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Un presente già passato
Il passato è la sostanza del tempo
J.L. Borges, L’Aleph
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È sulla terra che preme vivace l’infinità della storia, che nella vana baldanza dei suoi pneumatici pensieri sopraggiunge come primavera che affanna la nozione stessa di ciò che occorra e si addica ancora alle sue disperse cavità.
Del resto gli organi agiscono di conseguenza e le ciglia graffiano archivi di vite d’istinto, quindi le mani daccapo si orientano bene, formando ricordi dopotutto, e ogni volta in un modo diverso, di furia e al rallentatore, per dritto, di fianco, attraverso il letto, sull’uscio, al balcone, per terra, sul tetto, in un viale guarnito di vegetazione, dentro un confessionale, impartendo l’assoluzione con l’asta color cardinale.
Dando più credito ai modi cocciuti che avvengono nei cavalli ricciuti, e più spazio a quelle funzioni che accendono le gonne e i pantaloni, non li ho mai avuti tanti pensieri, e dov’è stata la mia anima stanotte?
La vita talvolta rivela ricordi singolari, e nei bagliori da camere mobiliate quante volte si finisce per languire in cespugli d’ombre, e in labili effigi d’un oro che risplende sempre di meno in ciò che rappresenta realmente attraverso un peduncolo nero, inoltrandosi pericolosamente alla ricerca di ciò che non sarebbe mai potuto essere, se solo fossi stato più attento a suo tempo, e qualora avessi preferito una presenza oggi sciaguratamente già passata, considerato che perderla m’ha ridotto a un bel niente.
Sogni indolenti mi fantasticavo e mi pettinavo a memoria un’arpa così colma di suoni fra le cime del pettine e via via quella mattina d’agosto Venezia si fece più stanca, lisciandosi sulle mie mani distanti: acque poco profonde, che fecero subito ponti e passaggi di barche, dove entrando in facili approdi adatti alla ricerca sempre di quello, con la calma di tutto un giorno reciso, alla fine volava in alto, dove i baci sono migliori, proprio come i tuoni e le piramidi, col destro più furbo, l’altro leggermente malinconico, la sigaretta sempre tra le labbra e gli occhi così differenti, mentre mi dicevo la perdo, volendo indietro tutte le foto, anche le trafugate, dopo corsi affrettati di un amore che me l’aveva resa talmente volpina, dati i capelli a rombo e gli occhi tanto diversi tra loro, quale crespa farfalla nel gioco della palla, col ciuffo salino così ballerino nel giocare di sponda per giungerle meglio nella buca profonda d’un corpo sbucciato talmente da diventare una cuccia d’incandescenza, non sopportando un solo giorno d’impazienza.
Vorrei un cuore finalmente sincero, al suo, togliendole il vizio che ha d’ingannarmi, cedendole anche ogni temperatura d’amore. Maddalena peccò per poter piangere meglio, ma lei piangeva per poter più peccare, in un’antitesi davvero diabolica, e a me non restò che passare al contrattacco, infischiandomene di quanti frequentandola avesse potuto frequentare, simile alla figura rigida d’uno schiaccianoci, che serve solo a rompere senza far nascere mai niente.
Poiché è mezzanotte, credimi, solo per questo “in medio stat virtus” ho impiegato tutto un giorno ad arrivarci; per darti un esempio della considerazione che ho per questo tuo punto d’incontro, l’altalena del giardino l’ho chiamata “tout de toi”, da quando ti ci sei seduta tu, dato che un lungo libertinaggio rende più intelligenti le donne e più stupidi gli uomini, essendoci carnefici che si redimono solo giustiziando, e si può arrivare alla virtù proprio a furia di peccare, come c’è chi si chiude in se stesso per potersi aprire meglio nel luogo che le resti più rotondo.
Nel tentare la classificazione del bacio lo distinguo innanzitutto in un’eco che provoca l’intima meraviglia di poter conoscere un’altra lingua in una volta sola, essendo provvisto di un’anima incontrata tra un pieno e un vuoto; dopo naturalmente il primo essendocene sempre tutti gli altri, oltre a quello di riflessione, l’inutile e il dannoso; ed essendo poche le persone che ci fanno caso, sarebbe un vero peccato, se, insalvabili come sono un po’ tutti, non ci fosse almeno una condizione impertinente al loro costrutto.
Non bisogna esagerare con la faccenda che andare a letto con ogni donna è buona, ma neppure con la presunzione d’una sola. Che sia piacevole affondare va bene, momento d’ebbrezza, e la vertigine combinata fra le gambe, ma è un modo di funzionare in sostanza, mentre a gareggiarvi col gruppo si rischia di connettervi troppa importanza, nell’inutile cercar di capire la fede che mette la massaia incondivisa, nel rammendare abiti vecchi, nondimeno ogni mattina ricominciando affranta nella vicenda piuttosto banale del suo rifornire di piatti e bicchieri puliti, almeno due volte al giorno la mensa, se finalmente non sedesse anche lei, come in trance, ogni sera davanti alla tivù rassicurata. Qualcosa sempre a livello della canzone «lontano amore», che se la sta a cantare da quando l’uscita fluttuante dalle soffici macchine degli altri, con quel suo punto pelvico sempre in agitazione; e finiamola su questo prato, non ti pare, che avresti voluto avidamente brucare, ringraziando le grandi città dove comparire e scomparire in un certo senso garantisce ciò che resta.
È parlandomi di Livio Berruti corridore dei duecento, eccomi richiamarmi per prima, ed io, chiuse braccia senza commuovermi, risponderti nella tentazione di compagnia per andare a bere sulle abitudini che impediscono una buona vol- ta di pensare a una fine soprattutto buffa, nel modo in cui è stata continuamente carica di divieti per congedarci il peggio possibile.
Credo purtroppo che il vivere pigiato mio nella vita tua immodificabile, m’abbia gonfiato un bisogno d’attenzioni e la pretesa di riceverle precise com’io le fantastichi, così da mantenerle ai margini nel constatare una presenza di pazienza che non so però manifestarti se non mormorando al tuo orecchio tenere parole d’amore, che tu intendi con le palpebre pesanti, sfrecciando gambe che s’aprono come sabbia; le mani lente scivolando dove fanno boccuccia, al trotto ammiccando, di cuoio blu come fegato, tra il pelo scintillante, le labbra increspate; divelta, ad imbuto le mani che ancora circolano, mentre capezzoli-funghi scattano in su, disponendoti per piacere, davanti piano, pericolo, scappa, insieme ad altri tranquilli pensieri.
Per riuscirci bisognerebbe procedere come gli oculisti nelle loro macchine d’introspezione, e dato che il mondo non è stato creato in una volta sola, ma si rinnova ad ogni donna nuova, è con la precarietà di quella già perduta che leggerò ogni donna futura nel ricordo che ho ancora di te lungo la testa, ora prolungatosi tutta fino ai piedi in un inquietante corpo estraneo venuto fuori da un concorso di circostanze assolutamente fortuite.
La tua sostanza nutritizia ha lo stesso titolo degli alimenti cui attingo talvolta per salvarmi. Ma l’acqua che solca la nave non è la stessa che la fa affondare?
Ho passato l’estate a contemplarti gli occhi parzialmente diversi sul retro dei tuoi cento silenzi, e in autunno farò in modo che questo non vederti più continui quel tanto che mi basti a coltivare i sogni che avremmo fatto insieme in primavera, con la mano sulla bocca, a causa d’una sigaretta sempre in resta, immancabile quanto la condizione invernale, quando senza più programmi, né speranza di riabbracciarti ancora, avrò solo questa fragilità di carta a tenermi compagnia fino a farmi star male trattandosi solo d’una tua fotografia.
T’ho scritto tutto questo roso dal disappunto, io inutilmente onesto, tu proprio un insulto a chi dell’apparenza sia solo a sentinella, con queste poche righe distanziato da quella tua indicibile somma così difficile da leggere, in quanto amandoci senza amore, ci si dividerà senza odio né rancore.