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Prefazione

Le meditazioni di questo quarto volume riguardano la penultima parte del vangelo di Matteo, che ha per tema l’avvento prossimo del Regno dei cieli e precede immediatamente la narrazione della passione, morte e resurrezione di Cristo. Vi è una corposa sezione narrativa (cc. 19-23) in cui Gesù affronta importanti questioni, insegna ancora con parabole, annuncia per la terza volta la sua passione e termina con severe invettive contro gli scribi e i farisei. Ad essa segue l’ultimo grande discorso di Gesù, il cosiddetto discorso escatologico (cc. 2425) con le parabole del maggiordomo, delle dieci vergini e dei talenti e la scena grandiosa del giudizio finale. Gesù lascia definitivamente la Galilea e va in Giudea ove porterà a compimento la sua missione.

Quello che colpisce il Barsotti è il nuovo procedimento dell’evangelista che ora presenta la figura e l’insegnamento del Cristo non più in relazione all’Esodo e a Mosè ma alla Genesi e ad Adamo. Non si tratta più di presentare Gesù soltanto come il Messia che adempie la Legge antica ma di mostrare che egli è il Nuovo Adamo che rinnova tutta quanta la creazione riportandola all’innocenza originaria secondo il disegno di Dio fin dal principio. Ciò risulta particolarmente evidente già nell’esordio di questa sezione del vangelo, laddove Gesù risponde alle provocazioni dei farisei circa il divorzio e ai suoi discepoli spiega la continenza volontaria per il Regno dei cieli (c. 19).

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Secondo Barsotti nelle parole di Gesù circa l’unità e indissolubilità del matrimonio così come le riporta Matteo già si svela anche se ancora implicitamente il senso profondo dell’unione dell’uomo e della donna, una unione che non è fine a se stessa ma significa quel mistero infinitamente più grande di

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cui esplicitamente parlerà san Paolo in Ef 5 e che è abbastanza manifesto già nel vangelo di Giovanni: l’unione tra gli sposi nel sacramento fa presente il mistero dell’unione di Cristo sposo con la Chiesa sposa. In tal modo matrimonio e verginità si congiungono nell’essere proiettati verso lo stesso fine. Barsotti non esita ad affermare che «Il matrimonio cristiano dunque non è un’altra via dalla verginità: è anzi un cammino alla verginità, è un cammino a quella unione immediata con Dio che è poi la condizione futura e definitiva dell’uomo». Anche se si tratta di due vocazioni diverse e solo alcuni sono chiamati alla verginità perfetta, matrimonio e verginità non possono essere tuttavia concepiti come due cammini paralleli; la meta infatti rimane la stessa in tal modo che chi vive nel matrimonio non rinuncia alla verginità come chi vive nella verginità non rinuncia al matrimonio. Ancora più esplicitamente riguardo il matrimonio Barsotti afferma: «Il matrimonio, sì, è un cammino di ascesa: è un cammino verso la verginità. Non vi sono due vie. È sbagliata la concezione di due vie per giungere alla salvezza. Non vi è che un cammino e il cammino termina per tutti gli uomini nella verginità, perché nel mondo futuro “né si sposano né si sposeranno, ma saranno come gli angeli di Dio” (cfr. Mt 22,30) – anche chi è stato sposo, anche chi è stata sposa; e per molti tutto questo avviene anche prima della morte». L’unica differenza se si vuole sta nel fatto che mentre nel matrimonio gli sposi vivono la res significata dal sacramento – la comunione con Dio, l’unione sponsale dell’anima con Cristo – attraverso il segno, chi si consacra nella verginità vive già in anticipo in qualche modo quella res al di là del segno. Tutti comunque siamo proiettati verso gli «escata», verso le realtà ultime, verso una vita eterna che è già cominciata. Così se per tutti la meta è identica – la comunione con Dio – ne consegue che per tutti si impongono quei consigli evangelici che esigono il distacco dalle cose, la povertà per il Regno dei cieli. Vengono in mente le parole di san Paolo nella seconda lettera ai Corinzi: «il tempo ormai si è fatto breve» e «passa la scena di questo mondo» (1Cor 7,29-31).

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Così vediamo come tutta questa parte del vangelo è protesa verso il discorso escatologico, lo annuncia e lo prepara. Si esige innanzitutto la povertà, certo, e tuttavia essa rimane solo una condizione, mai sulla bocca di Gesù assurge a valore di fine. «Va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, poi vieni e seguimi» dice Gesù. Nelle parole del giovane ricco si avverte certo la lodevolissima disposizione a fare sul serio, a voler fare qualcosa di buono, l’impegno umano che vuole realizzare sì il massimo ma come qualcosa che è sempre limitato perché risponde a una norma da adempiere, mentre le parole di Gesù vanno ben oltre il precetto, sono un invito a un trascendimento continuo – perché siamo su un piano «divino» non su un piano morale – un invito a divenire quello che Dio è in sé: l’Unico Buono di cui parla Gesù non esclude affatto che l’uomo non debba fare il bene, tutt’altro anzi, e nel modo più eminente, perché l’ uomo è chiamato a realizzare la propria perfezione nel divenire perfetto come Dio partecipando della stessa vita divina. Pertanto se hanno valore la rinunzia, il distacco e in generale ogni forma di ascesi è perché l’uomo attraverso il distacco e l’ascesi possa finalmente liberarsi dalla schiavitù delle cose e torni davvero a esercitare la sua regalità sulla creazione così come era al principio del mondo, a possedere le cose senza essere posseduto da esse.

Ma c’è di più, perché a questo punto don Divo ci fa fare voli vertiginosi trasportandoci su un piano altissimo: l’uomo è chiamato a vivere quello che vive il Figlio di Dio dinanzi al Padre, non solo come uomo ma anche come Dio, come Verbo generato dal Padre, cioè un essere e un vivere solo ed esclusivamente per il Padre, un eclissarsi eterno per essere la lode del Padre, per rivelare solo la sua santità, quell’umiltà e quella kenosi che il Verbo di Dio vive all’interno della Trinità stessa dall’eternità. «L’umiltà di Dio! Si direbbe che l’umiltà è una virtù che Dio non può conoscere, perché l’umiltà è il riconoscimento del proprio nulla; ma Dio è Dio, e tuttavia, nelle sue divine Persone è infinita umiltà. È la più meravigliosa manifestazione del mistero trinitario quella che ci danno i testi

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evangelici…. “Nessuno è buono tranne Dio”. Basterebbero queste parole a dire che Gesù è veramente Dio, perché di questa umiltà è capace soltanto Dio stesso. Ed è precisamente in questo che Egli afferma la sua divinità: nel riconoscere la bontà assoluta del Padre, nell’essere la lode del Padre».

A questo punto viene spontaneo chiedersi se si può ancora parlare in termini di ricompensa. Che cosa dire infatti riguardo al premio o ricompensa per chi, come i discepoli, ha lasciato tutto per seguire Gesù? Si tratta di avere il centuplo come possesso? Può avere l’uomo come suo fine il conseguire il possesso di qualcosa? È piuttosto l’avere che ordinato all’essere, non viceversa! È un tema questo che si approfondisce via via nelle parabole, soprattutto quella degli operai nella vigna. La norma della vita cristiana sono gli apostoli che hanno abbandonato ogni cosa per seguire Gesù. L’ascesi e la rinuncia non sono più qualcosa di mortificante ma divengono espressione di libertà e di gioia per chi ha risposto all’invito di Gesù, perché di invito si tratta. Così è stato per gli apostoli, così per san Francesco, così per tutti i santi: «Se vuoi essere perfetto…». Non si obbedisce a una legge, ma si risponde a un invito di Colui che ci dona la vita vera, la libertà e la gioia. Lo spiega bene Barsotti. «L’ascesi, la rinunzia, in quanto è mortificante, in quanto è dolorosa e penosa, è soltanto una condizione per seguire Gesù, ma nella misura che lo segui, l’ascesi stessa si trasforma; non è più pena, diviene l’espressione stessa di una tua libertà, di una tua intima gioia, di una purezza del tuo amore che ti fa veramente gustare, vivere tutta la gioia che può derivare e dall’amore e dalla bellezza di tutto». Il centuplo quaggiù è sempre ben misero ma il premio nel mondo futuro che Gesù promette è legato a un giudizio e a una palingenesi di tutte le cose perché in Cristo Signore ogni uomo si trova al centro della nuova creazione che risplende della gloria di Dio. Così commenta Barsotti in particolare riguardo a quel giudizio escatologico di cui saranno partecipi gli apostoli insieme al Signore: «Il giudizio dell’uomo è il giudizio di Dio: un giudizio che Egli ha dato al principio e ripe-

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terà al termine dei giorni. “Et vidit Deus quod erat bonum – E vide che tutto era bene” (Gen 1, 12 ss.), e vide che tutto era sommamente buono, quando ebbe creato l’uomo (Gen 1, 31). Ecco il giudizio: l’uomo giudicherà la terra, perché la dichiarerà, la riconoscerà, realizzerà anzi il valore suo supremo di bontà, di bellezza, di verità, di grandezza, nell’unione che stabilirà di tutte le cose con Dio nel Verbo incarnato». Ancora qualcosa riguardo alla ricompensa e al giudizio divino su ogni uomo. Dio non giudica le opere dell’uomo, ma l’uomo, perché in definitiva non sono le opere che hanno valore davanti a Dio, ma l’uomo. «Perché il giudizio è rimandato a domani soltanto? Perché, effettivamente, Dio non giudica le opere, ma l’uomo – ed è già questa una cosa che differenzia l’idea della ricompensa nell’ebraismo da quella nel cristianesimo. Le opere buone in tanto valgono, per il cristianesimo, in quanto ti formano, ti maturano, ti rendono più simile a Dio, non in quanto sono un capitale che può crescere giorno per giorno col moltiplicarsi di esse». E proprio perché Dio non giudica le opere ma l’uomo il giudizio divino va oltre tutto ciò che è dovuto e trascende i limiti della stretta giustizia. Il vero premio è Dio stesso e la gratuità del suo amore divino va al di là di ogni nostro merito. Se pensiamo di poter fondare la nostra salvezza su un criterio di giustizia più che sulla fiducia nella sua misericordia siamo completamente fuori strada.

Nel commento alla parabola degli operai nella vigna quasi provocatoriamente Barsotti ci addita l’esempio del buon ladrone : «Il buon ladrone diviene norma per il cristiano. Può essere un po’ seccante per noi che siamo sempre un po’ tentati di certe concezioni giuridiche, tuttavia rimane vero, è un fatto, che è il buon ladrone che inizia la storia dei santi. Dio è per l’anima quello che l’anima avrà voluto. Gli operai della prima ora volevano il “denaro”, e l’hanno ricevuto, gli ultimi non hanno voluto il denaro e hanno ottenuto l’amore».

Ma per entrare nella logica dell’amore di Dio ci vuole il miracolo di una grazia speciale, altrimenti si ripete per noi oggi quell’incomprensione e quella ottusità dei figli di Zebe-

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deo che non vedono altro che se stessi e brancoliamo anche noi nelle tenebre come quei due ciechi di Gerico che Gesù guarisce. Ancor più diventa incomprensibile la passione e la morte di croce che Gesù volontariamente subisce per inabissarsi nel cuore di questo mondo ed esserne il salvatore, e anche il nostro cuore si può indurire in un rifiuto radicale e irriducibile come quello dei farisei un giorno. Emblematico il fatto che solo i fanciulli sanno accogliere e acclamare Gesù che entra nel tempio di Gerusalemme non solo come profeta sacerdote e re ma come Dio stesso mentre i farisei si trincerano dietro una falsa religiosità che vuol far servire Dio ai propri piani e rimangono aridi e sterili come il fico che Gesù maledice. Ed ecco a questo punto la magnifica esortazione di Barsotti a divenire quei fanciulli di cui, come dice Gesù, è il Regno dei cieli: «Fanciulli! Che tutto quello che hanno lo hanno soltanto per un dono di amore. Il cristiano è così: non è nulla in sé, non possiede nulla, Dio è tutto per lui. Fanciulli: come ha visto i cristiani Clemente Alessandrino. Ed è ben questo il carattere proprio dell’anima cristiana: la debolezza, la povertà, l’innocenza del bambino che si abbandona tutto a Dio, che si lascia portare da Lui, e loda». Contro i farisei di tutti i luoghi e tempi non rimangono che le terribili invettive di Gesù, quei guai che si contrappongono alle beatitudini e che altro sono non solo che l’espressione di un amore offeso e sdegnato. Che cos’è in fondo che provoca lo sdegno di Dio se non il rifiuto del suo amore? Amore chiede amore e Dio si fa mendicante di amore nei nostri confronti. La parabola della festa di nozze apre spiragli anche per la comprensione della realtà dell’inferno: «L’inferno è creazione dell’amore divino. L’amore ha creato l’inferno! Un amore che non è una benevolenza buddhista impersonale, ma è violenza di passione implacata. Dio ama e amando soffre – soffre una passione di amore. Dice Origene: “Egli ama e il suo amore si esprime nella morte di croce”. Questo divino infinito amore non può essere indifferente alla risposta dell’uomo, non può essere indifferente al suo rifiuto di voler essere amato da Dio».

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Una risposta d’amore che Dio chiede a noi ora e qui mentre viviamo le lotte e le tribolazioni di questa breve esistenza. Barsotti sottolinea il carattere drammatico e ambiguo della condizione presente: « Carattere ambiguo del tempo fra le due parusie: non vi è soltanto un progresso in senso positivo verso il Regno, un progresso continuo di evangelizzazione, di sviluppo della Chiesa e della santità; vi è uno sviluppo continuo anche di malvagità, di rovina, di morte. La santità e il male progrediscono insieme, come il grano e il loglio nel campo. E tu non puoi separare l’una dall’altro finché non giunga il Signore». Tutto questo nella consapevolezza che per noi cristiani, come dice san Paolo, è già arrivata la fine dei tempi ( 1 Cor 10,11). Così leggiamo ancora: «Non c’è un’epoca cristiana nella storia: col cristianesimo s’inizia la fine del mondo. Se nel Cristo veramente si compiono le promesse di Dio, è chiaro che l’economia cristiana non può essere che un’economia il cui contenuto è un contenuto escatologico».

Non è senza significato nemmeno il fatto che Matteo sembri confondere la fine di Gerusalemme con la fine del mondo. A noi può sembrare un errore dell’evangelista o comunque un’incongruenza accidentale che si è verificata durante la redazione del vangelo, ma se a noi il testo è giunto così com’è bisogna riconoscere, secondo Barsotti, che c’è l’ispirazione dello Spirito Santo anche qui, e pertanto anche questo dato ha un valore nell’economia del vangelo. Ora, se tutto l’agire di Dio nella storia della salvezza passa sempre attraverso la mediazione del popolo eletto così che il rapporto tra Dio e gli altri popoli non è mai diretto ma passa attraverso Israele, anche in questo caso la fine che viene annunciata per tutti i popoli, quindi la fine del mondo, viene vista come la conseguenza naturale di quella fine che si è compiuta per Israele con la distruzione della città santa, Gerusalemme. «La distruzione, la fine di tutto il mondo non sarà, dunque, nella concezione dell’evangelista, e prima ancora nella concezione di Gesù, che il compimento della distruzione di Gerusalemme. Non sono due avvenimenti separati – è lo stesso avvenimento. È una

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distruzione “a scoppio ritardato” quella del mondo, ma si è iniziata già con Gerusalemme».

Ma come viviamo noi cristiani il rapporto con la morte e le realtà ultime? Se il pensiero della fine di questa nostra vita quaggiù e della fine del mondo dovesse generare solo angoscia e terrore saremmo ancora come dei pagani che non hanno conosciuto Cristo. Quale fosse l’inquietudine e l’angoscia che opprimeva l’uomo nel mondo pagano dinnanzi al pensiero della morte e dissoluzione del mondo lo si può intuire da alcuni versi del De rerum natura del poeta latino Lucrezio: «per violento insorgere di terremoti tutte le cose in poco tempo vedrai sconvolte. Ma lontano da noi volga questo la fortuna reggitrice, e la ragione piuttosto che il fatto stesso ci persuada che l’universo può inabissarsi vinto, in un fragore di suono orrendo»*. Da fedele seguace di Epicuro (ma non del tutto convinto) Lucrezio cercava di fugare con la ragione i turbamenti dell’animo dinnanzi alla catastrofe che incombe sull’edificio del mondo. Ma la ragione non persuade, non ha persuaso nemmeno lui che è morto suicida. Che cosa rimane a un uomo se non crede in Dio? Una visione di sorte ineluttabile e di angoscia senza fine in un mondo dove tutto è casuale e può rovinare da un momento all’altro. Si cerca di non pensare, di esorcizzare il pensiero della morte e della rovina di tutte le cose, come l’angoscia e il dolore che accompagneranno la fine di questo mondo, ma invano. Hai voglia a dire e a cercare di convincerci che tutto è naturale e che finché ci siamo noi non c’è la morte e quando ci sarà la morte non ci saremo più noi… si invoca una sorte che possa allontanare da noi la visione di uno spettacolo di rovina e di morte e una ragione che possa placare gli sconvolgimenti dell’animo al presentimento che possa essere imminente ciò che si presenterà con fragore orrendo.

* Cfr. TiTo Lucrezio caro, De rerum natura, v, 91: «forsitan et graviter terrarum motibus ortis / omnia conquassari in parvo tempore cernes. / quod procul a nobis flectat fortuna gubernans, / et ratio potius quam res persuadeat ipsa / succidere horrisono posse omnia victa fragore».

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Ben diversa la visione cristiana della fine del mondo. Veramente la luce del Verbo incarnato qui risplende nelle tenebre di questo mondo, perché chi veramente crede sa che in un oggi dominato dal male purtuttavia, come dice l’apostolo Giovanni, «le tenebre stanno diradandosi e la vera luce già risplende» ( 1Gv 2,8). Ecco quanto scrive Barsotti: «Siamo noi che non viviamo la verità, noi che crediamo che la fine del mondo sia rimandata a un domani lontano. Oggi e qui noi viviamo la fine: la fine in una nostra condanna se noi apparteniamo a questo mondo, la nostra salvezza e la nostra redenzione se noi a questo mondo ci sottraiamo già per appartenere a Dio, per vivere nella sua intimità, per essere suoi. Allora anche noi, come dice Gesù nel discorso escatologico, leviamo la testa, perché i segni non ci parlano di rovina, ma ci parlano di una redenzione che ci salverà, di una redenzione che ci libererà da ogni angustia, angoscia, agonia di questo mondo che perisce». Ancora più efficace quanto scrive a proposito della seconda venuta di Cristo. È uno dei temi ricorrenti nella sua predicazione: più che di seconda venuta don Divo preferisce parlare di manifestazione di un mistero che è già presente. La Realtà è Cristo ed è già presente, anzi Lui è la Presenza stessa che domani non può essere diversa da quella che è oggi; solo, domani si manifesterà pienamente, quando cadrà il sipario di questo mondo, quella gloria che ora è nascosta. «Noi abbiamo forse considerato la fine del mondo in un modo teatrale, di spettacolo: il cielo si apre e quest’Uomo viene giù sulle nubi del cielo... Ma la manifestazione della gloria del Figlio dell’uomo è la manifestazione di quello che noi siamo. Si spezza l’argilla delle anfore e appare la luce – vedi Gedeone (Gdc 7, 20) – si spezza questo involucro di mortalità, di umiltà e di impotenza, che è proprio della nostra vita cristiana, e si manifesta la gloria che già è nostra ma rimane nascosta, che già noi possediamo ma non vediamo ancora. “Mortui enim estis, et vita vestra est abscondita cum Christo in Deo; cum Christus apparuerit et gloria vestra, tunc et vos apparebitis cum ipso in gloria” (Col 3, 3-4). La gloria del Cri-

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sto è la nostra gloria». Come concepire la vita cristiana? Ecco: non l’attesa della fine, ma l’attesa di Cristo che viene incontro a te oggi e qui. « Tutta la vita cristiana è questa attesa: un’attesa che non è mai delusa perché Egli continuamente viene. Non pensare alla venuta del Cristo soltanto nel giorno della tua morte, come non devi pensare la seconda venuta gloriosa del Cristo per tutta l’umanità alla fine dei tempi. Rimandare la venuta del Cristo alla fine vuol dire non vivere già ora nell’attesa. Perché poi in fondo nessuno che viva vive nell’attesa imminente della morte; ma ciascuno invece deve viver nell’attesa imminente del Cristo. Così ogni epoca, così ogni anima».

Padre Martino Massa CFD

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