Sector Noir

Page 1

Track by Track: Katatonia, My Dying Bride Special Guest : Rosario Giuliani Art : Mistiis Focus: Silje Wergeland

Reviews:Tiamat, Death, Pig Destroyer, Vintersorg, Baroness, Grave Digger, Enslaved and many more

Anathema, The Chant, Elvenking, Liv Kristine, The Pineapple Thief, Spiders, Tame Impala, A Place To Bury Strangers Specials: Tweak Bird, SEID

PROMO ISSUE

#0

March 2013

Fernando Ribeiro Ode alla Luna

1


2


3


Direttore Responsabile Federica Sarra Fred@sectornoir.com Vicedirettore/Caporedattore Centrale Francesco Passanisi Francesco@sectornoir.com Art Director Emelie Vandewalle Photo Editor Jean Philippe Woodland Grafica ed impaginazione Giacomo Cerutti Editors (English TEXT) Max Carley Jodi Mullen Contributors Mattia Bertozzi Giacomo Cerutti Gabriele D’Angiolo Francesco Melis Federico Sanna Stefano Solaro Photographers Jorre Janssens Catherine Jane Robertson Redazione sectornoir@sectornoir.com Contact info@sectornoir.com Marketing adv@sectornoir.com In copertina Fernando Ribeiro - Moonspell Photo: Jorre Janssens Ăˆ severamente vietata la riproduzione totale o parziale dei contenuti, foto, loghi ed altri elementi contenuti nella rivista previa autorizzazione del direttore.

CONTENTS ENTER THE SECTOR

FOCUS Silje Wergeland pag. 6 COVER STORY Fernando Ribeiro pag. 8

INTERVIEWS Anathema pag. 14 Spiders pag. 18 The Chant pag. 20 Liv Kristine pag. 22 Elvenking pag. 23 The Pineapple Thief pag. 28

SPECIAL BAND Tweak Bird pag. 32 Seid pag. 34

track by track Katatonia pag. 36 My Dying Bride pag. 38

REVIEWS pag. 40 Photography Francesco Castaldo pag. 42 Cinema Quentin Tarantino pag. 48 ART MISTIIS pag. 53 Culture John Niven pag. 54 People/TRAVEL Disco Club pag. 57

EXTRA NOIR A Place To Bury Strangers pag. 59 Tame Impala pag. 60 Reviews Extra Noir pag. 61 special guest Rosario Giuliani pag. 62 Style off pag. 65

ENGLISH TEXT A Place To Bury Strangers pag. I Silje Wergeland pag. II Fernando Ribeiro pag. IV Liv Kristine pag. VI The Pineapple Thief pag. VIII


enter the sector Layout by GIACOMO CERUTTI


FOCUS


FOCUS

SILJE WERGELAND MODERN ALLURE Text Federica Sarra Photo Gema Pérez

Silje Wergeland è arrivata in punta di piedi in una band (The Gathering) alla ricerca di una direzione dopo la dipartita della voce storica, trovandosi alle prese con un’eredità pesante. Oggi “Disclosure”, ultima fatica della band, racconta dell’alchimia che si è creata con la splendida voce di Silje, riuscendo a colmare quel vuoto che molti ritenevano incolmabile. Nessuno ha più nostalgia del passato.

“GUILTY”

Il mio primissimo EP con gli Octavia Sperati ma anche il titolo di una canzone che abbiamo riregistrato e pubblicato su “Grace Submerged”, l’ultimo album del 2008.

INFANZIA È stato qualche tempo fa! OGNI GIORNO Adesso per me vuol dire godere della gioia della maternità, ho una bimba di 7 settimane. Sono stata fortunata a non avere una vita “formato A4”, standard e nella norma, così molte delle mie giornate hanno sempre qualcosa di speciale in un modo o in un altro.

VOCE È uno strumento incredibile! Adoro utilizzarlo! ANIMA Brilla attraverso le tue parole ed i tuoi occhi.

OLANDA La mia seconda casa. AMORE La vita non è niente senza amore. LYRICS Una parte importante in ogni canzone. KATATONIA Una band grandiosa di eccellenti musicisti. E’ stato un onore aver cantato nel brano “The One You Are Looking for is Not Here” del loro ultimo album Dead End Kings. Una canzone bellissima!

“TREASURE” La prima canzone che ho composto per i The Gathering, ho scritto sia la melodia che i testi. Una delle mie canzoni preferite di “The West Pole”.

FRONTWOMAN Quando ho cominciato a suonare avrei voluto essere

CITAZIONE “Mai dire mai”

una batterista o una cantante, sono contenta di aver scelto quest’ultima, anche se si è soggetti ad una certa pressione. Essere una frontwoman può essere visto in tanti modi, io preferisco definirmi un membro del gruppo, parte di un’unità.

AMBIZIONI Creare e suonare sempre di più! E provare ad essere più felice godendo di ogni piccolo momento prezioso. 7


COVER STORY FOCUS

FERNANDO RIBEIRO ODE ALLA LUNA Text Federica Sarra Photo Jorre Janssens

Parlare di Moonspell vuol dire trovarsi di fronte a qualcosa d’ inimitabile. Un sound che rappresenta da sempre il conflitto tra carne e spirito e che nel corso del tempo ha portato questa band ad avere un approccio unico al genere che propone, riuscendo ad impostare un personale universo musicale intriso di atmosfere folk indissolubilmente legate alla loro terra d’origine, melodie e pulsioni oscure sulle quali risplende un bagliore di autentica originalità. Fernando Ribeiro, leader carismatico ed autore di testi carichi di charme, ha traghettato la band attraverso gli anni ed i cambiamenti, grazie anche alla sua solida visione della vita.

LUNA

Sì, sono ossessionato dalla luna! E’ carica di un forte simbolismo, ad esempio nella poesia, da Baudelaire a Novalis, sono state scritte odi alla luna... Anche se non è facile definirla in poche parole, direi che ne sono affascinato perchè è ciò che illumina l’oscurità rivelando tutte le cose nascoste dal buio. Ed il nostro monicker proviene proprio da questo concetto.

SCRIVERE

È la cosa con la quale mi sento più a mio agio. Adoro leggere e scrivere perchè con le parole puoi fare davvero quello che vuoi. È molto più di un hobby, è una vera passione che talvolta supera la musica.

DOWNLOADING

Hhmmhh downloading, è una parola difficile... Ognuno ha le sue ragioni ma alla fine è illegale! Sta uccidendo la musica, il rispetto per gli artisti e purtoppo anche se non mi piace affato non è una situazione destinata a cambiare. Internet ha reso le persone più avare e pigre che scaricano di tutto per poi magari neanche ascoltare. È come se ci fosse più cibo di ciò che realmente uno può riuscire a mangiare! Ecco come la vedo. La mia non è un’opinione molto popolare ma trovo che il downloading illegale sia una cosa assolutamente sbagliata che uccide non solo il business ma anche l’ispirazione. Chi sostiene che la musica dovrebbe essere tutta gratis sbaglia di grosso e allora perchè non il caffe’ o altro?

PATRIMONIO

Diciamo che sono uno che si è fatto da solo in realtà, anche se provengo da una famiglia molto tradizionale, legata ai valori, sai una tipica famiglia portoghese. Adesso che sono diventato padre spero di riuscire a trasmettere a mio figlio tutto quello che sono io e tutto il meglio che ho da dare come persona.

NOIR

Mi piace, ha un bel suono! Quando abbiamo terminato di scrivere Night Eternal si è come conclusa una fase e così Alpha Noir rappresenta un nuovo inizio, rafforzato dalla parola “Alpha” e l’espressione francese “Noir” che interpreta un genere, uno stile, come il film noir ed ha in se’ una certa eleganza che volevo accostare ad una parola forte. Nel mio caso ( sorride, del resto sta rilasciando un’intervista per Sector Noir!) Noir è riferito ad Alpha, queste due parole conferiscono un significato profondo all’album. 8


COVER STORY COVER STORY

9


10


COVER STORY

11


COVER FOCUS STORY

Dimmi tutto ciò che c’è da sapere su Alpha Noir & Omega White... Sicuramente la primissima cosa, per nulla scontata, è che è stato davvero grandioso lavorare a questa doppia release. Sono stati quattro anni di sperimentazioni, di pensieri, di sogni, ricercando quel concept che è poi diventato Alpha/Omega. È stato un lavoro duro ma ci siamo anche divertiti molto e credo che si avverta nell’album. All’inizio non abbiamo pensato subito ad un doppio album, la nostra intenzione era quella di lasciarci guidare dalla musica. Quando abbiamo realizzato il primo demo per Alpha Noir, c’erano tre canzoni, Lickanthrope, Love Is Blasphemy and White Omega, in un primo momento pensavamo di fare come in passato, raccogliere queste diverse atmosfere ed emozioni e convogliarle in un solo album, come era stato per Memorial o Night Eternal ma in seguito abbiamo deciso di estendere la nostra visione e lavorare in maniera diversa, prendere più tempo per scrivere un maggior numero di brani ed avere una certa libertà di scelta, poter separare i brani metal più intensi di Alpha Noir dalle atmosfere più marcatemente gotiche di Omega White, senza il timore di comporre melodie che probabilmente non vuole ascoltare più nessuno! Questo è stato il principio creativo con il quale abbiamo continuato a lavorare. È stato un processo lungo ma siamo molto contenti del risultato, è qualcosa di molto diverso da ciò che abbiamo fatto in precedenza, probabilmente è l’album in cui abbiamo sentito di avere la massima libertà. Alla fine non vedevamo l’ora di rientrare in studio perchè i nostri pezzi erano lì ad attenderci e sicuramente abbiamo dei gran bei ricordi legati al making of di questo disco. Parlando della band in generale, a questo punto della vostra carriera come vorresti fossero visti i Moonspell di oggi? Per me non è semplice stabilirlo, io la vivo e la vedo in maniera differente, è la mia vita quotidiana. Sono venti lunghi anni che mi addormento e mi sveglio come cantante dei Moonspell. Tuttavia ritengo che il nostro pubblico sia diviso in due, una parte molto legata al passato e una generazione più giovane che è arrivata con Memorial nel 2006. Alcuni vengono da me e mi dicono “grandioso” mentre alcuni mi dicono “fa schifo”... Ma in realtà non so dirti quale sia la verità! Credo nessuna delle due cose, la nostra musica è molto legata al fattore umano. Inoltre, il fatto di provenire dal Portogallo, delle volte gioca a nostro favore mentre in altri casi per niente. Non penso di essere in grado di prevedere una reazione nella gente. Anche con Wolfheart, non sapevamo dove ci avrebbe portato, abbiamo lavorato sodo e siamo ancora qui, siamo una band forte anche grazie al nostro pubblico. Ad ogni modo spero che ci vedano come una band che ha la testa sulle spalle, in grado di offrire sempre qualcosa di nuovo attraverso la musica da cui siamo molto affascinati ed è ciò che vorremmo trasmettere loro. Ed il fatto di aver cambiato la vita di alcune persone con i nostri testi mi rende davvero molto orgoglioso. Ho una prospettiva molto romantica dei Moonspell! Qual’è il tuo messaggio per i nostri lettori? Vorrei ringraziarli per il supporto, dire loro che crediamo molto in questo lavoro. Li invito a scoprire il doppio album perchè può rivelarsi una gran bella esperienza. Li saluto!

12 12


13


INTERVIEW

ANATHEMA

ETERNAL SOUNDSCAPES Text Federica Sarra Photo Jorre Janssens

Ci sono luoghi che possono essere raggiunti solo attraverso le emozioni, sono i paesaggi dell’anima che gli Anathema riescono a dipingere in maniera perfetta, ideale, attraverso il loro caleidoscopio di note e colori in cui sensazioni di agonia ed estasi si contrappongono. Difficile immaginare il moderno progressive rock senza di loro. Vincent Cavanagh ci spiega il paradigma del loro mondo. Nietzsche afferma che “La vita senza musica sarebbe un’errore”, come credi sarebbe stata la tua vita se non avessi fatto musica? In realtà non ci ho nemmeno mai pensato! Credo che sarei stato comunque un artista. Sin da piccolo, dai tempi della scuola, ho sempre avuto due grandi passioni, l’arte e la musica e mi riuscivano piuttosto bene, al contrario del calcio! (ride n.d.r.) Sì, penso mi sarei orientato sulla grafica digitale, anche le nuove tecnologie rientrano fra le mie passioni. Quanto credi nella tecnologia digitale, applicata alla musica, pensi sia stimolante o preouccupante? Non necessariamente deve essere tutto o bianco o nero, ci

sono diversi punti di vista ed angolazioni dalle quali ossevare il fenomeno ed inoltre dipende dall’uso che se ne fa, ad esempio se sei un produttore di musica elettronica come Deadmau5, che tra l’altro ascolto, non puoi farne a meno. Il suo senso della melodia e la continua ricerca del suono sono apprezzabili, ciò che non apprezzo sono i produttori ed i musicisti che non hanno la conoscenza e la comprensione di quello che fanno, quelli che campionano samples senza criterio limitandosi ad aggiugere una base preconfezionata. In generale posso dire che la digitalizzazione della musica non mi spaventa nè mi preoccupa, ci saranno sempre musicisti che suoneranno gli strumenti, il Rock esisterà sempre, magari assiteremo a dei cambiamenti, a delle evoluzioni, così come ci sono dei trends musicali che non sono destinati a durare, come il fenomemo Dubstep. E dunque totale libertà creativa, pensi ci sia ancora nell’industria musicale moderna o c’è un qualche fattore che limita gli artisti? Voi come band, avete mai avvertito di essere sotto pressione? Assolutamente sì, la totale libertà esiste per quanto mi

14


INTERVIEW CONTENT

15


INTERVIEW

riguarda. E mai e poi mai mi sono sentito sotto pressione. Abbiamo la fortuna di essere con una label indipendente che crede fermamente nei propri artisti, fatta di persone capaci che sanno esattamente quello che fanno e lo fanno con impegno. L’unica pressione è quella che noi abbiamo imposto a noi stessi per spingerci a fare sempre meglio. Consideri “mainstream” una parola con un’accezione negativa? No, perchè?! Non penso. Se qualcosa ha un appeal sulle masse non per forza deve essere vista come una cosa negativa. Guarda i Radiohead per esempio, loro possono essere considerati “mainstream” ma hanno saputo mantenere un’integrità, senza mai scendere a compromessi. Allo stesso tempo non ce ne sono molti altri, forse i Muse. Ad ogni modo, non credo che sia una parolaccia! Come descriveresti il momento musicale che state vivendo, dalla release del vostro fortunato album al premio vinto ai Progressive Music Awards 2012? Penso che dobbiamo continuare a dare il meglio, sempre. Questa è la sfida più grande. Cerchiamo di non guardare troppo al futuro ma piuttosto ci concentriamo sul presente, canzone per canzone. Sono abbastanza ottimista se penso ai pezzi che abbiamo in cantiere al momento, credo proprio che il prossimo disco sarà molto interessante. Abbiamo intenzione di mettere insieme un demo già nei primi mesi del 2013. Quale sarà il tema trattato nel prossimo album? Non si tratterà sicuramente di un concept, noi scriviamo ciò che il cuore ci detta, liberamente. Alcuni dei temi principali riguarderanno i sogni, l’immaginazione, le persone, le esperienze, le situazioni, le domande, le risposte, ma per lo più domande! Sai, i grandi temi della vita. Riguardo a “Weather Systems”, c’è più espressione o impressione? Espressione, sempre. Si sarebbe potuto chiamare Emotional Systems oppure Internal Landscapes perchè ciò a cui vogliamo dare maggior risalto è l’emozione in fin dei conti. Sono emozioni vere, reali e vissute, esperienze che ci legano a ciascuna delle canzoni presenti nell’album, in cui anche l’ascoltatore può ritrovare se stesso e magari dire “Sì, è esattamente quello provo io”. Sai, provengo da una cultura, nel nord dell’Inghilterra, dove esprimere le proprie emozioni è talvolta considerato un segno di debolezza, soprattutto per un uomo e trasferirle in musica è una sorta di liberazione, oltre che un modo per riflettere sulle cose, guardandole da un’altra prospettiva. Per esempio, quando nostra madre morì, decidemmo di scrivere una sola canzone come tributo, incanalare in quell’unico pezzo, che doveva essere perfetto, tutte le nostre emozioni. È stato

importante e difficile, triste ma emozionale allo stesso tempo. Un processo indispensabile però. Cosa c’è in “Weather Systems”, si tratta di ricordi o passeggiate notturne? Sì, passeggiate notturne direi, mi piace questo termine! In particolare “The Lost Child”. Questa canzone è veramente frutto di un sogno. Ricordo che durante le registrazioni di “We’re Here Because We’re Here”, Danny mi svegliò nel bel mezzo della notte raccontandomi di aver sognato questo ragazzino che canticchiava un motivo, un sogno alquanto spettrale e sinistro, ma che si è talmente impresso in Danny che abbiamo deciso di registrare subito la melodia, quella notte stessa. Un dono forse? Sì, lo credo anch’io... Potremmo definire il vostro sound come Work In Progress? Piuttosto in evoluzione direi. Si espande e prende varie forme da solo. Per questo ritengo che abbia una vita propria e per come la vedo io, non credo si tratti di un sound a senso unico. Abbiamo delle canzoni, delle melodie ed uno stile che ci contraddistingue. Seguiamo un percorso e poi lasciamo che si sviluppi autonomamente, perseguendo un’evoluzione sia personale che musicale legata alla crescita di noi come individui. Non voglio neanche etichettare la mia musica, lascio ad altri il compito di farlo, certamente non abbiamo paura di sperimentare cose nuove. Non ci interessa ripeterci e non ci interessa fare ciò che gli altri vogliono, tutto viene dal cuore. Non fingiamo e questo il pubblico lo percepisce. Non si tratta di soldi o fama ma solo di musica. Abbiamo talmente tante idee ed ambizioni, che sento di aver fatto solo una piccola parte di tutto ciò che vogliamo ancora realizzare! Siete tutti cresciuti in Inghilterra insieme? Sì esatto, abbiamo condiviso la nostra infanzia e tutte le esperienze annesse. Ci conosciamo sin da piccoli, ma se ci penso adesso, non c’è stato niente che potesse farci pensare che un giorno avremmo fatto parte della stessa band. Nessuno nelle nostre famiglie, era muscista di professione, ma incredibilmente sembrava che tutti già sapessero che un giorno saremmo diventati dei musicisti, forse dal modo in cui eravamo ossessionati dalla musica! Cosa ascoltavate maggiormente all’epoca? Mi ricordo che guardavamo Live Aid con Freddy Mercury. Ma i Beatles sono stati la mia prima vera esperienza musicale. Quando avevo tre anni mia nonna mi aiutava a mettere la puntina del giradischi su “I Wanna Hold Your Hand”. Ma anche i Queen, gli U2 e tanto soul sono stati fra i miei primi ascolti. Alcune canzoni hanno avuto un impatto considerevole su di me bambino. 16


INTERVIEW

17


INTERVIEW

Spiders

“Abbiamo registrato i nostri brani, facendo ciò che più ci piaceva senza compromessi ”

18


Hard Vibes

INTERVIEW

Text Federica Sarra Photo Catherine Jane Robertson

C’è anche un pezzetto di Italia negli svedesi Spiders, che hanno conquistato fan e critica con il loro irresistibile debut “Flash Point”, un album che raccoglie la migliore espressione dell’Hard Rock veloce ed energico. Durante il tour in supporto ai Graveyard, in quel di Anversa, abbiamo incontrato il bassista Matteo Gambacorta. Matteo vive in Svezia da un pò di anni, sentiamo cosa ha da dirci... Matteo come nascono gli Spiders? Un paio di anni fa John (che in quel periodo aveva preso una pausa dai Witchcraft ) e Axel ( batterista dei Graveyard) iniziarono a provare un pò di pezzi scritti da John. Avevano voglia di cimentarsi con qualcosa di diverso, di un pò più veloce, divertente, poi chiesero ad Anne Sofie di provare a cantare su questi brani ottenendo un ottimo risultato. In seguito mi chiesero di unirmi alla band. Quando vivevo in italia già suonavo con un gruppo, ma la situazione non era delle migliori, così ho deciso di trasferirmi in Svezia e una volta lì ho conosciuto quasi subito Ann Sofie e John. Quali sono le differenze maggiori che hai potuto constatare? Prima di tutto dal punto di vista sociale, il clima è molto più rilassato, ma gli aspetti sono tanti e complessi. Ad esempio il ruolo della donna, le donne sono molto più emancipate e ben integrate nella vita sociale, poi le aspettative sono migliori, inoltre c’è molta attenzione e cura della famiglia, la burocrazia veloce... piccole cose che però hanno il loro peso nella quotidianità. Per quanto riguarda il discorso musicale, sicuramente i fattori principali sono due, per prima cosa la familiarità con la lingua inglese e di conseguenza un accesso ai media inglesi e americani molto più diretto. E poi ci sono delle sovvenzioni per le piccole spese che ogni musicista deve sostenere, è un sistema molto vecchio in Svezia, ad esempio portando lo scontrino dell’affitto della sala prova viene offerto un rimborso, non sono molti soldi ma comunque è già qualcosa. Prevedo un trasferimento in massa in terra svedese...sai in Italia c’è stato un grosso scandalo riguardante il pay to play, ne sei al corrente? È un universo sicuramente molto distante da quello svedese e sinceramente non ne ho mai sentito parlare qui, non lo capisco molto come sistema. Come siete arrivati alla Crusher Records? Peter (manager dell’etichetta) è da sempre un nostro caro amico e quando abbiamo inciso il primo ep con i quattro pezzi, glielo abbiamo proposto subito perchè con lui ci sentivamo a nostro agio, nonostante avessimo ricevuto diverse offerte. Adesso è anche il nostro manager. “Flash Point” sta andando benissimo. Siete soddisfatti ? Vi aspettavate tante critiche positive? In realtà non ci pensavamo, ci speravamo ovviamente, noi

amiamo suonare e fare concerti e sopratutto speravamo di riuscire a trasmetterlo attraverso l’album. Così abbiamo registrato i nostri brani, facendo ciò che più ci piaceva senza compromessi e li abbiamo proposti. E poi riguardo le critiche negative, anche quelle fanno parte del gioco! Perchè questo titolo? Nella sala prove c’era un adesivo con scritto Flash Point e durante le prove scherzavamo giocando con queste parole e alla fine le abbiamo scelte sul serio come titolo dell’album, poi trovo che la parola “flash” si adatta molto bene al nostro rock veloce. Quanto ha influito secondo te la fortuna nel vostro percorso? Beh sicuramente il fatto di avere John che ha una lunga esperienza nel settore e all’inizio Axel alla batteria ed il fatto che entrambi provengano da bands (Witchcraft e Graveyard) che hanno un ruolo di primo piano nell’hard rock, ci ha facilitato. Abbiamo avuto una serie di buone occasioni ma siamo stati anche bravi a coglierle e a saperle sfruttare al meglio. Pensi che avere una frontwoman sia un vantaggio? Non saprei, sai ci pensavo ieri mentre assistevo al live act dei Graveyard, eravamo ad Amburgo, in realtà quando una band è solida e sa far divertire il pubblico, credo che non conti poi molto. Allo stesso tempo credo che per il genere che proponiamo sia interessante avere una voce femminile, noi poi ascoltiamo molti gruppi del passato con voci femminili, come ad esempio gli Shocking Blue. È questo il vostro principale background musicale? Non solo, noi ascoltiamo generi diversi, in comune abbiamo il garage rock degli anni 60, l’hard rock dei 70, Ann Sofie ascolta molto soul e blues. E qualche band italiana? Personalmente mi piacciono molto Il Balletto Di Bronzo, Circus 2000 e la psichedelia in generale, Le Orme ad esempio, ma anche cantautori come De Andrè, Battisti... Fra i gruppi moderni direi senz’altro i romani Giuda, un gruppo glam rock punk che mi piace davvero moltissimo e poi non mi dispiacciono i Verdena, che secondo me hanno dimostrato una certa integrità. I vostri programmi per il futuro? Da gennaio in poi cominceremo subito a lavorare al nuovo disco e penso che resteremo molto fedeli al sound di Flash Point. Ci piacerebbe andare in Giappone, John è già stato lì in tour con i Witchcraft, poi sarebbe fantastico fare una tournee negli States perchè lì abbiamo moltissimi fan e poi mi piacerebbe davvero tanto suonare in Italia. 19


INTERVIEW

THE CHANT

“PENSO CHE TUTTE LE INFLUENZE SI FONDANO MAGICAMENTE INSIEME QUANDO SUONIAMO” 20


Captured and Delighted

INTERVIEW

Text Federica Sarra Photo Kalle Pyyhtinen

La dimensione sonora dei The Chant è raffinata, satura di suggestioni e note che mirano dritte ai recessi più profondi, il loro ultimo album “A Healing Place” un piccolo grande miracolo di armonie ben intessute e melodie suadenti che toccano le corde dell’anima, o meglio, le danno voce. Jussi Hämäläinen e Mari Jämbäck ci raccontano il loro universo universo fatto di immagini e suoni. Per iniziare, vorremmo sapere come riuscite a creare quella miscela unica e magica di sonorità e generi. Tutto è perfettamente bilanciato, qual’è la ricetta e l’ingrediente segreto? Jussi: beh, penso che la ragione principale è che suoniamo insieme da molto tempo. La line-up è praticamente la stessa dal 1999. L’unico cambiamento è stato l’entrata di Pekka Loponen nel 2010. Non ci sono egocentrismi nella band e abbiamo imparato ad ascoltarci a vicenda. Ascoltiamo anche diversi tipi di musica, dal pop al metal estremo e tutti abbiamo le nostre preferenze. Penso che tutte le influenze si fondano magicamente insieme quando suoniamo. Quando iniziate a comporre avete già un’idea delle sonorità e delle atmosfere che volete creare? Componete con un’immagine in mente? Jussi: Sì, in questo album abbiamo creato queste sonorità calde e quasi da soundtrack quindi era chiaro fin dall’inizio che avremmo usato un sacco di chitarre acustiche e chitarre clean per esempio. E sì, componiamo con un immagine mentale già in testa. In questo modo è più facile agli altri il tipo di sensazioni che vuoi mettere nella canzone. Che band ascoltate durante il tempo libero e come vi hanno influenzato? Jussi: Come ho detto prima ascoltiamo tutti i generi di musica, dal pop al metal. Ultimamente sto ascoltando so-

prattutto il nuovo album dei Dead Can Dance ma penso che sia un pò tutta la musica ad influenzarci. Mari: In quest’album non ho avuto nessun disco specifico in mente. Penso che la mia musica preferita mi abbia influenzato subconsciamente. Con i testi, cerco constantemente di trovare un compatto ma multidimensionale modo per esprimermi. In questo particolare modo di scrivere, i miei idoli sono Suzanne Vega e Leonard Cohen. Ho notato che in tutti i vostri artworks ricorre una figura umana molto giovane (un bambino, un ragazzo), è una coindicidenza o c’è un concept dietro che fa da filo conduttore? Mari: L’idea per la copertina di “Ghostlines” e “This is the world we Know” mi arrivò direttamente dai testi dell’album. Ho avuto una visione chiara di come l’immagine doveva venire fuori. Con la cover di “A Healing Place” non ho avuto una visione così chiara come per gli altri, ma fui piacevolmente sorpresa di come il nostro amico Kalle Pyyhtinen degli UtuDesign studios interpretò le informazioni sui testi che gli diedi al tempo. Mi piace molto l’idea di una figura umana sulla cover. Per me, quella figura rende più facile capire le tematiche dell’album e aiuta l’ascoltatore ad entrare nel mondo creato dall’album. Le figure non sono casuali ma, in qualche modo, riflettono le nostre tematiche. Che reazioni avete avuto dai fan e dalla stampa riguardo al vostro ultimo album? Jussi: Le reazioni sono state prevalentemente positive sia da parte dei fan che da parte della stampa, è interessante leggere le recensioni, ma questo non influenza il nostro lavoro. Facciamo musica da così tanto tempo che sappiamo cosa vogliamo. E, a giudicare dalle recensioni, sembra che siamo sulla strada giusta. 21


INTERVIEW

LIV KRISTINE LOVE / LIV Text Federico Sanna Photo Alexander Krull & Stefan Heilemann

Liv Kristine non ha bisogno di presentazioni. Cantante con esperienza pluridecennale con band icone di un genere: Theatre Of Tragedy e Leaves’ Eyes. Voce ammaliante e spirito di una guerriera, capace di mettersi in gioco anche da sola. Qual’è l’obiettivo del tuo nuovo album solista? La scelta del genere è stata premeditata oppure è solo la realizzazione di un altro aspetto della tua personalità? Seguo la mia vena artistica in ogni momento, ma amo lasciare che le cose si sviluppino anche un pò da sole durante la produzione, cosa che mi aiuta a “spiegare le mie ali”. Durante un concerto a Nagold, in Germania nel Dicembre 2011 in cui presentai la canzone “Libertine” al pubblico, allora era solamente un demo. Ho anche eseguito alcune canzoni dei Theater Of Tragedy, solamente perchè lo desideravo. Lì per lì ho capito quale sarebbe stata la direzione musicale del mio prossimo lavoro: più potente, un ritorno alle origini. “Libertine” è un “back to the roots”, un album contenente le ballate più emozionanti che io abbia mai composto, ma presenta anche un oscuro, ma dolce e piacevole sentimento che scaturisce dal pianoforte, ma anche dalle cupe melodie del basso e delle chitarre. Trovo che ogni album diventi sempre più personale, proprio come io capisco sempre di più di me stessa. Perchè hai deciso di affidare l’arrangiamento dei pezzi ai membri dei Leaves’ Eyes e non a terzi? Alcuni dei musicisti per il progetto vengono dai Leaves’ Eyes, il che è logico dato che sono eccellenti musicisti ed inoltre i miei migliori amici. Tuttavia ci sono anche degli elementi esterni che mi aiutano sia in studio che live. Sono davvero grata di avere un team di prima classe come questo con me. Mio marito, Alex, ha prodotto l’album nel suo Mastersound Studio. J.B. Van Der Wal è stato responsabile per le chitarre elettriche ed acustiche, il basso, le tastiere e la programmazione, mentre il mio vecchio amico Thorsten Bauer ha suonato anche lui chitarre elettriche e acustiche e le tastiere. Felix Born si è occupato della batteria e delle percussioni. Alessandro Pantò invece del pianoforte e Christoph Kutzer del violoncello. La musica è stata scritta da me aiutata dai già citati J.B. Van Der Wal, Tjorsten Bauer e Alexander Krull (tranne per “The Man With The Child In His Eyes che è una cover di Kate Bush”). Tutte le lyrics sono mie creazioni, cosi come il booklet! Le guest vocals su “Vanilla Skin Delight” sono di Tobias Regner. Cosa ti ha ispirato a scrivere i brani di “Libertine”? E che

cosa significa il titolo per te? Ho deciso di intitolare l’album Libertine perchè è stata la prima traccia composta. È un album che raccoglie momenti speciali della mia vita. In secondo luogo, nei testi troverete delle mie definizioni di “amore”. Sono fortunata a dover scrivere le lyrics sia per il mio progetto che per i Leaves’ Eyes. Adoro la poesia e la linguistica! Se avessi fatto la scrittrice avrei scritto sicuramente libri di poesia. Sai, riguardo all’amore, in un dizionario troverai probabilmente una definizione che fa riferimento ad una persona che sta vivendo liberamente i suoi piacere e le sue soddisfazioni. Il concetto di Libertine è legato al concept dell’intero album. Per me significa la libertà spirituale e la felicità che si prova quando si è innamorati, sai, quelle farfalline che senti dentro di te quando ti innamori o quando sei solamente felice per qualcosa! L’amore è quel qualcosa che mi fa sentire VIVA!! A volte quando cammino per i boschi in una serata tiepida sento tutta l’energia dell’universo, credo che questo sia un piccolo, speciale momento che riesce a farmi sentire cosi viva, fortunata e in accordo con la vita stessa. Libertine è un’album d’amore e vita, due facce della stessa medaglia. Quali sono i tuoi ascolti di solito e quale album è al momento il tuo preferito? Quali band hanno significativamente influenzato la tua musica? La diversità nella mia arte è probabilmente dovuta alle diverse influenze che ho accumulato lungo il mio percorso musicale: sono cresciuta con i Black Sabbath, Deep Purple, Edvard Grieg e Tschaikowsky e cantanti femminili come Enya, Madonna, Kate Bush, Abba, Tori Amos e Monserrat Caballe. Fin dall’inizio ho senguito sempre l’istinto: volevo combinare una voce femminile romantica e angelica con una componente strumentale potente e d’impatto. Poi improvvisamente, quando avevo 18 anni trovai la mia giusta dimensione scrivendo i pezzi storici con i Theater Of Tragedy. Il mio disco preferito al momento che ascolto anche quando dipingo è “Ark” di Brendan Perry, assolutamente splendido e onirico. Cosa possiamo aspettarci per il futuro? Un altro capitolo del progetto solista o qualcos’altro? Dopo essere tornata da due concerti di Halloween in Russia con i Leaves’ Eyes, inizieremo le registrazioni del quinto full-lenght, inoltre organizzeremo qualche data in inverno. Spero in un tour per entrambe le date l’anno prossimo! Anche nel tuo bellissimo paese. Ti ringrazio per avermi seguita tutti questi anni con i Theatre Of Tragedy, Leaves’ Eyes e il mio progetto solista. Spero che apprezzerai Libertine tanto quanto ho fatto io scrivendolo e registrandolo. Non vedo l’ora di suonarlo live anche per te! 22


INTERVIEW

ELVENKING

Shapes and shadows of a new Era Text Federica Sarra Photo Marco Sandron

Frank Zappa sosteneva che non esiste l’avanguardia, solo qualcuno che rimane un pò indietro. Di sicuro gli Elvenking non sono rimasti affatto indietro, pur avendo riscoperto le loro radici, con artigiana pazienza sono riusciti a dare forma e sostanza ad un vasto catalogo di idee presente nel loro settimo lavoro, ERA. L’originalità è per loro materia prima e sanno come organizzarla all’interno di un’emozionante cornice musicale. Tempo di bilanci dunque, sentiamo cosa ci ha detto Aydan... Ritorno alle origini o un passo verso una nuova ERA? Direi entrambe le cose. Di sicuro ERA è uno sguardo verso ciò che sono stati gli Elvenking e dove sono nati. Allo stesso momento credo che ERA cresca dall’esperienza che abbiamo maturato in questi anni, quindi credo di poterlo definire finalmente come l’album in cui il sound Elvenking è giunto ad una sommatoria che plasma la personalità di questa band. Credo che questo sia l’album che potrà rafforzare il nome della band nella scena. E’ cambiato qualcosa nel vostro personale processo di songwriting? No direi di no. Potrebbe forse sembrare dall’esterno ma in realtà niente, come sempre, è stato studiato o voluto a tavolino. Forse è stata propria una necessità della band di chiudere un cerchio e di trovare finalmente una personalità definitiva nel nostro sound. Al di là della musica, c’è qualcosa che ha influenzato le lyrics o vi ha ispirato mentre componevate il materiale? Tutto ciò che ci circonda ci ispira. Libri, film e soprattutto eventi personali sono alla base delle emozioni e quello che noi facciamo è trasformare le nostre personali sensazioni in musica. Ed è quello che ci rende la band che siamo. Il nostro obbiettivo è cercare di trasmettere all’ascoltatore le emozioni e le sensazioni che hanno costruito quella singola canzone. E ricevere dai fan commenti su quanto sia stato importante quel pezzo e come più volte accaduto che quel nostro determinato album gli ha salvato la vita è la ricompensa più bella a tutti questi anni di fatiche.

Un aggettivo per ogni brano: The Loser: estrema I Am The Monster: fiera Midgnight Skies, Winter Sights: pagana A Song For The People: popolare We, Animals: attuale Through Wolf’s Eyes: fiabesca Walking Dead: energica Forget-Me-Not: emozionante Poor Little Baroness: anacronistica The Time of Your Life: intima Chronicle of a Frozen Era: epica Ophale: rilassante C’è un fil rouge che accomuna i brani ? Qual’è il messaggio fra le righe? Una frase della canzone Runereader dice “leggi le righe che nessuno legge”. Questa frase può essere emblematica per descrivere i nostri testi. Sinceramente non so quanti degli ascoltatori oggi giorno leggano ancora i testi visto che ormai nessuno compra più i cd, e il download non permette certo di immergersi all’interno di un album allo stesso modo di come ero abituato io da ragazzino, quando mi sedevo con le cuffie e il booklet ed entravo dentro ad ogni canzone ricercandone lo spirito. Ma per noi musica e testi sono ancora strettamente correlati e credo che molti capirebbero molto di più del senso musicale delle songs cercando di capirne e interpretare a modo loro i temi trattati. L’artwork ed il titolo sono entrambi molto forti, ma lasciano spazio a diverse interpretazioni, come li avete scelti? La copertina vuole esprimere un pò quel concetto di essere diversi e di venire spesso fraintesi...sappiamo bene quali sono i preconcetti che ci vengono insegnati dalla società, dalle religioni o dalla politica. La figura al rovescio di cappuccetto rosso braccati dagli spiriti maligni in un contesto di fiaba oscura vuole rappresentare visivamente questi concetti che sono poi inclusi nei testi dell’album. 23


24


INTERVIEW

25


INTERVIEW

Come descriveresti l’alchimia che si è creata con la nuova line-up? Ottima direi. Non avrei potuto sperare di meglio. I nuovi membri hanno portato oltre ad una notevole crescita tecnica anche un rinnovato entusiasmo che non respiravamo nella band da anni. Essere tutti rivolti verso un unico obbiettivo con la stessa voglia di raggiungerlo è una forza aggiuntiva inarrestabile. Inoltre sia Symohn che Jakob hanno una preparazione tecnica che ci ha permesso di sviluppare le nuove canzoni senza limite alcuno. Ci sono diversi ospiti di rilievo, come nascono queste collaborazioni? Cosa vi ha lasciato ciascuno di loro? Sì molti ospiti come hai potuto sentire. Ma tutti hanno portato qualcosa di importante. Non avrebbe senso per noi “incollare” una guest appaerance solo per farci pubblicità. Parliamo per esempio di Jon Oliva. Conosciamo Jon dal 2006 quando siamo andati in tour con la sua band ed è uno dei personaggi più leggendari della scena metal. Eppure abbiamo aspettato così tanti per chiedergli di partecipare ad un nostro album perché sentivamo che questa volta la sua voce avrebbe portato qualcosa in più a determinate songs. E lo stesso discorso vale per esempio per Maurizio dei Folkstone che con i suoi strumenti folk ha veramente aggiunto quel tocco che ha elevato le canzoni nei punti corretti. Sono colpita dal vostro modo di porvi sui social networks, mai una polemica , una frase fuori posto o uno sfogo personale. Da dove proviene questo autocontrollo che definirei “zen”? Direi che deriva semplicemente da come siamo noi come persone. Quando leggo le polemiche che molti gruppi fanno su internet o il semplice fatto di andare a commentare una critica ricevuta mi fanno decisamente sorridere. Non nego che oggigiorno spesso è frustante leggere certe cose. Tutti hanno la possibilità di dire qualsiasi cosa vogliano senza freni e spesso queste cose sono altamente offensive. Dietro altisonanti nick name si nascondono semplicemente dei ragazzini pronti a sparlare di qualsiasi cosa e l’anonimato crea un alone di credibilità. Dovrebbe essere obbligatorio mettere le propria foto e la propria età su ogni commento, giusto per tarare i giudizi. Ovviamente poi ognuno è libero di dire ciò che vuole e noi come band abbiamo la necessità di accettarlo.

Siete concentratissimi sul vostro lavoro e lo condividete con il pubblico attraverso aggiornamenti, video, notizie...Quali sono i pro e i contro? Immagino che sia impegnativo e che richieda un certo dispendio di tempo. Certo, ma è il minimo che possiamo dare ai fans che ci supportano. Quando ero un giovane fan io avrei voluto avere informazioni quotidiane sulle mie band preferite e sapere ogni giorno qualche novità sulla band. Purtroppo all’epoca niente di questo era possibile. Oggigiorno invece il modo di comunicare è assolutamente diverso e penso sia un bel modo per essere vicini alla gente che ci supporta. E se porta via un pò di tempo (a noi che non ne abbiamo proprio) ben venga. Lo facciamo per i fans che vogliono seguirci. In un’intervista, Aydan hai dichiarato che la band è soggetta a numerose critiche, perchè ogni vostro lavoro è diverso dal precedente, temevate critiche a ridosso dell’uscita di ERA? Sì, siamo sempre pronti alle critiche perché sappiamo che non siamo la band che scrive un album per compiacere i fan ma solo per noi stessi, e siamo sempre stati pronti a ricevere insulti e critiche conoscendo l’integrità del pubblico metal. In realtà ERA è uno sguardo rivolto al passato quindi per questo album mi aspettavo meno critiche da parte dei fan; e così è stato. Quello che non mi sarei mai aspettato era un’accoglienza della stampa così incredibile. ERA ha ricevuto voti incredibilmente alti in tutto il mondo, votazioni e recensioni sbalorditive, è top album dalla Russia all’Inghilterra, Germania e in tantissimi altri stati, e siamo addirittura entrati nella TOP100 tedesca degli album venduti. Questo non me lo sarei mai aspettato, proprio perché gli Elvenking non sono mai stati una band con questi obbiettivi. Obiettivi raggiunti e nuovi traguardi... Obiettivi raggiunti? Ancora pochi. Ne cerchiamo molti altri. Nuovi traguardi? Moltissimi. E molte cose all’orizzonte si stanno muovendo nella direzione per cui stiamo lavorando duramente. A breve ci saranno molte notizie interessanti. Ma non ci fermiamo. Continuiamo sulla nostra strada. Perché credo che la qualità alla fine possa dire la sua, al di là di tutto.

26


27


INTERVIEW

the pineapple thief Conflict Reconciliation Redemption Text Federica Sarra Photo Rob Monk

La storia di questa band è contraddistinta da una lunga gavetta. Oltre 12 anni di onorata carriera, vissuti però sempre un pò in penombra. I The Pineapple Thief, totalmente padroni di uno stile che raccoglie tutte le sfumature del progressive sound, si sono infine imposti al grande pubblico con una sensibilità artistica avvincente. L’ottima formazione inglese capitanata da Bruce Soord è ormai proiettata verso nuovi traguardi e quel mood intimista che è il loro trade mark, resta ben saldo.

28


INTERVIEW

29


INTERVIEW

“Le reazioni degli addetti ai lavori e dei fan sono state fantastiche, al di là delle nostre aspettative” Così esordisce il cantante e chitarrista Bruce Soord, parlando di All The Wars, l’ultima fatica discografica uscita nell’autunno del 2012 per la prestigiosa label Kscope. “Come artista è molto difficile sentirmi completamente soddisfatto, è parte della mia natura” ci dice. Bruce, ti sei mai soffermato a pensare al passato e a ciò che hai raggiunto a questo punto della tua carriera? Ci penso ogni giorno in realtà. Spesso mi chiedo “Perchè non siamo più conosciuti?” poi mi guardo indietro, torno a dieci anni fa e mi rivedo solo nel mio studio che lotto per sopravvivere musicalmente e mi sento fiero di quello che ho raggiunto nel corso del tempo. Nel 1999, quando uscì il primo album, non mi sarei mai sognato di essere a parlare con te oggi, ben tredici anni dopo. In che modo il processo compositivo è cambiato attraverso gli anni? E’ molto più veloce ed efficace, prima avrei impiegato ore ed ore, lavorando su suoni che poi alla fine non sarebbero andati da nessuna parte. Adesso io sono più maturo e la band è molto più occupata e di conseguenza è un piccolo lusso che abbiamo ormai perso. Oggi passo molto tempo con la mia chitarra acustica cercando di tirare fuori un pezzo più o meno finito, anche senza mai entrare in studio. Penso che questo sia un vantaggio, tutti i nostri recenti lavori possono essere facilmente interpretati da me con una chitarra acustica, senza la necessità di una produzione ricca e strati su strati di suono per far funzionare il pezzo. In che modo la musica che scrivi ti rappresenta come persona? Questa è un’ottima domanda. Io penso che la musica che scrivo rappresenta la persona che vorrei essere. Anche se per lo più la musica dei The Pineapple Thief è malinconica, ogni singolo brano contiene un messaggio positivo, quello di tentare di essere forti o comunque migliori. Io non ci riesco sempre purtroppo, ed è questo che mi porta a scrivere, traggo ispirazione anche dalle cose oscure che accadono nella vita. Scrivere è come una sorta di penitenza per me. Questo rivela molto di te, non ti sei mai sentito vulnerabile sapendo che in molti leggono i tuoi testi? È un sentimento contraddittorio. Ogni brano contenuto in All The Wars rappresenta un evento specifico della mia vita, sia vissuto in prima persona che basato su esperienze di altri, ma le parole che utilizzo sono astratte e ciò impedisce di sentirmi come nudo mentre le canto. Qual’è il significato di All The Wars? L’album parla di conflitto, riconciliazione e redenzione. Alcuni conflitti prendono il sopravvento sulle nostre vite ed avvengono con persone che amiamo e talvolta la riconciliazione arriva troppo tardi. Tutti i brani affrontano queste tematiche. Parliamo della cover, oltre ad essere un’immagine bellissima trovo che sia complementare alla musica... È la cover che preferisco, insieme alla re-issue di Little Man. Qualcuno mi mostrò questa foto ed all’istante capii che che sarebbe diventata la nostra copertina. L’etichetta si mise in contatto con il fotografo Mark Mawson e fortunatamente la nostra musica gli piacque e ci rilasciò il permesso di utilizzare la foto. Speriamo di poter lavorare ancora con Mark anche in futuro. 30


INTERVIEW

Robert Fripp ha detto “L’unico posto al mondo dove mi piace registrare...” Come nasce la scelta di registrare l’album ai Real World Studios di Peter Gabriel? Lì abbiamo registrato alcune parti di batteria, il resto è stato fatto in un altro studio chiamato The Chapel, anch’esso con un ricco patrimonio artistico. Il Real World Studios è un posto incredibile, un vero paradiso musicale. Ci sono gli studi di registrazione, i cottages per il pernottamento, sale di produzione e l’etichetta Real Word. Ci si sente anche un pò intimoriti, “la stanza dei bottoni” ad esempio, sembra il ponte di comando della Starship Enterprise! Ma le attrezzature e le sale non sono seconde a nessun’altro. La sala chiamata Wood Room è una delle migliori sale per batteria del mondo. Sapevo che se volevamo fare un disco dal forte impatto sonoro dovevamo usare le migliori attrezzature in circolazione. Cos’è il “Progressive” per te? E “Bittersweet Progressive” cosa vuole significare? Ah, sì, la nostra etichetta ha coniato questo termine ed ormai è rimasto! Progressive per me è qualcosa di molto diverso dal prog. Le band che provano a spingersi oltre, ricercando qualcosa di originale e non conformandosi in strutture considerate popolari, è ciò che io classifico come progressive. Ma allo stesso tempo, non mi ritengo un pioniere in questo senso solo perché abbiamo un paio di pezzi più lunghi e utilizziamo gli archi ed i cori. Molto è stato già fatto nella musica, ma è il modo in cui noi proviamo a spingerci oltre in ciascuna nuova release, cercando di sorprendere le persone che ci seguono, ecco questo è secondo me ciò che ci rende progressive. Qual’è il segreto di una band longeva come la vostra? Una band è come una famiglia. Per iniziare, scegliete la famiglia giusta! Lavoriamo insieme ormai da molti anni, mentre per primi quattro anni ero solo. Condividere il bus insieme è una vera delizia. Quando leggo di storie di conflitti, di super ego all’interno di altre band, non mi sorprende che poi si disintegrino. In secondo luogo è sempre importante mantenere alte le ambizioni, ogni nuovo album ci ha spinto un pò più in alto (certo, non velocemente come avremmo sperato) ed ha spinto me stesso a migliorarmi come performer e compositore. Inutile negarlo ma stare insieme per 12 anni ed oltre ha reso il tutto più semplice!

“All The Wars” (Kscope) Un sound ricco di atmosfere sinfoniche che conferiscono un approccio molto introspettivo ed un forte senso poetico. È un rinnovato romanticismo che si esprime attraverso lyrics intense e melodie cariche di pathos, senza mai perdere di vista le coordinate prettamente rock tradotte in chitarre dure e ritmiche energiche. Una perfetta combinazione di elementi che rende i nostri una proposta originalissima che si distingue per eleganza e classe, quella vera, che non si acquisisce con l’esperienza, bensì è dote innata. “All The Wars” è un’espolsione di colori liquidi che disegnano evoluzioni complesse e leggiadre in un‘oscurità indefinita e misteriosa. Un lavoro che si lascia ascoltare tutto d’un fiato.

31


SPECIAL BAND

TWEAK BIRD “We’re just music lovers” Text Federica Sarra and Gabriele D’Angiolo Photo Archive Tweak Bird

Come definireste voi stessi come musicisti, il vostro sound ed il vostro stile on e off stage? Direi che siamo amanti della musica probabilmente più di quanto siamo musicisti! La cosa più importante sulla musica o sulla vita sul palco e fuori da esso è che è tanto difficile o facile a seconda di come tu vuoi che sia… Per quanto ci riguarda, tutto quello che vogliamo è che i concetti delle nostre canzoni vengano recepiti facilmente. C’è qualche esperienza specifica che potete indicare come ciò che vi ha motivato originariamente per iniziare a suonare e ad esibirvi con la vostra musica? Nostro padre e nostro fratello maggiore suonavano entrambi la chitarra, perciò era inevitabile che avremmo sperimentato quello strumento ad un certo punto… Ma io penso che lo stimolo per suonare in giro ci arrivò un po più tardi, quando i ragazzi della nostra età, più o meno eravamo alle medie o al liceo, cominciarono a formare delle “band”, ed uso questo termine liberamente perché a quel tempo credo che bastasse una sola prova con qualche canzone dei Black Flag per qualificarsi come band. Voi ragazzi avete detto che “Il 99 per cento di ciò che i Tweak Bird fanno non è pianificato” (inter32

Sono fratelli e musicisti appassionati. Caleb Bird ci svela l’essenza del duo americano dallo spirito libero.

vista del 2010). È ancora così per voi? Il vostro spettacolo live, ad esempio è cambiato attraverso gli anni? Fiduciosamente siamo diventati un pò più pratici con i nostri rispettivi strumenti, ma per il resto non siamo cambiati di molto, affrontiamo ogni show semplicemente con l’idea che la musica dipenda dallo stato d’animo e che se una sera non ti senti dentro di suonare la tua canzone, allora è meglio se ti ingegni molto in fretta per cercare altre soluzioni. Non importa quanto sia buona o scarsa la tua esibizione, nessuno vuol vedere sul palco qualcuno con la passione di un operatore di un casello stradale. Avevate qualche obiettivo specifico che volevate raggiungere con il nuovo album? Qual’è la vostra canzone o il vostro momento musicale preferito di “Undercover Crops” e perché? Ad entrambi piacciono le canzoni “People” e “Pigeons”, il processo di scrittura per entrambe è stato veramente fluido, eravamo tutti e due nel giusto spazio mentale creativo. Penso che l’obiettivo fosse di comporre un EP fatto di canzoni scritte con lo spirito giusto, senza quella sensazione di incompiuto. Per questo sono solo 7 pezzi, ma è anche per questo che sono tutti piacevoli.


SPECIAL BAND

R EV I EW

“Undercover Crops” (Volcom Entertainment) Vengono dall’Illinois i fratelli Asthon e Caleb e si definiscono come “amanti della musica piuttosto che musicisti”, e si sente. Con questo Ep di 7 canzoni, i due Tweak Bird si fanno subito notare per un sound affatto scontato ed estremamente piacevole all’ascolto, anche per i non appassionati del genere, dove una chitarra fuzz corposa in puro stile Fu Manchu, incontra una composizione che prende elementi dal garage, dallo stoner e dal punk, ricordando gruppi underground di una decina di anni fa, Nebula su tutti, e contemporanei, come i King Tuff. Riguardo alla dichiarazione dei fratelli Bird, la definizione di ascoltatori prima che musicisti trova conferma praticamente in tutto “Undercover Crops”. Pezzi come “People” e “Pigeons” echeggeranno a lungo nella testa dell’ascoltatore, grazie alla via di mezzo tra stoner e garage che rappresentano, sbilanciandosi spesso a favore di quest’ultimo. Pecca talvolta nella varietà delle composizioni, che pur salvandosi sempre dal baratro della monotonia rimangono circoscritte, limitate per altro dalla brevità delle canzoni (una media di 2 minuti ciascuna, troppo poco forse per esprimere tutto il potenziale del gruppo). Per essere un Ep, “Undercover Crops” è un biglietto da visita più che valido ma manca della maturità necessaria per poter arrivare oltre, restando così, come detto dagli stessi membri, un disco gradevole e divertente. Non perdiamoli di vista però. Voto - 7.5/10

33


SPECIAL BAND

SEID “First come the sounds, then come the words.”

La loro dimensione ideale è il cosmo, la loro proposta musicale nasce da viaggi intergalattici. I pirati dello spazio Burt Rocket, Janis Lazzaroni, Jürgen Kosmos ed il Professor Waffel ci raccontano storie di questo e dell’altro mondo...

Text Federica Sarra and Gabriele D’Angiolo Photo Archive Black Widow Records

Qual’è stato il vostro primo approccio con la musica? B.R.: Penso che siamo partiti come ogni altra band di teenager dei primi anni ‘90, cercando di suonare come i Guns’N’ Roses ed i Metallica. Fortunatamente, il nostro batterista ci fece conoscere meglio le band alternative rock come Sonic Youth, Prong, Helmet, Primus e Alice in Chains. Abbiamo capito che quello che suonavano lì era molto più interessante di quello che passavano alla radio. Facevano cover di 20 minuti di Hawkwind e Gong. Quello fu un punto di non ritorno. J.K.: Mi ricordo la prima volta che provai la magia del mangianastri nella casa del mio vicino. Mi convinsi totalmente che c’erano dei piccoli (E molto dotati musicalmente) nani che suonavano dentro quell’aggeggio. Con il passare degli anni, mi sono innamorato soprattuto dei Prog-Jam rockers Tangle Edge, che venivano dalla punta più a Nord della Norvegia. Le loro canzoni mi ricordano l’aurora boreale: Nessuna direzione precisa, canzoni lunghe e dall’atmosfera veramente mistica. Il loro sound era molto interessante per dei ragazzi del sud come noi. 34

P.W.: Quando ero ancora un bambino, sperimentavo già con un registratore per cassette, registravo delle parti di canzoni casuali e li mettevo assieme in un grande ed incoerente insieme. Inventai perfino una danza per accompagnare questi strani Collage di suoni che mi fratello chiamò “La danza pazza”, che in parte era ispirata a David Bynner. Quella potrebbe essere stala la nascita del “Professor Waffel” che sviluppai anni dopo in “Hemmelig Tempo”. Quali idee o esperienze personali hanno influenzato l’album? Quali sono i temi principali che hanno influenzato i vostri testi? J.K.: Lo spirito dell’album è collegato alle fortunate circostanze che sono coincise con la sua scrittura e la realizzazione. Siamo entrati in contatto con Martin Viktor che adesso è il nostro nuovo batterista e cantante ed abbiamo anche un uovo membro fisso, il Professor Waffel. Lui ha contribuito con i sintetizzatori, sampler e la pazzia in generale. Ed è così che una band che è rimasta morta per un bel pò di anni si è lentamente rivitalizzata. È stato fantastico essere


SPECIAL BAND

parte di questa transizione: Siamo partiti a pieno regime e siamo arrivati tutti allo stesso posto dove ci siamo salutati con la nostra piccola e magica stretta di mano. Le ispirazioni per i testi sono l’escapologia, rime stupide, morte, sogni e demoni. Cos’altro c’è da scrivere? Prima arriva il suono e poi le parole, proprio come l’evoluzione dell’umanità. Come lavorate alla scrittura di un album? J.K.: Lavoro in periordi alternandomi, certe volte scrivo e compongo, altre faccio tutto tranne che quello. “Sister Sinsemilia” è stata la più lunga da scrivere. Burt e io registrammo le prime idee diversi anni fa e lentamente le abbiamo modificate nella versione che abbiamo inciso sull’album. All’estremo opposto abbiamo “Decode of the Glow”, che è stata scritta e arrangiata nel corso di una notte a Oslo. J.L.: Sì, ricordo quella notte. Mandammo Burt e Martin a comprare birra e snack e prima che tornassero indietro avevamo già la struttura di base. “Tron” è stata un pò più laboriosa. Abbiamo jammato sul riff principale una mezza dozzina di notti. P.W.: C’è un altra bella storia dietro “Ölyôk Kok Friebieb.”. Questa canzone è stata un’improvvisazione spontanea dove abbiamo lavorato con un bel pò

R EV I EW

di sintetizzatori. C’è una registrazione della Nasa di impulsi elettromagnetici proveniente da Giove registrata durante il programma Voyager nel 1977 pesantemente effettata. Adesso, La sonda Voyager 1 sta per raggiungere lo spazio interstellare mentre i Seid ci sono già stati parecchio tempo fa. Quali sono i vostri piani per il futuro? J.L.: Concluso il tour autunnale che ha incluso concerti in Norvegia e Danimarca adesso ci concentreremo nello scrivere il materiale per un nuovo album. Non abbiamo ancora deciso se sarà un EP o un LP, dipenderà tutto da quanto sarà fluido il processo creativo e da quanto saremo impazienti di lanciare nuova musica dentro il cosmo. Ci prenderemo una pausa dai concerti fino all’estate del 2013. J.K. se ne starà sdraiato su una spiaggia ai Caraibi lavorando solo sulla sua abbronzatura per buona parte dell’inverno e della primavera. J.K.: In realtà sono in missione per salvare il mondo. Va detto che è vero che il mio quartier generale sarà sito ai Caraibi, ma questo è dovuto al fatto che quella regione manca di conoscenza del Rock. Hanno un disperato bisogno del mio aiuto! Oltre a questo, non vedo l’ora di scrivere nuova musica con il nostro nuovo membro, il professor Waffel e il resto dei Ragazzi!

“Magic Handshake” (Black Widow Records) L’arte di spiazzare non è da tutti, bisogna avere il coraggio e la maestria dei fuoriclasse per sconfinare in territori totalmente innovativi ed i norvegesi Seid riescono a centrare l’obbiettivo, confezionando un album che è un susseguirsi di sorprese, sprazzi di pura genialità, mix eclettici e virtuosi. Nel codice genetico dei Seid ci sono sinuosi passaggi psych prog rock, la ricerca costante di sonorità fuori dagli schemi ed un tessuto elaborato. Magic Handshake è un vivace viaggio nel cosmo, dove la tecnica e la fantasia riescono a dialogare e fondersi. Questa band dall’istinto sagace è pronta a conquistare l’universo. Voto - 8,6/10

35


track by track

KATATONIA

“Dead End Kings” (Peaceville) Text Federica Sarra e Federico Sanna Photo Mathias Blom

Una tavolozza di note e parole che disegna affreschi carichi di un simbolismo ed uno spleen appartenenti ad epoche lontane. Diceva Baudelaire “La musica, altro linguaggio caro ai pigri e alle anime profonde che cercano lo svago nella diversità dell’occupazione, vi parla di voi, vi racconta il poema della vostra vita.” Poetico, struggente, decadente ma anche affilato, magnetico, epico, questo è “Dead End Kings”.

The Parting “The indifferent sky Is made of lead and so beautiful” Opening track che mette subito in chiaro la direzione dei Katatonia, stupire ed oscillare incessantemente fra bordate di potenza e ritmi cadenzati tradotti in momenti più morbidi. Un moto perpetuo saturo di suggestioni sonore cupe e toccanti, che sarà la costante dell’album. Arrangiamenti magistrali. The One You Are Looking For Is Not Here “Focus is beyond your vision” Chitarre che ricordano il sound claustrofobico e freddo dei Tool e linee vocali avvolgenti come una brezza leggera, eleganti e suadenti. La voce di Silje Wergeland s’intreccia a quella di Jonas Renske in una miscela sensuale e delicata. Da ascoltare ad occhi chiusi. Hypnone “The dead end king is here Black wings upon his back” Irresistibile, irreale. Melodie dolenti si snodano in un suono denso che riempie tutti gli spazi. Un refrain trainante sugella questo brano estatico che assume un che di sacrale. Il “mal de vivre” ha ora il suo anthem. 36


track by track

The Racing Heart “Inside the sickness Rest...” Questo è forse il brano musicalmente meno complesso. Il ritornello sublime entra nella testa per non uscirne più. Il fantastico delay delle chitarre è pura poesia. Ci viene mostrato qualcosa di irragiungibile che non c’è in questo mondo, come l’amore ideale, veniamo trascinati nel sogno e ci abbandoniamo ad esso piano piano. Buildings “I saw buildings rise But keep our lights in shadow still...” Una canzone perfetta per idee, testo e parte musicale, che esprimono un unico concetto in linguaggi diversi. I riff monolitici e spezzati rappresentano alla perfezione la pesantezza, il freddo e la conseguente atmosfera carica di tensione che si viene a creare. Leech “That’s what you say It couldn’t be further from the truth...” Questa sofferente ballata presenta delle vocals e un arrangiamento di tastiere inusuale che ricorda atmosfere dense di fumo dei locali dei primi del ‘900. Alcune frasi del testo oltrepassano qualsiasi barriera dell’anima. Lyrics intense dalle quali si evince la rabbia per una perdita o un amore tradito. Il brano meno convenzionale. Art Nouveau. Ambitions “Indecision Sow the seed Aspirations never within reach” I suoni iniziali con la perfetta linea vocale indicano un tormento, una situazione dalla quale non si può uscire, come se mancasse la terra sotto ai piedi. Il testo è inequivocabile e le dissonanze del solo di chitarra incentivano queste sensazioni. La sezione atmosferica trascina in una spirale

dalla quale è difficile uscire, un eterno dubbio che rende questa canzone avvolgente e pericolosa. Undo You “Some scars can never heal from what we lost” Atmosfere liquide aprono il brano e scivolano fluide sulle linee vocali proiettando l’ascoltatore in una dimensione surreale. Renske dimostra di essere un signor cantante e rafforza il valore del pezzo (e di tutti gli altri brani). Una litania di dolore. Lethean “To weigh one’s heart against the oncoming dark” Travolgente, ogni nota è suonata ed interpretata con intensità. Tinte elettroniche ed un guitarwork graffiante si rincorrono descrivendo le varie fasi di un’attesa infinita che sfocia in crescendo carichi di pathos. Il risultato è anche qui eccellente e denota una sezione ritmica in grande spolvero. First Prayer “Take these words to go with you” Un sapore folk pervade le melodie di questo penultimo brano. Le parti vocali giocano un ruolo importante, traboccanti di sentimento, rappresentano la struttura portante insieme ad un crescendo intenso che esplode in un riffing granitico. L’ottimo lavoro di Anders Nyström è la linfa vitale del pezzo. Dead Letters “My dreams Are getting darker and darker” Ultimo brano dell’album. Torrenziale, ipnotico, ferroso, approda su lidi sonori ben congeniali al gruppo, sempre il bilico fra rabbiose esplosioni e malinconiche melodie a tinte folk. Atmosfere epiche , stacchi e ripartenze dipingono infinite sfumature allucinate ed allucinanti. Imprevedibile e vibrante, come le sue trame elaborate e sofisticate. Un vero diamante. 37


track by track

MY DYING BRIDE

“A Map of All Our Failures” (Peaceville) Text Francesco Passanisi

Sarà quella stupida leggenda metropolitana della fine del mondo, sarà colpa della crisi economica globale oppure l’iniezione di vita portata al genere dai The Foreshadowing e dai Resonance Room ma il Doom Metal sembra attraversare una seconda giovinezza. Gli ultimi mesi hanno visto protagonisti soprattutto i fondatori del genere trovare nuova vita con uscite discografiche degne del pesante nome che risponde a Katatonia e Paradise Lost. Eccoci quindi di fronte all’ultimo tassello che ricompone il mosaico, il ritorno in pompa magna dei My Dying Bride con il loro “A Map of All Our Failure”, un disco travolgente in grado di ingrigire istantaneamente il mondo che appare davanti ai nostri occhi.

Photo Archive My Dying Bride

Kneel Till Doomsday “You’re bold with your anger and your love is shrewd” Bastano dei rintocchi di campane e dei lenti powerchord di chitarra perchè il mondo attorno a noi diventi subito in bianco e nero. Un tempo in levare ci guida fino all’esplosione di rabbia dove Stainthorpe ci stupisce con un growl brutale prima di tornare alle sonorità dell’intro con l’aggiunta di un violino che mozza il fiato. L’Opener perfetta. The Poorest Waltz “To waltz in the arms of innocence” Le chitarre continuano la loro funerea marcia mentre Aaron Stainthorpe dilania le nostre anime con il suo lamento in un pezzo che incrocia una serie di riff geniali e melodici ad una batteria da oscar. La mente ci mette poco a tornare ai fasti di “The Angel and the Dark River”. Da ascoltare guardando la pioggia. A Tapestry Scorned “Cept a picture on the wall Of lovers in embrace” Quando musica e letteratura si incontrano, non può che uscirne un capolavoro. Mentre batteria, chitarra, basso e tastiere intessono una trama di riff che prende al cuore e alla gola, Stainthorpe ci racconta di un “Arazzo Maledetto” che il protagonista vede mutare dopo la scomparsa della moglie seguendo 38


track by track

gli avvenimenti della sua vita. Un meraviglioso testo che richiama alla mente le atmosfere create da Oscar Wilde amplificandole con l’evocatività della musica. A livello concettuale il vero capolavoro dell’album. Like a Perpetual Funeral “And from my body drew a cold breath and final clue” I riff monolitici che accompagnano l’intro del pezzo ed il bridge di basso che accompagna il primo ritornello basterebbero a spazzare via con facilità i 3/4 delle band Doom Metal di oggi ma i My Dying Bride sono inarrestabili ed ispiratissimi. Melodia in grado di stringere il cuore in una morsa congelata e testo che ci mette in contatto con i pensieri più neri che albergano nel nostro subconscio. Il buio dell’anima alberga qui. A Map of All Our Failure “There are wolves here, many of them... I am staggered at their hatred of me” Se il basso (suonato dalla brava e bella Lena Abé) e la batteria non bastano a creare un’atmosfera di paranoica depressione, aspettate di arrivare alla melodia di violino per abbandonare qualsiasi freno. Lo strumento chiaro e “gioioso” che possiamo sentire nelle composizioni classiche di Vivaldi o Puccini qui si trasforma in un lamento dell’anima di una persona in preda alla depressione più nera creando una tensione che sfocia nella seconda parte del pezzo triturando letteralmente l’anima ed il cuore dell’ascoltatore. Preparate i fazzoletti, le lacrime sgorgheranno naturali. Hail Odysseus “Into her arms forevermore, she sings no longer on the shore”

Ancora un incrocio tra musica e letteratura. I My Dying Bride rileggono il mito di Ulisse dal punto di vista di una Circe innamorata dell’eroe protagonista dell’Odissea che lo osserva resistere a stento al richiamo delle sirene che lo invitano ad abbandonarsi all’abisso. Tra storia e metafore, i My Dying Bride confezionano un testo che trascende le semplici Lyrics per trasformarsi in una poesia dal retrogusto decadente che sembra uscita dalla penna di Rimbaud o Baudelaire. Musicalmente riff granitici di chitarre in Palm muting costruiscono una melodia in grado di assorbire l’anima. Da ascoltare ad occhi chiusi. Within The Presence Of Absence “The hand draws slowly back to the poor art of my eye” Marziale ma allo stesso tempo in grado di scivolare nelle nostre orecchie dolce come il miele. La disperazione è estrema, ineluttabile ma al contempo è venata di una dolce malinconia che crea un contrasto di emozioni che nemmeno il Dottor Henry Jekyll ha mai provato nel libro di Stevenson. Magistrale. Abandoned As Christ “Where was God when I most needed him?” A chiudere l’album troviamo un vero e proprio capolavoro. Al lentissimo ed evocativo intro si aggiunge un organo da chiesa che entra in testa costruendo mattone su mattone un pezzo dove le idee geniali si susseguono una dopo l’altra (vogliamo parlare dell’intermezzo ai confini dell’ambient allo scoccare della metà del pezzo?) mostrandoci ancora una volta lo stato di forma dei My Dying Bride. Bentornati cari My Dying Bride. 39


REVIEWS

BARONESS “Yellow and Green” (Relapse) I colori sono certamente il leitmotif che lega i 18 brani presenti in questa release (che arriva a distanza di tre anni dalla precedente), colori che dipingono una rinnovata atmosfera, rarefatta ed intima grazie ad azzeccati suoni delicati e lattiginosi, ricca di echi prog. ed incursioni in territori psichedelici che aggiungono valore, grande valore, ad un album che allarga gli orizzonti sonori della formazione di Savannah e li proietta verso altri lidi. La sapiente ed anche azzardata, sperimentazione rivela una band matura in cerca di un suono sempre diverso, sempre più fecondo di sfumature. È una nuova prospettiva, meno convenzionale ma molto affascinante in cui non mancano dei frangenti più duri. Un ritorno atteso ed inatteso che brilla. Voto 8.5 /10 (F.SR.)

ENSLAVED “RIITIIR” (Nuclear Blast) I vichinghi norvegesi giungono al dodicesimo album, apportando una leggera svolta del sound, mentre appare quanto mai rafforzato il legame con la mitologia norvegese dalla quale attingono a piene mani per dare vita ad un concept lirico molto intenso che ruota intorno ai riti ed agli istinti del genere umano in epoche remote. È un lavoro che si forgia di un’eccellente produzione, arrangiamenti imprevedibili, ispirato e pregno di sfumature che richiedono più ascolti attenti. Nel sound estremo confluiscono elementi innovativi, fra tutti il guitarwork di matrice progressive che ben si sposa con le melodie tipiche degli Enslaved. La complessità dell’album ed i brani lunghi, potrebbero risultare un ostacolo da aggirare per riuscire a goderne a pieno. Voto 7.5/10 (F.SR.)

PIG DESTROYER “Book Burner” (Relapse) Il quarto lavoro degli statunitensi si presenta immediatamente come un violento e veloce assalto agitato da furiosi riffs velocissimi. I 19 brani presenti grondano brutalità. Stilisticamente vicini alle coordinate del grind dei Napalm Death e Melvins, riescono però a personalizzare e permeare il loro sound di personalità supportati anche da una buona produzione. Un vero e proprio terrorismo sonoro scatenato in 32 minuti, che si esprime al massimo brani come “Baltimore Strangler”, “Burning Palm” e la opening “Sis”. È sicuramente un lavoro che riscuoterà un ampio consenso tra gli estimatori di queste sonorità estreme. Schizofrenico e dotato di carica distruttiva. Voto  7/10 (F.SR.)

SOUND STORM “Immortalia” (Scarlet Records) I Sound Storm tornano sul mercato dopo l’ultimo buon cd “Twilight Opera” datato 2009. “Immortalia” risulta senza dubbio fra i dischi piú ispirati del 2012, parte con la carica giusta e scorre fluido nelle orecchie dell’ascoltatore, in un tripudio di suoni affascinanti, sempre in grado di offrire sfumature nuove, ascolto dopo ascolto. Perfetto l’accostamento di melodie sinfoniche ricche, cori piú che azzeccati, chitarre energiche ed è doveroso un plauso alla sezione ritmica tirata a lucido. Il risultato è una prova importante che rafforza il concetto: il Metal in Italia è vivo ed in forma smagliante e fecondo di artisti, come i torinesi Sound Storm, in grado di imporsi alla nostra attenzione per qualità tecniche e compositive impressionanti. Voto 8.5 /10 (M.B.)

KILL RITUAL “The Serpentine Ritual” (Scarlet Records) Osservando l’artwork i Kill Ritual sembrano una tipica band Power Metal, ma ascoltando si scopre che suonano Thrash! Ma non l’old-school che tutti conosciamo, bensì moderno con sentite influenze della Bay Area, Power, Heavy, Prog e Classic Rock, dovute all’esperienza acquisita dai componenti in quanto ex Imagika, Dark Angel ed Eldritch. In “The Serpentine Ritual” si sente la voglia di sperimentare, si assaporano riffs con sonorità grezze ma distorte, sapientemente amalgamati ad intrecci di assoli sia micidiali che melodici, passando dall’aggressività ad atmosfere cadenzate e malinconiche. La voce di Josh Gibson ha un timbro particolare, rauco e graffiante (talvolta effettato) che rende i pezzi incalzanti. I Kill Ritual sfornano un debut album ben strutturato con un sound curato nei dettagli ed una linea vocale che dà una marcia in più. In futuro avranno molto da offrire! Voto 8/10 (G.C.)

MURDER CONSTRUCT “Results” (Relapse) Proprio come recita il titolo dell’album, qui sono i “risultati”, evidenti al primo impatto, a parlar chiaro. “Results” è un album immediato, veloce e furioso che non lascia scampo, non concede pause. I brani brevi travolgono l’ascoltatore con la loro estrema ferocia, non permettono di riprendere fiato, pulsano e devastano. L’effetto è quasi visivo, è una tempesta sonora che si abbatte con violenza. Nuovamente devo sottolineare lo splendido lavoro di Orion Landau, che imprime nell’artwork (e questo è proprio il caso di chiamarlo ART-WORK) il suo gusto sofisticato ed una visione che rafforza i contenuti di questo debutto, che ricordiamo nasce come progetto parallelo e vede nomi importanti della scena più estrema, Cattle Decapitation, Phobia e Exhumed che si palesano come musicisti spietati e temibili. Voto 7/10 (F.SR.)

40 40


REVIEWS

DEATH “Spiritual Healing Deluxe” Reissue (Relapse) Spiritual Healing fu l’album della maturità artistica e personale per i Death. Chuck si avvicina alla fusion mentre Murphy porta una pesante iniezione di shred negli assoli della band e i testi abbandonano le tematiche horror per concentrarsi su temi più sociali. Adesso, quest’importante periodo della band viene vivisezionato dalla Relapse Records con una succosa ristampa a triplo cd (tiratura limitata a 2000 copie) contenente l’album rimasterizzato, svariate take registrate durante prove e sessioni di registrazione e un live nella città di New Rochelle. Voto 9/10 (F.P)

TIAMAT “The Scarred People” (Napalm Records) A quattro anni di distanza da “Amanethes”, la cult band svesede torna a deliziarci, ripresentandosi alla nostra attenzione con un lavoro che sin dal primo impatto si presenta coeso e ricco, ribadendo con convinzione che non hanno perso nè smalto nè gusto per certe sonorità di cui innegabilmente sono i padri fondatori. “The Scarred People” è un ritorno in grande stile dunque, pervaso da uno spirito romantico ed oscuro, che denota l’ottimo stato di salute creativa della band. Undici brani ipnotici e senza sbavature che tengono incollato l’ascoltatore in un continuo alternarsi di emozioni, ed è come galleggiare in una dimensione crepuscolare, surreale ed impalpabile. Il disco è una sintesi perfetta tra suoni moderni e forti richiami agli ingredienti classici dei Tiamat, legati alla tradizione più che mai ma perfettamente calati ai giorni nostri, idealmente il passato ed il presente convivono in “The Scarred People”, impreziosendone i contenuti. Voto 8.5 /10 (F.SR.)

VINTERSORG “Orkan” (Napalm Records) Ottavo full-lenght firmato Vintersorg, edito da Napalm Records. Approdato sul mercato solamente a distanza di un anno dall’uscita di “Jordplus”, contemporaneamente ai numerosissimi progetti paralleli di Hedlund e contrariamente alle aspettative di tutti. La line-up è la solita, con una batteria sintetizzata dal computer, ma curata perfettamente sia nei suoni (al contrario delle tastiere) che nelle dinamiche. L’intero album sposa gli elementi avant-garde che caratterizzarono i precedenti lavori con l’irrinunciabile folk sound degli inizi ed a tratti compaiono anche delle sfuriate black. Complessivamente il sound risulta essere una maturazione della direzione presa da “Jordplus” mettendo però in risalto gli elementi orchestrali e le tastiere che sono in primo piano molto spesso. Voto 7.5 /10 (F.SN.)

GRAVE DIGGER “Home at last” (Napalm Records) I pezzi dell’EP presentano un sound molto solido, accomunati da atmosfere dal tono epico/ patriottico. I ritornelli sono orecchiabili ma talvolta risultano ripetitivi, “Metal will never die” si differenzia solo per le linee vocali, accompagnata da una chitarra “pizzicata” in chiaro stile AC/DC, onestamente speravo che Axel Ritt avrebbe optato per tutt’altra soluzione. Le canzoni tutto sommato sono buone e scorrono in modo fluido e credo che in sede live possano risultare più accattivanti, ma dai Grave Digger mi aspetto molto di più! Certo questo è solo un antipasto, ma spero che nel full-length ci sia più spazio per potenti martellate e riffs poderosi. Voto 7/10 (G.C.)

THY MAJESTIE “ShiHuangDI” (Scarlet Records) I Thy Majestie fanno parte dei gruppi made in Italy che fanno sul serio. I nostri tornano sulle scene dopo quattro anni dall’acclamato “Dawn” con un ospite d’eccezione, Fabio Lione. Un nuovo concept album ispirato da personaggio fondamentale della storia orientale: questa volta si parla di Qin Shi Huang. Il disco è un musthave che dimostra, ancora una volta, l’evoluzione della band dopo un degnissimo predecessore. È uno di quei dischi da ascoltare tutto d’un fiato. Fondamentale per chiunque vorrà conoscere meglio o totalmente la band. Ricca fonte d’ispirazione per le formazioni più giovani. Voto 8/10 (M.B.)

THE CHANT “A Healing Place” (Lifeforce Records) L’ultimo full-length del combo finlandese è un’opera unica per intensità ed intenzioni. Le diverse esperienze musicali s’intersecano in maniera efficace, momenti più duri ed oscuri, ambienti rarefatti si alternano a pause delicate ed introspettive e crescendo emozionali arricchiti da soluzioni originali (e penso alla sublime opening track “Outlines”). In A Healing Place il cantante, Ilpo Paasela, è davvero in grado di dare grande enfasi ai brani, mentre le chitarre disegnano atmosfere liquide e sognanti. Il disco procede spedito verso una direzione coerente e feconda di sfumature, mai banali seppur legate a soluzioni prettamente morbide di stampo post rock. Una prova di notevole impatto impreziosita d’innesti sapientemente utilizzati come echi progressive, tinte gotiche e ambient, afflati epici, tutti riferimenti che esprimo una grandissima qualità stilistica. Voto 9/10 (F.SR.)

41 41


PHOTOGRAPHY

FRANCESCO CASTALDO

“se l’artista si concede, facendo trasparire un pò della sua anima... beh si torna a casa con una foto che durerà molto di più della settimana o del mese in cui è pubblicata su una rivista” 42


PHOTOGRAPHY PHOTOGRAPHY

Cedric Bixler Zavala - The Mars Volta 43


PHOTOGRAPHY

Musical Snapshots Text Federica Sarra

“Vedo Musica, Ascolto Fotografie” Così Francesco Castaldo descrive il suo approccio con la musica dal vivo e con il suo lavoro. Un concerto visto e vissuto attraverso i fotogrammi, imprimendo per sempre le sensazioni di un momento. Com’è iniziata la tua carriera? C’è stato un evento o un episodio in particolare? Dopo essermi trasferito a Milano ho iniziato a frequentare tanti concerti rock / metal perché la musica è sempre stata la mia passione ed a Milano ce n’erano sempre tantissimi, almeno uno a settimana, mentre nella mia città nemmeno l’ombra. A questi concerti mi portavo una compatta digitale che avevo comprato in quel periodo, ottenendo scarsissimi risultati. Il tentativo di capire il motivo di risultati così deludenti mi ha portato a frequentare un tipo di concerto diverso, meno popolato, in locali più piccoli e per cui non erano necessarie autorizzazioni particolari per poter fotografare. E in quelle condizioni, dopo essermi preso una reflex digitale (fotografavo con una a pellicola, ma non la portavo ai concerti), ho fatto parecchia pratica. Poi nel 2004 ho iniziato a lavorare per un editore che, tra le varie pubblicazioni, aveva una rivista con un inserto musicale, oltre ad un sito web interamente dedicato alla musica. Al redattore proposi un servizio fotografico ad un concerto, chiese l’autorizzazione all’ufficio stampa e venimmo autorizzati. Il redattore si chiama Maurizio e la persona dell’ufficio stampa Mariela. Ad entrambi devo molto... con Maurizio un giorno magari riuscirò a sdebitarmi, Mariela invece non l’ho mai incontrata di persona ed ho perso il suo contatto perché ora non ricopre più quel ruolo. Musicalmente, quali sono i tuoi gusti, gli artisti che ascolti quotidianamente? Ascolto tanta musica diversa... tra i 18 e i 22 anni ascoltavo in continuazione Dream Theater, Angra, Vanden Plas, Pain Of Salvation... non volevo sentire altro. Poi sono “guarito”, riprendendo di tanto in tanto ad ascoltare i gruppi che avevano influenzato il periodo della mia adolescenza (Metallica, Guns n’ Roses, Motley Crue, Europe, Van Halen, Aerosmith, Extreme, Mr. Big, Skid Row, U2), interessandomi al nu metal (Korn, Linkin’ Park, Limp Bizkit, Sevendust), al rock un pò meno pesante tipo Skunk Anansie, Guano Apes, Breaking Benjamin, Strata, Red Hot Chili Peppers... a cui in tempi più recenti ho aggiunto Alter Bridge, Apocalyptica, Evergrey, Killswitch Engage, Destrage, Lacuna Coil, Meshuggah, Steel Panther e tanti altri. Dal vivo invece apprezzo anche la musica pop e rock, in genere musicisti ed interpreti sono molto molto bravi e mi piace sentire mu-

sica cantata e suonata bene. Giorgia, Elisa, Tiziano Ferro, James Morrison, Mika, Scissor Sisters, Sagi Rei, Sting... Lenny Kravitz, Kiss, Blink 182, Green Day... Arisa! Credo che tutti, anche per sbaglio, abbiamo sentito “Sincerità”; chi è abituato ad ascoltare un genere di musica più complesso ed aggressivo di una canzone pop di questo tipo a volte arriva addirittura a disprezzare la persona oltre che l’artista. Non è il mio caso, perché non sputo nel piatto dove mangio, ma ammetto che quella canzone non mi ha entusiasmato... il genere non fa proprio per me. Poi ho sentito i duetti voce / piano di Arisa e Giuseppe Barbera a Victor Victoria e sono rimasto folgorato... Passo giorni interi ad ascoltare i video della trasmissione presenti sul canale di Youtube di La 7. Vi consiglio di partire con la loro versione di “Enjoy the Silence” dei Depeche mode. Faccio prima a dirti quello che proprio non ascolto: l’indie. Non mi piace ma non significa che per questo, come molti pensano, non sia in grado di fotografarlo. Durante i pochi pezzi che possiamo fotografare, per me la musica è un piacevole sottofondo che mi aiuta a portare a termine l’incarico ma rimango concentrato su quello che vedo, non su quello che sento. Com’è cambiato il pubblico dei live shows in questi anni? Non è cambiato, è sempre lo stesso... Solamente diminuito, purtroppo, negli ultimi due anni. In base al genere che suona l’artista sul palco, cambia il genere di persona che si vede dietro le transenne. Ai Metallica vanno sia i metallari col chiodo che le famiglie con bimbi piccoli, ai concerti metalcore tutti i ragazzi tra i 16-20 anni sono vestiti con lo stesso stile ed i genitori stanno sul fondo ad aspettarli, da Biagio Antonacci piuttosto che ai Pooh la situazione è invertita: signore over “anta”, alcune in vestito da sera, sono accompagnate dai figli che stanno più defilati. Tant’è che negli anni ho conosciuto diversi frequentatori di concerti, con cui mi ritrovo molto spesso nei vari locali prima dell’inizio dello spettacolo. E quali sono i maggiori cambiamenti che hai notato all’interno dell’industria musicale? Ti posso raccontare quello che riguarda la mia interazione con il music business, perché in realtà con il mio lavoro non entro dentro a tutti gli aspetti che riguardano la produzione di un concerto o di un album di un artista. È cambiato il mezzo di distribuzione del prodotto finale, dall’edicola per le riviste e dal negozio di dischi per gli album / dvd si è passati ad internet, in cui è possibile reperire quasi qualunque tipo di contenuto gratuitamente, in modo spesso in modo illegale infrangendo il diritto d’autore. Per 44


PHOTOGRAPHY

Mikael Åkerfeldt - Opeth 45


PHOTOGRAPHY

un editore su internet è molto più difficile monetizzare rispetto a quanto accadeva in edicola, probabilmente proprio perché il mezzo è molto più nuovo rispetto alla carta stampata e l’esperienza è minore; perché Google possiede la stragrande maggioranza degli spazi pubblicitari dell’intera rete e li offre agli inserzionisti a prezzi bassissimi, dividendo una percentuale del ricavato con gli editori non sufficiente a tenere in piedi una testata, tranne che in rari casi. L’editore della carta stampata si ritrova quindi a diminuire la tiratura, perché i lettori trovano su internet quello che prima era loro concesso in esclusiva, e gli inserzionisti. Le case discografiche recuperano qualcosa dai diritti d’autore pagati dalle visualizzazioni dei video musicali su youtube e dalle vendite sulle piattaforme digitali autorizzate, ma sicuramente i margini sono molto minori rispetto a quelli provenienti dalla vendita di un album. Quindi con minori budget a disposizione, anche l’investimento sull’immagine di un artista da parte delle case discografiche e sull’acquisto di diritti di pubblicazione per quanto riguarda le riviste si riduce molto. Si inizia a chiedere gratis le foto per il booklet del dvd / cd live del tour ai fan in cambio di un ringraziamento nell’ultima pagina piuttosto che il nome sotto alla foto anziché acquistarle da un fotografo professionista. Sostanzialmente è sempre più difficile andare avanti. Quali sono gli artisti che ti hanno emozionato maggiormente e perchè? Hai un aneddoto in merito? In genere mi emoziono molto ai concerti degli artisti che ascoltavo durante l’adolescenza... mi ricordo di aver tremato per qualche secondo quando Billy Sheenan e Paul Gilbert dei Mr. Big si sono messi a fare la scenetta del trapano in “Daddy, Brother, Lover, Little Boy” proprio davanti a me nel primo concerto italiano dopo la reunion. Alla fine però ne è uscita una bella foto, pubblicata in orizzontale su due pagine in una rivista inglese. Oppure quando Paul Stanley dei Kiss, dopo avermi “selezionato” tra la ventina di fotografi presenti, si è avvicinato a 30 centimetri dal mio obiettivo e si è messo a suonare lì. E per fortuna avevo montato un grandangolo in quel momento. È emozionante quando un artista con cui hai lavorato in passato ti riconosce e ti saluta ad un concerto, magari ricordando con piacere un lavoro fatto insieme al di fuori di un concerto. Cos’è il carisma per te e come si esprime? Come riesci a “catturarlo” nelle tue immagini? Applicato ad un artista in contesto live, potrebbe essere

la capacità di coinvolgere, ma soprattutto sconvolgere, il pubblico che ascolta e vede il concerto. Alcuni lo esprimono anche visivamente trasmettendo le loro emozioni con il corpo, con le espressioni del viso; altri lasciano l’intero compito alla musica. Skin, Corey Taylor, Jennifer Lopez, Ruyter Suys dei Nashville Pussy, Zakk Wylde, Alteria degli ex NoMoreSpeech sono alcuni artisti “carismatici” che ho fotografato di recente. All’opposto abbiamo Steven Wilson, Norah Jones, Shaun Morgan dei Seether, Robert Smith che difficilmente li vedremo correre da una parte all’altra del palco, saltare, dare l’anima durante un momento particolarmente intenso. Senza nulla togliere alla musica che suonano ovviamente, dal punto di vista fotografico è molto più semplice fotografare la prima categoria perché la bellezza della foto sta quasi interamente nel soggetto, che autonomamente mostra l’intensità del momento. Per i secondi invece bisogna trovare inquadrature che rendano comunque interessante un soggetto visivamente meno espressivo. Per catturarlo bisogna essere sempre pronti a scattare, cercare di anticipare l’azione, essere nella posizione giusta quando capita. Certo serve anche l’attrezzatura adeguata... difficilmente una macchina compatta ha tempi di reazione adatti a catturare immagini alla velocità in cui si svolge un concerto. Guardare oltre o guardare attraverso? Fotografare un artista oltre la sua apparenza, non è un obiettivo facilmente raggiungibile durante i 2/3 pezzi concessi ai fotografi all’inizio del concerto. Perché ad inizio concerto l’artista sul palco è ancora molto impostato, spesso freddo, e si lascia andare più in là durante lo spettacolo, perché ovviamente non si può dirigere o interagire con il soggetto e non si possono controllare le luci. Infatti è molto più gratificante, anche dal punto di vista artistico, lavorare per l’artista anziché per una testata e non avere limitazioni sulla posizione o sulla durata del servizio fotografico al concerto. Se quarant’anni fa ci fossero state le stesse limitazioni, Jim Marshall non avrebbe potuto realizzare la foto di Jimi Hendrix che brucia la chitarra alla fine del Monterey International Pop Festival e che ha contribuito a farlo diventare l’icona che tutti oggi conosciamo. Tornando alla domanda, realizzare foto in cui si guarda oltre il soggetto piuttosto che attraverso il mirino credo sia l’ambizione di ogni fotografo. Realizzarle durante un concerto non è semplicissimo ma, se l’artista si concede, facendo trasparire un pò della sua anima... beh si torna a casa con una foto che durerà molto di più della settimana o del mese in cui è pubblicata su una rivista.

46


PHOTOGRAPHY

47

Brandon Boyd - Incubus


“Il mio cinema o si ama o si odia”

CINEMA

Text Francesco Passanisi

Illustration Eleonora Antonioni

Quentin Tarantino ripete spesso questa frase riguardo al suo lavoro ed in effetti le opinioni sul regista americano non sembrano conoscere altri colori che non siano bianco e Nero, genio o registuccolo, guru del cinema o semplice copione. Dopo la riconferma di “Django Scatenato”, ripercorriamo la vita e la carriera di un uomo che sta cambiando la storia del cinema. Lo aspettavano tutti al varco, divisi tra chi lo farebbe camminare su un tappeto rosso di finissima seta e chi sui carboni ardenti, tutti pronti ad amare o odiare il suo nuovo “Southern Spaghetti Western” Django Scatenato, la storia di uno schiavo liberato da un cacciatore di taglie per ritrovare la moglie rapita e vendicarsi degli schiavisti che li hanno imprigionati. Il cast è letteralmente una galassia di stelle del cinema con nomi da svuotare le tasche dei produttori per poi riempirle il doppio con i proventi di quello che era successo assicurato. Il 25 Dicembre 2012 (data della release americana) appaiono sullo schermo attori del calibro di Jamie Foxx, Leonardo DiCaprio, Christoph Waltz, Kerry Washington e Samuel L.Jackson portando sullo schermo la sua tredicesima sceneggiatura “originale ma non troppo”, ripresi dalle macchine da presa che si muovono per la nona volta seguendo la perversa geometria visiva del regista statunitense. Una Videoteca sulla spiaggia La Los Angeles degli anni ‘80 potrebbe subito farci pensare alla spiaggia, ragazze bellissime in costume da bagno e tipi palestrati che mettono in mostra gli addominali nei lungomare della città o li comprimono sotto sgargianti camicie nelle discoteche. Entriamo però nella videoteca “Manhattan Beach Video Archives” dove, se siamo fortunati, potremmo trovare un ragazzo dalla parlantina velocissima e logorroica in grado di parlare per ore di Spaghetti Western, B-Movie, film d’exploitation e tutti quei generi spesso snobbati dalla critica oppure delle sue sceneggiature che scrive dall’età di 14 anni. Questo cinefilo maniacale di nome Quentin Tarantino, madre di origini irlandesi e cherokee e padre di origini italiane, magari ci inviterà alle riprese del suo primo vero film dopo l’incidente che rovinò la pellicola di “My Best friend’s birthday”, girato con 6000 $ finanziati da lui e dagli attori stessi (i suoi colleghi del videonoleggio). Oggi, poteri di Internet, sono disponibili su Youtube i 34 minuti di pellicola salvatasi dall’incidente. Ve lo dico io di cosa parla “Like a Virgin”... Le sceneggiature che Tarantino scriveva durante il suo lavoro in videoteca (al tempo aveva già scritto Una vita al massimo, Assassini Nati e Dal Tramonto all’alba) gli permisero di avvicinarsi a Hollywood dalla porta di servizio. Fu ad una festa che incontrò Lawrence Bender, un produttore che aveva già letto ed apprezzato un paio delle sue sceneggiature, al quale fece leggere Reservoir Dogs (Le Iene), un progetto che Tarantino aveva in mente da un

pò di tempo. La sceneggiatura arrivò anche nelle mani di Harvey Keitel, attore e produttore che aveva occhio per il talento (Aveva già lanciato registi come Martin Scorsese e Ridley Scott), che si offrì di coprodurre la pellicola ed interpretare uno dei personaggi. Girato principalmente in un deposito funebre in costruzione con un Budget di appena 1.200.000 $ e alcuni vestiti e macchine degli stessi attori, Reservoir Dogs spaccò fin da subito pubblico e critica mostrando già in pieno il “Tarantino Style”. I dialoghi surreali tendenti quasi al non-sense (quello geniale sull’interpretazione di “Like a Virgin” gli valse una copia con dedica speciale di “Erotica” da parte di Madonna che recitava: <<È una canzone che parla d’amore, non di fave grosse. Madonna>>), la violenza cinica e realistica, lo svolgimento non cronologico della storia e le frequentissime citazioni di altri film che si rifanno ai movimenti della letteratura post moderna e soprattutto dell’avantpop diventeranno ben presto un vero e proprio marchio di fabbrica del regista statunitense. Royale con Formaggio Le Iene, presentato al Sundance Festival ,a Montreal e a Toronto, porta grande fama a Tarantino per l’alto tasso di novità di questo film che fa rivivere gli anni d’oro del Pulp e del Noir con svariate citazioni incorporate in uno stile comunque fresco e personale. I produttori di Hollywood gli si lanciano addosso con proposte come Speed e Men in Black, ma Quentin “fugge” ad Amsterdam per rifinire Black Mask, la sua nuova sceneggiatura. Riunendo le forze con Lawrence Bender inizia il casting per questa serie di brevi corti che avrebbero dovuto rappresentare il mondo del crimine senza esserne un’apologia. Vengono richiamati Tim Roth e Harvey Keitel (Che diventano i primi di un lungo elenco di “attori feticcio” di Tarantino) ed entrano nel cast Samuel L.Jackson (che era stato uno dei papabili al ruolo di Mr. Orange ne Le Iene), John Travolta (la cui carriera ebbe un rilancio dopo l’uscita del film) e la giovane Uma Thurman (che diventerà la musa per eccellenza di Tarantino) assieme a Ving Rhames e Bruce Willis. Ne esce fuori Pulp Fiction, un film diviso in 3 episodi (più un breve prologo) in ordine non cronologico (come nella migliore tradizione pulp), che vale un oscar per la migliore sceneggiatura originale a Tarantino e all’amico ed ex-collega Roger Avary. Stilisticamente Pulp Fiction riprende ed amplia maggiormente il “Tarantino Style”, rimangono i dialoghi talmente surreali da sfociare nel filosofico, la violenza nuda e cruda ma realistica, un certo Humour Nero che pervade il film e gli stalli che si creano tra personaggi armati (tipici degli 48


CINEMA

spaghetti western). Si inizia anche a delineare il “Mondo Tarantino”, ovvero un mondo parallelo con marchi inventati (le sigarette Red Apple, i Big Kahuna Burger), fatti e dettagli che legano flebilmente ogni suo film (ad esempio il personaggio di Travolta, Vincent Vega, condivide il cognome con il personaggio di Micheal Madsen, Vic Vega, ne “Le Iene” e Tarantino stesso ha lasciato intendere che fossero fratelli)

e un linguaggio tendente al turpiloquio comunque adattissimo all’ambientazione. Prima di tutto lasciami dire che non c’è nulla di omosessuale in quello che ti stiamo per chiedere. Pulp Fiction porta ancora più fama al regista americano, iniziando a creare la spaccatura che ancora oggi divide 49


CINEMA

pubblico e critica tra chi lo considera un genio e chi un pallido plagiatore (a tal proposito Tarantino rivedrà una famosa frase di Stravinskij in “I grandi artisti non copiano, rubano”) rendendolo ancora meno avvezzo allo Star System di Hollywood. Dopo aver diretto un episodio della serie TV E.R., prodotto il film Killing Zoe dell’amico Roger Avary ed essere apparso davanti la macchina da presa in Mister Destiny di Jack Baran e Desperado dell’amico Robert Rodriguez (conosciuto durante la sua breve permanenza al Sundance Institute, una scuola di cinema diretta da Robert Redford), Quentin Tarantino produce Four Rooms, un film ambientato in un Hotel di Los Angeles diviso in quattro episodi scritti e diretti ognuno da un amico di Tarantino e aventi come protagonista il fattorino Ted (Tim Roth). Lo stesso Tarantino scrive e dirige “L’uomo di Hollywood” (Interpretando anche uno dei personaggi), la storia di una scommessa tra 3 facoltosi clienti dell’hotel che finisce in una tragedia dal retrogusto ironico. Seppur condensato in breve tempo anche questo exploit di Tarantino porta il suo inconfondibile marchio con dialoghi surreali e scurrili (193 “Fuck” in 21 minuti), violenza realistica (la scommessa prevede il taglio di un mignolo qualora uno dei protagonisti non riesca ad accendere per 10 volte consecutive il suo accendino) e un certo umorismo nero e cinico che questa volta colpisce proprio lo star system di Hollywood. Se oggi come oggi, senza un’occupazione, avessi la possibilità di scappare con mezzo milione di dollari, l’afferreresti? Una delle irrefrenabili passioni di Tarantino furono i film di Blaxploitation, film americani degli anni ‘70 pensati appositamente per un pubblico afroamericano (per citarne uno dei più famosi, Shaft) con protagonisti neri, e i libri di Elmore Leonard. Tarantino unì le due cose cambiando la razza della protagonista del libro e chiamando Pam Grier, la più iconica star di questo genere la cui carriera era però in declino. Ad affiancare la Grier troviamo nuovamente Samuel L. Jackson nel ruolo del trafficante di armi Ordell, Robert Forster nel ruolo del garante di cauzioni Max Cherry, Michael Keaton nel ruolo del poliziotto Ray Nicolette e soprattutto Robert De Niro nel ruolo di Louis Gara, socio/amico di Ordell. Jackie Brown è un film più complesso e ragionato di Tarantino in cui la violenza resta sempre un passo indietro rispetto allo svolgimento della storia (anche se Tarantino ha sempre dichiarato che le scene di violenza sono per lui un mezzo per delineare lo svolgimento della storia, come le scene di ballo nei Musical, non scene fini a se stesse) ma che porta inconfondibilmente il marchio del “Tarantino Style” soprattutto in certe inquadrature (l’inquadratura da dentro il bagagliaio della macchina di Ordell, la prospettiva dagli occhi del cadavere e la citazione nei titoli di testa de Il Laureato) e nei dialoghi che uniscono lo stile di Leonard a quello di Tarantino (tant’è che le 38 ripetizioni

della parola “Negro” gli valsero delle infondate accuse di razzismo da parte di Spike Lee). Tarantino riesce di nuovo a rilanciare le carriere di Pam Grier (nomination al Golden Globe come miglior attrice protagonista) e quella di Robert Forster, inanellando l’ennesimo successo (per quanto molto meno esplosivo di quello dei film precedenti) della sua carriera. Quella donna merita la sua vendetta e noi meritiamo di morire. Dopo Jackie Brown, Tarantino si prende una pausa di ben 6 anni dedicandosi al teatro e alla produzione di film esteri ben poco corrispondenti ai normali canoni di Hollywood. Esisteva però un personaggio, La Sposa, nato sul set di Pulp Fiction dall’intesa tra Quentin Tarantino e Uma Thurman e un progetto, Kill Bill, che meritava di essere sviluppato. Ne nasce così un lunghissimo film (più di 4 ore di girato) che Quentin e il produttore Harvey Weinstein decisero di dividere in due volumi che sarebbero usciti separatamente. Kill Bill diventa così uno dei più nitidi specchi del Tarantino citazionistico e cinefilo. Kill Bill Vol. 1 è una dichiarazione d’amore ai kung-fu Movie cinesi e giapponesi, ai film sulla Yakuza, sui samurai ma anche agli spaghetti western. In tutto il film non c’è un dettaglio che non sia la citazione di un film passato e magari sconosciuto al grande pubblico (come, ad esempio, i personaggi di Pai Mei e Hattori Hanzo già presenti in alcuni film degli anni ‘80). Oltre ad Uma Thurman nei panni de La Sposa, un ex-killer professionista che viene ridotta in fin di vita dai suoi ex-colleghi il giorno del suo matrimonio, Tarantino ritrova Michael Madsen nei panni di Budd, il cinico fratello di Bill che si intravede alla fine del film. A loro si aggiungono le ottime Vivica A. Fox, Lucy Liu e Daryl Hannah che completano le De.V.A.S. (Deadly Viper Assassination Squad), 5 assassini con soprannomi che richiamano il nome di 5 mortali serpenti velenosi e fanno capo al fantomatico Bill (del quale, durante il primo volume, non viene mai mostrato il volto), l’incantatore di serpenti. Il volume 1 di Kill Bill stravolge il concetto di violenza del Tarantino Style; se prima la violenza era portata sullo schermo con estremo realismo, in Kill Bill Vol. 1 è spettacolarizzata, sottolineata da rallenty e fontane di sangue che sgorgano dalle mutilazioni. Il combattimento finale che si svolge alla “Casa delle Foglie Blu”, con la sposa fasciata in una tuta gialla (citazione del film L’ultimo combattimento di Chen con Bruce Lee), è spettacolarizzato come nella migliore tradizione dei Kung-Fu movie che spesso abbandonavano il realismo in favore di combattimenti inverosimili ma di grande impatto visivo. Ancora una volta lo svolgimento della storia non segue un ordine cronologico e sono presenti frequenti flashback, di cui uno realizzato in stile Anime. È nuovamente un grande successo per Tarantino, che crea così il suo film più popolare virando maggiormente verso l’action movie, 50


CINEMA

in cui si segnala anche l’utilizzo di una colonna sonora non originale che riprende diversi brani delle colonne sonore di poliziotteschi e spaghetti western italiani (Tra gli autori il grande Ennio Morricone), film Cinesi e giapponesi e film pulp e noir americani. I am gonna kill Bill Kill Bill Vol. 1 lasciava aperti tanti interrogativi che sembravano quasi dei plot-holes (espressione inglese per indicare incongruenze e buchi nella trama). Tocca al secondo volume risolverli e chiuderli abbastanza da delineare una sceneggiatura degna di Tarantino ma lasciando sempre un alone di mistero, soprattutto attorno alla figura di Bill che finalmente assume un volto. E il volto è quello del carismatico David Carradine, vero mito generazionale per gli americani che sono cresciuti con la serie televisiva Kung-Fu, nella quale interpretava il personaggio di Kwai Chang Caine e che adesso risorge a nuova vita con una meravigliosa interpretazione di Bill, personaggio dalle mille e controverse sfaccettature che portano quasi ad amare questo “assassino bastardo” (come si autodefinisce nel finale). Si scopre anche il nome de La Sposa (con l’inserimento di una scena genialmente fuori luogo) e la sequenza di eventi che portò al “Massacro dei Due Pini”, svoltosi durante le prove del matrimonio. Kill Bill Vol. 2 si muove lungo binari stilistici più vicini allo spaghetti western (tranne per il capitolo che riprende l’addestramento de La Sposa al tempio di Pai Mei), con un larghissimo uso della musica di Ennio Morricone che sottolinea perfettamente le scene orchestrate da Tarantino. L’amore del regista americano per il “Cinema di genere” italiano traspare da ogni inquadratura, ogni scena riveduta dal suo stile, la violenza torna nei binari del realismo pur mantenendo una finezza in certi combattimenti (Quello brevissimo contro Bill e le scene dell’addestramento con Pai Mei) che sembrano quasi una danza che fa da contraltare alla pura violenza senza onore dello scontro con la spietata Elle Driver (Daryl Hannah). Con la serie di Kill Bill (il terzo film è stato annunciato per il 2014), Tarantino coglie un successo in grado di colpire sia cinefili incalliti che amanti dei film d’azione, aprendosi un pochino di più al grande pubblico. E ora, per la gioia dei vostri occhi... Potete solo guardare.... Dopo aver diretto una breve sequenza d’inseguimento in Sin City dell’amico Robert Rodriguez, un film quasi interamente girato in digitale dove Tarantino riesce ad unire la finezza registica tipica dei classici inseguimenti d’auto dei poliziotteschi italiani alla potenza della computer grafica alla quale era sempre stato refrattario, gli viene chiesto di dirigere un episodio di una serie TV che per molti versi rispecchia le atmosfere crude dei film pulp e noir tanto amati dal regista. Si parla proprio di C.S.I.: Crime Scene Investigation (conosciuto in Italia come C.S.I: Scena del

crimine) del quale Tarantino si è sempre dichiarato Fan. Dalla sceneggiatura, scritta dagli autori della serie con la collaborazione di Tarantino nascono due episodi speciali che fondono allo stile canonico della serie quella del regista americano. La trama si verte sulla paura atavica dell’essere umano di essere sepolto vivo (già sperimentata in Kill Bill Vol. 2), che qui si sviluppa attraverso il piano di un folle che rapisce l’agente Nick Stokes e lo seppellisce vivo in una bara di plexiglass con una webcam che riprende la sua agonia e la trasmette in diretta alla scientifica di Las Vegas. Il risultato di questo matrimonio tra due stili simili ma pur sempre diversi prende il meglio da ognuno senza prevaricazioni. L’approccio noir e scientifico della serie TV si fonde al pulp tipico di Tarantino che lascia il suo segno, oltre che nelle inquadrature in primo piano atte ad intensificare le emozioni provate dai protagonisti, anche nei dialoghi che raccontano aneddoti personali che riprendono la cultura pop americana (Il cavallo Buster) o racconti simili ai dialoghi dei suoi film (quello tra Warrick e Nick nello spogliatoio) e nel vasto uso di dettagli splatter o nello splendido umorismo nero del sogno di Nick. L’angosciante C.S.I.: Sepolto vivo diventa così un ottimo esempio delle potenzialità generate dall’unione di cinema e serie TV tanto che l’episodio viene distribuito come Dvd singolo ed è perfettamente godibile come un film a se stante. Quest’auto è al cento per cento a prova di morte. Ma per godere di questo vantaggio, tesoro, dovresti essere seduta esattamente dove sono io! Una delle costanti del lavoro di Quentin Tarantino, che traspare da vari aspetti dei suoi film (soprattutto nei cameo di “illustri sconosciuti” come John Saxon e Edward Bunker e nel rilancio di carriere di attori simbolo degli anni ‘80 come John Travolta e Pam Grier) e dalle interviste rilasciate dagli attori che hanno lavorato con lui, è l’estremo divertimento che il regista prova nello stare sul set (comparato spesso a quello di un bambino in un parco giochi) e nel riempire i suoi film di piccole citazioni e dettagli che rimandano al suo mondo e alla sua cultura cinematografica, cosa che lo lega al suo grande amico e collega Robert Rodriguez. È proprio con quest’ultimo che prende forma il progetto Grindhouse. Grindhouse fu il soprannome dato a dei cinema che proponevano pellicole d’exploitation, film di serie B spesso tendenti al Trash che univano sesso, violenza, scene splatter esagerate con sceneggiature raffazzonate e pochi mezzi di produzione ma dietro alle quali spesso si trovano registi che molto hanno da insegnare ai loro colleghi più famosi e dai quali Tarantino e Rodriguez presero molti spunti inseriti poi nei loro film. Nei cinema Grindhouse (spesso cinema di quart’ordine dai limitati mezzi riproduttivi) venivano organizzate maratone di 2 o più film al costo di un unico biglietto con la proiezione inframmezzata da 51


CINEMA

Trailer o messaggi pubblicitari e spesso funestata da continui problemi tecnici (pellicole rovinate, lentissimi cambi di pellicola, bobine mancanti, montaggi fatti male) che creavano comunque una certa atmosfera ed erano un ottimo divertimento per le classi meno agiate o per i cinefili che avevano capito il valore di questi film. Il fine ultimo di Grindhouse era ricreare quest’atmosfera con due film (uno di Tarantino, l’altro di Rodriguez) che fossero volutamente di serie B e dividere la proiezione con dei falsi trailer di registi che dividevano con loro la passione per questi film. Gli autori di questi 5 “Fake Trailer” furono lo stesso Rodriguez, Rob Zombie, Eli Roth, Edgar Wright e un trio di registi emergenti che parteciparono ad un concorso indetto dallo stesso Rodriguez. In America fu un insuccesso a livello di pubblico e box-office e spaccò la critica tra chi apprezzava l’atmosfera da revival di questo particolare genere e chi non capiva come due grandi registi simili si fossero “ridotti” a girare film di serie B. In quasi tutto il resto del mondo fu deciso di distribuire i due episodi separatamente eliminando i Trailer (tranne per Machete il fake trailer di Rodriguez, diventato poi un film, che apre Planet Terror) ed aggiungendo le scene tagliate in fase di montaggio. A Prova di Morte, il segmento di Tarantino, riprende lo stile degli slasher movie unendogli la passione e la stima del regista verso la figura dello Stuntman e le loro macchine “A prova di morte” (Macchine rinforzate per assicurare l’indennità dei piloti che dovevano simulare incidenti prima dell’avvento della computer grafica) inscenando la storia di un perverso Stuntman che gira per l’America uccidendo giovani ragazze a bordo della sua Muscle Car rinforzata. Nel ruolo del protagonista Stuntman Mike troviamo nuovamente un mito degli anni ‘80 la cui carriera era in declino da un pò di tempo, il mitico Kurt Russell, volto storico di Jena Plissken in 1997:Fuga da New York, R.J. Macready in La Cosa e Jack Burton in Grosso Guaio a Chinatown. Al botteghino fu un mezzo fiasco ma fortunatamente il mercato Home Video venne in aiuto a questo coraggioso progetto. Ogni uomo sotto il mio comando mi dovrà cento scalpi di nazisti e io li voglio i miei scalpi! Il mezzo fiasco di Grindhouse fu l’occasione che molti aspettavano per svilire il controverso regista americano. In realtà, soprattutto A Prova di Morte è un film volutamente di serie B girato da un regista comunque di Serie A, da capire e da leggere nella chiave adatta al genere. Serviva comunque un film che riabilitasse il nome del regista con un exploit grandioso. Già ai tempi di Jackie Brown aveva cominciato a lavorare su una storia ambientata nel corso della II Guerra Mondiale. Il progetto, che vide la

nascita di 3 sceneggiature, fu continuamente rimandato fino al 2005, quando alla mostra del cinema di Venezia, Tarantino assistì alla proiezione di Quel Maledetto Treno Blindato (uscito nel mondo col titolo di “Inglorius Bastards”) del regista italiano Enzo Castellari. Il progetto fu poi rimandato per permettere a Tarantino di lavorare su Grindhouse ma subito dopo lavorò ancora sulla sceneggiatura, concentrandovi il meglio delle tre già scritte. Nasce così Inglorious Bastards (uscito in Italia col titolo Bastardi senza Gloria), un film che spazzerà le voci che lo vogliono come un regista perduto. Il cast è stellare; Brad Pitt interpreta il sergente Aldo Raine, a capo di un plotone (I Bastardi) di soldati americani che si muovono nelle linee nemiche ben prima dello sbarco in Normandia con il preciso intento di seminare il terrore nel cuore dei tedeschi togliendo lo scalpo ai soldati che incappano nelle loro imboscate. Oltre al già altisonante nome di Pitt troviamo l’ottimo Christoph Waltz (Oscar come miglior attore non protagonista) nei panni dello spietato colonnello Hans Landa, soprannominato “Il Cacciatore di Ebrei”, e una bellissima Diane Kruger perfettamente a suo agio nei panni della diva del cinema tedesco Bridget Von Hammersmark, in realtà una spia degli Alleati. Il film, pur risultando molto più ragionato e posato, trasuda lo stile di Tarantino da ogni fotogramma con quei tocchi di genio che hanno contraddistinto la sua filmografia e mostrando l’amore per il cinema visto anche come luogo fisico. Sarà infatti in un cinema dove verrà proiettato il film propagandistico Stoltz Der Nation (L’orgoglio della Nazione, vero e proprio film nel film diretto dall’ottimo Eli Roth) che si svolgeranno le scene finali di Bastardi senza Gloria e sarà proprio l’incendio del cinema a salvare il mondo alla fine di tutto, cambiando coraggiosamente il corso della storia. Signori, avevate la mia curiosità, ma ora avete la mia attenzione Esco dal cinema ancora estasiato, dallo schermo mi sono arrivate immagini di puro amore per il cinema e puro genio creativo. Una sceneggiatura brillante, densa di Tarantiniate imperdibili, una regia straordinaria, con delle inquadrature che potrebbero diventare veri e propri quadri da esporre nei musei e Christoph Waltz e Leonardo DiCaprio che si riconfermano attori di livello inarrivabile tratteggiando due personaggi complessi come il Dr. Schulz e, soprattutto, l’ordinaria malvagità dello schiavista Calvin Candie. Tarantino amplia ed esplora la sua crescita artistica fondendola ancora di più con il suo marchio inconfondibile. Che un secondo oscar sia in arrivo per la bacheca del regista del Tennessee?

52


MISTIIS

ART

A METAPHYSICAL JOURNEY Text Federica Sarra

Uno straordinario viaggio nel passato che riporta alla luce le zone d’ombra di una tradizione lontana legata alla storia e alla filosofia. Mistiis, il giovane artista greco, ci racconta di un’ arte dotata di una forte carica simbolica e dell’eterna lotta fra bene e male. Qual’è la filosofia si cela dietro Mistiis e come descriveresti la tua arte? La filosofia alla base della mia arte sono l’oscurità e la luce, come il bene ed il male, le due facce della stessa moneta. In questo senso posso dirti che la mia arte ha due lati. La prima parte di essa la chiamo “Antica Agiografia Mistica” ed è ispirata alla storia dell’antica Grecia, dai monasteri e dalle chiese cristiane ortodosse. Sto cercando di creare e proporre un altro stile di agiografia così come la conosciamo al giorno d’oggi. L’altro volto è cosiddetto “il lato oscuro”, ovvero tutta quella parte del mio lavoro artistico più surrealisticamente simbolico e cupo. La tua definizione di Arte Oscura? L’Arte Oscura non è un arte “regolare”.

Non devi creare per forza delle immagini blasfeme o macabre per essere un artista oscuro. Magari questa è la strada piu facile, ma personalmente voglio trasmettere un messaggio. Per esempio, il dipinto “Unholy Leader” riguarda la follia della guerra in Libia. Puoi vedere il folle dittatore ed allo stesso tempo lo puoi leggere come il “Grande Capo” che governa il mondo. Il dipinto “Goroptica” mostra come il bene ed il male lavorano, per così dire, insieme e come tu possa acquisire la verità soltanto guardando all’interno della tua anima. Quali sono state le esperienze artistiche più importanti nel corso degli anni? Quando visitai il Museo dell’Opera del Duomo a Firenze! Fu una grande esperienza per me. L’altra quando feci un agiografia (nel mio stile) in una piccola chiesa nel Peloponneso molti anni fa. È sempre lì ed i visitatori pensano che sia vecchia di centinaia di anni! In che modo la musica influenza il tuo lavoro e cosa ascolti mentre lavori? Ascolto sempre musica quando sto la-

vorando. La musica aiuta decisamente a creare l’atmosfera, a seconda del mood del brano che ascolto, le mie opere risentono di quel particolare stato d’animo. I miei artisti preferiti sono King Diamond ed i Mercyful Fate. Mi piacciono molto anche band Epic Metal, come Sarissa, War Dance, Warlord, Manilla Road e molti altri. Quali sono le emozioni che vuoi manifestare visivamente nei tuoi lavori? C’è ne sono così tante ma principalmente credo tutte emozioni che descriverei come “buone”, “vive” e “felici”. Com’è la tua esperienza lavorativa nel clima finanziario attuale? Indubbiamente è difficile. Abbiamo tutti bisogno di lavorare più duramente. Non c’è altro modo. Cosa significa la parola Successo per te? Per me il successo non riguarda la destinazione ma il viaggio. Mi sento realizzato quando la gente capisce ed apprezza la mia arte.

Da destra a sinistra: “catacombs”, “Unholy Leader” e “Goroptica”.

53


CULTURE

“A VOLTE RITORNO” JOHN NIVEN (Einaudi)

“Dio sta arrivando... Fate finta di lavorare” Text Francesco Passanisi

Questa è la scritta che campeggia negli uffici del Paradiso, il giorno del ritorno di Dio dalla sua vacanza. Ebbene sì, dopo aver lavorato duramente durante il medioevo per contenere i danni di quell’epoca oscura, Dio ha deciso di prendersi 15 giorni celesti (Circa 400 anni sulla terra) di meritata vacanza andandosene sul lago a pescare. Al momento della sua partenza la Terra sembrava volgere per il meglio, “su un

palco di Londra si recitava il Re Lear, mentre dall’altra parte della città Bacone lavorava al De Sapientia Veterum Liber. El Greco – La lingua premuta sul labbro superiore per trovare la concentrazione, il pennello tremolante – stava dipingendo L’apertura del quinto sigillo. Galileo sbirciava in un prototipo di telescopio, lo sguardo che si posava per la prima volta sui quattro satelliti di Giove. Monteverdi aveva da poco 54


CULTURE

finito di comporre l’Orfeo. Il momento ideale per andarsene a pescare, aveva pensato Dio.” Dio, con l’aspetto di un uomo sulla cinquantina ma bello come una star di Hollywood, torna in ufficio raggiante, rifila pacche sulle spalle a tutti e si ferma a scherzare con i suoi due collaboratori gay più stretti (“perché Dio adora i froci” scrive Niven) mentre sulla terra corre l’anno 2011. Naturalmente Dio deve aggiornarsi su quello che è successo sulla terra e i suoi collaboratori gli hanno preparato esaustivi dossier cartacei e digitali su tutto quello che è successo durante la sua assenza, compresi di film in dvd e cd musicali. Dio scopre la letteratura, i progressi tecnologici ma soprattutto la musica, appassionandosi fin da subito al Jazz e al Rock, i videogames, il grande cinema e tutto quello che di bello ha creato l’umanità durante la sua assenza. Ci mette però pochissimo ad arrivare alle note negative: Inquinamento, fanatismo religioso, attivisti “cristiani” antiabortisti ed antiomosessuali, armi nucleari, deforestazione, persecuzioni razziali e religiose, guerre mondiali, guerre “sante”, reality spazzatura che invadono le televisioni occidentali, enormi truffe economiche e via dicendo. I suoi collaboratori lo sentono diventare furioso, bestemmiare, prendere a calci i mobili del suo ufficio, singhiozzare sommessamente (“Dio di buonumore? Lo zio più simpatico dell’universo. Jack Lemmon o James Stewart imbottiti di Prozac. Dio di malumore? Un produttore hollywoodiano che ha appena imbroccato un fiasco clamoroso. Joel Silver o David Geffen imbottiti di crack”), alla successiva riunione (condita di tramezzini, ciambelle, caffè, sigarette e spinelli) con i santi, i suoi consiglieri più fidati, Dio scopre ancora più magagne. Ci sono circa trentottomila diverse professioni cristiane che fanno a gara a chi segue meglio i 10 comandamenti (in realtà Dio ne aveva lasciato solo uno “Fate i Bravi!” ma quello “schizzato bello e buono” di Mosè, vergognandosi di aver fatto tanto clamore con il suo popolo per poi trovarsi con un’unica e semplicissima legge, ne aveva inventati 10 di sana pianta... Appena arrivato in paradiso Dio lo prese a calci nel culo per un centinaio di anni terrestri) e le parole scritte nella Bibbia (Un’accozzaglia di storielle raccattate qui e lì ed ingigantite all’inverosimile), il Creazionismo (con Dio che stramazza al suolo dalle risate quando scopre che, nonostante l’esistenza della datazione dei fossili col carbonio 14, i creazionisti credono che Dio intervenga personalmente 55

manomettendo i dati ogni volta), l’illegalità della marijuana (“Perché? - fa Dio sporgendosi verso Pietro e ignorando la litania di Matteo. - Perché dovrebbero bandire qualcosa che ho messo lì per il loro piacere?” chiede Dio). Dopo una chiacchierata con Maometto (“Maometto piace a tutti. È un tipo talmente simpatico.”) sui fondamentalisti islamici Dio è talmente avvilito da pensare di distruggere completamente la vita sulla terra e ricominciare da capo, ma dopo un viaggio all’Inferno per parlare con Satana ed una chiacchierata con il suo braccio destro Pietro davanti ad un bicchiere di buon whisky e accompagnati dalle note del magico sax di John Coltrane, Dio prende l’unica decisione possibile: rimandare suo figlio Gesù sulla stessa terra dove 2000 anni terrestri prima non era stato capito e poi era stato crocifisso. Gesù è un ragazzino nel corpo di un trentenne assolutamente diverso da quanto descritto nella Bibbia (Moltiplicazione dei pani e dei pesci per 5000 persone? Ma quando mai, ci saranno stati al massimo una cinquantina di persone e una marea di cous cous. Solo che quel banchetto diventò ben presto come il concerto dei Sex Pistols al 100 Club, tutti dicevano di esserci stati), bello come il padre ma poco responsabile, che ha passato buona parte delle vacanze di suo padre a bere birra, fumare spinelli, giocare a golf e suonare la chitarra elettrica con il suo amico Jimi (Hendrix. Ndr) invece di fare le veci di suo padre. Ma Dio sa benissimo che suo figlio, anche se non sa fare altro che suonare la chitarra e cantare, ha una qualità ineguagliabile, un’infinita bontà che gli viene proprio dal cuore e lo rende immune alla cattiveria e alla malignità che imperversano sul mondo. Gesù nasce quindi sul finire degli anni ‘70 da una vergine americana (Perché Dio, su certe cose, è davvero all’antica) e crescendo non può far altro che diventare il musicista di una band grunge/alternative, che dopo il medio successo degli anni ‘90 vede spegnersi i riflettori su se stessa e sul loro genere in favore del pop, ed è circondato da un gruppo di amici composto da barboni alcolizzati, un’ex tossicodipendente con un passato di prostituzione, un reduce della guerra del Vietnam che porta ancora nella psiche i segni di quell’orrore e due tossicodipendenti che cercano di uscire dal tunnel della droga che Gesù e i due musicisti che formano la sua band cercano di aiutare in tutti i modi possibili, pur convivendo con una cronica mancanza di soldi.


CULTURE

Ma una notte Dio appare al figlio dicendogli di aspettarsi un “segno divino”, che puntualmente appare il giorno dopo sotto forma di un enorme cartellone pubblicitario che reclamizza “American Popstar”, il talent show più seguito d’America. Anche se Gesù, da buon musicista, odia quelle pagliacciate si trova costretto ad andare alle selezioni dove vengono sbalorditi dal suo talento ma anche dalla sua pazzia (si presenta infatti come “Gesù Cristo, il figlio di Dio” e sembra credere veramente in questa follia) e gli offrono di partecipare al programma che si terrà a Los Angeles, che potrebbe raggiungere comodamente con un biglietto aereo di prima classe che lui vende per acquistare un bus e portarsi tutti i suoi amici sbandati in un lungo viaggio “On The Road”. Con “A volte Ritorno” John Niven, ex talent-scout per una casa discografica e adesso giornalista e scrittore, firma un libro che distrugge ed analizza la società odierna con dissacrante ed inarrestabile ironia. Dalla religione al music business fino alla brama di soldi e di potere che spesso si nasconde dietro alle persone di successo. Il piatto forte di questo libro sono sicuramente i due protagonisti principali, Dio e Gesù, tratteggiati in modo sopraffino e assolutamente non blasfemo (anzi, datemi una chiesa che veneri due divinità così intelligenti, spigliati e simpatiche e sarò il primo ad andarci tutti i giorni. Ndr) che riuscirà a divertire chiunque (che sia credente o meno) non abbia lasciato il suo sense of Humour sulla panchina di una chiesa. La prima parte, ambientata in Paradiso, è una delle cose più spassose ed intelligenti che abbia mai letto. Vedere un Dio così bonario e tratteggiato con una tale ironia (uno dei punti fondamentali del libro è un bel “Cari cristiani, vi siete sbagliati, Dio non è quel tiranno che se non segui le sue leggi ti sbatte all’inferno per una dannazione eterna, ma un padre amorevole che vi ha regalato il dono più grande che poteva farci, quel libero arbitrio che voi avete buttato nel cesso”) scherzare con “i suoi dipendenti”, giocare ai videogames (Finendo Halo 3 in sette minuti netti), lasciarsi cullare dalle note magiche di John Coltrane o dalle sferzate della chitarra di Bruce Springsteen, farsi qualche bicchiere di scotch, fumarsi un sigaro o qualche “spino”, bestemmiare e prendere a calci le cose quando legge certi orrori che i suoi figli hanno fatto è qualcosa di impagabile

e divertente che finisce per farti affezionare a lui. La bontà di Gesù è un must (per quanto un pò esagerata ma in linea col personaggio) creato da un uomo che ha saputo leggere tra le righe del vangelo ricavandone il ragazzo della porta accanto, dal sorriso contagioso e sognante che non disdegna fare baldoria e suonare la sua chitarra in mezzo agli amici che non sono certo abitanti di Hollywood o Broker miliardari di Wall Street (d’altronde, la stessa Bibbia dice che gli apostoli erano persone semplici ed umili come pescatori e varie). Nella seconda parte, Niven ci porta in un viaggio attraverso l’America e la società americana stessa. Tra attivisti cristiani che manifestano contro l’apertura di una clinica gratuita per la lotta all’Aids (“la giusta punizione divina per quei pervertiti degli omosessuali destinati all’inferno” è l’idea di molti cristiani”), sembrando pronti a linciare il primo paziente che esce dalle porte della clinica e persone per le quali il “sogno americano” si è trasformato in un’utopia l’autore traccia un panorama dal sapore amaro dove comunque spunta la bontà e la voglia di aiutarsi a vicenda degli “ultimi” e dei reietti. La terza parte, nonostante un calo di tono che si avverte già dalla seconda, ci mostra il meccanismo perverso che muove questi talent show, dove il “talent” viene costantemente messo in secondo piano da “Business” e “Show”. Il calo qualitativo è comunque lievissimo e quasi fisiologico dopo le vette di genialità raggiunte nella prima parte ambientata in un Paradiso dove è sempre venerdì pomeriggio e a dominare è il senso dell’umorismo e in un Inferno ben diverso da quello cristiano-dantesco con gironi appositi per banchieri e strozzini, predicatori televisivi, falsi profeti e pene speciali per Adolf Hitler, il fondatore del Ku Klux Klan, il Dottor Mengele, Jesse Helms, Jerry Faldwell, Pol Pot, e Ronald Reagan ma niente bestemmiatori, suicidi, eretici o sodomiti. La quarta ed ultima parte affronta un quesito affascinante chiedendosi se la società odierna potrebbe riconoscere il possibile ritorno di un Gesù che predicava concetti come l’uguaglianza e la carità. Lo stile è molto semplice e conciso, velocissimo da leggere e con veri e propri sprazzi di genialità sparsi per tutto il libro (con una concentrazione abnorme nella prima parte) che rendono “A volte Ritorno” un libro adatto a chiunque, credente o meno, sia dotato di un minimo di intelligenza ed ironia. Consigliatissimo! 56


PEOPLE/TRAVEL

High Fidelity Text Stefano Solaro

Mi basta uno sguardo alla vetrina di Disco Club per sentirmi colpevole. Lo storico negozio di dischi genovese funge letteralmente da salvavita a tutti gli appassionati di musica rock del capoluogo ligure dal lontano 1965, ed io, che a Genova sono nato e cresciuto, non ci avevo mai messo piede. Che vergogna. Devo ammetterlo, non me la sarei aspettata una vetrina così, piena zeppa di dischi di valide band per la maggior parte sconosciute ai più; un assortimento tale da rendere felice anche un’esigente fan di Pitchfork, la bibbia d’oltreoceano della musica indie rock. Gli album in vetrina risultano talmente estranei all’ascoltatore mainstream da aver spinto più di un cliente ad esclamare frasi del tipo: “Non ne conosco nemmeno uno di questi cd, come fa a non chiudere questo negozio?!”. Giancarlo Balduzzi (Gian per gli amici), lo storico proprietario di Disco Club, dopo aver più volte udito esclamazioni del genere, si è deciso ad attaccare un’insegna che è stata per lungo tempo in bellavista nella vetrina del suo esercizio: “Lo so non conosci nessuno dei dischi che sono in vetrina, ma è proprio per questo che sono ancora aperto”. Questa divertente affermazione la dice lunga sullo spirito di un locale che, proprio grazie alla sua particolarità, ha vinto nel corso degli anni la sua personale battaglia con le grandi catene di dischi. E la dice lunga anche sulla personalità di Gian. Giancarlo è una sorta d’incrocio zeneize tra il saggio Auggie, protagonista di “Smoke” e “Blue in The Face”, e l’indimenticabile Rob, il personaggio

principale di “Alta Fedeltà” di Nick Hornby. Fu proprio lo scrittore del celebre romanzo incentrato sul proprietario del negozio di musica Championship Vinyl a passare da Disco Club nell’ottobre del 2002, per dare un’occhiata ai cd e fare due chiacchere con Gian. “Nick Hornby era ospite a Genova per parlare ad una conferenza e qualcuno gli disse dell’articolo in cui la rivista “Musica!” aveva paragonato la realtà del mio negozio a quella da lui raccontata in “Alta Fedeltà”. Lui fece un salto qui e appena entrato si mise a scartabellare tra gli scaffali come un cliente qualunque. Dopo pochi minuti stavamo già parlando di calcio, di una storica partita tra la Sampdoria (la squadra del cuore di Gian, ndr.) e l’Arsenal…”. Questo è solo uno dei tanti aneddoti che Gian ha da raccontare. Da Disco Club le ore scorrono così, con la musica nel lettore come colonna sonora e le chiacchere con i clienti/amici a fare da sceneggiatura a queste lunghe giornate. Tra una domanda e l’altra m’intrufolo nelle conversazioni degli altri avventori: si va dai giovanissimi Tame Impala all’ultimo disco di Neil Young, passando per i Silver Apples, seminale band di fine anni ‘60. Ce n’è per tutti i gusti. Potrà sembrare strano ma gli aficionados del locale sono perlopiù sopra la cinquantina. È soprattutto grazie a loro che va avanti il negozio. “Non è sempre stato così, negli anni ’70, ’80, perfino nei ’90 c’erano molti più ragazzi,” spiega Gian, “ora i giovanissimi non ascoltano più la musica come un tempo. Una volta, benché paradossalmente costasse di più, un cd era un inves57

timento, lo si ascoltava dall’inizio alla fine. Oggi invece si scarica e si ascolta il pezzo singolo e spesso i ragazzi non sanno neanche il nome della band che gira sul loro pc. Preferiscono spendere i soldi in ricariche o in alcool piuttosto che per un album. Per quelli della mia generazione, invece, comprare un disco era l’evento del mese e per molti pensionati che vengono qua è ancora così.” Negli ultimi dieci anni a Genova hanno chiuso 32 negozi di dischi ma Disco Club resiste, grazie anche e soprattutto ai “vecchi” clienti. “E poi c’è un altro vantaggio ad avere clienti più anziani…” scherza Gian “uno è il mio medico, un altro ancora è il mio commercialista, un altro mi aiuta a tenere aggiornato il mio sito internet…mica male no?” Proprio l’aggiornatissimo website del negozio offre una lunga sfilza di aneddoti e di divertenti riflessioni sul passato e il presente di Disco Club. Ma d’altronde Gian è sempre stato qualcosa di più che un semplice venditore di dischi. Nel ’73, appena diciannovenne, diede vita insieme all’allora proprietario del negozio a “Pop Records”, storica rivista musicale underground che ebbe tra l’altro il merito di lanciare sulla scena alcuni promettenti giornalisti (un certo Enrico Ghezzi vi dice niente?). Nel frattempo è giunta l’ora di andare, i clienti diventano tanti ed io comincio ad essere d’impiccio. Arrivo a casa e metto su “Atom Heart Mother Suite”, la canzone che ha cambiato la vita a Gian, e penso che se vivessi ancora a Genova non mi dispiacerebbe essere uno dei protagonisti di quel piccolo mondo chiamato Disco Club.


EXTRA NOIR

Layout by EMELIE VANDEWALLE


A PLACE TO BURY STRANGERS

EXTRA NOIR

PLAY IT LOUD! Text Francesco Melis Photo Emily Berger

Gli A Place to Bury Strangers sono uno dei quei gruppi che potrebbe definirsi di culto. Una band che già dagli esordi ha fatto della ricerca sonora la propria bandiera, guadagnandosi da subito l’appellativo di “loudest band of NYC”. Il nuovo disco “Worship”, pubblicato quest’anno ha messo in evidenza un suono diverso dal passato, come sottolineato anche dal cantante/chitarrista Oliver Ackerman in un’intervista che ci ha concesso di recente. Quali sono le differenze principali tra “Worship” e i vostri precedenti lavori? Il disco è scritto e registrato insieme al bassista Dion Luandon e sento di aver portato il gruppo ad avere parecchio entusiasmo durante le session in studio. Ci siamo avventurati insieme in qualcosa di nuovo e il risultato è venuto fuori in modo naturale. La sensazione nel registrare “Worship” è stata simile a quella del primo disco, anche se stavolta avevo molta più esperienza. Nel nuovo disco ci sono molti esperimenti sonori in particolare sulle chitarre. E’ qualcosa di pianificato o è stata una scelta naturale? Mi piace creare suoni con uno strumento “umano” che si possa sfruttare e controllare e penso che la chitarra possa soddisfare questa mia esigenza. Non ho ancora perfettamente il controllo di come creare dei suoni così ampi e non

so se m’interessa scoprirlo. Facciamo sempre il possibile per spingere i suoni e trovarne di nuovi e meravigliosi in ogni brano che registriamo. Se non facessimo così, non avrebbe mai quel tipo di sound. Perché avete scelto la Dead Oceans come vostra nuova etichetta? Attualmente sono una delle poche vere etichette indipendenti e stanno facendo un ottimo lavoro. Abbiamo scoperto che erano entusiasti di poter lavorare con noi e quindi abbiamo colto questa opportunità. Sono contento che sia successo ci hanno dato completa libertà artistica ed è ottimo poter lavorare con loro. Quale momento della carriera della band ricordi più di altri? Mi ricordo quando siamo stati scelti dai My Bloody Valentine per partecipare all’ATP Night before Christmas. Ho pensato quanto fosse folle e meraviglioso che uno di qui gruppi che ho amato e idolatrato da ragazzo potesse essere interessata alla musica che facevo. Avete in programma nuove date europee o festival nel 2013? Sicuramente faremo ancora tour in Europa l’anno prossimo e speriamo di poter suonare in più festival possibili. I festival sono sempre una buona opportunità per vedere tante band nel giro di un paio di giorni. 59


TAME IMPALA

EXTRA NOIR

The hypnotic state of mind Text Stefano Solaro Photo Maciek Pozoga

Sarà per quell’aspetto un pò vintage, sarà forse per quegli abrasivi sentori elettrici sparsi nei loro primi due album, sarà perché ora più che mai la psichedelia sembra essere tornata di moda, sarà per questi motivi o per altri ancora, ma da un pò di tempo si fa un gran parlare dei Tame Impala. Questi ragazzi australiani, dopo essersi fatti un nome grazie ad “Innerspeaker”, il graffiante album di debutto uscito nel 2010, stanno mettendo a ferro e fuoco l’universo dell’indie-rock con “Lonerism”, il loro secondo full-lenght. Il disco, seguito da un tour mondiale che sta facendo registrare continui sold out (non ultimo quello di Milano, nella loro unica data italiana), è un caleidoscopico microcosmo del quale non si può che restare felicemente prigionieri. La band australiana va ben oltre la semplice operazione di revival di un certo psych-rock anni ’60, ridefinendo il genere in ottica moderna. Tra tonnellate di feedback e taglienti assolo chitarristici si delineano le vaporose figure delle undici tracce che vanno a comporre “Lonerism”. “Elephant”, il pezzo di lancio del disco, d’altronde aveva fatto gridare al disco dell’anno preventivo grazie al suo micidiale hook d’apertura ed alla sua melodia catchy ed immediatamente memorizzabile. Più in generale è l’album nel suo insieme a convincere appieno. Zeppo d’idee e di avvolgenti dialoghi chitarre-tastiere, “Lonerism” scorre fluido come una lunga jam session, dando più volte prova del talento compositivo di Kevin Parker, l’autore principale di testi e musica. Il frontman offre spesso un cantato rarefatto, ai limiti del falsetto, che richiama alla mente le vocalizzazioni lennoniane del periodo “Revolver-Sgt. Pepper”. L’ambientazione quasi spaziale del disco trova la sua perfetta espressione in brani come “Apocalypse Dreams”, sei minuti di lucida follia, e “Feels Like We Only Go Backwards”, perfetto esempio di rock song altamente evocativa. In conclusione “Lonerism” soddisfa in pieno le aspettative createsi attorno ad una delle band più ispirate della scena indie attuale, capace di stupire e di divertire con il suo rock ad alto potenziale allucinogeno. Il futuro è loro. 60


EXTRA NOIR REVIEWS

Mamavegas “Hymn For The Bad Things” (42records)

Paul Banks “Banks” (Matador Records)

Dopo alcuni EP è arrivato il momento per i Mamavegas, band romana d’adozione, di cimentarsi con il disco di debuto. “Hymn For The Bad Things” rappresenta un ottimo e sorprendente biglietto da visita che mette in luce le doti compositive del gruppo, con un pugno di canzoni perennemente in bilico tra indie, pop d’autore e arrangiamenti raffinati e mai scontati.

Paul Banks ci riprova: torna alla sua carriera solista e, abbandonato il moniker Julian Plenti, pubblica un album intitolato semplicemente “Banks”. Questo nuovo lavoro segna una netta distinzione dal suono degli Interpol, dando alla carriera solista dell’artista un senso nuovo e più originale. Ne viene fuori un disco gradevole e con buone melodie che guarda alla new wave ma in modo più vario e completo rispetto alla produzione Interpol.

Voto 7.4/ 10 (F.M.)

Voto 6.8/10 (F.M.)

61


ROSARIO GIULIANI

“LA REGOLA DELLe 3C È LA SPINTA CHE PERMETTE IL MIO CAMMINO UMAnO ED ARTISTICO” 62


SPECIAL GUEST

63


GENIO & POESIA

SPECIAL GUEST

Text Federica Sarra Photo Andrea Boccalini

La disarmante e profonda sensibilità artistica è solo una delle molteplici qualità che hanno permesso a Rosario Giuliani di ritagliarsi un ruolo di primo piano nel panorama Jazz internazionale. Il nuovo album, “Images” (in uscita a Aprile per l’etichetta francese Dreyfus Records) racconta di ‘un viaggio virtuale’, un concept intimo ed affascinante ispirato da fotografie, attimi che restano sospesi nel tempo e che hanno segnato il suo percorso come uomo e come artista. Il talento compositivo, la poesia ed il simbolismo si fondono dando vita a uno dei lavori più significativi di sempre. In un’intervista di qualche anno fa, Lei parla della regola delle 3 C, cuore, coraggio e convinzione, può dirci di più? La regola delle 3 C è ciò che maggiormente mi rappresenta nella vita e nella musica. Il cuore contiene la passione e l’amore in quello che faccio, il coraggio mi permette di prendere dei rischi senza i quali nulla sarebbe possibile e la convinzione è la forza che mi permette di non avere dubbi riguardo le mie scelte ed è la spinta che permette il mio cammino umano ed artistico. Qual’è la più grande responsabilità di un musicista? Trasmettere le proprie emozioni, farsi ispirare e trasportare da loro! La musica suggerisce immagini ed in questo caso sono le immagini ad aver ispirato la musica, come nasce “Images” esattamente? Ho cercato di leggere la mia vita come se stessi leggendo un libro. Un libro di fotografie però! Ho semplicemente “ascoltato” le emozioni dei ricordi, attraverso i quali, grazie alla musica, ho rivissuto sensazioni che facevano oramai parte del passato. Un modo, forse, per renderle indelebili! Cosa è cambiato nel modo di comporre rispetto ai lavori precedenti? In questo album, per la prima volta, ho lavorato su elementi o piccole cellule ritmiche, armoniche o melodiche, che in seguito ho sviluppato fino alla realizzazione finale del brano. Di quale film potrebbe essere la colonna sonora? Per un musicista scrivere musica è raccontarsi, quindi potrebbe essere la colonna sonora di una parte importante della mia vita! Cosa ci può dire di questa ultima esperienza in studio di registrazione al fianco di nomi di grandissimo spessore? Non ho mai scelto i musicisti in base all’importanza del nome, ho sempre cercato coloro che mi aiutassero a realizzare quello che avevo nella testa! Un grande musicista deve avere una grande immaginazione e sensibilità! John Patitucci, Joe Locke, Joe La Barbera e Roberto Tarenzi hanno letto perfettamente quello che io volevo, un’esperienza unica nella vita! Poi registrare a New York ha aggiunto la ciliegina sulla torta.

Se guarda al passato qual’è la prima immagine che Le viene in mente? A mia madre, senza il suo intuito forse oggi avrei fatto un altro lavoro! È stata lei a scegliere, almeno all’inizio, la musica per me. Fra innovazione e tradizione cosa sceglie? Entrambi sono importantissimi. L’innovazione è lo sviluppo della tradizione ma nello stesso tempo è giusto che tutto quello che è tradizione diventi innovazione. Le posso chiedere quale ritiene sia la peggiore espressione dell’industria musicale moderna? L’assenza di protezione per la creatività di un’artista. Un’ambizione? Spero vivamente che il mio nome e la mia musica verranno collocati e ricordati come qualcosa di importante per il Jazz. 64


Levis

PepeJeans

STYLE

Philipp Plein

STYLE OFF

Gibson Les Paul Strellson

Ck Watches

Converse

65


Layout by EMELIE VANDEWALLE


A Place To Bury Strangers

ENGLISH TEXT

Play It Loud! Interview Francesco Melis Edited by Jodi Mullen Photo Emily Berger

Let’s talk about “Worship”. Which are the main differences from your previous albums? First off, this record was written and recorded jointly with bass player Dion Lunadon and I feel that that lead the way for there to be lots of excitement while recording it. We were both venturing into something new and we just dove in and created what was going to happen naturally. So I feel in that sense it was similar to what was done with the first record, although I had a lot more experience this time around. In your new album there are a lot of sonic experiments, especially with different guitar sounds. Is it something you planned or was it more connected to new pedals and effects you used during recording sessions? I love creating sounds with a real human element that can be expressed and controlled and I feel like guitar can really tap into the way I feel. It is still foreign enough to me where I don’t quite have a grip on how it creates such vast sounds and I don’t know if I want to find out. We are always working to push the sounds and find something amazing and new in everything we do. If we don’t do that then it just won’t ever come out. Why did you choose Dead Oceans as your new label? They are one of the few real Independent labels out there today who is doing great work and when we found out that they were frantic to work with us we saw a great opportunity and took it. I am so glad it has happened; they give us complete artistic freedom and are great to work with. Is there any one moment in your career that you remember more than others? If so which one? I remember when we got picked by My Bloody Valentine to play the Nightmare Before Christmas ATP and thinking how crazy it was to have one of those bands that I idolized and loved when I was younger being in to what I was doing. I just couldn’t believe it and thought it was amazing. Are you planning new European concerts (maybe festivals) in 2013? We will definitely be touring again in Europe in 2013 and hopefully playing as many festivals as we can as well. Festivals are great as you get to see a lot of good bands all in a couple of days. I


Silje Wergeland

ENGLISH TEXT

MODERN ALLURE Interview Federica Sarra Edited by Max Carley Photo Gema Pérez

“GUILTY” My first EP with Octavia, but also the title track of a song which we re-recorded and released on our last album “Grace Submerged” (2008). CHILDHOOD Some time ago! EVERYDAY Right now: enjoying motherhood with a 7 week old little girl, embracing every moment. I have been blessed not living an A4 life, so most of my days are a little special in one way or the another. VOICE An incredible instrument! I love using it. SOUL Shines through your words and eyes. FRONTWOMAN When I started playing in bands I wanted to be either the drummer or the singer. I’m happy I chose the latter, though it comes with pressure. Fronting a band can be II


ENGLISH TEXT

done in many ways. I prefer to be a member, a part of a unity. I learned this in 2009, when we released and toured behind The West Pole. A lot of travel and great fun! :) HOLLAND My second home. LOVE Life is nothing without love. LYRICS Important part of any song. KATATONIA A great band with great musicians. I am very proud to have had the honor of singing on the song “The One You Are Looking For Is Not Here” on their latest album Dead End Kings. A beautiful song! “TREASURE” The first song I wrote melody lines and lyrics for in The Gathering. One of my favorite songs on The West Pole. QUOTATION “Never say never”. AMBITIONS Create and play more music!! Try to be happier every day, embracing small, precious moments in life.

III


FERNANDO RIBEIRO

ENGLISH TEXT

ODE TO THE MOON Interview Federica Sarra Edited by Max Carley Photo Jorre Janssens

Can you describe the songwriting and recording process of your Alpha Noir/Omega White album? I think the first thing everyone should know is that these records were very pleasurable to create. The Alpha and Omega songs were the culmination of four years of daydreaming, experimenting, and exploring these concepts. We didn’t plan to do a double album; we just set out to follow the music and what it had to tell us. When we did the first demo for Alpha Noir, we came up with three songs, “Lickanthrope”, “Love Is Blasphemy” and “White Omega.” We just took our time. We kept the metal songs separate from the more atmospheric ones and in the end we liked the division. We embraced the concept that we could play and not be afraid to make beautiful melodies. I’m very happy with the results, and the fact that it’s different from anything else we have done in the past. This album was a long process, but we took great pleasure in our writing and truly embraced our creative freedom. At the end of the day, even if we were tired from the road, we always went to the studio because our songs were there waiting for us. This album is a great memory we hold as a band. How would you like people to see Moonspell at this point in your career? It’s really not up to me. I see Moonspell very differently from other people because it’s my everyday life. I have twenty years of waking up and going to bed as the Moonspell singer. Moreover, I think our audience is probably divided into two parts: IV


ENGLISH TEXT

there are those who love us for our past, and then there is the younger generation that has come to us since Memorial. I have a hard time picturing what people truly think about Moonspell. Someone comes to me and says “it’s shit,” or “it’s brilliant,” but I don’t think it’s any of this. Moonspell is a band made up of a lot of human facts, mistakes and questions. Coming from Portugal sometimes works to our advantage, sometimes it doesn’t. I can never predict peoples reactions: for instance with Wolfheart we didn’t know what would happen at the time, and now we’re still here 20 years later! In the end, I hope to be viewed as a band that tried to give people something different. We‘re still very fascinated with music and I’m very proud of the fact that, in some cases, we are able to use it to change people’s lives. I have a very romantic perspective of Moonspell. Do you have a message for our readers? Well, I’d like to thank them for all the support and invite them to discover our latest album! I know it won’t be easy to get into a double album, but if they are up for the experience, I’m sure they will enjoy it! Moon I’m obsessed with the moon, it is a very strong symbol and carries a lot of poetic charge, not only with me, but also with poets and writers like Baudelaire and Novalis. Even though it’s not easy to explain in just a few words, I like the moon because it’s a point of light in darkness, at all times. The moon reveals what is hidden by the dark, and that’s where our name comes from. Writing Writing and reading are what I feel the most comfortable with. I love it because you can do whatever you want with words. I consider it more than just a hobby; sometimes it is even bigger than music to me! Downloading Downloading is a hard issue and everyone answers according to his or her own agenda. The fan downloads because it’s too expensive, or they can’t find it in shops etc., but at the end of the day, it’s illegal! Downloading is killing music; it’s killing the quality and the respect for artists. It won’t change, even if I don’t like it, because the Internet has made people greedy. Sometimes people download something and never even listen to it because they have too much. I compare it to people having more food than they can eat. I know that my opinion is not a very popular one, especially in my country, and it’s gotten me a lot of hate mail. But downloading is something that kills not only the business but also the inspiration. Why should music be free? Should coffee be free? Heritage I think I’m a self-made man, even if I come from a traditional family. I’m also a father I hope I will be able to pass on to my child a heritage full of values, and the best of what I am as person. Noir I like the sound of this word! When we finished writing “Night Eternal,” it touched a kind of “end” in a certain way. I’ve chosen the word “Alpha,” as it represents a new beginning, yet these days times are not easy and the word “Noir” reinforces this concept. This expression embodies a style, and holds a kind inner elegance. In my case “Noir” is always connected with “Alpha,” and I believe these are two strong words coming together to bring meaning to our album. V


Liv Kristine

ENGLISH TEXT

LOVE/LIV Interview Federico Sanna Edited by Jodi Mullen Photo Alexander Krull e Stefan Heilemann

What was the goal of your new solo album? Was the choice of the genre premeditated or is it just the realization of another aspect of your personality? I do follow my artistic heart all the time, but I love letting things flow during the productions, which is a thing that inspires me to “spread my wings”. Moreover, there was this moment during my concert in Nagold, Germany, December 2011, when I first presented the demo song “Libertine” to my audience. I had also performed a handful of Theatre of Tragedy songs, because it was my wish. There and then I understood in which musical direction my up-coming album would be, more powerful, more back to the roots. Libertine is a back-to-the-roots album, containing the most emotional ballads I’ve ever composed; it even has a dark but sweet feeling to it, through the piano, the dark bass lines and guitars. I see every album becoming more and more individual, just like I am getting closer to myself. Why did you decide to play with your colleagues in Leaves’ Eyes on your solo record and not bring in a different set of musicians? Some of my musicians for my solo band are from Leaves’ Eyes, which is just logical because they are superb musicians and among my best friends. However, there are also external musicians helping me out in the studio and live. I am very grateful to have such a first-class team with me. My husband, Alex, produced the album in our own Mastersound Studio. J.B. Van der Wal was responsible for electric and acoustic guitars, bass, keys, and programming, whereas my long-time friend Thorsten Bauer played the electric and acoustic guitars, bass and keys. Felix Born played the drums and percussions, Alessandro Pantò played the piano and Christoph Kutzer the cello. Tobias Regner performed guest vocals on “Vanilla Skin Delight”. VI


ENGLISH TEXT

The music was composed by myself, in cooperation with J.B. Van der Wal, Thorsten Bauer and Alexander Krull (except “The Man with the Child in His Eyes” by Kate Bush). All the lyrics are mine, as well as the paintings inside the booklet. What inspired you when writing “Libertine”? And what does the title mean to you? How did it come to be? I decided to title the album “Libertine” because that was the first track composed for this production. Actually “Libertine” is an album that gathers special moments from my own life. Secondly, in my lyrics you will find a few definitions of “love”. I am lucky, I write all lyrics for my solo project and Leaves’ Eyes. I just love poetry and linguistics! If I couldn’t write lyrics, I would write books of poetry. Well, in a dictionary you will probably find a definition that points to a person who is living out his or her pleasures or satisfaction freely. My definition of Libertine is of course related to the whole album concept. To me it means the freedom and happiness you feel when you are in love, that is, those butterflies you feel inside your body when you are in love and when you are happy! Love is to me what makes me feel that I’m ALIVE. Sometimes when I walk through the forest on a lukewarm evening I feel the whole energy of the universe...then I think this was a special, little moment, and it makes me feel so alive, so lucky and so happy with life. Libertine is an album about love, and life, the different sides of both. What bands do you listen to when you have time and what album is currently your favourite? What bands significantly influenced your music in general? The diversity in my art probably has to do with the different influences I’ve gather along my musical path: I grew up with Black Sabbath, Deep Purple, Edvard Grieg and Tschaikowsky, and female singers like Enya, Madonna, Kate Bush, Abba, Tori Amos and Monserrat Caballe. From the very beginning, I’ve followed my musical instinct: I wanted to combine a romantic, female, angelic voice with powerful, impressive music. Then suddenly, when I was 18 years old, I found myself in the middle of writing music history with Theatre of Tragedy. My favourite album at the moment, that I also listen to when I paint my pictures, is “Ark” by Brendan Perry absolutely splendid and dreamlike! What’s next for you? Any plans for another solo project or something else, maybe? After arriving back with Leaves’ Eyes after two Halloween shows in Russia, we will start the recordings of our fifth full-length album, moreover, we will play a few concerts in the winter. I have planned a few solo concerts, exclusive ones, for mid and end December as well, Nagold is already settled and announced for 22 December 2012. I hope for tours for both bands next year! Also in your beautiful country! I thank you for being there for me all these years, with Theatre of Tragedy, Leaves’ Eyes and my solo work. I also hope you enjoy “Libertine” as much as I did composing and recording it. I can’t wait to play it live for you!

VII


The Pineapple Thief

ENGLISH TEXT

Conflict Reconciliation Redemption Interview Federica Sarra Edited by Max Carley Photo Rob Monk

What reactions about the last album did you get from fans and the press so far? Press and fan reaction has been fantastic, it’s always such a relief as we purposefully don’t release the same album twice. That’s not to say we don’t split opinions with every release though! But that’s a good thing: I’d much rather we ruffle a few feathers in our scene than sit in a snuggly safe zone. Do you ever stop and think about what you’ve accomplished in your career and where you are at this point? I think about that almost daily. As an artist, it’s very difficult to feel satisfied. My natural reaction is “why aren’t we more successful? Why don’t more people know about us?” But the flip side is that 10 years ago I was alone in my home studio struggling to survive, musically. To look back at everything we’ve achieved is something to be proud of. I never dreamed, when I released our first album in 1999, that I’d be here talking to you 13 years later. How has the composing process changed over the years? It’s a lot more streamlined, that’s for sure. In the early days I would spend hours and hours labouring over sounds and chords that ultimately went nowhere. Now I’m older and the band is busier, I simply don’t have that luxury anymore. Nowadays, I spend longer with my acoustic guitar coming up with a more or less finished song before even switching my studio on. I think this has worked to our advantage, all our recent output can easily be performed with just me and an acoustic guitar, and for that to work you need to have good songs, not just fancy production and layers and layers of sounds to make the music work. How would you say the music you write symbolizes who you are as a person? That’s a good question, I think the music I write symbolizes who I WANT to be as a person. Even though TPT is melancholic, every single song has a positive message, to be stronger, kinder. I’m not always like that and that’s what inspires me to write. When dark things happen, writing a song is almost like penance to me. VIII


ENGLISH TEXT

Composing and writing music reveal much about you, do you ever feel vulnerable with so many people reading your lyrics and hearing your songs? It is a contradiction. Especially on “All The Wars”, every song is about a specific event in my life, either something that has happened to me or something I have witnessed, either way they are based on experience. But my words are fairly abstract (some fans don’t like that but others love it, because it makes it so easy to lock in with me). And it enables me to sing the songs without feeling too naked. What does the title “All The Wars” mean for you? The album is about conflict, reconciliation and redemption, or at least the quest for those things. Sometimes conflict takes over our lives with the people we love and sometimes reconciliation comes too late. All the songs on the album are about that. Moving on to the album cover: besides just being a beautiful image, it really complements the music. How did it come to be? Yeah, it’s my favourite TPT cover (along with the Little Man re-issue). When someone showed me the images, I instantly knew they had to form the front cover. The label got in contact with Mark Mawson, who did the shoot and luckily he really liked the music and we were able to licence the images. Hopefully we will be able to work with Mark again for the next release. Robert Fripp said “It’s the only place in the world that I like recording...” Why was “All The Wars” recorded in Peter Gabriel’s Real World studios? We recorded some drums at Real World and the rest was done at another residential studio with a strong heritage called The Chapel. Real World is an unbelievable place, it’s like a musical paradise. There are the studios, the residential cottage, production rooms and the Real World music label. But it’s also very intimidating. The main control room is like being on the bridge of the Starship Enterprise! But the gear and the rooms are second to none. The “wood room” there is one of the best drum rooms in the world. I knew I wanted to make a record that could stand up sonically, and to do that you have to use the best gear. Yes, some of the worst sounding records cost a fortune, but at least we can’t blame the gear! What is “Progressive” for you? And “Bittersweet Progressive”? Ha yes, I think Kscope coined “bittersweet progressive” and it stuck! Progressive for me is a very different genre than “prog”, any band who is trying to push the envelope, do something original with every release, not conforming to “popular” structures and instrumentation, I class that as progressive. I’m not for one minute saying that just because we have a few longer songs and use strings and a choir that we’re pioneers by any means. Pretty much everything has been done before. But because we try to push ourselves with every release and generally surprise people who follow us, that to me makes us progressive. What is the secret in maintaining longevity as a band? A band is like a family. For starters, get the family right! We’ve been together now for 8 years (the first 4 years was just me). Sharing a bus together is a real delight. When I read stories of other bands, the conflict, the egos, it’s no wonder they disintegrate. Secondly, it always helps to maintain ambition and drive. Every new album has pushed us upwards (maybe not as fast as we’d like) and also pushed me, personally, as a songwriter and performer. Needless to say, being on the up for 12 years has made it much easier to keep going!

IX


ADDRESSES Silje Wergeland Fernando Ribeiro Vincent Cavanagh Spiders The Chant Liv Kristine Elvenking The Pineapple Thief Tweak Bird SEID Katatonia My Dying Bride Francesco Castaldo MISTIIS Disco Club A Place To Bury Strangers Tame Impala Mamavegas Paul Banks Rosario Giuliani

www.thegathering.nl www.moonspell.com www.anathema.ws www.wearespiders.com www.thechant.net www.livkristine.de www.elvenking.net www.pineapplethief.com www.tweakbird.com www.facebook.com/seidrock www.katatonia.com www.mydyingbride.net www.francesco-castaldo.it www.mistiis.com www.discoclub65.it www.aplacetoburystrangers.com www.tameimpala.com www.mamavegas.com www.bankspaulbanks.com www.rosariogiuliani.com

LABELS www.disquesdreyfus.com www.42records.it www.matadorrecords.com www.modularpeople.com www.deadoceans.com www.einaudi.it www.relapserecords.com www.nuclearblast.de www.scarletrecords.it www.napalmrecords.com www.lifeforcerecords.com www.peaceville.com www.blackwidow.it www.volcoment.com www.kscopemusic.com www.afm-records.de www.crusherrecords.com www.psychonautrecords.com




Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.