriva ancora l’eliminazione al primo turno, questa volta per mano dei Dallas Mavericks, ma Yao chiude la serie con 21 .4 punti, 7.7 rimbalzi e il 65% dal campo, ottime cifre che mostrano la continua crescita del cinese. Dalla stagione seguente però gli infortuni iniziano a flagellare il #11 . Prima dell’All-Star Game (in cui verrà nuovamente votato centro titolare) salta 21 partite a causa di un’infezione ad un’unghia del piede che lo costringe a subire un intervento chirurgico. Chiude la stagione con 22.3 punti, 1 0.2 rimbalzi e 1 .6 stoppate (tirando con il 52% dal campo) e l’inserimento nell’All-NBA Third Team ma a quattro partite dal termine si rompe nuovamente un piede ed è costretto ad una riabilitazione di circa sei mesi. Dopo lo stop forzato torna sui parquet in gran forma ma il 23 dicembre, contro i Clippers, Hayes e Thomas franano sulla gamba del malcapitato Yao che riporta l’ennesima frattura.
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Fortunatamente salta “solo” 32 partita e con 25 punti, 9.4 rimbalzi, 2 assist e 2 stoppate di media guida, insieme a TMac, i Rockets ai Playoffs, andando ancora all’All-Star Game e guadagnandosi l’All-NBA Second Team, ma Houston, nonostante il vantaggio del fattore campo, viene eliminata da Utah in 7 partite, dopo essere stata in vantaggio 2-0. Statisticamente Yao realizza 25.1 punti e 1 0.3 rimbalzi di media nella serie, ma ci si aspettava ben altro impatto dopo la super stagione e lui stesso fa mea culpa dicendo esplicitamente “Non ho fatto il mio lavoro”. Dopo questa sconfitta i Rockets licenziano JVG e al suo post assumono Rick Adelman, allenatore molto più offensivo del suo predecessore. Ming si integra perfettamente nel nuovo sistema di gioco ma ancora una volta, dopo l’ennesimo All-Star Game, a causa di una microfrattura al piede deve sottoporsi ad un intervento chirurgico che gli costa il resto della stagione. Con 22 punti, 1 0.8 rimbalzi e 2 stoppate viene comunque inserito nell’All-NBA Third Team.
successive e soprattutto dopo gara 3 Yao subisce una frattura da stress al piede che lo costringe a saltare le partite rimanenti. La frattura è così grave che Ming dev’essere nuovamente operato e salta tutta la stagione seguente. Torna nella stagione 201 0-2011 con la franchigia texana intenzionata a farlo giocare intorno ai 24 minuti di media ma nonostante ciò il 1 6 dicembre viene comunicato che il centro ha subito un’altra frattura da stress, questa volta alla caviglia, causata dall’infortunio precedente. Yao deve saltare tutta la stagione ma nonostante ciò viene votato ancora come centro titolare all’All-Star Game, rinunciando ovviamente alla parteciparvi. Al termine del suo contratto con i Rockets, il 20 luglio Yao Ming annuncia il suo ritiro dal basket a causa dei numerosi infortuni. In seguito a questa notizia il commissioner David Stern dice che Yao è stato un “ponte tra i fans cinesi e americani” mentre Shaq afferma che, senza i numerosi infortuni, Yao sarebbe potuto diventare uno dei migliori 5 centri di sempre. Sapeva giocare vicino a canestro, in post, aveva un tiro dalla media affidabile, era ottimo sia in attacco che in difesa e aveva un trattamento di palla superiore alla media dei centri NBA. Nel suo palmarès NBA ci sono otto partecipazioni all’All-Star Game, due nomine nell’All-NBA Second Team, tre nell’All-NBA Third Team e l’inclusione nell’All-Rookie First Team nel 2003. Un giocatore d’altri tempi, che chiude con 9247 punti, 4494 rimbalzi e 920 stoppate in 8 stagioni tra i pro.
Nella stagione 2008-09 sembra che finalmente abbia risolto con i problemi fisici. Gioca infatti 77 partite, chiudendo con 1 9.7 punti, 9.9 rimbalzi e 1 .9 assist, giocando ancora la partita delle stelle e venendo inserito nell’All-NBA Second Team per la seconda volta in carriera. I Rockets, senza McGrady che a causa di dolori alla schiena ha dovuto rinunciare alla seconda parte di stagione e alla post season, arrivano ai Playoffs dove battono Portland 4-2 al primo turno ma vengono eliminati al secondo turno dai Lakers in 7 partite. Houston vince gara 1 a LA ma perde le due partite
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“E se avessimo perso? Che cosa sarebbe successo se avessimo perso contro i sovietici?” Šarūnas Marčiulionis Quando questo pensiero s’instillò nella sua testa, Šarūnas era sotto la doccia ed aveva ancora addosso la divisa bianco-verde. La sua Lituania aveva appena conquistato la medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Barcellona del ’92 proprio contro i sovietici, e come il replicante di Blade Runner le sue lacrime si perdevano sotto il getto dell’acqua mentre cercava di mandare via quel pensiero: “Che cosa sarebbe successo se avessimo perso contro i sovietici?”
Riavvolgendo il nastro della storia, arriviamo al 1 990, quando la Lituania conquista la sua indipendenza. I sovietici non ci stanno e a voler essere onesti non ci staranno mai. Il presidente Gorbaciov, che aveva appena ricevuto un Nobel per la pace, invia le truppe a Vilnius, e a Vilnius i sovietici uccidono barbaramente 1 4 liberi cittadini nella “Bloody Sunday” della nuova Repubblica di Lituania. Ci vorrà un anno e una forte reazione dell’Occidente affinché la Lituania possa considerarsi veramente libera. Grazie all’indipendenza, il primo vero atto di liberazione è quello di poter ritornare alle due religioni di Stato: la pallacanestro e il cattolicesimo, in quest’ordine. All’inizio del 1 992 la Lituania sta affrontando una crisi economica fortissima, ha scarsi approvvigionamenti di energia e la più forte squadra d’Europa di basket. La partecipazione alle Olimpiadi di Barcellona sarebbe scontata se non fosse che la nazione è in bancarotta. A questo punto della storia entra in scena Šarūnas, che di cognome fa Marčiulionis, grande patriota e grandissimo giocatore di basket. All’epoca Marčiulionis era già una guardia dei Golden State Warriors, e dopo aver ricevuto il placet dal neonato governo lituano, chiese una mano all’amico, nonché scout dei Warriors, Donnie Nelson. Don, dopo aver accettato il ruolo di assistente allenatore della nazionale lituana, promise che lo avrebbe aiutato a trovare i fondi necessari per la partecipazione alle Olimpiadi.
Bussarono a tutte le porte della California ma invano, Marčiulionis mise di tasca sua gli 1 ,28 milioni di dollari del suo contratto con Golden State, ma la somma non bastava. Quando tutto sembrava compromesso, arrivò la telefonata più importante della storia sportiva della Lituania: i Grateful Dead!
Come i Grateful Dead? Sì, i Grateful Dead, quelli di Dark Star e Morning Dew. A quanto pare, apprezzavano la loro libertà e il loro spirito d’indipendenza. Quando Donnie e Šarūnas andarono all’appuntamento, avevano l’impressione di essere vittime di uno scherzo di pessimo gusto. Si ritrovarono in un quartiere malfamato di San Francisco, e appena rilessero l’indirizzo sul pezzetto di carta, e videro che corrispondeva ad un garage anonimo, l’impressione si trasformò in certezza. Nel dubbio aprirono la porta, e dopo che gli occhi si abituarono al fumo, l’udito ai decibel e l’olfatto all’aspro odore di marija, videro uno studio di registrazione modernissimo e i Dead che suonavano cover dei Beatles. Il progetto di Jerry Garcia – il frontman del gruppo – era tanto semplice quanto efficace: cedere i diritti sulla vendita di una T-shirt realizzata per un concerto a Boston e in più commercializzare una nuova maglietta. La Tshirt era un capolavoro di psichedelia allucinogena, dove lo scheletro simbolo della band schiacciava a canestro mentre sullo sfondo un’esplosione con i colori ufficiali della nazione faceva da contorno alla granitica scritta “Lithuania”. Grazie a quella maglietta veniva riconosciuto lo sforzo e il coraggio di un’intera nazione, davanti agli occhi del mondo i lituani venivano identificati come eroi popolari la cui lotta per l’indipendenza aveva travalicato lo sport. La squadra c’era, i soldi anche. Ormai non c’erano più dubbi.
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La Lituania sarebbe andata a Barcellona.
Se nella semifinale contro gli States nessuno aveva mai
La Lituania non solo partecipò alle Olimpiadi ma arrivò fino in fondo, fermandosi solo al cospetto della squadra più forte mai vista da occhio umano, il Dream Team americano. Il giorno della semifinale Coach Daly era preoccupatissimo, il quintetto degli avversari, era formato per quattro quinti da giocatori che avevano fatto parte del team sovietico che aveva battuto gli Stati Uniti di David Robinson a Seoul nell’88. Le principali minacce venivano da Šarūnas Marčiulionis che tanto bene stava facendo nei Golden State Warriors e Árvydas Sabónis oggetto misterioso che se al massimo della forma avrebbe dominato su Robinson e Ewing. “Tranquillo Coach” disse Jordan “Io mi prendo Šarūnas” Coach Daly non poteva dormire sonni più tranquilli, la marcatura di Jordan su Marčiulionis si può ritenere senza dubbio la prestazione difensiva più devastante della storia del basket olimpico ed una delle migliori prestazioni singole più dominanti delle Olimpiadi in generale. La partita durò solo un quarto, quando gli Stati Uniti si ritrovarono in vantaggio 31 -8 e Artūras Karnišovas, ala che abbiamo visto qualche anno più tardi alla Fortitudo Bologna, chiese alla panchina di scattargli una foto mentre marcava Charles Barkley, il suo idolo. La Lituania perse 1 27-76 nella prestazione in assoluto più devastante del Dream Team, la squadra più forte mai vista prima.
messo in conto la vittoria, nella finale per il bronzo, invece, non era contemplabile la sconfitta. Dall’altra parte c’erano i sovietici. Già, perché malgrado non esistesse più l’Unione Sovietica, quei russi, ucraini e bielorussi, che formavano la “Squadra Unificata”, agli occhi dei lituani erano gli stessi che avevano ucciso i loro cittadini e li avevano repressi per oltre 50 anni. Non potevano perdere quella partita, semplicemente non potevano. La posta in gioco era troppo alta. Sabónis, che contro gli Stati Uniti non aveva brillato, aveva una luce particolare negli occhi, guardava i compagni e li incitava, li implorava a mettercela tutta, cercava di sottolineare che quella partita era diversa dalle altre, ma i suoi compagni lo sapevano fin troppo bene. Marčiulionis ricambiava lo sguardo mentre Karnišovas, irriconoscibile rispetto alla semifinale contro gli U.S.A. questa volta non aveva portato la macchina fotografica. Nella squadra c’erano anche Alvydas Pazdrazdis e Gintaras Einikis, due che appena un anno prima erano nella piazza del Seimas di Vilnius a fermare fisicamente i carri armati nemici. Gli altri, i sovietici, potevano contare su Oleksand Volkov centro ucraino degli Atlanta Hawks in procinto di fare una veloce e non indimenticabile apparizione nella Viola Reggio Calabria e Valerij Tichonenko un’ala kazaka che oggi allena la nazionale femminile russa. Compagni di squadra fino a un paio di anni prima, veri e
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propri nemici ora sul campo. L’incontro fu durissimo sin da subito, i sovietici avevano dalla loro la volontà di ristabilire il loro predominio almeno su un campo da basket, ma i lituani erano troppo più forti e avevano ancora in mente l’indelebile ricordo di quei morti. Il pensiero di tutti i lituani doveva essere rivolto certamente a loro, al simbolo di quella repressione, alla voglia di far conoscere al mondo la loro voce, i loro colori e l’odio verso i rossi.
Quando la palla gli arrivò ad un secondo dalla fine, Šarūnas pensò a tutto questo, diede le spalle al canestro dei sovietici e con rabbia lanciò la palla nel cielo di Barcellona. Poi corse a centrocampo, abbracciò i suoi compagni e andò dritto filato sotto la doccia a chiedersi: “Che cosa sarebbe successo se avessimo perso contro i sovietici?” Aveva appena scacciato i suoi demoni, aveva realizzato 29 punti e aveva vinto un bronzo olimpico, ma per un attimo la paura della sconfitta cancellò la gioia della vittoria. La partita finì 82-78 e la folla impazzì, letteralmente. Vytautas Landsbergis, il nuovo presidente lituano, un uomo rigoroso e conservatore, entrò in campo e con un comportamento che si concede ad un pari e non ad un presidente, i giocatori lo annaffiarono con lo champagne. Come tutti i lituani cresciuti sotto la dittatura sovietica, Landsbergis era un uomo pratico, e di conseguenza non aveva portato un altro abito di ricambio; non fece però in
tempo ad urlare “pergalė, vittoria” che si ritrovò con una maglietta dei Grateful Dead ad innaffiare Sabónis con un magnum di Moët & Chandon.
Al momento della premiazione, Marčiulionis, che da vero lituano conosce il significato della parola “gratitudine”, rifiutò di indossare le magliette che lo sponsor aveva preparato per loro e disse ai suoi compagni di indossare quelle psichedeliche dei Grateful Dead: “I Dead hanno creduto in noi quando non eravamo nessuno”, disse. Sul podio sfilarono otto lituani con le loro magliette supercolorate sotto gli occhi divertiti del pubblico. C’era Marčiulionis, Karnišovas, Pazdrazdis, Einikis, Chomičius, Kurtinaitis, Krapikas e Jovaiša. C’erano tutti, o meglio, quasi tutti. Mancava Árvydas. Dov’era Árvydas Sabónis? Che fine aveva fatto? Mai come in questo contesto e con questo protagonista, le notizie assumono i contorni della leggenda. Dopo aver festeggiato con la sua lituana preferita, la vodka, Sabónis sfidò e stracciò uno dopo l’altro a braccio di ferro tutti i pugili, lottatori e sollevatori di pesi che avevano avuto l’ardire di misurarsi con lui. Lo ritrovarono soltanto un paio di giorni dopo, nudo ed ubriaco nel dormitorio femminile della Squadra Unificata a spiegare alle sovietiche il significato della parola perestrojka. La Lituania aveva battuto l’Unione Sovietica, ancora una volta.
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“We’ve got to call Larry” disse Magic “Dobbiamo chiamare Larry” La telefonata è una di quelle che non vorreste mai ascoltare, è quella di un vostro amico, il vostro migliore amico, che vi confida di aver contratto il virus dell’HIV. E’ il 1 991 , e in questo momento storico, quelle tre lettere, messe in quell’ordine, avevano la stessa gravità di una condanna a morte. Chiunque si sarebbe arreso, ma Magic no, non era caduto nell’umano sconforto, ma si era lasciato andare a quell’ingenua incredulità che sopraggiunge in quei momenti. Dopo che il dottor Mellman gli aveva comunicato la diagnosi, Magic semplicemente non ci aveva creduto, perché all’alba del ventunesimo secolo quella malattia, l’AIDS, era appannaggio di froci e tossici, non dei campioni NBA. Decise di ripetere il test ancora ed ancora, ma il responso era sempre lo stesso, quelle tre maledettissime lettere. In un’epoca in cui Twitter e Facebook non esistevano neppure nelle menti di Matheson o Asimov, la notizia ci mise un po’ a circolare, e dopo qualche partita in cui Coach Mike Dunleavy non lo convocò neppure, le domande dei giornalisti cominciarono ad essere più pressanti. Magic uscì allo scoperto il 7 Novembre del 1 991 , quando indisse la conferenza stampa più sconvolgente della storia dello sport. La sala stampa del Forum di Inglewood era stipata fino all’inverosimile. Magic salì sul podio. Il sorriso spento è lo sguardo di un uomo impaurito. Si avvicinò al microfono e fu diretto, come sempre: “A causa del virus dell’HIV che ho contratto, devo ritirarmi dai Lakers, oggi”. Per il mondo, quella semplice frase metteva un punto ad una delle carriere più esaltanti di sempre. Quel virus aveva tolto alla gente il divertimento del gioco, la gioia e la fantasia, quella di un uomo che aveva espresso il concetto di “immaginazione al potere” molto meglio di tutti i saggi di Herbert Marcuse. Ma se da un lato la lapidarietà di quell’affermazione sembrava non lasciare speranze, dall’altro, l’esempio di Magic e le parole del dottor Mellman, servirono al mondo per comprendere la differenza tra essere malati di AIDS e risultare sieropositivi al test HIV. Nel 1 991 l’aspettativa di vita di chi contraeva l’HIV era di 9 anni, e malgrado i primi effetti del virus riguardassero soltanto una leggera spossatezza, il suo ritiro non serviva ad evitare il contagio degli altri atleti, ma semplicemente per limitare i peggioramenti delle condizioni del suo sistema immunitario. I medici stavano provando ad allungare la vita a Johnson, uccidendo Magic. Eppure Magic tornò. Non lo fermavano in campo, non lo fermava il virus.
Così quando a febbraio arrivò il momento dell’All-Star Weekend a Orlando, la gente non lo dimenticò; al quarto posto della Western Conference, per acclamazione popolare, campeggiava il nome di Earvin “Magic” Johnson. La competizione sarebbe stato il suo “canto del cigno”, spettatori da ogni parte del globo avrebbero potuto ammirare per un’ultima volta quel sorriso su di un campo da basket. Questo però non andava a genio a tutti, e furono proprio Byron Scott e A.C. Green, amici nonché compagni ai Lakers, i primi ad ammettere la loro paura di giocare con Magic; seguì a ruota Mark Price, guardia dei Cleveland Cavaliers, che dichiarò “Se esiste un rischio, non credo che dovremmo correrlo”. Magic si tappò le orecchie e dopo un parere favorevole dei medici accettò l’invito di David Stern a giocare per la squadra della Western Conference.
Dopo una standing ovation del pubblico, Magic si esibì in una performance leggendaria, declamò basket. Gli ultimi minuti di quella partita sono da consegnare alla storia dell’uomo, un momento di perfezione in cui il raziocinio umano si ferma per lasciare il posto alle emozioni. Magic viene sfidato sistematicamente in uno contro uno da Isiah Thomas e Michael Jordan, è una forma di rispetto virile, quasi tribale, in cui due figure mitologiche donano al rivale tutto ciò che hanno di più caro, la gioia del gioco. L’ultima azione è degna di un’opera di Tennessee Williams, c’è Magic a sette metri da canestro, in mano ha tanta magia e una palla da basket. Isiah lo marca stretto. Sorride. Il cronometro scorre mentre Zeke per una frazione di secondo gli lascia spazio. Alle volte le regole non scritte dell’amicizia rendono le parole inutili. Magic lascia partire il tiro. Ovviamente entra, da tre. Il pubblico esplode mentre tutti, ma proprio tutti, compagni ed avversari, mandano a far benedire il virus e corrono ad abbracciare Magic. A fine partita, dopo aver totalizzato 25 punti, 9 assist, 5 rimbalzi e 2 palle rubate, con il titolo di MVP tra le mani dirà:
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“Gioco per me stesso ma anche per tutti quelli che sono malati o hanno un handicap e vogliono continuare a vivere” Magic Johnson
ammirare quegli Dèi scesi in terra a spiegare basket. Nel match finale contro la Croazia di Dražen Petrović, Magic segna 11 punti, smazza 6 assist e compie il suo capolavoro: ha abbattuto il pregiudizio che aleggiava nei confronti dei
La favola continua. Quella che doveva essere la sua ultima apparizione in canotta e calzoncini diventa il viatico per la manifestazione sportiva per eccellenza: le Olimpiadi di Barcellona del ’92. Non solo si unisce alla miglior squadra di basket che occhio umano abbia mai visto, ma ne diventa il protagonista.
sieropositivi. Quando i suoi compagni di squadra si complimentano per le bellissime partite nonostante la malattia, gli occhi di Magic si illuminano.
Alla cerimonia di apertura succede il pandemonio; la portabandiera è una tale Francie Larrieu-Smith, ma in quel momento gli occhi del mondo sono puntati su di lui. Tutti, dai più grandi campioni agli atleti sconosciuti, vogliono vederlo da vicino, toccarlo, avere una foto con lui, un cimelio, qualsiasi cosa provasse ai nipotini che il nonno aveva conosciuto il grande Magic. La sfilata diventa un momento straordinariamente emozionante, il sorriso di Magic entra nelle case di miliardi di persone. Come direbbe Peppuccio Tornatore, l’Olimpiade è una pura formalità, gli Stati Uniti dominano vincendo tutti e 8 gli incontri che li separano dalla medaglia d’oro con un margine di 43.8 punti. Il più delle volte gli avversari smettono di giocare e si fermano ad
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“Sembri in gran forma, tornerai vero?” Larry Bird I complimenti lo fanno sentire guarito. Decide di tornare a casa, ai Lakers. Non tutti sono però d’accordo, Karl Malone, suo compagno di squadra a Barcellona, in un intervista dopo una partita di pre-season, mostrando i tagli e le ferite dice: “Ho paura del contagio. Il fatto che Magic sia tornato non vuol dire niente per me. Non sono un tifoso. Sarà anche una bella cosa per il basket, però bisogna guardare oltre. Il Dream Team è stata un’idea che tutti hanno amato, ma ora siamo tornati nella realtà”. Magic accusa il colpo, e un paio di giorni dopo la
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dichiarazione di Malone, durante un exhibition game a Chapel Hill contro i Cleveland Cavaliers, si procura un taglietto sull’avambraccio destro. Gary Vitti, il preparatore dei Lakers e grande amico di Magic, prende un tampone e a mani nude gli fascia il braccio. Nel palazzetto cala il silenzio e lo sguardo dei giocatori, compagni ed avversari, pesa come un macigno. L’espressione sul volto di Magic è
eloquentissima: è sconvolto. Magic rientra in campo, ma non è più lo stesso, qualcosa si è rotto, aveva spento il sorriso mentre la gioia del gioco se l’erano portata via quegli sguardi e quel silenzio, la cura con la quale Gary gli aveva curato un graffietto ridicolo che non meritava neppure un cerotto e le dolorosissime dichiarazioni di Karl. Magic si ritirò prima ancora che cominciasse il campionato e per la seconda volta fece convocare i giornalisti al Forum di Inglewood. Questa volta, alla conferenza stampa, Magic non si presentò neppure. Se ne andò, lasciò il gioco che amava e che aveva cambiato come un angelo ripudiato. Quel giorno Magic perse ma era vivo e lo è ancora dopo 23 anni dal contagio. Se chiedete a chiunque chi sia Magic Johnson, vi risponderà “Magic, il miglior playmaker di sempre”. Magic Johnson ha vinto!
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In questo articolo non troverete sfilze di numeri, statistiche stagionali o conteggi di punti/assist in carriera; questi possono spiegare solo parte di ciò che è il basket in realtà, parte che si avvicina vorticosamente a zero se l’uomo, ancor prima che giocatore, di cui si sta parlando è Stephen Jackson.
David Robinson e Tim Duncan di avere spazio di manovra all’interno dell’area. Altra mossa chiave di Pop è quella di sistemare l’armadietto di Jackson accanto a quello di Duncan, propiziando così la nascita di un’inaspettata quanto solida relazione di reciproca stima, fondamentale per la crescita professionale del primo (o di entrambi?).
Il copione di partenza è dei più scontati, ma imprescindibile per tentare di capire ciò che è successo più avanti: padre scomparso, patrigno in galera e una piccola città del Texas in cui pullulano gang di strada e spacciatori. Tutto questo fino a che il sedicenne Stephen vede morire il suo fratellastro in ospedale a causa di un’aggressione da parte di tre ragazzi del luogo.
La stagione seguente, 2002/03, Jack diventa una pedina importante della squadra, tanto da diventare un fattore determinante persino nelle finali di conference contro i Mavs e nelle Finals contro i vecchi compagni dei Nets, segnando spesso triple decisive negli ultimi quarti di queste serie e chiudendo come terzo miglior marcatore degli Spurs campioni NBA.
"È come se ogni giorno sperassi di poter esser stato là, perché molto di ciò che ho imparato e della persona che sono lo devo a lui: come essere leale, come esserci per un amico, come parlare alle ragazze. Non voglio che qualcuno dica che non ero là per aiutare mio fratello. Non voglio che qualcuno possa dirlo ancora.” Stephen Jackson
“I make love to pressure” Stephen Jackson
Dopo aver portato la Lincoln High School al titolo, viene scelto al secondo giro dai Phoenix Suns al Draft del 1 997, salvo essere tagliato un paio di mesi più tardi senza aver potuto sfiorare il campo da gioco. I tre anni seguenti si dividono tra CBA (lega minore, in stile D-League), Sud America, Australia e provini per ben 1 7 squadre NBA. La ruota inizia a girare prima della stagione 2000/01 , quando gli allora New Jersey Nets decidono di farlo partecipare al campus estivo e di tesserarlo in sostituzione dell’infortunato Keith Van Horn. Il suo anno da rookie non è esaltante anche a causa della sua propensione a farsi traviare dal veterano, nonché nuovo amico, Stephon Marbury: notti brave e scarso impegno, non ciò che ci vuole per dare una buona prima impressione. Infatti i Nets decidono di lasciarlo andare a fine anno, permettendo così agli Spurs di mettere le mani su questo controverso esordiente. Così com’è stato per molti suoi predecessori e, perché no, successori, il primo incontro con Popovich rientra nella categoria dei “sarebbe potuto andare meglio”. Pop mette subito in chiaro le cose dicendogli che l’avrebbe lasciato fuori per la maggior parte della stagione, che avrebbe preteso da lui un arrivo di buon’ora e una tarda uscita dagli allenamenti, pena l’immediato allontanamento dalla squadra. Jackson, dopo l’iniziale fisiologica fase di negazione, inizia ad allenarsi con dedizione e a studiare il sistema degli Spurs, capendo come gestire le spaziature per permettere a
Dopo la vittoria dell’anello Jackson lascia gli Spurs in cerca di un contratto remunerativo, che troverà soltanto dopo un anno di transizione agli Atlanta Hawks. Sei anni di contratto per un totale di 38 milioni di dollari, questa l’offerta degli Indiana Pacers nella stagione 2004/05. Titolo che a detta di molti sarebbe effettivamente arrivato se non fosse stato per un episodio tristemente celebre, passato alla storia col nome di The Brawl (la rissa).
"Molte persone non hanno idea di cosa significhi avere un compagno di squadra, col quale passi più tempo che con la tua famiglia. Come potete pensare che non sarei andato ad aiutarlo? In un certo modo, se dovessi morire nel tentativo di aiutare un compagno, un amico o qualcuno che amo, credo che lo potrei accettare. La mia famiglia probabilmente no, ma io sì.” Stephen Jackson Queste parole ricordano terribilmente quelle spese dopo la morte del fratello, e credo siano più che sufficienti a spiegare la reazione di Jack in quella serata al Palace of Auburn Hills, Detroit. La stagione dei Pacers si chiude sostanzialmente quella sera, dato che tutti i giocatori coinvolti nella rissa ricevono pesanti squalifiche mettendo la parola fine ai sogni di gloria della squadra. Il clima a Indiana si fa pesante, la città si disinteressa della squadra che l’anno successivo inizia a sfaldarsi. Artest, rientrante dall’anno di squalifica ricevuto in seguito alla rissa, chiede di essere ceduto causando una ferita nel cuore di Jackson, sentitosi tradito da un fratello per cui lui e l’intera squadra erano stati presenti, nonostante il rischio enorme per le loro carriere.
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di quella gara, ha dichiarato: Grazie alle prestazioni di quell’anno, Jack si guadagna il titolo di capitano della squadra diventando “Captain Jack”, titolo che ha ripudiato in seguito perché non ritenuto adatto a sé. Quanto di più significativo per la sua carriera di giocatore si ferma qui. Le esperienze a Charlotte e Milwaukee, il ritorno fugace agli Spurs nel tentativo (ben riuscito) di avere un uomo che arginasse Durant, non hanno più dato modo a Jack di mettersi in luce ad alti livelli, salvo per i Playoffs con i suddetti Spurs, giocati eccellentemente nei pochi minuti a A dare il colpo di grazia alla situazione in quel di Indianapolis ci pensa ancora Jack, un paio d’anni più tardi, coinvolto in un alterco fuori da uno strip club. All’uscita Jackson e compagni vengono fermati da un gruppo di persone ed inizia una non precisata discussione, in particolare con un uomo a cui Jack pare di vedere una pistola addosso; a quel punto il cugino di uno degli uomini investe Jackson con la macchina (evidentemente a velocità non proibitive), il quale, dopo essersi rialzato e ripreso dalla botta subita, tira fuori la pistola e spara cinque colpi “per disperdere la folla”, a detta sua. Il vaso trabocca e i Pacers lo mandano a giocare a Golden State. La stagione 2006/07 è celebre per quello che è forse il miglior upset nella storia dell’NBA. I Golden State Warriors di Baron Davis e Stephen Jackson (8th seed) battono i Dallas Mavericks (67-1 5, sesto miglior record nella storia della lega) in una serie che si conclude sul 4-2, ricordata per il calore del pubblico dell’Oracle Arena, sesto uomo in campo per i californiani. Jackson viene espulso in gara 2 e 5, ma si riscatta con una gara 6 favolosa segnando 7/8 tiri dall’arco e permettendo a Golden State di produrre un parziale da 1 8-0 all’interno del quale segna 1 3 punti consecutivi (33 totali), tutto questo marcando l’MVP Dirk Nowitzki e costringendolo ad un imbarazzante 2/1 3 dal campo. Baron Davis, infortunatosi alla spalla durante il primo quarto
"Gli ho detto (a Jack, ndr) che avrei dato il massimo e che non avrei voluto essere colui che lavorava più duro su quel campo. Avrebbe dovuto guidarmi. Lui è il leader di questa squadra e se chiedete a chiunque di noi, lui è il cuore e l’anima di questa squadra. Lui è un giocatore da grandi appuntamenti, e sapeva quanto questa partita fosse importante. È l’unico di questa squadra ad aver vinto un titolo, quindi abbiamo dovuto fare affidamento su di lui.” Baron Davis
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disposizione e terminati nel club 50-40-90; e la sua carriera è probabilmente ormai volta al termine. Che tipo di giocatore è stato?
“Chiedete a chiunque nella lega, Stephen è un giocatore d’élite, tanto quanto chiunque altro tra quelli che ho allenato.” Larry Brown “Non credo la gente abbia compreso che gran giocatore sia Stephen Jackson, difende ogni sera, fa giocate, segna, l’unica cosa che non fa è andare a rimbalzo. Rende migliori i compagni attorno a lui.” Don Nelson “Il migliore compagno di squadra possibile.” Tim Duncan Cosa sta facendo ora? Possibile si stia dando da fare per la sua comunità all’interno della Stephen Jackson Academy, da lui fondata in seguito alle devastazioni degli uragani passati dalla sua città. Che uomo è?
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Indubbiamente è una persona il cui passato influenza il presente, ed influenzerà il futuro. Tante sono state le parole spese dai media per crocifiggere i suoi errori, quante quelle usate dai suoi compagni di squadra e dirigenti nell’intera carriera per lodare la sua simpatia, la sua lealtà e il suo cuore.
"Molte persone confondono la mia passione per il gioco con l’essere un criminale o un gangster. Sono tutt’altra storia. Sono solo uno cresciuto nel ghetto, che ha fatto qualcosa venendo da nulla e che non è cambiato. Continuerò a stare a Port Arthur d’estate camminando senza scarpe, mangiando gamberi, facendo barbecue e andando a pescare. Sarò la stessa persona, e sono orgoglioso di dirlo perché un sacco di giocatori in NBA sono intoccabili. Non sono reali. Ma io sono orgoglioso di essere un tipo regolare a cui le persone possono avvicinarsi, non sono Hollywood. Voglio che le persone sappiano che questo è quello che sono e che non cambierò per nulla al mondo.” Stephen Jackson Io un’idea mia personale l’ho, ma non m’interessa convincere nessuno.
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WHO IS: Brandon Dawayne Roy nasce il 23 Luglio 1 984 a Seattle. Inizia a dar prova del suo talento nella AAU, la Amateur Athletic Union, una delle più grandi organizzazioni sportive amatoriali del Paese, per poi iscriversi alla Garfield High School. Vince l’MVP della KingCo Conference sia nell’anno da junior che in quello da senior, che chiude con 22.3 punti e 1 0.4 rimbalzi di media, e viene considerato uno dei migliori e più completi talenti a livello nazionale, tanto che in molti danno per certo il suo sbarco in NBA. Brandon inizialmente decide di rendersi eleggibile al Draft 2002, ma successivamente dà prova di grande saggezza, cambiando idea e decidendo di andare al college. Le norme della NCAA sono molto ferree, infatti i futuri studenti-giocatori devono ottenere punteggi molto alti al SAT, un test di ammissione, per potersi iscrivere ai college di Division I. Roy, che ha problemi di apprendimento ed è molto lento nella comprensione dei testi scritti, deve ripetere il test quattro volte prima di rispettare le richieste dell’NCAA e potersi iscrivere alla University of Washington.
Nella prima stagione gioca poco, come usanza agli Huskies, mentre nella seconda stagione ha un ruolo fondamentale all’interno della squadra, guidandola nei rimbalzi e chiudendo secondo in punti, assist e palle rubate. La stagione da junior è caratterizzata da costanti problemi al menisco destro che lo costringono a vedere il minutaggio ridotto, ma al termine dell’anno Brandon considera ancora la possibilità di rendersi eleggibile al Draft 2005. Quando però il suo compagno di college Nate Robinson e la futura recluta degli Huskies Martell Webster decidono di entrare in NBA, Roy vede l’opportunità di poter diventare la stella della squadra e decide di concludere gli studi a Seattle.
“Al termine del mio anno da junior sentivo che ero pronto per giocare in NBA, ma c’era ancora molto che dovevo mostrare” Brandon Roy Ancora una volta la sua decisione è azzeccata, perché non solo guida l’ateneo al titolo nella Pac-1 0 e alle Sweet 1 6 nel torneo NCAA, ma con 20.2 punti, 4.1 assist e 5.6 rimbalzi viene nominato Pac-1 0 Player of the Year e All-American. Terminata la carriera collegiale Brandon è pronto a fare il salto al piano superiore e viene scelto con la sesta chiamata del Draft 2006 dai Minnesota Timberwolves. NBA CAREER: I Wolwes però lo girano subito ai Portland Trail Blazers in cambio di Randy Foye, scelto alla settima chiamata. La prima stagione tra i pro è subito positiva sia dal punto di vista statistico che da quello tecnico, ma la guardia di Seattle mostra subito la fragilità delle sue ginocchia. Sebbene infatti chiuda un’ottima stagione con 1 6.8 punti, 4.4 rimbalzi, 4 assist e 1 .2 rubate, ricevendo 1 27 voti su 1 28 per il Rookie of the Year e lasciando gli addetti ai lavori a bocca aperta per la sua maturità cestistica, è costretto a saltare ben 25 partite a causa dei problemi alle ginocchia. Nella stagione da sophomore le sue cifre migliorano, Brandon è la stella dei Blazers, segna 1 9.1 punti a partita con 4.7 rimbalzi, 5.8 assist e 1 .1 rubate, guidando Portland a una striscia di 1 3 vittorie consecutive nel mese di Dicembre e venendo convocato come riserva all’All-Star Game. Nell’ultima partita prima del break però ha un infortunio alla caviglia che tuttavia non gli impedisce di giocare ben 29 minuti nella partita delle stelle e di segnare 1 8 punti con 9 rimbalzi. La terza stagione in NBA è da incorniciare, nonostante salti gran parte della preseason a causa di un intervento al ginocchio per la rimozione di cartilagine che irritava l’articolazione: in 78 partite registra 22.6 punti, 4.7 rimbalzi, 5.1 assist e 1 .1 rubate, tirando con il 48% dal campo e il 37.7% dalla lunga distanza. Grazie a questi numeri Roy viene convocato ancora all’All-Star Game, incluso nell’AllNBA Second Team e i suoi Blazers si qualificano per la post season dove vengono però eliminati al primo turno dai Rockets in sei partite. Nonostante l’eliminazione Roy chiude la serie con 26.7 punti di media e una grandissima Gara 2 in cui guida i suoi alla vittoria con 42 punti. Prima della stagione 2009-1 0 Brandon firma un nuovo contratto che lo lega alla franchigia dell’Oregon per i successivi 4 anni, con opzione sul quinto, al massimo salariale. Gli infortuni costringono Roy a saltare 1 7 partite, ma nelle 65 giocate sfodera ancora grandi prestazioni che
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gli valgono la terza convocazione consecutiva alla partita delle stelle, che salta a causa di un infortunio al polso, e l’inclusione nell’All-NBA Third Team. Chiude la stagione con 20.8 punti, 4.2 rimbalzi, 4.5 assist e 0.9 rubate, guidando ancora i Blazers ai Playoffs. Tuttavia l’11 aprile nella vittoria contro i Lakers Brandon subisce un nuovo infortunio al ginocchio destro, che lo costringe ad andare sotto i ferri. Secondo le prima previsione Roy dovrebbe saltare tutto il primo turno dei Playoffs contro i Suns, incredibilmente però torna in Gara 4, ma nonostante il suo rientro i Blazers vengono ancora eliminati per 4-2.
partita sembra chiusa anche dopo una tripla del #7 al termine del terzo periodo, ma nel quarto periodo Roy guida i suoi in un’incredibile rimonta, segnando 1 8 punti, di cui 4 in un pazzesco gioco da 4 punti per il pareggio permettendo ai Blazers di vincere 84-82 e di pareggiare al serie sul 2-2. Nelle restanti partite Dallas mostra la sua superiorità ed i Blazers vengono eliminati ancora per 4-2.
Nella stagione 201 0-11 Brandon inizialmente mantiene i suoi standard realizzativi abituali, ma dal mese di Dicembre le sue ginocchia lo costringono a saltare diverse partite, per poi essere out a tempo indeterminato. La mancanza di cartilagine in entrambe le ginocchia lo porta nuovamente sotto i ferri il 1 7 Gennaio 2011 , ma torna in campo il 25 Febbraio con 1 8 punti dalla panchina, compresa una tripla per portare la gara all’overtime, nella vittoria contro i Nuggets. Per il resto della stagione Roy continua a partire dalla panchina e ad avere un minutaggio ridotto rispetto gli anni precedenti, chiudendo con un career low di 1 2.2 punti, 2.6 rimbalzi, 2.7 assist e 0.8 rubate in 47 partite giocate. Nei Playoffs i Blazers affrontano i Mavs, futuri campioni NBA. In Gara 1 Roy gioca 26 minuti segnando solo 2 punti mentre in Gara 2 gioca solo 8 minuti senza segnare, con i Blazers che perdono entrambe le partite. Roy non nasconde il suo malumore per essere stato l’ultima delle riserve e mostra di poter essere ancora utile alla squadra segnando 1 6 punti in quasi 24 minuti di utilizzo in Gara 3, vinta da Portland 97-92. Gara 4 è leggenda. Dopo i primi due quarti equilibrati, in cui Roy segna soltanto 3 punti, Dallas allunga fino al 67-44. La
Sarebbe potuto entrare nell’Olimpo dei giocatori NBA, aveva tutte le carte in regola per poter essere tra i grandissimi di questo sport ma la sfortuna si è accanita su di lui e non gli ha permesso di mostrare tutto il suo talento. La speranza è che riesca a recuperare in qualche modo, per garantire anche solo 20 minuti di qualità, ma la realtà è che la sua carriera è ormai giunta definitivamente al termine. In bocca al lupo Brandon, ci hai fatto vivere grandissime emozioni.
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La stagione 2011 -201 2 è quella del Lockout, la speranza che Roy possa recuperare e tornare la star degli anni precedenti è tanta, ma poco dopo il training camp Brandon annuncia il suo ritiro a causa della mancanza di cartilagine in entrambe le ginocchia. La sua carriera sembra finita, ma in realtà Roy lavora moltissimo per poter tornare in NBA e a Giugno 201 2 comunica che, grazie ad un procedura tramite cui viene iniettato del plasma direttamente nelle ginocchia per permettere alle stesse una rigenerazione dei tessuti (la stessa eseguita da Kobe Bryant), è pronto calcare nuovamente i parquet della Lega americana. Il 31 Luglio firma un biennale con i Wolves, la squadra che lo aveva scelto al Draft, e durante il training camp le sue ginocchia non gli provocano dolore. In una partita di preseason subisce un infortunio dopo uno scontro di gioco, ma riesce comunque ad essere presente alla prima partita della stagione, nella quale realizza 1 0 punti in 30 minuti di utilizzo. Dopo sole cinque partite però le sue ginocchia richiedono l’ennesimo intervento chirurgico e Roy è costretto a saltare l’intera stagione. Il 1 0 Maggio 201 3 Minnesota lo taglia mettendo probabilmente fine alla sua sfortunata carriera.
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WHO IS: Reginald Wayne Miller nasce a Riverside, in California, il 24 agosto 1 965. Il piccolo Reggie presenta sin dalla nascita dei gravi problemi a caviglie e ginocchia, tanto che i medici sono costretti a comunicare a mamma Carrie che nei primi anni di vita per camminare dovrà utilizzare dei sostegni metallici, con la speranza che un giorno, forse, potrà farne a meno. Dopo quattro anni finalmente i medici decidono che i sostegni non sono più necessari, ma di praticare sforzi fisici non se ne parla: il fisico è troppo esile e la muscolatura poco sviluppata. Reggie però non ci sta, inizia a giocare con i fratelli permettendo alle sue ossa e alla sua muscolatura di irrobustirsi, riuscendo finalmente a camminare e correre senza problemi. Inizialmente si dedica al baseball, seguendo le orme del fratello, Darrell, che negli anni ’80 giocherà addirittura qualche stagione in MLB, ottenendo ottimi risultati. La sua grande passione però è la palla a spicchi, ma quando gioca con la sorella viene regolarmente stoppato ed ecco che inizia ad allontanarsi dal canestro, sviluppando una tecnica di tiro discutibile, con parabola molto alta, ma dannatamente efficace. Dopo essersi diplomato alla Riverside Polytechnic High School, il suo grande sogno è quello di vestire la leggendaria maglia Bruins, e per sua fortuna quell’anno tutti i prospetti migliori declinano l’interessamento di UCLA, che decide di puntare sul fratello di Cheryl, quella che ne aveva messi 1 05 in una partita liceale pochi anni prima.
Il primo anno è di puro apprendimento, ma già dal secondo le doti di realizzatore di Reggie iniziano a farsi vedere e guida l’ateneo losangelino alla vittoria del NIT, chiudendo la stagione come miglior marcatore della squadra. Il terzo e quarto anno la consacrazione: da junior chiude con 25.9 punti a partita tirando con il 55% abbondante dal campo, da senior, anno in cui l’NCAA decide di inserire il tiro da tre punti, mette a referto 22.2 punti di media, con il 54% dal campo e il 47% scarso dalla lunga distanza, chiudendo la carriera collegiale con 2095 punti, secondo nella classifica dei realizzatori in maglia Bruins, dietro solo a Lew Alcindor (o meglio Kareem Abdul-Jabbar). Purtroppo però il fisico smilzo e il gioco troppo basato sul tiro in sospensione fanno storcere il naso a molti, quando con l’undicesima scelta del Draft 1 987 i Pacers decidono di puntare su di lui, preferendolo all’idolo locale, Steve Alford, fresco campione olimpico 1 984, scelto poi dai Mavs e che in NBA resterà soltanto quattro stagioni. NBA CAREER: Lo scetticismo dell’ambiente però giova a Reggie, abituato a combattere sin dai primi minuti di vita, che, giocando da backup di John Long, segna 61 tiri dall’arco battendo il record di triple segnate da un rookie realizzato otto anni prima da Larry Bird, e chiude la stagione con 1 0 punti di media tirando con il 48.8% dal campo e il 35.5% da tre punti in 22 minuti di utilizzo. Nell’anno da sophomore diventa titolare e le sue cifre lievitano, 1 6 punti a partita con il 40% da tre in 34 minuti. Le critiche verso il californiano e la società, rea secondo i tifosi di aver puntato sul giocatore sbagliato, sono però una costante e questo porta Miller a lavorare duramente durante il training camp, chiudendo poi la stagione con 24.6 punti a partita contornati da 3.6 rimbalzi, 3.8 assist e 1 .3 rubate, tirando con percentuali incredibili per una guardia (51 .4% dal campo e 41 .4% dalla lunga distanza) e diventando finalmente l’idolo di Indianapolis, nonché giocatore franchigia e vero trascinatore dei Pacers. Diventa il primo Pacer ad essere convocato alla partita delle stelle dal ’77 e guida la squadra ai Playoffs, dove però arriva l’eliminazione al primo turno contro i futuri campioni, i Detroit Pistons. L’anno successivo, il quarto in NBA, termina con 22.6 punti di media e soprattutto il 91 .8% ai liberi, primo nella classifica NBA e record per la franchigia dell’Indiana, che però esce ancora al primo turno di Playoffs, questa volta contro i Celtics. Dopo altre due stagioni da oltre 20 punti di media, nel campionato 1 993-94 Reggie diventa miglior realizzatore nella storia dei Pacers, superando Billy Knight, e guida la squadra alle Conference Finals dove Indiana affronta New York. L’1 giugno, al Madison Square Garden, con la serie sul
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2-2, Reggie entra definitivamente nella storia: 1 4/26 dal campo, di cui 6/11 da 3 punti, per 39 punti totali. Fino a qui potreste pensare “si, ottima partita, ma non è l’unico da aver giocato una partita del genere”. La cosa incredibile è che 24 di questi 39 punti li ha segnati nel quarto periodo, dove ha tirato con un perfetto 5/5 dall’arco, recuperando praticamente da solo uno svantaggio di quasi 20 punti e vincendo la partita. Da qui viene coniato il termine It’s Miller Time per indicare i finali di partita, in cui Reggie da il meglio di sè. I Knicks però vincono le due partite seguenti, approdando alle Finals dove vengono sconfitti dai Rockets. Questa serie segna l’inizio di una grandissima rivalità tra le due squadre e gara 5 sarà sempre ricordata, oltre che per la prestazione mostruosa del Killer, anche per il trash talking tra Miller e Spike Lee, con lo storico choke di Reggie.
della partita ha cambiato padrone, fallo su Starks nel tentativo di rubare palla: 0/2 dalla lunetta, schiacciato dalla pressione. Battaglia incredibile a rimbalzo, Ewing conquista il pallone ma sbaglia da due. I Knicks, spaventati dalle triple di Reggie, commettono fallo proprio sul 31 , che però non perdona, facendo 2/2 e vincendo, ancora una volta da solo e in rimonta con 8 punti in poco meno di 9 secondi, mostrando ancora una volta le sue incredibili doti da closer. La serie viene vinta 4-3 da Indiana, che però deve arrendersi ancora una volta alle Conference Finals, contro i Magic che poi perderanno contro i Rockets nuovamente campioni NBA.
Nei due anni seguenti i Pacers deludono, perdendo contro Atlanta al primo turno dei Playoffs e non qualificandosi poi alla postseason.
L’anno successivo diventa il primo Pacer ad essere titolare all’All Star Game, guida Indiana al titolo della Central Division stabilendo il record di franchigia con 60 vittorie e nel secondo turno incrocia ancora i Knicks. Tanto per cambiare, entra nella storia. In gara 1 , con 1 8.7 secondi sul cronometro, i Knicks sono in vantaggio 1 05-99 e Larry Brown, coach di Indiana, chiama timeout, con i giocatori di New York che già festeggiavano la vittoria. Nell’azione successiva Miller, con 8.9 secondi rimanenti, segna la tripla del meno 3, sulla rimessa ruba palla, si piazza oltre la linea da 3 punti e pareggia. L’inerzia
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Nella stagione 1 997-98, dopo un’altra ottima regular season in cui Reggie supera quota 1 5 mila punti, al secondo turno ecco ancora i Knicks ed ecco ancora Killer Miller, ribattezzato The Knick-Killer: in gara 4, con la serie sul 2-1 per Indiana, davanti alla sedia di Spike Lee segna la tripla per l’overtime e guida i Pacers alla vittoria con 38 punti totali. La serie si chiude 4-1 senza difficoltà, ma il turno seguente ecco arrivare la corazzata Bulls. In gara 4, con i Bulls sul 2-1 e in vantaggio di due punti con 2 secondi e mezzo sul cronometro, dalla rimessa ecco lo schema per Miller che, nonostante la marcatura asfissiante di Jordan, con un movimento incredibile ed un catch and shoot perfetto segna una tripla da 1 0 metri per la vittoria. I Bulls vincono la serie 4-3, ma per la prima volta hanno bisogno di sette partita per raggiungere le Finals. L’anno successivo guida la lega con il 91 .5% ai liberi, supera quota 1 8 mila punti ed è per l’ennesima volta miglior realizzatore della squadra con 1 8.4 punti di media. Ai Playoffs ancora New York alle Finali di Conference, ma questa volta a trionfare sono i Knicks, 4-2, grazie soprattutto alle ottime prestazioni di Houston e Sprewell ed alla pessima gara 6 di Miller (3/1 8 dal campo). Nell’anno seguente Miller raggiunge probabilmente l’apice
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della sua carriera. Indiana per la prima volta nella storia arriva alle Finals, dopo aver eliminato ancora i Knicks 4-2 al primo turno con 34 punti di Reggie in gara 6, ma nonostante una serie praticamente perfetta di Miller, che chiude con 24.3 punti di media, cede 4-2 ai Lakers, prossimi al threepeat.
“Mi sembra doveroso ringraziare Reggie per tutto quello che ha fatto per questa franchigia. Ha illuminato il nostro cammino per 18 anni, portandoci 6 volte in finale di conference, rendendo i Pacers una squadra competitiva in regular season e nei playoffs. Per questo Reggie Miller rimarrà per sempre nella storia degli Indiana Pacers, e il suo numero 31 sarà ritirato." Donnie Walsh durante il ritiro della maglia #31 Chiude la carriera NBA con 25279 punti, quattordicesimo nella classifica di tutti i tempi, 2560 triple realizzate, superato soltanto da Ray Allen il 1 0 febbraio 2011 , e un’infinità di game winner e tiri decisivi. 5 volte All-Star, 3 volte nel terzo quintetto NBA, oro mondiale e olimpico. Come detto in apertura, uno dei tiratori migliori sempre, ed anche un giocatore estremamente intelligente e malizioso, capace di guadagnare giochi da quattro punti allargando le gambe dopo una tripla toccando l’avversario e procurandosi il fallo. Letale sia in uscita dai blocchi che dal palleggio, nonostante tecnicamente il suo tiro lasciasse molto a desiderare. Personaggio unico, trash talker di prima categoria. Fa parte della cerchia di giocatori leggendari a non aver mai vinto un anello. Ma, pensando che alla nascita i medici non erano certi potesse camminare senza utilizzare sostegni metallici alla Forrest Gump, ha vinto molto di più.
Le abilità da closer di Miller continueranno, nonostante la carriera sia prossime al termine. Nel 2001 i Pacers perdono 3-1 al primo turno contro i Sixers, ma l’unica partita vinta è decisa da un buzzer da tre punti del solito Reggie, mentre nel 2002, nel primo turno contro i Nets con la serie sul 2-2, prima segna sulla sirena una tripla da metà campo per il pareggio, poi allo scadere del primo supplementare pareggia di nuovo con una schiacciata. Deve però arrendersi nel secondo overtime a Kidd, che guida i suoi alla vittoria della partita e della serie, e successivamente alle prime Finals della franchigia del New Jersey. Gli anni seguenti Miller diventa progressivamente sesto uomo di lusso e leader morale della squadra, dando qualche sprazzo del suo enorme talento, come i 39 punti a 39 anni contro i Lakers, fino a giungere al ritiro al termine della stagione 2004-05, dopo l’eliminazione contro i Pistons.
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"Ero seduto alla fine della panchina con un asciugamano in testa, stavo sniffando cocaina e il mio naso iniziava a sanguinare. Don Chaney e Nate Archibald si erano spostati, lasciando quattro o cinque posti di distanza tra me e il compagno più vicino. Stavo sniffando cocaina, il naso mi andava in pezzi. Sniffavo e mi sentivo esplodere. Era come se il cervello stesse per uscirmi dal naso, sull’asciugamano, ma io non riuscivo a smettere. Era terribile, avevo una dipendenza.” Marvin Barnes Marvin Barnes nasce a Providence nel 1 952, resistendo ad un’infanzia da lui stesso definita raccapricciante, trascorsa a fare da spettatore mentre il padre alcolizzato alzava le mani a piacimento su lui e la madre. Fino a che, compiuti sedici anni, Marvin fa ritorno a casa con una pistola in mano, ribaltando le gerarchie familiari.
"Ero giovane, selvaggio e pensavo di conoscere tutto. Ero condannato, non pensavo che sarei mai arrivato a trent’anni. Volevo morire in una sparatoria, non volevo una vita lunga, non era mia ambizione. Live fast, die young, era quello il mio obiettivo.” Marvin Barnes Quando è sul campo da gioco, però, la vita sembra sorridere a Marvin. Porta la sua high school al titolo due volte consecutive senza mai perdere una partita, continuando a stupire una volta entrato a far parte della squadra del college, i Providence Friars. Nel 1 973 li conduce alle Final Four per la prima volta nella loro storia (grazie al record di dieci canestri su dieci tentativi in una partita della March Madness), concludendo poi i suoi quattro anni nell’NCAA come All-American e detenendo ancora oggi i record per punti segnati (52), rimbalzi (34) e stoppate (1 2) in una singola partita per i Friars, di cui è ancora oggi il miglior rimbalzista (1 592, 1 7.9 rpg) e stoppatore (363, 4.1 bpg) di sempre. A lasciare il segno a Providence, però, non sono solo le sue doti cestistiche. Nel suo anno da senior in high school, si unisce ad un gruppo di ragazzi intenzionati a rubare un autobus, ma la banda viene riconosciuta proprio grazie a Barnes il quale, durante la rapina, indossa una giacca della scuola con le scritte “State Champions” e “Marvin” cucite sulla schiena. Durante il college, invece, viene accusato di aver colpito un compagno di squadra con una chiave inglese, del tipo che si utilizza per i dadi degli pneumatici. Barnes nega in ogni occasione il fatto, salvo poi inaspettatamente dichiararsi colpevole in tribunale, potendo così patteggiare e ottenere tre anni di libertà vigilata (poiché, nel caso non avesse patteggiato, gli sarebbe toccato il
carcere). Queste vicende gli porteranno uno dei soprannomi più calzanti nella storia del gioco e che non si scrollerà più di dosso: Bad News, cattive notizie.
In ogni caso il talento è cristallino, motivo per cui viene draftato in NBA con la seconda scelta dai Philadelphia 76ers. Barnes, però, rifiuta l’offerta e decide di portare il suo talento agli Spirits of St. Louis, squadra di ABA, invogliato dal paio di milioni presenti sul contratto. Il suo esordio fra i professionisti è strabiliante, gli Spirits sono probabilmente la squadra più spettacolare dell’epoca (NBA compresa) e Barnes s’inserisce alla perfezione nel gruppo. Porta a casa il Rookie of the year, alla faccia di Moses Malone, e sul campo da gioco scherza con future leggende quale Artis Gilmore e Dan Issel, facendo crescere intorno a sé una montagna di aspettative per il futuro.
"Guardate cosa ha fatto Marvin per noi nella sua stagione da rookie. Ha segnato 24 punti, preso 16 rimbalzi e tirato col 50% dal campo, e l’ha fatto con la peggior selezione di tiri che abbia mai visto in un professionista. Semplicemente prendeva la palla, si voltava e tirava. Non gli importava della sua posizione sul campo.” Harvey Weltman, presidente degli Spirits of St. Louis Le due grandi stagioni con gli Spirits sono segnate da tanti aneddoti imprescindibili per cercare di inquadrare meglio, ammesso e non concesso che sia possibile farlo, la persona di Marvin Barnes. Il suo rapporto con gli orari, i trasferimenti della squadra e gli allenamenti? Travagliato. Gli Spirits hanno un volo la mattina presto perché devono giocare in back-to-back a Norfolk, ovviamente Barnes non si presenta e, anzi, perde pure tutti gli altri voli fino a pomeriggio inoltrato. Quando, finalmente, giunge in aeroporto è costretto a pagare per un aereo privato in modo che decolli il prima possibile. A Norfolk, il coach sta parlando coi suoi, mancano dieci minuti all’inizio della partita, quando Marvin irrompe nello spogliatoio con un ampio sorriso, un
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sacchetto colmo di hamburger e patatine del Mc Donald’s, ed un cappotto lungo di visone annunciando “Non preoccupatevi, Bad News è arrivato”; sotto il cappotto c’è la divisa degli Spirits. I primi otto minuti li passa in panchina, ma il conto finale dice 51 punti con 1 9 rimbalzi.
zona. Quando Barnes si accorge di ciò, la reazione è da antologia: “I ain’t gettin’ on no time machine. I ain’t takin’ no flight that takes me back in time” – non salirò su una macchina del tempo, non prenderò nessun volo che mi porta indietro nel tempo.
Il suo concetto di squadra risulta essere, quantomeno, stravagante. Finita una partita prende da parte Bob Costas, cronista locale degli Spirits: “Non c’è gioco di squadra, non ci importa dei nostri compagni,” – dice – “stasera ero a 48 punti con ancora un paio di minuti da giocare. Qualcuno mi ha passato la palla in modo che potessi arrivare a 50? No, si sono tenuti la palla e io sono rimasto fermo a 48.”
Come si era soliti dire all’epoca, just Marvin being Marvin.
La sua spontaneità ed il suo cuore sono ciò che ha sempre reso Marvin amato dai suoi compagni di squadra. Un giorno, passando con la sua Rolls Royce nei pressi di un playground di Louisville, fa cenno all’autista di fermarsi. Scende, parla con le due dozzine di bambini che stavano giocando, e li invita a salire in auto. Risultato? Regala delle scarpe da basket nuove a tutti, paga loro il gelato e si congeda, non prima di avergli presentato il compagno (di squadra, prima, e di sventure, poi) Gus Gerard come “uno dei tizi bianchi che mi passa la palla”. L’aneddoto più celebre lo avrete certamente sentito, raccontato tra gli altri anche dall’inarrivabile Federico Buffa, è quello dell’aereo che atterra a St.Louis ad un orario precedente rispetto alla partenza in quel di Louisville, a causa del cambio del fuso orario per il passaggio ad un’altra
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Gli Spirits, però, sono per Barnes anche l’occasione per fare conoscenza con la cocaina. Inizialmente la bianca è un paradiso, amplifica i sensi di Marvin, la sua consapevolezza e la sua attitudine nel socializzare con le persone; arriva addirittura a pensare che la cocaina lo renda un giocatore migliore, ma si accorgerà ben presto che non è così. Nel 1 976 l’ABA si fonde con l’NBA, andando a costituire una lega unica. Gli Spirits sono una delle due squadre che spariscono e Barnes accetta quindi l’offerta dei Detroit Pistons. Neanche il tempo di iniziare la stagione che, ad Ottobre, Marvin viola la libertà condizionata derivante dalla condanna precedente cercando di nascondere una pistola ai controlli in aeroporto. Questa violazione gli costa più di cinque mesi di prigione, ma molto altro a livello intangibile. Da quel momento Marvin smette di essere il giocatore fantastico a cui tutti gli States si erano abituati, a dir la verità diventa nel giro di un paio d’anni un giocatore meno che discreto. Detroit Pistons, Buffalo Braves, San Diego Clippers, nessuna squadra riesce a rinvigorirlo, anzi, non possono far altro che stare ad osservare il suo inarrestabile declino. Nemmeno firmare con i Boston Celtics, sogno di
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una vita, scalfisce minimamente l’animo alla deriva di Marvin.
"Crescendo, sognavo di giocare per i Boston Celtics, ma ad un tossicodipendente non frega niente del Celtic Pride, di Bill Russell o di Red Auerbach. Volevo solo farmi, punto. Non m’interessava essere sui soffitti dei palazzetti, non significava nulla per me, non c’era cocaina su quei soffitti. Le droghe ti distorcono il pensiero.” Marvin Barnes La sua carriera diventa un inconsapevole vagabondaggio, prima metaforico e poi effettivo, poiché si ritrova senza una casa, in disgrazia, a far avanti e indietro dalla galera, con la bianca come unico pensiero e senza alcuna possibilità di tirarsene fuori. Nei rarissimi momenti di lucidità tenta di affidarsi a centri di riabilitazione, salvo ricascare nel baratro dopo qualche giorno e sprofondandoci definitivamente quando riceve una condanna di sette anni in Texas, per detenzione e spaccio. La pena sarà poi ridotta a soli tre anni, ma la permanenza in quel carcere, dove le guardie non cercavano di interrompere le risse ma si limitavano a raccattare i corpi esanimi, è il punto di svolta per Marvin.
suo intento, memore della splendida persona che è stata Barnes negli anni a St. Louis. La missione di Marvin, parallelamente al suo benessere, è quella di essere da insegnamento per i giovani delle sue zone, grazie alla Rebound Foundation. La sicurezza e la convinzione di avere il mondo ai propri piedi, sono sparite dal volto di Marvin con la stessa velocità con cui il talento l’ha abbandonato. Trent’anni dopo aver cestinato la sua carriera, la vita gli ha comunque dato la possibilità di assistere ad una cerimonia speciale. Ironia, benedizione, rammarico, c’era un po’ di tutto quella sera dell’8 marzo 2008. La maglia #24 dei Providence Friars è stata issata proprio su uno di quei soffitti a cui Marvin aveva smesso di guardare a causa della cocaina. In fin dei conti, anche Bad News lo sa, la vita ha avuto un occhio di riguardo per lui.
"Lo stavo picchiando, era privo di sensi e gli sbattevo la testa contro il cemento. La verità è che lo stavo uccidendo. Avevo la sua testa fra le mie mani, l’ho lasciato andare e si è accasciato al suolo. Se ne stava lì, immobile, sembrava privo di vita. Non sapevo se fosse morto o no, ma sapevo che era finita. Era il momento della svolta, era il punto più basso che potessi raggiungere.” Marvin Barnes
Venti programmi di riabilitazione dopo, con un fegato ridotto in brandelli, Marvin sta ancora combattendo la sua personale battaglia verso la liberazione. L’ex proprietario degli Spirits si è offerto di pagargli le cure, e prosegue nel
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“Questo in senso cestistico ha avuto oro, incenso e mirra sin dal primo giorno di fianco alla culla.” Federico Buffa WHO IS: Mayce Edward Cristopher Webber III nasce l’1 marzo 1 973 a Detroit, Michigan. Sin da bambino usa la palla a spicchi per evadere dalla monotonia quotidiana di una città che fa dell’industria il suo fiore all’occhiello, diventando uno dei prospetti locali più interessanti. Al momento dell’iscrizione alla High School fa di tutto per poter giocare con Jalen Rose, amico d’infanzia, ma le loro strade non sono ancora destinate ad incrociarsi. Si iscrive alla Detroit Country Day School, diventando immediatamente leader e guidando gli Yellow Jackets a tre titoli statali, chiudendo la stagione da senior con 28 punti e 1 3 rimbalzi di media e vincendo il premio di miglior giocatore liceale della nazione.
Tutti i migliori college del Paese fanno carte false per reclutare Chris, che decide di diventare un membro della University of Michigan, dove, oltre al suo caro amico Jalen Rose, trova anche Juwan Howard, Jimmy King e Ray Jackson. Webber è al primo posto della classifica dei migliori giocatori in uscita dall’High School, Howard al terzo, Rose al sesto, King al nono e Jackson all’84esimo. Si formano quindi i Fab Five, la miglior classe di reclutamento di sempre costituita da 4 All-American (record assoluto fino allo scorso anno quando Kentucky ha reclutato addirittura sei All-American), che però paradossalmente non riesce a vincere nessun titolo NCAA. I Wolverines arrivano alla finale del torneo NCAA in entrambi le stagioni di permanenza di Webber, ma nel 1 992 perdono contro Duke 71 -51 , mentre nel 1 993 a batterli sono i Tar Heels di North Carolina con il punteggio di 77-71 , nella partita che sarà poi ricordata per il timeout chiamato da Webber sul -2 a 11 secondi dal termine che però costa un tecnico al nativo di Detroit, poiché Michigan non ha più timeout a disposizione, chiudendo definitivamente la partita. Chris chiude l’anno da sophomore con 1 9.2 punti, 1 0.1 rimbalzi, 2.5 assist e altrettante
stoppate di media, tirando con il 61 .9% dal campo, numeri che gli permettono di essere chiamato con la prima scelta assoluta del Draft 1 993 (primo sophomore ad essere prima scelta dal draft del 1 979, quando venne scelto Magic Johnson) dagli Orlando Magic, che vincono la lottery per il secondo anno consecutivo.
NBA CAREER: Orlando Magic dicevamo. Sebbene i tifosi della franchigia della Florida non vedevano l’ora di assistere alle giocate della coppia O’Neal-Webber, Chris viene ceduto la stessa notte del Draft ai Golden State Warriors in cambio della terza scelta assoluta, Anfernee “Penny” Hardaway, e di tre future scelte al primo giro. A causa degli infortuni di Tim Hardaway e di Sarunas Marciulonis, C-Webb diventa subito uno dei principali terminali offensivi dei Warriors e termina la prima stagione con 1 7.5 punti a partita, conditi da 9.1 rimbalzi, 3.6 assist e oltre 2 stoppate, realizzando addirittura una tripla doppia con 22 punti, 1 2 assist e altrettanti rimbalzi, vincendo il Rookie of the Year e guidando la franchigia della Baia ai
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Playoffs, dove però viene eliminata al primo turno dai Suns. Webber però ha diverse discussioni con il coach dei Warriors, Don Nelson, che vuole utilizzarlo principalmente da centro spalle a canestro in un ruolo che non piace a Chris e che snatura le sue caratteristiche, discussioni che culminano nell’estate del 1 994 quando il giocatore esercita un’opzione per uscire dal contratto diventando free agent. Nonostante la dirigenza cerchi di convincerlo Webber è inamovibile e si arriva ad una delle trade più discusse della storia dell’NBA: l’ex Wolverine viene ceduto ai Washington Bullets (oggi Wizards) in cambio di Tom Gugliotta e tre future prime scelte.
Nella capitale Chris ritrova Juwan Howard, ma nella prima parte di stagione non è il giocatore atletico ammirato a Golden State e subisce pesanti critiche da tifosi e stampa. Nella seconda parte però ritorna a mostrare il suo gioco e chiude con 20.1 punti, 9.6 rimbalzi e 4.7 assist a partita che però non portano i Bullets oltre un pessimo record di 21 vittorie e 61 sconfitte. Nella stagione 1 995/1 996 a causa del riacutizzarsi di un problema alla spalla, che lo costringe ad un intervento chirurgico, gioca soltanto 1 5 partite in cui comunque viaggia a 23.7 punti di media. La stagione successiva finalmente Webber mostra tutto il suo potenziale. Con 20.1 punti, 1 0.3 rimbalzi, 4.6 assist, 1 .9 stoppate e 1 .7 rubate (tirando con il 51 .8% dal campo), guida Washington ai Playoffs per la prima volta dal 1 988, viene selezionato per la prima volta all’All-Star Game e diventa uno degli uomini di punta della Lega. Il cammino ai Playoffs però termina subito per mano dei Bulls, ma Webber gioca un’eccellente serie, chiudendo con il 66% dal campo, percentuale più alta di quella offseason. Nel 1 997-98 si riconferma ad altissimi livelli, 21 .9 punti, 9.5 rimbalzi e 3.8 assist, ma i (neo) Wizards non riescono ad approdare alla off season ed ecco che la dirigenza decide di dare la franchigia in mano a Juwan Howard, cedendo Chris ai Kings in cambio di Mitch Richmond e Otis Thorpe. Webber diventa subito uomo franchigia, chiudendo la
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stagione con 20 punti, 1 3 rimbalzi (miglior rimbalzista della Lega), 4.1 assist e 2.1 stoppate, tirando con il 48% abbondante dal campo guadagnandosi l’inserimento nell’AllNBA Second Team. Con Webber ci sono uno dei migliori centri dell’NBA, Vlade Divac, uno dei migliori tiratori, Peja Stojakovic, e uno dei playmaker più spettacolari, Jason Williams. I Kings arrivano ai Playoffs dove danno del filo da torcere ai Jazz di Stockton e Malone, venendo però eliminati con il punteggio di 3-2. L’anno seguente ancora Playoffs ma ancora sconfitta per 32 al primo turno, questa volta contro i futuri campioni, i Los Angeles Lakers. La stagione di Webber è super, 24.5 punti, 1 0.5 rimbalzi e 4.6 assist, viene inserito nella terza squadra All-NBA, convocato all’All-Star Game, e i Kings diventano una delle squadre più spettacolari della Lega e vedono davanti a loro un futuro roseo. La stagione 2000-01 è la migliore a livello di cifre: 27.1 punti, 11 .1 rimbalzi e 4.2 assist, inserito nel All-NBA First Team, quarto nella classifica per l’MVP (vinto da Iverson) e titolare per la prima volta all’All-Star Game. I Kings, che in estate hanno acquistato uno dei migliori difensori, Doug Christie, riescono ad eliminare i Suns nel primo turno di Playoffs ma si devono arrendere ancora ai Lakers, che passano con un rotondo 4-0. Webber diventa free-agent e, nonostante il forte interessamento dei Pistons, decide di rifirmare con Sacramento. I Kings decidono di scambiare Jason Williams, giocatore spettacolare ma con una propensione troppo alta alle palle perse, per Mike Bibby facendo un incredibile miglioramento.
Nell’anno seguente infatti, nonostante le 28 partite saltate a causa di infortuni vari, Webber viene convocato per la quarta volta all’All-Star Game e viene inserito nella seconda squadra All-NBA, dopo aver chiuso la stagione con 24.5 punti, 1 0.1 rimbalzi e 4.8 assist, guidando ancora la squadra di Adelman ai Playoffs, in quella che da molti viene considerata la miglior stagione della storia della franchigia californiana. I Kings, che hanno il miglior record di tutta l’NBA, spazzano via i Jazz al primo turno (3-1 ) e i Mavs al
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secondo (4-1 ), ritrovando ancora i Lakers, questa volta alle Conference Finals. In una delle serie peggio arbitrate della storia, i Lakers riescono ad avere la meglio dei rivali solo nell’overtime di gara 7, dopo che Sacramento era stata avanti 3-2 nella serie, con Peja Stojakovic che sbaglia una tripla wide open per la vittoria al termine del tempo regolamentare. La stagione successiva i Kings continuano a giocare un basket stupendo, venendo considerati una delle principali contender. C-Webb chiude ancora in doppia-doppia di media, con 23 punti, 1 0.5 rimbalzi e 5.4 assist, venendo convocato per la quinta e ultima volta alla partita delle stelle e guadagnandosi ancora una volta l’All-NBA Second Team. Dopo aver eliminato nel primo turno i Jazz (4-1 ), Sacramento affronta i Mavericks del trio Nash-NowitzkiFinley. Dopo aver vinto gara 1 1 24-11 3, in gara 2 il destino infrange i sogni di Webber e compagni: Chris si rompe il menisco del ginocchio sinistro, dicendo addio alla stagione e i Mavs, dopo una serie combattutissima, riescono a passare 4-3. Inizia quindi una lunga riabilitazione per l’ex-Michigan che, sommata ad una squalifica dovuta a scommesse sulle partite ai tempi del college, gli fa saltare 59 partite. Nei 23 incontri disputati mette a referto 1 8.7 punti, 8.7 rimbalzi e 4.6 assist di media, ed i Kings arrivano ancora alla post season dove si vendicano dei Mavs (4-1 ). Al secondo turno però devono arrendersi, ancora in gara 7, ai Wolves di Kevin Garnett. Durante la stagione i Kings avevano trovato un ottimo equilibrio, rotto però dal ritorno di C-Webb. Stojakovic, che nel frattempo era diventato il trascinatore della squadra, viene messo da parte per lasciare spazio al nativo di Detroit, questo provoca malumore all’interno dello spogliatoio e a fine stagione Peja chiede la cessione. La dirigenza dei Kings non accoglie la richiesta e si presenta ai nastri di partenza della stagione 2004-05 con la speranza di poter finalmente raggiungere le Finals. Nei primi mesi però il malumore all’interno dello spogliato cresce, e Sacramento decide di puntare sul serbo, cedendo Webber (che comunque stava viaggiando a 21 .3 punti, 9.7 rimbalzi e 5.5 assist) ai Sixers in cambio di Brian Skinner e Kenny Thomas. La coppia Iverson-Webber porta i Sixers ai Playoffs dove però vengono eliminati dai Pistons per 4-1 . Webber chiude la stagione con 1 9.5 punti, 9.1 rimbalzi e 4.7 assist di media. La stagione 2005-06 è statisticamente la migliore dopo l’infortunio, ma nonostante i 20.2 punti con 9.9 rimbalzi e 3.4 assist di Webber e i 33 di media di Iverson, Phila non riesce a qualificarsi per la post season.
settimane la dirigenza di Philadelphia compie una decisione incredibile: prima cede Iverson ai Nuggets, poi, a causa del contratto pesantissimo che non interessava a nessuna squadra, taglia C-Webb che decide di tornare a casa, firmando per i Pistons e diventando subito il centro titolare. Detroit ha il miglior record a Est, ma i numeri di Webber calano drasticamente (11 punti, 8.3 rimbalzi, 3.4 assist) e nei Playoffs arriva l’eliminazione nella finale di conference per mano dei Cavs (4-2). Chris non è un fattore nella post season e di conseguenza la dirigenza dei Pistons decide di non rinnovare il contratto all ex-Fab Five. Nonostante il corteggiamento di diverse squadre, C-Webb non trova nessun accordo e resta fermo fino al gennaio 2008, quando firma per la franchigia che lo ha lanciato, i Golden State Warriors. Il suo fisico però non gli permette più di essere il giocatore esplosivo di cui tutti hanno ricordo e allora, dopo sole nove partita in maglia Warrior, decide di porre fine alla sua carriera. In 1 5 stagioni da pro, Webber ha realizzato 20.7 punti di media, con 9.8 rimbalzi, 4.2 assist, 1 .4 stoppate e altrettante rubate, tirando con il 47.9% dal campo. Uno dei migliori giocatori degli anni ’90-’00 ed una delle PF più versatili e complete di sempre. 5 volte All-Star, Rookie of the Year 1 994, miglior rimbalzista 1 999, inserito una volta nella prima squadra All-NBA, 3 volte nella seconda e una volta nella terza e il numero 4 ritirato dai Sacramento Kings, di cui è stata la guida indiscussa nei migliori anni della storia della franchigia. Chiude con 1 71 82 punti, 81 24 rimbalzi e 3526 assist, 11 97 rubate e 1 200 stoppate.
“Ci sono state tantissime persone che mi hanno supportato durante la mia carriera: i compagni, gli allenatori ed i fans prima di tutti. Ma non mi dimentico nemmeno degli Owner, dei Gm, dei dottori e di tutti gli staff medici che mi hanno aiutato nella mia avventura. Senza di loro non sarei mai arrivato ai massimi livelli ed è proprio per questo che oggi voglio ringraziarli tutti. Spero che in futuro potrò occuparmi ancora di basket in modo da mantenermi in contatto con questo fantastico mondo.” Chris Webber
Nell’anno successivo il minutaggio di Chris inizia a calare. L’ex-Kings manifesta tutto il suo malumore e dopo un paio di
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“Whatever will be, will be” Non funzionava, quella frase buttata lì semplicemente non funzionava. Erano parole troppo ordinarie, mancava qualcosa. Jay Livingston guardava Ray Evans, lo guardava in attesa di un aiuto, una frase che avrebbe potuto farli uscire da quel cul-de sac in cui si erano ritrovati. Sir Alfred Hitchcock li aveva contattati qualche mese prima richiedendo una canzone da poter inserire nel suo prossimo capolavoro, il remake de “L’uomo che sapeva troppo”. Era l’occasione di una vita, quel momento che passa una sola volta e che non lascia una seconda possibilità. Quel maledetto “Whatever will be” non funzionava proprio, Jay era ancora in attesa di un aiuto da parte di Ray, quando all’improvviso gli venne in mente di quella vacanza a Marbella. Aveva conosciuto una ragazza andalusa e arrivati al momento degli addii, quando le promesse fanno il paio con le menzogne, alla domanda “Ci rivedremo mai ancora?”, la bella spagnola rispose “Que será, será”. Fu un’illuminazione. Jay Livingston, o meglio, la señorita Soledad, inconsapevolmente aveva fatto in un sol colpo la storia del cinema, della musica e del basket. Come del basket? Facciamo un salto nel vuoto di 26 anni e spostiamoci idealmente a pochi isolati dalla stanza in cui Jay e Ray scrissero la canzone più fatalista della storia. Siamo nei pressi del Forum di Inglewood, e alle 5 del mattino nella hall dello splendido Sheraton Hotel, attorno ad un pianoforte a coda, Julius Erving e alcuni suoi compagni di squadra cantavano abbracciati: “Que será, será, whatever will be, will be the future’s not ours to see, que será, será.” Appena sette ore prima avevano consegnato nelle mani di Magic Johnson, l’ottavo titolo della storia dei Lakers e l’atmosfera che si respirava attorno a quello Schimmel nero era di assoluta tristezza più che di rabbia. Quella tristezza che lo aveva accompagnato fin da ragazzino quando viveva dall’altra parte del continente, a Long Island per la precisione, la stessa Long Island in cui Francis Scott Fitzgerald aveva fatto incontrare sulle pagine del suo capolavoro Daisy Buchanan e il grande Jay Gatsby. Mantenendo le ovvie proporzioni tra la dimora di casa Erving e quella ben più fastosa di West Egg, Julius era cresciuto senza un padre ma con la sincera convinzione che le Rolls-Royce che vedeva dal cortile della sua casa popolare, un giorno sarebbero state sue; accanto alle preghiere ogni sera giurava a se stesso che non avrebbe mai più accettato che il caso potesse comandare sul suo destino. Era un predestinato e da ragazzino sveglio quale
era, lo aveva capito subito. Mentre i suoi amici saltavano, lui volava.
Il cursus honorum di un ragazzino con quelle doti atletiche non poteva essere diverso: playground, college, professionismo. Al college giocò nella Yankee League, una Conference che non esiste nemmeno più e alla University of Massachusetts, dove alla partita c’erano più lontre di fiume che esseri umani. Al piano di sopra invece, viene scelto dai Milwaukee Bucks di Kareem Abdul-Jabbar e Oscar Robertson. Avrebbero formato un Big-Three ante litteram, il più forte di tutti, la lega avrebbe avuto qualche pagina in più da raccontare e, senza dubbio oggi, al Bradley Center di Milwaukee, ci sarebbe certamente qualche stendardo in più appeso al soffitto. Julius però, rifiuta la chiamata dei Bucks e decide di andare nella più colorata ABA, un torneo a dir poco lisergico in cui si gioca con una palla colorata, e la creatività e le giocate spettacolari contano molto di più del punteggio finale. Accettò l’offerta dei Virginia Squires, una squadra che giocava in tre città diverse, Hampton, Norfolk e Richmond e che a differenza della palestra della University of Massachusetts, accanto alle lontre di fiume, aveva tra i tifosi anche qualche scoiattolo. Agli Squires, Julius conobbe un uomo che gli cambiò la vita, Willie Sojourner, armadio di puro ebano nero di 2.03 che al momento delle presentazioni, sentendo che quel ragazzetto di Long Island si presentò come “The Doctor”, decise di aggiungere alla
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dicitura il nome “Julius” e di abbreviare il tutto in “Dr. J”, senza sapere, probabilmente, d’aver regalato alla storia del gioco uno dei nickname più belli di sempre.
L’impatto con la “Lega dei giocolieri” fu devastante, anche prima di prendere in mano una di quelle simpatiche arance tricolori. Per lasciar vagamente intendere il peso specifico di Dr.J all’interno della Lega, vi basti pensare che quando i New Jersey Nets lo cedettero ai Philadelphia 76ers, la CBS cancellò dal palinsesto il match Nets-Warriors che avevano in programma per quella sera. E stiamo parlando di uno che non aveva giocato ancora un secondo nella NBA. Era il 1 976, ben sei anni prima della sconfitta contro i Lakers. Quella notte, la notte del “Que será, será”, Erving si rese conto che come da bambino, aveva lasciato vincere ancora una volta il caso, non poteva più permetterlo, la prossima volta avrebbe dovuto vincere lui. Nella stagione successiva, i Sixers coniarono uno slogan che riprendeva alla perfezione il pensiero di Dr. J, “We owe you one”, ve ne dobbiamo uno. Con il Dottore che aveva doppiato il Capo di Buona Speranza dei 33 anni, serviva un’ altra superstar, un Mosè che potesse condurli oltre lo Yam Suf della sconfitta dell’anno precedente. Nomen omen, il Mosè arrivò da Houston, e rispondeva al nome di Moses Malone, giocatore capace di unire un atletismo fuori dal comune ad una tecnica sopraffina. La cavalcata verso le Finals fu clamorosa, 65 vittorie in regular season e una sola sconfitta ai Playoff contro Milwaukee. Il caso questa volta c’entrava poco, e il destino da grande scrittore, dopo aver
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lasciato che i Bucks gli scippassero un partita in Finale di Conference, regalò a Julius la possibilità di vendicare la delusione di un anno prima: in finale ci sono i Los Angeles Lakers, di nuovo. Moses e J sono immarcabili, anche per Kareem e Magic, e
rendono le prime 3 gare una pura formalità. Con le squadre sul 3-0, Julius ritorna a Los Angeles per la decisiva Gara-4, si alloggia sempre allo Sheraton, quello dello Schimmel nero. Il match resta uno dei più belli da quando un insegnante canadese decise di appendere due cestini di pesche a due pali. I Lakers dominano per tre quarti di gara, all’inizio dell’ultimo periodo i Sixers sono sotto 82-93. Al momento di ritornare in campo però, Julius si ferma, chiama tutti i suoi compagni, li guarda negli occhi uno ad uno e comincia a ripetere, in maniera quasi ossessiva: “The future’s ours, the future’s ours”, il futuro è nostro, il futuro è nostro. I Sixers sono perfetti, letteralmente, la difesa diventa impenetrabile mentre dall’altra parte del campo, i Lakers sembrano inermi. La riscossa è inesorabile, e Philadelphia impatta.
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A pochi minuti dalla fine, Julius riceve palla, l’area è intasata e le tempie sono bianche. Guarda la palla e guarda il canestro, per un attimo gli torna la paura di non riuscire a far suo il destino, non sa più cosa fare. Ripensa a quella sera di un anno prima, alla sensazione di tristezza che provò regalando l’anello ai Lakers, la stessa squadra che stava provando a modellare ancora una volta il suo fato. Poi, proprio come Jay Livingston ricordò la bella Soledad, allo stesso modo Julius ebbe quella folgorante illuminazione che gli cambiò la vita. All’improvviso capì. Fece partire il tiro. Canestro. Due punti. Titolo. Quella notte nella hall dello Sheraton, Julius e Moses cantarono abbracciati fino alle 5 del mattino. Moses non capiva, ma era troppo felice per riuscire a pensare al significato di quelle parole. “The future’s not ours to see, que será, será”
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WHO IS: Elgin Gay Baylor nasce a Washington D.C. il 1 6 settembre 1 934. Inizia ad affacciarsi al mondo della palla a spicchi soltanto a 1 4 anni, ma da subito dimostra di saperci fare. Aiutato da un atletismo mostruoso, domina in lungo e in largo, ma a livello accademico lascia molto a desiderare, tanto che è costretto a cambiare addirittura quattro High School: inizia alla Southwest Boys Club, poi si trasferisce alla Brown Junior High, successivamente alla Phelps e infine conclude la carriera liceale alla Spingarn High, dove chiude con oltre 36 punti di media, essendo in cima alla lista dei desideri di molti scout universitari. I voti non idilliaci, per usare un eufemismo, però non gli permettono di approdare ad un college di prima fascia e alla fine ottiene una borsa di studio al College of Idaho per giocare sia a basket che a football. A Caldweel resta soltanto un anno a causa di un taglio ai fondi per le borse di studio e allora riesce a trasferirsi a Seattle, dove però sta fermo un anno a causa delle ferree regole sui trasferimenti. Nell’anno da senior, guidati da Elgin, i Chieftains riescono per la prima (e ultima) volta ad approdare alle Final Four del torneo NCAA, dove però devono cedere in finale alla Kentucky guidata dal leggendario Adolph Rupp. Baylor chiude la carriera collegiale con oltre 32 punti e 1 9 rimbalzi di media, non male per un ragazzo alto 1 .96, vincendo il premio di miglior giocatore delle Final Four e venendo definito da Emmett Watson, uno dei più popolari ed esperti giornalisti dell’epoca, “il miglior giocatore di basket del pianeta, professionisti inclusi”. NBA CAREER: Elgin decide quindi di dichiararsi eleggibile per il Draft NBA del 1 958. Viene scelto con la prima chiamata assoluta da dei derelitti Minneapolis Lakers, sull’orlo della bancarotta, nella speranza che possa risollevarli. Come potete immaginare li risolleva. Eccome. Nell’anno da rookie Baylor viaggia a medie spaventose, quasi 25 punti e 1 5 rimbalzi ad allacciata di scarpe, mostra delle doti tecniche sopraffine ed un atletismo mai visto prima d’ora, vince il premio di Rookie of the Year e guida quei Lakers fino alle finali NBA dove però non può nulla contro la corazzata Celtica di Russell e Auerbach, scenario che si ripeterà anche negli anni seguenti. L’anno da rookie è soltanto il prologo. Nel ’60 i Lakers si trasferiscono a Los Angeles ed ecco che dal draft arriva un altro genio, Jerry West, che con Baylor andrà a formare una delle più grandi coppie nella storia del gioco. Elgin entra ancora più nella storia il 1 5 novembre 1 960 contro i Knicks, essendo il primo giocatore a segnare più di 70 punti in una partita (71 per la precisione). Baylor chiude
la terza stagione con 34.8 punti e 1 9.8 rimbalzi, e diventa sempre più leader carismatico dei Lakers.
Nella stagione ’60/’61 realizza 34.8 punti e 1 9.8 rimbalzi a partita (career high), ma i Lakers mancano ancora le Finals, perdendo 4-3 contro i St. Louis Hawks nella finale della Western Division. L’anno successivo, a causa del servizio militare obbligatorio, gioca soltanto nei week end senza allenarsi in settimana: in 48 partite mette a referto 38.3 punti e 1 8.6 rimbalzi, numeri straordinari, e guida la città di Los Angeles alla prima finale della sua recente storia, la prima della grande rivalità tra LA e Boston. In gara 5, con la serie sul 2-2, segna 61 punti, tutt’ora record per una finale NBA. Ma la spunta ancora Boston, all’overtime di gara 7, dopo che Russell all’ultimo secondo dei regolamentari strappa il rimbalzo della vittoria proprio a Baylor. L’anno seguente, dopo una stagione in cui il numero 22 ha realizzato 34 punti e catturato 1 4.3 rimbalzi a partita, ancora finale e ancora Celtics vittoriosi, storia che si ripeterà ancora nel 1 963, nonostante Elgin realizzi 34 punti e 1 4.3 rimbalzi di media nella Regular Season. Nella stagione ‘63/’64 chiude con 25.4 punti e 1 2 rimbalzi di media, ma i Lakers escono al primo turno contri St. Louis 32, mentre nel 1 965, dopo una stagione da 27.1 punti e 1 2.8 rimbalzi a partita, arrivano di nuovo le Finals, di nuovo contro Russel e compagni che vincono il loro ottavo titolo. Nel frattempo il fisico di Elgin inizia a dargli i primi problemi, il suo gioco diventa meno atletico e più tecnico ma non per questo meno efficacie. Le sue medie infatti calano, 1 6.6 punti e 9.6 rimbalzi nella stagione ‘65/’66, la prima in cui non
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è All-Star, ma guidati da West i Lakers raggiungono ancora le Finals dove però si devono arrendere per l’ennesima volta ai Celtics in gara 7, nonostante Baylor e West realizzino 58.9 punti a partita nella serie.
Nella stagione successiva torna sui suoi standard abituali, 26.6 punti conditi da 1 2.8 rimbalzi, ma i Lakers escono al primo turno contro i San Francisco Warriors, ma tornano alle Finals nel ’68, dopo una stagione da 26 punti e 1 2.2 rimbalzi di Elgin, e nel ’69, con Elgin a quota 24.8 punti e 1 0.6 rimbalzi a partita, sempre contro i Celtics poi vittoriosi nonostante in quest’ultima stagione in California sia approdato Chamberlain e West abbia giocato una serie finale da MVP, ma questa è un’altra storia. La sensazione è che LA sia una città maledetta, idea che si rafforza quando, nella stagione seguente, il trio BaylorWest-Chamberlain arriva ad un Willis Reed dall’alzare il Walter A. Brown Trophy, perdendo ancora alle Finals, questa volta 4-3 contro i Knicks, dopo una stagione in cui il nostro protagonista ha messo a referto 24 punti e 1 0.4 rimbalzi di media, ultima stagione da All-Star e sostanzialmente ultima stagione da professionista. Nella stagione seguente infatti gioca soltanto due partite a causa di un brutto infortunio al ginocchio, che gli fa pensare al ritiro, e i Lakers perdono in finale di conference contro i
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Bucks di Robertson e Alcindor (il futuro Abdul-Jabbar). Elgin decide di provarci ancora un’ultima volta, ma il 31 ottobre 1 971 dopo nove partite giocate in preda al dolore si arrende, ponendo fine alla sua carriera. Il destino però è cinico e spietato: i Lakers vinceranno le 33 gare successive (tutt’ora record degli sport americani) e a fine stagione porteranno a casa il primo titolo dell’era Losangelina, ma, come per quanto riguarda West, questa è un’altra storia.
Giocatore favoloso, si dice abbia inventato il tiro in sospensione. Ha cambiato il gioco e ha permesso a LA di diventare LA franchigia gloriosa che è oggi. Chiude la carriera con 27.4 punti e 1 3.5 rimbalzi di media, probabilmente il più grande giocatore a non aver vinto niente, nessun MVP, nessun anello, nessun premio di miglior marcatore o miglior rimbalzista della Lega. Per lui 11 convocazioni all’ All Star Game e un MVP dello stesso, il premio di Rookie dell’anno, 1 0 apparizioni nel primo quintetto NBA, la nomina di Hall of Famer e la maglia sul soffitto dello Staples Center.
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WHO IS: Bernard King nasce il 4 dicembre 1 956 a Brooklyn, New York. Famiglia sportiva quella di Bernard, infatti il fratello minore, Albert viene considerato miglior prospetto dell’High School e giocherà diverse stagioni in NBA. Dopo essere stato la stella del liceo Fort Hamilton di Brooklyn, Bernard va alla University of Tennessee, dove gioca tre stagione super per i Volunteers (chiude la carriera universitaria con 25.8 punti e 1 3.2 rimbalzi di media, numeri impressionanti per un’ala che superava appena i 2 metri di altezza) nelle quali vince per tre volte il titolo di miglior giocatore della SEC, venendo considerato una vera e propria celebrità, status che gli costerà una carriera universitaria piuttosto turbolenta. Al termine dell’anno da junior decide di entrare nel Draft NBA del 1 977, durante il quale viene scelto dai Nets con la settima chiamata.
NBA CAREER: King ha la fama di essere uno scorer purissimo, e mette in mostra tutte le sue caratteristiche già dal suo anno da rookie, durante il quale guida la sua squadra per punti segnati (24.2 a cui aggiunge 9.5 rimbalzi), piazzandosi decimo nella classifica dei migliori marcatori NBA. Nonostante questo però non riesce a vincere il premio di Rookie of the Year, che viene invece assegnato a Walter Davis dei Phoenix Suns. Il suo gioco è caratterizzato da un jumper dalla media affidabile e da un rilascio molto veloce che lo fa risultare praticamente indifendibile.
Nella stagione da sophomore chiude con 21 .6 punti, 8.2 rimbalzi tirando con il 52% dal campo, ma a causa di problemi fuori dal terreno di gioco, legati soprattutto all’abuso di sostanze stupefacenti, i Nets decidono di cederlo agli Utah Jazz. I Jazz non sono certo il posto migliore per un giocatore con quel tipo di problemi, infatti all’inizio stagione 1 979-80 King viene arrestato diverse volte per possesso e utilizzo di stupefacenti e un compagno di Bernard, Terry Furlow, perde la vita in un incidente stradale mettendosi alla guida di un’auto dopo aver assunto una massiccia dose di droghe. Bernard gioca soltanto 1 9 partite a Salt Lake, prima che sia sospeso dalla franchigia per il resto della stagione a causa dell’ennesimo arresto. Nella off-season King viene ceduto ai Warriors, franchigia nella quale torna il giocatore immarcabile ammirato un paio d’anni prima, ma continua ad avere sempre gli stessi problemi nella vita privata. Chiude la stagione 1 980-81 con 21 .9 punti di media, tirando con un incredibile 58.8% dal campo, cifre che gli permettono di vincere l’NBA Comeback Player of the Year (equivalente del Most Improved Player odierno), mentre la stagione successiva i punti realizzati sono 23.2, con il 56.6% al tiro, viene convocato per la prima volta all’All-Star Game guadagnandosi anche l’inclusione nella seconda squadra All-NBA. Golden State però, al pari dei Nets, non tollera gli eccessi extra cestistici di Bernard, che cambia nuovamente franchigia venendo ceduto ai New York Knicks in cambio di Ray Richardson. Entrambi i giocatori hanno problemi con le droghe, ma la franchigia della Grande Mela azzecca questo scambio: Richardson infatti gioca soltanto 33 partite in maglia Warriors prima di essere squalificato a vita dalla NBA a causa all’abuso sconsiderato di sostanze stupefacenti, mentre King diventa il Re della Big Apple. Nella prima stagione segna 21 .9 punti (52.8% dal campo), nella seconda i suoi numeri migliorano: 26.3 punti con il 57% al tiro, quinto nella classifica dei marcatori NBA. Questo è l’anno dei due cinquantelli in back to back contro San Antonio e Dallas, oltre che della seconda convocazione all’All-Star Game e dell’inclusione nell’All-NBA First Team. I Knicks centrano i Playoffs e Bernard vince praticamente da solo il primo turno, 3-2 contro i Pistons, segnando 40 punti in quattro delle cinque partite (la quinta si è fermato a 36). La corsa di New York però si interrompe al turno successivo contro i futuri campioni, i Boston Celtics di Larry Bird, che riescono a prevalere soltanto dopo 7 partite vincendo la gara decisiva 1 21 -1 04. Bernard chiude i Playoffs con 34.8 punti di media. La stagione 1 984-85 è la migliore in NBA: 32.9 punti a partita (leader NBA) con il 53% (settima stagione
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consecutiva oltre il 50% dal campo), 5.8 rimbalzi e 3.7 assist. Nella partita natalizia segna 60 punti contro New Jersey (record delle partite natalizie), prestazione che ripete ancora contro i Nets segnando 55 punti il 1 6 Febbraio successivo. In questa stagione gioca il suo terzo All-Star Game ed è inserito per la seconda volta nell’All-NBA First Team.
Ewing al Draft 1 985. Dopo due anni di stop King ritorna e, tra lo scetticismo generale, dimostra di essere riuscito a modificare il suo stile di gioco, rimanendo però uno scorer incredibile. In queste sei partite, nelle quali Ewing è infortunato, realizza 22.7 punti di media ma i Kincks non sono più interessati a puntare su di lui e decidono di non rinnovargli il contratto in scadenza. Bernard decide di firmare con i Washington Bullets. Nel primo anno gioca 69 partite, 38 da titolare, a minutaggi leggermente limitati per non forzare troppo il suo rientro, segnando comunque 1 7.2 punti con il 50% dal campo. Numeri che aumentano nelle stagioni successive (20.7 con il 47.7% nella stagione 1 988-89, 22.4 con il 48.7% nella stagione 1 989-90) fino ad arrivare ai 28.4 di media con il 47% dal campo della stagione 1 990-91 , che lo portano al suo quarto All-Star Game, al terzo posto nella classifica dei migliori realizzatori NBA (dietro a Michael Jordan e Karl Malone) e all’inclusione nel terzo quintetto All-NBA. L’infortunio gli ha fatto perdere molta dell’esplosività che utilizzava per giocare in post ed essere immarcabile nel fadeaway, ma Bernard ha risposto diventando un giocatore formidabile nel pitturato e vicino a canestro. Prima della stagione 1 991 -92 però un altro intervento chirurgico, questa volta per la rimozione di cartilagine dal ginocchio, lo costringe a saltare tutta la stagione e l’inizio della stagione 1 992-93. Nel Gennaio ’93 King viene tagliato dai Bullets e decide di firmare per quei Nets che, sedici anni prima, lo avevano portato in NBA. Le condizioni delle ginocchia però sono troppo precarie e Bernard in 32 partite (solo 2 titolare) gioca 1 3 minuti di media, segnando 7 punti a partita, decidendo di porre fine alla sua carriera al termine della stagione.
"Parla a qualsiasi giocatore che sia uno scorer, ti dirà che ci sono momenti in cui entri in uno stato di massima concentrazione. Quando segnavo 30 punti a partita non dovevo pensare a nulla, ero guidato dal mio istinto.. In quei momenti non importa cosa fai, senti che funzionerà. È una sensazione incredibile, non esiste nient’altro del genere." Bernard King Quando tutto sembra andare per il meglio però ecco che improvvisamente gli crolla il mondo addosso. Il 23 Marzo si rompe il legamento crociato anteriore del ginocchio destro, infortunio gravissimo che lo costringe a stare fuori fino alle ultime sei giornate della stagione 1 986-87. A causa di questo infortunio i Knicks non raggiungono i Playoffs ma, nella sfortuna, hanno la fortuna di vincere la Lottery, che gli consente di scegliere, con la prima scelta assoluta, Patrick
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Un giocatore incredibile, che a causa di un grave infortunio ha dovuto ricostruire la sua carriera. Chiude con 1 9655 punti, 5060 rimbalzi e 2863 assist. Unico giocatore nella storia ad aver realizzato almeno 40 punti (42 per la precisione) con il 60% dal campo e ad aver segnato almeno 30 punti con il 60% per quaranta partite consecutive. Quattro volte All-Star, NBA Scoring Champion 1 985, due volte nell’All-NBA First Team, una nell’All-NBA Second Team, una nell’All-NBA Third Team e NBA Hall of Famer.
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Esiste un modo molto veloce per creare due schieramenti in ambito cestistico: pronunciare un nome. Subito le masse si mobiliteranno cercando di screditarne l’immagine, sempre che ce ne sia ulteriore bisogno, nel frattempo un numero non tanto cospicuo di tifosi (poiché la maggior parte di essi sono lacustri, così come la storia li conosce erroneamente) abbozzerà un tentativo di difesa a spada tratta. Il nome è quello del giocatore che più ha diviso da quando ha messo piede in NBA, ladies and gentlemen, Ronald William Artest Jr. Nasce nel Queens, condividendo i pochi metri di una casa popolare con altre nove persone. Il padre, dal quale ha ereditato il temperamento facilmente infiammabile, è un veterano della marina nonché pugile che inizia ben presto a sfogare le sue ire sulla madre di Ronald, arrivando al punto di picchiarla. Trasferitasi la figura paterna in seguito a questi incidenti, Ron inizia a manifestare i primi problemi di gestione della rabbia, prendendo per la gola e mettendo al tappeto un paio di compagni di scuola. All’età di otto anni ha così il suo primo colloquio con uno psicoterapista, il cui consiglio è di far praticare uno sport al ragazzo per permettergli di sfogarsi, vada per il basketball. Da quel momento il basket diventa effettivamente la valvola di sfogo di Artest, sfiorando l’ossessione, sport al quale si applica con una dedizione non comune. Prima di fare il salto nel basket che conta, ha il tempismo per assistere alla morte (raccontata solamente molti anni dopo) di un ragazzo diciannovenne sul campo da gioco, trafitto dalla gamba staccata ad un tavolino, in una rissa scoppiata in seguito a discussioni riguardanti il punteggio della partita in questione.
"C’era così tanta competizione che hanno hanno spaccato la gamba di un tavolo e l’hanno lanciata, quella lo ha trapassato ed è morto proprio lì sul campo da gioco. Quindi sono abituato a giocare molto duro. Quando sono entrato nella lega, ero abituato a combattere sul campo. È come sono stato cresciuto giocando a basket.” Metta World Peace
raccomandazione, il tutto per poter usufruire dello sconto per gli impiegati; nell’estate antecedente il secondo ritorno di Michael Jordan nella lega, Artest viene scelto da MJ come spalla per gli allenamenti e lo “ringrazierà” causandogli inavvertitamente la frattura di due costole in seguito ad una marcatura in post poco ortodossa, non esattamente il trattamento coi guanti di velluto che ci si può aspettare da parte di un novellino ad una leggenda vivente di quello sport. A metà della stagione 2001 /02, Artest viene mandato agli Indiana Pacers ritrovandosi di colpo in una squadra in lotta per i Playoffs. Qui inizia propriamente la carriera ad alti livelli del Ron Artest che abbiamo potuto conoscere negli anni, fatta di peculiarità note a chiunque abbia avuto occasione di vederlo giocare anche abbastanza recentemente: un’ala piccola, Small Forward per dirlo all’americana, con punti nelle mani (proprio a Indiana formerà il duo di ali più produttivo della lega insieme a Jermaine O’Neal), difensore straordinario utilizzato molto spesso sul più pericoloso degli avversari ed atleta dotato di fisicità ed aggressività, purtroppo non solo agonistica, impensabili per i suoi stessi compagni di squadra. Nei due anni successivi riceve una valanga di sospensioni, contravvenzioni disciplinari e panchine punitive per varie cose tra cui screzi con avversari, flagrant fouls (otto in una sola stagione), l’aver distrutto delle apparecchiature video uscendo dal Madison Square Garden dopo una sconfitta contro i Knicks o aver chiesto ai Pacers un mese di aspettativa, se così vogliamo chiamarla, per potersi occupare della promozione del suo nuovo album rap. Nulla in confronto a ciò che capita al palazzetto dei Pistons la sera del 1 9 novembre 2004: la vicenda è nota come The Brawl o Malice at the Palace, che dir si voglia, e costerà ad Artest la sospensione più lunga della storia dell’intera lega, incrinando i rapporti di Artest e del pubblico di Indianapolis con i Pacers. Lo stesso Artest chiederà di essere ceduto, causando sconforto tra i suoi compagni sentitisi traditi dal suo abbandono, dopo essersi immolati per difenderlo in quella sera di Novembre, rischiando la loro stessa carriera.
Artest viene scelto con la chiamata numero 1 6 al Draft del 1 998 dai Chicago Bulls, nei quali gioca due anni e mezzo, partendo titolare in gran parte delle partite e riuscendo a guadagnarsi l’attenzione di squadre in condizioni migliori dei Bulls nel periodo post-MJ (dove non hanno mai superato le ventuno vittorie annuali). Ma le attenzioni attirate sul campo, per Ron Artest, sono sempre andate di pari passo con quelle fuori dal campo. Nel suo anno da rookie, tra le altre cose, fa richiesta ad un negozio di elettronica per un lavoro scrivendo “NBA player” come professione principale e menzionando Jerry Krause (presidente dei Bulls) come
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Dopo aver criticato in un’intervista coach Carlisle, i Pacers decidono di liberarsi velocemente di Artest che finisce a giocare presso i Sacramento Kings. Una squadra non all’altezza della precedente, che manca i Playoffs con una buona costanza, non impedisce comunque al nostro eroe di fare la fortuna dei giornali locali alimentando la cattiva fama costruitasi dopo l’accaduto in quel di Detroit. In meno di un mese, all’inizio del 2007, mette a referto due condanne. La prima è per non essersi preso cura adeguatamente di uno dei suoi cani, trovato in condizioni fisiche precarie e accudito da un veterinario fino alla completa ripresa (colpa di una persona pagata per accudire i suoi sette cani durante le trasferte, la sua difesa); la seconda dovuta ad un litigio domestico durante il quale la moglie stessa l’ha accusato di averla scaraventata a terra, di averla colpita e di averle fisicamente impedito di chiamare il la polizia. Quest’ultima condanna, arrivata nonostante la moglie abbia poi scelto di non sporgere denuncia, lo costringe a cento ore di lavori socialmente utili e ad un progetto lavorativo presso l’ufficio dello sceriffo della contea. Interrogato sull’accaduto e su quanto avrebbe influenzato le sue prestazioni in campo, Artest risponde così: "That’s not a problem. The hardest problem is everything else. Basketball, that’s easy.” Inutile dire che anche la sua avventura a Sacramento termina dopo poco tempo, lasciando negli annali due episodi tanto curiosi quanto omologhi. Dopo i Playoffs del 2005, gli unici giocati in maglia Kings, offre di rinunciare al proprio stipendio se avessero rifirmato il compagno Bonzi Wells in scadenza di contratto, stessa offerta che ripropone quando ad essere a rischio è la permanenza di Rick Adelman in panchina; nessuna delle due trattative finisce come desiderato da Ron e le sue parole si disperdono nel vento senza darci opportunità di sapere cosa sarebbe effettivamente successo. La nuova destinazione di Artest è Houston dove si riconcilia con l’amato coach Adelman. Al secondo round dei Playoffs seguenti, quelli del 2009, va in scena il primo atto della travagliata storia tra Artest e Kobe Bryant.
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Nulla di strano, direte voi, se non fosse per quello che era successo un annetto prima di questa serie. NBA Finals 2008, gara 6. I Boston Celtics campioni (quelli dei Big Three, per intenderci) stanno festeggiando la vittoria contro i loro rivali storici dei Lakers. Kobe è rimasto da solo sotto la doccia, a cercare di metabolizzare la sconfitta quando sente qualcuno entrare. Il resto della vicenda l’ha raccontato Phil Jackson:
"Dopo la devastante sconfitta in gara 6 contro i Boston Celtics, Ron Artest è entrato nel nostro spogliatoio, Kobe Bryant si stava facendo la doccia, e ha detto: ‘Coach, posso aiutare la tua squadra, posso vincere quell’anello con i Lakers.’ Gli ho risposto ‘Grazie Ron, è molto gentile da parte tua, apprezzo la tua comprensione. Vedremo cosa succederà il prossimo anno.’ Dopodiché è entrato in doccia e ha detto lo stesso a Kobe. Da quel momento Kobe ha sempre saputo quali fossero le intenzioni di Artest.” Phil Jackson Come auspicato da Ron, dopo una sola stagione ai Rockets, i Lakers decidono di portare il suo talento a Los Angeles grazie alla free agency. Artest dimostra sin dall’inizio dei Playoffs di essere più che determinato a tener fede all’impegno preso due anni prima con Phil Jackson e Kobe. Segna il canestro che fa girare la serie in favore dei Lakers durante le Western Conference Finals contro i Phoenix Suns di Nash e Stoudemire: gara 5 e serie sul 2-2, la partita è in parità e i Lakers hanno l’ultima rimessa con 3.5’’ sul cronometro, perdere significherebbe sprecare il fattore campo ed essere costretti a vincere in Arizona annullando il match-point dei Suns; Odom la passa a Kobe il quale tira in mezzo a due avversari, la palla rimbalza sul ferro e Artest con un tap-in vincente porta la serie sul 3-2 in favore dei gialloviola. I Lakers arrivano in finale, dove trovano gli stessi Celtics che due anni prima li avevano costretti alla sconfitta più pesante nella storia di una gara che assegna il titolo NBA (39 punti di differenza). La serie è delle più equilibrate e si decide solo alla settima partita, a chiuderla è una tripla di Artest a un minuto dalla fine che porta il vantaggio dei Lakers a due possessi pieni. Phil Jackson lo definirà “l’MVP di gara 7″, ma la parte migliore deve ancora arrivare. La conferenza stampa a fine partita ritengo sia una piccola perla in grado di dare la dimensione dell’uomo che è Ron Artest, al netto dei pregi, difetti o contraddizioni. Il ringraziamento alla periferia dov’è cresciuto, alla sua psicoterapista, la digressione sui suoi compagni ad Indianapolis non avranno a che fare con la serie contro i Celtics, ma hanno molto a che fare con la persona di Ron Artest e il suo impatto in quella gara 7.
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Intervistatore: Venti punti, cinque rimbalzi, cinque palle rubate. Sembra che tu abbia messo il tuo zampino dovunque stasera per i Lakers. È per questo che sei venuto qui? Ron Artest: Come prima cosa voglio dire (prima di impazzire, cosa che farò molto presto) Dio mi ha messo in questa situazione e, bella o brutta che sia, lo voglio ringraziare per la benedizione. Una gara 7, con il vantaggio del fattore campo. Abbiamo buttato via gara 2 (o io ho buttato via gara 2), gara 7, la vuoi vincere. Bella o brutta, voglio ringraziare Dio per l’opportunità di essere qui. Come ho detto prima, lo sapete, quand’ero più giovane ho abbandonato la mia squadra ad Indiana. Ero così giovane, così egoista. E ho mollato. Donnie [Walsh], Larry [Bird], Jermaine [O'Neal], [Jamaal] Tinsley, [Jeff] Foster – che non molla mai, combatte per te, per la sua squadra – Stephen Jackson – che aveva già un anello ma ha sempre combattuto per tutti noi – e tutti gli altri. E alle volte mi sento un codardo quando li vedo perché è come se fosse ‘Ehi, sono ai Lakers, abbiamo avuto una chance di vincere, ma avevo una chance di vincere anche con voi, ragazzi’. È così, e mi sono sempre sentito come un vigliacco. Non pensavo Dio mi avrebbe dato ancora un’occasione del genere, a causa di come mi ero comportato. Ecco, quindi mi sento fortunato e, ehm, ho completamente dimenticato la domanda che mi avevi fatto.” La stagione seguente Artest decide di donare il suo unico anello di campione NBA ad una sorta di “pesca di beneficenza”, riuscendo a raccogliere più di 650,000$, cifra ridistribuita tra vari istituti che si occupano di salute mentale, non a caso. Infatti, nonostante non sia mai stata confermata da fonti ufficiali, si è fatta strada negli anni l’ipotesi che Artest soffra di disturbo bipolare, voce a cui in tutta sincerità si fatica a non credere approcciandosi a lui e alla sua storia personale. Comunque, parlando di fatti, questo gesto gli vale la vittoria del J. Walter Kennedy Citizenship Award, premio che ogni anno l’NBA assegna a un membro della lega per il suo impegno verso la comunità, impegno che Artest sta portando avanti tuttora. Sull’onda di questo premio che accoglie con enorme gratitudine ed onore, Artest inizia un nuovo capitolo della propria vita. Il 1 6 settembre 2011 la storia di Ron Artest, metaforicamente, finisce ed inizia quella di Metta World Peace: il nuovo nome, Metta, è una parola proveniente dalla cultura induista/buddhista che significa fratellanza ed amore. Nonostante le dichiarazioni riguardo al voler essere un’ispirazione per i ragazzi e all’energia positiva in grado di diffondersi grazie alla nuova identità, credo fermamente che il cambio di nome sia stato concepito dalla sua mente in
primis a scopo personale e terapeutico, quasi a voler esorcizzare la parte di sé che ha cercato di combattere per anni ma che è troppo spesso tornata a galla; credo ciecamente nella sincerità del suo gesto. Purtroppo per lui, però, certe scuole di pensiero ritengono che non sia possibile eliminare a piacimento parti del proprio essere; vedendo ciò che accade un anno più tardi viene quasi voglia di crederci. Durante una partita contro i Thunder, dopo un canestro esulta piantando una gomitata nella tempia a James Harden. Harden riporta una commozione cerebrale dalla quale guarisce in pochi giorni, Metta viene travolto da un ciclone mediatico dal quale la sua immagine non può che uscirne a pezzi. Sette giornate di sospensione, questo il verdetto dell’allora commissioner David Stern. World Peace si è scusato in seguito con Harden e i Thunder, dichiarando la gomitata come involontaria e speranza nella veloce ripresa del barba. La descrizione migliore di quel gesto, però, credo stia in queste parole pronunciate il giorno della sua sospensione:
"Kevin [Durant] non aveva chance. L’ho spinto via, sono saltato e ho schiacciato, ma a quel punto ero troppo emotivo. È sembrata rabbia, ma c’era un sacco di passione. Ma era incontrollabile. Era un fuoco incontrollabile, era passione incontrollabile. Era davvero troppo, davvero troppo.” Metta World Peace Successivamente la carriera di World Peace ha un declino ricalcante quello dei Lakers, gli infortuni non gli permettono di tornare a giocare ai suoi livelli nemmeno dopo il trasferimento ai New York Knicks l’estate scorsa; la sua immagine agli occhi dei più rimane scolpita nel tempo a quella gomitata. There’s a thin line between love and hate, scrivono gli Iron Maiden proprio l’anno in cui Artest entra in NBA, just a thin line drawn between being a genius or insane. C’è una linea sottile tra coloro che amano Ron Artest e coloro che lo odiano, tanto quanto sottile è la linea tra il suo essere una persona sincera dal grande cuore e una persona pericolosa con un disturbo bipolare alla costante ricerca d’equilibrio. Forse quella linea è tanto sottile da non esistere nemmeno, da essere solo un residuo della nostra cultura manichea che ci chiede costantemente di scegliere tra luce e buio, tra bianco e nero. Credo che analizzare il proprio giudizio su Ron Artest possa essere un buon modo per rendersi conto di quanto sia sottile la propria linea interiore, quella che separa il bene dal male o il giusto dallo sbagliato, e possa aiutarci a valutare se la scelta di uno schieramento sia effettivamente migliore della più consapevole accettazione.
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"Per la stampa dei bianchi Jesus non andava bene, perciò cominciarono a chiamarlo Black Jesus." Jake Shuttlesworth nel film He Got Game WHO IS: Vernon Earl Monroe nasce a Philadelphia il 21 novembre 1 944. Da bambino mostra interesse nel football e nel baseball, ma poi improvvisamente, all’età di 1 4 anni, cresce superando il metro e 90 e di conseguenza inizia a dedicarsi al basket dei playground di Philly. In breve tempo la sua popolarità aumenta grazie al suo stile di gioco spettacolare ma allo stesso tempo efficace, tanto che i suoi compagni di high school lo soprannominano Thomas Edison a causa di tutti i movimenti rivoluzionari che inventa. A livello nazionale però è ancora semi sconosciuto, tanto che non riceve offerte da college della Divison I e si iscrive alla Winston-Salem State University, istituto afro americano del North Carolina che partecipa al campionato di Division II guidato in panchina dal futuro Hall of Famer Clarence Gaines. Il primo anno è di apprendistato e si chiude con 7.1 punti di media. Nell’anno da sophomore mette a referto 23.2 a partita, in quello da junior 29.8 e in quello da senior chiude con l’incredibile media di 41 .5 punti a partita, guidando i Rams ad un record di 31 vittorie e soltanto 1 sconfitta e alla vittoria del titolo di Division II, venendo eletto miglior giocatore della Division II e guadagnandosi il soprannome di Earl The Pearl. Terminata la formazione al college, Earl, due volte All-American, è pronto a fare il grande salto in NBA.
NBA CAREER: Monroe è ormai sulla bocca di tutti. Con la prima scelta al Draft 1 967 i Detroit Pistons chiamano Jimmy Walker, guardia talentuosissima proveniente da Providence che figura anche come ultima chiamata del Draft NFL dello stesso anno nonostante in vita sua non abbia mai giocato a football, con la seconda gli allora Baltimore Bullets (oggi Washington Wizards) non si lasciano scappare Earl. The Pearl approda nella peggior franchigia NBA ma già dal primo anno mette in mostra le sue grandi doti offensive, realizzando 24.3 punti di media, segnandone 56 contro i Lakers, tutt’ora terza miglior prestazione per una matricola, e vincendo il premio di rookie dell’anno. Nella seconda stagione i Bullets draftano Wes Unseld, costruendo una coppia che li porta dalle 36 vittorie della stagione precedente alle 57 di quella ’68-’69. Unseld diventa il secondo Bullets in due anni ad essere nominato Rookie of the Year e la franchigia del Maryland si qualifica ai Playoffs dove però viene eliminata al primo turno dai Knicks con il punteggio di 4-0. In questa stagione Monroe viene convocato all’All Star Game dove realizza 21 punti lasciando sbigottiti gli spettatori per la spettacolarità delle sue azioni, ed inserito nel primo quintetto NBA grazie ai 25.8 punti a partita.
"La cosa fondamentale è che io non so cosa sto facendo con la palla, e se non lo so io sono piuttosto sicuro che non lo sappia nemmeno il giocatore che mi sta marcando." Earl Monroe L’anno successivo i suoi 23.4 punti guidano ancora i Bullets ai Playoffs dove però i Knicks passano ancora, questa volta 4-3. Nella quarta stagione da pro, porta ancora all’offseason Baltimore con una media di 21 .4 punti, guadagnandosi la seconda partecipazione all’All-Star Game. Ancora Knicks, questa volta alle Eastern Conference Finals, ma a differenza degli anni precedenti finalmente i Bullets vincono, 4-3, ed arrivano per la prima volta nella loro storia alle Finals, dove però vengono spazzati via dai Bucks di Alcindor e Robertson.
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Al termine della stagione ’70-’71 Monroe inizia a desiderare di essere ceduto e come mete preferite indica i Lakers, i Bulls e i Sixers. Dopo sole quattro partite nella stagione ’71 ’72, in cui stava comunque viaggiando ancora oltre i 20 punti di media, i Bullets chiudono uno scambio clamoroso cedendo la loro stella ai rivali della Grande Mela. Per Monroe inizia una nuova vita, infatti nei Knicks militava il suo grande avversario, Walt Frazier, e dopo essere stato il franchise player a Baltimore decide di fare un passo indietro, non pretendendo le chiavi della squadra ed applicandosi per migliorare quegli aspetti del gioco, come la difesa ed il gioco di squadra, in cui ancora era carente, stupendo tutti gli addetti ai lavori che erano piuttosto scettici sulla sua capacità di adattarsi al nuovo ruolo. Le sue medie realizzative calano, passa dagli oltre 20 punti a partita agli 11 .4 del primo anno a New York, ma insieme a Frazier va a formare un backcourt formidabile, conosciuto come il “Rolls Royce Backcourt”. Oltre alle due guardie, i Knicks potevano contare su giocatori del calibro di Willis Reed (eroe delle Finals due anni prima), Jerry Lucas e Dave DeBusschere. Con questo grandissimo roster tornano in Finale, dove però i Lakers si prendono la rivincita con il punteggio di 4-1 . L’anno successivo Monroe realizza 1 5.5 punti, i Knicks tornano in Finale nuovamente contro i Lakers e questa volta vincono, ribaltando il risultato dell’anno precedente, 4-1 . Nella stagione ’73-’74, la franchigia della Grande Mela è ancora tra le favorite, ma viene fermata alle Finali di Conference dai Celtics, futuri campioni NBA. Per Monroe 1 4 punti di media giocando solo 41 partite a causa di alcuni infortuni. Al termine della stagione Reed annuncia il ritiro, e con lui anche DeBusschere e Lucas. Monroe torna ad essere uno dei principali terminali offensivi venendo convocato per la terza volta all’All Star Game, ma la squadra, per la prima volta negli ultimi otto anni, chiude con un record negativo di 40 vittorie e 42 sconfitte, riuscendo però a qualificarsi ai Playoffs dove però viene eliminata dai Rockets al primo turno. Nella stagione seguente ancora record negativo, 38-44, e questa volta niente Playoffs, nonostante Monroe chiuda, per l’ultima volta in carriera, oltre i 20 punti di media, 20.7 per la precisione. L’anno successivo, nonostante l’acquisto di Bob McAdoo, MVP della stagione ’74-‘75 che chiude con 26.7 punti e 1 2.7 rimbalzi di media, e l’ennesima ottima stagione di Monroe, convocato ancora per l’All Star Game, e Frazier (1 9.9 di media per il primo e 1 7.4 per il secondo) ancora niente Playoffs. Frazier passa ai Cavs mentre Reed viene nominato Head Coach e sotto la sua guida, grazie alle prestazioni di
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McAdoo e di un Monroe diventato ormai vero e proprio mentore della squadra (1 7.8 punti di media), la stagione ’77’78 si chiude con il record di 43 vittorie e 39 sconfitte. I Knicks sembra abbiano ritrovato equilibrio, Black Jesus continua a stupire con il suo gioco imprevedibile e l’asse formato da lui e McAdoo sembra possa funzionare, ma invece arriva l’eliminazione al secondo turno contro i Sixers con sweep annesso. L’anno successivo Earl inizia ad avere seri problemi alle ginocchia, il suo minutaggio viene ridotto a poco meno di 22 minuti a partita ma nonostante ciò chiude ancora in doppia cifra di media con 1 2.3 punti. Gli infortuni non lasciano in pace nemmeno McAdoo ed i Knicks chiuduno con il record di 31 vittorie e ben 51 sconfitte. Nel 1 980, a 36 anni, dopo che le sue ginocchia sono peggiorate costringendolo a saltare 30 partite e a giocare nelle rimanenti soltanto 1 2 minuti di media, Earl “The Pearl” Monroe decide di ritirarsi, ponendo fine ad una carriera leggendaria.
Ha portato il playground sui parquet dell’NBA. Il suo gioco ricco di finte, penetrazioni ed appoggi in controtempo è unico, tanto che lui stesso, parlando dell’NBA moderna, dice di non aver ancora visto un giocatore che gli ricordi il suo modo di giocare. Nella sua bacheca ci sono il Titolo NBA del 1 973, 4 convocazioni all’All Star Game, il premio di Rookie of the Year del 1 968, l’All-NBA First Team del 1 968, la nomina di Hall of Famer e il ritiro della maglia #1 5 da parte dei Knicks e #1 0 da parte dei Wizards. Chiude con 1 7454 punti, 2796 rimbalzi e 3594 assist, entrando nella leggenda NBA.
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“Febo asoma, ya sus rayos iluminan el histórico convento” Se ascoltate un essere umano cantare queste parole, state pur certi che state ascoltando un argentino. L’Argentina, el Mar Dulce, il luogo in cui si parla il vero castellano, perché nonostante le influenze italiane e inglesi, checché ne dicano in Colombia ed Ecuador, lo spagnolo più elegante lo parlano nella tierra de la plata. A 1 4000 chilometri di distanza dal convento di Rosario citato nel testo, seduto su di un pullman diretto all’O.A.K.A. Olympic Hall di Atene, Manu Ginóbili canta la Marcha de San Lorenzo, probabilmente il canto di battaglia più famoso nella storia dell’umanità. Tutte le nazionali argentine, prima di qualsiasi incontro la cantano, e la generación dorada non fa eccezione. Mentre il pullman è invaso dalle voci dei suoi compagni che cantano a gran voce la marcia, Ginóbili, seduto nelle prime file con l’amico fraterno Pepe Sanchez, le sussurra. Manu è un tipo notoriamente allegro, sempre sorridente ed educato, è la classica persona che se ti vede dall’altra parte del campo prima di una partita, corre a salutarti, non importa che tu sia suo fratello, un semplice conoscente o se tu abbia mai giocato a truco con lui da bambino. Quella volta però no. Manu è concentrato, le parole escono fuori da sole dalla bocca, mentre col pensiero vola in posti in cui si può arrivare solo con la mente.
Quando la notizia oltrepassò Panama, ed arrivò a Bahía, Manu era certo che quel Ginóbili che volevano tanto in America era senz’altro Sepo, el hijo mediano. Di certo non poteva essere lui, el tercero, quello che nessuno voleva, quello che non sapeva giocare e che ancora oggi, dopo uno Scudetto, un’Eurolega, un oro olimpico e tre titoli NBA, continua a definirsi il più scarso dei fratelli Ginóbili. Già, perché Don Jorge e Doña Raquel di figli ne avevano avuti tre, Leandro, Sebastian detto Sepo e Manu, e tutti e tre avevano dimostrato sin da piccoli un amore sconfinato per la “otra pelota”. A Bahía Blanca funzionava così, poco futbol e tanto basquet, e così era sempre stato, dai tempi in cui papà Jorge era il playmaker della Bahiense, una delle sette squadre di basket della città. L’amore per la otra pelota l’avevano preso da lui, un figlio d’immigrati marchigiani arrivati in Argentina quando Juan Perón non era ancora al potere.
“With the 57th selection in the 1999 NBA Draft, the San Antonio Spurs select Emanuel Ginobìli from Argentina” Il viaggio di Manu parte da qui e sebbene il suo futuro lo abbia abituato a toccare le stelle, i sogni di quel pibe magro e bassino erano semplici: arrivare con la testa alla mensola, giocare in Europa e fidanzarsi con la bambina dei suoi sogni, Marianela Oroño; il tutto da compiersi in questo preciso ordine. Scorrendo i capitoli della sua vita, la profezia si è compiuta con largo margine di successo, dato che alla mensola ci è arrivato eccome – e soddisfazione personale, è diventato più alto di Leandro e Sepo –, l’Europa è stato un semplice viatico per arrivare a giocare in NBA ed infine la bella Marianela è diventata prima la sua ragazza e poi sua moglie. Proprio nell’anno del matrimonio, Manu avrebbe aggiunto un quarto punto alla personale lista, che nemmeno la fervida immaginazione di quel bambino di sette anni avrebbe potuto concepire, vincere le Olimpiadi di Atene. A luglio, la mattina del primo raduno pre-olimpico con la nazionale, il termometro segnava zero gradi. Il palazzetto era una cella frigorifera e i giocatori, con gli occhi ancora pieni di sonno, sembravano riluttanti all’idea di mettersi in calzoncini e canotta e allenarsi. Coach Ruben Magnano
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allora, decise di annullare la seduta di allenamento, c’era troppo freddo. I giocatori si voltarono imboccando l’uscita, quando ad un tratto sentirono un rumore di passi. Manu Ginóbili, coperto con un cappotto, aveva cominciato a correre per il palazzetto. Se lui correva, allora anche loro dovevano correre. Tutti i compagni ad uno ad uno, presero un giubbotto, e cominciarono a correre dietro di lui. In quel preciso istante, in quel momento magico, tutti capirono che avrebbero vinto le Olimpiadi.
L’Argentina era in finale, 54 anni dopo Roma ’60, l’ultima volta in cui El Sol de Mayo era salito sul podio di qualsiasi sport.
In semifinale, l’Argentina annichilì gli USA di Tim Duncan, derisi letteralmente dal talento di Ginóbili che in quell’occasione segnò 29 punti. Sulla panchina della squadra statunitense, che in barba al Dream Team del ’92 era stata ribattezzata “Nightmare Team”, accanto a Coach Brown, c’era Greg Popovich, lo stesso che cinque anni prima si era fatto convincere a chiamare con la 57esima scelta proprio quel Manu Ginobíli; allora l’accento era ovviamente sulla vocale sbagliata. Dopo una vittoria del genere, all’ombra dell’Olimpo contro gli Dèi del basket, i tifosi argentini impazzirono. Gli spalti dell’O.A.K.A. sembravano quelli della Bombonera:
modo carica della giusta tensione. Manu guardava la sua camiseta, la numero cinque, sapeva che nonostante tutti i suoi successi, quello che si apprestava a vivere era il momento più importante della sua vita. Come da tradizione Scola ricominciò a cantare La Marcha de San Lorenzo.
“Vamos vamos Argentina, vamos vamos a ganar! Esta barra quilombera no te deja no te deja de alentar”
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Il pullman che portava “el equipo de los sueños” all’O.A.K.A. per la finale contro l’Italia frenò di colpo, Manu venne distolto dai suoi pensieri, erano appena arrivati al palazzo. Negli spogliatoi non c’era Oberto, Marbury in semifinale gli aveva fracassato una mano, ma l’atmosfera era allo stesso
“Febo asoma, ya sus rayos iluminan el histórico conventoT” Se sul pullman Manu sussurrava quelle parole, ora le urlava con fierezza. Uscirono dagli spogliatoi e da una porta in fondo al corridoio videro spuntare Pozzecco, Bulleri e Soragna. Cantarono ancora più forte:
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“Avanza el enemigo a paso redobladoT” Quando entrarono in campo per il riscaldamento successe quello che nessuno avrebbe mai potuto immaginare. Dagli spalti trecento Hinchas impazziti cantavano a loro volta la Marcha de San Lorenzo:
“Y nuestros granaderos, aliados de la gloria, iscriben en la historia su página mejor”
Era una situazione irreale ma meravigliosa allo stesso tempo, i giocatori e i tifosi cantavano insieme il loro canto di battaglia. Il canto fu profetico, quel giorno quei nove granatieri, alleati con la gloria scrissero davvero la loro pagina migliore. Dopo la vittoria, con una medaglia d’oro al collo e una lacrima che gli solcava il viso, Manu si rese conto che oltre ad aver realizzato il sogno di una vita, aveva regalato un sogno all’intera nazione e alla sua Bahía Blanca, la tierra de la otra pelota.
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WHO IS: Peter Press Maravich nasce e cresce ad Aliquippa, in Pennsylvania, il 22 giugno 1 947. Suo padre, Petar “Press” Maravich, è un ex giocatore professionista di pallacanestro che ha giocato una stagione nella NBL e una stagione nella BAA prima di diventare allenatore collegiale. Proprio questa passione del padre per la palla a spicchi porta il giovane Peter ad avvicinarsi a questo mondo e all’età di sette anni ad imparare i fondamentali del gioco sotto l’occhio vigile di Petar. Pete mostra grandissimo talento con la palla tra le mani e si rinchiude giorno dopo giorno in palestra per allenarsi, ossessionato dal volersi migliorare. Dal 1 961 al 1 963 frequenta la Daniel High School a Central, in South Carolina, più giovane di un anno rispetto a tutti i suoi compagni e avversari, per poi trasferirsi insieme alla famiglia a Raleigh, in North Carolina, quando il padre diventa head coach di NC State. Qui frequenta la Needham B. Broughton High School ed in questi anni nasce il soprannome “Pistol”, che trae origine dal suo stile di tiro simile al movimento effettuato per estrarre un revolver dalla fondina. Pete completa la carriera liceale all’Edwards Military Institute, per poi andare alla Louisiana State University, in cui allena suo padre.
Le regole dell’epoca proibivano alle matricole di giocare per la squadra principale dell’università, quindi Pistol gioca nella
squadra dei freshman nella stagione ’66-’67 che chiude realizzando la cifra mostruosa di 43.6 punti a partita. L’anno successivo viene inserito nella squadra dell’università, squadra in cui gioca tre stagioni realizzando rispettivamente 43.8, 44.2, e 44.5 punti di media a stagione, segnando 50 punti in 1 0 delle 31 partite giocate nell’anno da senior, anno in cui vince il primo di miglior giocatore del panorama collegiale, venendo inserito per tutte e tre le stagione negli All-Americans e chiudendo con 3667 punti segnati, ancora il maggior numero di punti segnati da un giocatore nella carriera universitaria. Cifre impressionanti, soprattutto se si considera che il tiro da tre punti è stato introdotto nel basket collegiale nella stagione ’86-’87, ma che sono accompagnate da qualche critica causata dal record non esaltante di LSU durante queste tre stagioni, 49-35 il record complessivo. Pete viene quindi scelto alla terza chiamata dagli Atlanta Hawks nel Draft del 1 970, dietro a Bob Lanier e Rudy Tomjanovich, ed è pronto per affacciarsi al mondo NBA e a rimpiazzare Joe Caldwell, passato alla ABA. NBA CAREER: Nonostante lo scetticismo all’interno dello spogliatoio, la stagione di debutto di Maravich è ottima: chiude con 23.2 punti di media, migliora i compagni zittendo le critiche secondo cui non fosse adatto a giocare insieme a un playmaker scorer come “Sweet” Lou Hudson (che termina la stagione con 26.8 punti a partita, la migliore in carriera) e viene inserito nell’All-Rookie First Team. Pete è un giocatore spettacolare, porta sul parquet moltissimi movimenti tipici del basket di strada, come tiri fuori equilibrio, cambi di mano dietro la schiena, passaggi in mezzo alle gambe, tutte giocate che erano considerate quasi oltraggiose in un periodo in cui il basket era fatto di fondamentali, fondamentali e ovviamente fondamentali. Il suo gioco è caratterizzato anche da un jumpshot micidiale, sia da vicino che oltre un’ipotetica linea del tiro da 3 punti.
Gli Hawks, nonostante una stagione negativa con 36 vinte e 46 perse dopo che l’anno precedente avevano chiuso con il
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miglior record della Western Division e si erano fermati soltanto alla finale di division contro i Lakers, si qualificano ai playoffs dove però vengono eliminati al primo turno dai New York Knicks. La seconda stagione è peggiore a livello individuale, 1 9.3 punti di media, e gli Hawks replicano il record precedente ed escono ancora al primo turno, questa volta contro i Boston Celtics nonostante i 27.7 punti a partita di Pistol.
quota 40 punti, 4 volte sopra quota 50 punti, 68 punti il 25 febbraio 1 977 in faccia a Walt Frazier. Guida la Lega per punti realizzati (2273), tiri tentati (2047) e liberi realizzati (501 ). Ovviamente viene convocato alla partita della stelle e inserito per il secondo anno consecutivo nell’All-NBA First Team.
La stagione ’72-’73 è quella della consacrazione: Maravich chiude con 26.1 punti, 6.9 assist e 4.4 rimbalzi a partita, realizzando 2063 punti e formando, insieme a Sweet Lou autore di 2029 punti, la seconda coppia di sempre con più di duemila punti ciascuno. Questa stagione vale la convocazione all’All-Star Game e l’inserimento nell’All-NBA Second Team, ma gli Hawks, dopo una stagione positiva chiusa con 46 vittorie e 36 sconfitte, vengono ancora eliminati al primo turno dei playoffs, ancora per mano dei Celtics. L’ultima stagione in Georgia vede crescere ancora le cifre di Pete che con 27.7 punti a partita chiude al secondo post nella classifica dei marcatori, dietro a Bob McAdoo, e viene convocato per la seconda volta all’All-Star Game. Atlanta però conclude con 35 vittorie e 47 sconfitte, non centrando la postseason. L’estate del ’74 è caratterizzata dalla nascita di una nuova franchigia, i New Orleans Jazz, che vogliono inserire nel roster un giocatore di prima fascia che possa essere il volto dell’organizzazione e che possa infiammare il pubblico. I Jazz quindi cedono Dean Meminger, Bob Kauffman, due prime scelte future e due seconde scelte future per assicurarsi l’ex stella della Louisiana State University. La prima stagione nella Big Easy però non è molto positiva e si chiude con 21 .5 punti a partita tirando con il 41 .9% dal campo (career low). Inoltre, come prevedibile, i Jazz chiudono con il peggior record della Lega, 23-59. Gli anni successivi però sono senza dubbio i migliori di Maravich, che inizia ad essere non soltanto spettacolare ma anche maledettamente efficace. Nella stagione ’75-76 gioca 62 partita a causa di infortuni minori, realizza 25.9 punti a partita (terzo nella classifica marcatori dietro a McAdoo e Abdul-Jabbar) tirando con il 45.9% dal campo (career high) e partecipa al suo terzo AllStar Game ma i Jazz, nonostante i grandi miglioramenti nel roster, chiudono con 38 vittorie e 44 sconfitte e non si qualificano per i playoffs. L’ottima stagione di Maravich viene comunque premiata con l’inserimento nell’All-NBA First Team. La stagione successiva è la migliore in carriera: 73 partite giocate, 31 .1 punti a partita che gli permettono di vincere la classifica marcatori, 5.4 assist e 5.1 rimbalzi, 1 3 volte sopra
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I critici però fanno notare come il suo gioco sia molto individuale, tanto che quando è in campo sembra quasi che si trovi ancora in palestra, ad allenarsi solitario. La stagione ’77-’78 è caratterizzata da un intervento al ginocchio, da un’infezione batterica e da una tendinite all’altro ginocchio, che insieme fanno saltare 32 partite alla stella di NOLA. L’infortunio al ginocchio rimediato contro Buffalo è la classica diapositiva della sua intera carriera: piuttosto che effettuare un semplice scarico, Pete salta per cercare un passaggio tra le gambe ma cade male e rimedia una brutta distorsione. Non si riprenderà mai da questo infortunio, non tornerà mai più il giocatore di prima. In 50 partite chiude comunque con 27 punti di media e la
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convocazione all’All-Star Game e l’inserimento nell’All-NBA Second Team. Ancora niente playoffs per i Jazz che chiudono con 39 vittorie e 43 sconfitte.
Dopo aver realizzato che i problemi al ginocchio non sarebbero mai migliorati, Maravich decide di ritirarsi al termine della stagione.
Nella stagione seguente le cifre di Maravich peggiorano. Salta 33 partite, chiude con 22.6 punti di media e gioca nell’All-Star Game, ma non riesce più ad essere il giocatore spettacolare e allo stesso tempo efficace di prima, a causa degli infortuni e del tutore utilizzato sul ginocchio operato che rallenta i suoi movimenti. Come se non bastasse, l’anno successivo la franchigia capisce che New Orleans non è il posto giusto e si trasferisce a Salt Lake City. Maravich inizia a lamentarsi per il minor impiego, viene addirittura panchinato per 24 partite da coach Tom Nissalke, ma la realtà è che non è più un giocatore indispensabile, tanto che dopo 1 7 partite i Jazz decidono di tagliarlo il 1 7 gennaio 1 980.
1 5948 punti, 3563 assist, 2747 rimbalzi in 658 partite giocate, tirando con il 44% dal campo, l’82% dalla lunetta del tiro libero e il 66.7% da tre punti. Sì, perché nell’ultima stagione giocata da Pete l’NBA ha inserito la linea del tiro da tre punti e Pistol, nonostante lo scarso utilizzo e le pessime condizioni fisiche, chiude con 1 0/1 5 dall’arco. Miglior giocatore collegiale nel 1 970, SEC Player of the Year e All-American nel ’68, ’69 e ’70, NBA All-Rookie First Team nel ’71 , All-NBA First Team nel ’76 e ’77, All-NBA Second Team nel ’73 e ’78, NBA scoring Champion nel ’77, 5 volte All-Star (’73, ’74, ’77, ’78, ’79), numero 7 ritirato dai New Orlans Pelicans e dagli Utah Jazz, inserito nella Basketball Hall fo Fame nel 1 987. Dopo essersi ritirato nel 1 980 si avvicina allo yoga e all’Induismo. Successivamente diventa un Cristiano Evangelico e afferma: “Non voglio essere ricordato come un giocatore di pallacanestro ma come un cristiano, una persona che fa il possibile per servire Gesù.” Il 5 gennaio del 1 988 “Pistol” Pete Maravich collassa e muore mentre sta giocando una partitella nella palestra della chiesa di Pasadena, California. L’autopsia rivela che la causa del decesso è stata una rara malattia congenita: è nato senza l’arteria coronaria sinistra, che porta il sangue alle fibre muscolari del cuore. La sua arteria coronaria destra era abbastanza grande per compensare questa mancanza. Il medico che ha effettuato l’autopsia ha definito la sua carriera un vero e proprio miracolo.
Cinque giorni più tardi viene firmato dai Boston Celtics, la squadra con il miglior record in NBA, e a sorpresa si presenta come un giocatore nuovo. Gioca soltanto 1 7 minuti di media partendo dalla panchina ma si mette al completo servizio dei compagni. Con 11 .5 punti aiuta i Celtics a chiudere con il miglior record della Lega, 61 -21 , passa per la prima volta il primo turno dei playoffs ma i Celtics vengono eliminati alle Eastern Conference Finals dai Philadelphia 76ers di Julius Erving.
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