19 minute read
Indice
9 Introduzione. Il romanzo nero d’appendice nella storia della lingua italiana
19 Avvertenza
Advertisement
21 1. Il corpus
21 1.1 Criteri di selezione dei testi
23 1.2 Descrizione del corpus
27 2. Profilo delle opere e degli autori
27 2.1 La mano nera, Cletto Arrighi (1883)
28
2.2 L’assassinio nel Vicolo della Luna, Jarro (1883)
30 2.3 Il processo di Frine, Edoardo Scarfoglio (1884)
31 2.4 Il bacio d’una morta, Carolina Invernizio (1886)
32 2.5 Il cappello del prete, Emilio De Marchi (1888)
34
2.6 Il processo Lampi, Giuseppe Alessandro Giustina (1889)
2.7 Il brindisi di sangue, Francesco Mastriani (1891) 36
35
38
39
41
2.8 Pipa e boccale (L’“Odochantura melanura”), Salvatore Di Giacomo (1893)
2.9 L’ultima cartuccia, Remigio Zena (1895-1896)
2.10 Spasimo, Federico De Roberto (1897)
2.11 Shairlock Holtes in Italia, Donan Coyle (1902)
42 2.12 La spia, Arturo Olivieri Sangiacomo (1902) 43 2.13 I signori della prigione, Nino Ilari (1905) 44 2.14.Dalle memorie di un delegato di pubblica sicurezza, Athos Gastone Banti (1907)
44 2.15 Il segreto del nevaio, Salvatore Farina (1908) 46 2.16 Anna Stephenson, Franco Bello (1909)
Introduzione.
Lo sviluppo del romanzo popolare ottocentesco è strettamente legato alla nascita dell’industria culturale, che fece del libro un prodotto pronto a soddisfare l’aumento della domanda da parte di un pubblico in costante crescita. La letteratura divenne così una fonte di reddito, e personaggi estranei alla concezione tradizionale del letterato vennero coinvolti nei meccanismi di produzione del libro1; al contempo, si modificò il rapporto tra scrittore ed editore, secondo la prospettiva di un reciproco vantaggio: l’autore, da parte sua, doveva occuparsi di realizzare «un prodotto dotato di certi requisiti merceologici»; l’editore cominciò invece a manovrare «intimamente i procedimenti tecnicoespressivi, in modo analogo ma più stretto di quanto da tempo avevano imparato a fare gli impresari teatrali»2; l’autore ebbe così l’opportunità «di estendere la sua fama come mai era accaduto per l’innanzi»3.
Il paese europeo in cui per primo il fenomeno dell’industrializzazione della cultura raggiunse le proporzioni più vistose fu la Francia: negli anni Trenta dell’Ottocento, com’è ben noto, comparvero i romanzi in appendice ai giornali con la specifica funzione di abbattere il costo dei quotidiani aumentando le tirature e il numero degli abbonati: periodici come Le Soleil, Le Siècle, Le Constitutionnel si contendevano le opere di grandi scrittori quali Balzac, Sand,
1 Intervistato da Ugo Ojetti, Arturo Colautti analizzò così i cambiamenti della professione letteraria in Italia: «Petrarca aveva un canonicato, Dante scrisse le cantiche qua e là in castelli o conventi; e pensa all’Ariosto, al Poliziano, al Tasso. Dopo i poeti cortigiani, vennero quelli che vivevano di altre professioni e a tempo libero scrivevano versi. Poi vennero i poeti di nobile famiglia e nati da borghesi già ricchi Alfieri, d’Azeglio, Manzoni, ecc. Finalmente verso il ’60 la letteratura cominciò ad essere pagata e dapprima ciò parve quasi un’onta. Ora sottostà alle leggi delle altre industrie, ed è dai capitalisti, come le altre industrie, sfruttata» (Ugo Ojetti, Alla scoperta dei letterati, Milano, Fratelli Bocca, 1899, p. 249. Disponibile su <www.wikisource.it>).
2 Vittorio Spinazzola, Emilio De Marchi romanziere popolare, Milano, Edizioni di Comunità, 1971, pp. 9-10.
3 Ibidem la lingua del roManzo nero italiano tra otto e noVeCento
Dumas, allora i principali appendicisti assieme a Eugène Sue, che con L’ebreo errante contribuì all’aumento del «numero di abbonati al Constitutionnel da 3.000 a 40.000”»4.
Meccanismi simili vennero usati nello stesso periodo in Spagna, con la diffusione della novela por entregas, un prodotto editoriale a puntate rivolto ai meno alfabetizzati e in particolare al pubblico femminile5; inoltre, tra la letteratura di consumo spagnola e quella francese c’era un legame diretto: per esempio, l’autore iberico Ayguals tradusse L’ebreo errante di Sue (El judìo errante, 1844-1845), poco prima della pubblicazione del suo romanzo Maria la hija del jornalero (1846); nello stesso anno, l’opera dello scrittore spagnolo venne a sua volta tradotta in francese con il titolo Marie l’Espagnole, ou le Victime d’un moine: histoire de Madrid, la cui introduzione fu affidata allo stesso
Eugène Sue6
Già ai primordi del romanzo d’appendice, l’impegno del narratore era di soddisfare «[…] la richiesta di un predefinito pubblico di riferimento, circoscrivibile per sesso, età e interessi»7. Il destinatario dell’opera, da parte sua, era chiamato a intervenire personalmente nell’iter produttivo e, anziché accettare passivamente le proposte, collaborava costantemente con l’autore «fornendogli notizie, consigli e suggerimenti interessanti per la prosecuzione del racconto o per la progettazione di differenti soluzioni narrative»8. Il dialogo tra l’autore del prodotto e il suo destinatario si poté concretizzare poiché il feuilleton era il genere che, più di altri, consentiva un autentico riconoscimento del lettore borghese nei valori trasmessi nel testo; per merito del romanzo d’appendice il pubblico femminile e la piccola borghesia potevano perciò coltivare «i modelli della rivincita su un ruolo sociale deludente, in un fenomeno trasversale che ha portata europea e fasi di inizio ed espansione successive nelle diverse realtà nazionali»9. Le lettrici e i lettori consumavano la lingua scritta nonostante i limiti socioculturali dell’epoca10, e attraverso le pagine dei romanzi si immedesi- mavano con il protagonista, liberandosi momentaneamente dall’opprimente giogo dell’ingiustizia sociale; per questo motivo il personaggio principale era sempre munito di poteri sovraumani: il “superuomo” del feuilleton era «la molla necessaria per il buon funzionamento di un meccanismo consolatorio […]»11.
4 Giuseppe ZaCCaria, Il romanzo d’appendice. Aspetti della narrativa “popolare” nei secoli 19 e 20, Torino, Paravia, 1997, p. 26; cfr. anche, al riguardo, Adelio BianChini, Il romanzo d’appendice, Torino, ERI, 1969.
5 Cfr. Patrizia Bertini Malgarini e Ugo Vignuzzi, Una lingua per il popolo. Le traduzioni italiane di ‘Maria la spagnuola’, in L’Italia verso l’unità. Letterati, eroi, patrioti, a cura di Beatrice Alfonzetti, Francesca Cantù, Marina Formica, Maria Silvia Tatti, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2011, pp. 361-375.
6 Ivi, 366-377.
7 Laura RiCCi, Paraletteratura, in Storia dell’italiano scritto, a cura di Giuseppe Antonelli, Matteo Motolese, Lorenzo Tomasin, Roma, Carocci, 2014, 6 voll., ii (Prosa letteraria), p. 284. Vedi anche il precedente volume Ead., Paraletteratura. Lingua e stile dei generi di consumo, Roma, Carocci, 2013.
8 MassiMo RoMano, Mitologia romantica e letteratura popolare. Struttura e sociologia del romanzo d’appendice, Ravenna, Longo, 1977, p. 10.
9 GioVanni Ragone, Introduzione alla sociologia della letteratura. La tradizione, i testi, le nuove teorie, Napoli, Liguori, 1996, pp. 343-344.
10 Si vedano le osservazioni di Gabriella Alfieri, La lingua di consumo, in Storia della lingua italiana, a cura di Luca Serianni, Pietro Trifone, Torino, Einaudi, 1994, 3 voll., ii (Scritto e parlato), p. 172.
Dopo un primo periodo, definito da Eco «romantico-eroico»12, capace di attrarre anche gli artigiani e gli operai, a cui si rivolgevano Sue e Dumas e che ispirava narratori di livello come Balzac, ne seguì un secondo più «[…] reazionario, piccolo-borghese, non di rado razzista e antisemita»13, che negli ultimi decenni del diciannovesimo secolo aveva come esponenti i francesi Montepin, Richepin, Richebourg e, in Italia, Carolina Invernizio. In questa seconda fase l’uomo comune si ergeva a paladino del popolo, contornato da una aureola di innocenza e dotato di tutte le virtù necessarie a sconfiggere i suoi nemici. La figura del superuomo mutò ulteriormente all’inizio del ventesimo secolo: i protagonisti del feuilleton divennero «eroi antisociali, esseri eccezionali che non vendicano più gli oppressi ma perseguono un loro piano egoistico di potere […]»14; i personaggi più famosi che interpretarono al meglio questo ruolo furono Arsenio Lupin, ideato da Maurice Leblanc, e Fantômas, protagonista dei romanzi di Marcel Allain.
Si trattò di piccole e lente evoluzioni, perché il centro del romanzo d’appendice rimase sempre l’eterna, catartica lotta tra il bene e il male; e fu così che il campione popolare divenne con il passare del tempo l’investigatore, poiché «il detective continua ad intercedere fra l’uomo e ciò che lo circonda; a ristabilire fra l’uomo e il mondo l’equilibrio psicologico che il mistero, l’ingiustizia o il male avevano rotto»15. Personaggi come Auguste Dupin, inventato dalla penna di Edgar Allan Poe, e lo Sherlock Holmes di Conan Doyle raccolsero il testimone del superuomo della letteratura d’appendice grazie alle loro enormi capacità deduttive, continuando una tradizione che a mano a mano si diffondeva e catturava persino l’attenzione degli intellettuali: emblematiche le riflessioni di Gramsci, il quale si domandava se il superuomo di Nietzsche non fosse stato influenzato dal romanzo di consumo francese, perché «tale letteratura, oggi degradata alle portinerie e ai sottoscala, è stata molto diffusa tra gli intellettuali, almeno fino al 1870, come oggi il così detto romanzo “giallo” […]»16.
In Italia, a eccezione di un manipolo di autori di successo come Francesco Mastriani, Carolina Invernizio e Antonio Bresciani17, il romanzo di appendice
11 UMberto ECo, Il superuomo di massa. Studi sul romanzo popolare, Cologno Monzese, Cooperativa scrittori, 1976, p. 63.
12 Ivi, p. 87.
13 Ibidem si sviluppò in ritardo rispetto ad altri paesi europei, soprattutto a causa della mancanza di un pubblico di riferimento; soltanto l’unificazione nazionale portò le condizioni necessarie per l’allargamento del numero di fruitori della carta: vennero estesi ai territori annessi gli ordinamenti preunitari sulla libertà di stampa18, e i provvedimenti relativi alla proprietà letteraria favorirono l’unione dei mercati regionali19. Tutto ciò causò un inarrestabile e rapido aumento della domanda: le stime mostrano che il numero di libri stampati passò da circa tremila nel 1836 a più di seimila 1872, arrivando a oltre novemila nel 1886; per i periodici l’ascesa fu ancora più netta: si passò dai 193 giornali stampati nel 1846 ai 1120 del 1872, fino a giungere a quota 1606 nel 189020. Non mancarono, tuttavia, «[…] disfunzioni e anomalie destinate a mantenersi nei decenni successi e più oltre. Tra esse: la tendenza a un’euforia produttiva intermittente che non trovava terreno su cui radicarsi in maniera durevole, considerata la scarsa domanda di lettura in relazione ai parametri europei; la mancanza di una vera e propria pianificazione editoriale, alla quale si sostituisce lo sfruttamento anche imprenditoriale del singolo autore […]; la tattica perversa, infine, di arginare ogni crollo congiunturale contando sulla ristrettezza del mercato»21.
14 Ivi, p. 88.
15 Giuseppe Petronio, Letteratura di massa e letteratura di consumo. Guida storica e critica, Roma-Bari, Laterza, 1979, p. 100.
16 Antonio GraMsCi, Letteratura e vita nazionale, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 157.
17 Sulla prosa di Bresciani, si veda l’analisi linguistica di EMiliano PiCChiorri, La lingua dei romanzi di Antonio Bresciani, Roma, Aracne, 2008.
Al centro del processo di industrializzazione del mercato culturale italiano c’era Milano. Secondo le stime di Gigli Marchetti22, negli anni Ottanta dell’Ottocento vennero pubblicati nel capoluogo lombardo 216 periodici, dodici dei quali erano quotidiani che raggiunsero le 70000 copie in tiratura; seguivano Torino (155), Roma (147), Napoli (114) e Firenze (101). Il capoluogo lombardo era innanzitutto la patria delle case editrici più importanti del periodo, Treves e Sonzogno. La prima si rivolse inizialmente a un pubblico più colto rispetto a quello dell’editore rivale, ma nonostante le due aziende proponessero i loro programmi lavorativi sulla base di premesse ideologiche contrastanti, entrambe avevano il comune obiettivo di incrementare il numero dei lettori, e conseguentemente i profitti attraverso le vendite23.
L’egemonia di Milano lasciò poco spazio al commercio librario nelle altre città, malgrado vi furono altri importanti centri di produzione, come Roma, in cui il circolo che ruotava attorno alla figura di Angelo Sommaruga «riuscì a sfruttare – seppur spregiudicatamente – il vuoto editoriale della capitale e ad impostare in modo non tradizionale una vera organizzazione editoriale, in un continuo scambio fra produzione di libri e di giornali e con un uso moderno della pubblicità, ricompensando largamente i propri autori»24; anche a Firenze, nel periodo postunitario, videro la luce due importanti case editrici: quella fondata da Adriano Salani nel 1862, che ottenne un clamoroso aumento delle vendite grazie a Carolina Invernizio, e in seguito, sotto la direzione del figlio Ettore, a Matilde Serao; quella di Giovanni Nerbini, che dalla fine del secolo contribuì alla diffusione in Italia dei grandi romanzieri russi come Tolstoj e Dostoevskij, e degli autori francesi Hugo e Zola25.
18 Sulla legislazione in materia di libertà di stampa, cfr. Valerio CastronoVo, LuCiana GiaCheri Fossati, NiCola Tranfaglia, La stampa italiana nell’età liberale, Roma-Bari, Laterza, 1979, pp. 5-10.
19 Cfr. al riguardo Maurizio Borghi, La manifattura del pensiero. Diritti d’autore e mercato delle lettere in Italia, 1801-1865, Milano, Franco Angeli, 2003.
20 I dati sono stati ripresi dal volume di NiCola Tranfaglia e Albertina Vittoria, Storia degli editori italiani. Dall’unità alla fine degli anni Sessanta, Roma-Bari, Laterza, 2000, p. 66; cfr. al riguardo anche GioVanni Ragone, Un secolo di libri. Storia dell’editoria in Italia dall’unità al postmoderno, Torino, Einaudi, 1999.
21 Eugenio Di Rienzo, Il mercato editoriale, in Manuale di letteratura italiana. Storia per generi e problemi, a cura di Franco Brioschi, Costanzo Di Gerolamo, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, 4 voll., iii (Dalla metà del Settecento all’Unità), p. 90.
22 Ada Gigli MarChetti, Le nuove dimensioni dell’impresa editoriale, in Storia dell’editoria nell’Italia Contemporanea, a cura di Gabriele Turi, Firenze, Giunti, 1997, p. 112.
23 Cfr. Vittorio Spinazzola, Emilio De Marchi romanziere popolare, cit., p. 9.
In un panorama del genere, gli editori italiani che scelsero di pubblicare romanzi di consumo si servirono di scrittori che erano costretti a ricavare i modelli dall’estero adattandoli al contesto nazionale, perché in Italia era ancora pressoché «assente, per la novità delle relative strutture organizzative, un ambito autonomo di ricerca sulle scritture destinate al mercato letterario, al grande pubblico dei consumatori»26. La subordinazione ai modelli di riferimento stranieri favorì in primo luogo la mescolanza tra i generi: le storie di Carolina Invernizio e di Matilde Serao, per esempio, «si collocano notoriamente ai confini del giallo-nero e del rosa»27; proliferarono inoltre generi e sottogeneri affini, frutto di più o meno manifestate imitazioni di filoni esteri di grande successo28.
Finalmente, nella seconda metà dell’Ottocento si diffusero in Italia le prime prove di romanzo poliziesco, raccolte da Crovi29 e Pistelli30 sotto l’etichetta «protogiallo», in cui cominciarono ad affiorare all’interno del tessuto narrativo elementi tipici del giallo novecentesco come la suspence, la surprise e la detection, con un peso specifico variabile di opera in opera. Gli autori di questo genere prototipico erano talora dei professionisti della letteratura di consumo, come Francesco Mastriani e Carolina Invernizio, talora autori canonici che sfruttarono il romanzo di consumo “nero” con l’obiettivo di raggiungere un pubblico ampio: è il caso di Emilio De Marchi, oppure di Cletto Arrighi e di Federico De Roberto, i quali diedero alle stampe rispettivamente il noir d’appendice La mano nera (1883) e il romanzo giudiziario Spasimo (1897); un ulti- la lingua del roManzo nero italiano tra otto e noVeCento mo filone comprende le imitazioni, talvolta grossolane, degli scrittori stranieri più in voga: si prenda il caso curioso di Shairlock Holtes in Italia (1902) di Donan Coyle. Come osserva Petronio, però, in questo periodo «“gialli” veri e propri non se ne scrivono»31: il tema del delitto, sempre presente, non era ancora dominante se non in pochi testi; proprio per questo motivo, le valutazioni dei critici circa l’appartenenza dei singoli testi al genere non sono unanimi: ad esempio, la pietra miliare della preistoria del giallo all’italiana, Il cappello del prete (1888) di Emilio De Marchi, da alcuni ritenuto «[…] a tutti gli effetti il romanzo capostipite di quella che poi sarebbe divenuta la scuola gialla tricolore»32, è in realtà un testo appartenente al filone affine del romanzo giudiziario, che si rifaceva alle opere dello scrittore francese Émile Gaboriau33; analogamente, la celebre saga del Commissario Lucertolo di Giulio Piccini, alias Jarro, composta da 4 romanzi in cui affiora una delle prime figure di detective apparse in Italia (L’assassinio nel vicolo della Luna, 1883; Il processo Bartelloni, 1883; I ladri di cadaveri, 1884; La figlia dell’aria, 1884), è stata da Crovi reputata l’«anello mancante» tra il romanzo d’appendice e il poliziesco in senso stretto34; tuttavia, i primi due episodi della serie sono riconducibili, come il romanzo di De Marchi, al filone giudiziario, poiché si mescolano nelle trame il racconto dell’indagine e quello del processo (cfr. § 2.2). Ancor più complessa la collocazione dei due noir di Matilde Serao; secondo Crovi «Il delitto di via Chiatamone […] è a tutti gli effetti un “protogiallo”, dove situazioni delittuose, drammi sociali e sentimentali si sposano con gusto e ritmo»35; a giudizio di Pistelli un testo «che ripropone tutto il consueto apparato di intricate situazioni e colpi di scena della narrativa feuilletonistica, innestati però su un’indagine di polizia»36; per Madrignani, Il delitto di via Chiatamone e il successivo La mano tagliata sarebbero invece due romanzi gotici37; secondo Pietropaoli sarebbero al contrario «due romanzi di ‘appendice’ stricto sensu»38, poiché nel primo «[…] l’azione criminosa è un additivo finalizzato a creare mistero e attesa. E dunque, malgrado l’impronta poeana, Il delitto di via Chiatamone non è un romanzo poliziesco, bensì un romanzo d’amore e morte, spalmato in una patina di mistero a scopo di suspence […]»39.
24 Ada Gigli MarChetti, Le nuove dimensioni dell’impresa editoriale, cit., p. 85.
25 Cfr. NiCola Tranfaglia, Albertina Vittoria, Storia degli editori italiani, cit., pp. 220-222.
26 Alessandra Briganti, Introduzione a De Marchi, Roma-Bari, Laterza, 1992, p. 11.
27 Rita Fresu, L’infinito pulviscolo. Tipologia linguistica della (para)letteratura femminile in Italia fra Otto e Novecento, Milano, Franco Angeli, 2016, p. 129.
28 Su tale argomento, cfr. Vittorio Spinazzola, L’immaginazione divertente. Il giallo, il rosa, il porno, il fumetto, Milano, Rizzoli, 1995.
29 LuCa CroVi, Tutti i colori del giallo. Il giallo italiano da De Marchi a Scerbanenco a Camilleri, Venezia, Marsilio, 2002.
30 Maurizio Pistelli, Un secolo in giallo. Storia del poliziesco italiano (1860-1960), Roma, Donzelli, 2006.
31 Giuseppe Petronio, Il punto sul romanzo poliziesco, Roma-Bari, Laterza, 1985, p. 8.
32 LuCa CroVi, Tutti i colori del giallo, cit., p. 33.
33 Si vedano a tal proposito le osservazioni di Giuseppe Petronio, Il punto sul romanzo poliziesco, cit., p. 8.
34 LuCa CroVi, L’anello mancante, in Jarro (Giulio PiCCini), I ladri di cadaveri (1884), Reggio Emilia, Aliberti, 2004.
35 Id., Tutti i colori del giallo, cit., p. 28.
36 Maurizio Pistelli, Un secolo in giallo, cit., p. 33.
37 Carlo Alberto Madrignani, L’ultima Serao e il «romanzo popolare», in «L’ombra d’Argo», 3, 1983, pp. 31-41.
38 Antonio Pietropaoli, «Il delitto di via Chiatamone», in Matilde Serao. Le opere e i giorni, Atti del Convegno di studi, Napoli 1-4 dicembre 2004, a cura di Angelo Pupino, Napoli, Liguori, 2006, p. 243.
39 Ivi, p. 245.
Raccogliere tutti i testi di questa stagione sotto un’unica etichetta risulta dunque una scelta rischiosa. Si possono però riconoscere, basandosi soprattutto sull’osservazione dei temi e dei motivi nelle trame, tre maggiori categorie di appartenenza: il noir d’appendice, il romanzo giudiziario e le prime detective stories.
Il primo filone, che affonda le sue radici nel mistery francese di Eugène Sue 40, è un diretto antecedente del poliziesco e prima ancora trova «[…] ascendenti probabili nei romanzi terrifici inglesi della fine del Settecento»41. I testi appartenenti al noir d’appendice sono caratterizzati da elementi tipici come le agnizioni, i motivi sanguinari, il terrore, le morti apparenti, le fughe rocambolesche 42, che affiorano già in alcuni titoli dei maggiori interpreti italiani del genere, «scelti in modo tale da orientare agevolmente il lettore verso il genere prediletto» 43: Il bacio d’una morta (Carolina Invernizio, 1886); Il brindisi di sangue (Francesco Mastriani, 1891); La mano tagliata (Matilde Serao, 1912). Dal punto di vista linguistico si nota in questi testi, maggiormente che in altri, l’abuso di termini chiave e di stereotipi lessicali, «che contribuiscono a restituire l’immagine di una lingua seriale e prefabbricata» 44 .
Vi è poi il romanzo giudiziario, ispirato dal roman judiciaire di Émile Gaboriau45, fondamentale «catalizzatore tra le spinte del naturalistico “romanzo popolare” e le istanze proprie di un genere, quello “poliziesco”, in ascesa e in rapida formazione»46. La distinzione tra “giudiziario” e “poliziesco” si osserva principalmente nell’organizzazione dell’intreccio: al contrario del romanzo poliziesco, in cui «il lettore è di solito chiamato a mettersi in gara con il detective, a seguire le piste per scoprire a sua volta, il più rapidamente possibile […] qual è la verità»47, nel racconto giudiziario «il lettore conosce assai presto il colpevole ed è invitato semmai a soffermarsi sul “caso” e ad approfondirne l’interpretazione, a identificarne circostanze e motivazioni»48. Sono molti i testi che si rifanno a questo genere: oltre ai già citati De Marchi e Jarro, scrissero romanzi basati su vicende giudiziarie autori come Edoardo Scarfoglio (Il processo di Frine, 1884), Giuseppe Alessandro Giustina (Il processo Lampi, 1889), e Salvatore Farina (Il segreto del nevaio, 1908).
40 Cfr. Viktor SloVskij, Teoria della prosa, traduzione di Cesare De Michelis e Renzo Oliva, Torino, Einaudi, 1976, p. 177.
41 Ilaria Crotti, La “detection” della scrittura. Modello poliziesco ed attualizzazioni allotropiche nel romanzo del Novecento, Padova, Antenore, 1982, p. 84.
42 Cfr. Rita Fresu, L’infinito pulviscolo, cit., p. 151.
43 Laura RiCCi, Paraletteratura, cit., p. 285.
44 Rita Fresu, L’infinito pulviscolo, cit., p. 153.
45 Cfr. Maurizio Pistelli, Un secolo in giallo, cit., pp. 11-19.
46 Ilaria Crotti, La “detection” della scrittura, cit. p. 82.
47 ReMo Ceserani, Il gioco delle parti, in Edoardo SCarfoglio, Il processo di Frine, Palermo, Sellerio, 1995, p. 14.
48 Ibidem la lingua del roManzo nero italiano tra otto e noVeCento
Infine, apparvero le prime detective stories, incentivate notevolmente dall’arrivo in Italia dei racconti di Conan Doyle alla fine del secolo49. Le trame sono generalmente caratterizzate da elementi che costituiscono la base del racconto investigativo, come la centralità del delitto, i motivi della suspence e della surprise, la narrazione della detection50. Appartengono al genere le prime detective donna del giallo italiano Anna Stephenson (1909) di Franco Bello e Nina la poliziotta dilettante (1909) di Carolina Invernizio51; si annoverano inoltre le decine di imitazioni locali di Sherlock Holmes, tra cui spicca la raccolta di Donan Coyle, Shairlock Holtes in Italia (1902): come si nota già dallo pseudonimo, creato dallo scambio della prima lettera del nome e del cognome di Conan Doyle, la silloge è un omaggio diretto allo scrittore inglese ma, rispetto ad altri testi, tale omaggio «si traduce in realtà in una personale rivisitazione del modello sherlockiano, depauperato di quelle caratteristiche che lo avevano trasformato agli occhi del pubblico in una figura quasi mitica»52.
Come si è avuto modo di osservare poc’anzi, il cosiddetto «protogiallo» è contraddistinto da una ecletticità delle figure e dei generi che lo compongono. Il comune obiettivo di tutte le opere, come è stato più volte sottolineato, è quello di raggiungere il maggior successo possibile tra il pubblico, nel tentativo di anticiparne le esigenze e di appagarne i gusti; per questo motivo la caratteristica principale della lingua dei romanzi “neri” di questa stagione, insieme con le altre paraletterature53, è tendenza alla «resecazione degli estremi»54: vengono generalmente evitati tutti gli elementi che si allontanano da una «quieta aderenza alla norma consolidata»55, cioè i preziosismi e i tratti sub-standard da un lato, gli elementi innovativi ed esogeni dall’altro.
L’uso del dialetto, solitamente estraneo agli altri generi di consumo, è invece presente nel poliziesco, per rispondere alla «volontà/necessità di una rappresentazione quanto più possibile se non vera almeno verosimile di ambienti e situazioni connotati localisticamente»56; ciò nonostante, la presenza del dialetto nel giallo novecentesco e contemporaneo sarà «fortemente circoscritta e soprattutto peculiare a pochissimi scrittori di spicco»57; nei testi di genere nero di questo periodo, come verrà però osservato più avanti (§ 6.5), l’uso della marca localistica è alquanto secondaria, ed è una caratteristica propria solo di alcuni scrittori. studi
49 Cfr. Roberto Pirani, Sherlock Holmes in Italia. Un bilancio (1895-1999), in Le piste di Sherlock Holmes, Pontassieve, Pirani Bibliografica, 1999, pp. 5-10.
50 Cfr. Ilaria Crotti, La “detection” della scrittura, cit.; Maurizio Pistelli, Un secolo in giallo, cit., pp. 52-54.
51 Ivi, pp. 55-61; sul romanzo di Invernizio, si veda l’analisi linguistica nel volume di Rita Fresu, L’infinito pulviscolo, cit., pp. 151-156.
52 Maurizio Pistelli, Un secolo in giallo, cit., p. 54.
53 Cfr. le analisi di Gabriella Alfieri, La lingua di consumo, cit.; Laura RiCCi, Paraletteratura, cit.
54 Laura RiCCi, Paraletteratura¸ cit., p. 286.
55 Ivi, p. 287.
56 Patrizia Bertini Malgarini e Ugo Vignuzzi, La dialettalità nel “giallo all’italiana”: naturalismo o espressionismo?, in Storia della lingua italiana e dialettologia, a cura di Giovanni Ruffino, Mari D’Agostino, Palermo, Centro di Studi Filologici e Linguistici siciliani, 2010, p. 233.
57 Ivi, p. 237.
Una attitudine invece predominante, come mostra l’esame dei testi del campione selezionato, è quella alla letterarietà ostentata, alla conservatività, all’appiattimento nei confronti di una prassi consolidata, soprattutto nelle scelte fonologiche e morfologiche (capitoli 3 e 4); qualche eccezione a questa propensione si ritrova in alcune strategie sintattiche e testuali, con lo scopo da un lato di incremento dell’espressività, che si nota per esempio nell’uso della ripetizione e della punteggiatura enfatica (§§ 5.7 e 5.10), dall’altro lato con finalità di resa verosimile delle interazioni dialogiche, che si osserva in particolar modo nell’uso degli ordini marcati e dei segnali discorsivi (§§ 5.6 e 5.9). Anche nel lessico si registrano alcune soluzioni stilisticamente peculiari, come il largo utilizzo di francesismi e di anglicismi (cfr. § 6.1) e l’impiego, in alcune opere, di parole provenienti dalle varietà gergali e settoriali (cfr. § 6.2).
L’indagine linguistica che è al centro di questo volume si basa su un corpus digitale annotato (cfr. § 1), costruito con l’obiettivo di individuare le caratteristiche comuni a tutta la raccolta e i fenomeni che invece appartengono alla singola opera o a un gruppo ristretto di testi; il formato elettronico ha reso più agevoli considerazioni sistematiche sui dati raccolti (aspetto che verrà affrontato più dettagliatamente nell’appendice).
1. Anton Ranieri Parra, Sei studi in blu. Due mondi letterari (inglese e italiano) a confronto dal Seicento al Novecento, pp. 188, 2007.
2. Gianfranca Lavezzi, Dalla parte dei poeti: da Metastasio a Montale. Dieci saggi di metrica e stilistica tra Settecento e Novecento, pp. 264, 2008.
3. Lettres inédites de la Comtesse d’Albany à ses amis de Sienne, publiées par Léon-G. Pélissier (1797-1802), Ristampa anastatica a cura di Roberta Turchi, pp. xVi-492, 2009.
4. Francesca Savoia, Fra letterati e galantuomini. Notizie e inediti del primo Baretti inglese, pp. 256, 2010.
5. Lettere di Filippo Mazzei a Giovanni Fabbroni (1773-1816), a cura di Silvano Gelli, pp. lxxxVi-226, 2011.
6. Stefano Giovannuzzi, La persistenza della lirica. La poesia italiana nel secondo Novecento da Pavese a Pasolini, pp. xViii-222, 2012.
7. Simone Magherini, Avanguardie storiche a Firenze e altri studi tra Otto e Novecento, pp. x-354, 2012.
8. Gianni Cicali, L’ Inventio crucis nel teatro rinascimentale fiorentino. Una leggenda tra spettacolo, antisemitismo e propaganda, pp. 184, 2012.
9. Massimo Fanfani, Vocabolari e vocabolaristi. Sulla Crusca nell’Ottocento, pp. 124, 2012.
10. Idee su Dante. Esperimenti danteschi 2012, a cura di Carlo Carù, Atti del Convegno, Milano, 9 e 10 maggio 2012, pp. xVi-112, 2013.
11. Giorgio Linguaglossa, Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea, pp. 148, 2013.
12. Arnaldo Di Benedetto, Con e intorno a Vittorio Alfieri, pp. 216, 2013.
13. Giuseppe Aurelio Costanzo, Gli Eroi della soffitta, a cura di Guido Tossani, pp. lVi96, 2013.
14. Marco Villoresi, Sacrosante parole. Devozione e letteratura nella Toscana del Rinascimento, pp. xxiV-232, 2014.
15. Manuela Manfredini, Oltre la consuetudine. Studi su Gian Pietro Lucini, pp. xii152, 2014.
16. Rosario Vitale, Mario Luzi. Il tessuto dei legami poetici, pp. 172, 2015.
17. La Struzione della Tavola Ritonda, (I Cantari di Lancillotto), a cura di Maria Bendinelli Predelli, pp. lxxiV-134, 2015.
18. Manzoni, Tommaseo e gli amici di Firenze. Carteggio (1825-1871), a cura di Irene Gambacorti, pp. xl-204, 2015.
19. Simone Fagioli, La struttura dell’argomentazione nella Retorica di Aristotele, pp. 124, 2016.
20. Francesca Castellano, Montale par luimême, pp. 112, 2016.
21. Luca Degl’Innocenti, «Al suon di questa cetra». Ricerche sulla poesia orale del Rinascimento, pp. 160, 2016.
22. Marco Villoresi, La voce e le parole. Studi sulla letteratura del Medioevo e del Rinascimento, pp. 276, 2016.
23. Marino Biondi, Quadri per un’esposizione e frammenti di estetiche contemporanee, pp. 452, 2017.
24. Donne del Mediterraneo. Saggi interdisciplinari, a cura di Marco Marino, Giovanni Spani, pp. 144, 2017.
25. Peter Mayo, Paolo Vittoria, Saggi di pedagogia critica oltre il neoliberismo, analizzando educatori, lotte e movimenti sociali, pp. 192, 2017.
26. Antonio Pucci, Cantari della «Guerra di Pisa», edizione critica a cura di Maria Bendinelli Predelli, pp. lxxVi-140, 2017.
27. Leggerezze sostenibili. Saggi d’affetto e di Medioevo per Anna Benvenuti, a cura di Simona Cresti, Isabella Gagliardi, pp. 228, 2017.
28. Manuele Marinoni, D’Annunzio lettore di