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Sotto, i partigiani della Volante Rossa. Il gruppo agì a Milano nel dopoguerra
ERANO partigiani CHE, A GUERRA FINITA, CONTINUARONO A COMBATTERE E A UCCIDERE I FASCISTI. FINO A CHE FURONO SCARICATI DAL PCI E CANCELLATI DA TUTTI I TESTI DI STORIA. UN LIBRO LI RACCONTA
Bicicletta e pallottole, la leggenda noir della Volante rossa di Matteo Tonelli
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OMA. C’è chi li ha liquidati come
dei semplici assassini. Dei pistoleros senza scrupoli. Più Romanzo Criminale che Resistenza. Gente che, nel 1945, a guerra finita coltivava il sogno di una Repubblica Rossa. Mitizzati, poi cancellati dalle pagine di storia. Troppo imbarazzanti per un partito, il Pci, di cui erano figli e che prima li ha «usati» e poi rimossi con imbarazzo. Facendo calare su di loro la damnatio memoriae. È una storia negata quella della Volante Rossa, il gruppo di partigiani che, nella Milano del 1945, continua combattere armi in pugno. Non più sui monti, ma dentro le città. Sono pochi, non più di 50, giovanissimi: dai 14 ai vent’anni. Li guida Giulio Paggio, «il tenente Alvaro». Uno che, il 10 agosto del 1944, davanti ai 15 partigiani fatti fucilare dal capitano nazista Theodor Saevecke in piazzale Loreto a Milano, giura vendetta. Per capire la storia della Volante, bisogna ricostruire il clima che si respirava in quei giorni in Italia. È quello che fa Francesco Trento nel suo libro La guerra non è finita. I partigiani della Volante rossa. (Laterza, pp. 200, euro 18). Mussolini è sconfitto, Hitler giace sotto le macerie del suo bunker a Berlino, l’Italia torna libera. Ma sono in molti, a destra a sinistra, a tenere ben oliati mitra e pistole. Qualcuno, quelle armi, le usa. Vendette personali e politiche sono all’ordine del giorno. Anche perché, è bene ricordarlo, i fascisti sono tutt’altro che scomparsi. Anzi, sono
ancora organizzati militarmente. In Alta Italia sono decine le formazioni clandestine: i Reparti antitotalitari antimarxisti monarchici, le Squadre d’azione Mussolini, il Movimento unitario nazionale... Paggio e i suoi scelgono un nome (che si ispira ad una formazione partigiana che agiva in Val d’Ossola), una sede (la casa del popolo in via Conte Rosso a Lambrate), un inno di battaglia, una divisa (un giubbotto da aviatore con una toppa con il nome sul braccio). Si armano, sparano e uccidono. Sempre in sella a una bicicletta. Questa è la loro storia. Nell’estate del 1945 la Volante sembra deporre le armi, ma una serie di attacchi fascisti gliele farà riprendere subito. A breve l’Italia dovrà decidere tra monarchia e repubblica e le azioni contro le sedi comuniste si susseguono. Ed è così che la Volante torna protagonista. Al punto che il Pci milanese la utilizza per proteggere le sedi del partito. Perché il rapporto tra la Volante e il Pci è palese anche se il partito finge di non sapere nulla delle azioni clandestine del gruppo. E nel gennaio del 1948 sarà proprio Paggio che si occuperà del servizio d’ordine del congresso nazionale del Pci: una sorta di investitura ufficiale. Quella che i partigiani della Volante hanno davanti è un’Italia alla rovescia: con i gerarchi liberi e i partigiani ai margini della società. Come se non bastasse, Palmiro Togliatti, da ministro della giustizia, cerca di pacificare gli animi concedendo un’aminista che avrà come risultato quello di
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TESTATINA
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far uscire dal carcere i pochi fascisti ancora reclusi. È il 14 luglio del 1948, quando Antonio Pallante, spara al segreterio nazionale del Pci. Lo spettro di un ritorno del fascismo si materializza. Focolai di insurrezione incendiano Torino e Genova. La Volante si arma e decide di attaccare la più grossa caserma dei carabinieri di Milano. L’ora x sembra arrivata. Ma la notizia piomba nelle stanze delle federazione milanese da dove parte sgommando una macchina con a bordo Giuseppe Alberganti, ex ardito del popolo e volto noto del partito. Il faccia a faccia con Paggio è durissimo. «Non è il momento, se attaccate, gli Usa intervengono e si finisce come in Grecia con i colonnelli al potere» urla Alberganti. La Volante non capisce ma obbedisce. La voglia di «fare come in Russia» finisce così, facendo svanire i sogni di tanti militanti. È l’inizio della fine. Il 27 gennaio 1949 vengono uccisi, in due zone di Milano, gli ex fascisti Felice Ghisalberti e Leonardo Massaza. Al Viminale c’è Mario Scelba che subito punta il dito contro la Volante, anche se le anomalie di questi omicidi sono molte. Anzitutto la scelta del mezzo, il taxi al posto della bicicletta. Poi il ruolo di uno degli esecutori, quell’Eligio Trincheri che prima di allora non aveva mai partecipato ad alcuna Giovanissimi, azione della Volante. I vertici avevano del gruppo, oltre a Paggio, una divisa, anche Paolo Finardi e e Na- una sede tale Buratto, aiutati dal Pci, e anche riparano in Cecoslovacchia un inno per sfuggire all’ergastolo, per gli altri ci saranno 23 condanne e 4 condanne al carcere a vita. Solo nel 1978 l’allora presidente Sandro Pertini grazierà i tre espatriati. Un anno dopo, Paggio è seduto nell’atrio di Botteghe Oscure. Gli hanno detto che qualcuno del Pci vuole conoscerlo. E lui aspetta. Un giovane funzionario scende la scale del Bottegone e gli si fa incontro «È lei Paggio? Come va?» Paggio non fa in tempo a rispondere che quello si è già dileguato. Il partito lo «saluta» così. «Alvaro» morirà a Praga nel 2008. Il nazista Saevecke era già morto. Nel suo letto. Da uomo libero. Matteo Tonelli
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IL COMMENTO
70 anni fa, via Rasella. Ma quell’attentato non anticipava le Br di Giovanni De Luna
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ra le tante catastrofi provocate dal terrorismo degli anni ’70 c’è anche una sorta di interdetto culturale che oggi incombe sulla lotta armata contro i tedeschi e i fascisti. Fu Marco Pannella, nel 1980, ad avanzare per primo il paragone tra i partigiani di Via Rasella e le Brigate Rosse. Dal punto di vista storico, quel paragone è una totale assurdità; pure, questa assurdità è largamente presente nel senso comune e la si ritrova, spesso, quando a scuola si parla di Resistenza, nelle reazioni degli studenti: «Professore ma i partigiani erano come i terroristi!?». Il bersaglio polemico di Pannella era il Pci di Berlinguer e l’attentato del 23 marzo 1944 rappresentava poco più di un pretesto. Ma partendo da quel pretesto, da allora in poi un pugnace revisionismo storiografico ha sfruttato il ventennio berlusconiano nel tentativo di espungere l’ antifascismo e la Resistenza dal paradigma di fondazione della nostra democrazia repubblicana. Così, il terrorismo degli anni ’70 non è più un fenomeno politico, circoscritto nel tempo e legato a irripetibili condizioni storiche, ma diventa una categoria generica e onnicomprensiva, in cui precipita di tutto, (anche Mazzini e il Risorgimento, oltre che la Resistenza), fino a un giudizio liquidatorio che porta alla condanna di qualsiasi comportamento politico che abbia avuto a che fare con la violenza armata, indipendentemente dalle sue motivazioni e dai suoi esiti. In questa marea di luoghi comuni hanno sguazzato le tesi revisioniste sul «sangue dei vinti» e sulle efferatezze dei partigiani «rossi»; ma anche la storiografia più accorta è sembrata intimidita dall’interdetto originato dalle imprese delle Brigate Rosse. Dopo gli anni ’70, gli studi e le ricerche hanno privilegiato soprattutto i 600 mila militari italiani deportati in Germania dopo l’8 settembre, i «giusti» che rischiarono la vita per salvare gli ebrei, le donne, che si prodigarono in gesti di solidarietà e abnegazione. Alla «Resistenza armata» si è così progressivamente sostituita la «Resistenza civile». Ed era giusto così. Si trattava di temi che andavano studiati e quelle ricerche hanno contribuito ad ampliare la conoscenza di uno dei periodi più importanti della nostra storia. E tuttavia bisogna avere l’onestà intellettuale di riconoscere, oggi, che senza i partigiani in armi la «Resistenza civile» non avrebbe avuto ragione di esistere. Soccorrere gli inermi, aiutare i feriti, prodigarsi per nascondere i prigionieri erano tutte iniziative che acquistano un senso compiuto solo se le si guarda come elementi fondamentali del contesto propizio e generoso in cui operarono gli uomini che decisero di sfidare in campo aperto i tedeschi e i fascisti. Il contenzioso avviato su via Rasella («atto di guerra» per la Cassazione, «terrorismo» per i nazisti ieri e i revisionisti oggi), le disquisizioni sul «diritto alla rappresaglia» e la strage delle Fosse Ardeatine, rischiano di occultare il significato più profondo di quegli eventi: ci fu allora un pugno di uomini che, consapevolmente, decise di uccidere e farsi uccidere nel nome della libertà. Furono pochi, ma senza quella loro scelta saremmo stati tutti moralmente molto più poveri.
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