CARVER • CONSTANCE WILDE • ELTIT • SANZ • PSICOANALISI • TEOBALDI • DI PAOLO • POSTORINO • PERISSINOTTO • MACCHIAIOLI A PARIGI • BUTTI di essere, un ‘luogo’ che eccede la sua capacità di riconoscersi – che senso ha correlare gli «attacchi» odierni a quelli degli esordi, come se si trattasse sempre del medesimo, immutato fenomeno di «resistenza» oppostole da un mondo pregiudizialmente ostile, se non allo scopo di recuperare una qualche forma di distanza e sperare di mettere al sicuro il proprio nucleo identitario? Quando, così, i quattro autori del libro-cartello sentono la necessità di tornare all’atto di nascita della psicoanalisi – o delle varie psicoanalisi – e ribadirne i concetti fondamentali, non la «difendono» se non a patto di costruire una psicoanalisi «difesa», sulla difensiva, isolata tanto dal mondo in cui vive quanto da ciò che essa è diventata impregnando il mondo di sé (due facce della stessa medaglia). In questo senso, decidendo di rispondere all’ultimo «attacco» è come se gli autori del libro-manifesto avessero ingoiato un’esca avvelenata. Cos’è, infatti, questa accusa sulla presunta carenza di scientificità nel trattamento delle sindromi gravi come l’autismo (il casus belli) se non un’ulteriore spinta affinché la psicoanalisi esibisca le proprie credenziali presso l’opinione pubblica presentandosi come una disciplina in possesso di un sapere specialistico, «moderno», competente, coerente, affidabile, in costante aggiornamento sulle recenti scoperte, che si pronuncia con la sicurezza dell’esperto quando è chiamata a dire la sua su questo e su quello, su un caso clinico, sull’ultimo caso di cronaca, su una tendenza sociale insorgente? Il «cartello» asseconda puntualmente queste richieste e avalla questa «posizione», soddisfatto di poter assegnare alla psicoanalisi un posto d’onore imperituro in seno alla modernità occidentale e alla sua cultura, – cosa indiscutibile; ma gli autori non si accorgono del fatto che, proprio a partire da questa ‘onorificenza’, il loro «cartello» vincola in modo tacito la psicoanalisi a fare blocco con una certa versione, ideologicamente specifica, della modernità, definita su due piedi, per esempio, un «mondo aperto e pluralista», di stampo perciò liberale: il che è doppiamente paradossale, perché un simile intreccio blinda una volta per tutte quel rapporto tra psicoanalisi e modernità fondato invece sull’idea – terribilmente più dinamica e travolgente – di «crisi permanente»; ma soprattutto perché la scena contemporanea è oggi marcata, piuttosto, dal fatto che tale paradigma di «crisi permanente» ha esaurito le sue risorse, raggiunto il proprio limite e toccato il suo punto di rottura, con la conseguenza, tra le molte, che qualunque chiara ripartizione o distinzione è resa impossibile (indecidibile, indiscernibile). Chi può stabilire oggi dove finisca la «ricerca della scienza» e dove cominci l’«ideologia scientista», dove finisca lo stile occidentale e cominci il «modo di produzione asiatico», l’economia «reale» e la «finanza», lo sguardo «interiore» e quello «rivolto all’esterno», il passo «profondo e ponderato» dell’analista e l’«aria superficiale del tempo», per riprendere alcune distinzioni, date invece per certe dal cartello In difesa della psicoanalisi?
di PAULO BARONE
●●●La psicoanalisi è minacciata, il suo profilo teorico e la sua efficacia clinica sono screditati, la sua esistenza è «sotto attacco»: puntualmente si rinnova il grido d’allarme che accompagna le sorti sempre incerte e precarie della psicoanalisi, e ogni volta si rinnova la conseguente chiamata alle armi dei suoi sostenitori, costretti a «riaffermarne le ragioni», pronti a «difenderla». Non è forse vero, in fondo, che sin dal suo atto di nascita la psicoanalisi rappresenta un’anomalia, uno scandalo mal tollerato, qualcosa da «correggere», da normalizzare e dunque volentieri da sopprimere? Ultimo, in ordine di tempo, a riproporre la centralità di un simile schema, dopo una recente polemica a mezzo stampa sulla presunta mancanza di statuto scientifico della psicoanalisi, è oggi un inedito «cartello» analitico, sotto il cui vessillo quattro psicoanalisti in rappresentanza delle differenti scuole – due freudiani (Argentieri e Bolognini), un lacaniano (Di Ciaccia) e uno junghiano (Zoja) – hanno deciso di mettere in disparte le rispettive divergenze dottrinali per coalizzarsi dapprima con un «manifesto» comune, poi con un libro, esplicito sin dal titolo: In difesa della psicoanalisi (Einaudi, «Vele», pp. 128, € 10,00). Posto, dunque, che quello dell’attacco-difesa sia davvero un dispositivo permanente e irrinunciabile nella rappresentazione che la psicoanalisi dà di se stessa, chi è il nemico attuale della psicoanalisi e qual è l’immagine della psicoanalisi che emergerebbe sotto la pressione di questo ennesimo accerchiamento? Occorrerebbe innanzitutto cominciare a districare quel riferimento all’età della psicoanalisi, quei suoi proverbiali «cento anni» dell’intercalare corrente, presentati tra le righe come un ciclo coerente o un nucleo uniforme cui ricondurre e in cui stabilizzare gli inevitabili mutamenti intervenuti. Anche accettando di ragionare in termini di «storia della psicoanalisi» – cosa per nulla scontata, perché dà ad intendere, senza dirlo, che la psicoanalisi si muova nel tempo come un’entità già configurata, provvista sin dal principio di una sua essenza che si svolge progressivamente – si dovrebbe distinguere, almeno, la fase pionieristica e «pestilenziale» dell’esordio, quella dell’espansione degli anni ’50 e ’60 e quella odierna, non meglio identificata e tuttavia contrassegnata da una serie sparsa di tratti generici ben evidenti e riconosciuti (anche dal «cartello»): la presenza del lessico psicoanalitico nel linguaggio comune, l’uso dei suoi concetti nelle produzioni pubblicitarie, la sua progressiva istituzionalizzazione e burocratizzazione, la sua interconnessione con i settori della psichiatria, della medicina e della psicologia, la moltiplicazione delle scuole, la variegata offerta delle «psicoterapie a orientamento psicoanalitico». Tutti questi segni aspecifici, il cui elenco potrebbe continuare, sarebbero l’indice di una tendenza da parte della psicoanalisi – già diagnosticata con chiarezza, per esempio, da Fachinelli e da Deleuze verso la metà degli anni ’70 – a infiltrare i pori e le fessure del campo sociale sino a saturarlo. Come una nebulosa in espansione, la psicoanalisi – dopo
SEGUE A PAGINA 4 aver permeato in precedenza la cultura «alta» – avrebbe disseminato, poi, l’atmosfera sociale ordinaria, la cultura sfocata, a bassa frequenza, ovviamente non con il marchio a fuoco dei suoi concetti puri e originari con cui terrebbe il corpo sociale direttamente sotto tiro, ma nel solo modo possibile, cioè attraverso la loro deviazione, il loro snaturamento. Come definire, allora, la fase attuale se non come quella della sovraesposizione della psicoanalisi, della sua uscita fuori di sé? Dinnanzi a questa inedita e complessa condizione di auto-irretimento – in cui la psicoanalisi tende a coincidere con il contesto sociale, occupando cioè un ‘luogo’ che è sistematicamente al di là del luogo dove essa stessa ritiene
DUE FREUDIANI, UN LACANIANO, UNO JUNGHIANO ACCANTONANO LE LORO DIVERGENZE TEORICHE E SI RIUNISCONO SOTTO UN INEDITO CARTELLO «IN DIFESA DELLA PSICOANALISI». MA RISPONDENDO ALL’ENNESIMO ATTACCO INGOIANO UN’ESCA AVVELENATA
PSICOANALISI CONOSCI TE STESSA
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UN SAGGIO A QUATTRO MANI DI AMBROSIANO E GABURRI, LE DOMANDE DI DORIANO FASOLI SULLA OSCURITÀ DI
PSICOANALISI
BARONE DALLA PRIMA
Il solo autentico nemico della psicoanalisi è la sua ombra Una duplice operazione sarebbe così al fondo dell’immagine in corso della psicoanalisi: isolare e prelevare una certa fase «sicura» dal ciclo della modernità e proiettarne la figura sullo schermo amorfo rappresentato dalla variante contemporanea di essa, in modo da ri-guadagnare una distanza dal gelatinoso, indecifrabile pulviscolo che la caratterizza. Ma l’esser venuto meno di questa «distanza» è davvero riconducibile, anche per la psicoanalisi, a un incidente di percorso, a un caso reversibile? A dispetto di qualsiasi accusa, il suo potere d’indagine e la sua capacità conoscitiva si sono rivelati via via incontestabili, tanto che lo stesso «odio» riservatole fu giudicato, già negli anni ’60, da Winnicott una reazione comprensibile rispetto al «bisogno dell’individuo di restare segreto e isolato», e dunque una riprova della sua efficacia. Partecipe di un processo storico che tra la fine dell’800 e il ’900 è stato concorde, rapido e inarrestabile, lo sguardo psicoanalitico – come la fotografia e il cinema secondo Benjamin – è penetrato nei particolari e nei recessi più intimi delle cose fino a farle esplodere in mille frantumi, tutti a loro volta parimenti significativi; è passato a dare valore agli elementi secondari e trascurati, ai déchets – come certi scrittori della prima metà dell’’800 «a uno stuzzicadenti tutto ingiallito» secondo Auerbach o come Warburg agli accessori, ai capelli o al panneggio del vento – esplicitando, o forse creando addirittura delle «realtà» e una «sensibilità» mai viste prima, come nella migliore fantascienza. Dopo un corteggiamento e una diffusione così pervasivi, come e dove ripristinare un supposto fronte elementare della realtà, se non in modo arbitrario o per opportunismo tattico? E come far tornare al silenzio, alla profondità, alla misura la miriade di «individui atomizzati e narcisisti» (ormai una categoria morale) che siamo diventati dopo avere profuso nelle più piccole fibre del corpo sociale tanta sollecitazione, tanta stimolazione, tanta elettricità? E una volta sgranate, per così dire, le cose in quote ormai infinitesimali (il nostro pulviscolo contemporaneo, appunto) come non considerare che l’indecidibilità, il sì e il no simultanei che le caratterizza – impressi anche nel ritmo sincopato, convulso e involuto della lingua quotidiana, nonché nel ricorso continuo a paradossi e ossimori del linguaggio specializzato – siano non tanto l’indice di una condizione regressiva a cui il processo di mediazione, rivendicato dalla psicoanalisi classica, dovrebbe sempre di nuovo prestare il suo indispensabile soccorso, quanto l’esito di una mediazione che, raggiungendo il suo limite, avendo già mescolato tutto con tutto, risulta ormai immediatamente «contraddittoria», inservibile, fonte di ulteriore disordine e di equivoci, come certi fenomeni politici e sociali di «crisi della rappresentanza» starebbero a indicare? Il solo, autentico «nemico» degno di considerazione della psicoanalisi sarebbe così la sua stessa ombra, l’ombra irriconoscibile di ciò che essa è diventata andando fuori di sé grazie alla sua formidabile potenza d’indagine, ombra che contribuisce a infittire l’ombra irriconoscibile della scena contemporanea. Per quanto confusa, inedita, ignota e minacciosa sia questa scena, è soltanto da qui che potrà nascere un’altra immagine, un’immagine nuova della psicoanalisi, che accetti di ricongiungersi all’ombra, in nome – come diceva opportunamente Deleuze – non dello «sviluppo» (basta con ogni forma di «sviluppo»), ma «di quello che è per ciascuno il proprio sottosviluppo, il proprio terzo mondo intimo», grazie a una «capacità di immedesimazione – come sosteneva Fachinelli commentando Rilke – in cui noi feriti, diventeremmo madre di creature ferite».
SAGGI ■ «PENSARE CON FREUD» PER CORTINA
Nella sublimazione una risorsa vitale di FRANCO LOLLI
●●●Come può l’essere umano convivere con la mancanza di fondamento che caratterizza la sua esistenza? Quali strategie di sopravvivenza soggettiva è in grado di inventare per rispondere all’impatto traumatizzante con la malattia e la morte? Che possibilità ha di resistere all’urto annichilente dell’insensatezza del vivere? E, soprattutto, cosa ha da dire la psicoanalisi a questo riguardo? L’ultimo lavoro di Laura Ambrosiano e Eugenio Gaburri, Pensare con Freud (Cortina, pp. 135, € 15,50) è un’appassionata meditazione su questi interrogativi, frutto di una lunga pratica psicoanalitica di ascolto della sofferenza umana, fecondata da una profonda riflessione filosofica sulle questioni fondamentali dell’esistenza. I due noti psicoanalisti italiani concentrano la loro attenzione sul processo di sublimazione, ovvero sulla funzione psichica che offre all’essere umano la possibilità di attribuire un senso alla propria vita e alla propria finitudine, di significare, cioè, il reale insensato della morte, il destino impersonale e impassibile, l’opacità del mondo, ciò che Bion, come ci ricordano gli autori, aveva definito «O», l’assoluto impensabile. Il nucleo centrale da cui prende spunto la loro elaborazione consiste, infatti, in una rigorosa considerazione del modo in cui l’uomo «fa i conti» con l’esperienza limite della perdita, della mancanza e, più specificatamente, della possibilità della propria morte, esperienza di cui la vicenda personale del padre della psicoanalisi sembra offrirsi come rappresentazione paradigmatica. Nei primi mesi del 1923, Freud scoprì di avere una leucoplachia al palato: le sue conoscenze mediche gli consentirono di capire immediatamente che si trattava di un tumore maligno. Eppure, di fronte a tale evidenza, decise di farsi operare con una semplice ablazione da Markus Hajek, un chirurgo non all’altezza della gravità della situazione. La sorprendente reazione di Freud alla manifestazione perturbante della malattia e all’effetto traumatico causato dalla prospettiva della propria morte fu la conseguenza dell’azione di un meccanismo difensivo specifico, il diniego (Verleugnung); l’ineluttabilità della natura maligna della propria malattia – insopportabile per il suo carico angoscioso – era stata rigettata, ripudiata a favore della instaurazione di
una credenza più tollerabile e meno minacciosa. La scelta di affidarsi alle cure di un medico considerato a dir poco «disinvolto» va letta, dunque, come sconfessione della gravità della malattia mediante la banalizzazione della risposta sul piano terapeutico: quella scelta sbagliata costrinse Freud, a pochi mesi di distanza dalla prima infelice operazione, a sottoporsi a un secondo intervento radicale di asportazione della formazione cancerosa (dimostrando, in tal modo, di avere «accettato» fino in fondo l’effettiva gravità della patologia). La consapevolezza della realtà del tumore maligno aveva scalzato la precedente coesistenza di due convinzioni in aperta contraddizione tra loro, condizione psichica determinata dall’azione del meccanismo difensivo della Verleugung; per un verso, la coscienza della severità della diagnosi, per l’altro, la sua sottovalutazione, a smentirne il versante angosciante. Non è azzardato, a questo proposito, pensare che sia stata proprio questa esperienza personale a permettere a Freud di sviluppare, negli anni immediatamente successivi, il concetto di Verleugnung, sottolineandone non solo il versante patologico (a fondamento della struttura perversa) ma anche la sua declinazione ’quotidiana’, ’abitudinaria’, di difesa – mediante allontanamento – dalle esperienze più dolorose. Ma la denegazione non è il solo modo di affrontare l’orrore della morte – scrivono Ambrosiano e Gaburri. Esposto alla vulnerabilità della malattia e alla passività a cui la prospettiva della morte lo riduce, l’uomo, infatti, è capace di elaborare ciò che gli accade recuperando una forma di attività (per non sentirsi – dicono gli autori – «un moscerino disperso in un universo che va per conto suo») che passa attraverso la possibilità di raccontarsi, di rappresentare, di sublimare. La sublimazione, allora, si configura proprio come la facoltà tutta umana di riaffermare la spinta alla vita, di mantenere accesa la scintilla a esistere, di riuscire, cioè, «a dire la nostra» anche in presenza di situazioni annichilenti, di trasformare la sensazione di essere invaso (da fuori e da dentro) dall’ineluttabilità
della nuda vita in attività rappresentative quali sono l’amore e la sublimazione, di accogliere (facendone qualcosa) l’opportunità di una vita che non si è scelta né chiesta: in poche parole – quelle straordinariamente intense di Winnicot – di fare in modo che la morte ci colga vivi. La sublimazione, diversamente dalla rimozione, non impone una rinuncia; al contrario, canalizza
l’energia pulsionale mettendola al servizio del raggiungimento di mete e scopi diversi, allargando prospettive e orizzonti, rendendo possibile la creazione e l’invenzione. Ma c’è di più, sostengono Ambrosiano e Gaburri. La sublimazione è apertura verso l’Altro, potenziamento dei legami, possibilità di incontro, soddisfazione narcisistica che, al contempo, è a disposizione della comu-
SU LACAN
frontalmente nelle ragioni del «muro Lacan», ma da dietro, affermando l’implacabile chiarezza di Lacan. Non è una provocazione, né una battuta, ma una chiave, per certi versi etica, per incontrare e frequentare l’insegnamento dello psicoanalista francese. Lacan incomprensibile, inavvicinabile, può diventare improvvisamente chiaro, ma a due condizioni, fra loro intimamente intrecciate. La prima: che lo si ami, cioè che nel suo muro si sia incontrato qualcosa del proprio sintomo. La seconda: che al suo muro si sia trovato un punto d’accesso particolare e contingente, quello della propria divisione soggettiva, della propria ferita incancellabile: condizioni entrambe soddisfatte dal rapporto di Di Ciaccia con i testi di Lacan. Ma che Lacan è questo? Fondamentalmente il clinico rigoroso, quello che ha sviluppato una logica ferrea della conduzione della cura e della sua fine. Il clinico «spietato», quello che ha fatto della cura analitica un’esperienza senza sconti possibili, quello deciso a non dare scampo all’inconscio del paziente e al suo sintomo. Il clinico che ha sganciato l’esperienza analitica dall’ideale, consegnandole il dovere di attenersi al peggio, quello che ha tolto l’analista dalla posizione del sapere o del maestro convocandolo nell’unico posto che gli conviene per poter funzionare come tale, quello dello scarto «per realizzare ciò che la struttura impone, vale a dire permettere al soggetto – al soggetto dell’inconscio – di prenderlo come causa di desiderio». E, ancora, il clinico che ha separato definitivamente la pratica analitica da qualsiasi esigenza di benessere, quello che
Un lessico inafferrabile come lo è l’inconscio. Intervista a Di Ciaccia di ALEX PAGLIARDINI
●●●La parola di Lacan, il suo linguaggio, la sua voce non si capiscono, sono muro, fanno muro. Perché non scrive in modo semplice? Perché non dice esplicitamente quello che vuole dire? Domande legittime che nel corso degli anni hanno trovato diverse risposte. Tra queste, due sembrano particolarmente significative. La prima: la parola di Lacan è volutamente inafferrabile perché isomorfa all’inconscio, di per sé inafferrabile. La seconda: i suoi testi sono enigmatici allo scopo di rendere chi tenta di addentrarvisi un enigma a se stesso. Dunque sono testi isomorfi al funzionamento di un’analisi. Nell’intervista di Doriano Fasoli a Antonio Di Ciaccia, che di Lacan cura le opere in italiano, titolata «Io, la Verità, parlo». Lacan clinico. Saggio-conversazione (Alpes, pp. 104, € 12,00) non si entra
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LACAN, «PSICOLOGIA ALCHEMICA» DI JAMES HILLMAN. E LA LETTURA DEI CLASSICI GRECI NELL’OTTICA DI JACOB BERNAYS
La psicologia archetipica di James Hillman, una terapia per la civiltà
scritta da Dick Russel è uscito in questi giorni e saranno necessari anni prima che sia pronto il se●●●Il grande cuoco non è necessariamente chi condo. Ma si può già chiaramente dire quale, fra ti fa gustare una cosa squisita: con gli ingredienti le diverse personalità che gli sono state assegnae i fornelli di oggi questo è diventato relativamen- te, è destinata a sopravvivere. te facile. Il vero maestro è chi ti spiega cos’è la In una pubblicazione del 1998 (Post-Jungians buona cucina in un libro o in una conferenza, la- Today, a cura di Ann Casement, ed. Routledge), sciandoti ancor più convinto che se l’avessi as- il filosofo australiano David Tacey attribuiva a saggiata. Anche nella musica potrà passare alla Hillman quattro identità, quasi fossero reincarstoria soprattutto chi te l’ha fatta capire col rac- nazioni successive: la prima, analista junghiano; conto, senza farti sentire una nota. Cosa c’entra la seconda, fondatore della psicologia archetipiquesto con Psicologia alchemica, il testo di Ja- ca; la terza, ecopsicologo, la quarta autore pop. mes Hillman apparso ora da Adelphi (pp. 443, € Dietro a queste etichette sta una realtà più linea35,00). È quasi la stessa cosa: questo libro farà fa- re. Hillman ha studiato negli anni ’50 e ’60 allo re al lettore il più grande viaggio fra i colori della Jung Institut di Zurigo. Ha potuto ancora inconsua vita attraversando 443 pagine rigorosamente trare Jung ed è diventato direttore didattico delin bianco e nero, senza nessuna illustrazione. l’Istituto. Ha poi fondato la psicologia archetipiHillman è stato a volte chiamato il più grande ca (seconda fase), ma senza mai rinnegare il psicologo dei nostri tempi: ma è soprattutto un maestro. Con la fine degli anni ’80 ha riportato grande narratore. Sono sempre necessarie delle all’attualità una riflessione centrale sia al penimmagini per raccontare le immagini? Quello siero di Freud che a quello di Jung, ma gradualche noi chiamiamo «vedere», ci dicono le neuro- mente dimenticata nella seconda metà del Sescienze, non è un fenomeno esterno, apparte- colo XX: quella clinica è solo una, e forse neppunente agli oggetti che osserviamo: è costituito da re la più importante, fra le applicazioni della una serie di riflessi che si producono dentro di psicoanalisi. Essa è (come in qualche occasione noi. Hillman porta questa verità al suo estremo: ho avuto modo di dire), non un particolare conci fa vedere i colori usando soltanto il racconto. tenuto, ma uno dei grandi contenitori della moIn un mondo di riproduzioni industriali tecni- dernità: una delle rivoluzioni che l’hanno sconcamente perfette è un «miracolo» di cui abbiamo volta dalle radici. Anzi, quella che l’ha riformubisogno per continuare a considerarci uomini lata proprio partendo da ciò che non si vede, da che usano la propria mente. Le immagini oggi so- quelle radici del pensiero che la psicoanalisi ha no perfette, si trasmettono sugli schemi attraver- chiamato «inconscio». so il globo, a costi ridicoli e a velocità supersoniHillman ha riformulato il problema nel seche: ma sono ormai tutte «là fuori». La nostra fan- guente modo. Gli psicoanalisti si guardano allo tasia, la creatività interiore che chiamiamo imma- specchio e aiutano i pazienti a farlo: ma è temginazione, anzi, tutta quella entità che gli antichi po che gettino lo sguardo attraverso le finestre greci chiamavano psiche, si inaridisce e muore (la sua terza fase, che non è stata solo «ecopsicoper mancanza di esercizio. Il coro dell’Antigone logia», ma osservazione ampia del mondo esterha descritto per sempre l’essenza dell’uomo sen- no dopo di quello interiore). Nella sua vita conza mostrare un uomo. Hillman, a differenza di creta questa trasformazione di interessi coinciSofocle, è anacronistico nel mondo della riprodu- se con la coraggiosa decisione di rinunciare ai cibilità tecnica illimitata. Ma compirà il miraco- pazienti, vivendo solo dei proventi di conferenlo: costringere molti a comprare un libro per ca- ze e libri. Da quel momento, alcuni dei suoi tepire i colori attraverso pagine che non ne contengono. Una delle poche notizie biografiche che James Hillman raccontava SAGGI ■ UNA RICERCA DI GHERARDO UGOLINI volentieri era: «Nato nel 1926 a Atlantic City, in una stanza d’albergo». Non era un pettegolezzo buttato a caso, ma un emblema. La città sull’Atlantico, che ne prende il nome, calzava a pennello con la sua nascita: era cittadino dell’Occidente, di qualunque sponda atlantica. Si trovava a suo agio nella classicità greco-romana e nel Rinascimento toscano come nella ipermodernità di New York o del Texas. Come per Ulisse, per James HillC’entra, questo piccolo episodio man contava poco la residenza fis- di FEDERICO CONDELLO di storia filologica, con la sa. È sempre stato alla ricerca. Non nascitura psicoanalisi? C’entra sì, ha viaggiato per vivere, ha vissuto ●●●Ogni nuovo sapere, per viaggiare, tanto fra le forme di sosteneva Althusser, inventa i suoi e non solo perché Bernays fu lo zio della signora Freud. La conoscenza che fra i continenti. Co- oggetti prima ancora che i suoi parentela concettuale è qui più me Ulisse, era spinto da curiosità metodi. Certo, presto o tardi, ogni profonda delle parentele personali. Ma sapeva raccontare nuovo sapere inventerà i suoi anagrafiche. Come si sa, la quello che aveva trovato in modo anticipatori e la sua più o meno fantastica genealogia. Alla nozione aristotelica di «catarsi da far sentire che riguardava tutti. tragica» è affidata a poche, Chi era? Che professione esercita- psicoanalisi ciò è accaduto ellittiche righe della Poetica. va? Come voleva esser chiamato? quando Freud viveva ancora: Ovvio che, in assenza di Hillman è stato, prima di tutto e in anzi, è il caso di dire, complice documentazione, la congettura senso molto ampio, un autore. Ma Freud, che con i suoi richiami regni sovrana: e impressionante è pensare alla sua identità lascia an- civettuoli a Empedocle o a la ridda di ipotesi suscitate da cora incerti. Ricordo la sorpresa Platone ha suscitato una quelle scarne righe, con la loro (sua e di noi ascoltatori) quando a spasmodica caccia agli antefatti una conferenza stampa gli chiese- classici del freudismo. Caccia che «paura» e la loro «pietà» (o «brivido» e «cordoglio»), con le ro come si definiva. Perché esitava può parere fatua, e che tuttavia loro brave «passioni» (di che a rispondere? Si trovava in Italia tenta non di rado classicisti e sorta?) e, appunto, con la loro per il suo settantesimo complean- psicoanalisti: forse perché, degli «catarsi». Che effetto fa, la no: a quell’età doveva aver avuto uni come degli altri, solletica tragedia, secondo Aristotele? tempo di pensarci. Si passò la ma- l’amor proprio. E così, grazie a Purifica moralmente o no sulla fronte e sugli occhi, con una prevedibile reazione, libri esteticamente, come ritenevano un gesto lento, schivo, molto suo, interi sono stati scritti per Lessing e Goethe? Chiarifica raccogliendo nel palmo il passato: dimostrare ovvietà palmari: per «Quello che mi viene in mente, ri- esempio, che l’eros platonico non intellettualmente, come molti credono oggi? E cosa purifica? La spose, è solo un termine tedesco, è perverso e polimorfo. Ciò non «paura» e la «pietà» medesime, per giunta un po’ antiquato: Kultu- toglie che una scrupolosa oggetti più che mezzi? O purifica rkritiker. Forse in italiano si può indagine della cultura classica di i personaggi, condotti a un tradurre semplicemente critico del- Freud possa riservare belle superiore stato di conoscenza, la cultura: qualcosa che compren- sorprese, se condotta con sano più di quanto non purifichi il de l’analisi psicologica, sociale, sto- senso della storia. Si pensi al pubblico? Oppure quelle rica, ma non coincide con nessuna Timpanaro della Fobia romana, tormentate righe – come non di esse». Queste parole che sembra- accesamente antifreudiano ma pochi hanno proposto, specie di no appartenere al passato sono pro- illuminante su molti punti recente – vanno lasciate perdere, babilmente qualcosa che lo descri- cruciali del «classicismo» o addirittura cassate quale spuria verà anche nel futuro: Hillman non psicoanalitico. Un altro esempio addizione? Se si esclude è stato tanto un terapeuta che aiuta di ricerca fruttuosa ci viene ora quest’ultima comoda ma pazienti i quali si interrogano su se dal saggio di Gherardo Ugolini inconsistente trovata, il dibattito stessi, quanto una quintessenza di titolato Jacob Bernays e resta aperto. Dibattito non cultura euro-americana che aiuta l’interpretazione medica della catarsi tragica (Cierre grafica, pp. meramente erudito, perché tutto l’Occidente a capirsi. decidere di quell’accenno Richiederà molto tempo valutare 259, € 30,00) che introduce e aristotelico ha sempre significato chi, come lui, non ha vissuto solo a traduce – ed è la prima versione decidere, a conti fatti, della cavallo di due continenti, ma anche italiana – i Lineamenti del funzione che si assegna alla di due secoli, di diverse culture e ge- trattato perduto di Aristotele tragedia o all’arte tout court: nerazioni. Il primo, monumentale sull’effetto della tragedia, scritti funzione morale? Conoscitiva? volume della biografia hillmaniana dal filologo tedesco nel 1857. di LUIGI ZOJA
Egon Schiele, «Donna appoggiata con calze verdi», 1917; in basso, Jacques Lacan
nità: garanzia, pertanto, del patto sociale e della convivenza, la sublimazione è «messa in comune», condivisione della propria fragilità trasformata in chance, superamento della solitudine che risulta dall’incontro con il proprio limite. La cura psicoanalitica, concludono gli autori, punta esattamente a questo. Il suo scopo non è illudere l’uomo sulla possibilità di esorcizza-
re la contingenza a cui è esposta la vita, bensì rendere tollerabile la casualità, fare di un cattivo incontro un’occasione, «mettere in circolazione» la propria esperienza traumatica metaforizzata e trasformata dal trattamento della rappresentazione, non liquefacendosi di fronte all’incalzare del reale e, al contrario, fronteggiandolo tramite una nuova possibile forma di soggettivazione.
Cinque titoli sotto il segno di Freud, di Lacan e di Jung, i classici del pensiero critico che più stabilmente hanno inflenzato la mentalità, il vocabolario e l’idea stessa di modernità ha messo al centro di una cura non «lo stare meglio», il migliore adattamento alla realtà, ma la possibilità di incontrare e acconsentire a una propria soddisfazione, di trovare un proprio e singolare assenso alla pulsione. Infine, questo Lacan è il clinico che ha demolito l’idea di comprensione di sé, di consapevolezza del proprio inconscio da perseguire come scopo dell’analisi, rovesciando completamente questo assunto: nell’analisi si tratta di produrre l’inconscio per arrivare a acconsentire al «fatto» di non esserne che un effetto. Nel corso della sua intervista, Fasoli incalza Di Ciaccia sul rapporto che Lacan, e più in generale la psicoanalisi, intrattiene con la scienza, con la psichiatria, con la psicoterapia, con la religione, con l’arte. Le risposte scelgono di orientarsi su alcuni dettagli particolari, evitando di universalizzare, di «spiegare appieno», e mantenendo sullo
sfondo un’altra delle questioni attraversate dal testo, ossia il ruolo e la funzione della psicoanalisi nel nostro mondo. Ma è sempre da una prospettiva clinica che può spiegarsi tutto il resto – il rapporto con l’arte, con la nostra contemporaneità e così via. In particolare, torna a riproporsi più volte la posizione dell’analista, ritratta in varie forme, da quella del «lentamente di scatto», ossimoro che definisce la postura etica di Lacan, a quella del santo ateo, che è ateo perché assume «ogni suo atto in prima persona, non giustifica il suo atto nel nome di Dio: non cerca né aureole né ricompense, non teme giudizi né castighi.» Questo Lacan ci fa incontrare così, e di nuovo, la posizione insostenibile dell’analista e consegna una domanda, che come ogni domanda contiene già la risposta: agli psicoanalisti, oggi, di tutto questo (aureole, ricompense e così via) importa qualcosa?
sti ebbero più diffusione di prima. Venne anche invitato a trasmissioni televisive: ma, come tutti possono constatare prendendo in mano Psicologa alchemica, la sua produzione rimase assolutamente colta e senza concessioni commerciali (certo non «pop»). La morte di Jung aveva lasciato, come accade ai grandi, più di una eredità. Da una parte le idee sulla formazione dei simboli nella psiche e lo studio della sua evoluzione individuale. Dall’altra (quella scelta da Hillman), l’intuizione che esista una psiche inconscia universale. Miti e divinità possono essere straordinariamente simili in popoli e epoche ben diversi: devono dunque essere nati da questo comune inconscio collettivo. La prima eredità conduce alla via della clinica. La seconda porta agli archetipi, forme del pensiero ereditarie, non apprese ma sempre presenti nell’inconscio: conduce a una riflessione filosofica e culturale, coraggiosa perché non porta a applicazioni immediate, mentre si sovrappone con altri campi del sapere (antropologia, storiografia, storia delle religioni e così via) causando diffidenze e rivalità. Questa però, se regge alla prova del tempo, ha un risultato indiretto ancora più importante: diviene terapia della civiltà, critica dei mali del mondo e del tempo in cui viviamo. Hillman la imboccò senza esitazioni. Fondando la «psicologia archetipica» riscoprì e applicò a quelli che Freud aveva chiamato «disagi della (o: nella) civiltà» l’antica idea di anima mundi. Durante una intervista che gli feci nove anni fa, arrivammo alla conclusione che, senza esserne del tutto consapevole, aveva proposto proprio quello di cui la nostra frenetica post-modernità ha più bisogno. Tutto intorno cambia: la rivoluzione delle comunicazioni (telefonia mobile, internet), quella demografica (crescita esponenziale degli anziani e delle migrazioni), e così via. Se è vero che ormai ogni generazione, quasi ogni decennio porta più sconvolgimenti di quanti prima ne portasse un secolo, l’aumento di depressioni, ansie, nevrosi, più ancora che a patologie singole è dovuto a un generale e permanente senso di instabilità. Ma si può curare solo con terapie individuali quello che è così visibilmente uno squilibrio generale? Sapere dalla «psicologia archetipica» di Hillman che la stabilità degli archetipi non appartiene solo alla psiche individuale, ma all’anima del mondo, ha contribuito a rifondare lo studio delle trasformazioni profonde della nostra cultura. Contemporaneamente ci ha rassicurato narrando che essa è ancorata a fattori immutabili, di cui avevamo disperato bisogno.
Effetti di parentela fra il procedimento analitico e la catarsi tragica
Squisitamente estetica? Sfacciatamente estatica? Su questo dibattito, già vivace ai tempi, il saggio di Bernays ebbe un effetto esplosivo. Perché la sua ipotesi andava in marcata controtendenza rispetto al moralismo o all’intellettualismo dominanti fino almeno a Lessing. Per Bernays la tragedia non educa, non chiarifica, non sublima. La tragedia «purga»: in senso medico-fisiologico, e con dovizia di paralleli non sempre gradevoli. La catarsi lassativa suscitò proteste. Se si aggiunge che Bernays dava largo spazio al nesso fra tragedia e estasi orgiastica (dionisiaca, coribantica, e così via), c’è quanto basta per capire lo scandalo. Ma molti, e a ragione, si convinsero: a partire da Wilamowitz, su su fino a Pohlenz, Schadewaldt e oltre. Con di mezzo il Nietzsche della Nascita della tragedia, che certo non fu insensibile al verbo di Bernays, allievo del suo stesso maestro: Ugolini documenta bene come Nietzsche faccia ibridare Bernays con Goethe, dovendo forse più al primo che al secondo. E Freud, il marito di Martha Bernays? La scoperta dell’inconscio, e del complesso edipico, è ancora lontana. Ma gli Studi sull’isteria scritti con Breuer nel 1895, e fondati sul caso di Bertha Pappenheim alias Anna O., trattato fra il 1880 e il 1882, straripano di passaggi che riprendono concettualmente e testualmente la tesi di Bernays: a partire da quel «metodo catartico» che consiste nel rivivere la situazione patogena per «scaricarne» gli affetti repressi. Esattamente la catarsi aristotelica secondo Bernays. Non c’è da stupirsi, dunque, se Freud paragonerà l’Edipo re sofocleo a una terapia psicoanalitica, o se la drammaturgia contemporanea – Hofmannsthal in primis – si ispirerà insieme a Breuer-Freud e a Aristotele-Bernays. E, in fin dei conti, non c’è da stupirsi nemmeno se la filologia a volte concorre, per vie carsiche, a sviluppi culturali imprevedibili.