Il Venerdì di Repubblica, numero speciale sul comunismo

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Settimanale, Supplemento al numero odierno - Da vendersi esclusivamente con il quotidiano “la Repubblica” – Sped. Abbon. Post. - articolo 1 Legge 46/04 del 27/02/2004 - Roma

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3 gennaio 2014

NUMERO SPECIALE DUEMILAQUATTORDICI

VENTICINQUE ANNI FA CADEVA IL MURO E INIZIAVA LA FINE DEL PCI. COSA È RIMASTO, IN ITALIA E NEL MONDO, DI UN’IDEOLOGIA CHE HA CAMBIATO LA STORIA DEL ‘900

La

grande illusione Fiammetta Cucurnia intervista GORBACIOV Paola Zanuttini intervista OCCHETTO Enrico Deaglio e Ettore Boffano l’ITALIA Nicola Lombardozzi la RUSSIA Federico Rampini la CINA Marco Cicala la SPAGNA Maurizio Chierici CUBA Omero Ciai il VENEZUELA Raimondo Bultrini e D. Castellani Perelli la COREA Riccardo Staglianò gli STATI UNITI Silvio Piersanti il GIAPPONE con un’intervista a SLAVOJ ŽIŽEK di Giacomo Papi

CLASSICI: LE MAXI MOSTRE DEI PROSSIMI DODICI MESI

L’OROSCOPO DEL 2014 CON I MAESTRI DELLO SCATTO

di F. Marani e L. Pratesi

di Horus


speciale 1989-2014 PUGNI CHIUSI

Ho odiato il regime, mai il socialismo L’INFANZIA POVERA, LA GRANDE SPERANZA. «CREDEVAMO DAVVERO CHE IL NOSTRO MONDO FOSSE MIGLIORE». POI LA CADUTA DEL MURO, 25 ANNI FA. INCONTRO CON Mikhail Gorbaciov, L’ULTIMO SEGRETARIO DEL PCUS di Fiammetta Cucurnia

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PETER TURNLEY / CORBIS

Mosca, 1991. Mikhail Gorbaciov con Boris Eltsin al Parlamento russo, subito dopo il golpe di agosto, in una famosa immagine. Eltsin con l’indice alzato lo redarguisce e gli intima di leggere il documento

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(1) Mikhail Gorbaciov nel 1983: sarebbe diventato Segretario generale del Pcus due anni dopo (2) 5 aprile 1989. Il leader sovietico abbraccia Fidel Castro a Cuba. Dietro, c’è la moglie Raisa (3) In posa davanti alla riproduzione del Time che lo ha nominato Uomo del decennio per gli anni Ottanta (4) I ritratti dei membri del Politburo a Tbilisi, quando la Georgia era nell’Urss

cuore, fin dalla prima infanzia. «Sarà che sono nato come Gesù Cristo, tra la stufa e la stalla nella casa dei nonni». Sta per aggiungere qualcosa, ma un signore al tavolo accanto appoggia il bicchiere e ci guarda. «Hai visto che un’agenzia russa qui mi ha dato per morto già due volte?» chiede. «Beh, non avrei mai creduto che sarei arrivato a questa età, ma comunque, come si dice, la notizia mi sembra prematura». Con cautela, cerco di riprendere il nostro discorso. Il socialismo. Sono qui apposta, per svelare l’arcano, esattamente sessant’anni dopo la morte di Stalin e 25 dalla caduta del Muro. «Il fatto è che il nostro era un Paese poverissimo, ah! com’era povera la Russia». Torna con la memoria a Privolnoe, il suo paese natale, nel cuore della regione di Stavropol, in quelle terre del Caucaso dove si produceva il grano per la patria. Me lo descrive così bene, che mi sembra di essere lì.

Fui il primo abitante di Privolnoe ad andare all’università: mi accompagnò tutto il paese

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Le case, il profumo del fieno dopo la mietitura, le notti scure come la pece quando non c’era la luna. «I contadini russi a quei tempi vivevano come schiavi, conoscevano solo la fatica e la fame, non avevano neanche i documenti per muoversi all’interno del Paese». I suoi due nonni, Andrej e Pantelej, erano grati al sistema sovietico, «ci ha salvato, ci ha dato la terra», dicevano. E davvero all’inizio le cose «apparivano molto promettenti, ma poi...». Dice Gorbaciov che nei primi anni dopo la Rivoluzione d’Ottobre sembrava che le speranze avrebbero potuto realizzarsi. Una prima forma di cooperazione cominciava a diffondersi, e poi l’elettrificazione, con le sue promesse di industrializzazione della Russia. «No, da noi comunque la luce elettrica non c’era, io l’ho avuta a Mosca per la prima volta quando avevo già circa vent’anni». E poi il socialismo significava alfabetizzazione, scuole, biblioteche, cinema, l’arte e il teatro, «come avrei fatto io, figlio di contadini nella profonda Russia, ad arrivare al massimo vertice senza questo? Pensa che fui il primo abitante di Privolnoe ad andare a Mosca all’università. Mi ricordo che mi accompagnò tutto il paese, e la biblioteca, dove andavo sempre a leggere lo stesso libro di Belinskij, quel giorno me lo regalò: ce l’ho ancora». Però, tutti e due i nonni furono arrestati e mandati al lager. Il primo nel ‘33 durante la collettivizzazione, quando la siccità bruciò i campi, i bambini morivano di fame come mosche nelle campagne russe e «lui perse tre figli in un inverno, ma Mosca lo

REUTERS / CONTRASTO

Mikhail Gorbaciov la prende alla lontana. Dall’idea. «Il socialismo? È fratellanza, solidarietà, giustizia, uguaglianza. Un grande ideale». Ci incontriamo in una magnifica giornata invernale. Nel senso che non piove e non nevica, ma il cielo è grigio e fa freddo. Appuntamento al ristorante georgiano della via Ostozhenka, proprio nel centro di Mosca. È arrivato in anticipo e mi aspetta sulla soglia, cavaliere come sempre. Dall’ultima volta che l’ho visto, circa un anno fa, lo trovo molto più in forma, è di buon umore, e dimagrito. Il tema della nostra conversazione non è di quelli che proprio stimolino l’appetito, ma, a quasi 83 anni, il primo Presidente dell’Urss e ultimo Segretario generale del Pcus sulla questione ha le idee chiare: «Il regime totalitario dell’Unione Sovietica non può essere utilizzato come argomento contro l’idea socialista». Un po’ meno chiare, sul resto. «Ormai decidono tutto i medici. Medicine al mattino, medicine alla sera, non si può mangiare, non si può bere...». «Però adesso ci facciamo portare un bel rosso» mi tranquillizza, e ordina una bottiglia. «Mi capitò di leggere un po’ di tempo fa su Sovetskaja Rossija un articolo in cui si diceva che io e Raisa Maksimovna già da ragazzi avevamo deciso di distruggere dall’interno il partito comunista. Figuriamoci! Che cretinata. Ma certo una volta che decidi di scrivere una falsità, che almeno sia grandiosa!». Però ammette che un senso di ingiustizia per quello che succedeva ai tempi dell’Urss ha sempre albergato nel suo

BETTMANN / CORBIS

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OSCA (dal nostro inviato).


BERNARD BISSON/SYGMA/CORBIS

speciale 1989-2014 PUGNI CHIUSI 13 luglio 1988. Il capo del Cremlino Mikhail Gorbaciov visita la Polonia con la moglie Raisa Maksimovna. Nello scatto, mentre parla con gli operai del cantiere di Szczecin

accusò di sabotaggio per non aver rispettato il piano del raccolto». Cinque anni dopo fu la volta di Pantelej, presidente fondatore del Kolkhoz, accusato di trozkismo. «Lo interrogarono e lo torturarono per quattordici mesi. Dopo il suo ritorno ce ne parlò una volta sola e non tornò mai più sull’argomento». Un giovane cameriere si avvicina: «Mikhail Sergheevic, questo è un piccolo dono per lei da parte nostra» e appoggia ossequioso sul tavolo un piatto di frutta del sud, pere e meloni, tutti tagliati a fette sottili e regolari. Nel centro c’è un grappolo di ribes rosso, una specie di omaggio alla città che ci ospita. Forse Gorbaciov ha intuito il mio pensiero, perché dice: «Che bella città, Mosca. L’ho sempre amata, dal primo momento che l’ho vista. Mi piaceva allora, povera e cadente, e mi piace ancora oggi, rimessa a nuovo». Ma Mosca non è la Russia. Nei suoi ricordi di gioventù, ci sono i contadini che venivano depredati. «Il lavoro dei campi era così duro che non ti posso dire. Quando l’estate, a 15-16 anni, lavoravo al trattore, perdevo almeno cinque chili in una stagione. Una volta a fine turno mi addormentai in piedi, appoggiato alla ruota. E alla fine, a casa non si riusciva a portare niente. Le commesse statali si mangiavano tutto. C’era il Piano! Perfino da quello che cresceva 3 G E N N A I O 2 0 14

nell’orto dovevi togliere una grande parte che andava allo Stato! Ancora molti anni dopo, quando parlavo al Comitato Centrale sulla politica agraria riuscivo a stento a trattenermi!». Qui ci vuole un po’ di vino. Gorbaciov me ne versa, e solleva il bicchiere. Penso, tra me e me, che forse era solo una questione di tempo, e un giorno il socialismo reale sarebbe diventato socialismo tout court. Non so se chiederglielo. Per fortuna, non serve. «Io la penso così: in Unione Sovietica c’era un sistema totalitario duro e perfino feroce» dice. «Certo, questa durezza è andata poi via via scemando dopo la morte di Stalin, ma la sostanza è rimasta la stessa». Dopo averlo percorso dalla campagna al vertice, attraverso tutta la scala sociale e politica del Pease, dagli strapuntini al trono, Gorbaciov è certo, e a buon diritto, di saperne più di chiunque altro sull’argomento. Nessuno può negare, mi spiega, che milioni di persone, la maggioranza dei cittadini sovietici, sinceramente credevano di vivere nel socialismo. Per mille motivi, e non solo per la paura di dare spazio ai dubbi o per la forza della propaganda, pensavano che quel sistema fosse «più giusto e migliore» di quello borghese e «per lungo tempo» hanno mantenuto la fiducia e la speranza che le cose sarebbero andate sempre meglio, e si sarebbe realiz-

zato appieno l’ideale socialista che, di questo lui è convinto, «è davvero nobile e alto». «Solo questo ci ha dato la forza di fare quello che abbiamo fatto, diventare una grande potenza, e anche vincere una guerra impossibile da vincere, lasciando stupefatto Hitler e tutte le democrazie del mondo». Però, secondo Gorbaciov, il potere se ne è sempre approfittato, ha abusato e speculato su questa buona fede. «Non c’è, non ci può essere socialismo senza libertà». Se per sopravvivere, dice lui, un sistema ha bisogno di una struttura capillare di controllo, il partito unico, nessuna libertà di parola o religiosa che sia, si può parlare di democrazia? Si può parlare di socialismo? Di questo si rendeva sempre più conto il Paese, dove il livello di istruzione e culturale continuava a crescere. «Era proprio questo che pensavo, che volevo, il motivo per cui ho fatto quello che ho fatto: il socialismo con la libertà» sorride, ma mi sembra un po’ triste. Ammetto di essere confusa. Volevo farmi spiegare il socialismo dall’ultimo leader di quella che fu l’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche, invece la matassa è sempre più ingarbugliata. Non è chiaro. «Lascia stare» mi dice. «Voi il socialismo non lo avete conosciuto. E mi sa che nemmeno noi». Fiammetta Cucurnia

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E la gioiosa macchina da guerra restò in garage UN QUARTO DI SECOLO FA SI SCIOGLIEVA IL PCI. Achille Occhetto, L’ARTEFICE DELLA SVOLTA INCOMPIUTA, RIEVOCA QUEGLI ANNI E RACCONTA I RETROSCENA DI QUEI GIORNI FRENETICI. COME LI VISSE LUI di Paola Zanuttini

Nella foto grande, Occhetto al XIX congresso del Pci (Bologna, marzo 1990) propone la sua mozione: una costituente per un partito nuovo. A destra, il suo libro La gioiosa macchina da guerra (Editori Internazionali Riuniti, pp.319, euro 16)

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OMA. Ne ha viste cose che voi umani non potreste immaginarvi, Achille Occhetto. Per esempio: «Veterocomunisti con le mutande e i calzini rossi che stanno in un partito di centro, il Pd, e mi chiedono, ancora, perché ho fatto la Svolta della Bolognina. Quando poi le domande le faccio io, e cioè: per quale ragione questi nostalgici della falce e martello votano Renzi alle primarie, la risposta è che Renzi vince. E basta. Cosa farà dopo è secondario. Questa non è politica, è la disfida di Barletta». Occhetto ha 77 anni e sta dalle parti di Sel: «Fiancheggio. Partecipo alle riunioni, ma senza diritto di voto. Un saggio che dice la sua». Il 12 novembre 1989, a 53 anni, è

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UMBERTO GAGGIOLI (FONDAZIONE ISTITUTO GRAMSCI EMILIA-ROMAGNA

2 Al centro, gennaio 1991: l’emozione del segretario al XX e ultimo congresso del Pci, che diventa Pds. (1) Da sinistra, Pajetta, Chiaromonte, Berlinguer e Occhetto al Comitato centrale del Pci nel 1979. (2) 1989: alla Bolognina si annuncia la Svolta. (3) Il bacio alla moglie Aureliana pubblicato sul Venerdì nel giugno 1988. (4) Occhetto presenta nel ‘91 il nuovo simbolo del Pds

Nato e all’Europa come truppe arrese alle forze vincitrici. Neanche Andreotti, considerato da molti, non da me, mente acutissima, non capì questa trasformazione e definì impensabile l’unificazione tedesca, che io invece consideravo una delle ipotesi più immediate. Insomma, cogliemmo l’attimo fuggente». Beh, il film era proprio dell’89. «Il problema è stato che rispetto alla Svolta emersero tre posizioni. Una esterna e no-

stalgica, convinta che era cambiato ben poco, perché il Pci era già fondamentalmente diverso. E due, interne quanto opposte: la mia che prevedeva un’uscita da sinistra dalla crisi e dai delitti e dagli errori del comunismo autoritario, e quella di chi invece chi la considerava una dura necessità, per poi scegliere la strada del salotto buono, dell’inciucio e della deriva moderata. Con un abbassamento della guardia ideale che ha portato a una Real3 G E N N A I O 2 0 14

politik e a un revival di togliattismo in tono minore: quello originale era legato a fasi ben più alte e drammatiche della nostra storia». Scrive che nemmeno sotto tortura affermerebbe, come certi suoi ex compagni di partito, di non essere mai stato comunista. Onore alla coerenza, ma quello italiano era un comunismo realmente diverso: lei, da ragazzo, aspettava la rivoluzione? «La rivoluzione è una componente della 3 G E N N A I O 2 0 14

3 mia formazione politica, non c’è dubbio». Dittatura del proletariato. Se la figurava qui in Italia, quando era nella Fgci? «No. Seguivo l’insegnamento di Gramsci, che distingueva la rivoluzione in Oriente da quella in Occidente. In Oriente, lo Stato era tutto e la società civile niente, quindi il processo rivoluzionario doveva partire dall’occupazione e dalla demolizione dello Stato, vedi la presa del Palazzo d’Inverno. In Occidente, invece, la società civile è forte, piena di tante casematte, quindi l’idea di rivoluzione era più simile a quella di Rudi Dutschke e del ‘68 tedesco: passare di casamatta in casamatta e conquistare processi nuovi». Ultimo test di comunismo: la proprietà privata. Prima della Terza Via di Berlinguer, la considerava un peccato capitale o un oggetto misterioso con cui fare i conti? «La vedevo come qualcosa a metà tra la pura collettivizzazione e la redistribuzione delle ricchezze tipica delle posizioni più moderate della socialdemocrazia». Questa casa è sua o in affitto? «In affitto». Il vecchio comunista che non vuol possedere le cose? «Mi viene da mio padre, sono andato di affitto in affitto, avendo molte disdette». Quindi non possiede una casa. «Mia moglie ne ha una in Maremma. Nel partito c’erano elementi di distinzione rispetto alla proprietà, ma non si pensava di nazio-

Il male oscuro della sinistra è stato la nascita di consorterie per il potere con i loro capibastone CONTRASTO

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entrato nella Storia proponendo di sciogliere il Pci, tre giorni dopo il crollo del muro di Berlino. A liquidare il glorioso partito ci avevano già pensato il terremoto sovietico e lo slittamento della società italiana verso una piccola borghesia diffusa con fregole da Milano da bere, ma sul tempismo niente da dire. Quella temperie e le successive intemperie sono raccontate dall’ultimo segretario del Pci – e primo del Pds – in un memoriale personale e politico dal titolo programmatico: La gioiosa macchina da guerra. Così Occhetto aveva definito nel febbraio 1994 l’Alleanza dei Progressisti, che si avviava baldanzosa alle elezioni per suonarle a Berlusconi e poi essere suonata. Scopriamo dal libro che l’incauta dicitura, consegnata a un drappello di giornalisti amici dopo la formazione delle liste, ne sostituiva un’altra, giudicata inopportuna dal segretario mentre stava per pronunciarla: «Un’armata Brancaleone». Tutti risero. Alle primarie del Pd ha votato per Civati. «Per tenere a sinistra Renzi, ma anche per smentire Flaiano: non è vero che proprio tutti gli italiani vanno sul carro dei vincitori». E subito dopo ha cominciato a polemizzare con le analisi giornalistiche che definiscono il nuovo segretario l’abrogatore del comunismo in Italia: «Veramente ci avevo già pensato venticinque anni fa. Questa amnesia storica dà ragione a Berlusconi, che vedeva comunisti da tutte le parti». Forse per una tardiva nemesi ordita da Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer, il primigenio dissolutore del Pci è alle prese con uno stizzoso colpo della strega. Facciamo un patto: lui si siede sul divano basso e se poi non ce la fa ad alzarsi gli do una mano. Le campane di piazza Farnese, va detto, sottolineano con una certa gravità la sua rievocazione della Svolta incompiuta. Non a titolo personale, ma come umile strumento della Storia, si sente responsabile per quel che è diventata la sinistra? «Assolutamente no. Con la Svolta abbiamo affrontato un passaggio drammatico e decisivo del Novecento, perché con la caduta del Muro si era stravolta la scena politica nazionale e mondiale. Cogliere quel giorno il nuovo inizio mi sembrava il minimo, anche se non era scontato. Molti partiti comunisti che non lo fecero hanno poi dovuto cedere all’evidenza: quelli dell’Est sono corsi dietro alla

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nalizzare tutto. Già nel programma dell’VIII congresso, nel 1956, la questione era quella della pubblicizzazione dei grandi mezzi di produzione, con una parte di privato che continuava ad esistere. E con la Svolta ci fu il salto: abbiamo messo in discussione il concetto di statalizzazione. Io stesso, con una certa correttezza, anche ideologica, sostengo che l’ultimo Marx non parla di statalizzazione, ma di socializzazione, oggi traducibile in economia sociale, nel rapporto tra pubblico e privato che dà anche al privato obiettivi di interesse comune e sociale». Racconta che ha ricevuto a Sorrento la notizia dell’invasione sovietica di Praga. Mentre giocava a scacchi nella villa settecentesca di una contessa. Che differenza c’è con la barca di D’Alema? «Ce n’è moltissima. Durante la Resistenza, la contessa Benzoni, che era stata l’amante di Salvemini, aveva aiutato molti ebrei e combattenti. Non era ricca e non aveva niente a che vedere con i salotti romani della politica. Né con il generone che io non ho mai frequentato, a differenza di altri esponenti della sinistra, anche estrema». Come Bertinotti. Ma torniamo a D’Alema. La Svolta che le procurò accuse di orgoglio e narcisismo ha inaugurato una stagione di sinistre superbie: vedi la Bicamerale. «Con me si ricorre sempre all’interpretazione psicologica, in ogni frase si legge rancore e dispetto. Vorrei si uscisse dalla psicanalisi, che andrebbe fatta a molti altri. Nei giorni della Svolta, io non dormivo: ai più vicini nel partito dicevo che eravamo nel giusto, ma in minoranza; che avremo perso il congresso e ci avrebbero cacciati con i forconi. Non ne ero tanto orgoglioso. Rispetto alla Bicamerale, oggi come ieri, alcuni aspetti organizzativi – non di principio – della Costituzione vanno rivisti, ma la solennità incredibile con cui fu impiantata la Commissione rappresentava quasi un contraltare al Governo Prodi, contraltare costituito dall’accordo D’Alema-Berlusconi che si proponevano come nuovi padri della patria. In questo calcolo, D’Alema, del quale si dice che è intelligentissimo, è stato giocato ampiamente da Berlusconi che, furbissimo, fece saltare il tavolo». In Italia, i comunisti si proponevano come i migliori: quanto hanno contribuito la fine del partito e la crisi dei suoi eredi

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all’imbarbarimento generale della vita politica? «La disgregazione della questione morale porta con sé i fenomeni deplorevoli cui assistiamo. Ma questa non era una conseguenza necessaria della fine del comunismo. Si auspica che la moralità possa sussistere anche senza, ci sono Paesi dove è ampiamente coltivata. E non era necessario che libri e articoli di molti miei successori, un tempo prostrati davanti a Berlinguer, rivalutassero poi Craxi, considerandolo uomo più moderno rispetto a Berlinguer, giudicato arretrato proprio per certi suoi moralismi». Vogliamo fare qualche nome? «No, poi viene fuori la storia del rancore. Non è vero che sono narcisista. È che sono incazzato. Non si può fare l’equazione tra questione morale e vecchio Pci, perché molti protagonisti della degenerazione erano, un tempo, comunisti convinti. E riprendiamo anche il discorso sui valori: “O illusi, credete proprio che la fine del comunismo storico abbia posto fine al bisogno e alla sete di giustizia?”. Questa frase la disse Bobbio, uno di quei personaggi che un tempo avremmo considerato un moderato, ma rispetto agli attuali dirigenti della sinistra italiana è un gigante della rivoluzione. Ecco, se fosse stato lui il dirigente postcomunista della Svolta, la questione morale non sarebbe stata calpestata, e quella dell’uguaglianza rimossa». Lei detesta l’approccio psicologista alla sua persona, ma nel libro racconta di quando da bambino infilò la manina tra le enormi cosce, bianche come la polpa di pere giganti, della tata. Insolite confessioni per uno che è stato segretario del Pci. «Ai tempi, con le idee che c’erano nel partito e con la battaglia politica che volevo fare, non l’avrei scritto, non mi sarei fatto questo autogol, ma oggi queste parti più private servono anche a destrutturare la concezione

È il 23 marzo 1994: Silvio Berlusconi, alla sua discesa in campo, e Achille Occhetto si sfidano su Canale5, quattro giorni prima delle elezioni che vedrannno la vittoria del Polo delle Libertà. Modera il confronto un giovane Enrico Mentana

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carismatica del potere e del leader. E a raccontare la formazione e la storia di un comunista originale». Il culto della personalità costruito attorno a Berlusconi eredita qualcosa dal quello dei leader del Pci? «Escludo che Berlinguer fosse amato allo stesso modo di Berlusconi. Forse lo era anche di più, ma con tutt’altra discrezione. E, malgrado il culto, se un segretario del Pci fosse andato sotto inchiesta e condannato in modo così pesante, il partito si sarebbe sciolto, disgregato, per moralità interna costitutiva. Oggi, poi, il carisma si costruisce e si consuma in fretta: nel ‘48 la disfatta elettorale di Nenni e Togliatti determinò mezzo secolo di potere democristiano, altro che la mia sconfitta del ‘94; eppure nessuno pensò che non erano più i leader dei loro partiti». Uno scampolo di carisma e disciplina politica avrebbe evitato quelli che lei definisce fenomeni deplorevoli? «Dal centralismo del Pci e dalla mancanza di dibattito interno non siamo passati alla libera discussione di piattaforme ideali, ma alla formazione di consorterie per il potere con i loro capi bastone. Questo è il male oscuro della sinistra, che ha creato subito difficol-

tà a me, come segretario, e, dopo, ha boicottato la meravigliosa esperienza dell’Ulivo. Poi giù giù attraverso altri episodi oscuri, fino al mistero più misterioso della verginità della Madonna: i 101 che non hanno votato Prodi alle presidenziali. Mistero che nessuno ha discusso seriamente al congresso del Pd». Nel famoso faccia a faccia in tv tra lei e Berlusconi, il carisma dell’imprenditore prevalse su quello del politico. «No, mi furono attribuiti due pareggi e due vittorie. Poi si disse che avevo un vestito marrone che non funzionava: in effetti ne avevo preso uno strano, venivo da Bologna e non ci avevo fatto tanto caso, ma non credo fosse una colpa. Berlusconi, invece, aveva un distintivo brillante che attirava l’attenzione. Per quel faccia a faccia, anche i giornali non berlusconiani introiettarono l’idea berlusconiana della politica fondata sull’immagine, giudicandomi in base a quei criteri. L’ho visto dopo anni, quel confronto, e mi è sembrato alla pari. Durante una pausa pubblicitaria, lui era teso, tremava in un angolo. Gli andai vicino, gli toccai un braccio e gli dissi: tranquillo, sta andando bene». Benissimo, infatti. Lei, comunque, era il più avanti, nel Pci, in fatto di immagine: i baci di Occhetto nel 1988 fecero epoca. Le sono serviti o l’hanno danneggiata? «C’è chi si è scandalizzato e chi li ha esaltati come grande trovata per dimostrare la modernità comunista. Ma non andò così. Era la vigilia della mia elezione a segretario e venne in Maremma Elisabetta Catalano per un servizio fotografico; dopo tanti scatti, ne chiesi alcuni, privati, con mia moglie. Non ho mai visto il servizio, ma nelle redazioni capirono subito quali foto scegliere. Non ho fatto questioni, sarebbe stata una scelta da bacchettone. Veterocumunista». Paola Zanuttini

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Rosso antico, la vita agra dei comunisti vintage FOTOGRAMMA

DAI PORTUALI DI GENOVA AI TIFOSI DEL LIVORNO, DAI LENINISTI A BERTINOTTI. VIAGGIO MALINCONICO TRA GLI ULTIMI irriducibili. MENTRE A CAPO DEL CENTROSINISTRA SPUNTA UNO CHE COL PCI NON C’ENTRA NIENTE di Enrico Deaglio

FOTOGRAMMA

Sotto lo striscione di Lotta Comunista, studenti e lavoratori manifestano in piazza Duomo, a Milano, nel maggio 1990. A sinistra, il giornale del movimento: un tempo era un quotidiano, oggi è un mensile

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cusate, capisco che è strano, ma è la prima cosa che mi è venuta in mente, quando Il Venerdì mi ha chiesto di scrivere un pezzo sugli ultimi comunisti in Italia. È una storiella, ma come vedrete, ha una sua attinenza con la realtà. Dunque, c’è un signore che colleziona oggetti, pezzi d’arte, memorabilia del comunismo. Viene a sapere che a Napoli un antiquario conserva un piccolo dipinto, intitolato Lenin in Paris. Prende l’aereo e vola. Il quadro – conservato in un basso a Fuorigrotta – è veramente piccolo, e confuso, ma il collezionista usa una lente. Ci sono due figure a letto. «Ehi», dice, «ma questo è Trotzky!». «Sì», dice il gallerista di Fuorigrotta. «Ehi, ma quella che è con lui è la moglie di Lenin!». «Sì», ammette il gallerista, «è lei». Il collezionista gli si rivolge irritato: «Ma Lenin dov’è?». Il gallerista lo guarda compunto: «Come dice il titolo del quadro: Lenin è in Paris».

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La curva del Livorno, nota per la fede comunista oltre che per quella calcistica. In basso, due ex segretari della sinistra post Pci: Fausto Bertinotti (Prc) e Massimo D’Alema (Pds e Ds)

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organizzatori di eventi culturali, la house organ tv, il potente ufficio della comunicazione. Oltre al finanziamento pubblico. Sono tempi durissimi per i comunisti italiani, specie in epoca di lavoro scarseggiante. A Kiev, la capitale dell’Ucraina, sotto gli occhi delle televisioni di tutto il mondo, è andata in onda la distruzione di una sopravvissuta statua di Lenin, il fondatore del comunismo. In quel Paese (45 milioni di abitanti, petrolio e geopolitica), i russi (gente con un grosso pelo sullo stomaco, ma pur sempre individuati come i nipoti di Lenin) cercano di impedire in tutti i modi l’entrata dell’Ucraina AGF X 2

Di questi tempi, i comunisti non se la passano per niente bene; se sia solo un momentaccio, o la grande sepoltura, ancora non si sa. Però la prognosi è quella che è, diciamocelo. Prendete una giornata di metà dicembre del 2013. Qui in Italia Gianni Cuperlo – una persona che tutti descrivono come colta, gentile e naturalmente onesta – un uomo che ha passato la propria vita ad organizzare e indirizzare l’attività politica di tantissime persone, l’ultimo rappresentante della tradizione comunista in un grande partito, ha clamorosamente perso le elezioni per la guida del Pd; in particolare è stato umiliato nelle regioni rosse, dove i comunisti erano da sempre, come i cipressi della Toscana, l’elemento caratteristico del panorama politico. Vincitore è Matteo Renzi, il 39enne sindaco di Firenze che si vanta di non sapere le parole di Bandiera Rossa. Il «rottamatore», ora che ha finalmente rottamato, si appresta a togliere deleghe, scrivanie, uffici, lavoro a qualche migliaio di funzionari, attivisti, militanti, se- Nelle piazze gretari di federazioni, italiane non di sezioni, gestori di ca- sventolano se del popolo, gestori di le bandiere circoli Arci, impiegati rosse:questo di patronati, professori è il tempo di corsi professionali, dei forconi

nell’Unione Europea. La questione, ovviamente di importanza politica colossale, non interessa praticamente nessuna forza politica italiana. («Ci manca pure che adesso mi debba preoccupare anche dell’Ucraina») e così appare quasi commovente che un giornalista, Giulietto Chiesa, per decenni famoso corrispondente da Mosca, già eurodeputato, comunista dai grossi baffi, sia l’unico a difendere i russi. Un tempo, in questa sua passione, avrebbe avuto un partito dalla sua parte; ieri Chiesa, per difendere l’internazionalismo che fu di «larghe masse di italiani», ha dovuto candidarsi alle ultime elezioni europee in una lista – in Lettonia! – che difende i diritti della minoranza russa. Tempi durissimi, per i comunisti. Prendete le piazze italiane: bandiere rosse non ne sventolavano, nel dicembre 2013. Piuttosto i minacciosi forconi. Infamie inaspettate: tipo Beppe Grillo che ordina ai suoi di dileggiare e insultare una delle più stimate giornaliste italiane, Maria Novella Oppo, solo 3 G E N N A I O 2 0 14

perché scrive sul quotidiano L’Unità. C’era come l’impressione che, questa volta davvero, «la ditta» avesse chiuso le attività (la ditta era il nome che al partito aveva dato Pierluigi Bersani, l’uomo che divenne – quasi – presidente del consiglio). I comunisti, in Italia, sembrano veramente essere passati di moda. Le loro idee, il loro stile, la loro «egemonia», la loro «superiorità morale», la loro forza parlamentare. Per vederli invece ancora vivi, lavorare nell’ombra, per comprendere la loro strategia segreta, bisogna andare a palazzo Grazioli o ad Arcore, e seguire i deliri dell’ex senatore Silvio Berlusconi. Lui non solo è sicuro che i comunisti esistano ancora, ma che siano stati gli artefici della sua disfatta, essendo infatti i giudici che l’hanno condannato, una chiara «applicazione» del comunismo, al pari delle Brigate Rosse. Nel paradosso italiano, i comunisti italiani dovrebbero essere grati a Silvio Berlusconi: è stato l’unico a tenerne in vita l’idea, il logo, la paura. Tanto per citare quello che in vent’anni le 3 G E N N A I O 2 0 14

sue televisioni ci hanno ammannito: «Sono sporchi, non si lavano, sono criminali, invidiosi per natura, sanno solo mettere tasse, sono responsabili dei peggiori crimini della storia, in Russia mangiavano i bambini e aspettano solo di vincere le elezioni per instaurare il bolscevismo in Italia». Troppa grazia, verrebbe da dire. Se non ci fosse stato Berlusconi a tenerli in vita, i comunisti italiani sarebbero diventati un fenomeno marginale dal fatidico novembre 1989, venticinque anni fa, in un giorno in cui un oscuro funzionario del governo della Germania Est dichiarò ai giornalisti che, a quanto gli risultava, a seguito di grandi manifestazioni popolari che chiedevano libertà, il passaggio attraverso il muro di Berlino era permesso. «Da quando?» gli chiesero. Il funzionario guardò le carte e rispose: «Mah, direi da subito». Un’ora dopo cominciò attraverso il muro aperto una transumanza di milioni di persone, che cambiò per sempre il mondo; i regimi comunisti caddero come birilli in Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia,

Bulgaria e (con un po’ più di complotto) in Romania. Nel 1993 Boris Eltsin, a Mosca, chiuse la partita del secolo e diede ordine ai carriarmati di sparare sul parlamento occupato dagli ultimi leninisti, che non avevano capito che il loro tempo era finito. Il trapasso fu abbastanza pacifico, tutto sommato. Il comunismo aveva stufato tutti. Primi fra tutti, i comunisti stessi. Ma in Italia cominciò un melodramma. Anche perché in Italia il comunismo aveva avuto una storia strana e unica, eroica e tragica. Costituito nel 1921, il partito comunista, con morti e incarcerati, era sopravvissuto al fascismo tenendosi in vita a Mosca, ma aveva, per fortuna e per genio dei suoi maggiori esponenti, conservato autonomia di giudizio e di stile. Nella lotta partigiana i comunisti furono 7 su 10 del totale. Dopo il ’45, il comunismo italiano divenne il cinema neorealista, la Costituzione, gli operai di Sesto San Giovanni, le maestre degli asili di Reggio Emilia (altro che mangiarli, i bambini!: li coccolavano), la bonomia del capitalismo bolognese, i braccianti siciliani uccisi dalla mafia, i catto-comunisti (Alberto Sordi li chiamava «i comunisti della parrocchietta»), gli intellettuali, tormentati, con gli occhialini, i cineforum, le feste dell’Unità. I comunisti erano come una grande balena rossa, ingombrante, ma non cattiva, che veniva ogni tanto in superficie, possente, sfiatando in nome della democrazia. Sopravvissero a grandi eventi come il Sessantotto e l’avvento della televisione privata, stramazzarono di fronte alla fine dell’Unione Sovietica, la passarono liscia (perché avevano santi in paradiso, o forse davvero perché erano più onesti) al grande sterminio politico di Tangentopoli; convissero, piuttosto pavidamente, con il berlusconismo, addirittura andando al governo insieme al partito che li voleva morti. Ora la dura espulsione compiuta dagli elettori del Pd nei confronti dell’apparato comunista del partito lascia pericolanti gli ultimi fortini del comunismo italiano: Rai Tre, la Cgil scuola, l’Inps e Roberto Benigni. E così, se oggi un antropologo volesse trovare le vestigia di quello che fu il maggiore partito comunista dell’Occidente, dovrebbe accontentarsi di fenomeni folkloristici. Sì, c’è un piccolo paese, Montaretto in provincia di La Spezia, duecento persone, tutti co-

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speciale 1989-2014 PUGNI CHIUSI INCONTRO CON Diego Novelli, STORICO SINDACO PCI DELLA CITTÀ FIAT. CHE QUI RACCONTA COME CONCILIARE MARX E L’ORATORIO SALESIANO

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Io, rimasto vedovo del comunismo, della Torino operaia (e anche di Don Bosco) di Ettore Boffano

dei prigionieri di guerra, appena finiti nelle mani del nemico: «Mi dichiaro, ancora oggi, un comunista…». Poi, però, Diego Novelli cita subito Gesù Cristo, quasi a confermare quel suo soprannome di «Don Bosco rosso» che i giornali gli appiopparono quando era sindaco di Torino. «Io credo nel comunismo, ma credo anche che Gesù di Nazareth sia la personalità più importante e più rivoluzionaria della storia dell’umanità. E lo ripeto, “dell’umanità”: proprio perché sia chiaro che io, ateo, non credo in Gesù figlio di Dio, ma in Gesù uomo». Ottantadue anni: da ragazzo assiduo frequentatore degli oratori salesiani, poi giornalista dell’Unità, consigliere comunale e infine sindaco nella città della Fiat e degli Agnelli, dell’immigrazione selvaggia, della lotta di classe e degli anni di piombo. Dopo, e a lungo, parA destra, Diego Novelli davanti alla Fiat, nel 1980. lamentare italiano ed europeo. Uno, insomma, Sopra, l’ex sindaco presenta che ha fatto in tempo a conoscere quasi tutta il suo libro Il decennio della la storia del Pci: da Togliatti sino ad Achille follia, del 1990, e posa Occhetto. «Ero con Giancarlo Pajetta quella con Cesare Romiti, allora amministratore delegato Fiat mattina, dopo l’annuncio della Bolognina. Né lui né io sapevamo nulla e lo leggemmo sull’Unità: Pajetta era muto, come annichilito. Gli chiesi: ma che cos’è questa storia?». Adesso, nella sua casa al centro di Borgo San Paolo, il quartiere dove Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti radunavano nei circoli operai i primi «compagni» di quello che a Livorno sarebbe poi diventato il Partito Comunista d’Italia, prova a ragionare senza rinnegare nulla: «Quando parlavo di me, all’inizio, dicevo che ero un vedovo, un vedovo del comunismo. Poi ho cambiato metafora, perché mia moglie mi ha fatto notare che non era una cosa molto carina. Ora dico che sono un orfano». La stanza è gonfia di libri, di carte, di giornali e di fotografie, e di una incredibile collezione di statue lignee medioevali. Una vita 3 G E N N A I O 2 0 14

situazione. E il Pci aveva già imboccato la “via italiana al comunismo”. Ma Mosca, soprattutto per chi aveva conosciuto la galera e il confino sotto il fascismo, era come il miraggio di una fontana nel deserto. E non c’era bisogno di essere bigotti né conformisti per pensarla così: anche in questo caso, mi viene in mente Pajetta, che non era certo un bigotto o un conformista. Poi, non potevi dimenticare, ogni volta, che cosa aveva significato quella rivoluzione, come aveva cambiato una società, come aveva liberato un popolo. Ma il problema erano i metodi e quel problema non è mai stato risolto: prima ancora di organizzare una società socialista, devi fare i conti con i valori che vengono prima di ogni altra cosa. La libertà, la democrazia». L’Urss, e ciò che rappresentò per i comunisti di tutto il mondo, ritorna spesso nelle parole dell’ex sindaco. E quasi sempre come l’esempio di un modello che non si poteva accettare: «Per due volte, l’Unità mi propose di andarci come corrispondente. Allora, per un giornalista comunista italiano, era come se a un prete avessero proposto di andare a lavorare in Vaticano: il massimo, insomma. Io invece non ci volevo mettere piede, ero convinto che non avrei potuto scrivere tutto quello che volevo. Feci l’ira di dio entrambe le volte e, alla fine, riuscii a restare in Italia». Ma che cosa rimane di tutta una vita? E perché quelle parole dell’inizio: «Mi dichiaro, ancora oggi, un comunista?». Novelli, per un attimo, riordina le carte appoggiate sul grande tavolo, poi riprende a parlare con la sicurezza che ha sempre segnato i suoi discorsi: «Alla fine, per me il comunismo sono tre-quattro valori fondamentali: la legalità, l’onestà, l’uguaglianza e la giustizia. Riassumendo: essere dalla parte degli umili, senza bisogno di credere in Dio». E un comunista ideale, ma esistito davvero? «Enrico Berlinguer, ne sono certo. Lo conoscevo bene e lui mi voleva bene, mi apprezzava. Una volta mi confidò anche che, per la sua successione a segretario del Pci, pensava a Minucci». E Massimo D’Alema, invece, oggi diventato il simbolo del peggio di quella tradizione? «Io continuo a pensare che sia una grande intelligenza politica. Ma ha sempre voluto essere troppo furbo. Ai tempi della bicamerale con Berlusconi glielo dissi in faccia: “Tu farai la fine di Garibuja”. Lui mi replicò stizzito. “E chi è questo Garibuja?”. Gli risposi: “Una maschera piemontese: uno che si credeva così furbo da mettere i soldi al sicuro nelle tasche degli altri”. Alla fine ho avuto ragione io, anche se non mi fa piacere: Massimo ha fatto proprio quella fine lì». ADRIANO MORDENTI / AGF

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ORINO. L’esordio ricorda la frase

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munisti (sono segnalati sulle guide anche per una ospitale Casa del popolo). C’è poi la curva dello stadio di Livorno, figlia dell’acciaio, con i calciatori che salutano ancora con il pugno chiuso; c’è la sala-chiamata del porto di Genova, dove si parla solo in stretto dialetto all’ombra dei ritratti di Lenin e Ho Chi Min. C’è la storica bacheca dell’Unità in via dei Giubbonari a Roma. I comunisti italiani hanno avute intitolate molte vie e piazze, ma non hanno statue. L’unica dove compare un simbolo comunista è quella di Aldo Moro, nella sua città natale, Maglie, in provincia di Lecce: lo statista democristiano cammina pensieroso con sottobraccio una copia dell’Unità; non sa che sarà un’organizzazione comunista ad ucciderlo. Il suo cadavere venne lasciato sotto l’imponente palazzo di via Botteghe Oscure, allora sede del Vaticano comunista; l’edificio è ora proprietà dell’Abi, Associazione Bancaria Italiana. Non ci sono più le cinture industriali rosse di Torino e Milano, anche perché non ci sono più le industrie; ma nel contempo ci sono però – caso di sincretismo religioso particolarmente piccante – due governatori della Puglia e della Sicilia, che sono, allo stesso tempo, comunisti, cattolici e gay. Se tre figli di grandi dirigenti del partito – Barca, Cossutta, Reichlin – sono diventati tre valenti economisti dalla formazione internazionale, la maggioranza dei dirigenti ha invece scritto memorie noiose di una esperienza piuttosto noiosa. Il manifesto, che dalla sua fondazione nel 1971 ha scritto sotto la testata «quotidiano comunista» si può ancora comprare in edicola, ma ti lascia così così (ha guadagnato in stile, però, dopo l’abbandono del greve vignettista Vauro). Il professor Luciano Canfora è affascinante quando spiega la superiorità della democrazia dei soviet su quella ateniese, ma non è un leader politico. Il professor Oliviero Diliberto, segretario dei Comunisti Italiani, l’uomo che solo pochi anni fa propose ai russi di prendersi la salma di Lenin ed esporla a Roma, è tornato ai suoi impegni universitari. Paolo Ferrero, l’ultimo segretario di Rifondazione Comunista, francamente non si sa come passi la giornata. Achille Occhetto, l’ultimo segretario del Pci, ha scritto un libro di memorie dove dice che la causa di tutti i guai del comunismo italiano è Massimo

di ricordi, come l’istantanea scattata a Mosca che lo ritrae assieme a Boris Eltsin, o il primo numero del settimanale Avvenimenti, del quale è stato uno dei fondatori. Era il 12 novembre 1988, e la rivista si apriva con una lunga intervista di Aleksandr Olbik proprio a Eltsin, che spiegava così il tramonto del Pcus: «La capacità attrattiva del socialismo si è affievolita…». Ecco, la memoria dell’Unione Sovietica si affaccia subito tra i ricordi dell’ex ragazzo rosso. «Il problema, secondo me, è stato proprio questo: il comunismo è stato stuprato dal socialismo reale». E Mosca? Che cosa rappresentava per quelli come lei? «Io avevo le idee precise già allora. Nel 1956, durante i fatti d’Ungheria, nella redazione dell’Unità di Torino volevamo uscire dal partito, non riuscivamo ad accettare l’dea “dell’aiuto fraterno” ai compagni di Budapest. Eravamo Italo Calvino, Gianni Rocca, Paolo Spriano, Luciano Pistoi, Adalberto Minucci ed io. Alla fine se ne andarono solo Calvino e Rocca, perché Celeste Negarville ci convinse a restare nel Pci per dare battaglia sui temi della democrazia». Una battaglia facile? «In realtà il partito aveva ben chiara la 3 G E N N A I O 2 0 14

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C’è un paese in provincia della Spezia, Montaretto, che ha duecento abitanti: tutti comunisti. Questa è la Casa del Popolo. In basso, la collezione di vini nostalgici

timi veri, puri, comunisti italiani. Pacifici, non vanno in tv. Ed è bello che ci siano. Tutto finito? Ma no. Come i lettori avranno ormai sospettato, il comunismo italiano ha in serbo una sorpresa. E infatti, nella confusa, triste, disperante Italia del dicembre 2013, un comunista c’è ancora. Ed è l’italiano più importante, il presidente della Repubblica, l’88enne Giorgio Napolitano, l’unico inquilino del Quirinale eletto due volte. Iscritto al partito comunista da quando era ragazzo a Napoli,

STUDIO LEONI X 2

D’Alema. Massimo D’Alema, d’altra parte, continua a pensare che lui è il Migliore di tutti, e i fotografi lo riprendono mentre porta a spasso il cane, con molto sussiego. Veltroni è quello che ci ha provato. Vabbè. Se tutti se la sono più o meno cavata, è sicuramente di Fausto Bertinotti la migliore success story del comunismo italiano. Sindacalista di Novara, affascinante affabulatore nei talk show, il competitor preferito di Silvio Berlusconi fece cadere il primo governo Prodi, nel 1998, esclusivamente per vanità personale. Non pago, presidente della Camera nel 2006 assistette, serafico, alla distruzione del secondo governo Prodi, operata dal senatore Franco Turigliatto, comunista trotzkista. Dopodiché visse una vecchiaia felice, orientata alla contemplazione del mondo moderno. Mai visto un comunista più contento di sé di Fausto Bertinotti. È morto felice anche Livio Maitan, storico capo del trotzkismo italiano, una delle componenti importanti di Rifondazione Comunista. «Da una vita aspettavo di far cadere un governo borghese», disse quando affosssò il primo governo Prodi. Altro comunismo in giro, francamente non vedo. Ed è un vero peccato. Ed è per questo che, come credo tantissime persone, compro sempre il giornale Lotta Comunista, che degli instancabili ragazzi diffondono porta a porta da decine e decine di anni. Lo si compra per una specie di affetto. Ma se poi provate a leggerlo, scoprite che è una parte bella del nostro Paese. Il giornale è l’organo di un movimento fondato nei primi anni Sessanta da due operai liguri, Arrigo Cervetto e Lorenzo Parodi, che credevano in Lenin e Trotzky e per nulla in Stalin e che non avevano apprezzato che il Pci italiano non si fosse schierato con i fratelli operai di Budapest nella rivolta del 1956 (guardate su YouTube le immagini dei funerali di Parodi, due anni fa a Genova, e il tributo di folla che ricevette, e scoprirete che c’è anche un’Italia sconosciuta). E se leggete il giornale, vi stupirete: invita i giovani a studiare, a formarsi una coscienza politica, a difendere gli oppressi. Pochi fogli, serissimi, diffusi mensilmente in 40 mila copie con analisi interessantissime su come vanno le sorti del comunismo, dall’ Indonesia al Bangladesh. Sono gli ul-

appassionato di teatro, una vita a masticare marxismo, vie nazionali al socialismo, migliorismi, primo dirigente comunista italiano ad ottenere un visto (di otto giorni) per gli Usa nel 1978, detto Re Giorgio per le responsabilità che si è preso – la prima e più importante, quella di liquidare Silvio Berlusconi prima che questi liquidasse l’Italia – è oggi il comunista con maggior potere in Europa. Ha attraversato il secolo, senza dubbio con costanza. È stato nu poco stalinista (vabbuò, era giovane), ma anche liberale, socialdemocratico, di destra, però sempre attaccato al pezzo, patriota, realista, europeo, curioso. Il comunista che ha salvato l’Italia, si dirà di lui. Lenin in Naples. Enrico Deaglio

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Il presidente Vladimir Putin dentro la capsula sommergibile C-Explorer 5 alla ricerca dei resti della fregata Oleg, affondata nell’800 nel golfo di Finlandia

Piano piano l’Orso sovietico torna a galla L’EROE DEL MOMENTO? IL VECCHIO STAKHANOV. LA STAMPA? SEMPRE PIÙ IMBAVAGLIATA. NEI LIBRI DI SCUOLA IL CAPRO ESPIATORIO È GORBACIOV. SPOSTAMENTI PROGRESSIVI VERSO UN regime IPER-NAZIONALISTA di Nicola Lombardozzi

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Manifestazione di protesta degli attivisti di Greenpeace sulla Moscova in difesa dell’equipaggio della Arctic Sunrise, il 6 novembre scorso. A destra, il flashmob delle Pussy Riot nella Cattedrale del Cristo Salvatore che è costato loro l’arresto. Sotto, memorabilia sovietiche

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OSCA (dal nostro corrispondente). Lenin ti guarda. Solenne e un po’ accigliato, al centro della piazza Kaluzhskaja, tra il ministero degli Interni e le nuove caffetterie alla moda. Oppure con il volto proteso, un po’ al futuro e un po’ alle insegne di un nuovo centro commerciale, tra la folla indaffarata della Prospettiva Leningradskij. Ma trova il modo di osservarti anche mentre è impegnato a fare un discorso al popolo in uno dei preziosi mosaici della stazione Kievskaja della metropolitana; e di fissarti severo dalle innumerevoli statuette, busti, bassorilievi in bronzo, che si nascondono dappertutto tra parchi, cortili scolastici, parcheggi in disuso. E, se vuoi, puoi sempre essere tu a guardare lui senza nemmeno fare più le code di un tempo. Il Mausoleo di granito al centro della Piazza Rossa è ormai una meta per pochi curiosi distratti. Pochi minuti di fila, due euro di biglietto, e puoi acco-

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starti per quaranta secondi cronometrati alla mummia del Padre della Rivoluzione, fondatore dell’Unione Sovietica. Ai russi interessa sempre meno. A quello sguardo ci sono abituati. Li segue dalla nascita, è diventato una presenza troppo scontata per essere notata. Secondo i più seri istituti demoscopici, la stragrande maggioranza dei giovani nati dopo la fine dell’Urss non ha nemmeno chiaro di chi si tratti, non riuscendo a collocarlo né tra i buoni né tra i cattivi della Storia. Eppure, questa presenza costante e familiare non è solo un residuo del passato. Senza citarlo pubblicamente, senza onorare i suoi monumenti, Vladimir Putin – che da tredici anni comanda incontrastato la Russia di oggi, tra capitalismo spinto e disparità sociali che non hanno precedenti – si coccola l’eredità ricevuta dal sistema sovietico, ripristinandone con metodo criteri, usanze e stili di vita. Pochi se ne accorgono, moltissimi sarebbero pronti a giurare che non è vero. Ma a piccole, inesorabili dosi, l’Unione Sovietica sta tornando. Di tanto in tanto, davanti a un singolo episodio, qualcuno, perfino tra i giornali più allineati, azzarda

un piccolo appunto scandalizzato: «Questo è proprio un sistema della vecchia Urss!». Ma è il quadro generale che comincia a inquietare. Si comincia dall’inevitabile «operazione nostalgia», si passa dal sacrosanto tentativo di recuperare l’orgoglio nazionale, e si finisce con ricostruire pezzi di organizzazione dello Stato degni del passato, in materia di repressione del dissenso, organizzazione del lavoro, potere di magistratura e polizia. Pochissime tracce invece delle cose buone del tempo che fu, il welfare sbrindellato, ma efficace, le case piccole e brutte, ma per tutti, il lavoro assicurato, la – almeno teorica – uguaglianza dei sessi, la assoluta laicità dello Stato. L’operazione nostalgia sembra innocua e perfino gioiosa. Putin in persona ci ha messo molto impegno personale e molti soldi pubblici. Ha cominciato con una frase che fece il giro del mondo: «La fine dell’Urss è stata la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo». Ha completato l’opera esaltando i momenti più gloriosi della storia recente del Paese a cominciare dalla vittoria contro il nazismo, spesso sottovalutata in Occidente, ma oggettivamen3 G E N N A I O 2 0 14

te fondamentale per la liberazione dell’Europa. Capita così che da qualche anno, ogni 7 novembre, si celebri sulla piazza Rossa una parata storica che viene seguita da masse sempre più incuriosite e festanti. Si celebra, nella stessa data della Rivoluzione d’Ottobre, un altro 7 novembre: quello del 1941, quando per volere di Stalin partigiani e militari dell’Armata Rossa sfilarono tra le gente come niente fosse, prima di andare ad affrontare i carri armati di Hitler ormai arrivati a Khimki, a poche fermate di autobus dal centro. Ed è un tripudio di bandiere rosse, decorazioni dell’Urss sul petto dei veterani superstiti, bambini felici di farsi fotografare tra divise e armi d’epoca. Ancora più di impatto, sempre sfruttando l’onda di quella che da queste parti si chiama la Guerra Patriottica, l’impulso della produzione cinematografica. Due anni fa il Cremlino finanziò con cifre clamorose Il sole Ingannatore 2 del famoso regista Nikita Mikhalkov. Un kolossal sulla guerra che deluse i critici e non entusiasmò gli spettatori. Ma quest’anno il bis è riuscito molto meglio. Stalingrad 3D realizzato con grandi finanziamenti di Stato da Fëdor Bon3 G E N N A I O 2 0 14

L’operazione nostalgia sembra innocua e perfino gioiosa. Putin in persona ci ha messo molto impegno personale e molti soldi pubblici

darcjuk ha colpito nel segno. Molti lo hanno bollato come polpettone sciovinista, ma lo stile e il ritmo tra Spielberg e Tarantino, gli effetti speciali esasperati, e la colonna sonora da video game horror hanno conquistato il pubblico e soprattutto i giovani russi, che hanno scoperto il mito della battaglia chiave della Seconda Guerra mondiale. Ed è per questo che i negozi di souvenir sull’Arbat hanno cominciato a vendere anche ai locali i cimeli veri e falsi del passato, un tempo riservati solo ai turisti di una certa età. Busti di Lenin e Stalin, gagliardetti e cappelli delle brigate partigiane e dell’armata Rossa tornano a tirare. E le stesse immagini compaiono anche sui quaderni di scuola, i poster in vendita in tutte le cartolerie, i nuovi locali rétro dove si possono mangiare i pelmeni (ravioli di pasta sottile) e i «maccheroni della flotta» secondo le ricette in voga in Unione Sovietica. Colore e sano patriottismo, ma non finisce qui. Il piano di Putin è più ampio e articolato. A cadenza mensile, una serie di provvedimenti ha riportato alla luce tante piccole cose. Putin in persona ha preteso l’obbligatorietà del canto dell’inno nazionale all’inizio delle lezioni scolastiche.

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L’inno ha perso gradualmente le parole sovietiche Stalin, Lenin, e Bandiera Rossa, ma resta con la stessa melodia di Aleksandr Aleksandrov che si era ispirato a sua volta alle note dell’inno bolscevico. Sempre su iniziativa di Putin, per incentivare i barcollanti ritmi di produzione russa, è stata riesumata la decorazione di Eroe del Lavoro che rese celebre nel mondo il minatore ucraino Stakhanov. E c’è sempre più la tentazione di riportare alla luce categorie obbligatorie per i giovanissimi cittadini come i Pionieri del comunismo. Il presidente ne ha parlato con commozione celebrando l’anniversario del Komsomol, la gioventù comunista, fondata nel 1918 e disciolta nel ‘91. Intanto dovrebbe cominciare con il ritorno del giuramento di fedeltà alle istituzioni e alla Patria che ogni studente dovrà pronunciare all’inizio dell’anno. E, giuramenti a parte, anche lo studio in sé subirà qualche modifica. Il Presidente sta esaminando da settimane un progetto, da lui commissionato, di testo unico per i manuali di storia. Attualmente tutte le vicende che riguardano splendori e orrori del comunismo vengono trattati con acrobatiche enunciazioni di diversi pareri. Si comincia con «Alcuni storici sostengono che...». E giù il racconto di privazioni della libertà individuale, deportazioni, gulag, sterminii per fame. Segue un ipercorretto «ma altre scuole di pensiero sottolineano invece che...», con le giustificazioni e le motivazioni «del particolare momento», e della «priorità di salvaguardare la sicurezza dello Stato». Il manuale che, dopo le correzioni di Putin, sarà diffuso in tutte le scuole dovrebbe essere più netto e deciso. Molti prevedono qualche denuncia di orrori in meno ma soprattutto una pesante critica della perestrojka gorbacioviana che diede la spallata finale al gigante sovietico. Dalla semplice nostalgia si passa dunque a qualcosa di più concreto. Inquietante, ad esempio, il discorso di Putin nel corso della rilanciata Unione Scrittori, con la promessa di finanziamenti diretti e benefit da concordare con i letterati allo «scopo di rilanciare la letteratura russa nel mondo». Più o meno come quando gli scrittori di regime ricevevano gratifiche in denaro e dacie nei villaggi 3 G E N N A I O 2 0 14

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Sopra, soldati russi in uniformi storiche prendono parte alla parata militare sulla Piazza Rossa, il 7 Novembre 2013. Nelle foto sotto, dall’alto, la locandina dell’ultimo film di Nikita Mikhalkov, Il sole ingannatore 2, finanziato dal Cremlino; una scena di Stalingrad 3D del regista Fëdor Bondarcjuk

più esclusivi della periferia di Mosca. Naturalmente Putin si è guardato bene dall’impartire direttive su cosa e come scrivere. Ma, subodorando qualcosa, gli scrittori russi più famosi all’estero come Ludmila Ulitskaja, Boris Akunin, Viktor Erofeev, Viktor Pelevin, hanno preferito disertare la riunione. Così come è difficile pensare che la neonata

Agenzia Internazionale Russia Oggi, costituita nel giro di una notte su decreto presidenziale, potrà avere molti spazi di manovra da ora in poi. Putin ha voluto unificare la televisione in lingua inglese Russia Today al colosso mediatico del gruppo di Stato Ria Novosti sempre allo scopo di «raccontare e meglio descrivere la vita dei russi all’estero». Per la Novosti, si ritorna agli obiettivi di quando fu fondata negli anni Sessanta per eseguire ufficialmente compiti di propaganda. Che adesso saranno agevolati dai siti internet e dai canali satellitari. Improbabile che si esprima su altre chicche di stampo sovietico riaffiorate negli ultimi mesi come la riesumazione della legge sull’agente straniero che minaccia organizzazioni per la difesa dei diritti umani, da Memorial a Human Rights Watch, e mette in serie difficoltà Ong assolutamente apolitiche come Greenpeace. E non c’è nemmeno da aspettarsi che la Novosti si occupi della legge che punisce il «teppismo motivato da odio politico», rispolverato pari pari dal diritto sovietico per giustificare, un anno dopo la condanna, il carcere duro per le due Pussy Riot. Piccoli tasselli di un mosaico impensabile fino a pochi anni fa. Che Lenin, imperturbabile, continua a osservare da ogni angolo del Paese. Nicola Lombardozzi

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Uno spettro si aggira per la Cina: la protesta IL CAPITALISMO COMUNISTA CHE RIENTRA SOTTO LE LENZUOLA CONSENTENDO IL SECONDO FIGLIO. GLI SCIOPERI SELVAGGI. L’ESODO DALLE CAMPAGNE. LA DINASTIA ARROGANTE DEI principini. EPPURE IL BILANCIO È IN ATTIVO... di Federico Rampini

KIM KYUNG HOON / REUTERS / CONTRASTO

Pechino, novembre 2013: ammaina bandiera, davanti alla Grande sala del popolo (e al ritratto di Mao) in piazza Tienanmen, dove si è tenuto il plenum del Partito comunista cinese

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CARLOS BARRIA / REUTERS / CONTRASTO

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Una sterminata banda militare pronta ad accompagnare musicalmente la chiusura del XVIII congresso del partito, nel 2012. Accanto, da sinistra, Mao Zedong e Deng Xiaoping in una foto del 1959

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he cosa significa comunismo nella Cina di oggi? La domanda è cruciale ed è insidiosa. Chiunque abbia visitato la Repubblica Popolare dagli anni Novanta in poi ha visto un’esplosione di capitalismo vero. Ben diversa dal fenomeno degli oligarchi russi, fortune spesso create artificialmente attraverso delle privatizzazioni truccate. In Cina, esiste un capitalismo di Stato assai robusto, ma c’è anche un’iniziativa privata che dilaga in molte sfere dell’economia. L’intuizione di Deng Xiaoping fu di assecondare la rinascita di quegli «spiriti animali» che Fernand Braudel e Max Weber già nei loro studi storici intravidero nella Cina opulenta e mercantile del XIII secolo. E, tuttavia, resta il fatto che al governo di Pechino c’è un partito che si ostina a definirsi comunista. Le parole devono pure avere un senso, sia pure nascosto, o traslato,

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o perfino usurpato. In che senso è «governata dai comunisti» la Cina? Forse questa è la domanda più seria, visto che così si proclamano i suoi dirigenti. Una prima risposta, è questa: il comunismo significa continuità. Certo, questa Cina è nata con un parto cesareo molto doloroso, la sua trasformazione è stata operata a furia di strappi: Deng Xiaoping, poco dopo la morte di Mao Zedong, sul finire degli anni Settanta mise la sordina all’egualitarismo. «Arricchitevi» fu uno dei suoi slogan più fortunati e più seguiti. E tuttavia bisognava impedire che oltre alle libertà economiche i cinesi chiedessero quelle politiche (come poi accadde nell’89 a Tienanmen): di qui l’importanza di mantenere una linea di successione dinastica ideale, che parte dal fondatore della Repubblica Popolare, Mao, e arriva fino all’attuale Xi Jinping senza mai proclamare una Seconda Repubblica. Una cesura di regime potrebbe mettere a repentaglio il controllo della nomenclatura sul Paese. Di questa continuità, i leader rispettano anche alcuni ingredienti «leninisti». All’ultimo Plenum del comitato centrale, nel novembre

scorso, Xi ha voluto accentrare nelle proprie mani anche il controllo delle forze armate. Un altro aspetto di continuità è ideologico. La censura, il controllo del dibattito pubblico, rientrano nella tradizione del comunismo reale da Stalin a Honecker, da Castro a Tito. Almeno altrettanto importante è la questione del «figlio unico». Qui si potrebbe dire che i successori di Mao sono più comunisti di lui. Mao non volle adottare il controllo delle nascite perché vedeva nella popolazione un fattore di forza militare. La regola del figlio unico venne adottata dopo la sua morte. Con aggiustamenti graduali, l’ultimo dei quali proprio al Plenum di novembre. È chiaro che i leader cinesi, di cultura tecnocratica, non vogliono un invecchiamento precoce e destabilizzante che indebolirebbe l’economia. Ora ammettono molteplici eccezioni, la più importante in prospettiva è questa: basta che un solo genitore in una coppia di coniugi sia esso stesso un figlio unico, e scatta il diritto ad avere due figli. Ma le tecnicalità sono meno importanti del principio. Cosa c’è di più intimamente personale, privato, della procreazione? Come la Chiesa, anche il partito 3 G E N N A I O 2 0 14

comunista deve spostare i confini della libertà individuale, invadere la sfera familiare, dettare perfino quel che si può fare a letto. C’è poi un sottofondo di cultura comunista nel modo in cui i leader cinesi affrontano le emergenze sociali, come le periodiche ondate di scioperi selvaggi e rivendicazioni salariali della classe operaia. La nomenclatura di partito non ha mai abbandonato la convinzione marxista secondo cui la «libertà dal bisogno» conta più di tutte. Alle prediche occidentali su libertà politiche, libertà di espressione, diritti umani, la Cina ribatte sottolineando il suo bilancio: dalla svolta capitalista di Deng nel 1978, la Repubblica Popolare ha liberato il popolo più numeroso della terra dallo spettro delle carestie. Ha aumentato la speranza di vita portandola al livello degli Stati Uniti. Ha ridotto la mortalità infantile, che oggi a Shanghai è inferiore a quella di New York. Nel corso della crisi del 2007-2009, la Cina ha difeso la libertà di lavorare: con un vigoroso intervento del suo governo, azionando le leve del capitalismo dirigistico di Stato (credito bancario, investimenti in infrastrutture), Pechino ha evi3 G E N N A I O 2 0 14

tato la recessione. Questo è il bilancio di un modello di sviluppo «liberatorio», che i governanti cinesi oppongono a chi contesta la mancanza di altre libertà e altri diritti: per esempio il diritto di organizzazione sindacale e di sciopero. Sembrano passati secoli dalle congiure di palazzo, spesso accompagnate a spargimenti di sangue sulle piazze, che segnarono il passaggio di potere da Mao a Deng. Giunta alla quinta generazione, l’oligarchia che governa la Cina ha imparato a gestire in modo ordinato e pacifico le successioni. L’ultimo passaggio delle consegne, da Hu Jintao a Xi Jinping, era stato annunciato con largo anticipo. Il meccanismo è bene oliato. Pechino ha adottato un metodo di governo collegiale, le mediazioni tra le correnti di partito e i vari clan al potere si fanno in modo incruento, dietro le quinte. Al popolo si presenta una facciata di unità, salvo «incidenti» come la faida guidata da Bo Xilai, il boss di Chongqing, liquidato dopo un processo esemplare e con condanne durissime per corruzione. Ma il caso Bo Xilai è stato uno shock, ivi compreso per gli

appelli a un revival maoista lanciati da quel leader nel suo tentativo di scalata al potere. Una lezione che il regime ha tratto dopo Tienanmen: quel movimento fu incoraggiato dalle visibili divergenze tra i leader di allora. Della biografia di Xi due cose sono chiare. La prima è che il leader attuale appartiene alla categoria detta dei «principini»: figli e nipoti dei fondatori del partito comunista, eredi biologici e consanguinei del gruppo originario raccolto attorno a Mao. I «principini» sono un’élite controversa. Loro si considerano i custodi di una tradizione, di un’etica dei padri della patria, e del primato del partito comunista. Chi non fa parte di questo clan li considera dei rampolli cresciuti nel privilegio, arroganti come tutte le nomenclature ereditarie. L’altro aspetto importante nel curriculum di Xi è che i suoi principali incarichi sono stati al governo di due provincie ricche, il Fujian e lo Zhejiang, più un periodo come segretario del partito comunista di Shanghai. Si è fatto le ossa nella Cina più avanzata e moderna, non nelle regioni povere. Con due conseguenze. Primo: è più sensibile alle aspirazioni e ai bisogni del ceto

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KEVIN R. MORRIS / CORBIS

Maggio 1989: gli studenti protestano in piazza Tienanmen reclamando democrazia e diritti umani

urbano medioalto e delle lobby industriali. Secondo: governando regioni sviluppate ha potuto scremare ricchezze personali da elargire a parenti, amici e alleati. Il dipartimento di scienze politiche dell’università di Singapore, autorevole osservatorio esterno sulla Cina, fa questa distinzione tra noi e loro: le liberaldemocrazie occidentali sono sistemi fondati sulle procedure (cioè le regole attraverso cui i cittadini selezionano i propri governanti), il sistema cinese è basato sulla performance. Non avendo un’investitura dal basso, ma solo una selezione dei dirigenti per cooptazione, il regime di Pechino costruisce a modo suo una forma di consenso, e di legit-

timità dei suoi leader, in proporzione ai risultati che garantisce alla popolazione. La stabilità è il suo obiettivo primario. Ma la stabilità non è garantita. Mentre nei decenni precedenti la popolazione che affluiva dalle campagne era laboriosa, docile e sottomessa, la nuova generazione degli immigrati attirati nelle metropoli industriali è una polveriera di rancori e rivendicazioni. Il partito comunista cinese, a 92 anni dalla sua fondazione, sa che deve temere la «questione sociale» almeno quanto teme i dissidenti intellettuali di Pechino. La nomenclatura è stata formata sui testi sacri del marxismo e sa quanto siano importanti le condizioni di

vita della classe operaia. Nel 1989, il movimento di Piazza Tienanmen nacque dalla convergenza tra l’élite studentesca e una popolazione di colletti blu impoveriti dall’inflazione. I margini di manovra per rispondere con aumenti salariali alle aspettative crescenti dell’«altra Cina», alla grande questione sociale posta dagli immigrati dalle campagne, non sono illimitati neanche per la nazione con i conti più floridi del pianeta. C’è poi l’ultimo bastione del comunismo da non sottovalutare. Nelle campagne, continua una sorda resistenza del partito contro la privatizzazione delle terre. È lì che si sente evocare la «fedeltà» al comunismo delle origini. La proprietà collettiva dei terreni agricoli è una formidabile fonte di corruzione e di arricchimento personale, perché sono i capi-villaggio e i dirigenti del partito gli unici a controllare le transazioni con le imprese e gli speculatori edili, interessati alle terre rurali. Quel comunismo lì è duro a morire. Federico Rampini

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Vieni, in Spagna c’è un kolkhoz UN PAESE DI 2.700 ABITANTI, Marinaleda, VIVE DAGLI ANNI NOVANTA SECONDO I PRINCIPI DEL COLLETTIVISMO E DELLA LOTTA ANTICAPITALISTA. MA C’È CHI METTE IN DUBBIO CHE I CONTI TORNINO DAVVERO di Marco Cicala Fotografie di Danilo De Marco

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ARINALEDA, SIVIGLIA. (dal nostro inviato). Ma no, tranquilli, che non hanno abolito la proprietà privata. Non hanno soppresso neppure la merce. E, se arrivi la domenica, uno scampanìo ti segnala che perfino la religione è rimasta al suo posto. A prima vista, Marinaleda assomiglia a un qualsiasi altro pueblo del grande ventre andaluso. Degno, pulito, deserto. Per strada meno che nessuno: radice quadrata di nessuno. D’estate quaranta gradi minimo. D’inverno, adesso, temperature che cincischiano attorno allo zero. Ma non ti aggiri in una desolazione tetra. Perché il cielo è d’un azzurro lancinante. E quando ti capita di incrociare un umano, quello ti dice Hola! con una convinzione che altrove s’è persa.

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Nella foto grande, uno dei murales dipinti lungo le strade di Marinaleda, villaggio andaluso situato 97 chilometri a est di Siviglia. In basso, Juan Manuel Sánchez Gordillo, 64 anni. È sindaco di Marinaleda dal 1979 e suo leader carismatico

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Sopra, lo stemma del comune di Marinaleda. L’economia sociale del villaggio garantisce servizi, scuole, abitazioni a prezzi politici. La vita del paese è stata recentemente raccontata dal giornalista britannico Dan Hancox nel libro-diario Marinaleda, la utopía de un pueblo (edizioni Deusto)

Sopra e a destra, altri murales di Marinaleda. Accanto, l’entrata della cooperativa El Humoso, dove mezzo villaggio lavora le terre espropriate negli anni Novanta

speciale 1989-2014 PUGNI CHIUSI È solo a metà di Avenida de la Libertad – la main street lungo la quale si sgrana il paese – che cominci a notare indizi dell’eccezioneMarinaleda. Sono murales con su scritte cose tipo: Contra el Capital, Guerra social; Otro mundo es necesario!; Camino a la utopía. Roba così. Se poi l’occhio ti cade sui nomi delle strade, scopri che si chiamano Che Guevara o Salvador Allende, Calle Igualdad o Solidaridad. Le ribattezzarono così alla morte di Francisco Franco. Ma il villaggio – oggi 2.700 abitanti – cominciò a far rumore qualche anno più tardi. Agosto 1980: per dieci giorni, settecento persone – bambini inclusi – si mettono in Sciopero della fame contro la fame. Tagliata fuori dallo sviluppo industriale, l’Andalusia campa – si fa per dire – di agricoltura. Ma il 90 per cento di chi lavora la terra non ne possiede nemmeno uno straccio. Le famiglie di Marinaleda vivono – si fa sempre per dire – con l’equivalente di due euro al giorno. Perciò – al grido di Holocausto social! – smettono di nutrirsi. Gran bailamme mediatico. Alla fine, dal governo arriva una trasfusione

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di denaro in grado di far sopravvivere gli scioperanti almeno fino a dicembre, il mese in cui c’è più lavoro perché si raccolgono le olive. Però, in una zona dove la riforma agraria latita da sempre, l’obiettivo è un altro: l’espropriazione popolare delle terre. Nella fattispecie quelle appartenenti al Duca dell’Infantado, che in Andalusia si ritrova 17 mila ettari. Incolti. I cafoni di Marinaleda gliene invadono un pezzo. La polizia li sloggia a bastonate. Loro ripiegano ordinati. Poi tornano a occupare. Fino al 1991, quando si giunge a un accordo. In cambio di un sostanzioso indennizzo sborsato dall’esecutivo regionale, El Duque molla 1.200 ettari. Diventeranno quelli della cooperativa El Humoso. Che è sempre lì. Dà lavoro a mezzo villaggio. All’entrata c’è scritto Tierra y Utopía. A Marinaleda la parola utopia punta

i piedi. Tra fraseologie rivoluzionarie fuori tempo massimo, astuto buon senso contadino e fierezza collettivista. Perché qui non hanno collettivizzato soltanto le campagne, ma anche una bella fetta di vita pubblica. Al Comune le decisioni si votano per alzata di mano, in assemblee open doors convocate con l’altoparlante che, in giro per il paese, gracchia: Venite. Non tutti accorrono festosi. Molti continuano a farsi gli affaracci loro. Se esistesse un dépliant promozionale con l’elenco dei risultati ottenuti in questo micro-socialismo dal volto andaluso, ci trovereste tra l’altro: assistenza gratuita a malati e anziani; asili d’infanzia a 15 euro mensili; una fabbrica dove vengono messi in barattolo e venduti fino in Italia, il basilico, le fave, i peperoni, i carciofi coltivati nel simil-kolkhoz. Chi ci lavora prende 47 euro al giorno per turni di sei ore e mezza. E poi le case: 350 abitazioni di 90 metri quadrati più 100 di patio. Tutte costruite con lo stesso metodo: negoziando coi proprietari, il Comune converte suolo rustico in edificabile; grazie ai fondi regionali, fornisce progetti3 G E N N A I O 2 0 14

sti, materiale e qualche operaio, ma l’alloggio devi fabbricartelo da solo. Mutui agevolatissimi: 15 euro al mese. In una delle casette autoprodotte vive l’uomo che è eroe eponimo delle lotte, non solo bracciantili, che hanno fatto di Marinaleda un’anomalia, un’attrazione mediatica o un Parco tematico dell’antagonismo – ridacchiano i detrattori. Da queste parti, Juan Manuel Sánchez Gordillo è avvolto dalla stessa aura, tra il messianico e il guerriero, che in altri evi fu degli agitatori anarchici o dei bandoleros – i briganti asserragliati sulle montagne circostanti. Per sgominarli inventarono la Guardia civil. Mentre il romanticismo popolare li beatificava come dei Robin Hood, anche se non lo erano. Il trascinatore Gordillo ha 64 anni. Su internet potete vederlo in decine di video tuonare nei comizi, levare il pugno in cortei e occupazioni come quella di una finca militare abbandonata per cui s’è appena beccato una condanna, impugnata, a sette mesi. O i blitz negli ipermercati espropriando alimenti base da distribuire ai bisognosi. Mi hanno detto che JuanMa è in casa. Busso. Ma niente. È che da un annetto non sta più tanto bene – mi confessano a mezza bocca. Che ha? Mistero. Criptici, alludono a beghe familiari, spossatezza, stress. E le ultime 3 G E N N A I O 2 0 14

traversie giudiziarie avrebbero aggravato il male oscuro. Nessuno osa pronunciare la parola depressione. Sta di fatto che negli ultimi tempi Gordillo si astiene dalla pugna. Mi allontano, un po’ avvilito pure io. Senonché, un’oretta dopo, ecco che lo vedo spuntare di fronte al municipio. Barba scippata a Engels, una kefiah buttata sulla giacca a vento, avanza con aria svagata, sull’abbacchiato, come se non fosse diretto da nessuna parte. L’oratore vibrante parla adesso con umanissima lentezza. Il sorriso mite. O sfibrato. «Luchar cansa», lottare stanca, mi dice. «Qui abbiamo raggiunto tanti obiettivi. Ma i diritti conquistati non sono mai per sempre. Devi continuare a difenderli. La crisi li sta distruggendo. Però il pessimismo è reazionario». Mi racconta di come siano riusciti a comprimere la disoccupazione, delle nuove case popolari in costruzione, dei progetti di eco-agricoltura. Nel suo ufficio c’è una grande foto del Che e una, meno appariscente, della pasionaria Dolores Ibárruri. Gordillo è sindaco di Marinaleda. Il problema è che lo è dal 1979. Ininterrottamente. E benché non si definisca comunista, ma casomai comunitarista, sembra prolungare nel suo piccolo antiche usanze bulgare. Non solo a destra, gli avversari gli danno

dell’autocrate, del cacicco rosso. Siamo al monocolore bonsai? «Ma quale partito unico» taglia corto lui. «Qui ogni quattro anni si rivota». Già, e stravincono sempre loro. Su undici consiglieri comunali, l’opposizione ne ha due: uno socialista, l’altro del Partido popular. Mi piacerebbe scoprire che faccia hanno, dove si nascondono. Ma i nemici di Gordillo (che non sono pochi né teneri, lui ha già subìto un paio di attentati) vanno più a fondo: sgonfiano il miracoloMarinaleda come un bluff. Cooperative, edilizia, servizi: l’intera economia sociale del pueblo sarebbe dopata, tenuta in piedi da laute sovvenzioni. Quelle elargite da poteri regionali tradizionalmente di sinistra, e protettivi, oltremodo indulgenti verso la piccola utopia campesina. Gordillo scuote la testa: «Non riceviamo più soldi di qualsiasi altro comune di queste dimensioni. È solo che abbiamo imparato a spenderli meglio». Non dribbla sulle contraddizioni del sistema-Marinaleda: «Nella produzione abbiamo vinto. Nel finanziamento ancora no. Nemmeno nella commercializzazione. Dopotutto, vendiamo i nostri prodotti sul mercato. Capitalistico». Ok, ma almeno siete felici? «Beh, qui si vive bene». Tu chiamala, se vuoi, economia mista. Di capitalistico, o comunque non inglobato

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nel collettivo, a Marinaleda restano piccole proprietà rurali, qualche emporio, un forno, negozi di attrezzi agricoli, un ristorante, una mezza dozzina di bar. Tra cui il Pirri. Minuscolo. Di sobrietà quasi rupestre. Una nicchia di Andalusia sempiterna. Dietro il bancone, due-bottiglie-due di anice. Per il resto solo birra o vinello peleón, andantissimo. Alle pareti, toreri e madonne lacrimose. La chiesetta della Paz è a due passi. Ben tenuta, inabitata («Il prete non vive in paese. Grazie a Dio, viene solo per le messe» sogghignava Gordillo). Ho appuntamento qui con Mariano Pradas, socialista, sparuto oppositore dell’Alcalde in consiglio comunale. Lavora nella nettezza urbana di un villaggio vicino. Arriva in Mercedes. E tanto per cominciare mi fa: «Lo so che cosa sta pensando». Ah sì? Cosa? «Eccolo, l’anticomunista borghesotto che gira col macchinone. Ma guardi che quest’auto è usata, ha 18 anni!». Del sindaco perpetuo dice: «È onesto, in tasca non si è mai messo un soldo. Ma il denaro pubblico come lo spende? Per favorire i suoi! Se non sei con lui diventi automaticamente un fascista». Consiglia: «Non creda alle cifre su edilizia e occupazione: sono gonfiate». Lamenta il clima di intimidazione. Racconta che alle ultime elezioni è dovuto uscire dal seggio scortato dalla Guardia civil. Che qui a Marinaleda è un po’ come il prete. Non c’è. Viene solo su richiesta. Un posto di polizia non esiste: «Perché non serve. Il livello di convivenza è ottimo» assicura Gordillo. Quando tiri in ballo l’inamovibilità del leader mediomassimo, i suoi supporter nicchiano. Si ritengono inadeguati al comando: «Qui nessuno ha la sua capacità di dirigere» dice Mariano Gómez nella fabbrica di conserve. «A Marinaleda non funziona come nella solita politica, prima di presentarti discuti con la gente: anche la candidatura è un’espressione della volontà popolare» spiega Esperanza Saavedra, puericultrice, consigliere comunale e collaboratrice di Gordillo. Un’utopia tutta chiacchiere e sovvenzioni? Disinformazia: «Lo dicono perché temono un effetto contagio nella zona». Ma almeno siete felici? «Beh, qui la qualità di vita è alta. Soffriamo la crisi meno di altri posti. Siamo corazzati. Sai, i braccianti sono precari da quando esistono». Fatta tara di ogni retorica – il villaggio di Asterix e altre amenità – non si capisce un accidente di Marinaleda se si perde di vista 3 G E N N A I O 2 0 14

A destra, il sindaco Juan Manuel Sánchez Gordillo davanti al maxi-volto di Ernesto Che Guevara dipinto sul centro sportivo di Marinaleda. Sotto, targhe stradali del villaggio. Piazze e vie sono intitolate a rivoluzionari e figure simbolo della sinistra anticapitalista

il pregresso delle lotte contadine che agitarono il grande Meridione spagnolo tra Otto e Novecento. Battaglie sulle quali la razionalità militare dell’indottrinamento comunista fece scarsissima presa (d’altronde, all’operaista Marx dei contadini fregò sempre nulla). Tra i cafoni che lavoravano por un gazpacho de sol a sol – per una zuppa dall’alba al tramonto– attecchiva invece l’anarchismo ingenuo e sentimentale, mistico, ferino. Sovversioni, tumulti remoti, certo. Ma hanno lasciato tracce. Anche perché l’assetto proprietario è cambiato poco. Sostiene un detto popolare che da Siviglia potresti risalire fino

all’estremo nord senza smettere di calpestare le terre della Duchessa di Alba. Che tuttora possiede in Spagna 34 mila ettari. In Andalusia il 50 per cento del suolo appartiene al 2 per cento delle famiglie. Preferiscono coltivarlo a grano o a girasole: rende di più e costa meno in manodopera. El señorito, il latifondista, «si becca i robusti contributi Ue all’agricoltura senza creare lavoro». E non è più la figura – odiata, riverita, invidiata – di un tempo. Anche perché l’antica religione della terra – che, seppur nel conflitto, annodava servo e padrone – si va perdendo. Quel che resta dell’aristocrazia sguazza, magari affogandoci, nell’immaterialità distante dello Spettacolo e del gossip. Mentre i giovani guardano al lavoro contadino come a un pozzo nero di fatica e di noia. Internet – il wi-fi è gratuito in tutto il pueblo – li alletta con un altro mondo. Più vasto dell’utopia. Chi rema contro dice che l’austerity e il taglio dei fondi azzopperanno di brutto il modelloMarinaleda. E moltissimi si chiedono se c’è una vita dopo Gordillo il bandolero. Stanco. Marco Cicala

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Non c’è più religione: tornano Dio e gli esuli È RIPRESO IL DIALOGO TRA LA CHIESA E IL PARTITO. I cattolici cubani PRENDONO LA PAROLA. E GLI INTELLETTUALI DELL’OPPOSIZIONE LAVORANO PER LA PATRIA. IN AMERICA. COSÌ SI RIAPRONO LE PORTE A QUELLI DI MIAMI

JOSE GOITIA / DPA / CORBIS

di Maurizio Chierici

L’Avana, 2012: suore cattoliche per strada in attesa della messa di Benedetto XVI. Sullo sfondo un murale che raffigura Che Guevara. Sopra il titolo: Raúl Castro

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2 (1) Processione cattolica all’Avana, in Manrique Street, in onore di Nuestra Señora de la Caridad del Cobre. (2) Papa Giovanni Paolo II e Fidel Castro all’Avana (1998). (3) MIami: manifesti anticastristi nella città della Florida che è il centro degli esuli. (4) Roberto Fernández Retamar. (5) Carlos Saladrigas

quattro soldi della carità. Catene di negozi e microimprese in concorrenza con i cinesi che hanno mani dappertutto. Impresari non si nasce: si diventa per una cultura di mercato finora sconosciuta. In aiuto ai manager improvvisati, la Chiesa organizza corsi d’aggiornamento: professori messicani vanno e vengono dall’Avana. Intanto Raúl Castro fruga il fondo del mare sospirando il petrolio. Saladrigas sorride: «Un pensiero l’ho fatto. Non voglio essere l’ultimo a cercare l’oro nero». Li chiamano neo comunisti, in realtà vecchie tessere. Negli anni 60 Felix Sautié Mederos dirigeva riviste dall’irriverenza autorizzata: Juventud Rebelde, El caiman barbudo. È stato vice presidente del Consiglio nazionale di cultura, oggi insegna etica cristiana all’Istituto superiore di studi biblici. Non risponde a chi vuol sapere quanto pesano i credenti iscritti al partito comunista: «Impossibile capirlo. La struttura leninista non ammette 3 G E N N A I O 2 0 14

differenza di tendenze tra i militanti». Sautié riconosce il diritto dei cattolici «a far parte dei gruppi dell’opposizione». Nel suo libro Socialismo e riconciliazione a Cuba li osserva dall’interno del partito «augurando il dialogo di tutti con tutti». Intanto la diploaccademia prova a diluire il socialismo reale per avvicinare non governi o apparati, ma intellettuali finora lontani. Bisogna dire che tra i fratelli Castro la continuità è un filo che si assottiglia. Chiesa e partito lavorano assieme a un progetto fino a ieri blasfemo: recuperare la diaspora di chi è scappato negli Usa. Avvicinamento che si vorrebbe rapido per rigenerare non solo l’armonia avvelenata da contrapposizioni ideologiche armate, ma il coinvolgimento delle lobby dalle risorse che ingolosiscono l’economia alla deriva. Smontare mezzo secolo di propaganda richiede tempo e una certa disinvoltura, ma il tempo è breve data l’età venerabile dei 3 G E N N A I O 2 0 14

sopravissuti. L’allarme è questo. Vetrina del diallogo due riviste. Espacio Laical, 180 pagine lanciate in rete e in vendita in ogni libreria, e Temas giornale del partito, sempre 180 pagine, sempre internet e librerie. Voci che si intrecciano a quelle della diaspora considerata «parte inseparabile della stessa nazione». Direttore di Espacio Laical, Roberto Veiga, avvocato, figlio di un segretario del sindacato unico, ma cresciuto nella famiglia del cardinale Ortega. Storie di amori cubani: padre che lascia moglie e bambino raccolti dalla madre del cardinale Ortega. L’avvocato ne parla come di un vecchio parente. Ne è il portavoce fidato. «Ridisegnare il modello politico vuol dire interrompere la contrapposizione con chi se ne è andato e ha provato a distruggere la rivoluzione. Abbiamo sempre saputo che prima o poi avremmo camminato assieme. È il momento di farlo. L’emigrante si adatta ad un Paese senza perdere il diritto di ap-

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SERGIO LEYVA/DEMOTIX/CORBIS

è fermato e il partito comunista governa Cuba come 54 anni fa. Partito unico con una sola voce che rimbalza le stesse parole d’ordine nei giornali, alla radio, in tv. Anche se, con lentissime sfumature, Raúl Castro alleggerisce lo stato padrone per affidarsi alla mediazione della diploaccademia, la diplomazia portata avanti negli ultimi due anni dai suoi intellettuali che insegnano nelle università americane. Nella Cuba d’antan ogni neologismo nascondeva inquietudini ripiegate nei segreti di Stato. Adesso è impossibile coprire le crepe e ci si affida all’ermetismo della diploaccademia. Dopo 54 anni d’esilio torna all’Avana un anticastrista eccellente: Carlos Saladrigas, presidente della Premiere American Bank di Miami e hispanic board di non so quanti consigli d’amministrazione, dalla Pepsi Cola (tenerezze Cia) alla Total, Progress Energy, elenco infinito. Saladrigas incontra i dissidenti ai quali è permesso confrontarsi in pubblico con neo comunisti come il cattolico Felix Sautié. La sua presenza è una sorpresa. Rovescia il passato di bestia nera dell’ufficialità. Figlio di un primo ministro del generale Batista che scappa quando arrivano Fidel e il Che, è stato la cassaforte degli ultras di Miami. Finanziava imprese spericolate, campagne dissacranti. Tanto per capire come pesavano le sue deci- 1 sioni: nel ’98 organizza il pellegrinaggio all’Avana dei fedeli che vogliono ascoltare Giovan- ger, mezzo secolo di fallimenti diventano un ni Paolo II in piazza della Rivoluzione. La de- bilancio insopportabile. Dovevo cambiare. stra radicale si arrabbia e Saladrigas la accon- Raúl sa che i capitali sono le vitamine del montenta. E all’ultimo momento la nave non do. Dalla nostra parte del dialogo adesso c’è parte. Obama che non è Bush e le prospettive sono Gli anni passano, i furori intiepidiscono. diverse». Entra nel circolo della Cuba Study Group che Incontra i dissidenti che animava da lonpromuove il dialogo con l’altra sponda. Se tano; incontra il cardinale Ortega, ma la novioggi Saladrigas allunga la mano, in passato tà è il feeling coi vertici del partito. Qualcuno stringeva i pugni. Cosa è successo? Attorno al lo aspettava a braccia aperte. Ecco la trasfortavolo della prima colazione, imponente e sof- mazione dei paladares in ristoranti con camefice, occhi gentili, risponde con la concretezza rieri in giacca bianca. Erano trattorie familiadi uomo d’affari senza illusioni. «Un giorno mi ri: case che si aprivano a pochi avventori, sono accorto di non pensare più concessioni dello Stato su imitaa Castro, avevo solo nostalgia di È impossibile zione vietnamita. Adesso gonfiatornare a casa. Mi specchiavo capire quanti no i prezzi e gli stranieri si mescomalinconicamente nell’isteria sono i credenti lano ai nuovi benestanti. Per il dell’esilio dei vecchi: quell’arrafiscritti momento, élite fortunata; gli altri fare finanziamenti con la speranal partito aspettano con le tasche vuote. za di rovesciare il regime... Non comunista. Intanto i parenti di Miami finance l’abbiamo fatta. Per un manaÈ vietato ziano i parenti di Cuba: non i

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VANA. In apparenza il tempo si

partenere a quello d’origine. Perché non riconoscere questo diritto?». I protagonisti laici della Chiesa sono cambiati, racconta l’avvocato Veiga. «Il loro impegno si esauriva nella polemica politica mentre il nostro obiettivo resta la riconciliazione: unire, non dividere…». E il povero Osvaldo Payà, leader dell’opposizione cattolica, morto in uno strano incidente di strada, era stato allontanato dalla corte del cardinale. Amarezza dei suoi ultimi giorni. Espacio Laical non accoglie solo le proposte degli intellettuali cubani cresciuti negli Stati Uniti: sviluppa il dialogo con gli intellettuali dell’Avana iscritti al partito. Nel numero dedicato al recupero della diaspora lo testimonia Jorge Ignacio Dominguez, membro autorevole del Pcc e direttore di Temas, proprietà del ministero della Cultura. Insegna ad Havard la storia che unisce e divide l’altra America da Cuba. È uno dei custodi del-

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la diploaccademia alla quale Castro fratello affida il riavvicinamento. «Ci confrontavamo da anni. Discorsi immobili fino a quando Raúl dà un’accelerata, mentre le scelte di Obama aprono i viaggi a mezzo milione di americani: sei voli al giorno da Miami, aerei quotidiani da New York e Los Angeles. Anche i cubani possono andare dove vogliono. Noi e gli altri guardiamo assieme il futuro». Nel ricordo della prudenza di un passato appena prossimo spengo il registratore quando voglio sapere come è cambiata la politica da un Castro all’altro. Dominguez si sporge sopra il tavolo e riaccende. «Raúl non ha il carisma di Fidel. Lo sa e si affida agli intellettuali di partito». Partito diviso? «Certo che lo è. Diviso tra giovani e vecchi, come in ogni posto del mondo. Per anni mi sono chiesto come anziani e ragazzi potessero pensarla allo stesso modo: un milione e mezzo di persone inchiodate in una gabbia innaturale». Forse la mediazione della Chiesa… «Ma cosa può mediare! Usa con intelligenza costruttiva lo spazio che lo Stato concede». Insomma, lo Stato non molla, ma si adegua alla corrente. La nuova linea non è apprezzata dai notabili aggrappati ai dogmi del partito: hanno scalato poltrone bene illuminate convinti fosse per sempre. Raúl Alonso è il ponte storico L’Avana: un passante davanti a una vetrina che pubblicizza la campagna Yellow Ribbon (nastro giallo) per la liberazione di quattro prigionieri politici, tra l’establishment e il mondo cattolico. Mediain carcere da 15 anni. Anziani giocano a carte al Little Havana Chess Club zione che scende dalla direzione della rivista La Casa de las Américas, guidata da Roberto Fernández Retamar, scrittore raffinato, con Fidel dai primi giorni dell’università. La Casa Italia. Cinquantasei anni, appartiene alla ge- cienza degli stipendi. «Lo Stato pretende è il laboratorio culturale più importante dell’i- nerazione nascosta. Da sempre racconta i mi- maggiore produttività per mantenere una sola. Ogni anno assegna i Nobel Latini. Nel steri di casa attraverso gli intrighi di una let- politica protezionista e paternalista. Posso medagliere, Italo Calvino, nato a due passi terratura poliziesca che respira Graham raccontare della mia generazione che ha pardall’Avana. Alonso non si sente superato dalla Greene. Personaggi di contorno snidano le tecipato alle operazioni militari internazionadiploaccademia ed è felice di un dialogo che abitudini delle gerachie al servizio del líder li, anni 70 e 80. Poi la disciplina nello studio e aveva cercato di animare. Eppure certe pie- máximo. Negli anni dell’omofobia violenta, il tagliare canna da zucchero in attesa di un ghe non lo convincono. Il recupero della dia- Maschere sfiora lo scandalo con l’invenzione progresso economico personale che adesso spora, per esempio. Dubita che «i tempi pos- di un figlio del direttore del ministero degli sfuma. Quanti si ritrovano nelle condizioni sano essere brevi per la resistenza degli ap- Interni trovato morto, vestito da donna. Diri- fisiche e psicologiche necessarie a riciclarsi parati. Nessun vuol perdere piccoli e grandi ge La Gaceta de Cuba, collabora a un sito strut- nel nuovo modello? Siamo la generazione che poteri. Sono abituati a sentirsi immortali e turato come rivista online: Desde Ceiba: ceiba, deve rinunciare alla vita annunciata per prealbero sacro della santeria, dove parare la vita morbida alla generazione che si nella loro speranza Fidel resiste come eterno riferimento». Obama e Raúl si incrociano i mormorii degli in- affaccia. Noi sempre in anticamera. Si sta Si affacciano inquietudini per si sono stretti tellettuali intimoriti dalla contro- avvicinando uno scontro frontale con realtà il momento trattenute. La sconla mano. Che rivoluzione liberale, ultima spiag- che esigono risposte diverse dalle vecchie tentezza di Leonardo Padura cosa significa? gia dell’economia allo sbando. giaculatorie». E i brontolii si allargano nella Fuentes, il più tradotto degli È il segno Morte della libreta, tessera di so- pancia del partito. Chissà cosa cambierà dopo scrittori cubani. L’uomo che amadi qualcosa pravvivenza, mercato nero che la stretta di mano Obama-Raúl Castro. Maurizio Chierici va i cani è l’ultimo libro uscito in che cambia? prospera provocando l’insuffi3 G E N N A I O 2 0 14

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Quel che resta di Chávez: unsocialismo fuori mercato GLI SCAFFALI DEI NEGOZI VUOTI. I SACCHEGGI AUTORIZZATI DAL GOVERNO. GLI SPECULATORI AMICI DEI BUROCRATI CHE FANNO AFFARI. IL PETROLIO COME UNICA RISORSA. SCENE DA UN’economia IN ROSSO. PROFONDO

COMMAND CAMPAIGN HUGO CHAVEZ / CORBIS

di Omero Ciai

Il presidente venezuelano Nicolás Maduro a una manifestazione in onore del predecessore Hugo Chávez, morto il 5 marzo 2013, che campeggia nel manifesto alle sue spalle. Le politiche economiche di Maduro estremizzano quelle di Chávez. E il socialismo del XXI secolo arranca

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2 Impazza il culto della personalità del defunto presidente Chávez. (1) La folla in rosso ai funerali, il 7marzo scorso (2) Il suo ritratto in uniforme portato in corteo (3) Il bambolotto Chávez (4) La Costituzione emanata nel 1999 (5) La cappella vicina alla sua tomba

sera nello specchio perché sono rimasto fedele agli ideali dei miei vent’anni». Luis, invece, sta in mezzo al guado. Ha quarant’anni, lavora per il governo e vive in uno dei quartieri popolari più fedeli al Comandante defunto, il 23 de Enero, dove sui muri si possono leggere minacciosi slo-

gan del tipo: «Con Chávez tutto, senza Chávez piombo». Luis si lamenta dell’inflazione (50 per cento, quest’anno) e della penuria di generi alimentari. Da mesi ormai scarseggiano il latte, la farina, lo zucchero, l’olio. E si ricorda di quando nei supermercati c’erano tre o quattro marche per ogni prodotto e si poteva scegliere. «Oggi – dice – viviamo attaccati agli sms. Ecco, ne arriva uno che dice “c’è la farina” nel tal posto e tutti a correre per comprarla. Due pacchi da un chilo a testa, proibito prenderne di più. Oppure il latte in polvere, o la carta igienica, o il pollo». Luis ha un fratello che faceva il barman al Tamanaco, uno degli alberghi di lusso di Caracas. Adesso lo hanno messo a servire i breakfast perché il bar dei cocktail, che era aperto tutta la notte, lo hanno chiuso per mancanza di turisti. E lui non guadagna più quello che incassava prima con le mance. Poi, Luis ha anche un suocero che fa il commerciante. E ogni tanto specula. Per quelli vicini al governo che possono farlo è semplice. Importano, comprando con i dollari a cambio bloccato sovvenzionati dallo Stato, e 3 G E N N A I O 2 0 14

rivendono in bolivar, la moneta locale, a un valore di cambio molto più vicino a quello reale, in nero, che può essere anche sei, sette, otto volte superiore. È nata anche così la nuova borghesia bolivariana, i boliburgheses, culo e camicia con i funzionari governativi. Un caso esploso in queste settimane sono i mall degli elettrodomestici Daka. Il presidente Maduro, l’erede del caudillo rosso, ha lanciato la campagna di Natale per «i prezzi giusti», accusando i commercianti di guadagnare troppo sulle vendite. Ha mandato l’esercito nei Daka, tagliato d’imperio i prezzi, e invitato la gente a comprare in saldo. Una sorta di saccheggio autorizzato e controllato. Adesso i Daka sono chiusi. E soprattutto sono vuoti. I proprietari, una famiglia di origine araba, dichiarano fallimento e presto venderanno a prezzo stracciato la loro catena di negozi allo Stato, che la nazionalizzerà per continuare a garantire, se riuscirà ad importarli, televisori al plasma e frigoriferi al «prezzo giusto». Quando Chávez è morto di cancro il 3 marzo dell’anno scorso, dopo quattro operazioni, tutte a Cuba – la maggiore incognita a 3 G E N N A I O 2 0 14

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ARACAS (dal nostro inviato). «I ricchi si sono sbagliati» dice Jesús, affondando la zappetta nella terra dell’orto lungo il costone della montagna di Catia, una delle favelas – ma qui si chiamano cerros – più popolose di Caracas. «Si sono sbagliati a costruire i loro quartieri verso Ovest. Per metà dell’anno boccheggiano nell’afa mentre da questa parte, verso Est, il vento e la nebbiolina del pomeriggio stemperano l’aria dei Caraibi. Ci nascono anche le fragole nel nostro orto». Da queste parti, Jesús lo chiamano il pioniere e c’è un perché. Nel 2003, dopo il golpe fallito di Carmona e lo sciopero di tre mesi dichiarato dalla Confindustria locale, quando Chávez spedì i soldati e gli operai di Pdvsa, la holding nazionale del petrolio, a gestire i programmi sociali del governo battezzati Misiones, fu uno dei primi a salire quassù con l’idea della produzione endogena: cipolle e porri da distribuire nei mercati scontatissimi dello Stato nelle favelas. Pillole di socialismo nel suo ideario di ex studente contestatore. Servisse un esempio di quindici anni di rivoluzione sociale chavista eccolo qua. Dentro Pdvsa, Jesús ha fatto tutta la carriera nei ranghi proletari: addetto alle pulizie, ascensorista, magazziniere. Fino ai giorni della battaglia del dicembre 2002, quando Chávez rovesciò la Compagnia del petrolio come un guanto, cacciò tecnocrati, dirigenti e tecnici, che erano le teste d’uovo dell’opposizione conservatrice, ne assunse il controllo, e premiò gli operai che si erano schierati dalla sua parte. Da allora, i dollari del greggio di Pdvsa sono diventati il combustile, il bancomat, dell’avventura socialista. E Jesús, come tanti altri, uno dei suoi orgogliosi interpreti. Misión Robinson per gli analfabeti, Misión Barrio Adentro per la sanità, Misión Vivienda per le case popolari, Misión Milagro per le operazioni chirurgiche dei più bisognosi. Tanto per citarne alcune. Oggi, a sessant’anni, Jesús Méndez è il direttore logistico della Misión Ribas, un programma che regala borse di studio a poveri di tutte le età che vogliano prendere un diploma. «Così, grazie al Comandante Chávez, il Venezuela sta pagando il suo debito sociale con tutti i suoi cittadini sfruttati e abbandonati e io – recita Jesús – posso guardarmi ogni

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Caracas era se i suoi eredi avrebbero spinto costretto ad importare quasi tutto quello che l’acceleratore accentuando la costruzione consuma, il governo è sempre a caccia di doldel socialismo del XXI secolo, oppure, al con- lari cash, i beni primari mancano, l’inflazione trario, avrebbero annacquato il modello per decolla e il deficit fiscale – ossia la differenza rinviare lo scontro finale con l’altra metà del fra quanto lo Stato incassa e quanto spende Paese che lo rifiuta. Ma, evidentemente, ad – supera il 18 per cento. A Caracas, una macogni sterzata Maduro vince e ricompatta il china usata costa il doppio, o anche di più, rispetto al prezzo di listino di un’auto nuova movimento chavista. L’effetto dei saccheggi autorizzati ha dato che, comunque, non si trova perché nessuno al presidente grande notorietà, anche se le importa. Uno degli episodi più tristemente adesso perfino nei piccoli shopping center del divertenti del nuovo corso fu l’inaugurazione centro di Caracas non c’è nulla da comprare. della fabbrica di gelati venezuelani Coppelia, I commercianti hanno nascosto tutto in atte- uno degli ultimi atti ai quali partecipò Chávez sa che passi la burrasca. In quindici anni di nell’autunno del 2012. Era un fiore all’occhielrivoluzione bolivariana – Chávez vinse le pri- lo, perché Coppelia è la famosa gelateria nel me elezioni nel ‘98 – è stato nazionalizzato centro dell’Avana, a Cuba: durò poche ore per quasi tutto. Dalle telecomunicazioni all’elet- mancanza di materia prima. Di fronte alle difficoltà del «made in sotricità, dalla siderurgia al cemento, alle banche, al tessile, ai latifondi, fino alle tv, radio e cialismo», la risposta dei vertici bolivariani giornali. Una guerra senza quartiere all’im- è immutabile. Il problema non sono gli errori, da manuale d’economia, di chi presa privata nella convinzione che, grazie alla rendita petrolifeSi esporta governa, ma la «guerra scatenara, fosse possibile superare il petrolio. Gli ta dall’Impero» (cioè gli Usa) «e modello di produzione capitalialtri prodotti dai suoi lacché locali» (ovvero stica. Il risultato però è desolante sono importati l’opposizione controrivoluzionae perverso. Oggi il Venezuela è ma mancano ria). A Caracas c’è perfino

i soldi per pagarli

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SI CHIAMA Jorge Giordani, FIGLIO DI UN ANTIFASCISTA EMIGRATO. CULTORE DI GRAMSCI, MINISTRO ONESTO, ISPIRAVA CHÁVEZ. ORA CI PROVA CON MADURO

di Maurizio Chierici

Il 6 luglio scorso le milizie contadine sfilano in onore del presidente Nicolás Maduro. Nell’altra pagina, a sinistra di Chávez, il suo ideologo Jorge Giordani

qualcuno convinto che Chávez sia stato assassinato per fermare così la sua crociata contro la borghesia. Lo ha sussurrato pubblicamente il presidente Maduro e adesso la deputata María León ha chiesto che sia formata una commissione d’inchiesta parlamentare per indagare su chi «abbia iniettato» al Comandante il tumore che se lo è portato via a 58 anni. Oggi il Comandante riposa sulle montagne, in un sarcofago di marmo nero nella caserma 4 de Febrero. E, nella fantasia popolare, ogni tanto risorge. L’avrebbe visto perfino un gruppo di operai nei tunnel della metropolitana. Lungo la strada che porta alla caserma, c’è una cappella pagana con amuleti della Santeria e con su scritto «Santo Chávez». Percorriamo la via con José Villanueva, chavista sfegatato. José è perito agrario e, da ragazzo, sognava di comprarsi una piccola fattoria. Ma a quell’epoca, trent’anni fa, per i poveri non «c’erano opportunità», nessuno ti faceva un prestito. Invece oggi grazie a Chávez i giovani, secondo lui, le opportunità ce le hanno. Camminando, José snocciola tutte le leggi firmate dal Comandante a favore delle masse.

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Quella che ha ridotto l’orario di lavoro, quella che manda tutti in pensione esattamente con i soldi dell’ultimo stipendio, quella dei due giorni di ferie consecutivi a settimana. Nella vita, José ha fatto qualsiasi lavoro: un periodo, perfino lo spacciatore di cocaina. Ora, a cinquant’anni, ha sposato una fisioterapista cubana arrivata con il programma di cooperazione che consegna petrolio sotto costo a Cuba in cambio di medici. Sono più di cinquantamila i cubani esportati dai Castro per aiutare Chávez e, dopo un certo numero di anni, possono scegliere se tornare sull’isola o rifarsi una vita qui. A José Cuba non piace. «È capitalismo di Stato» dice. «Invece qui c’è ancora l’economia di mercato». Ancora per poco, José. «No, noi non diventeremo mai come Cuba!» insorge. «Le difficoltà oggi ci sono per la guerra economica dell’Impero contro di noi». Sta di fatto che, petrolio a parte, il Venezuela non esporta ormai più nulla e non produce neppure abbastanza mais o riso per il fabbisogno interno. Ogni anno, il governo deve a Paesi come il Messico o il Brasile, che non hanno bisogno del suo petrolio, milioni di dollari per pagare

le importazioni di carne. Uno squilibrio che ha mandato in crisi il modello. Bettsy è una giovane avvocato che vorrebbe andarsene. Ma resta. «Per un dovere morale. Etico». Dice: «Mi oppongo a questa deriva socialista». Da mesi non trova un posto in aereo. Il cambio fisso con il dollaro ha fatto impazzire il mercato. Chi, come i colombiani, può scambiare i dollari sul mercato nero, trova molto vantaggioso comprare i biglietti aerei per volare da Caracas verso l’Europa e gli Usa. Arrivano con i dollari, li cambiano al nero in bolivar e acquistano il biglietto a prezzo stracciato. Anche le compagnie aeree internazionali stanno pensando di mollare. Nessuno straniero investe in Venezuela anche perché è proibito esportare qualsiasi guadagno. Le poche multinazionali restano con le casse piene di bolivar, che ormai cominciano ad assomigliare alle banconote finte del Monopoli, tanto s’è svalutata la valuta locale. Mentre Bettsy racconta, la ferma una vecchietta che arranca in salita. Le chiede: «È vero che in quel negozio lassù c’è la farina? È vero?». Omero Ciai 3 G E N N A I O 2 0 14

uando il tenente colonnello Hugo Chávez si rivolta al presidente socialdemocratico Carlos Andres Perez che ordinava ai parà di sparare sulla folla furibonda per l’aumento del prezzo del pane, quel tenente colonnello non era socialista, tantomeno comunista: solo un nazionalista «vicino al popolo» come Bolivar, Garibaldi delle americhe. Rinchiuso in una prigione militare, vuole laurearsi con una tesi sul Libertador. Invita il professor Jorge Giordani ad esserne relatore. Giordani, altissimo, sottile, barba da missionario, va in carcere con una certa perplessità. Ma si scioglie appena scopre nella cella i suoi libri dalle pagine tormentate con l’ attenzione di un prigioniero che vuol capire. Nasce la strana amicizia tra un intellettuale gramsciano e il parà. Il quale viene liberato dall’indulto mentre il Paese precipita in una crisi disperata. I socialdemocratici lo rincorrono per sventolarne il coraggio che incanta. Si annunciano le elezioni e Chávez rinfresca la bandiera dei soliti gattopardi. Nel 1997 comincia la campagna dell’ex colonnello e all’improvviso arriva uno strano invito: Fidel Castro lo chiama all’Avana per una conferenza su Bolivar. Cuba, a secco di petrolio dopo l’addio di Mosca, guarda con apprensione ai pozzi del quinto paese produttore del mondo. L’ex prigioniero torna a Caracas felice come un bambino. Racconta ai giornalisti del viaggio straordinario: volo che spegne i motori al terminal vip dell’aeroporto. Tappeto rosso. Castro lo abbraccia ai piedi della scaletta. Una notte di chiacchiere: Hugo beve e si esalta, Fidel osserva e incoraggia. L’idillio col comunismo cubano comincia così. Ma è a Giordani che Chávez affida la sua educazione politica. «Il mio maestro Giordani», ripete ad ogni comizio. La biografia di Giordani esce dalle tragedie dell’Europa 900. Padre di Imola, muratore figlio di un carrettiere che porta le verdure al mercato di Bologna. Mussolini fa uccidere Matteotti e Primo Giordani si sconsola: «Non posso vivere in un Paese dove il delitto diventa arma politica ». Emigra in Francia, si mescola agli esuli in fuga dal fascismo. Scoppia la guerra civile spagnola e Giordani lascia la Francia per il battaglione Garibaldi che riunisce i volontari accorsi a difendere la repubblica dall’aggressione del generale Franco con Mussolini e Hitler alle spalle. Durante l’assedio di Madrid, una bomba gli porta via un piede. Nella finestra Chávez dirimpetto suona il pianoforte di una ragazza lo chiamava andalusa imbottigliata nella capitale dove il mio maestro. stava preparando il diploma. Madrid si arrenE lui costruiva de e le brigate internazionali camminano ferrovie e case 3 G E N N A I O 2 0 14

per i poveri delle favelas

verso la frontiera francese. Primo, con le stampelle; la ragazza, incinta. Dà alla luce il fratello maggiore di Jorge in un convento della Catalogna, mentre Franco sta per entrare a Barcellona. La Francia li separa: madre e bambino sulla spiaggia di un campo di concentramento; Primo e gli altri nel recinto sorvegliato da militari senegalesi, mentre la Germania minaccia Parigi. Trovano un passaggio su una nave diretta in America Latina: giri larghi per evitare gli U-Boot tedeschi. Infine lo sbarco a Santo Domingo e Giordani s’arrabbia: «Siamo scappati dall’inferno di una dittatura per finire sotto un’altra dittatura»: presidente Trujillo, militare agli ordini di Washington. Jorge nasce domenicano nella casa dignitosa di un muratore diventato piccolo impresario al lavoro nell’ambasciata venezuelana. Deve essere bravo, se il console lo invita a costruire la sua villa fuori Caracas. E la fortuna continua. Jorge dal passaporto complicato (madre spagnola, nato a Santo Domingo, padre italiano, residenza Caracas) studia Ingegneria all’università di Bologna: laurea e poi dottorato in Teoria dello sviluppo nel Sussex. Una zia italiana lo convince a iscriversi al partito comunista, ma le tessere non lo entusiasmano. Le avventure della famiglia lo hanno trasformano in un idealista che si illude di programmare la felicità della gente. All’Istituto superiore di Caracas apre un osservatorio sulla corruzione. Diventa il riferimento dei giornalisti stranieri che vogliono capire dove va il Venezuela. Fino all’incontro con Chávez non si era riconosciuto in un partito anche se lo accompagnava il mito di Gramsci, citazioni che introducono i suoi saggi. Diventa ministro della Pianificazione; investe in opere sociali i dollari del petrolio, ma non ritira lo stipendio. Lavora con la felicità di costruire ferrovie in un paese che i miliardi dell’oro nero non avevano mai considerate. Case per il popolo delle baracche, scuole, ospedali, asili nido. Continua ad abitare nella vecchia palazzina di famiglia. Vive della pensione d’insegnante, mosca bianca fra nuvole di mosche nere. Qualche volta si arrende all’invito dei manager italiani al lavoro in Venezuela: viaggio in Sardegna per incontrare il nipote di Gramsci. Disilluso, si aggrappa agli amici italiani quando scopre che la munificenza dei benefattori nasconde intrighi d’appalti con ammicchi di tangenti. E gli amici gli prestano i soldi per il ritorno. Continua a fare il ministro, a volte disilluso dai discorsi interminabili del Chávez («Santo cielo!», e si copriva gli occhi con le mani); disilluso dal decisionismo che sconvolge la sua eleganza intellettuale. Ma è rimasto per confermare l’impegno che prova a separare dalla politica. Il silenzio è il suo rifugio. A disagio quando Chávez nel 2007 «licenzia» Heinz Dietrich, sociologo tedesco profeta della nuova sinistra, e oscura il Socialismo del Secolo XXI. Silenzio che continua con Maduro che lo conferma in un governo sempre più centralista e a doppio filo con l’Avana. Qualche volta si arrende al dubbio: «Chissà cosa direbbe Gramsci». HENNY RAY ABRAMS / GETTY

L’ideologo italiano nel soviet di Caracas

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La prigione Nord-Corea e il suo divino carceriere LA VIA DI Pyongyang AL COMUNISMO SI CHIAMA JUCHE. DIARIO DI UNA SETTIMANA INDIMENTICABILE NEL REGIME PIÙ BLINDATO DEL MONDO. TRA CONTROLLI OSSESSIVI E UN DELIRANTE CULTO DELLA PERSONALITÀ di Raimondo Bultrini Qui, statua in bronzo di Kim Il Sung e dei contadini. Nella foto grande, soldatessa illustra le fasi della cattura di una nave spia americana nel 1968

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fotografie di Orit Drori

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YONGYANG. Il tour di pochi giorni tutto compreso nel Paese comunista più isolato del mondo comincia a bordo del bianco Tupolev della compagnia statale Air Koryo partito dall’aeroporto di Pechino carico di pacchi di cartone, businessmen cinesi, turisti occidentali come quelli della nostra agenzia dei «Giovani Pionier» e vip nordcoreani. I loro piccoli distintivi a sfondo rosso di Kim Il Sung o Kim Jong Il sulle giacche scure di taglio anni Cinquanta li identificano come membri del Partito unico in viaggio d’affari e di lavoro. I video trasmessi per tutta l’ora e mezza di volo fino alla capitale della Corea del nord Pyongyang ci preparano accuratamente al tipo di propaganda che ogni visitatore dovrà condividere – sebbene in misura infinitamente minore – con i 22 milioni di abitanti cresciuti nel culto della personalità del Grande leader Sung, di suo figlio Jong Il detto Il Caro leader, e dell’ultimo rampollo della dinastia, Jong Un, 30 anni, da due al vertice dell’unica monarchia comunista rimasta al mondo. Crude pellicole di guerra da repertorio accompagnate da commenti anti-imperialisti e musiche d’opera si alternano a film di propaganda sulle atrocità effettivamente commesse prima dai giapponesi e poi dagli americani, con attori che rimettono in scena infinite volte «le imprese gloriose» degli eroi nazionali. Primo tra tutti il generalissimo che fondò nel ’48 la Repubblica popolare democratica di Corea. Era l’anno in cui Orwell scrisse il suo 1984, prototipo letterario della forma di comunismo ultradittatoriale che ha superato di gran lunga il modello originale staliniano ed è rimasta in vigore anche dopo la morte del Grande leader ed Eterno Presidente avvenuta 19 anni fa. Il suo mito è indissolubilmente legato a quello della guerra, conclusa nel 1953 con un armistizio, ma senza trattati definitivi di pace, tanto che da 60 anni a questa parte un cittadino su 20 fa il soldato e uno su 10 è di riserva. Pochi giorni prima del nostro arrivo, un 85enne americano che venne a combattere qui sessant’anni addietro è stato arrestato per aver confidato a qualcuno il suo passato. Lo hanno prelevato al termine di un tour organizzato come il nostro, pochi istanti

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4 (1) «Volontari» si recano a pulire le strade dalla neve vicino Kaesong al confine sudcoreano. (2) Arco di Trionfo a Pyiongyang. (3) Immagini che esaltano l’amore per la guerra nell’asilo della cooperativa modello di Chonsang. (4) Gruppo turistico visita le statue dei due leader

prima del decollo da Pyongyang e con le cinture già allacciate. Quando atterriamo all’aeroporto sormontato da un cielo da neve grigio e minaccioso, le guide locali vestite di nero con gli uomini in cravatta e paltò ci attendono per trasportarci a bordo di due pullman azzurro elettrico verso la prima tappa di un viaggio decisamente orwelliano. Senza nemmeno passare dall’albergo visitiamo i nuovi enormi mosaici dedicati in una delle piazze principali di Pyongyang al Grande e al Caro leader. Offrire fiori è volontario, ma secondo istruzioni compriamo due mazzi da 4 euro – i turisti non usano moneta locale, il won – e ci inchiniamo su due linee parallele per offrirli alle «sacre immagini», prima di trasferirci dopo il tramonto sull’alto della collina di Mansudae. Qui l’omaggio si ripeterà davanti alle statue in bronzo dei padri della patria alte 25 metri e illuminate a giorno. Sono le effigi più importanti dei due leader, padre e figlio, tra le oltre 35 mila censite dieci anni fa e in fase di moltiplicazione a ogni anniversario o celebrazione, assieme alle scritte murali in rosso dedicate al «sacrificio del popolo per lo sviluppo della patria socialista» e al culto del Juche, o dell’autosufficienza e indipendenza da ogni altro modello sociale e politico, compreso quello del comunismo al quale si è inizialmente ispirato l’Eterno Presidente. Infatti Juche «non è una filosofia o un’ideologia» ci spiegano «ma una religione basata sul pensiero del Kimilsungismo, che riadatta in chiave nordcoreana i modelli dell’Urss leninista e della Cina maoista, con l’aggiunta di un pennello alla falce e martello (simbolo della categoria degli intellettuali rivoluzionari) e un’abbondante dose di stretto collettivismo sotto la supervisione del Suryong, traducibile con «Grande Guida». La devozione per la figura paterna e assistenziale del Suryong risale ai principi del Confucianesimo adattati alle mire dei capi degli Imperi coreani cresciuti sotto la costante minaccia di mongoli, soldati cinesi tang e giapponesi. Quanto al Suryong rosso per eccellenza della ideologia Juche, «Egli agisce verso il popolo come fa il cervello, capace di controllare il corpo per farlo muovere in unità e armonia». 3 G E N N A I O 2 0 14

La guida del Juche trascritta «sulla base delle intuizioni di Kim Il Sung degli anni 50 e divenute legge nei 60», non comprende mai la parola comunismo né Marx, Lenin o Mao in nessuna delle sue 102 pagine. Anche la vecchia formula dello Stato «a fondamento marxista» fu tolta dalla costituzione nel 1992, quando l’Urss e la Cina smisero di sovvenzionare gratuitamente la Nord Corea imponendole di pagare le importazioni con valuta pregiata e dando inizio alla grande carestia. Il Congresso del Partito dei Lavoratori di Corea, eleggibile dai soli membri del Comitato centrale, si è riunito per l’ultima volta nel lontano 1980, anno Juche 19 del calendario nordcoreano che comincia con la nascita di Kim Il Sung. Da allora i quadri politici hanno ceduto progressivamente potere all’esercito, ormai al «primo posto» – songun – nella gerarchia dello Stato plasmato dai Generalissimi al vertice. Nel fotografare le loro statue in collina circondate da marmo bianco e sculture gigantesche di guerrieri all’assalto, Chu si raccomanda di «riprendere sempre per intero le graziose figure dei leader», mentre la giovane Pak spiega con commossa partecipazione e le lacrime gli occhi quanto i due Kim siano «ancora vivi nel cuore di ogni coreano». Tanto venerati da far arricciare il naso perfino al leader comunista cinese Deng Xiao Ping. Dopo una visita al mausoleo nel 1977 ironizzò sull’oro usato per verniciare il compagno Sung che all’epoca era ancora in vita, e il prezioso metallo venne rimosso non senza un certo imbarazzo per un Paese poverissimo con appena il 20 per cento di terra arabile, soggetto a ricorrenti e severe carestie come quelle degli anni Novanta costate la vita a due milioni di persone, con livelli di malnutrizione ancora oggi tra i più alti del mondo. Durante una pausa lontana da lapidi e mausolei, Pak spiega che il suo cognome risale a una famiglia etnica del Nord che reclama la discendenza dal Sole, col quale si identifica il Grande leader di questo Paese dove le temperature scendono d’inverno sotto i - 30 gradi. «Quando nacque Kim Jong Il» racconta «il monte Paektu fu sormontato da un doppio arcobaleno». Poco importa se nella realtà vide la luce in un campo profughi russo da mamma Kim 3 G E N N A I O 2 0 14

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4 (1) Il soldato con la tromba sul tetto del Museo di storia in piazza Kim Il Sung. (2) Internet alla Grande libreria del popolo di Pyiongyang. (3) La città nordcoreana di Kaesong, sul confine con il Sud. (4) Kim Il Sung e Kim Jong Il coi bambini nel murale di una scuola

Jong Suk, passata alla storia come un’eroina della guerra d’indipendenza quando non prese mai una pistola in mano. Pak è una ragazza gentile, suonatrice di fisarmonica come molte giovani ex studentesse educate gratuitamente fino ai 18 anni, e a lei è affidata la parte romantica delle istruzioni di viaggio, come la descrizione dei fiori di Kimsungilia e Kimilsungia, mentre il suo collega Chu sarà il nostro indottrinatore politico. «Voi occidentali pensate che siamo stati noi a volere la guerra, è vero?», domanda al microfono tra un trasferimento e l’altro. Senza attendere risposta spiega che no, «la colpa è tutta dell’America, e della prima invasione del Giappone, senza il quale non ci sarebbe stata nessuna altra guerra». E forse – ci viene da pensare – nemmeno il perenne stato di emergenza che si respira a ogni angolo. «Non scattate foto senza autorizzazione, nemmeno dai finestrini» annuncia Chu sulla via per il confine della Zona demilitarizzata a sud di Kaesong. «Ovunque potrebbe esserci un soldato, e se fermano il bus a uno dei check point saremo tutti sottoposti a ispezione». Ma troppo forte è la tentazione di qualche scatto nascosto dai vetri appannati attraverso i quali s’intravvedono figure umane scure e intabarrate a piedi e in bicicletta attraverso campi innevati spogli del riso e del grano appena raccolti, dove perfino i corvi neri si muovono circospetti tra covoni di fieno perfettamente allineati. «Quando è tempo di semina e raccolto tutti aiutano nei campi» spiega Chu, che aggiunge: «Questo è un Paese diverso, cercate di rispettarlo e capite i do e i don’t» (ciò che si può fare e ciò che è vietato). Al termine delle sue istruzioni è chiaro che gli unici do incontrovertibili sono respirare, mangiare e dormire. L’agenzia di Stato nord-coreana ha prenotato in largo anticipo la nostra gita verso il confine «più militarizzato del mondo», come recitano depliant e testi che non mancano di enfatizzare ogni record nazionale, anche un primato non invidiabile come questo, con 15 mila pezzi d’artiglieria e missili puntati verso l’odiato Sud «schiavo degli americani». Senza contare le temute e presunte atomiche. Un odio che non impedisce al governo del Nord di fare affari con

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imprese di Seul e di propagandare l’ideale della Riunificazione sul modello cinese di «Un Paese Due Sistemi» come a Hong Kong. Nella sala dei 718 trattati di tregua mai giunti a pace finale, un ufficiale in divisa verde colma di stellette ci indica con la bacchetta i punti dell’attuale confine stabilito esattamente 60 anni fa lungo il 38° parallelo a sud della ex città imperiale di Kaesong, dove a poca distanza corre un muro di cemento e filo spinato lungo 240 chilometri. Nella grande aula spoglia e fredda con al centro i lunghi tavoli di ferro per le delegazioni, i libri delle firme congiunte di coreani e americani hanno copertine di velluto rosso lise e consunte. Ai muri, foto delle atrocità e delle vittorie di guerra assegnate al Grande leader. Fuori l’abbondante nevicata permette di vedere solo le casematte azzurre dei soldati norcoreani immobili nella tormenta, mentre assieme agli altri turisti scattiamo rapide foto ricordo senza mancare la riproduzione della firma di Kim Il Sung intarsiata in oro su un muro di marmo. Poi tutti a pranzo a Kaesong, in un ristorante rinomato per la zuppa di cane che costa 5 euro extra. Da questa città provengono gran parte dei 50 mila dipendenti della locale fabbrica di macchine agricole finanziata dal Sud che viene regolarmente chiusa e riaperta a seconda del clima politico del momento. A tavola nessuno si azzarda a chiedere che cosa mangiano gli operai quando restano disoccupati. Nel locale museo dedicato alla dinastia Koryo basata sul culto dell’imperatore e dei suoi discendenti – né più né meno che nella moderna repubblica Juche-comunista – scopriamo che a storpiare il nome originario in Korea fu Marco Polo: «Lo pronunciò all’italiana e da allora è rimasto, anche se noi chiamiano il nostro Paese Choson, la Terra delle mattine radiose», spiega la guida locale che si rivolge a noi con un certo dispetto in quanto connazionali del celebre viaggiatore. Ma ogni membro del tour ha un motivo o un altro per sentirsi a disagio, confidato reciprocamente davanti a una birra nel nostro hotel Yanggakdo di Pyongyang, che qualcuno chiama con sarcasmo Alcatraz, su un’isola circondata dal fiume Tadeong a due chilometri dal centro di Pyongyang. Prima del confinamento in stanza per

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4 (1) Ritratto di un matrimonio a Kaesong. (2) Metropolitana di Pyongyang. (3) Pyongyang, alunne ballerine. (4) Odio antiamericano nell’asilo della cooperativa modello di Chonsang. La scritta dice «È un sacco divertente»

la notte – che non esclude l’opzione del pub interno o una puntata al casinò – godiamo però del primo contatto, muto ma ravvicinato, con esseri in carne e ossa nella città di Sariwon. Saremo liberi – entro certi limiti – di fotografare all’aria aperta e pungente del crespuscolo il traffico di biciclette, donne, uomini e bambini a piedi, talvolta vestiti di abiti sgargianti che fanno da piacevole contrasto col mondo in bianco e nero tutto attorno. Sebbene Sariwon ci sembri il più grazioso tra i centri urbani visitati durante l’intero viaggio, osserviamo i grandi casermoni abitativi grigi, squadrati e uniformi citati in un recente discorso di Kim Jong Un. «La scopiazzatura dei modelli architettonici di Pyongyang» c’era scritto nella trascrizione in vendita ovunque «è contro il principio del Juche dell’originalità creativa nelle singole realtà locali». Nel testo non si fa cenno tuttavia all’organizzazione sociale dei residenti, retta sul sistema cosiddetto «dei 5 capifamiglia» che si controllamo l’uno con l’altro. Nei palazzi alti – ha raccontato Bertil Lintner nel suo informatissimo Great Leader, Dear Leader – c’è un informatore per ogni piano e un supervisore ogni cinque, mentre il capo informatore sta al mezzanino per controllare tutti. È il sistema di prevenzione più capillare dopo la suddivisione dei cittadini in tre categorie, il 25 per cento di nucleo o base affidabile, il 20 per cento di vacillanti e il restante di potenziali ostili, ai quali spettano meno razioni, impieghi manuali e frequenti corsi di rieducazione. Anche il Paradiso del Popolo ha il suo purgatorio e un inferno. Dopo tanto viaggiare e visitare cooperative terriere, dighe sull’Oceano, fabbriche di acque minerali e tre stazioni della sontuosa, ma opprimente, metropolitana che funge anche da rifugio antiatomico, sta per giungere infine il momento più atteso del viaggio nel comunismo viscerale che venera religiosamente le reliquie dei suoi condottieri. Se Lenin e Mao giacciono imbalsamati e solitari nei loro sarcofaghi di Mosca e Pechino, il Grande e il Caro leader condividono in due parecchie migliaia di metri quadri, circondati da un canale a trincea nel cuore di Pyongyang, il celebre Palazzo del Sole. Tra marmi, candelabri a cascata e 3 G E N N A I O 2 0 14

foto dei due Suryong a sinistra e destra con l’indice sempre puntato verso l’infinito, fedeli locali e turisti si incrociano lungo la via crucis che dura 20 lunghi minuti, immobili su un tapis roulant. Un rapido sguardo reciproco è il massimo del contatto: abiti scuri e cravatte i primi, lunghe vesti colorate, specialmente di rosso, le loro donne, jeans e qualche rara suite gli occidentali come noi. A tutti è dato il tempo di prepararsi spiritualmente accedendo verso il sancta sanctorum con lenta e voluta solennità, al suono di una musica d’opera che somiglia a We Shall Overcome ma dice: «Benvenuti nel tempio del Juche». Al termine del tragitto, una donna in abito nero tradizionale intarsiato di blu intona con voce rotta dal pianto una cantilena che ci introduce alle spoglie mortali. «Noi vi seguiremo, cari leader, ai limiti della terra. Lealmente vi cureremo fino alla fine del sole e della luna». Manca ormai solo il passaggio attraverso la macchina che spruzza aria per toglierci di dosso la polvere ed eccoci davanti al primo Kim sottovetro. In fila per quattro ci si inchina tre volte di fronte, tre a ogni lato tranne la testa. A giro concluso si entra nella stanza delle medaglie d’onore e delle targhe, come quella di sindaco onorario del comune italiano di Sarzana (mai revocata nonostante le proteste) e dell’ordine di Ceausescu, prima di visitare le stanze con gli ultimi oggetti-reliquia usati dal Grande leader: una Mercedes nera senza un graffio né ruggine, un vagone di treno verde dolomitico dalle poltrone di stoffa, il cui tragitto da nord a sud è riportato nei quadri luminosi alle pareti assieme a quello dei numerosi voli aerei effettuati in 46 anni di regno. La stessa spruzzata d’aria compressa ci purifica per accedere all’ala adiacente del tutto simile dedicata a Kim Jong Il, deceduto nel 2011 per lasciare il posto a Jong Un che è figlio di una delle sue concubine, e teoricamente veniva terzo in linea di successione. Dopo una sfilata di nuove colonne, lampadari e ritratti di padre e figlio stavolta su pareti inverse, si ripetono gli inchini al sarcofago in vetro presidiato da soldati rigidi sull’attenti, la visita alla parafernalia di medaglie e attestati nazionali ed esteri, alla Mercedes nera perfettamente identica a quella paterna, e infine al vagone di treno 3 G E N N A I O 2 0 14

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4 (1) Residui di bombe esposte al museo della guerra. Gli Usa lanciarono 420mila bombe su Pyongyang, una per ogni abitante. (2) Inchino alla memoria dei Cari leader nell’asilo della cooperativa modello di Chonsang. (3) Riproduzione della firma di Kim Il Sung al trattato di divisione sul 38esimo Parallelo. (4) Pyongyang, panoramica sui nuovi palazzi

dello stesso colore, ma con tappezzeria di pelle. Fu un diplomatico russo a rivelare i piccanti retroscena di quei viaggi in treno tra «fiumi di champagne e splendide hostess» a disposizione del Leader e dei suoi ospiti. Ma nel Palazzo del Sole sono eresie punibili con la morte, visto che proprio su quel vagone Kim secondo passò ad altra vita mentre eroicamente lavorava al tavolo ancora colmo di carte dove – sorpresa – troneggia un computer MacIntosh dell’ultimo modello disponibile a quel tempo. In un Paese dove internet funziona solo – se intercettabile – negli alberghi per stranieri e nella grande Libreria del Popolo su Piazza Kim Il Sung, il Mac sul treno del Caro leader è forse l’esempio più calzante del doppio binario su cui viaggia il comunismo dinastico, che vieta al popolo i beni del capitalismo reazionario, ma ne permette il consumo ai leader. Solo chi tra loro osa sfidare il potere assoluto può perdere i privilegi, com’è successo recentemente al potente cognato di Kim Il Sung zio di Jong Un, accusato di aver speso i soldi dello Stato per party boccacceschi e miriadi di amanti, ma soprattutto di aver tentato una scalata al potere di suo nipote Jong Un con i proventi della politica di aperture economiche su modello cinese e di ammiccamenti col nemico americano. La visita finale al Museo della Guerra rinnovato dall’attuale leader dell’eserecito e del partito, riserva il degno monito ai nemici di ieri e di oggi. Piegato col becco sul cuore di un soldato Usa, banchetta un corvo nero nordcoreano. Prima di ripartire col cuore in gola, con l’ansia di fare la fine del povero veterano appena rilasciato dopo le scuse per i suoi crimini, un giovane americano del gruppo ci mostra la foto presa al murale di un asilo nido della cooperativa modello di Chonsang. Bambini con le uniformi dei diversi corpi militari e perfino una crocerossina si accaniscono contro un soldato yankee: «It’s a lot of fun», c’è scritto sopra. «È un sacco divertente». Un odio inculcato per attribuire al nemico imperialista e capitalista anche l’eventuale fame del popolo, ammaestrato fin dall’infanzia all’infallibilità del Juche-comunismo. Raimondo Bultrini

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per una gita fuori porta. È un sabato mattina d’inverno, in un cielo senza nuvole il sole riscalda la ricca metropoli di Seoul, e si può scegliere di visitare il parco di divertimenti Everland o la fortezza Hwaseong. Oppure, come faremo anche noi, si può salire fino a Panmunjeom, al 38° parallelo, a spiare dal confine il mistero della Corea del Nord, Paese in cui per i sudcoreani è impossibile entrare. Il tour della Dmz, la zona demilitarizzata, è molto reclamizzato negli alberghi, e noi optiamo per un’agenzia che chiede, come le altre, 95 euro pranzo incluso. Appuntamento alle 8. Siamo una ventina. Un terzo di giapponesi, un terzo da Oceania e Sud-Est, e poi tedeschi, olandesi e un simpatico pensionato dell’Arizona. Delusione, però: non c’è neanche un sudcoreano. Per loro è infatti molto più complicato, devono fare domanda tre mesi prima, per avere l’autorizzazione dei servizi segreti. Il tragitto in pullman dura un’ora e mezza, e la guida, una donna di 40 anni, ne approfitta per farci un ripasso di storia e bombardarci di raccomandazioni e divieti: «Seguite sempre me. Non parlate mai con le guardie nordcoreane. Non fate gesti strani. Fotografate solo quando lo dico io, altrimenti, per colpa vostra, tutto il tour può essere annullato. Domande?». Sarebbe tutto un po’ comico, non fosse il segno di un mondo terribilmente serio, dove ogni gesto, come è scritto in un documento che dobbiamo firmare, «potrebbe essere usato dalla Corea del Nord come materiale di propaganda contro il comando delle Nazioni Unite» (è scritto anche che esiste «la possibilità di rimanere feriti o uccisi come risultato dell’azione nemica»). La Dmz è un fascione di terra largo 4 chilometri, che copre tutto il confine tra i due Paesi, per 250 chilometri. È stata creata lungo il 38° parallelo nel ‘53, alla firma dell’armistizio dopo la guerra di Corea. La prima tappa è Camp Bonifas, base Onu a 400 metri a sud del confine. Un video racconta tutti gli incidenti avvenuti qui. Noi prendiamo nota, ma la guida ci ammonisce: «Dove stiamo per andare non potrà prendere appunti». Si torna in pullman. Via attraverso campi di riso e

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Gita al confine della realtà tra le due Coree DA SEOUL SI ORGANIZZANO TOUR PER VISITARE LA TERRA DI NESSUNO CHE DIVIDE IL SUD DAL NORD. MOLTI TURISTI E POCHISSIMI LOCALI. CHE GUARDANO CON SOSPETTO A UN’IPOTESI: LA riunificazione di Daniele Castellani Perelli

ginseng, filo spinato e terre minate, e otto chilometri dopo siamo finalmente a Panmunjeom. Eccola la frontiera, la Joint Security Area. Davanti a noi i capannoni blu della Conference Row, attraversati letteralmente dal confine. Subito oltre, e per noi off-limits, la Corea del Nord, con piccoli soldati vestiti di marrone davanti all’edificio dove vengono accolti i loro turisti. «Al mio via potete girarvi e fare le foto. Via! Avete un minuto!». Obbediamo, tutti eccitati. «Quelle laggiù sono guardie nordcoreane?!», si assicura un malese. Clic, clic. Fuori dal capannone centrale stazionano soldati del Sud vestiti di verde petrolio: occhiali scuri coattissimi, stanno immobili, rivolti verso il Nord, i pugni ai fianchi, in «posizione intimidatoria». Entriamo. Qui, a questo tavolo, ci si siede per i negoziati. Clic, clic. Poi ripar1 tiamo. Dal pullman spiamo i due unici

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villaggi della Dmz, a un miglio l’uno dall’altro. Uno è del Sud ed è chiamato Freedom Village: duecento contadini isolati dal mondo, rimasti qui perché non si pagano le tasse e non si fa il servizio militare (che è obbligatorio e dura due anni). L’altro è del Nord e qui lo chiamano Propaganda Village: pare sia disabitato, fino al 2004 sparava discorsi attraverso un megafono, e vi svetta la terza bandiera nazionale più alta del mondo (così voluta per umiliare quella, più piccina, del Freedom Village). Dopo aver pranzato in una specie di osteria coreana, infiliamo un elmetto giallo e scendiamo nel Terzo Tunnel, uno dei quattro percorsi sotterranei scoperti dal

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(1) La bandiera nord-coreana che svetta sulla zona di confine: è la terza più alta del mondo. (2) Un soldato sud-coreano sulla linea di confine. I militari stanno a cavalcioni tra le due Coree: il piede destro a Sud e il sinistro a Nord. 3) Il terzo tunnel costruito dai nord-coreani per invadere il Sud. (4) Un soldato sud-coreano nella zona di nessuno tra le due Coree, nel villaggio di Panmunjom

Sud tra il ‘74 e il ‘90, attraverso i quali il regime progettava un’invasione. Poi, finalmente, il negozio dei souvenir, dove ci scateniamo tutti. T-shirt, tazze, persino liquori nordcoreani, e noi portiamo a casa due soldatini e una pallina delle Nazioni Unite. Certo, è un peccato che non ci sia nessun giovane sudcoreano con cui parlare. Secondo un sondaggio, almeno un terzo

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EOUL. Oggi è un giorno perfetto

dei ventenni è contrario a una possibile riunificazione, e in generale il consenso è passato dal 92 per cento del 1994 al 64 del 2007. Eppure la riunificazione, per la quale dal ‘69 esiste anche un ministero, è un obiettivo iscritto nella Costituzione, e le è dedicata anche una grande piazza vicino alla Casa Blu, la sede della Presidenza. «Ai ventenni non importa nulla dei nordcoreani» ci ha detto qualche giorno prima, a Seoul, Nana, 33 anni, impiegata. «Ai trentenni come me importa di più, perché uno studio ha calcolato che pagheremmo 50mila dollari a testa per la riunificazione. E io proprio non li ho». Le due Germanie sono rimaste divise 41 anni. Le due Coree, altro prodotto della Guerra Fredda, lo sono già da 68. Ma se tra le due Germanie il rapporto dei redditi pro capite era di 1 a 3, qui siamo già a 1 e 15. All’Assemblea Nazionale abbiamo incontrato i rappresentanti giovanili dei due maggiori partiti sudcoreani. «Noi odiamo il regime, ma i nordcoreani sono nostri fratelli. La mia generazione, individualista, lo sta dimenticando», spiega Moon Soo-Hoon, 24 anni, del Partito Democratico, che dice di non aver mai conosciuto un nordcoreano, mentre Jang Hyo-Jeong, 23 anni, del centrodestra al governo, sa che nella sua università ci sono dei rifugiati, però «sono sempre tra di loro, è difficile avvicinarli». Sono le 17, è ora di tornare a casa. C’è stato un rimescolamento nei pullman, e chi ci sembra di scorgere? Una rarissima turista sudcoreana. È così? «Sì, sono di Seoul», risponde Kim Heain, 23 anni, studentessa, sciarpa arcobaleno su una giacca rossa. «Finalmente una giovane interessata ai fratelli del Nord!», ci congratuliamo. «Macché» risponde lei. «Sto solo accompagnando un amico tedesco, altrimenti non mi sarebbe mai passato per la testa. A noi poco interessa dei nordcoreani, perché non ne sappiamo niente». La riunificazione vi fa paura? «Molto più di una guerra, che vinceremmo facilmente. Invece la riunificazione la pagheremmo con le nostre tasche, sulla nostra pelle. Eppure...». Eppure? «Alcuni miei amici sono a favore. Dicono che la distanza tra noi e loro sta aumentando troppo. Che tocca a noi. Perché se la riunificazione non la fa la nostra generazione, non la farà più nessuno».

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Nell’immagine grande il logo della rivista marxista Jacobin (a sinistra una copertina). In basso a destra, il nuovo sindaco di New York, Bill de Blasio, ex socialista, oggi esponente della sinistra del partito democratico

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La rivoluzione in America? È una tigre di carta NASCONO (O SI RINVIGORISCONO) LE PUBBLICAZIONI DELLA SINISTRA MARXISTA USA. CHE, IN QUANTO A MILITANTI, HA UN ESERCITO DI panda, MA CHE NON È PIÙ CONSIDERATA NEMICA DELLA PATRIA di Riccardo Staglianò

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EW YORK (dal nostro inviato).

La rivoluzione sarà rilegata. Alla Barnes&Noble di Union Square, la libreria il cui caffè si trasforma spesso in temporanea base operativa per anarchici e socialisti newyorchesi, il nuovo pantheon siede immobile sullo scaffale delle riviste. I neonati Jacobin e The New Inquiry. L’adolescente n+1. L’anziano ma rinvigorito Dissent. Per citarne solo alcuni, tacendo della collana Pocket Communism della gloriosa Verso, portabandiera della New Left britannica, a pochi metri di distanza, tra i libri. La sinistra è morta, viva l’editoria di sinistra. Rianimata da editor ventenni, per un pubblico (mentalmente) giovane, che vuol fare di tutto per smentire la profezia del

pur amatissimo Slavoy Žižek su Occupy Wall Street: «I carnevali costano poco. Quello che importa è il giorno dopo». Loro ci sono ancora. Nonostante le varie dichiarazioni di morte presunta, come quella che si desume da un utile rapporto del locale istituto Rosa Luxenburg: «La sinistra (americana) è dura da trovare e ancor più da definire». Soprattutto se sei europeo, abituato all’equivalenza tra politica e partiti. Che qui conduce solo a frustranti aporie. Tipo credere che il Communist Party Usa, un martello e una specie di falce stilizzata nel logo, abbia qualcosa a che fare, non dico con la rivoluzione permanente, ma almeno con un progressismo radicale. Il suo segretario si chiama Sam Webb, sessantenne laureato in economia nel Connecticut. L’ultima apparizione sulla stampa borghese risale al 2006. Due battute su Forbes: «Cos’è per me il denaro? Ciò di cui la maggior parte di noi dispone troppo poco, nonostante gli sforzi dell’amministrazione Bush». Mi era sembrata un po’ moscia come affermazione. Lo contatto via posta elettronica prima di partire. Niente. Riprovo e metto in copia un paio di assistenti. Ancora niente. Chiedo a Nikil Saval, introdottissimo editor del trimestrale n+1, che mi fornisce altri contatti. I comunisti mangiano le email? Mi presento alla loro sede, sulla ventitreesima strada. Un sorridente pensionato alla reception interpella un cinquantenne dell’organizzazione che mi rassicura: «La chiamerà oggi stesso». Sto ancora aspettando. Forse l’indisponibilità, deduco da una serie di altri incontri, deriva dall’imbarazzo ad ammettere un annacquamento, quello sì radicale, rispetto alle origini («Sono diventanti ragazze pon pon di Obama» è la clausola più definitiva sul loro conto, copyright Bashkar Sunkara, che conosceremo a breve). Larry Moskowitz era uno di loro. Ci vediamo in un ristorante messicano con menu fisso a 12 dollari e 95. A sessantasei anni un po’ sofferti è un uomo dall’espressione mite che ha imparato a tagliare i costi privati prima che diventasse una perniciosa ideologia pubblica. Vive a Inwood, sopra il Bronx, al canone calmierato (600 dollari) di un box auto altrove. Ha una pensione sociale di poco superiore e comunque tale da fargli rubricare un incisivo e un canino mancanti tra

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i beni di lusso. «Perché li ho lasciati? Perché non c’era margine di dissenso e detestavo il centralismo democratico. E soprattuto perché mancava il legame con i lavoratori». Così, nella migliore tradizione scissionista, cinque anni fa ha dato vita al Left Labor Project. «La nostra principale vittoria? Aver fatto rimettere il Primo maggio tra le festività». Si incontrano una volta al mese («3040 persone, di più quando abbiamo ospiti famosi») tassativamente dalle 18 alle 20 perché «è un principio di classe: la gente prima lavora e comunque non ha tempo da perdere». Collaborano con i sindacati, con organizzatori locali su campagne specifiche. «In Europa siete da sempre più a sinistra di noi. Qui è già tanto dedicarci a battaglie più circoscritte, come i diritti dei neri». Se proprio dovesse dire, a Lenin preferisce Bakunin,

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Una statua di Lenin sul tetto del Red Square Building, a New York, nell’East Village. E una manifestazione del 2011 di Occupy Wall Street, il movimento che ha rilanciato la battaglia per una maggiore equità sociale negli Stati Uniti

socialista libertario, che voleva saltare la «dittatura del proletariato» per paura che da fase intermedia diventasse permanente. E che prediligeva le «azioni dirette» del popolo, come la restituzione delle case confiscate ai vecchi proprietari in stile Occupy. Prima di procedere facciamo due conti: trenta persone a New York è come dire nove persone a Roma. A spanne i membri del Communist Party saranno tre-quattromila. Quelli dei Democratic Socialists of America, il più robusto raggruppamento, circa settemila. Il Socialist Party Usa, che ha sede in

uno sgarrupato trilocale del Lower East Side, è frequentato come una bocciofila d’inverno. Anche alcuni successi editoriali di cui va giustamente fiera Audrea Lim, la trentenne editor di Verso che incontro in un bar di Brooklyn, vanno da poche migliaia alle quarantamila di Žižek, che però è una star globale. Dividete almeno per cinque per un confronto con il mercato italiano. Piccoli numeri (crescono). Lo stesso Žižek è protagonista all’Ifc Center, il cinema d’essai più ortodosso del Greenwich Village, di A Pervert’s Guide to Ideology, un documentario in cui il filosofo marxista disseziona l’immaginario collettivo, dalla fenomenologia degli ovetti Kinder all’ideologia subdola de Lo squalo. Alle 10 di mattina, con fuori un sole incongruo, una ventina di persone sono pronte a immolarsi per due ore e venti davanti alle digressioni del pensatore barbuto che tiene un poster di Stalin sul letto. Ma questa è New York, dove L’insurrezione che viene, libello culto degli indignados globali, si trova nella sofisticatissima libreria del New Museum di Soho. La città più economicamente iniqua del mondo che può vantare una statua di Lenin su un palazzo che si chiama Red Square e che punta il dito ammonitore verso Wall Street. Dicevamo della nouvelle vague marxista. Bhaskar Sunkara, 23 anni da Trinidad, ne è il campione. Ci incontriamo a Bedford Stuyvesant, la zona di Brooklyn che era sinonimo di paura e dove Spike Lee ha ambientato il suo Fa’ la cosa giusta, dove ha casa e ufficio. Nel 2010, reinvestendo i soldi presi a prestito per l’università, questo ragazzino con la barba nera e la camicia bianca ha fondato Jacobin, una rivista marxista senza gli ermetismi e l’odore di muffa tipici del genere. Tre anni dopo, con cinquemila abbonati, ha doppiato quelli di Dissent che è su piazza dagli anni 60 e il sito viene visitato ogni mese da 250 mila persone. «Non mi piace il termine comunista. Per la disastrosa incarnazione sovietica che richiama. E anche il dibattito tra rivoluzione e riforma mi sembra superato. Piuttosto “riforma non riformista”, alla André Gorz, ovvero che non trascuri i bisogni sociali odierni senza rinunciare a una modifica strutturale. Il socialismo che vorrei estende il welfare, riduce la disoccupazione e introduce un reddito di cittadinanza». 3 G E N N A I O 2 0 14

In un editoriale recente ha scritto che «il problema della sinistra non è che è troppo austera e seria, ma che non si prende sufficientemente sul serio per fare i cambiamenti necessari». Una piattaforma sanamente socialdemocratica, nonostante le suggestioni iconografiche di cui l’appartamento è pieno. Tipo la foto di Lenin trattata alla Andy Warhol come sfondo del computer. Le antologie dei discorsi di Castro e di Chávez, di scritti zapatisti e una biografia di Trotzski («lui distribuiva i giornali per strada, non aspettava che fosse la gente ad andarlo a cercare»). Interventismo che condivide. «Insieme al sindacato degli insegnanti di Chicago, tra i più attivi del Paese, abbiamo realizzato un manualetto, da distribuire gratuitamente, che spiega perché l’ideologia neoliberista è sbagliata». Impaginato bene, non penitenziale come certi tomi degli Editori Riuniti anni 70. E la gente se lo legge. Se vuoi che il messaggio passi non puoi prescindere dal linguaggio. L’hanno capito anche a Dissent, che di recente ha stupito il suo lettorato tradizionale con un pezzo su un artista del rimorchio a Copenaghen. «C’è un tipo che scrive guide su come portarsi a letto le ragazze all’estero. In Danimarca è andato in bianco, e la sconsiglia a tutti» mi spiega Sarah Leonard, trentenne editor della nuova leva, nella stanzetta-redazione vicino alla Columbia University. «Partendo da questo dato abbiamo imbastito un reportage sull’uguaglianza dei sessi, divertente e documentatissimo. Un buon esempio del nostro nuovo stile». L’età media delle quattro persone della redazione è sui 25 anni («Direi che siamo più a sinistra di Michael Walzer», condirettore emerito). Ciò che la rivista si propone è dare un contesto culturale ai lettori. «Se si discute dei costi dell’istruzione è importante, ad esempio, ricordare che Cuny, l’università pubblica, prima era gratuita e ora costa 8000 dollari all’anno. Se hai vent’anni puoi non saperlo. Noi diamo quella prospettiva, indispensabile per fare confronti tra ieri e oggi». La stranezza, rispetto alla scena editoriale cui siamo abituati, è che qui tutti parlano bene dei concorrenti. Non pretendono primigeniture. Addirittura collaborano. Ne sa qualcosa la fondazione Rosa Luxenburg. Capitolo americano dell’ente legato 3 G E N N A I O 2 0 14

In alto, tre giornali online della nuova sinistra americana. Qui sopra, a sinistra, Bhaskar Sunkara, 23 anni, di Trinidad, fondatore di Jacobin, e, a destra, Audrea Lim, editor della casa editrice Verso

al partito socialista tedesco Die Linke, ha per missione quella di studiare i processi sociali e produrre convegni e rapporti. Il direttore Albert Scharenberg ha mappato la sinistra americana e se gli chiedi di riassumerla comincia parlando di scioperi di lavoratori dei fast food, di movimenti ambientalisti contro un gasdotto, di organizzatori locali che mobilitano piccole comunità, di singoli giornalisti influenti. Poi, dopo quindici minuti buoni, accenna alla costellazione di partitini tipo i comunisti renitenti alle email che abbiamo incontra-

to. «La loro influenza all’interno dei Democratici è minima. Ma in generale i partiti sono diversissimi dai nostri, basti ricordare che tutti possono votare alle primarie e nessuno può essere espulso». Più il fattore soldi che li condanna alla marginalità. In un sistema ferocemente bipolare, dove il vincitore prende tutto, non c’è spazio per i piccoli («Una campagna nazionale costa una fortuna»). Sono i giorni di Bill de Blasio neo-sindaco. Agli occhi di un italiano sembra una gran vittoria per la sinistra. Ma la circostanza che a tanti occhi americani Grillo sembri la prova ontologica della democrazia dal basso mi suggerisce cautela sugli entusiasmi stranieri. Doug Henwood, fondatore della newsletter Left Business Observer e padrino intellettuale di Sunkara e altri giovani radicali, mi dice che anche lui ci sperava, ma che le prime nomine che ha fatto sono di personalità vicine ai palazzinari. Tutto dipende dai punti di partenza, ovvio, ma come Obama sembra più sexy di Letta, anche de Blasio sembrava più carismatico di Marino. Anche al netto dell’esterofilia. La vera buona notizia, per il patchwork che abbiamo chiamato sinistra americana, risale a due anni fa. Nella fascia 18-29 anni, per la prima volta coloro che vedevano positivamente il socialismo superavano quelli negativi (49 contro 43 per cento), sorpassando anche le simpatie per il capitalismo (46 per cento). Succedeva tre mesi dopo Occupy Wall Street, il grande Gerovital del progressismo statunitense. Fino al 2000 chi voleva entrare negli Stati Uniti doveva rispondere a una grottesca domandina: «Hai fatto parte di organizzazioni comuniste?» (che sopravvive nel formulario I-485 per l’immigrazione in pianta stabile). Oggi nelle librerie trovi L’ipotesi comunista di Alain Badiou, un libretto rosso che ricalca graficamente quello di Mao, presentato come Un nuovo programma per la sinistra dopo la morte del neoliberalismo. Qualcosa è cambiato. Quanto al decesso cui allude, fa venire in mente il commento di Mark Twain circa un erroneo necrologio che lo riguardava: «È una notizia largamente esagerata». Le riviste marxiste, giovani talpe, avranno ancora di che scavare. Riccardo Staglianò

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Nel Paese della Falce levante QUELLO GIAPPONESE È IL SECONDO PARTITO COMUNISTA TRA LE POTENZE DEL G8. LO CHIAMANO iceberg rosso PERCHÉ È IN RAPIDA EMERSIONE. CON UN PROGRAMMA DI SOLI CINQUE PUNTI, CONQUISTA SEGGI E TESSERATI di Silvio Piersanti

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OKYO.Domanda da un milione di

yen ad un Lascia o raddoppia? televisivo giapponese: «Qual è il secondo partito comunista, tra i Paesi del G8? La risposta tanto esatta quanto sorprendente è: quello giapponese. Il ruggito del coniglio, il Paese della Falce levante ed altre ironiche definizioni non intaccano una realtà inoppugnabile: il Jcp (Japanese Communist Party), o, in giapponese, Nippon Kyosanto, è secondo solo a quello della Francia, tra i partiti comunisti degli otto grandi. Nelle ultime politiche del luglio scorso ha ottenuto 8 seggi nella Camera dei deputati e ha quasi raddoppiato quelli nella Camera alta (il nostro Senato), conquistandone 11 rispetto ai 6 della precedente

KOJI SASAHARA / AP

Al centro della foto grande, il segretario del Japanese Communist Party Kazuo Shii. In basso, il simbolo del partito: una ruota dentata e una piantina di riso. Ovvero, operosità industriale e lavoro agricolo

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(1) Durante la Marcia del riso del 1947, l’allora segretario del Jcp Sarizo Nozaka arringa i lavoratori. (2) Il premier liberale Shinzo Abe: per lui, l’opposizione più insidiosa è quella del piccolo partito comunista. (3) Materiale di propaganda del Jcp. (4) Il quotidiano Akohata. Ha 1,5 milioni di abbonati. (5) Una manifestazione a Tokyo

consultazione elettorale, superando largamente il minimo necessario per avere il diritto di avanzare proposte di legge. E il buon stato di salute della piccola formazione politica appare confermata anche ai livelli prefettizi e municipali: rispettivamente, 105 seggi su 2.725, e 2.661 su 32.070. Dopo il LDP (il partito al governo), il Jcp è quello che ha ricevuto più consensi nelle megalopoli Tokyo e Osaka.

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Il Jcp è il più vecchio partito politico del Paese del Sol levante: fondato clandestinamente nel 1922, ha sobriamente celebrato da pochi mesi il suo novantunesimo compleanno in un relativamente sereno clima di democrazia, ben diverso dalla dura vita di fuorilegge sofferta per un quarto di secolo, sotto la continua e feroce repressione del potere imperial-militare. Il Jcp si gloria, giustamente, di essere stato l’unico partito a opporsi al coinvolgimento del Giappone nella seconda guerra mondiale. Fu solo nel 1945, quando le forze di occupazione restituirono al Paese libertà di associazione politica, che poté riprendere il suo posto alla luce del

sole nell’agone politico, conquistando 35 seggi alla Camera dei deputati, alla prima prova elettorale nel 1949. Dopo una débâcle elettorale nel 1952 , dovuta principalmente a divisioni ideogiche interne scatenate dalla guerra di Corea, si è gradualmente ripreso ed ha sempre potuto contare su una media oscillante tra il 5 e il 10 per cento dell’elettorato nazionale. Gran parte dei voti (e delle donazioni) vengono da sindacalisti, insegnanti, intellettuali, studenti universitari. Relativamente pochi dagli operai, troppo fedeli ai propri datori di lavoro per aderire a un partito «rivoluzionario». Il Jcp può oggi contare su circa 415 mi3 G E N N A I O 2 0 14

la tesserati, con un costante aumento di iscritti di circa mille al mese. Stampa e distribuisce su scala nazionale un quotidiano, Akohata (Bandiera Rossa), che raccoglie 1,5 milione di abbonati. La bandiera rossa del partito mostra una ruota dentata, simbolo dell’operosità industriale e una piantina di riso, icona del lavoro agricolo. È lecito domandarsi come mai il Jcp sia sfuggito alla pressoché globale sgretolamento dei partiti comunisti. Ed è invero difficile capire come sia possibile che dia vita a un partito comunista in grado di raccogliere crescenti suffragi elettorali un Paese che adora il proprio imperatore, figura inaccettabile dal pensiero marxista. Un Paese che ha avuto come nemici storici la Russia zarista, quella sovietica e quella post-sovietica; la Cina imperiale, quella di Mao e quella neo-capitalistica; e, per ultima, ma non ultima, la Corea del Nord con le sue minacce atomiche. In realtà, di comunista nel Jcp c’è solo il nome. Il partito non aspira a nessuna rivoluzione. Vuole solo pacificamente guadagnare seggi fino a diventare partito di maggioranza relativa in modo di poter lavorare concretamente alla realizzazione del suo programma, condensabile in cinque punti. Li elenca sinteticamente il capo del Jcp, Kazuo Shii: «1 Abrogazione del trattato di sicurezza con gli Usa, che lega il Giappone mani e piedi alla politica estera americana, e graduale smantellamento delle oltre 130 (centotrenta) basi militari americane in territorio giapponese. 2 Piena sovranità economica e quindi rifiuto di adesione al trattato Tpp (Trans-Pacific Parternship), che il Jcp considera una trappola per mettere l’intera area del Pacifico sotto l’egemonia tariffaria di Washington. Non a caso, le trattative tra i dodici Paesi del Tpp sono state definite “le più segrete della storia dell’economia mondiale”. 3 Approfondimento delle responsabilità del Giappone nelle guerre di aggressione combattute dall’esercito imperiale nel secondo conflitto mondiale e il riconoscimento di dovere profonde scuse ed adeguate compensazioni alle famiglie delle vittime. 4 Definitivo e totale abbandono della politica nucleare che il governo di centrodestra guidato dal liberale Abe continua a 3 G E N N A I O 2 0 14

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incrementare nonostante il triplice disastro di Fukushima. 5 Adamantina difesa della Costituzione (anche se imposta dagli americani), con particolare riguardo all’articolo 9 che proibisce in modo assoluto al Giappone il ricorso alla guerra». Il Jcp è sempre stato coerente con questo suo scarno, ma chiaro programma. Non ha mai accettato compromessi. Non ha fatto alleanze politiche incoerenti. È a questo suo nitore politico che deve gran parte del suo successo, in controtendenza rispetto agli ex partiti comunisti del mondo. C’è anche una deriva revisionistica transazionale da cui il Jcp trae indirettamente consensi: si stanno, infatti, recuperando a livello globale alcuni valori del marxismo , distinguendo tra teoria marxista e politica comunista. Recentemente gli ascoltatori radio della Bbc, invitati a scegliere il loro filosofo preferito hanno optato per Karl Marx, surclassando mostri sacri del pensiero

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BETTMANN / CORBIS

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come Platone, Aristotele, Socrate e Tommaso d’Aquino. Molti mettono un ritratto di Marx nella loro Bibbia e altri, come numerosi clienti dell’istituto bancario tedesco Sparkasse Chemnitz Bank, hanno chiesto di avere l’immagine di Marx stampata sulla propria credit card. Tra i più recenti tesserati del Jcp c’è Ikuko Kosodate, madre di dieci figli, che si dà da fare per avere l’undicesimo in modo di poter finalmente avere una sua squadra di calcio. C’è Yoko, una ragazza sexy di 25 anni che salta da un lavoro all’altro e indossa sempre occhiali neri e un impermeabile sotto il quale – si mormora – cela una frusta per giochi sado-maso. E ci sono poi altri sei personaggi altrettanto strambi, che animano il Proliferation Bureau (Ufficio Proliferazione). Sono tutti protagonisti di una serie satirica di cartoni animati realizzati dal partito per catturare l’interesse dei giovani. Missione compiuta: godono infatti di grande popolarità fra i teenager. T-shirts e diversi gadget ispirati ai cartoon, incluso un megafono usa-e-getta in cartone, vanno a ruba. Un investimento finanziario importante da cui il partito si aspetta un grande ritorno in termini di nuove iscrizioni. La potenzialità di consenso politico del Jcp è sintetizzata bene nel nomignolo con cui viene spesso identificata dall’opinione pubblica: Iceberg Rosso. È l’unica forza di vera sinistra all’opposizione e se la coalizione capeggiata dal liberale Shinzo Abe attualmente al potere dovesse naufragare, il ruggito del coniglio potrebbe tramutarsi nel possente ruggito di un vero leone (leone marino, visto che siamo dalle parti di un Iceberg). Silvio Piersanti

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EVERETT / CONTRASTO

Narcisismo dialettico, ultima spiaggia PARLA Slavoj Žižek, ECCENTRICO FILOSOFO MARXISTA E LACANIANO. CHE CARBURA A COCA LIGHT, SCOMMETTE SULLA POLITICA DELLE PASSIONI E, PROVOCANDO, BUTTA LÌ: «PERSINO STALIN NON ERA POI COSÌ MALE»

A sinistra, nella scena di un documentario dedicato a Hitchcock, il filosofo sloveno Slavoj Žižek, 64 anni. Sotto, due suoi saggi recentemente usciti in italiano da Ponte alle Grazie: In difesa delle cause perse (2009) e Meno di niente (2013)

di Giacomo Papi

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Republic). Zizek utilizza il pensiero debole per ILANO. Parla con la zeppola come Paperino, saltellando dall’in- proporre un pensiero fortissimo, schierato In glese al francese al tedesco – «ma difesa delle cause perse (sempre Ponte alle Gracapisco anche l’italiano, l’ho im- zie), cioè delle «politiche totalitarie della moparato a Capodistria da bambino guardando dernità», Stalin compreso. Si tratta di contiPerry Mason sulla Rai» – e intanto spara bar- nuare a fallire, dice Žižek citando Beckett, zellette sporche a raffica, cita filosofi, cantan- solo bisogna farlo meglio. Lo incontro per capire che cosa rimane ti e serial tv. È un turbine intelligente che mulina le mani nel vuoto toccandosi il naso di oggi – se qualcosa rimane – dello spettro che continuo e ha due occhi fuori asse che non sai terrorizzò metà del genere umano e diede se vedono tutto o non si accorgono di niente. speranza a tutti gli altri. Ma mentre lo ascolSlavoj Žižek, pensatore sloveno marxista to parlare e scruto i suoi gesti, non riesco a lacaniano, «è nato, scrive libri, morirà», recita decidere se ho di fronte l’ultima scintilla del la vezzosa aletta del suo ultimo libro Meno di comunismo o l’ennesimo travestimento delniente. Hegel e l’ombra del materialismo dialet- la merce. Sul suo tavolino ci sono due lattine tico, (Ponte alle Grazie, pp. 702, euro 29). di Coca Cola Light. Io, per coincidenza, ho in Nell’attesa scatena la fantasia dei giornali: «Il mano la bottiglietta. «È strano parlare di gigante di Lubjana» (lo definisce Village Voice) comunismo davanti a uno dei simboli del capitalismo», gli dico per romè «un monumento alla vera creapere il ghiaccio e Žižek parte, tività e al vero rigore» (assicura il Tra le molte come se fosse stato acceso: «È Times), «un vero provocatore» ingenuità stato dimostrato che ai ratti che (sostiene il Los Angeles Times), dei cinici c’è bevono Coca Cola gli si rimpicaddirittura «il filosofo più perico- quella di ciolisce il cervello, lo sapeva?». loso d’Occidente» (secondo New sottovalutare

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la forza storica delle illusioni

Scuoto la testa. Continua: «Coca makes more stupid, ma a me piace lo stesso». Afferra la lattina di Light: «È un’operazione di puro marketing, lo sapeva?». Scuoto la testa di nuovo. «Hanno scoperto con un’indagine di mercato che la Light non piaceva agli uomini perché pareva da gay, e così si sono inventati la Zero, che è identica, solo con un pochino d’amaro in più, ma gli uomini la bevono perché non fa ingrassare senza sembrare effemminata». Se il marketing è così potente, gli chiedo, se la merce ci influenza così in profondità, che spazio rimane per il comunismo? Il cervello di Žižek si mette a girare, fa quasi rumore, sembra una turbina. Manda giù un altro sorso: «È che se dimentichi implicazioni e pubblicità, la Coca Cola ha ancora sapore di medicina». Chissà se nei sistemi comunisti le cose avevano meno implicazioni. Se erano più cose, e meno merci. Quando il mondo sovietico finì di cadere, Žižek aveva 44 anni e abitava alla periferia di quel crollo, in Jugoslavia. Da allora sono passati vent’anni. Ha un sussulto, sembra since3 G E N N A I O 2 0 14

ramente sorpreso: «Pensavo che fosse successo prima…». Qual è il suo primo ricordo? Ci pensa un po’ su, parlando a caso, poi cattura la risposta: «Un’intervista della Cnn a Henry Kissinger, l’ex Segretario di Stato americano. Cercava di descrivere la nuova situazione in termini oggettivi e razionali. Capii che i cinici sono i più ingenui di tutti perché ignorano il potere delle illusioni, che possono essere sbagliate, ma sono estremamente potenti. A muovere la storia non sono interessi e razionalità. Sono le illusioni. Non esiste banking senza illusioni. È questa la mia critica al capitalismo». Ma è anche la forza creativa del capitalismo, la sua potenza. La capacità di trasformare ogni cosa, perfino l’interesse oggettivo e concreto, perfino il denaro, in un idolo, si fonda su un meccanismo religioso. Da buon postmoderno, Žižek risponde citando: «Ayn Rand, la pensatrice americana, sosteneva che il denaro e le merci svolgono una mediazione tra le persone. Se li abolissimo avremmo relazioni di dominazione diretta». Se il 3 G E N N A I O 2 0 14

denaro non è il nemico, bisogna rassegnarsi a che tutto sia merce? Non è la sconfitta del comunismo il fatto che oggi, per comunicare, anche un filosofo comunista come lei debba trasformarsi in una pop star e dunque, di fatto, in un prodotto commerciale? Con la testa fa contemporaneamente SÌ SÌ e NO NO: «Se lei vuol dire che mi sono venduto al sistema e bla bla bla… Ok, No Problem with this. Ma per me ciò che conta è l’effetto dei miei libri: svegliare le persone dal sonno dogmatico, cioè dal pensiero unico liberista». Anche al prezzo di trasformarsi in merce? «Anche Che Guevara è una megamerce. Stalin era superfetish… Posso immaginare una società senza merci, ma

non senza feticismo. L’alienazione è immanente a ogni linguaggio». Ho l’impressione che per lui l’intera realtà, anche la storia, sia una distesa di simboli, un immenso testo con cui giocare. Per questo può sostenere qualsiasi tesi, perfino che Stalin salvò «l’umanesimo russo», perché non trattava gli oppositori da macchine, ma li processava uno a uno come persone. Ma se tutto è linguaggio, se il pensiero è la psicanalisi del nostro immaginario, allora il mondo e l’uomo arretrano nell’irrilevanza. Che cos’è il comunismo per lei? «È ripensare il sistema: cose come la proprietà intellettuale, la privacy, l’ambiente. Faccio sempre l’esempio del gatto che cammina sul cornicione: finché non cade è in equilibrio. Per me è comunista criticare l’organizzazione della nostra vita attuale. In questo senso considero il mio amico Julian Assange un comunista». L’uguaglianza rientra tra le cose da rimettere in discussione? «Uguaglianza? Per me non è un concetto comunista», dice, «è un’idea del radicalismo». Non c’è lotta di classe, nel suo pensiero. Non ci sono nemmeno le classi. Scrive che la felicità, da diritto, oggi, si trasforma in dovere, ma nelle sue parole la felicità non è neppure all’orizzonte. Qui il discorso ha un altro scarto. Žižek pensa a zig zag, più come David Foster Wallace che come Hegel. Non è per nulla sistematico. Per questo idolatra i pensatori che lo sono. È intimamente anarchico. Per questo è attratto dal totalitarismo. Ricorda i personaggi del Mago di Oz che riescono a diventare quello che non sono. Lei crede che il comunismo arriverà prima o poi? Si stringe nelle spalle e sbuffa: «Boh. Non credo alla necessità della storia. Non sono un determinista. Mai stato. Sono un narcisista teoretico. Come Marx. In una lettera a Engels scritta durante la Comune di Parigi si arrabbia perché non l’aveva prevista. Scrive che non è il momento perché il capitalismo non era ancora finito. Fuck the revolution!». Appare stanco, adesso. Sfiancato dai pensieri che gli scoppiettano in testa a migliaia e gli escono di bocca sotto forma di parole piene zeppe di S. Là fuori potrebbero agitarsi Spartaco, Masaniello, cosacchi, sanculotti e tutti i forconi della storia, ma qui dentro non ce ne accorgeremmo nemmeno.

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