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Introduzione

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Nota editoriale

Nota editoriale

la cosiddetta opera incompiuta

Che il Vom Kriege sia un’opera imperfetta lo dice Clausewitz; se sia difettosa possiamo dirlo noi; se sia stata abbandonata o fallita devono dirlo i confronti con opere altrettali; e che sia incompiuta e intenzionalmente inedita lo dice la moglie nella presentazione:

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Il suo più ardente desiderio era di condurla a termine; ma non fu sua intenzione pubblicarla da vivo; e quando mi adoperavo per farlo desistere da tale proposito mi rispondeva spesso, un po’ per celia, un po’ col presentimento di una morte precoce: “Sarai tu che dovrai pubblicarla”.

Può sembrare poco simpatico avvicinare un autore riservato e sincero cominciando dalla revisione di prime parole, per giunta non sue; ma qui bisogna farlo – se non altro, per sapere quanto sia solido il terreno su cui ci muoviamo e di quali margini di libertà disponiamo, anche allo scopo, magari, di attribuire all’autore le nostre opinioni preferite.

All’autore è toccata l’impensabile sorte opposta, semmai, della promozione dell’incompiuto. Presentando la seconda ristampa della terza edizione 1867 (Wilhelmi, Berlin 1883), Wilhelm von Scherff insistette molto sull’essere rimasta l’opera allo stato di torso come cosa del tutto naturale, e per due principali ragioni. In primo luogo, il carattere perfezionistico non avrebbe mai permesso a Clausewitz di concluderla:

Una tale natura, dotata dell’acribia dello sguardo vivace e dell’inesorabile logica di un Clausewitz, non è fatta per portare a “conclusione” un’opera come quella intrapresa. Mai e poi mai uno spirito siffatto “si sarebbe accontentato”, sempre di nuovo il suo occhio sempre più affinato dal lavoro ininterrotto avrebbe aperto nuove pagine al tema, il suo inesausto demone creativo (Schaffensdrang) avrebbe aggiunto all’opera nuove pietre e nuovi capitoli, mentre ne avrebbe rielaborati altri per portarli alla massima chiarezza.

Non sono che alcune parole dell’enfasi faustiano-wagneriana con cui Scherff riempie un paio di pagine, mettendoci anche l’aperto porticato (offene Säulenhalle) al quale il cantiere del Trattato sarebbe comunque assomigliato «se anche all’architetto fosse stato concesso di vivere i nostri giorni». Appunto: le campagne del 1864, 1866 e 1870-71 hanno insegnato che la guerra non si lascia mettere in dottrina; e questa è la seconda, principale ragione di una felice incompiutezza che secondo Scherff fa, e farà, vivere perennemente il Vom Kriege. «Il generale ha percepito questa inesauribilità della [sua] materia, quando nel pieno della forza creativa parla della morte precoce che potrebbe distoglierlo dal lavoro prima che sia compiuto!». La mestizia di Marie ha dunque dato esca a un focoso melomane che si muove tra i capitoli del Trattato come lungo «una fila di massicce colonne che ci fa appena riconoscere la prospettiva dell’augusta dimora che il suo spirito meditava di erigere agli epigoni». Di alcune di queste colonne noi dobbiamo doppiamente e triplamente (doppelt und dreifach) lamentare che la morte abbia tanto limitato il numero; di altre l’osservatore deve pensosamente congetturare come l’artista avrebbe sviluppato gli esigui lineamenti; e di altre ancora deve riconoscere che la forma non si adatta al costrutto, come l’autore stesso, del resto, ammise scrivendo che “avrebbe cercato un’altra soluzione”. Accanto a capitoli di stupefacente chiarezza e perfezione ci si imbatte in pagine che «l’autore stesso avrebbe senza dubbio gettato da parte, se gli fosse stato concesso di vivere le nostre guerre». Prudentemente, Scherff non dice quali capitoli e quali pagine.

Il lettore capisce subito che cinquant’anni dopo la morte di Clausewitz l’imponenza della sua opera viene osservata, nell’insieme, con attenzione archeologica. Non è un’attenzione ‘romantica’ – è un’attenzione di gusto neoclassico; e neoclassico, in questo caso, significa statuale. Non senza notevole perplessità si apprende che il pensiero di Clausewitz fu giudicato superato dai protagonisti delle guerre dell’unificazione nazionale tedesca: quelle guerre del tutto diverse dalle campagne rivoluzionarie e napoleoniche, le guerre che furono nelle salde mani della Staatspolitik della Restaurazione senza rischio di cadere in quelle di fortunati avventurieri demagoghi. A che cosa si riferì dunque Scherff, dicendo che Clausewitz si sarebbe riconosciuto invecchiato a se stesso, se non ai contenuti tattici, ai contenuti non politici, del Trattato? Viene voglia di supporre un po’ malignamente che quanto resta ancora maestosamente in piedi nel Trattato sono i caratteri comuni a tutte quante le guerre; le differenze le fanno soltanto i dettagli tecnici – e per la teoria, fuori da una narrazione o da una rappresentazione storica, i dettagli invecchiano. Di Clausewitz resterebbe in vita il recensore delle campagne. A che scopo teorizzare su ciò che si è sempre fatto, e sempre si farà? Un trattato sull’amore, se fatto sul serio, sarebbe solo una curiosità mortalmente noiosa; e Clausewitz non era un Ovidio. Il maggiore Scherff lo capisce, e conosce la risposta: cessando di aggirarsi sul palcoscenico, passa al loggione – vale a dire alla prima proposizione dello «“ultimo completato” primo capitolo» del primo libro: là dove l’autore enuncia la necessità di cominciare con uno sguardo sulla natura dell’insieme; «e quanto ci mostra è nientemeno che la più ampia possibile (breitangelegteste) base per l’esame della guerra che mai scrittore militare abbia prescelto e mai, ancora per lungo tempo, potrà prescegliere».

Come tutti sanno, le prime parole del Trattato (che per Scherff sono anche le ultime, in entrambi i sensi) descrivono la guerra come un vasto duello. Di Clausewitz resta dunque vivo non solo il recensore di campagne militari, ma anche l’aforista che ogni tanto sentenzia nelle sue pagine. La fenomenologia della guerra è troppo varia per essere pertrattata in paragrafi, come Clausewitz riconobbe; ma l’essenza del fenomeno più complesso si può cogliere con l’artificio letterario dell’allegoria, della metafora, dell’ipotiposi, della sineddoche – un artificio assai vicino a ciò che costituisce uno schema logico promosso in una forma. E la semplificazione dello schema logico è suscettibile d’impiego didattico, nonché utile per quella didattica di massa che sono la demagogia e la propaganda: in ogni guerra i due contendenti sono stati sempre, più o meno semplicemente, raffigurati. È così che, con parole in verità non molto consequenziali, Scherff ebbe l’intelligenza di servirsi del duello non come di uno strumento meramente logico, come Clausewitz fece, bensì come di un espediente di governo: i due tipi di guerra, la guerra d’annientamento e la guerra di baratto delle provincie di frontiera, sono di competenza preliminare della Staatspolitik. Obiettando a Clausewitz l’omissione d’una specificazione come questa, noi potremmo aggiungere che anche le regole del duello prevedono dei gradi non confondibili fra primo e ultimo sangue.

Partendo dal presupposto che la guerra sia nient’altro che la politica di Stato proseguita con altri mezzi, il generale perviene a [concepire] quella duplicità della guerra (Doppelartigkeit des Krieges) che rappresenta per l’appunto la “specificità” del suo modo d’argomentare.

Nella sua “Avvertenza” [Nachricht premessa da Marie al Trattato] egli afferma esplicitamente che nel progettato rifacimento dei primi sei (ma sono sette!) libri debba essere costantemente “tenuta ancor più attentamente sott’occhio” questa “duplice forma della guerra” – come, per l’appunto, avviene con assoluta precisione nello splendido frammento del libro ottavo “Del piano di guerra” che lui stesso ha pensato di assumere a modello per questo rifacimento.

La parola passa dunque alla regìa – una regìa che al Trattato non dovrebbe mancare: la politica di Stato; e potrebbe anche non mancargli nient’altro, dunque, per essere considerato un’opera compiuta. Perché dovremmo parlare di opera incompiuta, quando Scherff ne riassume il significato essenziale in modo tale che il resto, extra-aforistico, è per lo più incerto, o caduco? Un’opera destinata all’azione non è un romanzo dotato di conclusione, né un poema di forma canonica.

Per semplice interesse perfezionistico desidero aggiungere che la guerra di baratto di provincie comprende un caso che Clausewitz non poteva forse ancora conoscere: vale a dire l’acquisto di una provincia o di una posizione non soggetta ad attuali trattative dirette con avversari confinanti, bensì destinata a diventare oggetto di contrattazione in futuro verso controparti eventuali. Mi basta portare due soli esempi molto chiari. Il primo è del tutto generale, e si riferisce alla dottrina della “flotta in potenza”, o fleet in being, che nel 1904 si presentò nella baia di Cam Ranh all’ammiraglio russo Rožestvenskij – prima che essa diventasse il principio strategico principale delle flotte degli Imperi Centrali nel 1914, e della Regia Marina italiana nel 1940. Il secondo esempio è più preciso. In una postilla pubblicata su “L’Unità” il 20 marzo 1914 Gaetano Salvemini discusse l’ipotesi, secondo cui l’inutile e dispendiosa impresa di Libia avrebbe risposto al progetto del governo italiano di «acquistare un valore internazionale da spendere, in libera contrattazione, con quel qualsiasi gruppo di potenze [Triplice o Intesa] che le assicuri maggiori vantaggi». Posso ancora aggiungere che il 21 maggio 1915 compare su “L’Unità” la distinzione salveminiana fra la guerra che prepara nuove guerre future di rivincita (come la guerra franco-prussiana del 1870), e guerre che preparano assetti di pace durevole (come la guerra austro-prussiana del 1866). Nulla di simile, rispondente a una mentalità da statista, si trova mai in Clausewitz: il quale, come si vedrà, non ebbe alcun vero interesse per gli assetti permanenti d’equilibrio fra gli Stati europei. Più consone alla latente intuizione clausewitziana della “politica”, come qualcosa di insito nella natura delle cose, sono invece queste chiarissime e succinte parole di Gaetano Salvemini sulla natura del “militarismo”:

Se è vero che scopo essenziale di questa guerra è la lotta contro il militarismo tedesco, – cioè contro quello stato d’animo in cui la guerra è considerata come una fondamentale necessità di vita nazionale, e la preparazione della guerra come il fondamentale dovere nazionale, – è anche vero che non è lecito sperare la distruzione di questo nemico neanche nel caso della più strepitosa vittoria militare: con questa si può distruggere un esercito, non si sradica dal cuore di un popolo il militarismo, cioè quella psicologia di guerra, da cui rampollano sempre nuovi eserciti, non appena una nuova lotta si può tentare con probabilità di vittoria.1

Parole come queste possono illuminare e chiudere il discorso sul mistero della politica in Clausewitz. Peccato, però, che egli non le abbia mai scritte, dannando i posteri stupefatti a interpretare i suoi oracoli. A me resta solo da aggiungere che l’accesso a uno «stato d’animo», al «cuore di un popolo», a una «psicologia di guerra» richiede strumenti d’indagine diversi dai consueti, criticisti o storicisti, in uso nella scienza politica e nella filosofia politica: vale a dire gli strumenti politecnici delle discipline della sensibilità, assistite dalla filologia, che spalancano le possibilità – non già della politica ‘estetica’ alla maniera degli Spengler, bensì di un accesso estetico alle cose politiche.

Bene dunque avrebbe fatto chi ha letto il Vom Kriege apprezzandolo come vademecum e saccheggiandone le sentenze. Clausewitz stesso ha dato un esempio di saccheggio del suo pensiero quando stilò due note non datate che la moglie pose a corredo dell’incartamento. La prima che Marie menziona è una nota frettolosa, che essa titola come Aufsatz, usando un termine improprio non corrispondente alle dimensioni e allo stile currenti calamo. Io chiamo questa prima delle due note non datate come nota Rinvenuta (Der Nachfolgende, der sich ohne Datum unter seinen Papieren fand), distinguendola dalla seconda che chiamerò, discutendola più avanti, nota Incompiuta (fand sich noch in dem Nachlasse folgender unvollendete Aufsatz). Nella Rinvenuta Clau- sewitz pensò di compendiare un possibile rifacimento venturo del Trattato alla luce, «per esempio», di otto assiomi che la traduzione italiana evidenziò elencandoli in modo distinto e sentenziale: 1) la difesa è la forma più forte...; 2) i maggiori successi si ottengono creando dei centri di gravitazione...; 3) l’azione dimostrativa conviene meno dell’attacco...; 4) la vittoria si ottiene con la distruzione materiale e morale dell’avversario, e questa si ottiene con l’inseguimento...; 5) il massimo risultato si ottiene là, dov’è stata ottenuta la vittoria, e per conseguenza il passaggio da una linea o da una direzione all’altra va effettuato solo per assoluta necessità...; 6) l’aggiramento va effettuato solo in condizioni di netta superiorità di forze d’attacco e di ritirata...; 7) le posizioni di fianco sono soggette alle medesime condizioni (dell’attacco frontale)...; 8) ogni attacco si indebolisce nel procedere.

1 Gaetano Salvemini, Postilla a “L’impresa libica e la politica estera dell’Italia”; e Per l’amicizia italo-jugoslava: le due guerre (entrambi in Come siamo andati in Libia nel volume III, I delle Opere, Feltrinelli, Milano 1963, pp. 322 e 521). Il congresso di Roma (da “L’Unità”, 13 aprile 1918) in Dalla guerra mondiale alla dittatura (1916-1925) nel volume III, II delle Opere, Feltrinelli, Milano 1964, p. 181).

Ecco dunque ciò che, per dichiarazione ‘autentica’, mancherebbe al Trattato perché lo si fosse potuto considerare un’opera compiuta dopo un rifacimento. Il lettore rimane nondimeno, e di nuovo, assai perplesso: in questo elenco, che Marie giudica di data alquanto posteriore all’Avvertenza del 1827, la politica non c’è. E ci sono, d’altra parte, nozioni davvero poco adatte ad un chiaro governo registico della materia, come mostra la vistosa contraddizione fra i punti 4) e 5) e l’insistenza sull’attacco che ai punti 6) e 7) risulta essere concepito, in definitiva, come frontale. Scherff notò con un’esclamazione che i libri da assoggettare a revisione nel Trattato non sono sei, come Clausewitz dice ripetutamente (per cinque volte, nientemeno), ma sette; e il settimo libro taciuto tratta proprio dell’offensiva, la quale nella Rinvenuta occupa, come si è visto, quasi tutti gli otto assiomi riassuntivi d’una eventuale dottrina, mentre l’Avvertenza del 1827 ne aveva fatto soltanto il «riflesso» del sesto libro sulla difensiva (ist als ein Reflex des sechsten Buches zu betrachten). Al primo punto della Rinvenuta il primato della difensiva strategica ci sta soltanto di cappello, e il lettore può facilmente supporre che la scelta preliminare riguardante questa difensiva strategica spetti alla Staatspolitik – senza, peraltro, che la scelta fra guerra d’annientamento e guerra di cabotaggio venga nella Rinvenuta affatto menzionata: la distruzione materiale e morale dell’avversario si ottiene con l’inseguimento, insegna Clausewitz, e non per una preliminare decisione politica. Se nel compendio generale della nota Rinvenuta la Staatspolitik dell’Avvertenza del 1827 non viene neppure menzionata, mentre un rilievo molto più insistente ha il ruolo del comandante, che col suo Stato Maggiore deve destreggiarsi fra «vane logomachie»; e se il ricordo dei consigli di guerra ai quali Clausewitz aveva assistito sembra dunque più fresco – dove e da dove entra ed esce dunque la politica? Fra gli otto punti prevalgono i princìpi tattici, d’una tattica persino elementare, se di tattica si può mai parlare dove tutto si rias- sume, in definitiva, nell’attacco frontale. Il brusco salto, contenuto nel punto finale, alla visione strategica dell’esaurimento dell’offensiva nel suo progresso si accorda assai male coi sei punti centrali, mentre meglio avrebbe figurato facendo da contrappunto introduttivo insieme col primo punto, concernente il primato strategico della difensiva, del quale può rappresentare un corollario. Dobbiamo pensare che dopo la chiusura dell’incartamento Clausewitz abbia allontanato il suo pensiero dalla politica, dunque, rivolgendolo alle qualità del comandante – oppure che al momento di apporre i sigilli abbia voluto, con una certa apprensione, ribadire i riferimenti cautelativi nei confronti della politica già seminati nel Trattato? Una simile nota Rinvenuta, così concepita e redatta, non sembra insomma rappresentare un progresso di pensiero rispetto all’Avvertenza del 1827. Che essa sia alquanto posteriore (vale a dire prossima alla morte imminente, è lecito supporre) è solo Marie ad affermarlo.

In ogni caso, mi sembra debba essere facile capire che quello della Staatspolitik non è altro che un aforisma; e la lettura degli scritti mostra che tale esso sempre rimase nel suo pensiero della Restaurazione. Non voglio dire, con questo, che ciò significhi poco – al contrario; e se ne parlerà (come qui, alle note 38-40 per fare dei chiarissimi esempi, il lettore può vedere anche subito). Nell’Avvertenza di chiusura del 1827 l’autore specificò la distinzione fra i due punti di vista dell’annientamento e della rapina di frontiera, con un uso terminologico (die beiden Gesichtspunkte) davvero improprio per una lezione di decisione politica con la quale spianare, «come con un colpo di ferro, qualche piega nelle teste di strateghi e statisti (manchen Faltenkniff in den Köpfen der Strategen und Staatsmänner auszubügeln)». La scelta fra i due scopi della guerra non è questione di punti di vista, evidentemente, e il punto di vista non è un colpo di ferro. Visto che siamo a teatro, e non in sartoria, parliamo dunque pure di politica come deus ex-machina, invocato per risolvere un quesito angoscioso da un uomo come Scherff che, tra i primi, lo ha sintetizzato grazie agli espedienti immaginosi delle arti e dello spettacolo. E non si può certo dire che quello di Scherff sia stato un abuso: perché è un fatto che il ruolo meramente evocativo della Staatspolitik in tutti gli scritti di Clausewitz non oltrepassa mai l’istante di comparizione del deus ex-machina. Quale vero rapporto tende a stabilirsi dunque fra guerra e politica, se non un pericoloso rapporto di surrogazione? La guerra è la Staatspolitik in campo. Scherff compie il miracolo di scoprirlo quando afferma distrattamente, come sopra si è visto, che partendo dal presupposto della guerra come prosecuzione eterostrumentale della Staatspolitik «il generale [Clausewitz] perviene a [concepire] quella duplicità della guerra che rappresenta per l’appunto la “specificità” del suo modo d’argomentare». Parole simili dovrebbero avere una risonanza clamorosa: per

Clausewitz, secondo Scherff, le due alternative strategiche della politica di Stato consistono, o si trasformano, o comunque si trattano, come duplicità della natura della guerra. La politica è la prosecuzione della guerra con altri mezzi; e la capriola porta poi direttamente a Carl Schmitt. Si badi bene che qui non si dice che la guerra va condotta in due modi militarmente diversi, ben distinti a seconda di quale dei due scopi politici lo Stato decida di perseguire: se l’annientamento, oppure il cabotaggio di rapina sulle frontiere. No – qui si dice che per il Clausewitz di Scherff la guerra avrebbe una duplice natura; ragione per cui non già la politica “di Stato”, bensì “la politica” senza specificazioni è insita nella Doppelartigkeit des Krieges quando si ammetta che ‘politica’ sia qualsivoglia facoltà di scelta. Chiunque può capire quanto facilmente possa volgersi tutto ciò che ha due facce; e non è certo la guerra d’annientamento che può trasformarsi in guerra di frontiera, bensì il contrario.

***

Non creda il lettore che qui si stia esagerando con le sottigliezze, perché con la ristampa della terza edizione del Trattato noi ci troviamo all’inizio dell’effettiva tradizione del pensiero, delle sue versioni e distorsioni; e non sappiamo neppure quanto questa ambivalenza surrogatoria della politica in re, della politica nella guerra avesse già trovato Clausewitz inquieto, rassegnato o tacitamente consenziente, perché negli scritti egli sembra talvolta affidarvisi più che alla Staatspolitik dei governi. Nell’Avvertenza del 1827 egli ammette senza alcuna apprensione, e anzi con alquanta leggerezza, in modo distratto e confuso, che da una forma di guerra si possa passare all’altra. I traduttori italiani hanno parlato di «forme intermedie di guerra [che] hanno pur tuttavia il diritto di sussistere»; se non che Clausewitz fu assai più preciso parlando di «trapassi (Übergänge) di una specie [di guerra] nell’altra», preoccupandosi poi subito di ribadire, però, la distinzione inconciliabile fra le due tendenze (Bestrebungen). L’inconciliabilità dei due tipi di guerra vale dunque, come la metafora del duello, solo come schema logico; e sul piano puramente logico finisce per valere, di conseguenza, anche la tutela sulla guerra della Staatspolitik. Mentre lo schema logico del duello che porterebbe la guerra direttamente all’estremo viene circostanziato in tutto quanto il Trattato, e in altri scritti, con ogni sorta di riferimenti alle grandezze teoriche ed empiriche moderatrici dell’azione (dal primato della difensiva strategica all’esaurimento progressivo dell’offensiva, dalla sosta all’attrito, dal caso all’insipienza dei comandanti), qui ci troviamo invece davanti al caso opposto della possibilità, ammessa con noncuranza, che le medesime ragioni pratiche, empiriche, casuali promuova- no il trapasso da una guerra di cabotaggio a una guerra d’annientamento. E non risulta neppure che l’incombenza di questo trapasso lo abbia inquietato, tanto da fargli progettare un rifacimento del lavoro. È dunque proprio vero che la nota Rinvenuta fu scritta, come dice Marie, alquanto più tardi dell’Avvertenza del 1827? Di certo possiamo dire che egli non fu lucidamente consapevole del punto scoperto della surrogazione militare sul campo della politica, e tese a dare alla tutela del contesto politico i significati alquanto evanescenti che si discuteranno, per quanto a malapena è possibile, nel proseguimento di questa introduzione e nelle lettere a Roeder. Se si vuole giudicare il Trattato un’opera incompiuta, lo si faccia alla luce di queste considerazioni sul punto scoperto – tenendo conto, però, che esse interessano veramente soltanto noi, non lui: perché tutta la sua attenzione, riguardo all’incompiutezza dell’opera, fu rivolta alla redazione di quei capitoli che avrebbero dato alla materia una più soddisfacente sistemazione didattica.

Diciamo intanto, passando alla quinta edizione del Trattato, presentata da Alfred von Schlieffen nel 1905, che le angosce del quesito imperfettivo svaniscono del tutto. Per Schlieffen non ci sono dubbi: come per Scherff, e ripetendo parole di Clausewitz, il Trattato non è che «una raccolta di grossi frammenti (Werkstücken)» i quali, proprio perciò, darebbero a noi la possibilità di organizzare la materia a piacimento, secondo gli sviluppi storici ed empirici. A differenza di Scherff, Schlieffen non butta via niente dei principi slegati esclamando: «guai alla teoria che si mette in contrasto con lo spirito!» – e per “teoria” Schlieffen intende, piuttosto, la dottrina. Nel Trattato qualcosa non è chiaro, qualcos’altro è vecchio, ma Clausewitz, comunque, non ha mai pensato di contestare il valore d’una sana teoria – ed ecco in questa edizione, che farà epoca, comparire in forma ufficiale, per così dire, il titolo di “filosofo” appiccicato all’autore; e insieme con esso compare anche il suo riconoscimento didattico: Clausewitz è una fonte inesauribile per «chi da noi insegna la guerra». Lo stato imperfetto del Trattato corrisponde perfettamente alla «infinita multiformità della vita guerresca»: le vittorie del 1866 e del 1871 (Schlieffen preferisce dimenticare la guerra del 1864) sono state seminate da Clausewitz. A questo punto il lettore si attende che fra queste due guerre, che nel primo caso non portarono, e nel secondo caso invece portarono alla caduta d’un regime, Schlieffen rivolga il suo grato pensiero alla provvidenziale distinzione clausewitziana fra guerra limitata e guerra d’annientamento – e invece non è così:

Accanto al suo elevato contenuto etico e psicologico, il valore duraturo dell’opera Vom Kriege consiste nell’espresso risalto [attribuito] al pensiero dell’annientamento. Per

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