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a Lina Sastri

La mutassion origina el canto; No’ vè paura de sparì; dura un atimo el dì ma xe eterno l’incanto.

Biagio Marin

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La Val d’Orcia non si contempla dall’alto del Monte Amiata, come si potrebbe pensare dato che ci sta proprio a picco sopra, ma da Castelluccio.

Certo, è una visione di parte, rimangono defilati Pienza e Monticchiello e anche Montalcino ma ciò che riempie gli occhi e la mente, da lassù, è il verde.

Da Castelluccio, seduti all’ombra sotto il grande pino, con alle spalle il portone della fortificazione, l’occhio non si sazia di guardare.

Non c’è un solo punto di quell’ondulato e sempre mosso prato d’erba che consenta all’occhio di fermarsi perché appena si è catturati da un albero, da una collina, da un uccello, da un cipresso, da un covone, da un lontano casale restaurato immediatamente c’è un altro albero, un’altra collina, un altro uccello, un altro cipresso, un altro covone, un altro casale da guardare, da gustare e da ammirare.

E questo perché tutto è sempre mosso dal vento. A spirale.

La Val d’Orcia è il luogo dello Spirito.

Il vento entra gelido d’inverno e spesso anche in primavera (soprattutto a Pasqua) e arieggia felice d’estate, d’autunno è mite, consolatorio e molto profumato.

A Castelluccio, i venti vengono da ogni parte: appena si è abbandonati da uno, ne arriva subito un altro. Lassù sull’altopiano, prima che si scollini verso Chianciano o verso Monticchiello, distese d’erba verde, d’inverno, e gialla, d’estate, cambiano continuamente sfumatura di colore, accarezzate e a volte sbatacchiate da una grande mano ventosa.

Il cielo ha due colori, sia d’inverno che d’estate: azzurro, quasi indaco, nelle belle giornate; nero-grigio e straripante di nubi, in quelle cattive.

Non piove molto a lungo, fa scrosci violenti e rapidi che volano subito da un’altra parte, poi ritornano, vanno via di nuovo, si acquietano e poi – se Dio vuole! – spariscono.

Stando quassù, l’unica cosa che viene voglia di fare è: guardare.

Sedersi e guardare.

Ascoltare.

Lasciarsi passare addosso il vento senza aggiustarsi i capelli.

E sorridere al mulinello di pensieri e ricordi che l’aria porta con sé.

Il vento odoroso di questa valle non ferisce – anche quando è gelido e bagnato – ma nemmeno accarezza: tocca, sveglia e passa via!

Un attimo di tregua (il tempo di iniziare a ricomporsi ) ed eccolo di nuovo, da un’altra parte! Poi ancora, pausa e ritocco. Pausa e ritorno: pausa e poi...

più!

Le giornate senza vento non sono mai immobili, c’è tanta aria.

Aria che circola lentamente ma di continuo, che avvolge le cose e gli umani senza scomporli, in modo così connaturato che solo dopo, quando non si è più lì, ci si accorge – in qualunque altro luogo si sia – di non poter più respirare, di soffocare senza.

A volte il vento fa mulinello e trovandosi nel centro, per puro caso, la calma è assoluta. Allora, girandosi intorno a 360° gradi, si possono contare e nominare le cose, al ralentì o in surplace. E il fiore ha proprio quel colore, gli uccelli vengono in primo piano e di loro si vede tutto: zampe, becco, piume; sui campanili – in campo lungo – si notano anche i capperi cresciuti tra pietra e pietra.

Quando la vita ti si mette in mano così, si è certamente in Val d’Orcia.

Castelluccio e la Foce sono due luoghi vicini ma diversi. In quest’ultima, c’è il cimitero dove è sepolta Iris e tutti gli altri che hanno abitato in questo luogo.

Anche a Castelluccio c’è un piccolo cimitero con alcuni grandi cipressi (straripanti e bellissimi rispetto al piccolo rettangolo recintato), una piccolissima cappella, alcuni nomi scoloriti, qualche ricordo – il pievano di lì che faceva tutto, anche il maestro elementare – a pochi passi dal castello, in una piccola insenatura, prima di affrontare il grande altopiano.

Non è popolare, oggi, dire che i cimiteri – o almeno alcuni – sono belli.

Non sarà di moda ma è vero. I due cimiteri di Castelluccio e de La Foce sono tanto belli perché sono piccoli, voluti proprio lì, desiderati così e soprattutto rispettati.

Il primo è meno curato (sono passati tanti anni da quelle sepolture, a cavallo tra Otto e Novecento) ma non abbandonato, non c’è cattivo odore, c’è ombra e tanto muschio nel profumo umido dei cipressi.

Il secondo si adagia su una collina: davanti all’ingresso una quercia secolare e di fronte il profilo intero del Monte Amiata. È esposto a occidente in modo che tutti i defunti ospiti (sdraiati a gradinate) possano ogni sera vedere il Sole tramontare sulla valle e sull’Amiata.

Ci abitano contadini e contadine, i loro figli morti troppo giovani come Gianni Origo, il figlio della marchesa, e anche i loro “padroni”, che quel cimitero hanno voluto e costruito.

Non si trova nessuno, qui, disposto a parlar male degli Origo (come invece di altra nobiltà di zona): tra la prima e la seconda guerra mondiale Iris e Antonio misero il bagno in casa ai loro contadini, costruirono un asilo e una scuola apposta per i loro figli, insegnarono a coltivare questa terra, prima aspra brulla e dolorosa, e a renderla verde e fruttuosa come è oggi.

Durante la seconda guerra mondiale, poi, Castelluccio fu luogo di rifugio e di accoglienza di tutti i perseguitati dal regime e dai tedeschi.

La nobiltà, in Val d’Orcia, non si eredita: si conquista sul campo. Nel senso più totale e profondo.

Solo chi dimostra di amarla e di rispettarla questa terra, non con gesti eclatanti, non con proclami ma con affetto, rispetto e ironia può rimanere nel cuore dei valdorciani doc, quelli che, per intendersi, non lo diranno mai che ti vogliono bene ma che si offen- dono davvero se, nell’arco di un giorno, non trovi un’occasione per salutarli e fare una battuta con loro.

Ironia, battute, lingue affilate in Val d’Orcia come il vento di tramontana che spacca Pienza a metà, attraversandola lungo tutto il Corso Rossellino. È il distacco dei contadini che, prima, vedevano passare i padroni sulla propria aia e, ora, assistono alla calata dei turisti sulle loro terre. Ignorata dai più per anni e amata da grandi poeti e pittori, la Val d’Orcia –dopo il Paziente inglese – ha subìto lo stesso shock che accadrebbe, per esempio, ad Assisi se fosse trasformata in Rimini.

Ma ce la faranno i valdorciani… eccome!

È questo che penso, affacciata alla balconata di Castelluccio mentre il vento gelido d’aprile (non è stata una bella Pasqua!) mi becca proprio lì sul collo e mi costringe a tirar fuori la sciarpa dalla borsa.

Davanti a me, sull’altra sponda della valle, Castiglion d’Orcia. Lì, nella Rocca di Tentennano, Caterina da Siena imparò a scrivere.

Sono certa che, ogni volta, davanti al foglio bianco (che poi sarebbe diventata una delle sue grandi lettere) lei vedeva – come si può farlo ancora oggi – tutta la valle che le si sdraiava ai piedi fino a scorgere, nelle giornate terse dal tramontano, il profilo rosato delle mura di Siena.

Passa basso un jet assordante dell’aeronautica militare proveniente da Grosseto. Accade troppo spesso!

Caterina ci proteggerà.

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