Annuario Cai Morbegno 2006

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CAI corso di arrampicata la sezione bitto kima al cospetto del gigante sogno di una notte di inizio estate lofoten l’etica del chiodo segantini campagnun il larice la siderite della valle dei lupi

ANNUARIO 2006

CAI MORBEGNO


SOMMARIO

CAI I Corsi

Club Alpino Italiano Sezione di Morbegno

Via San Marco Tel. e fax 0342 613803 e-mail: info@caimorbegno.org www.caimorbegno.org

Sezione

Personaggi

ANNUARIO 2006

Il corso di arrampicata

di LUCA DE MARON

La Sezione Bitto di RICCARDO MARCHINI

Kima

di RICCARDO MARCHINI

Redazione: Domenico Del Barba, Riccardo Marchini, Lodovico Mottarella, Mario Spini.

Escursionismo

Hanno collaborato: Luca Bono, Davide Bonzi, Alessandro Caligari, Cesare De Donati, Domenico Del Barba, Luca De Maron, Giulio Gadola, Alessio Gusmeroli, Riccardo Marchini, Lodovico Mottarella, Bruno Orso, Renzo Passerini, Vittorio Poletti, Alessandro Rapella, Franco Scotti, Riccardo Scotti, Mario Spini.

Racconti

Al cospetto del gigante di VITTORIO POLETTI

Sogno di una notte di mezza estate di MARIO SPINI

Viaggi

Lofoten

di G. GADOLA, L. BONO, R. SCOTTI

Fotografie: Alessandro Caligari: 77 Gianfranco Chiara. 6, 7 Domenico Del Barba: 58, 59, 80 (sotto) Alessio Gusmeroli: 69 Riccardo Marchini: 24, 29 (sopra), 52-53, 65, 66, 67, 68, 69 (sopra) Lodovico Mottarella: copertina, 2, 3, 9, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 25, 26-27, 28, 29 (sotto), 30, 31, 32, 33, 35, 46, 47, 49, 50, 51, 60, 61, 62, 63, 64, 72 (sotto), 74, 75, 79 Riccardo Scotti: 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 43, 44, 45 Mario Spini: 34, 48 (sopra), 72 (sopra) Paolo Spreafico: 5 Anna Strizzi: 16, 21

Progetto grafico e realizzazione:

il tuo primo di cordata FIORELLI SPORT II CAI MORBEGNO

S.Martino Valmasino Tel.0342 641070

Arrampicata Arte Scialpinismo Ambiente

L’etica del chiodo di MARIO SPINI

Segantini

di ALESSANDRO CALIGARI

Campagnun

di RENZO PASSERINI

Il larice

di ALESSANDRO RAPELLA

Mottarella Studio Grafico www.mottarella.com

Stampa:

Geologia

La siderite della Valle dei Lupi di ALESSIO GUSMEROLI

Tipografia Bonazzi

CAI MORBEGNO


SOMMARIO

CAI I Corsi

Club Alpino Italiano Sezione di Morbegno

Via San Marco Tel. e fax 0342 613803 e-mail: info@caimorbegno.org www.caimorbegno.org

Sezione

Personaggi

ANNUARIO 2006

Il corso di arrampicata

di LUCA DE MARON

La Sezione Bitto di RICCARDO MARCHINI

Kima

di RICCARDO MARCHINI

Redazione: Domenico Del Barba, Riccardo Marchini, Lodovico Mottarella, Mario Spini.

Escursionismo

Hanno collaborato: Luca Bono, Davide Bonzi, Alessandro Caligari, Cesare De Donati, Domenico Del Barba, Luca De Maron, Giulio Gadola, Alessio Gusmeroli, Riccardo Marchini, Lodovico Mottarella, Bruno Orso, Renzo Passerini, Vittorio Poletti, Alessandro Rapella, Franco Scotti, Riccardo Scotti, Mario Spini.

Racconti

Al cospetto del gigante di VITTORIO POLETTI

Sogno di una notte di mezza estate di MARIO SPINI

Viaggi

Lofoten

di G. GADOLA, L. BONO, R. SCOTTI

Fotografie: Alessandro Caligari: 77 Gianfranco Chiara. 6, 7 Domenico Del Barba: 58, 59, 80 (sotto) Alessio Gusmeroli: 69 Riccardo Marchini: 24, 29 (sopra), 52-53, 65, 66, 67, 68, 69 (sopra) Lodovico Mottarella: copertina, 2, 3, 9, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 25, 26-27, 28, 29 (sotto), 30, 31, 32, 33, 35, 46, 47, 49, 50, 51, 60, 61, 62, 63, 64, 72 (sotto), 74, 75, 79 Riccardo Scotti: 36, 37, 38, 39, 40, 41, 42, 43, 44, 45 Mario Spini: 34, 48 (sopra), 72 (sopra) Paolo Spreafico: 5 Anna Strizzi: 16, 21

Progetto grafico e realizzazione:

il tuo primo di cordata FIORELLI SPORT II CAI MORBEGNO

S.Martino Valmasino Tel.0342 641070

Arrampicata Arte Scialpinismo Ambiente

L’etica del chiodo di MARIO SPINI

Segantini

di ALESSANDRO CALIGARI

Campagnun

di RENZO PASSERINI

Il larice

di ALESSANDRO RAPELLA

Mottarella Studio Grafico www.mottarella.com

Stampa:

Geologia

La siderite della Valle dei Lupi di ALESSIO GUSMEROLI

Tipografia Bonazzi

CAI MORBEGNO


di Domenico Del Barba

E D I T O R I A L E

E D I T O R I A L E

CAI MORBEGNO

Quasi a festeggiare i suoi primi 75 anni, il Cai di Morbegno ha deciso di farsi un grande regalo: la nuova sede. Con delibera n. 52 del 27/07/2006 il consiglio del Comune di Morbegno, all’unanimità, ha stabilito di dare in locazione per 25 anni il piano di uno stabile situato nei giardini del Palazzo Malacrida, in via S.Marco a Morbegno. Il locale di circa 80 mq verrà opportunamente ristrutturato, dotato di soppalco, servizi, riscaldamento, infissi e quanto serve perché diventi la sede della sezione del CAI di Morbegno. E’ una proposta che il Consiglio del CAI ha dibattuto per parecchio tempo, poiché l’onere della spesa, il posto un po’ decentrato, la mancanza di parcheggi nelle vicinanze più immediate sono valutazioni che hanno fatto sorgere non poche perplessità. Alla fine ha prevalso la considerazione dei vantaggi che l’esecuzione del progetto offre: un ambiente confortevole e adeguato, una sistemazione durevole nel tempo con spazi appositamente studiati per lo svolgimento delle attività sociali in uno dei palazzi più prestigiosi di Morbegno. Il Consiglio è consapevole che la realizzazione dei lavori comporta un impegno economico abbastanza rilevante, ma è certo di poter contare sulla collaborazione di tutti: soci e simpatizzanti.

Nelle nostre intenzioni disporre di una sede tanto importante non vuole essere il punto di arrivo, ma l’incentivo ad intraprendere una attività più coinvolgente. A questo proposito riprendo l’invito rivolto da Franco nell’editoriale (annuario 2003) ad una presenza più attiva e costante dei soci che gravitano attorno al Cai. Contando su una maggiore collaborazione, si potrebbe distribuire per competenze e disponibilità l’organizzazione delle varie attività: tutela dell’ambiente, escursionismo, alpinismo, alpinismo giovanile, sci alpinismo, sci di fondo ecc. così che i programmi della sezione vengano articolati in modo più funzionale ed efficiente. Si può ipotizzare anche una apertura infrasettimanale per un eventuale gruppo senior che troverebbe nella nuova sede un luogo di incontro e di aggregazione molto accogliente. Il salone verrà adibito a locale riunioni per corsi, proiezioni e serate, sarà possibile organizzare manifestazioni anche all’aperto durante la bella stagione. Il servizio biblioteca per consultazione di guide, cartine e libri di montagna sarà sempre attivo. Nel momento in cui scrivo dobbiamo ringraziare Alessandro e Giulio che già stanno lavorando, gratuitamente, nell’ambito delle

loro competenze professionali, per l’inizio dei lavori; speriamo che il buon esempio venga seguito anche da altri soci. E’ doveroso ringraziare anche l’amministrazione comunale che si è dimostrata sensibile ed interessata alle nostre esigenze e sostiene la realizzazione del progetto. Purtroppo non potremo più contare sulla presenza dell’amico Vincenzo, che comunque non ci farà mancare quel sostegno che ci aveva garantito. Siamo consapevoli che l’impegno e l’entusiasmo di pochi non sono sufficienti a giustificare una operazione così ambiziosa, per cui rinnovo l’invito a tutti i soci affinché partecipino alla realizzazione del progetto della loro Sede, iscrivendosi al Cai Morbegno, coinvolgendo un maggiore numero di simpatizzanti, frequentando, suggerendo e partecipando alle attività promosse dalla sezione. Speriamo a questo punto di riuscire a terminare i lavori in tempi brevi perché possa riprendere al meglio l’attività della sezione che durante l’anno corrente ha risentito molto della mancanza di adeguati spazi operativi. Ci vediamo allora tutti nella nostra nuova sede a festeggiare.

CAI MORBEGNO


di Domenico Del Barba

E D I T O R I A L E

E D I T O R I A L E

CAI MORBEGNO

Quasi a festeggiare i suoi primi 75 anni, il Cai di Morbegno ha deciso di farsi un grande regalo: la nuova sede. Con delibera n. 52 del 27/07/2006 il consiglio del Comune di Morbegno, all’unanimità, ha stabilito di dare in locazione per 25 anni il piano di uno stabile situato nei giardini del Palazzo Malacrida, in via S.Marco a Morbegno. Il locale di circa 80 mq verrà opportunamente ristrutturato, dotato di soppalco, servizi, riscaldamento, infissi e quanto serve perché diventi la sede della sezione del CAI di Morbegno. E’ una proposta che il Consiglio del CAI ha dibattuto per parecchio tempo, poiché l’onere della spesa, il posto un po’ decentrato, la mancanza di parcheggi nelle vicinanze più immediate sono valutazioni che hanno fatto sorgere non poche perplessità. Alla fine ha prevalso la considerazione dei vantaggi che l’esecuzione del progetto offre: un ambiente confortevole e adeguato, una sistemazione durevole nel tempo con spazi appositamente studiati per lo svolgimento delle attività sociali in uno dei palazzi più prestigiosi di Morbegno. Il Consiglio è consapevole che la realizzazione dei lavori comporta un impegno economico abbastanza rilevante, ma è certo di poter contare sulla collaborazione di tutti: soci e simpatizzanti.

Nelle nostre intenzioni disporre di una sede tanto importante non vuole essere il punto di arrivo, ma l’incentivo ad intraprendere una attività più coinvolgente. A questo proposito riprendo l’invito rivolto da Franco nell’editoriale (annuario 2003) ad una presenza più attiva e costante dei soci che gravitano attorno al Cai. Contando su una maggiore collaborazione, si potrebbe distribuire per competenze e disponibilità l’organizzazione delle varie attività: tutela dell’ambiente, escursionismo, alpinismo, alpinismo giovanile, sci alpinismo, sci di fondo ecc. così che i programmi della sezione vengano articolati in modo più funzionale ed efficiente. Si può ipotizzare anche una apertura infrasettimanale per un eventuale gruppo senior che troverebbe nella nuova sede un luogo di incontro e di aggregazione molto accogliente. Il salone verrà adibito a locale riunioni per corsi, proiezioni e serate, sarà possibile organizzare manifestazioni anche all’aperto durante la bella stagione. Il servizio biblioteca per consultazione di guide, cartine e libri di montagna sarà sempre attivo. Nel momento in cui scrivo dobbiamo ringraziare Alessandro e Giulio che già stanno lavorando, gratuitamente, nell’ambito delle

loro competenze professionali, per l’inizio dei lavori; speriamo che il buon esempio venga seguito anche da altri soci. E’ doveroso ringraziare anche l’amministrazione comunale che si è dimostrata sensibile ed interessata alle nostre esigenze e sostiene la realizzazione del progetto. Purtroppo non potremo più contare sulla presenza dell’amico Vincenzo, che comunque non ci farà mancare quel sostegno che ci aveva garantito. Siamo consapevoli che l’impegno e l’entusiasmo di pochi non sono sufficienti a giustificare una operazione così ambiziosa, per cui rinnovo l’invito a tutti i soci affinché partecipino alla realizzazione del progetto della loro Sede, iscrivendosi al Cai Morbegno, coinvolgendo un maggiore numero di simpatizzanti, frequentando, suggerendo e partecipando alle attività promosse dalla sezione. Speriamo a questo punto di riuscire a terminare i lavori in tempi brevi perché possa riprendere al meglio l’attività della sezione che durante l’anno corrente ha risentito molto della mancanza di adeguati spazi operativi. Ci vediamo allora tutti nella nostra nuova sede a festeggiare.

CAI MORBEGNO


Lo ricordo così di Franco Scotti

Una domenica, partiti da Morbegno di buon’ora per il “ferro da stiro”, dopo il rifugio Sciora sorpassammo, quasi di corsa, un gruppo di guide svizzere con clienti dirette, con cadenzato passo grigionese, alla stessa nostra meta. Avevamo però sottovalutato il breve pendio di ghiaccio che difende l’attacco della via che senza ramponi era insuperabile. Mentre raspavamo inutilmente il ghiaccio con le scarpe da corsa in braga corta, gli svizzeri, armati di picca e ramponi, col loro lento e inesorabile passo ci sfilarono a lato sogghignando sotto i baffi. Indispettito per la figuraccia subita, Vincenzo si lanciò correndo e borbottando lungo il “viale” e in meno di quattro ore eravamo in cima al Badile lungo lo spigolo N. Non ricordo con precisione quando e come iniziai ad arrampicare con Vincenzo, ma ho ben presente l’affiatamento e la sintonia che rendevano le nostre uscite sempre piacevoli, veloci e sicure. Mi riferisco a numerose stagioni degli anni ’80 quando, sfruttando la sua maggiore esperienza e capacità tecnica, realizzai le mie più belle salite sul granito delle nostre valli. Per carità, nessuna impresa particolare, solo le vie classiche della zona: Molteni, Vinci, Gervasutti, Parravicini ecc., sempre rigorosamente “in giornata”, cercando di conciliare la montagna con la famiglia e i figli, allora ancora bambini. Un alpinismo oggi trascurato, ma, a mio parere, sempre di grande soddisfazione, soprattutto quando il tuo CAI MORBEGNO

compagno di cordata condivide le stesse emozioni e le stesse scelte e conosci perfettamente le sue doti fisiche ed emotive, e allora anche le manovre di corda non richiedono quasi comandi vocali. I ricordi del Vincenzo affollano la mia mente… Lo zaino più leggero era sempre quello del Vincenzo. Lui diceva scherzosamente che era “pieno di esperienza” e devo riconoscere che difficilmente gli mancava qualcosa di indispensabile. Una mattina sul ghiacciaio di Cedec verso il Cevedale, lo guardo e comincio a ridere, ridere, contagiando tutti gli amici: lo zaino quel giorno era talmente floscio che non lo sentiva sulle spalle e l’aveva dimenticato alla Pizzini, dove avevamo sostato per un tè. Pare sia entrato nel rifugio a recuperarlo senza togliersi gli sci…. e arrivò poi in cima ancora fra i primi. Quel modo di andare in giro sempre di corsa era da molti criticato come inutile esibizione di competitività, ma questi non capivano che noi, fra gli altri piaceri della montagna, apprezzavamo anche quello del puro esercizio fisico sportivo. La passione del Vincenzo per lo scialpinismo lo portava ad escogitare ingegnosi trucchi per rendere più efficiente l’attrezzatura e credo sia stato il primo ad usare quelle che chiamò le “acciughe”: intelligente sistema per riutilizzare le pelli di foca consumate tagliandole per il lungo e invertendo le due strisce ottenendo due bordi nuovi con perfetta aderenza alle sciancrature degli sci

moderni. In quegli anni non frequentavamo l’ambiente del CAI, che guardavamo piuttosto con diffidenza. Una domenica, scendendo dalla Val di Mello, incontrammo un suo amico di Valmadrera, istruttore di alpinismo, che riuscì a convincerci a frequentare i corsi-esami per istruttore. Così, quasi per gioco, ci ritrovammo istruttori di scialpinismo senza conoscerne le conseguenze. Ricordo che una sera mi telefonò Domenico (il nostro attuale Presidente) precettandoci per organizzare i corsi del CAI. Era il 1988 e iniziò il primo corso di scialpinismo e da lì la nostra “integrazione” nel CAI Morbegno. Da allora Vincenzo ha dato tanto alla Sezione, come istruttore, consigliere, presidente. Non ha mai smesso di frequentare assiduamente la nostra sede. Con la sua voce tonante e il suo carattere schietto e diretto non risparmiava critiche e pareri a nessuno, e la sua personale disponibilità per i corsi e tutte le attività sezionali non è mai mancata. Sotto una corteccia burbera celava un animo buono e generoso. Anche in questi ultimi anni, malgrado qualche problema di salute, invece di arrendersi e fermarsi, con la sua caparbietà è sempre riuscito a reagire in modo esemplare e, forte della sua smisurata passione, a dimostrarci che la montagna e lo sport, praticati come filosofia di vita, sono un formidabile mezzo di riabilitazione e benessere. Grazie Vincenzo.

Vincenzo Spreafico, nato a Oggiono il 28-11-1946, iniziò a frequentare la montagna nelle file del CAI Valmadrera dove fu presto promosso istruttore nella locale scuola di alpinismo “Attilio Piacco”. Frequentava già la Val Masino dove, fra le molte salite, spiccano la prima invernale del pilastro “Merendi”al Badile (24-12-1974) con B.,M.,F. Bottani e P.A. Ciapponi, e la via nuova “Walter e Chiara” alla Punta della Sfinge (17-8-1976) sempre con i Bottani e Dino Fiorelli. Nel 1977 sposò Enrica Tognoli e si stabilì a Morbegno, dove lavorava come operaio nell’ENEL. Della sua vasta attività alpinistica Il figlio Paolo, degno erede in quanto giovane “ragno” di Lecco, ci segnala, fra le tante: almeno tre ripetizioni della “Cassin” sulla NE e la “Bramani Castiglioni” sulla O del Badile, la “G-Lehmann” sulla NO del Cengalo, la “Bramani” alla Pioda di Sciora e lo spigolo O della Sciora di Fuori, la via “degli Svizzeri” al Gran Capucin, la “CostantiniApollonio” alla Tofana di Rozes, la “Steger” al Catinaccio, la “Graffer” al Campanil Basso, la “Cassin” al Sasso Cavallo. Le sue gite sci-alpinistiche sono innumerevoli, non solo sulle Alpi ma anche in Equador (Chimborazo m 6200), Messico (Popocatepelt m 5400) e sui 4000 dell’Alto Atlante in Marocco. Dopo il pensionamento la sua attività si era ancor più intensificata e integrata con la passione per la bicicletta. E’ di poco tempo fa la sua gita da Morbegno al Pian dei Resinelli in bici, salita della Grignetta dalla cresta Segantini e ritorno a casa, sempre in bici. Vincenzo è stato volontario del Soccorso Alpino dal 1985 al 1995 e Presidente della nostra Sezione dal 1992 al 1999. Il 20-09-2006, durante una delle sue escursioni solitarie, non è più tornato.

CAI MORBEGNO


Lo ricordo così di Franco Scotti

Una domenica, partiti da Morbegno di buon’ora per il “ferro da stiro”, dopo il rifugio Sciora sorpassammo, quasi di corsa, un gruppo di guide svizzere con clienti dirette, con cadenzato passo grigionese, alla stessa nostra meta. Avevamo però sottovalutato il breve pendio di ghiaccio che difende l’attacco della via che senza ramponi era insuperabile. Mentre raspavamo inutilmente il ghiaccio con le scarpe da corsa in braga corta, gli svizzeri, armati di picca e ramponi, col loro lento e inesorabile passo ci sfilarono a lato sogghignando sotto i baffi. Indispettito per la figuraccia subita, Vincenzo si lanciò correndo e borbottando lungo il “viale” e in meno di quattro ore eravamo in cima al Badile lungo lo spigolo N. Non ricordo con precisione quando e come iniziai ad arrampicare con Vincenzo, ma ho ben presente l’affiatamento e la sintonia che rendevano le nostre uscite sempre piacevoli, veloci e sicure. Mi riferisco a numerose stagioni degli anni ’80 quando, sfruttando la sua maggiore esperienza e capacità tecnica, realizzai le mie più belle salite sul granito delle nostre valli. Per carità, nessuna impresa particolare, solo le vie classiche della zona: Molteni, Vinci, Gervasutti, Parravicini ecc., sempre rigorosamente “in giornata”, cercando di conciliare la montagna con la famiglia e i figli, allora ancora bambini. Un alpinismo oggi trascurato, ma, a mio parere, sempre di grande soddisfazione, soprattutto quando il tuo CAI MORBEGNO

compagno di cordata condivide le stesse emozioni e le stesse scelte e conosci perfettamente le sue doti fisiche ed emotive, e allora anche le manovre di corda non richiedono quasi comandi vocali. I ricordi del Vincenzo affollano la mia mente… Lo zaino più leggero era sempre quello del Vincenzo. Lui diceva scherzosamente che era “pieno di esperienza” e devo riconoscere che difficilmente gli mancava qualcosa di indispensabile. Una mattina sul ghiacciaio di Cedec verso il Cevedale, lo guardo e comincio a ridere, ridere, contagiando tutti gli amici: lo zaino quel giorno era talmente floscio che non lo sentiva sulle spalle e l’aveva dimenticato alla Pizzini, dove avevamo sostato per un tè. Pare sia entrato nel rifugio a recuperarlo senza togliersi gli sci…. e arrivò poi in cima ancora fra i primi. Quel modo di andare in giro sempre di corsa era da molti criticato come inutile esibizione di competitività, ma questi non capivano che noi, fra gli altri piaceri della montagna, apprezzavamo anche quello del puro esercizio fisico sportivo. La passione del Vincenzo per lo scialpinismo lo portava ad escogitare ingegnosi trucchi per rendere più efficiente l’attrezzatura e credo sia stato il primo ad usare quelle che chiamò le “acciughe”: intelligente sistema per riutilizzare le pelli di foca consumate tagliandole per il lungo e invertendo le due strisce ottenendo due bordi nuovi con perfetta aderenza alle sciancrature degli sci

moderni. In quegli anni non frequentavamo l’ambiente del CAI, che guardavamo piuttosto con diffidenza. Una domenica, scendendo dalla Val di Mello, incontrammo un suo amico di Valmadrera, istruttore di alpinismo, che riuscì a convincerci a frequentare i corsi-esami per istruttore. Così, quasi per gioco, ci ritrovammo istruttori di scialpinismo senza conoscerne le conseguenze. Ricordo che una sera mi telefonò Domenico (il nostro attuale Presidente) precettandoci per organizzare i corsi del CAI. Era il 1988 e iniziò il primo corso di scialpinismo e da lì la nostra “integrazione” nel CAI Morbegno. Da allora Vincenzo ha dato tanto alla Sezione, come istruttore, consigliere, presidente. Non ha mai smesso di frequentare assiduamente la nostra sede. Con la sua voce tonante e il suo carattere schietto e diretto non risparmiava critiche e pareri a nessuno, e la sua personale disponibilità per i corsi e tutte le attività sezionali non è mai mancata. Sotto una corteccia burbera celava un animo buono e generoso. Anche in questi ultimi anni, malgrado qualche problema di salute, invece di arrendersi e fermarsi, con la sua caparbietà è sempre riuscito a reagire in modo esemplare e, forte della sua smisurata passione, a dimostrarci che la montagna e lo sport, praticati come filosofia di vita, sono un formidabile mezzo di riabilitazione e benessere. Grazie Vincenzo.

Vincenzo Spreafico, nato a Oggiono il 28-11-1946, iniziò a frequentare la montagna nelle file del CAI Valmadrera dove fu presto promosso istruttore nella locale scuola di alpinismo “Attilio Piacco”. Frequentava già la Val Masino dove, fra le molte salite, spiccano la prima invernale del pilastro “Merendi”al Badile (24-12-1974) con B.,M.,F. Bottani e P.A. Ciapponi, e la via nuova “Walter e Chiara” alla Punta della Sfinge (17-8-1976) sempre con i Bottani e Dino Fiorelli. Nel 1977 sposò Enrica Tognoli e si stabilì a Morbegno, dove lavorava come operaio nell’ENEL. Della sua vasta attività alpinistica Il figlio Paolo, degno erede in quanto giovane “ragno” di Lecco, ci segnala, fra le tante: almeno tre ripetizioni della “Cassin” sulla NE e la “Bramani Castiglioni” sulla O del Badile, la “G-Lehmann” sulla NO del Cengalo, la “Bramani” alla Pioda di Sciora e lo spigolo O della Sciora di Fuori, la via “degli Svizzeri” al Gran Capucin, la “CostantiniApollonio” alla Tofana di Rozes, la “Steger” al Catinaccio, la “Graffer” al Campanil Basso, la “Cassin” al Sasso Cavallo. Le sue gite sci-alpinistiche sono innumerevoli, non solo sulle Alpi ma anche in Equador (Chimborazo m 6200), Messico (Popocatepelt m 5400) e sui 4000 dell’Alto Atlante in Marocco. Dopo il pensionamento la sua attività si era ancor più intensificata e integrata con la passione per la bicicletta. E’ di poco tempo fa la sua gita da Morbegno al Pian dei Resinelli in bici, salita della Grignetta dalla cresta Segantini e ritorno a casa, sempre in bici. Vincenzo è stato volontario del Soccorso Alpino dal 1985 al 1995 e Presidente della nostra Sezione dal 1992 al 1999. Il 20-09-2006, durante una delle sue escursioni solitarie, non è più tornato.

CAI MORBEGNO


D I ARRAMPICATA di Luca De Maron

Il fuoco è acceso, la legna scoppiettando lotta con il silenzio della baita, dalla finestra i profili delle montagne lanciano l’ultimo saluto prima del buio. E’ tempo di pensieri, pensieri belli. Ricordi di risate sotto una parete, di corde intrecciate, di battute giuste per animare un gruppo di amici all’attacco di una via. Ricordi recenti di un corso base di roccia, di dodici allievi e di istruttori bravi e pazienti. Qualcuno aveva già arrampicato, altri no, ma la passione comune li ha fatti incontrare, li ha fatti arrampicare e divertire. Lezioni teoriche, occhi curiosi e attenti, a volte un po’ assonnati. Materiali ed equipaggiamento, nodi e tecniche di assicurazione. Barcaioli veri e falsi, bocche di lupo in agguato, bloccaggio del mezzo barcaiolo e del secchiello. Topografia ed orientamento, bussole, gps, cartine e angoli di azimut in giro per la sala conferenze del Museo Civico di Morbegno, sede delle lezioni teoriche. Storia dell’alpinismo, dal 300 d.C. (o forse prima) fino ai giorni nostri. Storie di imprese, di fallimenti, storie di passione per le vette, per la montagna. Passione che accomuna i dodici allievi iscritti al corso, che ascoltano le parole di Civera, il narratore, e ridono dei simpatici aneddoti raccontati da “Kiscio” della sua carriera alpinistica. Riccardo Scotti lascia tutti a bocca aperta nell’ultima lezione, meteorologia: fronti freddi, caldi, temporali da calore e nuvole a cavolfiore. Tempo che ha dato una mano nell’organizzazione, facendo il bravo in tutte le uscite. La prima al Sasso Remenno, Val Masino, i primi passi sulla roccia. L’arrampicata è l’evoluzione del camminare in piano, ed è così per gli istruttori che mostrano la tecnica giusta per affrontare la parete. Quando tocca agli allievi, come è giusto che sia, la camminata si fa più incerta, quasi a “gattoni” come un bimbo che muove i primi CAI MORBEGNO

passi. Ma non importa, si deve imparare. Via normale del Sasso, quando salgono i maestri sembra tutto facile, quasi naturale; gli allievi arrancano un po’, ma soddisfatti arrivano in cima. Soddisfazione sbeffeggiata dalle ridenti caprette salite dalla stessa via, senza scarpette, imbraghi né corde. Seconda uscita minacciata dalla pioggia, ma mentre la palestra si sfregava le mani, un ridente sole valchiavennasco asciugava il Sasso Bianco. Placche di Bette, si fanno le cordate e ci si divide lungo le numerose vie che le salgono. Primo tiro, “Molla tutto”, “Vieni”. Il tempo passa, si arrampica. Allievi concentrati, istruttori sicuri, le cordate procedono. “Guarda che bella quella placca là, non vorrai mica andare su in questa schifezza. Tieni la corda tesa perché è un passaggino delicato. A posto, potete venire.” Il primo allievo dopo qualche tentativo riesce a superarlo, il secondo no. Riceve il sostegno degli arbusti

spinosi posti esattamente sotto il passaggio delicato. Imprecazioni libere, risate in parete. Qualcuno è già in cima, prepara la doppia. Altri vogliono andare ancora più su, si stanno divertendo, gli insulti ai vegetali hanno lasciato il sorriso alla cordata. Ancora un pezzo di placca, aderenza, fiducia nei piedi. L’istruttore ricama la parete infilando le mezze corde rinvio dopo rinvio, arrivando a trovarsi sotto un diedro. Prese sicure per le mani, qualche metro, finalmente in sosta. Recuperati i due bradipi rocciatori, iniziano le calate in doppia. La timida luce di un prezioso frontalino accompagna i tre “climber” fino alle macchine, dove gli altri amici spazientiti attendevano. Arrampicata in “notturna”. Prima uscita domenicale in Val Masino condizionata dalla roccia umida, qualche tiro al Sasso Remenno la mattina, il pomeriggio cordate su “El Schenun” nella val dei Bagni. Esperienza sul calcare della

Grigna Meridionale in una giornata splendida ormai di metà ottobre. Ultimo incontro in Val di Mello. Mentre qualcuno si cimentava sullo Sperone degli Gnomi, altri salivano Stomaco Peloso e l’Alba del Nirvana al Tempio dell’Eden. La concentrazione e la tensione in parete lasciavano il posto a scherzosi momenti passati tutti insieme, tra battute di spirito e risate. Un bel gruppo, affiatato, che ha registrato poche assenze negli appuntamenti, eccezion fatta per la capo-treno che per motivi lavorativi è risultata presente davvero poche volte. Bilancio positivo per il corso, tanti momenti da ricordare, che fanno sorridere e lasciano un bellissimo ricordo di questa esperienza. Le ultime ombre disegnate dal fuoco si spengono pian piano. Fuori il buio mostra un timido cielo stellato. E’ tempo di sogni, sogni di montagne da affrontare, sogni di pareti da arrampicare.

CAI MORBEGNO


D I ARRAMPICATA di Luca De Maron

Il fuoco è acceso, la legna scoppiettando lotta con il silenzio della baita, dalla finestra i profili delle montagne lanciano l’ultimo saluto prima del buio. E’ tempo di pensieri, pensieri belli. Ricordi di risate sotto una parete, di corde intrecciate, di battute giuste per animare un gruppo di amici all’attacco di una via. Ricordi recenti di un corso base di roccia, di dodici allievi e di istruttori bravi e pazienti. Qualcuno aveva già arrampicato, altri no, ma la passione comune li ha fatti incontrare, li ha fatti arrampicare e divertire. Lezioni teoriche, occhi curiosi e attenti, a volte un po’ assonnati. Materiali ed equipaggiamento, nodi e tecniche di assicurazione. Barcaioli veri e falsi, bocche di lupo in agguato, bloccaggio del mezzo barcaiolo e del secchiello. Topografia ed orientamento, bussole, gps, cartine e angoli di azimut in giro per la sala conferenze del Museo Civico di Morbegno, sede delle lezioni teoriche. Storia dell’alpinismo, dal 300 d.C. (o forse prima) fino ai giorni nostri. Storie di imprese, di fallimenti, storie di passione per le vette, per la montagna. Passione che accomuna i dodici allievi iscritti al corso, che ascoltano le parole di Civera, il narratore, e ridono dei simpatici aneddoti raccontati da “Kiscio” della sua carriera alpinistica. Riccardo Scotti lascia tutti a bocca aperta nell’ultima lezione, meteorologia: fronti freddi, caldi, temporali da calore e nuvole a cavolfiore. Tempo che ha dato una mano nell’organizzazione, facendo il bravo in tutte le uscite. La prima al Sasso Remenno, Val Masino, i primi passi sulla roccia. L’arrampicata è l’evoluzione del camminare in piano, ed è così per gli istruttori che mostrano la tecnica giusta per affrontare la parete. Quando tocca agli allievi, come è giusto che sia, la camminata si fa più incerta, quasi a “gattoni” come un bimbo che muove i primi CAI MORBEGNO

passi. Ma non importa, si deve imparare. Via normale del Sasso, quando salgono i maestri sembra tutto facile, quasi naturale; gli allievi arrancano un po’, ma soddisfatti arrivano in cima. Soddisfazione sbeffeggiata dalle ridenti caprette salite dalla stessa via, senza scarpette, imbraghi né corde. Seconda uscita minacciata dalla pioggia, ma mentre la palestra si sfregava le mani, un ridente sole valchiavennasco asciugava il Sasso Bianco. Placche di Bette, si fanno le cordate e ci si divide lungo le numerose vie che le salgono. Primo tiro, “Molla tutto”, “Vieni”. Il tempo passa, si arrampica. Allievi concentrati, istruttori sicuri, le cordate procedono. “Guarda che bella quella placca là, non vorrai mica andare su in questa schifezza. Tieni la corda tesa perché è un passaggino delicato. A posto, potete venire.” Il primo allievo dopo qualche tentativo riesce a superarlo, il secondo no. Riceve il sostegno degli arbusti

spinosi posti esattamente sotto il passaggio delicato. Imprecazioni libere, risate in parete. Qualcuno è già in cima, prepara la doppia. Altri vogliono andare ancora più su, si stanno divertendo, gli insulti ai vegetali hanno lasciato il sorriso alla cordata. Ancora un pezzo di placca, aderenza, fiducia nei piedi. L’istruttore ricama la parete infilando le mezze corde rinvio dopo rinvio, arrivando a trovarsi sotto un diedro. Prese sicure per le mani, qualche metro, finalmente in sosta. Recuperati i due bradipi rocciatori, iniziano le calate in doppia. La timida luce di un prezioso frontalino accompagna i tre “climber” fino alle macchine, dove gli altri amici spazientiti attendevano. Arrampicata in “notturna”. Prima uscita domenicale in Val Masino condizionata dalla roccia umida, qualche tiro al Sasso Remenno la mattina, il pomeriggio cordate su “El Schenun” nella val dei Bagni. Esperienza sul calcare della

Grigna Meridionale in una giornata splendida ormai di metà ottobre. Ultimo incontro in Val di Mello. Mentre qualcuno si cimentava sullo Sperone degli Gnomi, altri salivano Stomaco Peloso e l’Alba del Nirvana al Tempio dell’Eden. La concentrazione e la tensione in parete lasciavano il posto a scherzosi momenti passati tutti insieme, tra battute di spirito e risate. Un bel gruppo, affiatato, che ha registrato poche assenze negli appuntamenti, eccezion fatta per la capo-treno che per motivi lavorativi è risultata presente davvero poche volte. Bilancio positivo per il corso, tanti momenti da ricordare, che fanno sorridere e lasciano un bellissimo ricordo di questa esperienza. Le ultime ombre disegnate dal fuoco si spengono pian piano. Fuori il buio mostra un timido cielo stellato. E’ tempo di sogni, sogni di montagne da affrontare, sogni di pareti da arrampicare.

CAI MORBEGNO


La Sezione

BITTO I primi passi del CAI Morbegno di Riccardo Marchini

Per un caso del tutto fortuito siamo venuti in possesso del primo “Libro delle deliberazioni” del CAI Morbegno. Non sapevamo neppure che esistesse. I resoconti in esso contenuti ci permettono di ricostruire i primi anni di attività della Sezione e di correggere alcuni refusi contenuti nel volume “Dal Corno Stella al K2 e oltre”, pubblicato dal CAI Sondrio nel 1996, e nel nostro “Album” del 2002. Il “Libro delle deliberazioni”, costituito da un registro di grande formato, contiene, scritti a mano con calligrafia e linguaggio d’epoca, i verbali delle riunioni del CAI Morbegno dal 1931, anno della sua fondazione, al 1936. Trascriviamo per intero il verbale della prima assemblea, mentre per i successivi crediamo che sia sufficiente estrapolare i passaggi più significativi. CAI MORBEGNO

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La Sezione

BITTO I primi passi del CAI Morbegno di Riccardo Marchini

Per un caso del tutto fortuito siamo venuti in possesso del primo “Libro delle deliberazioni” del CAI Morbegno. Non sapevamo neppure che esistesse. I resoconti in esso contenuti ci permettono di ricostruire i primi anni di attività della Sezione e di correggere alcuni refusi contenuti nel volume “Dal Corno Stella al K2 e oltre”, pubblicato dal CAI Sondrio nel 1996, e nel nostro “Album” del 2002. Il “Libro delle deliberazioni”, costituito da un registro di grande formato, contiene, scritti a mano con calligrafia e linguaggio d’epoca, i verbali delle riunioni del CAI Morbegno dal 1931, anno della sua fondazione, al 1936. Trascriviamo per intero il verbale della prima assemblea, mentre per i successivi crediamo che sia sufficiente estrapolare i passaggi più significativi. CAI MORBEGNO

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“Oggi 28 aprile 1931 – IX E.F. presenti i Sigg.ri: Gianera rag. Piero; Romegialli cav. Italo; Lusardi rag Guido; Schiantarelli Dott. Prof. Salvatore; Bertolini prof. Piero; Galli Dino, con autorizzazione in data 3 aprile 1931 – IX di S.E. l’On. Manaresi, Presid. Generale del C.A.I. si costituisce in Morbegno la Sezione del Club Alpino Italiano e precisamente sotto il nome di “Sezione Bitto”. La Sezione viene costituita con N° 51 Soci ordinari e con N° 4 Soci aggregati complessivamente N° 55 Soci. Con delibera in data 23 aprile 1931 – IX S.E. l’On. Manaresi su proposta delle autorità locali e previo nulla osta del Segretario Politico Provinciale nomina a Presidente della 10 CAI MORBEGNO

“Sezione Bitto” in Morbegno il Signor Gianera rag. Piero (erroneamente indicato nell’Album come Pietro Granera - ndr) ed il Consiglio Direttivo come appresso: Vice Presidente: Romegialli cav. Italo; Consiglieri: Lusardi rag. Guido; id: Schiantarelli Dott. Prof. Salvatore; id:Bertolini prof. Piero; Segretario: Galli Dino Il Presidente ed i componenti il Consiglio Direttivo presa visione di quanto sopra detto, assumono la carica loro affidata e si delibera quanto segue: 1° Quote sociali Presa visione dell’art. 9 dello Statuto Sociale si fissa l’ammontare delle quote sociali per la “Sezione Bitto” come

segue: Soci ordinari £ 25 annue Soci aggregati £ 15 annue Soci studenti £ 17 annue (quota fissata dal Consiglio Centrale) 2° Sede Sociale La Sede della “Sezione Bitto” viene stabilita previo accordi presi dal Presidente col Sig. Galbusera Ermete, proprietario del Caffè e Pasticceria Folcher, nel salone retrostante l’esercizio di sua proprietà (vedi promemoria affitto). Il locale oltre che luogo di adunanza del Consiglio Direttivo si crede opportuno e si stabilisce avere nella sede stessa un luogo di ritrovo diurno, festivo e serale riservato esclusivamente ai Soci regolarmente iscritti; i quali avranno modo così d’avere CAI MORBEGNO 11


“Oggi 28 aprile 1931 – IX E.F. presenti i Sigg.ri: Gianera rag. Piero; Romegialli cav. Italo; Lusardi rag Guido; Schiantarelli Dott. Prof. Salvatore; Bertolini prof. Piero; Galli Dino, con autorizzazione in data 3 aprile 1931 – IX di S.E. l’On. Manaresi, Presid. Generale del C.A.I. si costituisce in Morbegno la Sezione del Club Alpino Italiano e precisamente sotto il nome di “Sezione Bitto”. La Sezione viene costituita con N° 51 Soci ordinari e con N° 4 Soci aggregati complessivamente N° 55 Soci. Con delibera in data 23 aprile 1931 – IX S.E. l’On. Manaresi su proposta delle autorità locali e previo nulla osta del Segretario Politico Provinciale nomina a Presidente della 10 CAI MORBEGNO

“Sezione Bitto” in Morbegno il Signor Gianera rag. Piero (erroneamente indicato nell’Album come Pietro Granera - ndr) ed il Consiglio Direttivo come appresso: Vice Presidente: Romegialli cav. Italo; Consiglieri: Lusardi rag. Guido; id: Schiantarelli Dott. Prof. Salvatore; id:Bertolini prof. Piero; Segretario: Galli Dino Il Presidente ed i componenti il Consiglio Direttivo presa visione di quanto sopra detto, assumono la carica loro affidata e si delibera quanto segue: 1° Quote sociali Presa visione dell’art. 9 dello Statuto Sociale si fissa l’ammontare delle quote sociali per la “Sezione Bitto” come

segue: Soci ordinari £ 25 annue Soci aggregati £ 15 annue Soci studenti £ 17 annue (quota fissata dal Consiglio Centrale) 2° Sede Sociale La Sede della “Sezione Bitto” viene stabilita previo accordi presi dal Presidente col Sig. Galbusera Ermete, proprietario del Caffè e Pasticceria Folcher, nel salone retrostante l’esercizio di sua proprietà (vedi promemoria affitto). Il locale oltre che luogo di adunanza del Consiglio Direttivo si crede opportuno e si stabilisce avere nella sede stessa un luogo di ritrovo diurno, festivo e serale riservato esclusivamente ai Soci regolarmente iscritti; i quali avranno modo così d’avere CAI MORBEGNO 11


quell’affiatamento reciproco e maggiormente essere al contatto con la Direzione, per perseguire anche con maggiore conoscenza le finalità della medesima. 3° Biblioteca Sociale In ottemperanza all’art. N° 2 Parag. F dello Statuto Sociale, si delibera inoltre la formazione di una biblioteca per i Soci della Sezione e questo secondo le possibilità finanziarie della medesima. 4° Collegio Sindacale A richiesta del Consiglio Centrale per la formazione del Collegio Sindacale composto di N° 3 (tre) Soci si delibera proporre i Sigg.: 1.Scalcini dott. Fausto; 2.Begalli Romano; 12 CAI MORBEGNO

riuscita sotto ogni punto di vista: nessun incidente è venuto a turbare la cordialità della festa. La madrina del gagliardetto sig.ra Maria Schiantarelli à con adatte parole elevate sintetizzato il significato morale del dono del Gagliardetto da parte delle eg. Consocie. Rispose il Presidente con un breve discorso che riscosse l’approvazione di tutti i presenti. Viene stabilito un programma delle gite sociali per il 1932, programma che verrà stampato, distribuito a tutti i soci e spedito alle varie sezioni del C.A.I. dell’Italia settentrionale e centrale. Si fanno voti perché il programma non resti solo tale sulla carta, ma venga realizzato il più possibile. In proposito si rileva come la purtroppo evidente apatia dei Soci, recte di una parte di essi, sia quasi preoccupante, ma l’entusiasmo che anima il gruppo fattivo della sezione verrà indubbiamente a scuotere anche i pigri”. 3.Tarabini avv. Franco 5° Festeggiamenti ed inaugurazione della Sezione. Gita sociale a stabilirsi”. 1932 - La neo sezione inizia la sua attività e l’anno seguente, come si evince dal verbale d’Assemblea del 28 gennaio 1932, crea il nucleo scientifico. “A costituire il primo nucleo scientifico come da istruzioni avute dalla Sede Centrale, viene delegato il Dr. Fausto Scalcini con la qualifica di Presidente di Gruppo, egli si propone di chiamare a far parte del Gruppo l’ing. Diego Vanoni per la toponomastica, il Consigliere Sig. Dante Cirillo per la mineralogia e altri che sarà a nominare più innanzi”.

Viene inaugurato anche il gagliardetto della Sezione (ancora esistente, bucherellato dalle tarme, in un armadietto della sede). “Per l’inaugurazione del Gagliardetto sociale già donato dalle sigg. Socie in occasione del trattenimento musicale del mese scorso e di cui sarà madrina la egr. Consocia Maria Schiantarelli viene deliberata una gita a Madesimo per il giorno 21 febbraio con speciale invito a tutti i soci di parteciparvi”. Nel 1932 l’attività è molto intensa. Ben quattro verbali riguardano quell’anno. Il 12 marzo “il Presidente dà un succinto resoconto della gita a Madesimo rilevando come la stessa sia pienamente

1933 - Nello stesso anno il Presidente Piero Gianera si dimette. Il nuovo Consiglio direttivo è formato, oltre che dal neo Presidente, Console cav. Italo Romegialli, dai consiglieri Dr. Prof. Salvatore Schiantarelli, Giuseppe Milani, Ing. Diego Vanoni, Dott. Tino Rocca, Dott. Fausto Scalcini, Prof. Piero Bertolini, Dante Cirillo, Genesio Martinelli, Rag. Piero Gianera. I revisori dei conti sono: Rag. Cav. Guido Lusardi, Carlo Ghislanzoni, Giovanni Ghislanzoni. I Soci sono 87. Queste le delibere valide per il 1933. “I = Per il giorno 8 Gennaio 1933 – XI – una gita sociale di apertura della stagione invernale, a Monte Spluga.

Per la fissazione della quota e le pratiche inerenti alla gita venne nominato direttore della medesima il consgliere G. Martinelli. II = Al consigliere Piero Bertolini venne affidato l’incarico di organizzare una serata di musica e danza a scopo di propaganda e di raccolta di fondi per la cassa sociale. III = In considerazione dell’incendio che à distrutto la casa della Guida Fiorelli di Valmasino (Virgilio Fiorelli – ndr) venne aperta una sottoscrizione chiamando a contribuire anche le sezioni consorelle. Un articolo sul “Polo Valtellinese” renderà di pubblica ragione il fatto e per la sottoscrizione in seno alla nostra sezione si approfitterà dell’adunata di Domenica 8 Gennaio. IV = Data lettura delle varie circolari provenienti dalla Sede Centrale, parlò brevemente, ma efficacemente il Presidente sul nuovo indirizzo attivo e fattivo che egli intende dare alla Sezione, con i più larghi criteri di popolarità e cameratismo fra soci e non soci, sempre in armonia con le direttive centrali. Alla discussione animata e cordiale presero parte tutti i Consiglieri”. 1934 - Nel 1934 si dimette anche il Console Italo Romegialli, perché “per adempiere al nuovo incarico del Comando della III legione M.V.S.N. di Cuneo è costretto a trasferirsi in quella città”. Assume la presidenza Giuseppe (Pino) Milani. Entrano a far parte del direttivo il Rag. Luigi Martinelli per il G.U.F. e il Rag. Giuseppe Botta per i F.G.C. La programmazione annuale

prevede una gita escursionistica alla Ca’ San Marco e una gita sciistica alla capanna Livrio e al Cristallo, in occasione di una gara di staffetta. Si registrano anche le prime difficoltà, perché il Segretario Romano Begalli in giugno fa “presente come la metà dei soci debbano ancora pagare la quota per l’anno XII malgrado le numerose sollecitazioni verbali e scritte”. Inoltre il Presidente in ottobre “fa constatare con rammarico come troppo scarso sia l’interessamento dei Sigg. Soci alla vita della Sezione, e come l’attività alpinistica si impernii si può dire esclusivamente sulla solita mezza dozzina di veri appassionati della montagna”. Il Collegio dei Sindaci, infine, non funziona “a causa della forzata assenza del Sig. Dante Cirillo per malattia e degli altri due morosi e radiati da Soci”. 1935 - Il 1935 fa registrare un aggravarsi della crisi. Si ha l’impressione che manchi accordo fra i componenti del Consiglio. “I Soci sono ora ridotti a 23 ordinari, 1 studente e 14 aggregati, ma – si osserva – la selezione di questi anni dovrebbe aver eliminato tutti i morosi per carattere o per innata trascuratezza”. Addirittura il primo presidente della Sezione Piero Gianera che “da molto tempo con inspiegabile ostinazione, non partecipa a nessuna riunione e non paga la quota sociale da oltre un anno per quanto ripetutamente sollecitato” viene radiato. E’ interessante la relazione letta dal Presidente Pino Milani all’Assemblea del 20 novembre 1935. “Nel presentarvi il rendiconto della gestione anno XIII della nostra giovane Sezione, devo CAI MORBEGNO 13


quell’affiatamento reciproco e maggiormente essere al contatto con la Direzione, per perseguire anche con maggiore conoscenza le finalità della medesima. 3° Biblioteca Sociale In ottemperanza all’art. N° 2 Parag. F dello Statuto Sociale, si delibera inoltre la formazione di una biblioteca per i Soci della Sezione e questo secondo le possibilità finanziarie della medesima. 4° Collegio Sindacale A richiesta del Consiglio Centrale per la formazione del Collegio Sindacale composto di N° 3 (tre) Soci si delibera proporre i Sigg.: 1.Scalcini dott. Fausto; 2.Begalli Romano; 12 CAI MORBEGNO

riuscita sotto ogni punto di vista: nessun incidente è venuto a turbare la cordialità della festa. La madrina del gagliardetto sig.ra Maria Schiantarelli à con adatte parole elevate sintetizzato il significato morale del dono del Gagliardetto da parte delle eg. Consocie. Rispose il Presidente con un breve discorso che riscosse l’approvazione di tutti i presenti. Viene stabilito un programma delle gite sociali per il 1932, programma che verrà stampato, distribuito a tutti i soci e spedito alle varie sezioni del C.A.I. dell’Italia settentrionale e centrale. Si fanno voti perché il programma non resti solo tale sulla carta, ma venga realizzato il più possibile. In proposito si rileva come la purtroppo evidente apatia dei Soci, recte di una parte di essi, sia quasi preoccupante, ma l’entusiasmo che anima il gruppo fattivo della sezione verrà indubbiamente a scuotere anche i pigri”. 3.Tarabini avv. Franco 5° Festeggiamenti ed inaugurazione della Sezione. Gita sociale a stabilirsi”. 1932 - La neo sezione inizia la sua attività e l’anno seguente, come si evince dal verbale d’Assemblea del 28 gennaio 1932, crea il nucleo scientifico. “A costituire il primo nucleo scientifico come da istruzioni avute dalla Sede Centrale, viene delegato il Dr. Fausto Scalcini con la qualifica di Presidente di Gruppo, egli si propone di chiamare a far parte del Gruppo l’ing. Diego Vanoni per la toponomastica, il Consigliere Sig. Dante Cirillo per la mineralogia e altri che sarà a nominare più innanzi”.

Viene inaugurato anche il gagliardetto della Sezione (ancora esistente, bucherellato dalle tarme, in un armadietto della sede). “Per l’inaugurazione del Gagliardetto sociale già donato dalle sigg. Socie in occasione del trattenimento musicale del mese scorso e di cui sarà madrina la egr. Consocia Maria Schiantarelli viene deliberata una gita a Madesimo per il giorno 21 febbraio con speciale invito a tutti i soci di parteciparvi”. Nel 1932 l’attività è molto intensa. Ben quattro verbali riguardano quell’anno. Il 12 marzo “il Presidente dà un succinto resoconto della gita a Madesimo rilevando come la stessa sia pienamente

1933 - Nello stesso anno il Presidente Piero Gianera si dimette. Il nuovo Consiglio direttivo è formato, oltre che dal neo Presidente, Console cav. Italo Romegialli, dai consiglieri Dr. Prof. Salvatore Schiantarelli, Giuseppe Milani, Ing. Diego Vanoni, Dott. Tino Rocca, Dott. Fausto Scalcini, Prof. Piero Bertolini, Dante Cirillo, Genesio Martinelli, Rag. Piero Gianera. I revisori dei conti sono: Rag. Cav. Guido Lusardi, Carlo Ghislanzoni, Giovanni Ghislanzoni. I Soci sono 87. Queste le delibere valide per il 1933. “I = Per il giorno 8 Gennaio 1933 – XI – una gita sociale di apertura della stagione invernale, a Monte Spluga.

Per la fissazione della quota e le pratiche inerenti alla gita venne nominato direttore della medesima il consgliere G. Martinelli. II = Al consigliere Piero Bertolini venne affidato l’incarico di organizzare una serata di musica e danza a scopo di propaganda e di raccolta di fondi per la cassa sociale. III = In considerazione dell’incendio che à distrutto la casa della Guida Fiorelli di Valmasino (Virgilio Fiorelli – ndr) venne aperta una sottoscrizione chiamando a contribuire anche le sezioni consorelle. Un articolo sul “Polo Valtellinese” renderà di pubblica ragione il fatto e per la sottoscrizione in seno alla nostra sezione si approfitterà dell’adunata di Domenica 8 Gennaio. IV = Data lettura delle varie circolari provenienti dalla Sede Centrale, parlò brevemente, ma efficacemente il Presidente sul nuovo indirizzo attivo e fattivo che egli intende dare alla Sezione, con i più larghi criteri di popolarità e cameratismo fra soci e non soci, sempre in armonia con le direttive centrali. Alla discussione animata e cordiale presero parte tutti i Consiglieri”. 1934 - Nel 1934 si dimette anche il Console Italo Romegialli, perché “per adempiere al nuovo incarico del Comando della III legione M.V.S.N. di Cuneo è costretto a trasferirsi in quella città”. Assume la presidenza Giuseppe (Pino) Milani. Entrano a far parte del direttivo il Rag. Luigi Martinelli per il G.U.F. e il Rag. Giuseppe Botta per i F.G.C. La programmazione annuale

prevede una gita escursionistica alla Ca’ San Marco e una gita sciistica alla capanna Livrio e al Cristallo, in occasione di una gara di staffetta. Si registrano anche le prime difficoltà, perché il Segretario Romano Begalli in giugno fa “presente come la metà dei soci debbano ancora pagare la quota per l’anno XII malgrado le numerose sollecitazioni verbali e scritte”. Inoltre il Presidente in ottobre “fa constatare con rammarico come troppo scarso sia l’interessamento dei Sigg. Soci alla vita della Sezione, e come l’attività alpinistica si impernii si può dire esclusivamente sulla solita mezza dozzina di veri appassionati della montagna”. Il Collegio dei Sindaci, infine, non funziona “a causa della forzata assenza del Sig. Dante Cirillo per malattia e degli altri due morosi e radiati da Soci”. 1935 - Il 1935 fa registrare un aggravarsi della crisi. Si ha l’impressione che manchi accordo fra i componenti del Consiglio. “I Soci sono ora ridotti a 23 ordinari, 1 studente e 14 aggregati, ma – si osserva – la selezione di questi anni dovrebbe aver eliminato tutti i morosi per carattere o per innata trascuratezza”. Addirittura il primo presidente della Sezione Piero Gianera che “da molto tempo con inspiegabile ostinazione, non partecipa a nessuna riunione e non paga la quota sociale da oltre un anno per quanto ripetutamente sollecitato” viene radiato. E’ interessante la relazione letta dal Presidente Pino Milani all’Assemblea del 20 novembre 1935. “Nel presentarvi il rendiconto della gestione anno XIII della nostra giovane Sezione, devo CAI MORBEGNO 13


necessariamente lasciare a parte la modestia per esporvi realmente quanto fu fatto e quanto intendo fare! I Soci erano una ventina di più quando S. E. Manaresi mi conferì la Presidenza della Sezione di Morbegno del CAI. Qualche altro forse uscirà ancora dalle file ora che si è iniziato il tesseramento per l’anno XIV. Poco male ché chi se ne è andato non era certamente fra i migliori. Qualche nuovo Socio invece è entrato e buono. Ora all’inizio del XIV la ns Sezione ne conta 38, e precisamente: 23 ordinari, 1 stud. e 14 aggregati. Nell’anno ora ultimato la ns Sezione ha svolto una discreta attività, intensa senz’altro se la rapportiamo all’inerzia degli scorsi anni. Ascensioni numerosissime e di una certa importanza, fra le quali la principale e non facile quella del Disgrazia dello scorso settembre che à visto ben 13 ns Soci sulla vetta, e fu la prima volta nella lunga storia delle ascensioni di quel gruppo. Alcune gite collettive, sia invernali che estive, allo Spluga, allo Stelvio, in Val Masino, ecc. sono riuscite ottimamente. Per l’anno nuovo naturalmente si cercherà di fare di più, e come per lo scorso anno studierò il modo migliore per agevolare la partecipazione di buon numero di Soci, mediante trasporti gratuiti, tenuissime quote, ecc. Come attività culturale è riuscita benissimo la Mostra di quadri del Pittore Punzo da noi organizzata nel salone gentilmente messoci a disposizione dal Municipio. A ricordo della manifestazione stessa decidemmo l’acquisto del miglior quadro, quello 14 CAI MORBEGNO

riproducente la parete nord del Disgrazia. Sono lieto della vostra approvazione. Ripeto che il quadro resta di proprietà della nostra Sezione, e la spesa di £ 1500.- venne così ripartita: £ 500 la Sezione, £ 500 il Comune e £ 500 io personalmente (sarebbe interessante sapere dove è andata a finire la tela! – ndr). Non credo di avere altro da esporre in questa breve relazione se non l’augurio mio e vostro che nell’anno XIV si farà molto di più e la conquista di nuove scintillanti cime la faremo guidando sui nevai i nomi dei Soci camerati in A.O. (Africa Orientale) a difendere le fortune della Patria, sotto il sole equatoriale”. L’attività svolta dalla Sezione nel 1935 è, come giustamente sottolinea il Presidente, fitta e importante. “Le gite-ascensioni compiute dalla nostra Sezione nell’anno XIII sono le seguenti, con la partecipazione dei soci maggiormente appassionati: 1.Pizzo dei 3 Signori – Camisolo – Capanna Grassi 2.Casa S. Marco – Verrobbio – Bomino – Gerola 3.Tartano – Pedena – Casa S.Marco 4.Pizzo dei 3 Signori – Tronella 5.Punta Fiorelli 6.Capanna Rosalba – Cresta Segantini 7.Grigna settentrionale 8.Grigna meridionale 9.Disgrazia 10.Cima Torelli 11.Punta Sertori 12. Rasica (per il recupero salme 5 alpinisti)”. Il riferimento è alla disgrazia in cui morì Antonio Omio – ndr. 1936 - Nel 1936 continua lo stillicidio di radiazioni per

morosità. I soci si riducono a 29. E’ costretto a dimettersi il vice Presidente Ing. Diego Vanoni che deve partire per l’Africa Orientale Italiana per ragioni di lavoro. Nell’assemblea del 26 ottobre viene creata una speciale categoria di soci aderenti, quella degli operai, “i quali verseranno la quota annua di £ 10.soltanto, pagabili anche a rate, ed avranno diritto agli stessi vantaggi degli altri Soci per quanto riguarda le iniziative promosse dalla Sezione, e quindi non nei confronti della Sede Sociale”. Inoltre “dopo accurata discussione e presa visione di tutti i vantaggi che ne potrebbero derivare alla Sezione, viene deliberato l’acquisto, o meglio l’affitto, ed il canone definitivo che si aggirerà sulle £ 100 – (cento) verrà fissato più tardi, di una spaziosa baita ben riparata e sufficientemente confortevole per i pernottamenti, sul Monte Olano in Val Gerola. Ciò allo scopo di poter avere una base vicina per lo sport invernale sciistico che consenta ai Soci di qualsiasi categoria di potersi dedicare allo sci ogni domenica con la minima spesa possibile”. Come le precedenti, la “seduta viene tolta con il saluto al Duce così com’era iniziata”. Il “Libro delle deliberazioni” non contiene altri verbali. Vi è allegato un foglio dattiloscritto, datato 10 dicembre 1943/ XXII, con il quale il Segretario Romano Begalli consegna nelle mani del vice Presidente Dott. Ennio Gavazzi, che reggerà la Sezione nel biennio 1943/44, gli incartamenti relativi alla gestione della Sezione e il labaro. In seguito, sotto la reggenza di Luigi Martinelli, la Sezione di Morbegno diventerà

sottosezione di Sondrio fino al 1962. Speriamo di poter venire in possesso di nuova documentazione scritta, se esiste, che avalli le testimonianze orali dei protagonisti di quell’epoca, anche se ci rendiamo conto che le vicende della guerra avranno sicuramente impedito lo svolgimento di una qualsivoglia attività associativa.

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necessariamente lasciare a parte la modestia per esporvi realmente quanto fu fatto e quanto intendo fare! I Soci erano una ventina di più quando S. E. Manaresi mi conferì la Presidenza della Sezione di Morbegno del CAI. Qualche altro forse uscirà ancora dalle file ora che si è iniziato il tesseramento per l’anno XIV. Poco male ché chi se ne è andato non era certamente fra i migliori. Qualche nuovo Socio invece è entrato e buono. Ora all’inizio del XIV la ns Sezione ne conta 38, e precisamente: 23 ordinari, 1 stud. e 14 aggregati. Nell’anno ora ultimato la ns Sezione ha svolto una discreta attività, intensa senz’altro se la rapportiamo all’inerzia degli scorsi anni. Ascensioni numerosissime e di una certa importanza, fra le quali la principale e non facile quella del Disgrazia dello scorso settembre che à visto ben 13 ns Soci sulla vetta, e fu la prima volta nella lunga storia delle ascensioni di quel gruppo. Alcune gite collettive, sia invernali che estive, allo Spluga, allo Stelvio, in Val Masino, ecc. sono riuscite ottimamente. Per l’anno nuovo naturalmente si cercherà di fare di più, e come per lo scorso anno studierò il modo migliore per agevolare la partecipazione di buon numero di Soci, mediante trasporti gratuiti, tenuissime quote, ecc. Come attività culturale è riuscita benissimo la Mostra di quadri del Pittore Punzo da noi organizzata nel salone gentilmente messoci a disposizione dal Municipio. A ricordo della manifestazione stessa decidemmo l’acquisto del miglior quadro, quello 14 CAI MORBEGNO

riproducente la parete nord del Disgrazia. Sono lieto della vostra approvazione. Ripeto che il quadro resta di proprietà della nostra Sezione, e la spesa di £ 1500.- venne così ripartita: £ 500 la Sezione, £ 500 il Comune e £ 500 io personalmente (sarebbe interessante sapere dove è andata a finire la tela! – ndr). Non credo di avere altro da esporre in questa breve relazione se non l’augurio mio e vostro che nell’anno XIV si farà molto di più e la conquista di nuove scintillanti cime la faremo guidando sui nevai i nomi dei Soci camerati in A.O. (Africa Orientale) a difendere le fortune della Patria, sotto il sole equatoriale”. L’attività svolta dalla Sezione nel 1935 è, come giustamente sottolinea il Presidente, fitta e importante. “Le gite-ascensioni compiute dalla nostra Sezione nell’anno XIII sono le seguenti, con la partecipazione dei soci maggiormente appassionati: 1.Pizzo dei 3 Signori – Camisolo – Capanna Grassi 2.Casa S. Marco – Verrobbio – Bomino – Gerola 3.Tartano – Pedena – Casa S.Marco 4.Pizzo dei 3 Signori – Tronella 5.Punta Fiorelli 6.Capanna Rosalba – Cresta Segantini 7.Grigna settentrionale 8.Grigna meridionale 9.Disgrazia 10.Cima Torelli 11.Punta Sertori 12. Rasica (per il recupero salme 5 alpinisti)”. Il riferimento è alla disgrazia in cui morì Antonio Omio – ndr. 1936 - Nel 1936 continua lo stillicidio di radiazioni per

morosità. I soci si riducono a 29. E’ costretto a dimettersi il vice Presidente Ing. Diego Vanoni che deve partire per l’Africa Orientale Italiana per ragioni di lavoro. Nell’assemblea del 26 ottobre viene creata una speciale categoria di soci aderenti, quella degli operai, “i quali verseranno la quota annua di £ 10.soltanto, pagabili anche a rate, ed avranno diritto agli stessi vantaggi degli altri Soci per quanto riguarda le iniziative promosse dalla Sezione, e quindi non nei confronti della Sede Sociale”. Inoltre “dopo accurata discussione e presa visione di tutti i vantaggi che ne potrebbero derivare alla Sezione, viene deliberato l’acquisto, o meglio l’affitto, ed il canone definitivo che si aggirerà sulle £ 100 – (cento) verrà fissato più tardi, di una spaziosa baita ben riparata e sufficientemente confortevole per i pernottamenti, sul Monte Olano in Val Gerola. Ciò allo scopo di poter avere una base vicina per lo sport invernale sciistico che consenta ai Soci di qualsiasi categoria di potersi dedicare allo sci ogni domenica con la minima spesa possibile”. Come le precedenti, la “seduta viene tolta con il saluto al Duce così com’era iniziata”. Il “Libro delle deliberazioni” non contiene altri verbali. Vi è allegato un foglio dattiloscritto, datato 10 dicembre 1943/ XXII, con il quale il Segretario Romano Begalli consegna nelle mani del vice Presidente Dott. Ennio Gavazzi, che reggerà la Sezione nel biennio 1943/44, gli incartamenti relativi alla gestione della Sezione e il labaro. In seguito, sotto la reggenza di Luigi Martinelli, la Sezione di Morbegno diventerà

sottosezione di Sondrio fino al 1962. Speriamo di poter venire in possesso di nuova documentazione scritta, se esiste, che avalli le testimonianze orali dei protagonisti di quell’epoca, anche se ci rendiamo conto che le vicende della guerra avranno sicuramente impedito lo svolgimento di una qualsivoglia attività associativa.

CAI MORBEGNO 15


KIMA “Se un uomo si giudica da quanti amici lo piangono, a piangere Pierangelo erano tantissimi, come se tra le nostre mani si fosse spezzato quel cavo e non fossimo stati lì a prenderti, come hai sempre fatto tu, Pierangelo” (Sergio Cattadori)

di Riccardo Marchini

Chi era Kima? E’ difficile rispondere a una domanda come questa, perché c’è il pericolo di lasciarsi condizionare da criteri di valutazione personali. Ho cercato di sopperire a questi limiti chiedendo aiuto prima di tutto a sua moglie Anna e facendo poi ricorso ad alcune testimonianze di chi ha avuto modo di conoscerlo. Un fatto è emerso con chiarezza: Kima, aperto al mondo, con un forte senso del prossimo, aveva la capacità innata di aggregare quanti erano coinvolti nelle sue molteplici iniziative, riuscendo sempre a trasformare i rapporti di lavoro in legami di amicizia. 16 CAI MORBEGNO

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KIMA “Se un uomo si giudica da quanti amici lo piangono, a piangere Pierangelo erano tantissimi, come se tra le nostre mani si fosse spezzato quel cavo e non fossimo stati lì a prenderti, come hai sempre fatto tu, Pierangelo” (Sergio Cattadori)

di Riccardo Marchini

Chi era Kima? E’ difficile rispondere a una domanda come questa, perché c’è il pericolo di lasciarsi condizionare da criteri di valutazione personali. Ho cercato di sopperire a questi limiti chiedendo aiuto prima di tutto a sua moglie Anna e facendo poi ricorso ad alcune testimonianze di chi ha avuto modo di conoscerlo. Un fatto è emerso con chiarezza: Kima, aperto al mondo, con un forte senso del prossimo, aveva la capacità innata di aggregare quanti erano coinvolti nelle sue molteplici iniziative, riuscendo sempre a trasformare i rapporti di lavoro in legami di amicizia. 16 CAI MORBEGNO

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Per quanto mi riguarda, ho conosciuto Pierangelo Marchetti nel 1989 quando il CAI Morbegno decise per la prima volta di inserire nella propria programmazione annuale un corso di sci alpinismo e uno di avviamento all’alpinismo. In mancanza di istruttori locali interni al Club Alpino, il direttivo della sezione, di cui ero presidente, dovette rivolgersi alla professionalità delle guide alpine. Trovammo la disponibilità di Giorgio Bertarelli e, appunto, di Marchetti che per i due anni successivi si rese disponibile a dirigere i corsi. Iniziò così il mio rapporto, purtroppo breve, con Pierangelo; rapporto dapprima professionale, poi anche amicale, perché, quando era libero da impegni, Kima si univa di buon grado al piccolo gruppo con il quale, al sabato, mi dedicavo allo sci alpinismo. Ho nitido il ricordo di alcune piacevoli escursioni in Val Gerola e in Val Malenco e, anche dopo tanti anni, mi pare di sentire le sue disquisizioni sui materiali più appropriati e sulle tecniche per praticare sia lo sci alpinismo sia l’arrampicata. Aveva bisogno di un contatto fisico e frequente con i monti, quelli della sua valle in particolare, tanto da decidere di interrompere gli studi universitari per dedicarsi in maniera totale alla montagna e all’alpinismo. “Non poteva che essere così – mi conferma Anna - perché era qualcosa che faceva parte della sua natura. Per soddisfare questa sua esigenza non esitò a preferire ad una professione probabilmente più redditizia, quella incerta della guida”. E’ la riprova di quanto Kima 18 CAI MORBEGNO

stesso dichiarò in un’intervista rilasciata nel 1990 a Fabio Penati sulla rivista OASIS: “La professione di guida non si sceglie per soldi, ma è una scelta di vita ... C’è una differenza sostanziale con la generazione di guide alpine locali che mi hanno preceduto: loro facevano questo mestiere per sopravvivere, io invece lo faccio per vivere in un altro modo”. Cominciò presto a cimentarsi con la roccia; prima per gioco, come molti ragazzi della valle, poi per una spinta esistenziale. C’è chi si ricorda quando, verso la fine degli anni ’70, nel momento in cui la nouvelle vague del sassismo era oramai una realtà consolidata, fece la sua comparsa al Sasso di Remenno un ragazzetto vestito come Peter nel cartoon di Heidi. Non gli ci volle molto tempo per fare capire le sue qualità e, soprattutto, le sue intenzioni. Kima, infatti, non si lasciò né impressionare né influenzare dalla fama dei personaggi che frequentavano la palestra del Sasso, perché, come lui stesso dichiarò nella già citata intervista a proposito dell’arrampicata sportiva: “Ho vissuto con un certo distacco la successiva evoluzione, perché rifiutavo l’eccessiva specializzazione che l’arrampicata andava subendo, oltre al fatto che in pochi anni ha finito per riproporre gli stessi cliché, tanto vituperati, dell’alpinismo classico: esasperazione della competizione, creazione di miti, il problema dell’etica ecc.”. Da quelle prime evoluzioni sul Sasso ebbe inizio la sua carriera, dapprima di alpinista, poi di aspirante guida e infine di guida, con il

A sinistra : Pierangelo guida la comitiva durante il corso di scialpinismo del 1989 salendo da Mellarolo verso Olano. A sinistra: due momenti sul granito della sua Val Masino.

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Per quanto mi riguarda, ho conosciuto Pierangelo Marchetti nel 1989 quando il CAI Morbegno decise per la prima volta di inserire nella propria programmazione annuale un corso di sci alpinismo e uno di avviamento all’alpinismo. In mancanza di istruttori locali interni al Club Alpino, il direttivo della sezione, di cui ero presidente, dovette rivolgersi alla professionalità delle guide alpine. Trovammo la disponibilità di Giorgio Bertarelli e, appunto, di Marchetti che per i due anni successivi si rese disponibile a dirigere i corsi. Iniziò così il mio rapporto, purtroppo breve, con Pierangelo; rapporto dapprima professionale, poi anche amicale, perché, quando era libero da impegni, Kima si univa di buon grado al piccolo gruppo con il quale, al sabato, mi dedicavo allo sci alpinismo. Ho nitido il ricordo di alcune piacevoli escursioni in Val Gerola e in Val Malenco e, anche dopo tanti anni, mi pare di sentire le sue disquisizioni sui materiali più appropriati e sulle tecniche per praticare sia lo sci alpinismo sia l’arrampicata. Aveva bisogno di un contatto fisico e frequente con i monti, quelli della sua valle in particolare, tanto da decidere di interrompere gli studi universitari per dedicarsi in maniera totale alla montagna e all’alpinismo. “Non poteva che essere così – mi conferma Anna - perché era qualcosa che faceva parte della sua natura. Per soddisfare questa sua esigenza non esitò a preferire ad una professione probabilmente più redditizia, quella incerta della guida”. E’ la riprova di quanto Kima 18 CAI MORBEGNO

stesso dichiarò in un’intervista rilasciata nel 1990 a Fabio Penati sulla rivista OASIS: “La professione di guida non si sceglie per soldi, ma è una scelta di vita ... C’è una differenza sostanziale con la generazione di guide alpine locali che mi hanno preceduto: loro facevano questo mestiere per sopravvivere, io invece lo faccio per vivere in un altro modo”. Cominciò presto a cimentarsi con la roccia; prima per gioco, come molti ragazzi della valle, poi per una spinta esistenziale. C’è chi si ricorda quando, verso la fine degli anni ’70, nel momento in cui la nouvelle vague del sassismo era oramai una realtà consolidata, fece la sua comparsa al Sasso di Remenno un ragazzetto vestito come Peter nel cartoon di Heidi. Non gli ci volle molto tempo per fare capire le sue qualità e, soprattutto, le sue intenzioni. Kima, infatti, non si lasciò né impressionare né influenzare dalla fama dei personaggi che frequentavano la palestra del Sasso, perché, come lui stesso dichiarò nella già citata intervista a proposito dell’arrampicata sportiva: “Ho vissuto con un certo distacco la successiva evoluzione, perché rifiutavo l’eccessiva specializzazione che l’arrampicata andava subendo, oltre al fatto che in pochi anni ha finito per riproporre gli stessi cliché, tanto vituperati, dell’alpinismo classico: esasperazione della competizione, creazione di miti, il problema dell’etica ecc.”. Da quelle prime evoluzioni sul Sasso ebbe inizio la sua carriera, dapprima di alpinista, poi di aspirante guida e infine di guida, con il

A sinistra : Pierangelo guida la comitiva durante il corso di scialpinismo del 1989 salendo da Mellarolo verso Olano. A sinistra: due momenti sul granito della sua Val Masino.

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convincimento che scalare su falesia fosse, sì, importante per la ricerca di una nuova dimensione alpinistica, ma anche propedeutico alle ascensioni in alta quota. In una quindicina d’anni di attività ebbe modo di realizzare scalate in tutto l’arco alpino, sulle falesie del Verdon e delle Calanques e nel massiccio dell’Hoggar in Algeria. Ma furono i monti di casa quelli ai quali si dedicò maggiormente e sui quali poté esprimere il suo talento aprendo numerose nuove vie. La professione di guida alpina richiede un grande equilibrio all’interno del nucleo familiare, sia perché comporta frequenti assenze da casa sia perché lavorare appesi ad una corda a decine o centinaia di metri da terra, con pochi centimetri di roccia a cui appoggiare i piedi e appigli per le mani del tutto aleatori, non è sicuramente come stare seduti dietro una scrivania. Se a questo si aggiunge l’obbligo morale di far parte delle squadre del Soccorso alpino, che spesso operano in condizioni proibitive, si possono immaginare gli stati d’animo di chi rimane a casa. Anna, però, si dimostra molto pragmatica nei suoi ragionamenti: “Io ho conosciuto Pierangelo così, quindi, mettendomi con lui, sapevo che non potevo aspettarmi altra vita che quella”. E’ simpatico il racconto che fa del suo incontro con il futuro marito: “Nel 1985, alla ricerca di una vacanza estiva diversa, lessi per puro caso su Lo Scarpone la proposta di un corso di arrampicata in Valmasino. Il trafiletto, molto scarno, parlava di una settimana di soggiorno 20 CAI MORBEGNO

e lezioni, tutto compreso. Fu un’ispirazione. Partii da Milano, io che sono originaria del Gargano, senza mai avere visto una montagna in vita mia. E il mio istruttore era proprio Pierangelo. Ci siamo sposati due anni dopo”. Poi, riprendendo il filo delle sue riflessioni: “Sapevo anche, però, che era estremamente prudente, perché non aveva la minima esitazione a modificare un programma quando si accorgeva che le condizioni di sicurezza non erano certe. Non arrampicava per arrivare in cima a tutti i costi, ma per il puro piacere del confronto fisico e mentale con la parete. Avevo anche intuito che, sposandosi e, soprattutto, con la nascita delle bambine, aveva fatto la scelta di organizzare il proprio lavoro in funzione delle nuove esigenze della famiglia. E questo per me era sufficiente”. Kima era profondamente legato alla sua valle ed era consapevole dell’importanza di mettersi in gioco anche nella vita pubblica per contribuire a dare un futuro alla Valmasino. Come socio della Mello’s Climber Association, della Cooperativa turistica PAN e come consigliere comunale aveva ben chiare due direttrici, il turismo e l’ambiente. Il suo pensiero è ben sintetizzato in alcuni passaggi dell’intervista già menzionata: “Il problema principale è quello di creare le condizioni economiche e sociali perché i giovani non siano costretti a lasciare la valle per trovare lavoro. Occorrono quindi strutture di servizio, sia pubbliche che private, che consentano di sviluppare l’economia turistica”. Purtroppo “il grosso pericolo che sta

A sinistra: Pierangelo, impegnato sui seracchi del ghiacciaio del Ventina, durante il corso di alpinismo del 1989. A destra: ultima doppia in discesa dall’Aguille de Sougitton nelle Calanques di Marsiglia.

CAI MORBEGNO 21


convincimento che scalare su falesia fosse, sì, importante per la ricerca di una nuova dimensione alpinistica, ma anche propedeutico alle ascensioni in alta quota. In una quindicina d’anni di attività ebbe modo di realizzare scalate in tutto l’arco alpino, sulle falesie del Verdon e delle Calanques e nel massiccio dell’Hoggar in Algeria. Ma furono i monti di casa quelli ai quali si dedicò maggiormente e sui quali poté esprimere il suo talento aprendo numerose nuove vie. La professione di guida alpina richiede un grande equilibrio all’interno del nucleo familiare, sia perché comporta frequenti assenze da casa sia perché lavorare appesi ad una corda a decine o centinaia di metri da terra, con pochi centimetri di roccia a cui appoggiare i piedi e appigli per le mani del tutto aleatori, non è sicuramente come stare seduti dietro una scrivania. Se a questo si aggiunge l’obbligo morale di far parte delle squadre del Soccorso alpino, che spesso operano in condizioni proibitive, si possono immaginare gli stati d’animo di chi rimane a casa. Anna, però, si dimostra molto pragmatica nei suoi ragionamenti: “Io ho conosciuto Pierangelo così, quindi, mettendomi con lui, sapevo che non potevo aspettarmi altra vita che quella”. E’ simpatico il racconto che fa del suo incontro con il futuro marito: “Nel 1985, alla ricerca di una vacanza estiva diversa, lessi per puro caso su Lo Scarpone la proposta di un corso di arrampicata in Valmasino. Il trafiletto, molto scarno, parlava di una settimana di soggiorno 20 CAI MORBEGNO

e lezioni, tutto compreso. Fu un’ispirazione. Partii da Milano, io che sono originaria del Gargano, senza mai avere visto una montagna in vita mia. E il mio istruttore era proprio Pierangelo. Ci siamo sposati due anni dopo”. Poi, riprendendo il filo delle sue riflessioni: “Sapevo anche, però, che era estremamente prudente, perché non aveva la minima esitazione a modificare un programma quando si accorgeva che le condizioni di sicurezza non erano certe. Non arrampicava per arrivare in cima a tutti i costi, ma per il puro piacere del confronto fisico e mentale con la parete. Avevo anche intuito che, sposandosi e, soprattutto, con la nascita delle bambine, aveva fatto la scelta di organizzare il proprio lavoro in funzione delle nuove esigenze della famiglia. E questo per me era sufficiente”. Kima era profondamente legato alla sua valle ed era consapevole dell’importanza di mettersi in gioco anche nella vita pubblica per contribuire a dare un futuro alla Valmasino. Come socio della Mello’s Climber Association, della Cooperativa turistica PAN e come consigliere comunale aveva ben chiare due direttrici, il turismo e l’ambiente. Il suo pensiero è ben sintetizzato in alcuni passaggi dell’intervista già menzionata: “Il problema principale è quello di creare le condizioni economiche e sociali perché i giovani non siano costretti a lasciare la valle per trovare lavoro. Occorrono quindi strutture di servizio, sia pubbliche che private, che consentano di sviluppare l’economia turistica”. Purtroppo “il grosso pericolo che sta

A sinistra: Pierangelo, impegnato sui seracchi del ghiacciaio del Ventina, durante il corso di alpinismo del 1989. A destra: ultima doppia in discesa dall’Aguille de Sougitton nelle Calanques di Marsiglia.

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correndo la Valmasino è che essa venga snaturata prima ancora che siano create le strutture turistiche. In questo senso l’impegno per l’ambiente esprime anche la giusta preoccupazione di conservare un’importantissima fonte di reddito.” Fu anche esponente di traino per il Corpo del Soccorso Alpino. Entrato a farne parte nel 1984, fu promotore dell’elisoccorso nella convinzione che, di fronte alla presa d’atto che l’alpinismo stava subendo una trasformazione epocale per qualità e difficoltà delle ascensioni, anche il Soccorso dovesse subire un’evoluzione significativa per garantire una maggiore efficacia negli interventi. Non era però solo una spinta professionale a spingerlo ad impegnarsi così tanto nel Corpo, perché la disponibilità ad aiutare il prossimo faceva parte del suo bagaglio etico. Ancora una volta Anna ci fornisce una testimonianza che non lascia dubbi. Racconta infatti: “Una sera, chiamato per un intervento, stava preparando la sua attrezzatura personale. Io ero in attesa della nascita della nostra prima bimba ed ero al temine della gravidanza. Preoccupata per il fatto di dover rimanere sola, ricordo

22 CAI MORBEGNO

A sinistra: Pierangelo con alcuni amici durante la salita al Sasso Nero.

Alcune ascensioni di Pierangelo Marchetti

A destra: sul Ferro da Stiro ai Pizzi Gemelli.

(dal Libro del Rifugio Bonacossa–Allievi)

Sotto: con Luisa Jovane al Sasso di Remenno durante l’esibizione nell’ambito della manifestazione Badile 87.

25 agosto 1990 SPARTIACQUE TORRONE-ZOCCA - PUNTA GIULIA (nome proposto), Via “Spiagge lontane”, prima salita con Mario Rapella

24 agosto 1990 AVANCORPO PUNTA RASICA, Via “Donne al mare” con Mario Rapella

30 settembre 1990 SPARTIACQUE TORRONE ZOCCA – PUNTA GIULIA – SPIGOLO OVEST – CRESTA SUD, prima salita con Mario Lodola (seconda ascensione alla punta) 15 agosto 1991 AVANCORPO MONTE ZOCCA – PILASTRO SUD, Via “dei Cervi “ con Paolo Brevi e Leonardo Conforti agosto 1991 AVANCORPO MONTE ZOCCA – PILASTRO SUD, Via “Primavera” con Mario Gagliardi e Antonio Terrazzani 29 agosto 1991 AVANCORPO MONTE ZOCCA – PILASTRO SUD, Via “Sul finire dell’estate”, con Sergio Cattadori 18 luglio 1982 PICCO LUIGI AMEDEO – PARETE OVEST, Via “del Lodola”, prima salita con Mario Barbaglia e Mario Lodola 18 agosto 1992 AVANCORPO PUNTA RASICA, Via “Vice”, prima salita con Mario Gagliardi e Giuseppe Villa

che gli chiesi: Pierangelo! ... E adesso? ... Io? ... Che faccio qua!?. Senza esitazione mi rispose che in quel momento c’era qualcuno che aveva più bisogno di me. E quell’osservazione mi sembrò del tutto naturale. Era fatto così”. Quasi per una sorta di beffa del destino, proprio l’elicottero, il mezzo nel quale più credeva per la buona riuscita delle operazioni di soccorso, gli fu fatale, perché durante un recupero in valle del Drogo l’8 luglio 1994 il cavo del verricello a cui era appeso si spezzò e Kima precipitò da una ventina di metri, perdendo la vita assieme allo sfortunato che stava soccorrendo.

Pierangelo Marchetti nacque a Sondrio l’8 marzo 1963. Con in tasca il diploma di perito agrario conseguito a Remedello in provincia di Brescia nel 1982, si iscrisse alla facoltà di Agraria di Milano dove frequentò per un anno il corso di Scienze della produzione. Nel 1984 entrò a far parte del Soccorso Alpino della Valmasino e tre anni più tardi fu fra i componenti di una delle prime équipe di elisoccorso create in Italia. Collaborò anche con il Nucleo Valanghe di Bormio. Nel 1986 ottenne l’attestato di Aspirante Guida e nel 1992 divenne membro dell’Associazione Guide Alpine. Sposatosi con Anna nel 1987, ebbe due figlie, Giulia e Agata. Nella convinzione che ambiente e turismo fossero i due cardini sui quali far ruotare lo sviluppo della Valmasino, si impegnò come consigliere comunale e si dedicò a diversi progetti aventi come obbiettivo la valorizzazione delle

18 luglio 1993 AVANCORPO SE PUNTA RASICA, Via “Natalia”, prima salita con Mario Barbaglia e Benvenuto More 19 luglio 1993 AVANCORPO PUNTA VITTORIA, PALESTRA DEL RIFUGIO, Via “Porto delle nebbie”, con Mario Barbaglia 16 agosto 1993 PIZZO TORRONE OCCIDENTALE, SPIGOLO SUD DELL’AVANCORPO SSO, Via “delle placche oloceniche”, prima salita con Antonio Terrazzani, Nicole Benedetti, Marco Fioretti, Mario Gagliardi, Giuseppe Villa 17 agosto 1993 PUNTA RASICA-AVANCORPO OVEST, Via “Il sentiero dei sogni”, prima salita con Nicole Benedetti, Marco Fioretti, Mario Gagliardi, Giuseppe Villa

potenzialità della valle; fu anche socio della Cooperativa turistica PAN di Morbegno. Trasferitosi da Filorera a Morbegno, nel 1993 fece la scelta di stabilire la sua dimora fra i castagni di Selvapiana dove aveva intenzione di affiancare alla professione di guida quella di apicoltore e di coltivatore di piccoli frutti di bosco. Purtroppo questa nuova attività fu interrotta l’8 luglio 1994 quando, durante un’operazione di soccorso in valle del Drogo, perse la vita.

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correndo la Valmasino è che essa venga snaturata prima ancora che siano create le strutture turistiche. In questo senso l’impegno per l’ambiente esprime anche la giusta preoccupazione di conservare un’importantissima fonte di reddito.” Fu anche esponente di traino per il Corpo del Soccorso Alpino. Entrato a farne parte nel 1984, fu promotore dell’elisoccorso nella convinzione che, di fronte alla presa d’atto che l’alpinismo stava subendo una trasformazione epocale per qualità e difficoltà delle ascensioni, anche il Soccorso dovesse subire un’evoluzione significativa per garantire una maggiore efficacia negli interventi. Non era però solo una spinta professionale a spingerlo ad impegnarsi così tanto nel Corpo, perché la disponibilità ad aiutare il prossimo faceva parte del suo bagaglio etico. Ancora una volta Anna ci fornisce una testimonianza che non lascia dubbi. Racconta infatti: “Una sera, chiamato per un intervento, stava preparando la sua attrezzatura personale. Io ero in attesa della nascita della nostra prima bimba ed ero al temine della gravidanza. Preoccupata per il fatto di dover rimanere sola, ricordo

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A sinistra: Pierangelo con alcuni amici durante la salita al Sasso Nero.

Alcune ascensioni di Pierangelo Marchetti

A destra: sul Ferro da Stiro ai Pizzi Gemelli.

(dal Libro del Rifugio Bonacossa–Allievi)

Sotto: con Luisa Jovane al Sasso di Remenno durante l’esibizione nell’ambito della manifestazione Badile 87.

25 agosto 1990 SPARTIACQUE TORRONE-ZOCCA - PUNTA GIULIA (nome proposto), Via “Spiagge lontane”, prima salita con Mario Rapella

24 agosto 1990 AVANCORPO PUNTA RASICA, Via “Donne al mare” con Mario Rapella

30 settembre 1990 SPARTIACQUE TORRONE ZOCCA – PUNTA GIULIA – SPIGOLO OVEST – CRESTA SUD, prima salita con Mario Lodola (seconda ascensione alla punta) 15 agosto 1991 AVANCORPO MONTE ZOCCA – PILASTRO SUD, Via “dei Cervi “ con Paolo Brevi e Leonardo Conforti agosto 1991 AVANCORPO MONTE ZOCCA – PILASTRO SUD, Via “Primavera” con Mario Gagliardi e Antonio Terrazzani 29 agosto 1991 AVANCORPO MONTE ZOCCA – PILASTRO SUD, Via “Sul finire dell’estate”, con Sergio Cattadori 18 luglio 1982 PICCO LUIGI AMEDEO – PARETE OVEST, Via “del Lodola”, prima salita con Mario Barbaglia e Mario Lodola 18 agosto 1992 AVANCORPO PUNTA RASICA, Via “Vice”, prima salita con Mario Gagliardi e Giuseppe Villa

che gli chiesi: Pierangelo! ... E adesso? ... Io? ... Che faccio qua!?. Senza esitazione mi rispose che in quel momento c’era qualcuno che aveva più bisogno di me. E quell’osservazione mi sembrò del tutto naturale. Era fatto così”. Quasi per una sorta di beffa del destino, proprio l’elicottero, il mezzo nel quale più credeva per la buona riuscita delle operazioni di soccorso, gli fu fatale, perché durante un recupero in valle del Drogo l’8 luglio 1994 il cavo del verricello a cui era appeso si spezzò e Kima precipitò da una ventina di metri, perdendo la vita assieme allo sfortunato che stava soccorrendo.

Pierangelo Marchetti nacque a Sondrio l’8 marzo 1963. Con in tasca il diploma di perito agrario conseguito a Remedello in provincia di Brescia nel 1982, si iscrisse alla facoltà di Agraria di Milano dove frequentò per un anno il corso di Scienze della produzione. Nel 1984 entrò a far parte del Soccorso Alpino della Valmasino e tre anni più tardi fu fra i componenti di una delle prime équipe di elisoccorso create in Italia. Collaborò anche con il Nucleo Valanghe di Bormio. Nel 1986 ottenne l’attestato di Aspirante Guida e nel 1992 divenne membro dell’Associazione Guide Alpine. Sposatosi con Anna nel 1987, ebbe due figlie, Giulia e Agata. Nella convinzione che ambiente e turismo fossero i due cardini sui quali far ruotare lo sviluppo della Valmasino, si impegnò come consigliere comunale e si dedicò a diversi progetti aventi come obbiettivo la valorizzazione delle

18 luglio 1993 AVANCORPO SE PUNTA RASICA, Via “Natalia”, prima salita con Mario Barbaglia e Benvenuto More 19 luglio 1993 AVANCORPO PUNTA VITTORIA, PALESTRA DEL RIFUGIO, Via “Porto delle nebbie”, con Mario Barbaglia 16 agosto 1993 PIZZO TORRONE OCCIDENTALE, SPIGOLO SUD DELL’AVANCORPO SSO, Via “delle placche oloceniche”, prima salita con Antonio Terrazzani, Nicole Benedetti, Marco Fioretti, Mario Gagliardi, Giuseppe Villa 17 agosto 1993 PUNTA RASICA-AVANCORPO OVEST, Via “Il sentiero dei sogni”, prima salita con Nicole Benedetti, Marco Fioretti, Mario Gagliardi, Giuseppe Villa

potenzialità della valle; fu anche socio della Cooperativa turistica PAN di Morbegno. Trasferitosi da Filorera a Morbegno, nel 1993 fece la scelta di stabilire la sua dimora fra i castagni di Selvapiana dove aveva intenzione di affiancare alla professione di guida quella di apicoltore e di coltivatore di piccoli frutti di bosco. Purtroppo questa nuova attività fu interrotta l’8 luglio 1994 quando, durante un’operazione di soccorso in valle del Drogo, perse la vita.

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Al Cospetto

Gigante del

Una gita inusuale con vista sul Disgrazia di Vittorio Poletti

Niente paura, è un gigante buono che si è preso un brutto nome prima di avere il tempo di far male a qualcuno. In realtà il nome “Disgrazia” altro non è che l’infelice italianizzazione (ah, i cartografi …) del termine “desglascia” con cui i montanari della Valmalenco indicavano l’esteso versante orientale della montagna, caratterizzato da un’ampia estensione glaciale da cui, nella stagione estiva, colavano e colano abbondanti le acque di fusione. Nella pagina a fronte: il Monte Disgrazia dalla piana di Predarossa. Sopra: Vittorio ed Ausilia custodi del Rifugio Alpe Granda.

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Un percorso ad anello che non richiede particolari doti atletiche, ma solo buona salute e un minimo di allenamento, permette di ammirare a lungo la parete occidentale del Disgrazia e di scoprire gli aspetti più affascinanti di una costiera montuosa poco conosciuta sita ai margini del grande fervore alpinistico ed escursionistico della Valmasino.

L’escursione inizia lungo la strada che conduce a Predarossa dallo spiazzo che segna il termine dell’asfalto, dove è consigliabile lasciare l’auto (1152 m). Si prende la sterrata che si dirama sulla destra e che adduce al ponte gettato sul Duino. Al di là del torrente la rotabile si alza sulla pendice franosa; la si segue sino a dopo il tornante CAI MORBEGNO 25


Al Cospetto

Gigante del

Una gita inusuale con vista sul Disgrazia di Vittorio Poletti

Niente paura, è un gigante buono che si è preso un brutto nome prima di avere il tempo di far male a qualcuno. In realtà il nome “Disgrazia” altro non è che l’infelice italianizzazione (ah, i cartografi …) del termine “desglascia” con cui i montanari della Valmalenco indicavano l’esteso versante orientale della montagna, caratterizzato da un’ampia estensione glaciale da cui, nella stagione estiva, colavano e colano abbondanti le acque di fusione. Nella pagina a fronte: il Monte Disgrazia dalla piana di Predarossa. Sopra: Vittorio ed Ausilia custodi del Rifugio Alpe Granda.

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Un percorso ad anello che non richiede particolari doti atletiche, ma solo buona salute e un minimo di allenamento, permette di ammirare a lungo la parete occidentale del Disgrazia e di scoprire gli aspetti più affascinanti di una costiera montuosa poco conosciuta sita ai margini del grande fervore alpinistico ed escursionistico della Valmasino.

L’escursione inizia lungo la strada che conduce a Predarossa dallo spiazzo che segna il termine dell’asfalto, dove è consigliabile lasciare l’auto (1152 m). Si prende la sterrata che si dirama sulla destra e che adduce al ponte gettato sul Duino. Al di là del torrente la rotabile si alza sulla pendice franosa; la si segue sino a dopo il tornante CAI MORBEGNO 25


e si arriva al vistoso cartello a sfondo giallo, posto sulla destra della strada, che indica il sentiero per l’Alpe Granda. Si sale lungo il sentiero che alterna ripidi strappi a pendenze più dolci sino a raggiungere le baite dell’Alpe Taiada (1494 m). Si seguono le tracce che risalgono il ripido pendio a monte delle costruzioni e ci si immette nel ben marcato sentiero che sale in direzione SE attraverso un’ombrosa foresta di conifere sino a sboccare all’estremità orientale dell’Alpe Granda, proprio di fronte al rifugio (1680 m, ore 1.15 dall’inizio del sentiero). Si prende allora la larga mulattiera che sale verso SE ed entra nel bosco alle falde del pizzo Mercantelli. Raggiunto 26 CAI MORBEGNO

il serbatoio dell’acquedotto, si lascia sulla destra il ripido sentiero che scende in direzione della Merla, si prosegue lungo il comodo tracciato che si innalza con qualche tornante nel bosco e si fuoriesce all’Alpe Scermendone da dove, sempre lungo la mulattiera, si incontra, al di là di una spalla erbosa, la Baita di Meltri, impreziosita, nelle stagioni di abbondanti precipitazioni, da uno stagno in cui si riflette la maestosa mole del Monte Disgrazia. Con un agevole percorso pianeggiante si arriva alla chiesetta di San Quirico sull’Alpe Scermendone (2131 m, ore 1.15 dal rifugio). Poco prima di raggiungere la chiesa si passa davanti a un vasto stallone col tetto in

parte rovinato. L’escursionista attento avrà modo di notare, appena oltrepassato questo edificio, una nicchia che si apre a monte del sentiero e dalla quale proviene, salvo che nelle stagioni di eccezionale siccità, un mormorio di acqua corrente. La nicchia è sovrastata da una trabeazione in pietra su cui è incisa la scritta AQUA OCI, che ricorda una lontanissima vicenda legata alla fatica degli alpigiani ed ai mutamenti ambientali che hanno inciso, talora drammaticamente, sulle condizioni della loro esistenza. Chi volesse saperne di più, può farsela raccontare dal gestore del rifugio. Il tempietto, naturalmente, non è officiato; solo la terza domenica di luglio vi si celebra la messa, cui assiste una folla

numerosa. La festa ha poi il suo epilogo in una ben più profana manifestazione a base di polenta e salsicce che si svolge sul prato antistante. L’esistenza della chiesa è citata per la prima volta in un documento del 1323 che fa peraltro riferimento, in ordine ad essa, a diritti basati sulla tradizione: ed è quindi logico pensare che la sua fondazione sia di parecchio anteriore. Tenuto conto dei documentati rapporti tra Buglio e le abbazie cluniacensi del Lario, rapporti cui fa già cenno un atto notarile risalente al 1022, è probabile che il saccello sia stato eretto nel secolo XI, quando cioè i monaci si fecero promotori di quella ammirevole opera di colonizzazione cui si deve l’esistenza dei nostri

alpeggi. Per chi visita oggi queste montagne, la presenza di pascoli alle altitudini più elevate sembra un fatto scontato visto che il limite della vegetazione arborea si colloca, ai nostri giorni, intorno ai 2000 metri. Il Medioevo beneficiò invece di un clima assai più mite e le foreste di conifere si spingevano, allora, sino ai 2400 metri. Quelle dolci distese erbose che agli occhi di noi uomini del XXI secolo appaiono come un benigno regalo della natura sono invece il frutto di un duro lavoro di disboscamento che richiese l’opera di generazioni. Ammirato l’ampio panorama, si inizia a scendere sul versante settentrionale della montagna lungo un sentiero che si snoda

Nelle acque della pozza della Baita di Meltri si specchiano da sinistra: il Monte Disgrazia e i Corni Bruciati a destra dei quali si vede la depressione del Passo di Scermendone.

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e si arriva al vistoso cartello a sfondo giallo, posto sulla destra della strada, che indica il sentiero per l’Alpe Granda. Si sale lungo il sentiero che alterna ripidi strappi a pendenze più dolci sino a raggiungere le baite dell’Alpe Taiada (1494 m). Si seguono le tracce che risalgono il ripido pendio a monte delle costruzioni e ci si immette nel ben marcato sentiero che sale in direzione SE attraverso un’ombrosa foresta di conifere sino a sboccare all’estremità orientale dell’Alpe Granda, proprio di fronte al rifugio (1680 m, ore 1.15 dall’inizio del sentiero). Si prende allora la larga mulattiera che sale verso SE ed entra nel bosco alle falde del pizzo Mercantelli. Raggiunto 26 CAI MORBEGNO

il serbatoio dell’acquedotto, si lascia sulla destra il ripido sentiero che scende in direzione della Merla, si prosegue lungo il comodo tracciato che si innalza con qualche tornante nel bosco e si fuoriesce all’Alpe Scermendone da dove, sempre lungo la mulattiera, si incontra, al di là di una spalla erbosa, la Baita di Meltri, impreziosita, nelle stagioni di abbondanti precipitazioni, da uno stagno in cui si riflette la maestosa mole del Monte Disgrazia. Con un agevole percorso pianeggiante si arriva alla chiesetta di San Quirico sull’Alpe Scermendone (2131 m, ore 1.15 dal rifugio). Poco prima di raggiungere la chiesa si passa davanti a un vasto stallone col tetto in

parte rovinato. L’escursionista attento avrà modo di notare, appena oltrepassato questo edificio, una nicchia che si apre a monte del sentiero e dalla quale proviene, salvo che nelle stagioni di eccezionale siccità, un mormorio di acqua corrente. La nicchia è sovrastata da una trabeazione in pietra su cui è incisa la scritta AQUA OCI, che ricorda una lontanissima vicenda legata alla fatica degli alpigiani ed ai mutamenti ambientali che hanno inciso, talora drammaticamente, sulle condizioni della loro esistenza. Chi volesse saperne di più, può farsela raccontare dal gestore del rifugio. Il tempietto, naturalmente, non è officiato; solo la terza domenica di luglio vi si celebra la messa, cui assiste una folla

numerosa. La festa ha poi il suo epilogo in una ben più profana manifestazione a base di polenta e salsicce che si svolge sul prato antistante. L’esistenza della chiesa è citata per la prima volta in un documento del 1323 che fa peraltro riferimento, in ordine ad essa, a diritti basati sulla tradizione: ed è quindi logico pensare che la sua fondazione sia di parecchio anteriore. Tenuto conto dei documentati rapporti tra Buglio e le abbazie cluniacensi del Lario, rapporti cui fa già cenno un atto notarile risalente al 1022, è probabile che il saccello sia stato eretto nel secolo XI, quando cioè i monaci si fecero promotori di quella ammirevole opera di colonizzazione cui si deve l’esistenza dei nostri

alpeggi. Per chi visita oggi queste montagne, la presenza di pascoli alle altitudini più elevate sembra un fatto scontato visto che il limite della vegetazione arborea si colloca, ai nostri giorni, intorno ai 2000 metri. Il Medioevo beneficiò invece di un clima assai più mite e le foreste di conifere si spingevano, allora, sino ai 2400 metri. Quelle dolci distese erbose che agli occhi di noi uomini del XXI secolo appaiono come un benigno regalo della natura sono invece il frutto di un duro lavoro di disboscamento che richiese l’opera di generazioni. Ammirato l’ampio panorama, si inizia a scendere sul versante settentrionale della montagna lungo un sentiero che si snoda

Nelle acque della pozza della Baita di Meltri si specchiano da sinistra: il Monte Disgrazia e i Corni Bruciati a destra dei quali si vede la depressione del Passo di Scermendone.

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Note relative all’itinerario proposto

Rifugio Alpe Granda

Dislivello: 1000 m Tempo occorrente: 5 ore circa Difficoltà: E Segnaletica: presente, ma non abbondante lungo tutto il tracciato. Consigliabile una carta escursionistica.

riposato, sempre che abbia potuto resistere, la sera, alle lusinghe della dispensa e della cantina. Ma pure nei confronti di chi avrà preferito la logica del “mordi e fuggi”, chi ha compilato queste note non se ne avrà a male e si sentirà comunque ripagato se anche il cliente che ha scelto di rimanere potenziale discenderà da questa montagna convinto di aver speso bene il proprio sudore.

Il Rifugio Alpe Granda è situato a 1680 m, all’estremità orientale dell’alpe omonima sul vasto crinale pascolivo che separa la Valtellina dalla valle di Sasso Bisolo, aperto sul severo panorama dei monti che formano la testata della Vamasino. Il fabbricato è una moderna costruzione in legno che sostituisce la vecchia struttura distrutta dall’incendio che devastò il bosco sottostante nel marzo del 1998. Il rifugio è comoda base di partenza per agevoli passeggiate che consentono di fare conoscenza con la splendida e poco nota costiera retica a monte dell’abitato di Buglio, sia per le più impegnative traversate che portano al Rifugio Ponti, in Valle di Predarossa, o al Rifugio Bosio, in Valmalenco. Ente proprietario: privato Gestore: Vittorio Poletti coadiuvato dalla moglie Ausilia Telefono: 347 7566960 E-mail: polettiv@vodafone.it Posti letto: una ventina Apertura: dal 15.06 al 1.11. Compatibilmente con le condizioni meteo, nei fine settimana fino al 20.12, dal 15.04 al 15.06, nonché in occasione delle festività di Pasqua e Capodanno.

Nella pagina a fronte: vista sulle cime del Calvo, del Ligoncio e sulla Valle dell’Oro dal dosso di Scermendone.

tra vaste distese di ontano alpino. Raggiunto il pianoro prativo di Scermendone Basso (2033 m), si valica il torrente su un ponticello e si prosegue attraverso le balze rocciose che consentono di aggirare la falda sud-occidentale della Sassarsa, estrema propaggine dei Corni Bruciati. Si arriva così al limitare del vastissimo ripiano dell’Alpe Predarossa (1960 m, ore 0.40 circa

28 CAI MORBEGNO

dalla chiesa), da dove si può gettare un ultimo sguardo alla parete occidentale del Monte Disgrazia, che qui appare in tutta la sua imponenza. Si scende in direzione della Valmasino approfittando delle scorciatoie che permettono di tagliare il tracciato della strada (frecce bianche del Trofeo Kima), caratterizzato da numerosi tornanti. All’Alpe di Sasso Bisolo, dove chi è “in riserva” può fare rifornimento al Rifugio Scotti (1462 m), si è costretti a rimettersi per un breve tratto sull’asfalto, per poi raggiungere l’estremità superiore della pista sterrata che, superato un ponte e attraversata una galleria, riconduce all’inizio del nostro itinerario. E’ possibile evitare

la lunga e buia galleria imboccando un sentiero che immediatamente prima del ponte (1383 m) divalla sulla destra mantenendosi ai margini del corpo di frana, dapprima sul versante settentrionale della valle, fino a quota 1230 m, poi su quello meridionale (frecce a vernice bianca del Trofeo Kima). L’intero percorso richiede cinque ore e può quindi essere compiuto comodamente in giornata lasciando e riprendendo l’automobile dove abbiamo spiegato. Il turista più saggio (ma forse il vero saggio è il rifugista che gli rivolge questo interessato suggerimento) pernotterà al Rifugio Alpe Granda da cui potrà partire fresco e

A fianco: il rifugio Alpe Granda. Sotto: il Cavalcorto e i Pizzi del Ferro dall’Alpe Granda.

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Note relative all’itinerario proposto

Rifugio Alpe Granda

Dislivello: 1000 m Tempo occorrente: 5 ore circa Difficoltà: E Segnaletica: presente, ma non abbondante lungo tutto il tracciato. Consigliabile una carta escursionistica.

riposato, sempre che abbia potuto resistere, la sera, alle lusinghe della dispensa e della cantina. Ma pure nei confronti di chi avrà preferito la logica del “mordi e fuggi”, chi ha compilato queste note non se ne avrà a male e si sentirà comunque ripagato se anche il cliente che ha scelto di rimanere potenziale discenderà da questa montagna convinto di aver speso bene il proprio sudore.

Il Rifugio Alpe Granda è situato a 1680 m, all’estremità orientale dell’alpe omonima sul vasto crinale pascolivo che separa la Valtellina dalla valle di Sasso Bisolo, aperto sul severo panorama dei monti che formano la testata della Vamasino. Il fabbricato è una moderna costruzione in legno che sostituisce la vecchia struttura distrutta dall’incendio che devastò il bosco sottostante nel marzo del 1998. Il rifugio è comoda base di partenza per agevoli passeggiate che consentono di fare conoscenza con la splendida e poco nota costiera retica a monte dell’abitato di Buglio, sia per le più impegnative traversate che portano al Rifugio Ponti, in Valle di Predarossa, o al Rifugio Bosio, in Valmalenco. Ente proprietario: privato Gestore: Vittorio Poletti coadiuvato dalla moglie Ausilia Telefono: 347 7566960 E-mail: polettiv@vodafone.it Posti letto: una ventina Apertura: dal 15.06 al 1.11. Compatibilmente con le condizioni meteo, nei fine settimana fino al 20.12, dal 15.04 al 15.06, nonché in occasione delle festività di Pasqua e Capodanno.

Nella pagina a fronte: vista sulle cime del Calvo, del Ligoncio e sulla Valle dell’Oro dal dosso di Scermendone.

tra vaste distese di ontano alpino. Raggiunto il pianoro prativo di Scermendone Basso (2033 m), si valica il torrente su un ponticello e si prosegue attraverso le balze rocciose che consentono di aggirare la falda sud-occidentale della Sassarsa, estrema propaggine dei Corni Bruciati. Si arriva così al limitare del vastissimo ripiano dell’Alpe Predarossa (1960 m, ore 0.40 circa

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dalla chiesa), da dove si può gettare un ultimo sguardo alla parete occidentale del Monte Disgrazia, che qui appare in tutta la sua imponenza. Si scende in direzione della Valmasino approfittando delle scorciatoie che permettono di tagliare il tracciato della strada (frecce bianche del Trofeo Kima), caratterizzato da numerosi tornanti. All’Alpe di Sasso Bisolo, dove chi è “in riserva” può fare rifornimento al Rifugio Scotti (1462 m), si è costretti a rimettersi per un breve tratto sull’asfalto, per poi raggiungere l’estremità superiore della pista sterrata che, superato un ponte e attraversata una galleria, riconduce all’inizio del nostro itinerario. E’ possibile evitare

la lunga e buia galleria imboccando un sentiero che immediatamente prima del ponte (1383 m) divalla sulla destra mantenendosi ai margini del corpo di frana, dapprima sul versante settentrionale della valle, fino a quota 1230 m, poi su quello meridionale (frecce a vernice bianca del Trofeo Kima). L’intero percorso richiede cinque ore e può quindi essere compiuto comodamente in giornata lasciando e riprendendo l’automobile dove abbiamo spiegato. Il turista più saggio (ma forse il vero saggio è il rifugista che gli rivolge questo interessato suggerimento) pernotterà al Rifugio Alpe Granda da cui potrà partire fresco e

A fianco: il rifugio Alpe Granda. Sotto: il Cavalcorto e i Pizzi del Ferro dall’Alpe Granda.

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Sogno di una notte

di inizio estate Noi leggiavamo un giorno per diletto di Val di Mello le pareti vinte: per più fiate li occhi ci sospinse quella lettura, e scolorocci il viso. Galeotto fu il libro e chi lo scrisse. (Con tante scuse al Sommo Poeta)

di Mario Spini

30 CAI MORBEGNO

Il bar della Monica dove poter consultare il librone con le nuove vie aperte in Valle non esisteva ancora e probabilmente Ivan Guerini non aveva ancora cominciato a lavorare alla stesura della guida “Il giocoarrampicata della Val di Mello”, pubblicata nell’autunno dell’anno successivo, che portò una fresca ventata di rinnovamento, rappresentando un vero e proprio manifesto di quella che si può definire una New Age dell’arrampicata. Fu così che in una solare e afosa giornata di giugno due giovani liceali, liberi finalmente dal fardello delle tribolazioni scolastiche, gravati soltanto del peso di

due fiammanti zaini Cassin, si stavano inoltrando lungo la Valle, allora popolata dai soli melàt dediti alle tradizionali attività contadine, alla ricerca di alcune luminose placche che, nella descrizione sommaria ma entusiasta di un frequentatore della zona, erano state chiamate “Placche dell’Oasi”. Il loro abbigliamento era in piena sintonia con lo spirito nuovo che si stava diffondendo tra i giovani arrampicatori che avevano trovato al Sasso di Remenno il loro luogo elettivo di raduno. I pantaloni alla zuava, i calzettoni rossi, la camicia scozzese ed i pesanti scarponi in cuoio con la suola vibram che come una divisa d’ordinanza andavano indossati

CAI MORBEGNO 31


Sogno di una notte

di inizio estate Noi leggiavamo un giorno per diletto di Val di Mello le pareti vinte: per più fiate li occhi ci sospinse quella lettura, e scolorocci il viso. Galeotto fu il libro e chi lo scrisse. (Con tante scuse al Sommo Poeta)

di Mario Spini

30 CAI MORBEGNO

Il bar della Monica dove poter consultare il librone con le nuove vie aperte in Valle non esisteva ancora e probabilmente Ivan Guerini non aveva ancora cominciato a lavorare alla stesura della guida “Il giocoarrampicata della Val di Mello”, pubblicata nell’autunno dell’anno successivo, che portò una fresca ventata di rinnovamento, rappresentando un vero e proprio manifesto di quella che si può definire una New Age dell’arrampicata. Fu così che in una solare e afosa giornata di giugno due giovani liceali, liberi finalmente dal fardello delle tribolazioni scolastiche, gravati soltanto del peso di

due fiammanti zaini Cassin, si stavano inoltrando lungo la Valle, allora popolata dai soli melàt dediti alle tradizionali attività contadine, alla ricerca di alcune luminose placche che, nella descrizione sommaria ma entusiasta di un frequentatore della zona, erano state chiamate “Placche dell’Oasi”. Il loro abbigliamento era in piena sintonia con lo spirito nuovo che si stava diffondendo tra i giovani arrampicatori che avevano trovato al Sasso di Remenno il loro luogo elettivo di raduno. I pantaloni alla zuava, i calzettoni rossi, la camicia scozzese ed i pesanti scarponi in cuoio con la suola vibram che come una divisa d’ordinanza andavano indossati

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in qualunque circostanza e con i quali anch’essi erano stati avviati alla montagna, avevano lasciato il posto ad una canottiera bianca e ad un vecchio paio di jeans lisi (quelli sbrindellati non erano ancora di moda) che li rendevano più simili ad operai all’uscita di un turno all’Alfa Romeo di Arese piuttosto che ad intrepidi alpinisti. Ma forse parlare di alpinisti (termine considerato allora nell’ambiente un “titolo” di cui potersi fregiare dopo aver percorso in successione una ben determinata serie di salite) non è il caso, perché non esprime di fatto quelle che erano le aspirazioni dei nostri due amici che invece si sentivano più vicini a coloro che, con intenzioni dispregiative, erano stati chiamati “Sassisti”. L’appellativo si riferiva al fatto che alcuni scanzonati giovanotti di buone speranze pareva sprecassero il loro talento spellandosi le dita su piccoli e insignificanti massi o cercando l’estetica del passaggio su falesie di fondovalle che non portavano ad alcuna vetta, rifiutando apertamente i distorti valori dell’alpinismo di cui il Club alpino pareva fosse allora divenuto il custode, incentrati sulla contabilità delle ripetizioni, la geometria delle direttissime e la retorica della lotta con l’alpe. Di fatto il fenomeno non era altro che la risposta in ambito locale alle nuove tendenze da tempo in atto nel mondo anglosassone, che avrebbero sensibilmente condizionato lo sviluppo futuro dell’alpinismo. Nelle prime ore del pomeriggio l’attacco venne trovato proprio dove uno sperone di granito dalle 32 CAI MORBEGNO

A sinistra: all’uscita di Cunicolo Acuto in Val di Mello. A destra: sulle lisce placche del Piede dell’Elefante.

forme arrotondate sembrava scivolasse dolcemente nel fitto della vegetazione, nei pressi del luogo in cui le acque del Torrone si mescolavano a quelle della Pioda. La placca ruvida di granito impegnò subito i due amici in una serie di movimenti ritmici con le suole delle scarpe da ginnastica (erano delle Lotto) spalmate di piatto su microscopici cristalli che, in taluni casi, sgretolandosi sotto il loro peso, producevano sinistri scricchiolii. La proteggibilità molto aleatoria era compensata dalle difficoltà comunque modeste e dall’ardore giovanile. Un traverso verso sinistra li portò al centro della struttura in un settore più adagiato dove i due nuts di cui erano dotati trovarono incerto collocamento in alcune lame, consentendo così di attrezzare la sosta. Il piacere dell’arrampicata nasceva dalla capacità di controllare la tensione nervosa, concentrandosi sull’armonia dei movimenti, assorti nell’attenta osservazione della roccia alla scoperta di piccole rugosità su

cui sollevarsi. Questo esercizio consentiva di prendere progressivamente coscienza delle proprie capacità psicomotorie sviluppate attraverso uno stretto contatto con la natura. Non a caso il nome dato ad alcune nuove vie in valle si richiamava direttamente ad esperienze mistiche orientali (L’Alba del Nirvana, Il Risveglio di Kundalini…) che, se a prima vista potevano sembrare il frutto di un esercizio intellettuale gratuito, in effetti contribuivano a sottolineare l’importanza della componente “mentale” dell’arrampicata. Le intense sensazioni suscitate da un’attività estremamente coinvolgente, ma al tempo stesso pericolosa, in un confronto leale e rispettoso con la natura, divenivano così il fine ultimo dell’azione. Non c’erano più vette da conquistare, pareti da vincere, lunghe file di chiodi con cui domare una parete inviolata e costruire monumenti all’ambizione personale, come era avvenuto CAI MORBEGNO 33


in qualunque circostanza e con i quali anch’essi erano stati avviati alla montagna, avevano lasciato il posto ad una canottiera bianca e ad un vecchio paio di jeans lisi (quelli sbrindellati non erano ancora di moda) che li rendevano più simili ad operai all’uscita di un turno all’Alfa Romeo di Arese piuttosto che ad intrepidi alpinisti. Ma forse parlare di alpinisti (termine considerato allora nell’ambiente un “titolo” di cui potersi fregiare dopo aver percorso in successione una ben determinata serie di salite) non è il caso, perché non esprime di fatto quelle che erano le aspirazioni dei nostri due amici che invece si sentivano più vicini a coloro che, con intenzioni dispregiative, erano stati chiamati “Sassisti”. L’appellativo si riferiva al fatto che alcuni scanzonati giovanotti di buone speranze pareva sprecassero il loro talento spellandosi le dita su piccoli e insignificanti massi o cercando l’estetica del passaggio su falesie di fondovalle che non portavano ad alcuna vetta, rifiutando apertamente i distorti valori dell’alpinismo di cui il Club alpino pareva fosse allora divenuto il custode, incentrati sulla contabilità delle ripetizioni, la geometria delle direttissime e la retorica della lotta con l’alpe. Di fatto il fenomeno non era altro che la risposta in ambito locale alle nuove tendenze da tempo in atto nel mondo anglosassone, che avrebbero sensibilmente condizionato lo sviluppo futuro dell’alpinismo. Nelle prime ore del pomeriggio l’attacco venne trovato proprio dove uno sperone di granito dalle 32 CAI MORBEGNO

A sinistra: all’uscita di Cunicolo Acuto in Val di Mello. A destra: sulle lisce placche del Piede dell’Elefante.

forme arrotondate sembrava scivolasse dolcemente nel fitto della vegetazione, nei pressi del luogo in cui le acque del Torrone si mescolavano a quelle della Pioda. La placca ruvida di granito impegnò subito i due amici in una serie di movimenti ritmici con le suole delle scarpe da ginnastica (erano delle Lotto) spalmate di piatto su microscopici cristalli che, in taluni casi, sgretolandosi sotto il loro peso, producevano sinistri scricchiolii. La proteggibilità molto aleatoria era compensata dalle difficoltà comunque modeste e dall’ardore giovanile. Un traverso verso sinistra li portò al centro della struttura in un settore più adagiato dove i due nuts di cui erano dotati trovarono incerto collocamento in alcune lame, consentendo così di attrezzare la sosta. Il piacere dell’arrampicata nasceva dalla capacità di controllare la tensione nervosa, concentrandosi sull’armonia dei movimenti, assorti nell’attenta osservazione della roccia alla scoperta di piccole rugosità su

cui sollevarsi. Questo esercizio consentiva di prendere progressivamente coscienza delle proprie capacità psicomotorie sviluppate attraverso uno stretto contatto con la natura. Non a caso il nome dato ad alcune nuove vie in valle si richiamava direttamente ad esperienze mistiche orientali (L’Alba del Nirvana, Il Risveglio di Kundalini…) che, se a prima vista potevano sembrare il frutto di un esercizio intellettuale gratuito, in effetti contribuivano a sottolineare l’importanza della componente “mentale” dell’arrampicata. Le intense sensazioni suscitate da un’attività estremamente coinvolgente, ma al tempo stesso pericolosa, in un confronto leale e rispettoso con la natura, divenivano così il fine ultimo dell’azione. Non c’erano più vette da conquistare, pareti da vincere, lunghe file di chiodi con cui domare una parete inviolata e costruire monumenti all’ambizione personale, come era avvenuto CAI MORBEGNO 33


negli anni sessanta con il declino dell’alpinismo classico ed il diffondersi di una forma di decadentismo che trovava la più evidente espressione nel fenomeno della superchiodatura delle vie. Non si poteva d’altra parte negare che la regola dell’arrampicata libera che si andava allora riaffermando rappresentasse il recupero di un valore che affondava le sue radici nel passato, rievocando, inevitabilmente, la memoria di alcune grandi figure dell’alpinismo come Preuss, Solleder o Vinatzer. Con le mani sudate per il gran caldo (ahimè non facevano ancora uso di magnesite) seguirono una fessura sinuosa che portava in un grande diedro nero, da superare in dulfer. La salita si stava sviluppando su un terreno assolutamente nuovo per i due scalatori, sia per l’assenza di chiodi sia per la sommaria descrizione della via che, insieme alla scarsa esperienza, rendeva il loro procedere molto cauto e incerto. Superato un tratto liscio in aderenza, approdarono all’Oasi, una piccola macchia di vegetazione al centro di un

Nella pagina a fronte: in sosta, con zaino dal peso insostenibile, su Kundalini. A fianco: attrezzatura d’altri tempi su Giallo Ocra in Val di Mello.

deserto di granito, sopra la quale aveva preso dimora un bell’esemplare di abete rosso. In alto sulla sinistra scorsero delle lame a mezzaluna che avrebbero offerto loro delle prese sicure e buone protezioni con nuts; il primo di cordata (si alternavano regolarmente al comando) aveva già superato il tratto iniziale della placca quando, in una depressione alla quale stava per aggrapparsi con la mano, scorse una vipera che, arrotolata su se stessa, si crogiolava pigramente al 34 CAI MORBEGNO

sole. Se il rettile si mostrò indifferente all’inaspettato incontro, non altrettanto si potè dire per il giovane che, colto di sorpresa, riuscì a malapena a mantenere il controllo ritornando indietro di qualche metro. L’imprevisto colse del tutto impreparati i due amici che, dopo un’attenta valutazione della situazione, temendo il risveglio del serpente e non fidandosi a tentare un aggiramento, si decisero a ripiegare raggiungendo un

folto bosco al margine sinistro della struttura che offriva una facile via di fuga. Tornati alla base, mentre riordinavano il materiale, si scambiarono le impressioni sull’avvincente arrampicata e lo scampato pericolo. Scoprirono, tutto sommato, di non essere troppo dispiaciuti per non aver potuto completare la salita, anche se il sospetto di non aver agito con sufficiente determinazione nell’affrontare il pericoloso incontro iniziò ad insinuarsi nei loro pensieri; sentivano,

comunque, di aver imparato molto. Quella sera memori di una storica frase di Julius Kugy, poeta e pioniere delle Alpi Carniche (“una montagna si impara a conoscerla davvero quando ci si dorme sopra”) passarono la notte sotto un grosso masso nel bosco. Il rumore del torrente e la scomodità del duro giaciglio, anche se non consentirono un sonno profondo, non impedirono comunque ai due di sognare una valle primordiale

e solitaria, incorniciata in alto da vette imbiancate di neve, ricoperta da faggete secolari e selvagge foreste di conifere che radici contorte tenevano aggrappate ai ripidi versanti; una nebbia sottile andava lentamente diradandosi alla luce dell’alba, rivelando in trasparenza lisci scudi di granito che, emergendo luminosi dalla fitta vegetazione, parevano lanciare un’audace sfida, dischiudendo loro le porte verso nuovi orizzonti di avventura. CAI MORBEGNO 35


negli anni sessanta con il declino dell’alpinismo classico ed il diffondersi di una forma di decadentismo che trovava la più evidente espressione nel fenomeno della superchiodatura delle vie. Non si poteva d’altra parte negare che la regola dell’arrampicata libera che si andava allora riaffermando rappresentasse il recupero di un valore che affondava le sue radici nel passato, rievocando, inevitabilmente, la memoria di alcune grandi figure dell’alpinismo come Preuss, Solleder o Vinatzer. Con le mani sudate per il gran caldo (ahimè non facevano ancora uso di magnesite) seguirono una fessura sinuosa che portava in un grande diedro nero, da superare in dulfer. La salita si stava sviluppando su un terreno assolutamente nuovo per i due scalatori, sia per l’assenza di chiodi sia per la sommaria descrizione della via che, insieme alla scarsa esperienza, rendeva il loro procedere molto cauto e incerto. Superato un tratto liscio in aderenza, approdarono all’Oasi, una piccola macchia di vegetazione al centro di un

Nella pagina a fronte: in sosta, con zaino dal peso insostenibile, su Kundalini. A fianco: attrezzatura d’altri tempi su Giallo Ocra in Val di Mello.

deserto di granito, sopra la quale aveva preso dimora un bell’esemplare di abete rosso. In alto sulla sinistra scorsero delle lame a mezzaluna che avrebbero offerto loro delle prese sicure e buone protezioni con nuts; il primo di cordata (si alternavano regolarmente al comando) aveva già superato il tratto iniziale della placca quando, in una depressione alla quale stava per aggrapparsi con la mano, scorse una vipera che, arrotolata su se stessa, si crogiolava pigramente al 34 CAI MORBEGNO

sole. Se il rettile si mostrò indifferente all’inaspettato incontro, non altrettanto si potè dire per il giovane che, colto di sorpresa, riuscì a malapena a mantenere il controllo ritornando indietro di qualche metro. L’imprevisto colse del tutto impreparati i due amici che, dopo un’attenta valutazione della situazione, temendo il risveglio del serpente e non fidandosi a tentare un aggiramento, si decisero a ripiegare raggiungendo un

folto bosco al margine sinistro della struttura che offriva una facile via di fuga. Tornati alla base, mentre riordinavano il materiale, si scambiarono le impressioni sull’avvincente arrampicata e lo scampato pericolo. Scoprirono, tutto sommato, di non essere troppo dispiaciuti per non aver potuto completare la salita, anche se il sospetto di non aver agito con sufficiente determinazione nell’affrontare il pericoloso incontro iniziò ad insinuarsi nei loro pensieri; sentivano,

comunque, di aver imparato molto. Quella sera memori di una storica frase di Julius Kugy, poeta e pioniere delle Alpi Carniche (“una montagna si impara a conoscerla davvero quando ci si dorme sopra”) passarono la notte sotto un grosso masso nel bosco. Il rumore del torrente e la scomodità del duro giaciglio, anche se non consentirono un sonno profondo, non impedirono comunque ai due di sognare una valle primordiale

e solitaria, incorniciata in alto da vette imbiancate di neve, ricoperta da faggete secolari e selvagge foreste di conifere che radici contorte tenevano aggrappate ai ripidi versanti; una nebbia sottile andava lentamente diradandosi alla luce dell’alba, rivelando in trasparenza lisci scudi di granito che, emergendo luminosi dalla fitta vegetazione, parevano lanciare un’audace sfida, dischiudendo loro le porte verso nuovi orizzonti di avventura. CAI MORBEGNO 35


Lofoten

Scialpinismo oltre il Circolo Polare Artico Appunti e sensazioni dalla Norvegia di Giulio Gadola, Luca Bono, Ricky Scotti

Qui a fianco: autoscatto in vetta allo Spanstinden. Nella pagina a fronte: risalendo il pendio settentrionale del Geitgaljen frastornati dalla bellezza delle creste incrostate di neve e dalla magia della luce del grande nord.

E’ quasi mezzanotte, siamo appena sbarcati dal battello che da Bodø ci ha portati a Svolvær, il capoluogo delle isole Lofoten, un arcipelago norvegese 200 km a nord del circolo polare artico. Io e Ricky battiamo i piedi in attesa che Julia, la nostra padrona di casa, torni a prenderci dopo aver portato a destinazione Franco e Luca con tutti i bagagli. Il vento è teso, gelido, il cielo limpido e in assenza di luna; ad un tratto notiamo uno strano bagliore verdastro non ben definito che a poco a poco prende forma: è una grande lingua che si muove velocemente; il verde diventa più intenso, la cosa curiosa è che la lingua si muove con pari velocità in una direzione e subito dopo in direzione opposta … non può essere una nuvola … è l’aurora boreale!

36 CAI MORBEGNO

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Lofoten

Scialpinismo oltre il Circolo Polare Artico Appunti e sensazioni dalla Norvegia di Giulio Gadola, Luca Bono, Ricky Scotti

Qui a fianco: autoscatto in vetta allo Spanstinden. Nella pagina a fronte: risalendo il pendio settentrionale del Geitgaljen frastornati dalla bellezza delle creste incrostate di neve e dalla magia della luce del grande nord.

E’ quasi mezzanotte, siamo appena sbarcati dal battello che da Bodø ci ha portati a Svolvær, il capoluogo delle isole Lofoten, un arcipelago norvegese 200 km a nord del circolo polare artico. Io e Ricky battiamo i piedi in attesa che Julia, la nostra padrona di casa, torni a prenderci dopo aver portato a destinazione Franco e Luca con tutti i bagagli. Il vento è teso, gelido, il cielo limpido e in assenza di luna; ad un tratto notiamo uno strano bagliore verdastro non ben definito che a poco a poco prende forma: è una grande lingua che si muove velocemente; il verde diventa più intenso, la cosa curiosa è che la lingua si muove con pari velocità in una direzione e subito dopo in direzione opposta … non può essere una nuvola … è l’aurora boreale!

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Il viaggio di andata

Ma procediamo con ordine. É sulle note di “E sem partii …”, di Davide Van de Sfroos, che la mattina del 25 marzo Franco, Ricky ed io siamo partiti dai Burnigui con destinazione Lofoten. Accompagnati dalla Nadia, stipati tra zaini, sacche e borsoni abbiamo constatato che il suo fuoristrada è davvero “Pinin”, sia di nome che di fatto. Giunti all’aeroporto di Orio al Serio, ci siamo incontrati con il brianzolo della compagnia, Luca, di Oggiono, amico del Ricky e neo veterinario. La conclusione del check-in è stata la prima soddisfazione… ma allora le nottate su internet per lo studio e la ricerca di compagnie, voli, tariffe, orari, combinazioni ecc. ecc. non sono state vane … nonostante inconvenienti, errori e facili ironie da parte delle nostre mogli! Il volo per Oslo è stato più breve ed economico del viaggio in pullman dall’aeroporto al centro: pro e contro dei voli low cost.

38 CAI MORBEGNO

A tormentare ulteriormente il trasferimento ci si è messa anche la classica signora cittadina: belloccia, non più di primo pelo, con un look trendy molto fashion, ad Oslo per il week-end, che, parlando con un’amica, ha provveduto ad intrattenere i malcapitati vicini (me compreso) con racconti ed aneddoti dei suoi innumerevoli viaggi e naturalmente ad aggiornarci sulla sua situazione sentimentale con immancabili deliziose battute sulla sua ex suocera. Penso che il desiderio di essere con i miei discreti amici e i miei sci in cima ad una solitaria montagna, seppur magari con -15 °C e forte vento, mai fu più prepotente in me. Desiderio che è stato ampliamente esaudito nei giorni seguenti, quando ci siamo concessi sei splendidi itinerari, di cui uno solo con freddo un po’ troppo pungente.

Da Oslo a Bodø e Svolvær Dopo essere atterrati a Oslo sabato pomeriggio, trascorriamo la notte nella capitale norvegese e l’indomani un volo interno ci consegna a Bodø, cittadina nel nord del paese. Qui, prima di prendere il fast-ferry che ci porterà alle Lofoten, ci rendiamo

subito conto delle peculiarità climatiche ed ambientali che contraddistinguono questo remoto lembo di terra e acqua nel periodo primaverile: un vento sempre presente e implacabilmente gelido e tramonti lunghissimi e molto suggestivi. La nostra casa alle Lofoten è un tipico esempio di architettura nordica: interni in legno e vetrate sulla baia che sono molto utili al Ricky per spettacolari foto alle aurore boreali, che come spettri fosforescenti si muovono nel cielo notturno. La nostra padrona di casa è una misteriosa ventenne dall’aspetto molto gradevole che però non dà molta confidenza se non per illustrarci le sue passioni più intime: guidare i tir e accudire i suoi cani da caccia, che ci hanno ringhiato contro per 4 giorni… Il giorno seguente dopo un giro di ricognizione si decide la cima per inaugurare la vacanza: si tratta del Varden, vetta di soli 700 metri di altitudine che presenta 2 cime ben distinte, separate da un evidente colletto. Dopo un primo pezzo di “boschina” di betulle, il paesaggio si apre e ben presto ci troviamo a risalire il lato sinistro di un bel vallone.

Reine, il più pittoresco villaggio di pescatori delle Lofoten.

Man mano che si sale la visuale si allarga con spettacolari scorci sul mare e sulle montagne circostanti. Il Franco ci mette subito in riga con le riprese: dopo essere passato velocemente in testa ci dà il via e ci riprende mentre, con passo regolare, ci avviciniamo alla telecamera. Giunti al colletto, il freddo vento e la cresta apparentemente infida ci indurrebbero ad accontentarci, ma dopo una rapida esplorazione, munito di ramponi e picca, mi accorgo

che l’accesso alla cima Sud è tutt’altro che problematico, così in pochi minuti siamo tutti e 4 in cima a festeggiare la prima salita. La discesa è su neve da sballo, particolare in quanto farinosa ma molto densa...nel bosco ci affidiamo al buon senso e ad un po’ di fortuna che ci consentono di evitare insidiose placche ghiacciate.

Kvittinden e Geitgaljen

Il secondo giorno alle Lofoten ci accoglie ancora con tempo stabile e una gelida brezza,

così decidiamo di puntare subito al “pezzo grosso” della zona: il mitico Geitgaljen. Costeggiando il mare arriviamo al minimarket a pochi metri di distanza dalla spiaggia da cui le relazioni fanno partire il percorso. Qui troviamo due scialpinisti svedesi in procinto di partire per la cima che ci guardano con malcelato interesse (i pendii non sembrano battuti e l’itinerario non è dei più semplici). L’ambiente ostile del ripido vallone viene accentuato dal vento forte che innalza CAI MORBEGNO 39


Il viaggio di andata

Ma procediamo con ordine. É sulle note di “E sem partii …”, di Davide Van de Sfroos, che la mattina del 25 marzo Franco, Ricky ed io siamo partiti dai Burnigui con destinazione Lofoten. Accompagnati dalla Nadia, stipati tra zaini, sacche e borsoni abbiamo constatato che il suo fuoristrada è davvero “Pinin”, sia di nome che di fatto. Giunti all’aeroporto di Orio al Serio, ci siamo incontrati con il brianzolo della compagnia, Luca, di Oggiono, amico del Ricky e neo veterinario. La conclusione del check-in è stata la prima soddisfazione… ma allora le nottate su internet per lo studio e la ricerca di compagnie, voli, tariffe, orari, combinazioni ecc. ecc. non sono state vane … nonostante inconvenienti, errori e facili ironie da parte delle nostre mogli! Il volo per Oslo è stato più breve ed economico del viaggio in pullman dall’aeroporto al centro: pro e contro dei voli low cost.

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A tormentare ulteriormente il trasferimento ci si è messa anche la classica signora cittadina: belloccia, non più di primo pelo, con un look trendy molto fashion, ad Oslo per il week-end, che, parlando con un’amica, ha provveduto ad intrattenere i malcapitati vicini (me compreso) con racconti ed aneddoti dei suoi innumerevoli viaggi e naturalmente ad aggiornarci sulla sua situazione sentimentale con immancabili deliziose battute sulla sua ex suocera. Penso che il desiderio di essere con i miei discreti amici e i miei sci in cima ad una solitaria montagna, seppur magari con -15 °C e forte vento, mai fu più prepotente in me. Desiderio che è stato ampliamente esaudito nei giorni seguenti, quando ci siamo concessi sei splendidi itinerari, di cui uno solo con freddo un po’ troppo pungente.

Da Oslo a Bodø e Svolvær Dopo essere atterrati a Oslo sabato pomeriggio, trascorriamo la notte nella capitale norvegese e l’indomani un volo interno ci consegna a Bodø, cittadina nel nord del paese. Qui, prima di prendere il fast-ferry che ci porterà alle Lofoten, ci rendiamo

subito conto delle peculiarità climatiche ed ambientali che contraddistinguono questo remoto lembo di terra e acqua nel periodo primaverile: un vento sempre presente e implacabilmente gelido e tramonti lunghissimi e molto suggestivi. La nostra casa alle Lofoten è un tipico esempio di architettura nordica: interni in legno e vetrate sulla baia che sono molto utili al Ricky per spettacolari foto alle aurore boreali, che come spettri fosforescenti si muovono nel cielo notturno. La nostra padrona di casa è una misteriosa ventenne dall’aspetto molto gradevole che però non dà molta confidenza se non per illustrarci le sue passioni più intime: guidare i tir e accudire i suoi cani da caccia, che ci hanno ringhiato contro per 4 giorni… Il giorno seguente dopo un giro di ricognizione si decide la cima per inaugurare la vacanza: si tratta del Varden, vetta di soli 700 metri di altitudine che presenta 2 cime ben distinte, separate da un evidente colletto. Dopo un primo pezzo di “boschina” di betulle, il paesaggio si apre e ben presto ci troviamo a risalire il lato sinistro di un bel vallone.

Reine, il più pittoresco villaggio di pescatori delle Lofoten.

Man mano che si sale la visuale si allarga con spettacolari scorci sul mare e sulle montagne circostanti. Il Franco ci mette subito in riga con le riprese: dopo essere passato velocemente in testa ci dà il via e ci riprende mentre, con passo regolare, ci avviciniamo alla telecamera. Giunti al colletto, il freddo vento e la cresta apparentemente infida ci indurrebbero ad accontentarci, ma dopo una rapida esplorazione, munito di ramponi e picca, mi accorgo

che l’accesso alla cima Sud è tutt’altro che problematico, così in pochi minuti siamo tutti e 4 in cima a festeggiare la prima salita. La discesa è su neve da sballo, particolare in quanto farinosa ma molto densa...nel bosco ci affidiamo al buon senso e ad un po’ di fortuna che ci consentono di evitare insidiose placche ghiacciate.

Kvittinden e Geitgaljen

Il secondo giorno alle Lofoten ci accoglie ancora con tempo stabile e una gelida brezza,

così decidiamo di puntare subito al “pezzo grosso” della zona: il mitico Geitgaljen. Costeggiando il mare arriviamo al minimarket a pochi metri di distanza dalla spiaggia da cui le relazioni fanno partire il percorso. Qui troviamo due scialpinisti svedesi in procinto di partire per la cima che ci guardano con malcelato interesse (i pendii non sembrano battuti e l’itinerario non è dei più semplici). L’ambiente ostile del ripido vallone viene accentuato dal vento forte che innalza CAI MORBEGNO 39


vere e proprie nubi di neve trasportata e dall’ombra del mattino (esposizione ovest). Su proposta del Ricky e del Giulio decidiamo di lasciare tastare il terreno agli svedesi e ripieghiamo al soleggiato Kvittinden, una cima posta di fronte al Geit, molto panoramica e dai docili pendii. Il percorso è breve, ma interessante, con pendenze non eccessive (tranne l’ultimo tratto), ma con alcuni traversi piuttosto lunghi in cui occorre prestare una certa attenzione. L’ultimo tratto è una lunga dorsalona che percorriamo avanti e indietro per fare foto dalle angolazioni più disparate, anche qui la panoramica è ottima, con scorci sul mare e sul gruppo del Geitgaljen con il 40 CAI MORBEGNO

suo aspetto patagonico. La discesa è davvero bella con polvere a volte un po’ da cercare, ma sempre di gran soddisfazione… Dopo la bella discesa ci trasferiamo all’attacco del Geitgaljen, il piccolo market ci ristora con bibite e una carne che non siamo ben riusciti a identificare, ma che comunque ci sfama a sufficienza. Dopo un breve tratto pianeggiante tra arbusti e betullette ci troviamo di fronte al primo problema: un ripido canalino incassato tra le rocce e piuttosto carico; da vicino sembra meno problematico, tuttavia l’ultimo tratto sui 50° invoglia alcuni di noi all’uso della beneamata picca. Superato questo primo

ostacolo, saliamo un ampio e bel vallone con scorci fantastici sul mare sottostante. Puntiamo a un’elevazione di roccia e ghiaccio di forma conica molto evidente, posta di fronte a noi, a cui giungiamo tramite un secondo canale da affrontare, per pochi metri, con gli sci in spalla. Da qui giriamo a destra verso Sud e ci ritroviamo in una valletta che con un tratto poco pendente e un ripido pendio finale conduce al colle del Geitgaljen. Ci troviamo in un ambiente grandioso che, a dispetto della modesta quota, regala emozioni fortissime con le bizzarre architetture di neve e ghiaccio delle cime e il blu intenso del mare, il cielo ha un colore “da quattromila”!

Nella pagina a fronte: la spettacolare piramide sommitale del Geitgaljen. In alto: luce nordica verso il colle del Geitgaljen. Qui sopra: le due cime del Varden a pochi chilometri dal villaggio di Kabelvåg.

CAI MORBEGNO 41


vere e proprie nubi di neve trasportata e dall’ombra del mattino (esposizione ovest). Su proposta del Ricky e del Giulio decidiamo di lasciare tastare il terreno agli svedesi e ripieghiamo al soleggiato Kvittinden, una cima posta di fronte al Geit, molto panoramica e dai docili pendii. Il percorso è breve, ma interessante, con pendenze non eccessive (tranne l’ultimo tratto), ma con alcuni traversi piuttosto lunghi in cui occorre prestare una certa attenzione. L’ultimo tratto è una lunga dorsalona che percorriamo avanti e indietro per fare foto dalle angolazioni più disparate, anche qui la panoramica è ottima, con scorci sul mare e sul gruppo del Geitgaljen con il 40 CAI MORBEGNO

suo aspetto patagonico. La discesa è davvero bella con polvere a volte un po’ da cercare, ma sempre di gran soddisfazione… Dopo la bella discesa ci trasferiamo all’attacco del Geitgaljen, il piccolo market ci ristora con bibite e una carne che non siamo ben riusciti a identificare, ma che comunque ci sfama a sufficienza. Dopo un breve tratto pianeggiante tra arbusti e betullette ci troviamo di fronte al primo problema: un ripido canalino incassato tra le rocce e piuttosto carico; da vicino sembra meno problematico, tuttavia l’ultimo tratto sui 50° invoglia alcuni di noi all’uso della beneamata picca. Superato questo primo

ostacolo, saliamo un ampio e bel vallone con scorci fantastici sul mare sottostante. Puntiamo a un’elevazione di roccia e ghiaccio di forma conica molto evidente, posta di fronte a noi, a cui giungiamo tramite un secondo canale da affrontare, per pochi metri, con gli sci in spalla. Da qui giriamo a destra verso Sud e ci ritroviamo in una valletta che con un tratto poco pendente e un ripido pendio finale conduce al colle del Geitgaljen. Ci troviamo in un ambiente grandioso che, a dispetto della modesta quota, regala emozioni fortissime con le bizzarre architetture di neve e ghiaccio delle cime e il blu intenso del mare, il cielo ha un colore “da quattromila”!

Nella pagina a fronte: la spettacolare piramide sommitale del Geitgaljen. In alto: luce nordica verso il colle del Geitgaljen. Qui sopra: le due cime del Varden a pochi chilometri dal villaggio di Kabelvåg.

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Qui sotto: in vetta al Rundfjellet la più frequentata delle Lofoten, pochi chilometri a nord di Svolvær. Pagina a fronte: polvere sul mare lungo i docili pendii del Varden. Sullo sfondo le vette della costa continentale.

Al colletto i due più esperti del gruppo hanno le idee molto chiare: è già tardi (sono le 18.40) e non si può salire la cima vera e propria, 80 metri sopra, che si raggiunge, data la pendenza e la neve dura, armati di picca e ramponi. Mi piange il cuore a vedere le ramponate lasciate, come un invito, nel ripido pendio finale, ma alla fine mi rimetto al parere dei due saggi, conscio anch’io della discesa non banale che ci attende. Il primo tratto del canale lo affrontiamo in derapata (io e Ricky, per gli altri due nessun problema), poi con curve via via sempre meno incerte arriviamo al pianoro sottostante. Da qui, una discesa goduriosa su firn più o meno duro, con il mare in basso in cui sembra di andare a gettarsi! Il canalino finale, ripidissimo, ci dà filo da 42 CAI MORBEGNO

torcere, ma derapando un po’ e stringendo tutti gli sfinteri riesco anch’io ad averne ragione e a tornare stanco, ma davvero contento alla macchina. Nel complesso una giornata eccezionale. Non capita spesso di inanellare due gite del genere stando tutto il giorno sul versante solivo godendo sempre di neve eccellente.

Il giro turistico

Dopo la “grande giornata” ci siamo concessi un giorno di pausa sci-alpinistica per visitare anche il resto delle isole e ci siamo spinti verso sud fino al piccolo paese dal nome più corto al mondo: Å. Il viaggio è stato vario ed interessante, siamo passati ai piedi di grandi pareti rocciose coperte da colate di ghiaccio, accanto a laghi gelati e a

scogliere su cui si infrangevano onde cupe di un mare severo e siamo arrivati a Reine, incantevole paesino di casette in legno colorate, sicuramente uno dei posti più suggestivi delle Lofoten. Qui ci siamo mangiati un ottimo panino con un würstel avvolto nella pancetta e il Franco non ha saputo resistere alla tentazione di un gelato! Tre le immagini di questa giornata che mi resteranno più vive: i pescatori che, sfidando il vento sempre forte e gelido seduti su sedie da campeggio, aspettavano con pazienza che qualche pesce abboccasse al loro amo calato in un foro nel lago ghiacciato; le centinaia di merluzzi decapitati appesi per la coda a grandi “pergole” in legno per seccare al sole e al vento in attesa di finire, ottimi

stoccafissi, sulle tavole di tutto il mondo; una piccola baia di acqua azzurra e verde con sabbia bianca, angolo caraibico se non fosse per la neve a pochi metri di distanza …

L’ultimo giorno alle Lofoten

Al ritorno dal giro autoturistico delle Isole, rientrando a casa troviamo dei nuovi ospiti: una coppia di pescatori svedesi che ci farà compagnia per la serata. Io e Luca dobbiamo abbandonare la nostra stanza e riponiamo tutta l’attrezzatura nella stanza di Franco e Giulio, è il delirio più assoluto, non riusciamo più a trovare nulla. Io e Luca non sappiamo ancora dove staremo a dormire visto che la nostra padrona di casa non si farà vedere fino a tarda sera. Quando arriva

si presenta con un simpatico energumeno locale, un suo amico. Dormiremo in sala, ma soltanto quando i due avranno finito di chiacchierare, alle 2 passate, riusciamo finalmente a prepararci per la notte, mentre Julia cerca di farsi perdonare... Il mattino successivo lasciamo le Lofoten. Prima però dobbiamo salutare la nostra vecchia Mazda “a spinta” che ci ha scarrozzato su e giù per le isole. A Tromsø arriveremo con una station wagon francese nuova di zecca. I preparativi per il trasferimento ci fanno perdere tempo, ma riusciamo a concederci un’ultima gita a pochi chilometri da Svolvær. Il Rundfjellet è considerata la “Rosetta” delle Lofoten, la gita più classica che non si può saltare. Alla partenza il vento sembra meno violento del giorno precedente, ma nel

frattempo il sole è scomparso dietro le nuvole. Dopo i primi metri a fianco di un piccolo fiordo, capiamo di essere in un posto un po’ particolare, troviamo delle alghe appese ai rami delle betulle! Dopo aver attraversato numerosi laghetti e piccoli ruscelli ghiacciati, attacchiamo il primo pendio seguendo una modesta traccia. Ci troviamo immediatamente in una ostica boschina particolarmente ripida e difficoltosa. Ne usciamo in qualche modo ed approdiamo ad una serie di creste e fasce detritiche battute dal vento; il panorama si apre sul mare e sulle vette del gruppo del Geitgaljen. Davanti a noi una serie di vallecole e piccole creste ci separa dal pendio finale. Il vento inizia a farsi insistente e ci accompagnerà fino alla vetta. Aggirata sulla CAI MORBEGNO 43


Qui sotto: in vetta al Rundfjellet la più frequentata delle Lofoten, pochi chilometri a nord di Svolvær. Pagina a fronte: polvere sul mare lungo i docili pendii del Varden. Sullo sfondo le vette della costa continentale.

Al colletto i due più esperti del gruppo hanno le idee molto chiare: è già tardi (sono le 18.40) e non si può salire la cima vera e propria, 80 metri sopra, che si raggiunge, data la pendenza e la neve dura, armati di picca e ramponi. Mi piange il cuore a vedere le ramponate lasciate, come un invito, nel ripido pendio finale, ma alla fine mi rimetto al parere dei due saggi, conscio anch’io della discesa non banale che ci attende. Il primo tratto del canale lo affrontiamo in derapata (io e Ricky, per gli altri due nessun problema), poi con curve via via sempre meno incerte arriviamo al pianoro sottostante. Da qui, una discesa goduriosa su firn più o meno duro, con il mare in basso in cui sembra di andare a gettarsi! Il canalino finale, ripidissimo, ci dà filo da 42 CAI MORBEGNO

torcere, ma derapando un po’ e stringendo tutti gli sfinteri riesco anch’io ad averne ragione e a tornare stanco, ma davvero contento alla macchina. Nel complesso una giornata eccezionale. Non capita spesso di inanellare due gite del genere stando tutto il giorno sul versante solivo godendo sempre di neve eccellente.

Il giro turistico

Dopo la “grande giornata” ci siamo concessi un giorno di pausa sci-alpinistica per visitare anche il resto delle isole e ci siamo spinti verso sud fino al piccolo paese dal nome più corto al mondo: Å. Il viaggio è stato vario ed interessante, siamo passati ai piedi di grandi pareti rocciose coperte da colate di ghiaccio, accanto a laghi gelati e a

scogliere su cui si infrangevano onde cupe di un mare severo e siamo arrivati a Reine, incantevole paesino di casette in legno colorate, sicuramente uno dei posti più suggestivi delle Lofoten. Qui ci siamo mangiati un ottimo panino con un würstel avvolto nella pancetta e il Franco non ha saputo resistere alla tentazione di un gelato! Tre le immagini di questa giornata che mi resteranno più vive: i pescatori che, sfidando il vento sempre forte e gelido seduti su sedie da campeggio, aspettavano con pazienza che qualche pesce abboccasse al loro amo calato in un foro nel lago ghiacciato; le centinaia di merluzzi decapitati appesi per la coda a grandi “pergole” in legno per seccare al sole e al vento in attesa di finire, ottimi

stoccafissi, sulle tavole di tutto il mondo; una piccola baia di acqua azzurra e verde con sabbia bianca, angolo caraibico se non fosse per la neve a pochi metri di distanza …

L’ultimo giorno alle Lofoten

Al ritorno dal giro autoturistico delle Isole, rientrando a casa troviamo dei nuovi ospiti: una coppia di pescatori svedesi che ci farà compagnia per la serata. Io e Luca dobbiamo abbandonare la nostra stanza e riponiamo tutta l’attrezzatura nella stanza di Franco e Giulio, è il delirio più assoluto, non riusciamo più a trovare nulla. Io e Luca non sappiamo ancora dove staremo a dormire visto che la nostra padrona di casa non si farà vedere fino a tarda sera. Quando arriva

si presenta con un simpatico energumeno locale, un suo amico. Dormiremo in sala, ma soltanto quando i due avranno finito di chiacchierare, alle 2 passate, riusciamo finalmente a prepararci per la notte, mentre Julia cerca di farsi perdonare... Il mattino successivo lasciamo le Lofoten. Prima però dobbiamo salutare la nostra vecchia Mazda “a spinta” che ci ha scarrozzato su e giù per le isole. A Tromsø arriveremo con una station wagon francese nuova di zecca. I preparativi per il trasferimento ci fanno perdere tempo, ma riusciamo a concederci un’ultima gita a pochi chilometri da Svolvær. Il Rundfjellet è considerata la “Rosetta” delle Lofoten, la gita più classica che non si può saltare. Alla partenza il vento sembra meno violento del giorno precedente, ma nel

frattempo il sole è scomparso dietro le nuvole. Dopo i primi metri a fianco di un piccolo fiordo, capiamo di essere in un posto un po’ particolare, troviamo delle alghe appese ai rami delle betulle! Dopo aver attraversato numerosi laghetti e piccoli ruscelli ghiacciati, attacchiamo il primo pendio seguendo una modesta traccia. Ci troviamo immediatamente in una ostica boschina particolarmente ripida e difficoltosa. Ne usciamo in qualche modo ed approdiamo ad una serie di creste e fasce detritiche battute dal vento; il panorama si apre sul mare e sulle vette del gruppo del Geitgaljen. Davanti a noi una serie di vallecole e piccole creste ci separa dal pendio finale. Il vento inizia a farsi insistente e ci accompagnerà fino alla vetta. Aggirata sulla CAI MORBEGNO 43


Tromsø

sinistra la ripida pala orientale, ci separa dalla vetta un ripido pendio da tagliare verso destra dove occorrono i rampanti ed un buon equilibrio per resistere alle violentissime raffiche di vento che ci investono di continuo. Ormai rassegnati ad una breve e disagevole sosta in vetta, a meno di 5 metri dall’ometto il vento si placa improvvisamente. L’imponente cornice lo fa impennare concedendo solo in questi pochi metri una zona di calma. Il panorama che si gode dal Rundfjellet è uno dei più belli dell’isola. Il fiordo di Svolvær è ben visibile verso est e riconosciamo pure la “nostra” casa da poco abbandonata. Ci prepariamo per la discesa imbacuccandoci il più possibile, visto che il vento è pronto a congelarci il visto e tutte le parti esposte. Superati i primi delicati metri di cresta, l’impressione è di lanciarsi da un trampolino sul mare. Perdiamo quota rapidamente su neve dura, a tratti ghiacciata, ben poco esaltante. Più in basso inforchiamo un canalino che ci regala la solita splendida farina. Non ripercorriamo la via di salita, ma scendiamo più a nord lambendo un grande lago 44 CAI MORBEGNO

completamente ghiacciato. Andiamo all’inseguimento di una solitaria ragazza locale che, fermatasi prima della vetta, ci ha preceduto nella discesa. Probabilmente conosce molto bene l’itinerario, visto che indovina tutti i passaggi chiave e le vallette con la neve migliore. Il tratto più divertente rimane l’ultimo, nella classica boschina ben sciabile. Raggiunta la base del pendio, notiamo una numerosa comitiva intenta nella salita. L’ultimo tratto pianeggiante ci regala nuove sorprese, la traccia di salita in alcuni tratti è scomparsa, inghiottita dall’alta marea. Dobbiamo quindi modificare il nostro percorso di rientro cercando l’ultima valletta praticabile non ancora sommersa. Impressionante vedere le tue tracce nella neve che si immergono nel mare dopo poche ore dal tuo passaggio. Mai avrei creduto che un’alta marea mi avrebbe provocato problemi di itinerario durante una gita scialpinistica! Arrivo al parcheggio per primo e, incuriosito dall’auto della comitiva appena avvistata, mi avvicino al finestrino. Con grande stupore vedo nel

bagagliaio sacche Longoni e una stampa delle relazioni di Paolo Vitali e Sonja Brambati. Italiani! Per un’ulteriore serie di coincidenze incontreremo la stessa comitiva sul volo di rientro da Oslo. Caricata la macchina ci dirigiamo verso Fiskebål dove prenderemo il traghetto per le isole Vesterålen. Dopo il breve e confortevole viaggio in traghetto proseguiamo qualche decina di chilometri verso nord. Le Vesterålen sono contraddistinte da dolci rilievi, boschi ben sviluppati e sono più agricole e meno marine delle Lofoten. Il sole è tramontato già da un po’ quando troviamo alloggio in una casetta in un campeggio disperso nel cuore delle isole in una baia freddissima e allo stesso tempo meravigliosa. Un cordialissimo signore che assomiglia a Babbo Natale ci mostra l’appartamento, mentre la moglie ci prepara la cena visto che nei paraggi non ci sono ristoranti. Ci troviamo quasi a disagio di fronte a tanta disponibilità e cordialità. Lo spettacolo dell’aurora boreale ci terrà compagnia fino a notte fonda.

La mattina successiva siamo partiti alla volta di Tromsø cercando “a vista” una cima che ci potesse offrire un itinerario che ci aggradasse e, dopo i giorni precedenti, non era certo cosa semplice soddisfare quattro palati divenuti ormai molto esigenti. Così, dopo aver viaggiato tutta la mattina scrutando cime, valloni e canali, che però non erano mai “all’altezza”, abbiamo finalmente individuato quello che sarebbe stato l’itinerario della giornata. Partenza dalla inusuale quota di 420 m per raggiungere la cima più alta della settimana: i 1457 m dello Spanstinden. E’ decisamente la giornata più fredda e rimaniamo imbacuccati per tutta la salita che viene però allietata da un incontro per me eccezionale: due renne improvvisamente sbucano dal crinale e lentamente, attraversando il pendio, spariscono dietro il costone … Rientrati alla macchina dopo una sciata non particolarmente entusiasmante, riprendiamo il viaggio verso Tromsø dove giungiamo dopo aver assistito ad innumerevoli tramonti

tra i fiordi grazie al sole perennemente basso. Dopo aver trovato alloggio in un economico hotel quasi totalmente autogestito, facciamo un giro nella bella cittadina universitaria situata oltre 350 km a nord del circolo polare artico, poi rientriamo a studiare la carta per la scelta dell’ultimo itinerario. Le nostre attenzioni si concentrano sull’Ullstind, 1094 m. L’itinerario si dimostrerà, oltre che come al solito molto panoramico, anche particolarmente affollato per gli standard a cui ci siamo abituati; infatti dividiamo la cima con altri cinque sci alpinisti locali. Da qui osserviamo con interesse le splendide montagne del Lyngen dove, con un po’ di tristezza per la fine della vacanza, ci ripromettiamo di venire … magari tra qualche anno. La conclusione del viaggio è la più tradizionale: seduti ad un tavolo di un ottimo ristorante gustiamo salmone e stoccafisso, nella migliore tradizione norvegese, nel tentativo di dimenticare le pessime pastasciutte che ci eravamo cucinati le sere precedenti.

Di Giulio Gadola: Il viaggio di andata Il giro turistico Tromsø Di Riki Scotti: L’ultimo giorno alle Lofoten Di Luca Bono: Da Oslo a Bodø e Svolvær Kvittinden e Geitgaljen

Pagina a fronte: ultima ripida discesa di giornata alle 18.40 dal colle del Geitgaljen. Sopra: mattinata divertente sia con gli sci che con la picca sui pendii del Kvittinden. A fianco: una delle tante aurore boreali ammirate fra le Lofoten e le Vesteralen.

CAI MORBEGNO 45


Tromsø

sinistra la ripida pala orientale, ci separa dalla vetta un ripido pendio da tagliare verso destra dove occorrono i rampanti ed un buon equilibrio per resistere alle violentissime raffiche di vento che ci investono di continuo. Ormai rassegnati ad una breve e disagevole sosta in vetta, a meno di 5 metri dall’ometto il vento si placa improvvisamente. L’imponente cornice lo fa impennare concedendo solo in questi pochi metri una zona di calma. Il panorama che si gode dal Rundfjellet è uno dei più belli dell’isola. Il fiordo di Svolvær è ben visibile verso est e riconosciamo pure la “nostra” casa da poco abbandonata. Ci prepariamo per la discesa imbacuccandoci il più possibile, visto che il vento è pronto a congelarci il visto e tutte le parti esposte. Superati i primi delicati metri di cresta, l’impressione è di lanciarsi da un trampolino sul mare. Perdiamo quota rapidamente su neve dura, a tratti ghiacciata, ben poco esaltante. Più in basso inforchiamo un canalino che ci regala la solita splendida farina. Non ripercorriamo la via di salita, ma scendiamo più a nord lambendo un grande lago 44 CAI MORBEGNO

completamente ghiacciato. Andiamo all’inseguimento di una solitaria ragazza locale che, fermatasi prima della vetta, ci ha preceduto nella discesa. Probabilmente conosce molto bene l’itinerario, visto che indovina tutti i passaggi chiave e le vallette con la neve migliore. Il tratto più divertente rimane l’ultimo, nella classica boschina ben sciabile. Raggiunta la base del pendio, notiamo una numerosa comitiva intenta nella salita. L’ultimo tratto pianeggiante ci regala nuove sorprese, la traccia di salita in alcuni tratti è scomparsa, inghiottita dall’alta marea. Dobbiamo quindi modificare il nostro percorso di rientro cercando l’ultima valletta praticabile non ancora sommersa. Impressionante vedere le tue tracce nella neve che si immergono nel mare dopo poche ore dal tuo passaggio. Mai avrei creduto che un’alta marea mi avrebbe provocato problemi di itinerario durante una gita scialpinistica! Arrivo al parcheggio per primo e, incuriosito dall’auto della comitiva appena avvistata, mi avvicino al finestrino. Con grande stupore vedo nel

bagagliaio sacche Longoni e una stampa delle relazioni di Paolo Vitali e Sonja Brambati. Italiani! Per un’ulteriore serie di coincidenze incontreremo la stessa comitiva sul volo di rientro da Oslo. Caricata la macchina ci dirigiamo verso Fiskebål dove prenderemo il traghetto per le isole Vesterålen. Dopo il breve e confortevole viaggio in traghetto proseguiamo qualche decina di chilometri verso nord. Le Vesterålen sono contraddistinte da dolci rilievi, boschi ben sviluppati e sono più agricole e meno marine delle Lofoten. Il sole è tramontato già da un po’ quando troviamo alloggio in una casetta in un campeggio disperso nel cuore delle isole in una baia freddissima e allo stesso tempo meravigliosa. Un cordialissimo signore che assomiglia a Babbo Natale ci mostra l’appartamento, mentre la moglie ci prepara la cena visto che nei paraggi non ci sono ristoranti. Ci troviamo quasi a disagio di fronte a tanta disponibilità e cordialità. Lo spettacolo dell’aurora boreale ci terrà compagnia fino a notte fonda.

La mattina successiva siamo partiti alla volta di Tromsø cercando “a vista” una cima che ci potesse offrire un itinerario che ci aggradasse e, dopo i giorni precedenti, non era certo cosa semplice soddisfare quattro palati divenuti ormai molto esigenti. Così, dopo aver viaggiato tutta la mattina scrutando cime, valloni e canali, che però non erano mai “all’altezza”, abbiamo finalmente individuato quello che sarebbe stato l’itinerario della giornata. Partenza dalla inusuale quota di 420 m per raggiungere la cima più alta della settimana: i 1457 m dello Spanstinden. E’ decisamente la giornata più fredda e rimaniamo imbacuccati per tutta la salita che viene però allietata da un incontro per me eccezionale: due renne improvvisamente sbucano dal crinale e lentamente, attraversando il pendio, spariscono dietro il costone … Rientrati alla macchina dopo una sciata non particolarmente entusiasmante, riprendiamo il viaggio verso Tromsø dove giungiamo dopo aver assistito ad innumerevoli tramonti

tra i fiordi grazie al sole perennemente basso. Dopo aver trovato alloggio in un economico hotel quasi totalmente autogestito, facciamo un giro nella bella cittadina universitaria situata oltre 350 km a nord del circolo polare artico, poi rientriamo a studiare la carta per la scelta dell’ultimo itinerario. Le nostre attenzioni si concentrano sull’Ullstind, 1094 m. L’itinerario si dimostrerà, oltre che come al solito molto panoramico, anche particolarmente affollato per gli standard a cui ci siamo abituati; infatti dividiamo la cima con altri cinque sci alpinisti locali. Da qui osserviamo con interesse le splendide montagne del Lyngen dove, con un po’ di tristezza per la fine della vacanza, ci ripromettiamo di venire … magari tra qualche anno. La conclusione del viaggio è la più tradizionale: seduti ad un tavolo di un ottimo ristorante gustiamo salmone e stoccafisso, nella migliore tradizione norvegese, nel tentativo di dimenticare le pessime pastasciutte che ci eravamo cucinati le sere precedenti.

Di Giulio Gadola: Il viaggio di andata Il giro turistico Tromsø Di Riki Scotti: L’ultimo giorno alle Lofoten Di Luca Bono: Da Oslo a Bodø e Svolvær Kvittinden e Geitgaljen

Pagina a fronte: ultima ripida discesa di giornata alle 18.40 dal colle del Geitgaljen. Sopra: mattinata divertente sia con gli sci che con la picca sui pendii del Kvittinden. A fianco: una delle tante aurore boreali ammirate fra le Lofoten e le Vesteralen.

CAI MORBEGNO 45


di Mario Spini

46 CAI MORBEGNO

L’uso dei chiodi in parete e in generale dei mezzi artificiali ha animato da sempre le discussioni tra arrampicatori; o meglio, per trovare traccia delle prime polemiche bisogna risalire agli anni intorno al 1910, quando Otto Herzog, Hans Dulfer e Hans Fiechtl iniziarono ad usare, abbinati, chiodi, corda e moschettoni (questi ultimi erano quelli usati dai vigili del fuoco). Infatti, in quell’epoca, Paul Preuss, uno dei maggiori talenti alpinistici della storia, raffinato arrampicatore solitario, fautore di un’etica molto rigorosa, si oppose fermamente all’uso di questi strumenti come fondamento di una tecnica di salita, ammettendone l’impiego “solo in un giustificato caso di pericolo”, sostenendo comunque che “la sicurezza per ogni alpinista doveva essere ottenuta non con l’impiego di mezzi artificiali, ma in via preventiva attraverso il giusto apprezzamento delle proprie forze”. Da allora l’alpinismo si è evoluto costantemente con una crescita delle difficoltà tecniche che sono progredite di pari passo con l’impiego di materiali sempre più efficaci, attingendo comunque sempre dall’esperienze delle generazioni precedenti per ampliare i confini dell’avventura e concepire nuove sfide. E’ emblematica, ed aiuta a comprendere i toni della disputa che coinvolgeva sostenitori dei mezzi artificiali e puristi, una battuta con cui il triestino Julius Kugy, nel 1933, commentò la prima salita della parete nord della cima Grande di Lavaredo da parte di Emilio Comici e dei fratelli Dimai, realizzata piantando ben 75 chiodi nei primi 225 metri di salita: “Adesso, finalmente, sono perfettamente convinto che la Cima Grande non può essere scalata”. In epoca un po’ più recente, alla fine degli anni sessanta, Reinhold Messner parlò di CAI MORBEGNO 47


di Mario Spini

46 CAI MORBEGNO

L’uso dei chiodi in parete e in generale dei mezzi artificiali ha animato da sempre le discussioni tra arrampicatori; o meglio, per trovare traccia delle prime polemiche bisogna risalire agli anni intorno al 1910, quando Otto Herzog, Hans Dulfer e Hans Fiechtl iniziarono ad usare, abbinati, chiodi, corda e moschettoni (questi ultimi erano quelli usati dai vigili del fuoco). Infatti, in quell’epoca, Paul Preuss, uno dei maggiori talenti alpinistici della storia, raffinato arrampicatore solitario, fautore di un’etica molto rigorosa, si oppose fermamente all’uso di questi strumenti come fondamento di una tecnica di salita, ammettendone l’impiego “solo in un giustificato caso di pericolo”, sostenendo comunque che “la sicurezza per ogni alpinista doveva essere ottenuta non con l’impiego di mezzi artificiali, ma in via preventiva attraverso il giusto apprezzamento delle proprie forze”. Da allora l’alpinismo si è evoluto costantemente con una crescita delle difficoltà tecniche che sono progredite di pari passo con l’impiego di materiali sempre più efficaci, attingendo comunque sempre dall’esperienze delle generazioni precedenti per ampliare i confini dell’avventura e concepire nuove sfide. E’ emblematica, ed aiuta a comprendere i toni della disputa che coinvolgeva sostenitori dei mezzi artificiali e puristi, una battuta con cui il triestino Julius Kugy, nel 1933, commentò la prima salita della parete nord della cima Grande di Lavaredo da parte di Emilio Comici e dei fratelli Dimai, realizzata piantando ben 75 chiodi nei primi 225 metri di salita: “Adesso, finalmente, sono perfettamente convinto che la Cima Grande non può essere scalata”. In epoca un po’ più recente, alla fine degli anni sessanta, Reinhold Messner parlò di CAI MORBEGNO 47


A fianco: In Val di Mello sulle placche della Vedova Nera. Sotto: sul Filo di Arianna sempre in Val di Mello. Nella pagina a fianco: sulle placche di Boggia all’imbocco della Val Bodengo.

“assassinio dell’impossibile” riferendosi a quegli alpinisti che utilizzavano in modo sistematico chiodi a pressione per tracciare le cosiddette “direttissime a goccia d’acqua” sulle strapiombanti pareti dolomitiche, scagliandosi, inoltre, contro coloro che, non all’altezza delle difficoltà, foravano la roccia per superare passaggi superati in libera dai primi salitori (Via Vinatzer alla Sud della Marmolada o diedro Philipp/Flamm alla Nord-ovest del Monte Civetta). É però dalla fine degli anni settanta, con l’ampliamento del campo d’azione alle falesie di fondo valle, che l’arrampicata ha tratto stimolo per una maggiore diffusione. L’affinamento della tecnica e lo sviluppo specifico della forza su queste strutture, sino ad allora poco considerate dagli alpinisti, creò i presupposti per la realizzazione di 48 CAI MORBEGNO

nuovi exploit anche in alta montagna. In questo periodo un fattore determinante per la crescita delle difficoltà tecniche in arrampicata libera fu l’attrezzatura sistematica con spit, che consentì di superare senza più timori il tabù della caduta. La spettacolarità delle prestazioni raggiunte su roccia e il desiderio di mettere a confronto i maggiori talenti del momento, portarono nel 1985 all’organizzazione della prima gara d’arrampicata a Bardonecchia, evento molto innovativo, al quale si può fare risalire la nascita dell’arrampicata sportiva, disciplina che troverà poi forte impulso con la diffusione delle strutture artificiali. Il panorama odierno del mondo dell’arrampicata è molto variegato: abbiamo gli amanti del bouldering, attività che attira soprattutto i giovani, impegnati su massi di modeste dimensioni armati di sola magnesia, scarpette e crash pad; gli arrampicatori sportivi che operano prevalentemente su monotiri ben protetti, in falesia o su muri artificiali (attività ormai indispensabile per raggiungere alti livelli); sino ad arrivare agli arrampicatori più polivalenti, impegnati anche su vie di più tiri, parzialmente attrezzate, da integrare per l’assicurazione con protezioni mobili (nuts e friends); per giungere, infine, a chi pratica anche l’alpinismo vero e proprio arrampicando in alta montagna, attività quest’ultima caratterizzata da una maggior componente di rischio legata agli imprevisti climatici ed ai pericoli oggettivi (cedimento di appigli, caduta di sassi, CAI MORBEGNO 49


A fianco: In Val di Mello sulle placche della Vedova Nera. Sotto: sul Filo di Arianna sempre in Val di Mello. Nella pagina a fianco: sulle placche di Boggia all’imbocco della Val Bodengo.

“assassinio dell’impossibile” riferendosi a quegli alpinisti che utilizzavano in modo sistematico chiodi a pressione per tracciare le cosiddette “direttissime a goccia d’acqua” sulle strapiombanti pareti dolomitiche, scagliandosi, inoltre, contro coloro che, non all’altezza delle difficoltà, foravano la roccia per superare passaggi superati in libera dai primi salitori (Via Vinatzer alla Sud della Marmolada o diedro Philipp/Flamm alla Nord-ovest del Monte Civetta). É però dalla fine degli anni settanta, con l’ampliamento del campo d’azione alle falesie di fondo valle, che l’arrampicata ha tratto stimolo per una maggiore diffusione. L’affinamento della tecnica e lo sviluppo specifico della forza su queste strutture, sino ad allora poco considerate dagli alpinisti, creò i presupposti per la realizzazione di 48 CAI MORBEGNO

nuovi exploit anche in alta montagna. In questo periodo un fattore determinante per la crescita delle difficoltà tecniche in arrampicata libera fu l’attrezzatura sistematica con spit, che consentì di superare senza più timori il tabù della caduta. La spettacolarità delle prestazioni raggiunte su roccia e il desiderio di mettere a confronto i maggiori talenti del momento, portarono nel 1985 all’organizzazione della prima gara d’arrampicata a Bardonecchia, evento molto innovativo, al quale si può fare risalire la nascita dell’arrampicata sportiva, disciplina che troverà poi forte impulso con la diffusione delle strutture artificiali. Il panorama odierno del mondo dell’arrampicata è molto variegato: abbiamo gli amanti del bouldering, attività che attira soprattutto i giovani, impegnati su massi di modeste dimensioni armati di sola magnesia, scarpette e crash pad; gli arrampicatori sportivi che operano prevalentemente su monotiri ben protetti, in falesia o su muri artificiali (attività ormai indispensabile per raggiungere alti livelli); sino ad arrivare agli arrampicatori più polivalenti, impegnati anche su vie di più tiri, parzialmente attrezzate, da integrare per l’assicurazione con protezioni mobili (nuts e friends); per giungere, infine, a chi pratica anche l’alpinismo vero e proprio arrampicando in alta montagna, attività quest’ultima caratterizzata da una maggior componente di rischio legata agli imprevisti climatici ed ai pericoli oggettivi (cedimento di appigli, caduta di sassi, CAI MORBEGNO 49


di frane ecc.). Un tema ricorrente di discussione che occupa oggi molti forum su internet ed è anche motivo di forti contrasti è questo: è ammissibile utilizzare lo spit in montagna per riattrezzare vie che per l’elevata frequentazione sono divenute delle “classiche”? Si può dire che tale quesito ha trovato localmente risposte diverse. In Svizzera si è diffuso, in prevalenza, un atteggiamento cosiddetto “plaisir” che porta, senza particolari remore, alla riattrezzatura a spit di itinerari classici di montagna, estendendo in taluni casi l’intervento non solo alle soste, ma anche alle protezioni lungo il tiro (Ferro da Stiro ai Gemelli, spigolo Nord del Badile, Via Niedermann alla Graue Wand, ecc.). Nel recente passato si è rischiato un “incidente diplomatico” in seguito ad uno sconfinamento di tale pratica attuato da alcune guide grigionesi che hanno violato con spit il classicissimo spigolo Vinci al Cengalo; l’atto provocatorio

50 CAI MORBEGNO

ha portato ad un pronto intervento di smantellamento da parte di alcuni loro colleghi “locali”. Un’etica decisamente più rigida è quella proposta, con un vero e proprio documento, dai “Catores” della Val Gardena: in sintesi, non si ammette la richiodatura delle vie classiche al fine di “mantenere il loro valore alpinistico” e si scoraggia, inoltre, chi ambisce ad aprire ardite linee a spit su difficoltà estreme, in quanto si osserva che “le aspre condizioni delle pareti, con scariche di

A fianco: in arrampicata sullo spigolo al Sasso del Drago in Valchiavenna. Nella pagina a fronte: sul granito del Pizzo Balzetto.

sassi, ghiaccio, corrosione, incidono sull’affidabilità della chiodatura”(!?). Ha portato invece ad un esito differente un interessante dibattito tenutosi a Cortina, tra guide alpine del passato e del presente, che ha riguardato le grandi vie classiche sulle quali le stesse guide sono impegnate frequentemente con clienti; si è concordato, infatti, di procedere ad attrezzare le soste con un’attenzione particolare per la componente storico/estetica, cha ha portato ad utilizzare appositi chiodi resinati che nelle fattezze riproducessero i materiali usati all’epoca dell’ apertura (Via Costantini/

Apollonio alla Tofana di Rozes). Nella vicina Val di Mello il problema, da sempre molto sentito, non ha trovato ancora una soluzione condivisa, in sintonia con la poca armonia che si respira nel luogo (episodi di intolleranza sfociati nel recente imbrattamento dei massi, interventi edilizi, progetti stradali e di sfruttamento delle acque oggetto di annose discussioni). Lo stato dell’attrezzatura presente sulle vie di arrampicata è assai vario: vie della prima epoca, aperte cioè senza uso di spit (Kundalini, Luna Nascente), presentano in genere chiodi tradizionali alle soste e talora anche per protezione intermedia lungo tiri di corda;

vie di seconda generazione (anni ottanta) aperte con l’uso di spit, ora ormai datati, versano in condizioni di scarsa affidabilità (vie di Hassan ed Elena alla Stella Marina); infine vie con moderni spit inox già posizionati in apertura o in seguito ad una successiva sostituzione (Vedova Allegra, Piedi di Piombo). Quale potrebbe essere una soluzione equilibrata per la manutenzione delle vie? C’è chi propone un approccio molto pragmatico che prende avvio da una considerazione: la schiodatura delle vie aperte con chiodi tradizionali, concetto ormai concordemente affermato, non è auspicabile perché porta al progressivo deterioramento delle fessure

dovuto alla pratica ripetuta di piantare e togliere i chiodi. Ne deriva, di conseguenza, una riflessione su quello che viene chiamato il “valore” di una salita (alpinistico o meno): la presenza di materiale in parete inevitabilmente condiziona le difficoltà incontrate dai ripetitori; queste non potranno mai essere pari a quelle affrontate dai primi salitori. Se accettiamo dunque che i chiodi tradizionali, nel caso in cui non possano essere adeguatamente sostituiti da protezioni mobili (nuts o frends) debbano essere lasciati in loco, sorge spontanea una domanda: perché non sostituire questi con più affidabili e duraturi fittoni resinati o spit inox? È da sottolineare inoltre che gli interventi di manutenzione sino ad ora operati su quegli itinerari già in origine aperti con spit (Vedova Nera, Mani di Fata) sono avvenuti con rispetto e attenzione nei confronti dello “stile” adottato dai primi salitori, conservando le originarie distanze tra le protezioni, fattore che costituisce a tutti gli effetti una componente psicologica determinante della difficoltà. Quanto dureranno ancora le discordie sull’argomento? Probabilmente finchè non si diffonderà la consapevolezza che la sicurezza e l’incolumità devono comunque essere i valori di riferimento di un’etica, anche se l’attività in questione è, di per sé, futile e pericolosa come l’arrampicata. CAI MORBEGNO 51


di frane ecc.). Un tema ricorrente di discussione che occupa oggi molti forum su internet ed è anche motivo di forti contrasti è questo: è ammissibile utilizzare lo spit in montagna per riattrezzare vie che per l’elevata frequentazione sono divenute delle “classiche”? Si può dire che tale quesito ha trovato localmente risposte diverse. In Svizzera si è diffuso, in prevalenza, un atteggiamento cosiddetto “plaisir” che porta, senza particolari remore, alla riattrezzatura a spit di itinerari classici di montagna, estendendo in taluni casi l’intervento non solo alle soste, ma anche alle protezioni lungo il tiro (Ferro da Stiro ai Gemelli, spigolo Nord del Badile, Via Niedermann alla Graue Wand, ecc.). Nel recente passato si è rischiato un “incidente diplomatico” in seguito ad uno sconfinamento di tale pratica attuato da alcune guide grigionesi che hanno violato con spit il classicissimo spigolo Vinci al Cengalo; l’atto provocatorio

50 CAI MORBEGNO

ha portato ad un pronto intervento di smantellamento da parte di alcuni loro colleghi “locali”. Un’etica decisamente più rigida è quella proposta, con un vero e proprio documento, dai “Catores” della Val Gardena: in sintesi, non si ammette la richiodatura delle vie classiche al fine di “mantenere il loro valore alpinistico” e si scoraggia, inoltre, chi ambisce ad aprire ardite linee a spit su difficoltà estreme, in quanto si osserva che “le aspre condizioni delle pareti, con scariche di

A fianco: in arrampicata sullo spigolo al Sasso del Drago in Valchiavenna. Nella pagina a fronte: sul granito del Pizzo Balzetto.

sassi, ghiaccio, corrosione, incidono sull’affidabilità della chiodatura”(!?). Ha portato invece ad un esito differente un interessante dibattito tenutosi a Cortina, tra guide alpine del passato e del presente, che ha riguardato le grandi vie classiche sulle quali le stesse guide sono impegnate frequentemente con clienti; si è concordato, infatti, di procedere ad attrezzare le soste con un’attenzione particolare per la componente storico/estetica, cha ha portato ad utilizzare appositi chiodi resinati che nelle fattezze riproducessero i materiali usati all’epoca dell’ apertura (Via Costantini/

Apollonio alla Tofana di Rozes). Nella vicina Val di Mello il problema, da sempre molto sentito, non ha trovato ancora una soluzione condivisa, in sintonia con la poca armonia che si respira nel luogo (episodi di intolleranza sfociati nel recente imbrattamento dei massi, interventi edilizi, progetti stradali e di sfruttamento delle acque oggetto di annose discussioni). Lo stato dell’attrezzatura presente sulle vie di arrampicata è assai vario: vie della prima epoca, aperte cioè senza uso di spit (Kundalini, Luna Nascente), presentano in genere chiodi tradizionali alle soste e talora anche per protezione intermedia lungo tiri di corda;

vie di seconda generazione (anni ottanta) aperte con l’uso di spit, ora ormai datati, versano in condizioni di scarsa affidabilità (vie di Hassan ed Elena alla Stella Marina); infine vie con moderni spit inox già posizionati in apertura o in seguito ad una successiva sostituzione (Vedova Allegra, Piedi di Piombo). Quale potrebbe essere una soluzione equilibrata per la manutenzione delle vie? C’è chi propone un approccio molto pragmatico che prende avvio da una considerazione: la schiodatura delle vie aperte con chiodi tradizionali, concetto ormai concordemente affermato, non è auspicabile perché porta al progressivo deterioramento delle fessure

dovuto alla pratica ripetuta di piantare e togliere i chiodi. Ne deriva, di conseguenza, una riflessione su quello che viene chiamato il “valore” di una salita (alpinistico o meno): la presenza di materiale in parete inevitabilmente condiziona le difficoltà incontrate dai ripetitori; queste non potranno mai essere pari a quelle affrontate dai primi salitori. Se accettiamo dunque che i chiodi tradizionali, nel caso in cui non possano essere adeguatamente sostituiti da protezioni mobili (nuts o frends) debbano essere lasciati in loco, sorge spontanea una domanda: perché non sostituire questi con più affidabili e duraturi fittoni resinati o spit inox? È da sottolineare inoltre che gli interventi di manutenzione sino ad ora operati su quegli itinerari già in origine aperti con spit (Vedova Nera, Mani di Fata) sono avvenuti con rispetto e attenzione nei confronti dello “stile” adottato dai primi salitori, conservando le originarie distanze tra le protezioni, fattore che costituisce a tutti gli effetti una componente psicologica determinante della difficoltà. Quanto dureranno ancora le discordie sull’argomento? Probabilmente finchè non si diffonderà la consapevolezza che la sicurezza e l’incolumità devono comunque essere i valori di riferimento di un’etica, anche se l’attività in questione è, di per sé, futile e pericolosa come l’arrampicata. CAI MORBEGNO 51


CAMMINIAMO INSIEME Anche nella primavera scorsa si sono svolte le cosiddette gite famigliari realizzate in collaborazione tra il CAI e il GEM di Morbegno nell’ambito del programma “Camminiamo insieme”. Anima propulsiva dell’attività è stata il gruppo organizzatore, composto da Davide, Giacomina, Roberto e Silvana, con il saltuario apporto di Alessandro. Diverse sono state le uscite, sui sentieri dell’alto Lario, della Val Gerola, della Valchiavenna, dell’Engadina. Scopo dell’iniziativa è stato quello di avvicinare alla montagna il maggior numero possibile di persone, proponendo escursioni affrontabili anche da chi non è un camminatore esperto, con particolare attenzione ai giovanissimi e ai non abituali frequentatori di sentieri. Un’altra motivazione di quest’attività è quella di cercar di dare qualche stimolo che vada oltre il semplice invito al camminare, portando a frequentare luoghi di particolare interesse storico, ambientale o culturale. Per rispondere a quest’ultima esigenza, quest’anno si è deciso di percorrere i luoghi engadinesi abitati e ritratti da Giovanni Segantini, grandissimo pittore visionario, dedito al culto della montagna, interprete delle scoperte del divisionismo, nato ad Arco Trentino nel 1858 e morto di peritonite, a soli 41 anni in una baita dello Schafberg, dove stava dipingendo il suo ultimo capolavoro, il Trittico dell’Engadina, ora conservato al Museo di San Moritz.

52 CAI MORBEGNO

Segantini

pittore delle

montagne di Alessandro Caligari

Segantini scappava sempre. Scappa giovanissimo dal natio Trentino, dal vuoto, mai colmato, lasciato dalla madre, morta quando lui aveva solo sette anni, da una famiglia strangolata dalla povertà. Dodicenne scappa dal riformatorio, dove era stato internato per ozio e vagabondaggio ed in cui lo si voleva avviare al mestiere di calzolaio, in una Milano pragmatica poco propensa ad accettare l’inoperosità. Scappa dalla Val Sugana, dove il fratellastro Napoleone possedeva una bottega di fotografia e voleva fare di Segantini un fotografo. Tornato a Milano, intraprende gli studi e quindi il mestiere di pittore con un successo crescente; ma l’ambiente gli sta stretto e allora scappa anche dall’Accademia di Brera di cui rifiuta il titolo di Socio Onorario. Scappa da Milano per rifugiarsi in Brianza; incalzato dai debiti, nel 1886 intraprende un lungo viaggio di ricognizione a piedi, attraverso Como, la Valtellina (uscendone a Livigno), Poschiavo, Pontresina e Silvaplana, alla ricerca di un posto in montagna in cui trasferirsi; scappa quindi a Savognino, CAI MORBEGNO 53


CAMMINIAMO INSIEME Anche nella primavera scorsa si sono svolte le cosiddette gite famigliari realizzate in collaborazione tra il CAI e il GEM di Morbegno nell’ambito del programma “Camminiamo insieme”. Anima propulsiva dell’attività è stata il gruppo organizzatore, composto da Davide, Giacomina, Roberto e Silvana, con il saltuario apporto di Alessandro. Diverse sono state le uscite, sui sentieri dell’alto Lario, della Val Gerola, della Valchiavenna, dell’Engadina. Scopo dell’iniziativa è stato quello di avvicinare alla montagna il maggior numero possibile di persone, proponendo escursioni affrontabili anche da chi non è un camminatore esperto, con particolare attenzione ai giovanissimi e ai non abituali frequentatori di sentieri. Un’altra motivazione di quest’attività è quella di cercar di dare qualche stimolo che vada oltre il semplice invito al camminare, portando a frequentare luoghi di particolare interesse storico, ambientale o culturale. Per rispondere a quest’ultima esigenza, quest’anno si è deciso di percorrere i luoghi engadinesi abitati e ritratti da Giovanni Segantini, grandissimo pittore visionario, dedito al culto della montagna, interprete delle scoperte del divisionismo, nato ad Arco Trentino nel 1858 e morto di peritonite, a soli 41 anni in una baita dello Schafberg, dove stava dipingendo il suo ultimo capolavoro, il Trittico dell’Engadina, ora conservato al Museo di San Moritz.

52 CAI MORBEGNO

Segantini

pittore delle

montagne di Alessandro Caligari

Segantini scappava sempre. Scappa giovanissimo dal natio Trentino, dal vuoto, mai colmato, lasciato dalla madre, morta quando lui aveva solo sette anni, da una famiglia strangolata dalla povertà. Dodicenne scappa dal riformatorio, dove era stato internato per ozio e vagabondaggio ed in cui lo si voleva avviare al mestiere di calzolaio, in una Milano pragmatica poco propensa ad accettare l’inoperosità. Scappa dalla Val Sugana, dove il fratellastro Napoleone possedeva una bottega di fotografia e voleva fare di Segantini un fotografo. Tornato a Milano, intraprende gli studi e quindi il mestiere di pittore con un successo crescente; ma l’ambiente gli sta stretto e allora scappa anche dall’Accademia di Brera di cui rifiuta il titolo di Socio Onorario. Scappa da Milano per rifugiarsi in Brianza; incalzato dai debiti, nel 1886 intraprende un lungo viaggio di ricognizione a piedi, attraverso Como, la Valtellina (uscendone a Livigno), Poschiavo, Pontresina e Silvaplana, alla ricerca di un posto in montagna in cui trasferirsi; scappa quindi a Savognino, CAI MORBEGNO 53


dove prende un’abitazione in affitto per sé e per la famiglia, che si andava allora allargando. Fugge poi anche da qui, per sottrarsi alle “noiose” lamentele del proprietario che voleva legittimamente riscuotere l’affitto e si stabilisce al Maloja. A causa delle tasse non pagate, vengono apposti i sigilli anche allo chalet Kuomi e inizia l’ennesimo trasferimento, questa volta a Soglio, da cui, incurante di qualsiasi ragionamento economico, progetta di acquistare il castello Belvedere, sopra il Maloja. Nonostante i frequenti tracolli economici, sarebbe fuorviante pensare che la ragione di questo continuo nomadismo sia dovuta a questioni meramente pecuniarie. In effetti, in vita, Segantini raggiunge un grande successo di critica e commerciale, accompagnato da entrate economiche consistenti; piuttosto sono il totale disprezzo verso i soldi ed il crescente bisogno di lusso e agiatezze che inguaiano il pittore. Ma la vera ragione di tutti questi spostamenti è artistica. La scelta dei luoghi è legata ad un inseguimento di pulsioni profonde, ad un cercare di raggiungere emozioni e sensazioni nuove che scaturiscono da scenari sempre mutanti. E’ infatti con il cambiare della natura circostante che cambia il linguaggio pittorico di Segantini; è ben visibile come la pittura tonale, dovuta alle luce fatta di foschia e nebbia della Brianza, si trasformi in pittura divisionista grazie all’abbagliante e terso cielo engadinese. Il cambiamento è interessante. Abbarbicato 54 CAI MORBEGNO

al Maloja, Segantini si trova isolato da qualsiasi comunità artistica; aveva sì mantenuto un collegamento indiretto con il mondo dell’arte attraverso riviste specializzate, ma era comunque un contatto con immagini che gli arrivavano in bianco e nero, senza l’impatto fisico e materico delle opere. Come altri divisionisti europei, si affaccia allo studio delle teorie scientifiche della scomposizione del colore, secondo le quali due toni posati sulla tela con pennellate adiacenti, ma non sovrapposte sono percepiti unificati dalla retina umana. Il pittore ottiene perciò un dato colore con un processo ottico e non chimico, non deve cioè mischiare dei colori tra loro per ottenerne un terzo, ma questo risultato è sintetizzato direttamente dallo spettatore. Ciò permette al

In alto a sinistra: “Ritorno dal bosco”,1890, olio su tela cm 64,5 x 95, San Gallo, Fondazione Otto Fischbacher. In alto destra: “Mezzogiorno sulle Alpi”, 1891, olio su tela, cm 77,5 x 71,5, San Gallo, Fondazione Otto Fischbacher. A sinistra: “La vita” 1899, olio su tela, cm 322 x 190, St. Moritz, Museo Segantini.

CAI MORBEGNO 55


dove prende un’abitazione in affitto per sé e per la famiglia, che si andava allora allargando. Fugge poi anche da qui, per sottrarsi alle “noiose” lamentele del proprietario che voleva legittimamente riscuotere l’affitto e si stabilisce al Maloja. A causa delle tasse non pagate, vengono apposti i sigilli anche allo chalet Kuomi e inizia l’ennesimo trasferimento, questa volta a Soglio, da cui, incurante di qualsiasi ragionamento economico, progetta di acquistare il castello Belvedere, sopra il Maloja. Nonostante i frequenti tracolli economici, sarebbe fuorviante pensare che la ragione di questo continuo nomadismo sia dovuta a questioni meramente pecuniarie. In effetti, in vita, Segantini raggiunge un grande successo di critica e commerciale, accompagnato da entrate economiche consistenti; piuttosto sono il totale disprezzo verso i soldi ed il crescente bisogno di lusso e agiatezze che inguaiano il pittore. Ma la vera ragione di tutti questi spostamenti è artistica. La scelta dei luoghi è legata ad un inseguimento di pulsioni profonde, ad un cercare di raggiungere emozioni e sensazioni nuove che scaturiscono da scenari sempre mutanti. E’ infatti con il cambiare della natura circostante che cambia il linguaggio pittorico di Segantini; è ben visibile come la pittura tonale, dovuta alle luce fatta di foschia e nebbia della Brianza, si trasformi in pittura divisionista grazie all’abbagliante e terso cielo engadinese. Il cambiamento è interessante. Abbarbicato 54 CAI MORBEGNO

al Maloja, Segantini si trova isolato da qualsiasi comunità artistica; aveva sì mantenuto un collegamento indiretto con il mondo dell’arte attraverso riviste specializzate, ma era comunque un contatto con immagini che gli arrivavano in bianco e nero, senza l’impatto fisico e materico delle opere. Come altri divisionisti europei, si affaccia allo studio delle teorie scientifiche della scomposizione del colore, secondo le quali due toni posati sulla tela con pennellate adiacenti, ma non sovrapposte sono percepiti unificati dalla retina umana. Il pittore ottiene perciò un dato colore con un processo ottico e non chimico, non deve cioè mischiare dei colori tra loro per ottenerne un terzo, ma questo risultato è sintetizzato direttamente dallo spettatore. Ciò permette al

In alto a sinistra: “Ritorno dal bosco”,1890, olio su tela cm 64,5 x 95, San Gallo, Fondazione Otto Fischbacher. In alto destra: “Mezzogiorno sulle Alpi”, 1891, olio su tela, cm 77,5 x 71,5, San Gallo, Fondazione Otto Fischbacher. A sinistra: “La vita” 1899, olio su tela, cm 322 x 190, St. Moritz, Museo Segantini.

CAI MORBEGNO 55


per fissare sulla tela le proprie impressioni fuggenti, senza schizzi preparatori, per Segantini la faccenda era molto diversa. Anzitutto non era interessato ad afferrare l’attimo, ma studiava a priori gli effetti da raggiungere, ponendosi come un regista che costruisce la scena; assoldava perciò dei modelli, che dovevano rispondere a determinati canoni estetici, sceglieva con cura gli animali che dovevano entrare nel quadro; addirittura si occupava che le pecore fossero ben tosate, o feriva con un coltellino il ventre di una mucca, perché, leccandosi il sangue, questa assumesse la torsione voluta. Il dipingere doveva poi protrarsi nel tempo. Questo fatto, assieme alle grandi dimensioni delle tele utilizzate dal Segantini fa sì che il vero atelier del pittore siano i luoghi stessi che vengono ritratti; per questo motivo diverse volte Segantini fa realizzare una sorta di telaio fisso, costruito con tronchi infissi nel terreno e dotato di un sistema di chiusura ad ante, su cui appoggiare le grandi tele e proteggerle dalle intemperie

durante la loro (gestazione) realizzazione. E’ forse per questo motivo che i quadri di Segantini ci attraggono tanto. L’ammirarli è un riconoscere impressioni provate in modo identico a quelle dell’autore, un’immedesimarsi alla sensazione data dalla luce abbacinante del mezzogiorno estivo o dal cupo e gelido tramonto invernale. Paradigmatico in questo senso è il Trittico dell’Engadina, conservato al Museo Segantini di St. Moritz. Rappresenta il ciclo vitale dell’uomo attraverso un parallelismo con l’eterno e ripetitivo ritmo della natura. Per noi appassionati, ed un po’ invidiosi, frequentatori dell’Engadina i paesaggi sono familiari: “La vita” con il Pian Lutero guardando verso Soglio, “La natura” con il Piano del Morterash visto dall’alto e “La morte” con il panorama invernale dei monti sopra il Maloja. I suoi soggetti non sono scene di genere come spesso accadeva nella pittura di fine ottocento, ma sono elementi pulsanti, con corpo e fiato, che suscitano un’infinità di reazioni emotive. Segantini stesso scrive che “sotto il

pennello la gamma deve scorrere smagliante e deve far nascere gli oggetti, le persone e le linee, il colore deve essere intenso e puro perché la luce sia profonda e vera, il vero così detto si deve oltrepassare, davanti all’osservatore tutto si deve fondere in una commozione profonda di vita palpitante”. Di recente, in una nevosa giornata di inizio giugno, abbiamo percorso alcuni dei luoghi ritratti da Segantini, da Sils a Casaccia. Avevo con me una serie di riproduzioni delle opere engadinesi che ogni tanto guardavo, confrontando con quello che vedevo. Non ho fatto fotografie.

Nella pagina a fronte: ‘‘Ave Maria a trasbordo’’,1886, olio su tela, 120 x 93 cm, St Gallo, Otto Fischbacher Giovanni Segantini Stiftung. A Fianco: Segantini e la sua famiglia.

pittore di utilizzare dei colori “puri” e quindi estremamante brillanti, ottenendo una luminosità molto più intensa di quella raggiunta mischiando i colori sulla tavolozza. Segantini non adotterà questa tecnica in modo scientifico e sistematico: il suo è un approccio più empirico e la sua tecnica di divisione del tono viene applicata solo per 56 CAI MORBEGNO

le parti più importanti delle opere. Fatto sta che l’Engadina, con i suoi colori dovuti ad una luce rarefatta e cristallina, si sposa a meraviglia con il suo dipingere. Nonostante il periodo ne fosse invaso, l’impegno sociale fa parte solo marginalmente dell’arte di Segantini: gli operai ed i contadini non rappresentavano una classe, ma esistevano

solo in quanto individui, da tratteggiare solo se i loro moti emotivi trovavano una rispondenza con la natura da rappresentare, vero soggetto delle opere. In questa natura amava immergersi, anche materialmente, dipingendo all’aperto, “en plein air” come gli impressionisti. Ma mentre questi ultimi dipingevano all’aperto con tratto veloce

Sopra: casa Segantini al Maloja in una cartolina del 1908.

CAI MORBEGNO 57


per fissare sulla tela le proprie impressioni fuggenti, senza schizzi preparatori, per Segantini la faccenda era molto diversa. Anzitutto non era interessato ad afferrare l’attimo, ma studiava a priori gli effetti da raggiungere, ponendosi come un regista che costruisce la scena; assoldava perciò dei modelli, che dovevano rispondere a determinati canoni estetici, sceglieva con cura gli animali che dovevano entrare nel quadro; addirittura si occupava che le pecore fossero ben tosate, o feriva con un coltellino il ventre di una mucca, perché, leccandosi il sangue, questa assumesse la torsione voluta. Il dipingere doveva poi protrarsi nel tempo. Questo fatto, assieme alle grandi dimensioni delle tele utilizzate dal Segantini fa sì che il vero atelier del pittore siano i luoghi stessi che vengono ritratti; per questo motivo diverse volte Segantini fa realizzare una sorta di telaio fisso, costruito con tronchi infissi nel terreno e dotato di un sistema di chiusura ad ante, su cui appoggiare le grandi tele e proteggerle dalle intemperie

durante la loro (gestazione) realizzazione. E’ forse per questo motivo che i quadri di Segantini ci attraggono tanto. L’ammirarli è un riconoscere impressioni provate in modo identico a quelle dell’autore, un’immedesimarsi alla sensazione data dalla luce abbacinante del mezzogiorno estivo o dal cupo e gelido tramonto invernale. Paradigmatico in questo senso è il Trittico dell’Engadina, conservato al Museo Segantini di St. Moritz. Rappresenta il ciclo vitale dell’uomo attraverso un parallelismo con l’eterno e ripetitivo ritmo della natura. Per noi appassionati, ed un po’ invidiosi, frequentatori dell’Engadina i paesaggi sono familiari: “La vita” con il Pian Lutero guardando verso Soglio, “La natura” con il Piano del Morterash visto dall’alto e “La morte” con il panorama invernale dei monti sopra il Maloja. I suoi soggetti non sono scene di genere come spesso accadeva nella pittura di fine ottocento, ma sono elementi pulsanti, con corpo e fiato, che suscitano un’infinità di reazioni emotive. Segantini stesso scrive che “sotto il

pennello la gamma deve scorrere smagliante e deve far nascere gli oggetti, le persone e le linee, il colore deve essere intenso e puro perché la luce sia profonda e vera, il vero così detto si deve oltrepassare, davanti all’osservatore tutto si deve fondere in una commozione profonda di vita palpitante”. Di recente, in una nevosa giornata di inizio giugno, abbiamo percorso alcuni dei luoghi ritratti da Segantini, da Sils a Casaccia. Avevo con me una serie di riproduzioni delle opere engadinesi che ogni tanto guardavo, confrontando con quello che vedevo. Non ho fatto fotografie.

Nella pagina a fronte: ‘‘Ave Maria a trasbordo’’,1886, olio su tela, 120 x 93 cm, St Gallo, Otto Fischbacher Giovanni Segantini Stiftung. A Fianco: Segantini e la sua famiglia.

pittore di utilizzare dei colori “puri” e quindi estremamante brillanti, ottenendo una luminosità molto più intensa di quella raggiunta mischiando i colori sulla tavolozza. Segantini non adotterà questa tecnica in modo scientifico e sistematico: il suo è un approccio più empirico e la sua tecnica di divisione del tono viene applicata solo per 56 CAI MORBEGNO

le parti più importanti delle opere. Fatto sta che l’Engadina, con i suoi colori dovuti ad una luce rarefatta e cristallina, si sposa a meraviglia con il suo dipingere. Nonostante il periodo ne fosse invaso, l’impegno sociale fa parte solo marginalmente dell’arte di Segantini: gli operai ed i contadini non rappresentavano una classe, ma esistevano

solo in quanto individui, da tratteggiare solo se i loro moti emotivi trovavano una rispondenza con la natura da rappresentare, vero soggetto delle opere. In questa natura amava immergersi, anche materialmente, dipingendo all’aperto, “en plein air” come gli impressionisti. Ma mentre questi ultimi dipingevano all’aperto con tratto veloce

Sopra: casa Segantini al Maloja in una cartolina del 1908.

CAI MORBEGNO 57


Gita scialpinistica al

Campagnun

di Renzo Passerini

Lo squillo dello sveglia è ricordato come unica cosa negativa di quel 23 aprile 2006, in cui io, novello scialpinista, ma soprattutto alla mia prima uscita con il CAI di Morbegno, mi apprestavo a una lunga trasferta in terra di Engadina per salire e poi discendere la cima del Campagnun, in quella che doveva essere la chiusura di una lunga e meravigliosa stagione invernale 2005/2006, baciata da tanta tanta neve. E così, una volta giunti alla partenza dell’itinerario, studiato il percorso di salita e quello, diverso e più lungo, per la discesa, guidati dal nostro neopresidente siamo partiti in lunga, multicolore e sempre compatta fila indiana; immersi in un piacevole paesaggio dominato dal bianco della neve, dal cielo azzurro e da uno splendido e caldo sole. Persi nell’osservare le bellezze dei luoghi dal sapore dolomitico e nel piacere di una simpatica conversazione con i nuovi e vecchi amici, è stata perfino dimenticata la fatica della salita, arrivando facilmente in vetta... . Qui, dopo aver reso omaggio alla croce della vetta, consumato il veloce pasto, scattate le immancabili fotografie e scambiate le solite, ma sempre piacevoli battute scherzose, si è compiuto il rito della vestizione per la discesa: mediamente facile, ma da affrontare sempre con le dovute precauzioni, ricordate dai più esperti ai meno competenti di noi. Quindi via, disegnando curve più o meno perfette, in una neve veramente sciabile, aspettandoci e ricompattando il gruppo dopo ogni canalone e dopo ogni valle. E anche quando la sciata è terminata sul limite delle nevi primaverili, più alto rispetto all’arrivo dell’itinerario, la discesa è continuata con gli sci in spalla, anziché ai piedi, ma sempre con gli amici vicini ad incitare e a divertirsi tutti insieme, concludendo una straordinaria impresa dal sapore d’altri tempi. 58 CAI MORBEGNO

CAI MORBEGNO 59


Gita scialpinistica al

Campagnun

di Renzo Passerini

Lo squillo dello sveglia è ricordato come unica cosa negativa di quel 23 aprile 2006, in cui io, novello scialpinista, ma soprattutto alla mia prima uscita con il CAI di Morbegno, mi apprestavo a una lunga trasferta in terra di Engadina per salire e poi discendere la cima del Campagnun, in quella che doveva essere la chiusura di una lunga e meravigliosa stagione invernale 2005/2006, baciata da tanta tanta neve. E così, una volta giunti alla partenza dell’itinerario, studiato il percorso di salita e quello, diverso e più lungo, per la discesa, guidati dal nostro neopresidente siamo partiti in lunga, multicolore e sempre compatta fila indiana; immersi in un piacevole paesaggio dominato dal bianco della neve, dal cielo azzurro e da uno splendido e caldo sole. Persi nell’osservare le bellezze dei luoghi dal sapore dolomitico e nel piacere di una simpatica conversazione con i nuovi e vecchi amici, è stata perfino dimenticata la fatica della salita, arrivando facilmente in vetta... . Qui, dopo aver reso omaggio alla croce della vetta, consumato il veloce pasto, scattate le immancabili fotografie e scambiate le solite, ma sempre piacevoli battute scherzose, si è compiuto il rito della vestizione per la discesa: mediamente facile, ma da affrontare sempre con le dovute precauzioni, ricordate dai più esperti ai meno competenti di noi. Quindi via, disegnando curve più o meno perfette, in una neve veramente sciabile, aspettandoci e ricompattando il gruppo dopo ogni canalone e dopo ogni valle. E anche quando la sciata è terminata sul limite delle nevi primaverili, più alto rispetto all’arrivo dell’itinerario, la discesa è continuata con gli sci in spalla, anziché ai piedi, ma sempre con gli amici vicini ad incitare e a divertirsi tutti insieme, concludendo una straordinaria impresa dal sapore d’altri tempi. 58 CAI MORBEGNO

CAI MORBEGNO 59


il

Lari ce di Alessandro Rapella

I larici che personalmente ammiro sono quelli che nascono e vivono sulle scaffe delle rocce che portano il tempo: sono lì nei secoli a sfidare i fulmini e le bufere, sono contorti e con profonde cicatrici prodotte dalla caduta delle pietre, i rami spezzati, ma sempre a ogni primavera, quando il merlo dal collare ritorna a nidificare tra i mughi, si rivestono di luce verde e i loro fiori risvegliano gli amori degli urogalli. E all’autunno, quando la montagna ritorna silenziosa, illuminano d’oro le pareti. Il brano, di Mario Rigoni Stern, tratto dal libro “Arboreto Salvatico”, descrive al meglio le caratteristiche del larice: una pianta tenace, resistente ed elegante, simbolo vivente della montagna alpina. Il larice, làres in dialetto, è una conifera pinacea, parente dei pini e degli abeti, ma molto diversa nell’aspetto: ha infatti gli aghi raggruppati a ciuffetti (come i cedri) che perde in autunno, caratteristica unica e singolare tra tutte le conifere spontanee. Per questo motivo il larice riesce a distinguersi in tutti i periodi dell’anno: 60 CAI MORBEGNO

spoglio in inverno, brunastro in primavera per il colore dei giovani getti, verde chiaro in estate e giallo intenso in autunno. In condizioni ottimali, di suolo e altitudine, riesce a crescere con vigore e velocemente raggiungendo anche i 40 metri di altezza e diametri di oltre 150 centimetri. E’ una delle specie forestali più longeve in assoluto, se non tagliato dall’uomo il larice diventa facilmente specie plurisecolare, con oltre trequattrocento anni di vita: famosi sono i tre “giganti” CAI MORBEGNO 61


il

Lari ce di Alessandro Rapella

I larici che personalmente ammiro sono quelli che nascono e vivono sulle scaffe delle rocce che portano il tempo: sono lì nei secoli a sfidare i fulmini e le bufere, sono contorti e con profonde cicatrici prodotte dalla caduta delle pietre, i rami spezzati, ma sempre a ogni primavera, quando il merlo dal collare ritorna a nidificare tra i mughi, si rivestono di luce verde e i loro fiori risvegliano gli amori degli urogalli. E all’autunno, quando la montagna ritorna silenziosa, illuminano d’oro le pareti. Il brano, di Mario Rigoni Stern, tratto dal libro “Arboreto Salvatico”, descrive al meglio le caratteristiche del larice: una pianta tenace, resistente ed elegante, simbolo vivente della montagna alpina. Il larice, làres in dialetto, è una conifera pinacea, parente dei pini e degli abeti, ma molto diversa nell’aspetto: ha infatti gli aghi raggruppati a ciuffetti (come i cedri) che perde in autunno, caratteristica unica e singolare tra tutte le conifere spontanee. Per questo motivo il larice riesce a distinguersi in tutti i periodi dell’anno: 60 CAI MORBEGNO

spoglio in inverno, brunastro in primavera per il colore dei giovani getti, verde chiaro in estate e giallo intenso in autunno. In condizioni ottimali, di suolo e altitudine, riesce a crescere con vigore e velocemente raggiungendo anche i 40 metri di altezza e diametri di oltre 150 centimetri. E’ una delle specie forestali più longeve in assoluto, se non tagliato dall’uomo il larice diventa facilmente specie plurisecolare, con oltre trequattrocento anni di vita: famosi sono i tre “giganti” CAI MORBEGNO 61


A sinistra: lariceto in autunno. A destra: tipico impiego del larice in una baita a Bominallo. Si noti anche l’impiego di scandole per il tetto.

Uno dei due esemplari di larici monumentali posti a pochi metri dal sentiero che sale al Rifugio Allievi-Bonacossa.

della val d’Ultimo in Alto Adige, con un’età stimata di oltre duemila anni. Vecchi e grandiosi esemplari di larice, testimoni di secoli d’attività nell’alpeggio, li troviamo facilmente anche in bassa Valtellina, basta ricordare i larici monumentali lungo il sentiero per il rifugio Allievi in Val di Mello, oppure all’alpe Lago sotto il passo S. Marco o, ancora, i larici all’alpe Combana in Val Gerola. Non avendo pericolosi parassiti tra gli insetti e i funghi in grado di uccidere la pianta, le principali cause di mortalità restano legate a fenomeni fisici quali frane, valanghe o fulmini, questi ultimi molto frequenti nel caso degli esemplari isolati. Il Larice è senza dubbio una delle piante più diffuse e caratteristiche del paesaggio della provincia di Sondrio, arrivando a vegetare spontaneamente dal piano montano (1300 metri) ad oltre il limite del bosco, fino a 2600 metri di quota, sfidando condizioni ambientali difficili a cui altre piante non sarebbero in grado di resistere. Per far fronte alle avversità dell’alta montagna, il larice ha infatti adottato numerosi accorgimenti come la corteccia spessa che ripara dal gelo, la facilità di modellarsi al vento

62 CAI MORBEGNO

e alla neve (tipiche sono le forme sciabolate del fusto o le chiome “a bandiera”), la presenza di numerose gemme dormienti lungo i rami pronte a far sviluppare nuovi getti in caso di rotture da frane o valanghe e la perdita annuale degli aghi, che rappresenta una risposta fisiologica alle condizioni estreme. E’ una specie forestale amante delle luce, rustica e pioniera, in grado cioè di colonizzare per prima spazi aperti, come i pascoli abbandonati o aree di frana, grazie anche al seme leggero, facilmente trasportato dal vento e alla relativa facilità di rinnovarsi anche su suolo “smosso”. Si adatta benissimo a terreni aridi e poveri di sostanza organica

utilizzando un apparato radicale ben sviluppato e con fittone centrale in grado sia di affrancarsi ai terreni più impervi, che di “esplorare” a fondo il terreno alla ricerca di acqua e sostanze minerali. Forma boschi densi con abete rosso a cui si affianca l’abete bianco nelle vallate più fresche (Orobie), mentre ad altitudini più elevate si ritrova in boschi puri (lariceti) o in associazione con i due pini d’alta montagna: il pino cembro e il pino mugo, con il sottobosco tipico formato dal rododendro e dal ginepro comune. La grande diffusione di lariceti non dipende solo da dinamiche naturali, ma è soprattutto opera dell’uomo che ha sempre favorito in passato la

presenza esclusiva del larice a scapito degli abeti e dei pini. Il motivo è da legare al fatto che il lariceto, oltre ad offrire dell’ottimo legname, consentiva con la sua chioma leggera e luminosa la crescita dell’erba e la possibilità di fare pascolo al suo interno. Inoltre alcuni esemplari venivano risparmiati alla scure in quanto fornivano validi punti di riferimento sull’alpeggio e riparo al bestiame nella giornate calde d’estate. Ora, con l’abbandono generalizzato della montagna e con condizioni climatiche sempre più miti, il larice tende a regredire a favore delle conifere sempreverdi e a seguire i lenti processi forestali

che lo portano a formare boschi misti ed evoluti in cui non è più protagonista. Ma il larice non è solo pianta, ambiente e paesaggio. In un’era in cui si parla sempre più di sostenibilità delle attività dell’uomo, l’uso razionale del legno, risorsa rinnovabile, esalta il larice anche sotto l’aspetto economico. E’ noto infatti per il valore del suo legno, specialmente quello proveniente da piante di alta montagna. Conosciuto fin dall’antichità per la sua durata, la sua robustezza e per il tipico profumo di resina di cui sono ricche le fibre legnose. Per la facile lavorazione, il suo bel colore rosso intenso, che tende a brunire se utilizzato all’aperto, è apprezzato

e ricercato per i lavori di falegnameria tradizionale montana e per l’edilizia, specie per gli esterni di cui sono famose le baite rosso-bruno costruite con tronchi di larice. Unico difetto tecnologico è rappresentato dall’essere considerato un legno “nervoso”, capace cioè di muoversi in opera a distanza di anni, anche se alcune persone dimostrano di apprezzare questa peculiarità ritrovando negli scricchiolii delle perline della propria taverna la voce ancora presente del nobile albero…

CAI MORBEGNO 63


A sinistra: lariceto in autunno. A destra: tipico impiego del larice in una baita a Bominallo. Si noti anche l’impiego di scandole per il tetto.

Uno dei due esemplari di larici monumentali posti a pochi metri dal sentiero che sale al Rifugio Allievi-Bonacossa.

della val d’Ultimo in Alto Adige, con un’età stimata di oltre duemila anni. Vecchi e grandiosi esemplari di larice, testimoni di secoli d’attività nell’alpeggio, li troviamo facilmente anche in bassa Valtellina, basta ricordare i larici monumentali lungo il sentiero per il rifugio Allievi in Val di Mello, oppure all’alpe Lago sotto il passo S. Marco o, ancora, i larici all’alpe Combana in Val Gerola. Non avendo pericolosi parassiti tra gli insetti e i funghi in grado di uccidere la pianta, le principali cause di mortalità restano legate a fenomeni fisici quali frane, valanghe o fulmini, questi ultimi molto frequenti nel caso degli esemplari isolati. Il Larice è senza dubbio una delle piante più diffuse e caratteristiche del paesaggio della provincia di Sondrio, arrivando a vegetare spontaneamente dal piano montano (1300 metri) ad oltre il limite del bosco, fino a 2600 metri di quota, sfidando condizioni ambientali difficili a cui altre piante non sarebbero in grado di resistere. Per far fronte alle avversità dell’alta montagna, il larice ha infatti adottato numerosi accorgimenti come la corteccia spessa che ripara dal gelo, la facilità di modellarsi al vento

62 CAI MORBEGNO

e alla neve (tipiche sono le forme sciabolate del fusto o le chiome “a bandiera”), la presenza di numerose gemme dormienti lungo i rami pronte a far sviluppare nuovi getti in caso di rotture da frane o valanghe e la perdita annuale degli aghi, che rappresenta una risposta fisiologica alle condizioni estreme. E’ una specie forestale amante delle luce, rustica e pioniera, in grado cioè di colonizzare per prima spazi aperti, come i pascoli abbandonati o aree di frana, grazie anche al seme leggero, facilmente trasportato dal vento e alla relativa facilità di rinnovarsi anche su suolo “smosso”. Si adatta benissimo a terreni aridi e poveri di sostanza organica

utilizzando un apparato radicale ben sviluppato e con fittone centrale in grado sia di affrancarsi ai terreni più impervi, che di “esplorare” a fondo il terreno alla ricerca di acqua e sostanze minerali. Forma boschi densi con abete rosso a cui si affianca l’abete bianco nelle vallate più fresche (Orobie), mentre ad altitudini più elevate si ritrova in boschi puri (lariceti) o in associazione con i due pini d’alta montagna: il pino cembro e il pino mugo, con il sottobosco tipico formato dal rododendro e dal ginepro comune. La grande diffusione di lariceti non dipende solo da dinamiche naturali, ma è soprattutto opera dell’uomo che ha sempre favorito in passato la

presenza esclusiva del larice a scapito degli abeti e dei pini. Il motivo è da legare al fatto che il lariceto, oltre ad offrire dell’ottimo legname, consentiva con la sua chioma leggera e luminosa la crescita dell’erba e la possibilità di fare pascolo al suo interno. Inoltre alcuni esemplari venivano risparmiati alla scure in quanto fornivano validi punti di riferimento sull’alpeggio e riparo al bestiame nella giornate calde d’estate. Ora, con l’abbandono generalizzato della montagna e con condizioni climatiche sempre più miti, il larice tende a regredire a favore delle conifere sempreverdi e a seguire i lenti processi forestali

che lo portano a formare boschi misti ed evoluti in cui non è più protagonista. Ma il larice non è solo pianta, ambiente e paesaggio. In un’era in cui si parla sempre più di sostenibilità delle attività dell’uomo, l’uso razionale del legno, risorsa rinnovabile, esalta il larice anche sotto l’aspetto economico. E’ noto infatti per il valore del suo legno, specialmente quello proveniente da piante di alta montagna. Conosciuto fin dall’antichità per la sua durata, la sua robustezza e per il tipico profumo di resina di cui sono ricche le fibre legnose. Per la facile lavorazione, il suo bel colore rosso intenso, che tende a brunire se utilizzato all’aperto, è apprezzato

e ricercato per i lavori di falegnameria tradizionale montana e per l’edilizia, specie per gli esterni di cui sono famose le baite rosso-bruno costruite con tronchi di larice. Unico difetto tecnologico è rappresentato dall’essere considerato un legno “nervoso”, capace cioè di muoversi in opera a distanza di anni, anche se alcune persone dimostrano di apprezzare questa peculiarità ritrovando negli scricchiolii delle perline della propria taverna la voce ancora presente del nobile albero…

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La Siderite della Valle dei Lupi

di Alessio Gusmeroli

Breve storia delle montagne della Bassa Valtellina

La Valtellina è una profonda cicatrice geologica; il suo andamento rettilineo è condizionato dalla presenza di una grande faglia denominata Linea Insubrica. E’ un confine strutturale che sta al limite tra due catene ben distinte: quella delle Alpi in senso vero e proprio e quella denominata Sudalpina. La differenza tra le Retiche e le Orobie va ricercata nelle rocce. Nelle Alpi Retiche troviamo rocce intensamente coinvolte nell’orogenesi come i marmi del Pizzo Scalino, le serpentiniti del Monte Disgrazia, i graniti metamorfici del Pizzo Bernina. Questi terreni sono stati sottoposti a temperature e 64 CAI MORBEGNO

pressioni molto alte, per poi essere impilati gli uni sopra gli altri durante quel processo lungo e lento che ha visto prima la progressiva riduzione di un oceano (apertosi 200 milioni di anni fa) sino alla completa collisione e sutura fra Europa ed Africa. Le tracce di quest’oceano non sono poi così lontane: il Monte Disgrazia è costituito da serpentiniti, rocce verdi che presentano però un bel colore rossastro, dovuto all’alterazione dei minerali di ferro. Nei dintorni si osservano dei livelli di anfiboliti: veri e propri basalti marini metamorfosati che costituivano l’ossatura della crosta oceanica dell’antico mare. Sul Pizzo Scalino ci sono dei marmi,

più o meno dolomitici, prima dell’orogenesi alpina erano dei calcari marini, deposti in quel mare Giurassico chiamato Oceano Ligure Piemontese. Dopo che le forze tettoniche avevano già disegnato la struttura della catena e, quindi, le falde di corpi rocciosi, impilate, piegate e corrugate, si trovavano circa nella posizione in cui le troviamo ora, la Catena alpina, soprattutto nel settore centrale, è stata interessata da un riscaldamento che ha permesso l’intrusione di grandi masse di magma. Questo magma è stato datato a “soli” 30 milioni di anni fa ed è quello che va a costituire il Gruppo Masino-Bregaglia. Tutti noi abbiamo ben presente l’aspetto delle montagne

Nella pagina a fronte: in cammino verso i laghi di Porcile. Qui a fianco: il secondo lago di Porcile e la Valle dei Lupi.

CAI MORBEGNO 65


La Siderite della Valle dei Lupi

di Alessio Gusmeroli

Breve storia delle montagne della Bassa Valtellina

La Valtellina è una profonda cicatrice geologica; il suo andamento rettilineo è condizionato dalla presenza di una grande faglia denominata Linea Insubrica. E’ un confine strutturale che sta al limite tra due catene ben distinte: quella delle Alpi in senso vero e proprio e quella denominata Sudalpina. La differenza tra le Retiche e le Orobie va ricercata nelle rocce. Nelle Alpi Retiche troviamo rocce intensamente coinvolte nell’orogenesi come i marmi del Pizzo Scalino, le serpentiniti del Monte Disgrazia, i graniti metamorfici del Pizzo Bernina. Questi terreni sono stati sottoposti a temperature e 64 CAI MORBEGNO

pressioni molto alte, per poi essere impilati gli uni sopra gli altri durante quel processo lungo e lento che ha visto prima la progressiva riduzione di un oceano (apertosi 200 milioni di anni fa) sino alla completa collisione e sutura fra Europa ed Africa. Le tracce di quest’oceano non sono poi così lontane: il Monte Disgrazia è costituito da serpentiniti, rocce verdi che presentano però un bel colore rossastro, dovuto all’alterazione dei minerali di ferro. Nei dintorni si osservano dei livelli di anfiboliti: veri e propri basalti marini metamorfosati che costituivano l’ossatura della crosta oceanica dell’antico mare. Sul Pizzo Scalino ci sono dei marmi,

più o meno dolomitici, prima dell’orogenesi alpina erano dei calcari marini, deposti in quel mare Giurassico chiamato Oceano Ligure Piemontese. Dopo che le forze tettoniche avevano già disegnato la struttura della catena e, quindi, le falde di corpi rocciosi, impilate, piegate e corrugate, si trovavano circa nella posizione in cui le troviamo ora, la Catena alpina, soprattutto nel settore centrale, è stata interessata da un riscaldamento che ha permesso l’intrusione di grandi masse di magma. Questo magma è stato datato a “soli” 30 milioni di anni fa ed è quello che va a costituire il Gruppo Masino-Bregaglia. Tutti noi abbiamo ben presente l’aspetto delle montagne

Nella pagina a fronte: in cammino verso i laghi di Porcile. Qui a fianco: il secondo lago di Porcile e la Valle dei Lupi.

CAI MORBEGNO 65


Nelle pagina a fianco: la Valle dei Lupi ed i Laghi di Porcile. Sotto: forno per la fusione del minerale ferroso in Val Venina.

della Val Masino, torrioni imponenti e guglie scolpite nel bel granito. Granito, ma solo dal punto di vista generale, in realtà il plutone è costituito fondamentalmente da due tipi di roccia: quella più esterna, più scura e a grana più fine, è chiamata serizzo o quarzodiorite e va a costituire monti come il Desenigo, la Cima del Calvo e tutta la costiera dei Cech, fino al monte Bassetta sopra Dubino. Quella più interna, nel cuore del gruppo della Val Masino, quella su cui molti di noi amano arrampicare, è il ghiandone o granodiorite, più chiara del serizzo e con grossi cristalli di feldspato potassico. In questa pietra sono scolpiti la bella Val di Mello, il Pizzo Badile e il Pizzo Cengalo. E le Orobie? Le Orobie sono tradizionalmente viste come 66 CAI MORBEGNO

un lembo del Continente Africano che non ha subito il metamorfismo dovuto all’orogenesi alpina. Mentre nelle Alpi Retiche abbiamo marmi, micascisti, quarziti, nelle Alpi Orobie ci sono calcari, argilliti e conglomerati. La differenza è sostanziale e molto importante perché i monti della Val Gerola e del Pizzo di Coca sono costituiti da depositi sedimentari databili con precisione per la loro posizione stratigrafica oppure per il contenuto fossilifero. Conglomerati rossastri chiamati Verrucano Lombardo e argilliti vanno a rappresentare la base delle rocce sedimentarie costituenti le montagne bergamasche e lecchesi. Inoltre nelle rocce metamorfiche delle Alpi Retiche troviamo minerali che si sono

riequilibrati ai cambiamenti di temperatura e pressione che contraddistinguono il processo orogenetico. Nelle Alpi Orobie le metamorfiti sono riferite ad una fase molto più antica, l’orogenesi paleozoica, e sono sovente caratterizzate da pieghe sviluppatesi in profondità, a temperature elevate; qui infatti le rocce si deformano in maniera duttile e tendono pertanto a fluire.

La Valle dei Lupi in Val Tartano

La storia, la storia di una pietra, di una montagna va a legarsi con quella molto più breve dell’esistenza umana. Pietre brune, venate da strisce biancastre in rilievo: questo è l’aspetto della siderite della Valle dei Lupi in Val Lunga di Tartano. La valle dei Lupi è una modesta incisione, lunga poco

meno di un chilometro, ad est dei laghi di Porcile. E’ dominata dal monte Cadelle (2483) con il suo angelo a tre volti, uno sguardo alla Val Tartano, uno alla Val Madre ed uno a Foppolo; tre valli legate allo sfruttamento del minerale, tre valli che hanno visto il sudore dei minatori, tre valli che sono state percorse innumerevoli volte da muli carichi di vena (così era chiamato il minerale “buono” appena estratto). Mettendo il naso in qualche archivio si possono trovare notizie sull’estrazione e la lavorazione del ferro nella Valtellina medioevale. Molti sono gli storici che si sono interessati a questo argomento, il Besta, il Curioni, l’Orsini, il Leoni e non per ultimo l’illustre storiografo della repubblica Cisalpina Melchiorre Gioja.

Riguardo le miniere di ferro della Val Tartano è fondamentale lo scritto di Camillo Gusmeroli del 1977. Dalle loro parole, frutto di faticose ricerche d’archivio, trapelano aspetti inimmaginabili della dura vita dei minatori del ferro delle Alpi Orobie. Nelle Orobie valtellinesi l’estrazione della siderite ha radici nel Medioevo. Le prime segnalazioni risalgono al XIV secolo per la Val Tartano, la Val Madre, la Val Gerola. E’ certo che lo sfruttamento dei minerali di ferro sia iniziato molto prima nell’Alta Valle (forno in Semogo attorno al 1200) e ancor prima nelle valli bergamasche (epoca romana, Schilpario). L’estrazione, prima della scoperta della polvere nera, era fatta con punte, cunei ed altri

mezzi, fra cui la calce immessa in fori praticati nel minerale e tamponati: gonfiandosi per l’umidità fendeva la roccia. Normalmente il minerale subiva, nei pressi della zona di scavo, una prima torrefazione con carbone di legna, per far sì che la siderite si trasformasse in ossido, più leggero (circa il 30%), più friabile e dal quale era più facile separare le parti inerti. Il materiale veniva trasportato a dorso di mulo o con slitte, veniva portato ai forni di riduzione posti a valle, nelle zone ricche di boschi, dove era più semplice l’approvvigionamento del carbone. I forni erano i cosiddetti “bassi fuochi” nei quali si trasformava il minerale torrefatto (l’ossido di ferro) in una “spugna di ferro”: questa veniva battuta a caldo al maglio per eliminare inclusioni di scorie e formando così un massello di ferro pastoso, praticamente esente da carbonio (quindi lavorabile bene a caldo: ferro dolce), ma con una certa percentuale di manganese, che conferiva al metallo maggior resistenza, maggior durezza ed anche la proprietà di mantenere meglio il filo del taglio. Nei dintorni delle miniere della valle dei Lupi non vi sono tracce di forni. Può darsi che nel corso dei secoli siano andati distrutti, anche se scritti risalenti al 1347 documentano la presenza di un forno a Talamona; ciò è significativo poiché vuol dire che probabilmente la siderite della Valle dei Lupi era la prima fonte di alimentazione per questo forno. Inoltre il Besta e il Gusmeroli parlano anche di un forno sopra al monte Gavedo intorno CAI MORBEGNO 67


Nelle pagina a fianco: la Valle dei Lupi ed i Laghi di Porcile. Sotto: forno per la fusione del minerale ferroso in Val Venina.

della Val Masino, torrioni imponenti e guglie scolpite nel bel granito. Granito, ma solo dal punto di vista generale, in realtà il plutone è costituito fondamentalmente da due tipi di roccia: quella più esterna, più scura e a grana più fine, è chiamata serizzo o quarzodiorite e va a costituire monti come il Desenigo, la Cima del Calvo e tutta la costiera dei Cech, fino al monte Bassetta sopra Dubino. Quella più interna, nel cuore del gruppo della Val Masino, quella su cui molti di noi amano arrampicare, è il ghiandone o granodiorite, più chiara del serizzo e con grossi cristalli di feldspato potassico. In questa pietra sono scolpiti la bella Val di Mello, il Pizzo Badile e il Pizzo Cengalo. E le Orobie? Le Orobie sono tradizionalmente viste come 66 CAI MORBEGNO

un lembo del Continente Africano che non ha subito il metamorfismo dovuto all’orogenesi alpina. Mentre nelle Alpi Retiche abbiamo marmi, micascisti, quarziti, nelle Alpi Orobie ci sono calcari, argilliti e conglomerati. La differenza è sostanziale e molto importante perché i monti della Val Gerola e del Pizzo di Coca sono costituiti da depositi sedimentari databili con precisione per la loro posizione stratigrafica oppure per il contenuto fossilifero. Conglomerati rossastri chiamati Verrucano Lombardo e argilliti vanno a rappresentare la base delle rocce sedimentarie costituenti le montagne bergamasche e lecchesi. Inoltre nelle rocce metamorfiche delle Alpi Retiche troviamo minerali che si sono

riequilibrati ai cambiamenti di temperatura e pressione che contraddistinguono il processo orogenetico. Nelle Alpi Orobie le metamorfiti sono riferite ad una fase molto più antica, l’orogenesi paleozoica, e sono sovente caratterizzate da pieghe sviluppatesi in profondità, a temperature elevate; qui infatti le rocce si deformano in maniera duttile e tendono pertanto a fluire.

La Valle dei Lupi in Val Tartano

La storia, la storia di una pietra, di una montagna va a legarsi con quella molto più breve dell’esistenza umana. Pietre brune, venate da strisce biancastre in rilievo: questo è l’aspetto della siderite della Valle dei Lupi in Val Lunga di Tartano. La valle dei Lupi è una modesta incisione, lunga poco

meno di un chilometro, ad est dei laghi di Porcile. E’ dominata dal monte Cadelle (2483) con il suo angelo a tre volti, uno sguardo alla Val Tartano, uno alla Val Madre ed uno a Foppolo; tre valli legate allo sfruttamento del minerale, tre valli che hanno visto il sudore dei minatori, tre valli che sono state percorse innumerevoli volte da muli carichi di vena (così era chiamato il minerale “buono” appena estratto). Mettendo il naso in qualche archivio si possono trovare notizie sull’estrazione e la lavorazione del ferro nella Valtellina medioevale. Molti sono gli storici che si sono interessati a questo argomento, il Besta, il Curioni, l’Orsini, il Leoni e non per ultimo l’illustre storiografo della repubblica Cisalpina Melchiorre Gioja.

Riguardo le miniere di ferro della Val Tartano è fondamentale lo scritto di Camillo Gusmeroli del 1977. Dalle loro parole, frutto di faticose ricerche d’archivio, trapelano aspetti inimmaginabili della dura vita dei minatori del ferro delle Alpi Orobie. Nelle Orobie valtellinesi l’estrazione della siderite ha radici nel Medioevo. Le prime segnalazioni risalgono al XIV secolo per la Val Tartano, la Val Madre, la Val Gerola. E’ certo che lo sfruttamento dei minerali di ferro sia iniziato molto prima nell’Alta Valle (forno in Semogo attorno al 1200) e ancor prima nelle valli bergamasche (epoca romana, Schilpario). L’estrazione, prima della scoperta della polvere nera, era fatta con punte, cunei ed altri

mezzi, fra cui la calce immessa in fori praticati nel minerale e tamponati: gonfiandosi per l’umidità fendeva la roccia. Normalmente il minerale subiva, nei pressi della zona di scavo, una prima torrefazione con carbone di legna, per far sì che la siderite si trasformasse in ossido, più leggero (circa il 30%), più friabile e dal quale era più facile separare le parti inerti. Il materiale veniva trasportato a dorso di mulo o con slitte, veniva portato ai forni di riduzione posti a valle, nelle zone ricche di boschi, dove era più semplice l’approvvigionamento del carbone. I forni erano i cosiddetti “bassi fuochi” nei quali si trasformava il minerale torrefatto (l’ossido di ferro) in una “spugna di ferro”: questa veniva battuta a caldo al maglio per eliminare inclusioni di scorie e formando così un massello di ferro pastoso, praticamente esente da carbonio (quindi lavorabile bene a caldo: ferro dolce), ma con una certa percentuale di manganese, che conferiva al metallo maggior resistenza, maggior durezza ed anche la proprietà di mantenere meglio il filo del taglio. Nei dintorni delle miniere della valle dei Lupi non vi sono tracce di forni. Può darsi che nel corso dei secoli siano andati distrutti, anche se scritti risalenti al 1347 documentano la presenza di un forno a Talamona; ciò è significativo poiché vuol dire che probabilmente la siderite della Valle dei Lupi era la prima fonte di alimentazione per questo forno. Inoltre il Besta e il Gusmeroli parlano anche di un forno sopra al monte Gavedo intorno CAI MORBEGNO 67


Nella foto sotto: sentiero attrezzato davanti ad un’antica miniera nei pressi del Lago d’Inferno. Nella pagina a fianco: nello stesso luogo i resti di un forno per la fusione.

Nelle foto sotto: Rocce metamorfiche filladiche deformate nei pressi del Rifugio Donati. La Granodiorite della Val Masino, roccia magmatica in cui si osservano i cristalli bianchi di feldspato potassico L’aspetto della Siderite della Valle dei Lupi, frammenti di quarzo bianco immersi in una matrice fine di Siderite Il Verrucano Lombardo affiorante in Val Madre, conglomerato a ciottoli di quarzo bianco e porfido rossastro.

al 1343. Si può pensare che il metallo della valle dei Lupi venisse portato a Talamona a dorso di mulo e nel vicino alpeggio di Gavedo molto più ricco di legname dell’Alpe Porcile. Riguardo al forno di Talamona si trova notizia di un patto interessante conclusosi nel settembre del 1351: trecento some di vena buona in cambio di carbone sufficiente per colare sedici ore di quella vena. Al cavatore tre quarti della resa, al carbonaio un quarto. Nel 1431 vi era un forno in Val di Lemma. Nel 1348 si costituiva a Talamona una società tra “Talamona, Fondra e Vallevi pro coquendo venam et faciendo ferrum crudum”. Era interesse dei minatori utilizzare il carbone, ecco quindi emergere una nuova figura, quella del carbonaio. Costui si occupava di procurare il carbone necessario per far 68 CAI MORBEGNO

funzionare i forni primari e quelli per la fucina dove il mastro fabbro esercitava la sua arte preparando falci, ranzetti, chiodi per zoccoli, chiodi per carpenteria, pezzi per carri. Il fabbro esercitava la sua attività nella fucina, che era solitamente posta nel fondovalle (il nome del paesino di Fusine è evidentemente derivato dalla presenza di un aggregato di fucine). Il ferro divenne una risorsa fondamentale nell’evoluzione storica dei popoli delle Orobie Valtellinesi. Numerose emigrazioni vennero documentate attorno al 1400 dalle valli bergamasche; i bergamaschi erano infatti gli specialisti, già maestri nell’arte del ferro dai tempi dei romani. La siderite orobica era conosciuta e apprezzata anche nel lecchese: veniva chiamata ferro delle prealpi. Con essa attorno al 1700 si fecero palle da cannone

e bombe di qualsiasi tipo, oltre che strumenti per la chirurgia, supporti per i carri e normali attrezzi per la vita in montagna come roncole, falci da prato, ranzetti, scuri, chiodi e martelli.

La siderite

La siderite è un carbonato di Ferro, FeCO3 , la mineralogia parla chiaro: sistema trigonale, frattura romboedrica, isomorfa con la calcite. La siderite, però, è molto di più di una formula che un barbuto docente di mineralogia tenta di mettere in testa agli allievi. La siderite è una risorsa, un minerale utile, un sasso che non può essere dimenticato per il ruolo che ha avuto dal Medioevo sino a pochi decenni fa nello sviluppo delle nostre vallate. La siderite della valle dei Lupi è di color bruno rossastro, questo aspetto è dovuto ad una sottile patina di alterazione di goethite marrone (FeOOH).

In frattura fresca è giallastra, spatica e microcristallina con pochi cristalli superiori al centimetro. Nell’insieme è associata a grandi quantità di quarzo (SiO2), minerale duro e bianco latteo che va a disseminare gli ammassi sideritici conferendo alla roccia una struttura brecciata. L’aspetto della roccia e le analisi petrografiche e strutturali effettuate al Dipartimento di Scienze e Tecnologie Geologiche dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca concordano nell’ipotesi di una mobilizzazione di fluidi, portatori di quarzo e di siderite, nelle fratture degli gneiss chiari (roccia metamorfica quarzoso feldspatica che costituisce il Monte Cadelle e il Monte Valegino). La siderite della valle dei Lupi è solo un tassello di quell’esteso mosaico chiamato

Distretto Ferrifero delle Alpi Meridionali comprendente le Orobie intere dal Bresciano, al Bergamasco, alla Valtellina. Questo dominio comprende rocce di diversa natura e nella sua porzione più antica, quella affiorante nelle Orobie con pietre che vanno dal Paleozoico medio sino al Mesozoico inferiore, è arricchito in minerali di ferro.

L’articolo è tratto dalla tesi di laurea triennale in Scienze Geologiche di Alessio Gusmeroli, discussa a Milano il 26-102006: “Il rilevamento geologico minerario delle antiche miniere di ferro della Valle dei Lupi”. (relatore Prof. F.Rodeghiero)

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Nella foto sotto: sentiero attrezzato davanti ad un’antica miniera nei pressi del Lago d’Inferno. Nella pagina a fianco: nello stesso luogo i resti di un forno per la fusione.

Nelle foto sotto: Rocce metamorfiche filladiche deformate nei pressi del Rifugio Donati. La Granodiorite della Val Masino, roccia magmatica in cui si osservano i cristalli bianchi di feldspato potassico L’aspetto della Siderite della Valle dei Lupi, frammenti di quarzo bianco immersi in una matrice fine di Siderite Il Verrucano Lombardo affiorante in Val Madre, conglomerato a ciottoli di quarzo bianco e porfido rossastro.

al 1343. Si può pensare che il metallo della valle dei Lupi venisse portato a Talamona a dorso di mulo e nel vicino alpeggio di Gavedo molto più ricco di legname dell’Alpe Porcile. Riguardo al forno di Talamona si trova notizia di un patto interessante conclusosi nel settembre del 1351: trecento some di vena buona in cambio di carbone sufficiente per colare sedici ore di quella vena. Al cavatore tre quarti della resa, al carbonaio un quarto. Nel 1431 vi era un forno in Val di Lemma. Nel 1348 si costituiva a Talamona una società tra “Talamona, Fondra e Vallevi pro coquendo venam et faciendo ferrum crudum”. Era interesse dei minatori utilizzare il carbone, ecco quindi emergere una nuova figura, quella del carbonaio. Costui si occupava di procurare il carbone necessario per far 68 CAI MORBEGNO

funzionare i forni primari e quelli per la fucina dove il mastro fabbro esercitava la sua arte preparando falci, ranzetti, chiodi per zoccoli, chiodi per carpenteria, pezzi per carri. Il fabbro esercitava la sua attività nella fucina, che era solitamente posta nel fondovalle (il nome del paesino di Fusine è evidentemente derivato dalla presenza di un aggregato di fucine). Il ferro divenne una risorsa fondamentale nell’evoluzione storica dei popoli delle Orobie Valtellinesi. Numerose emigrazioni vennero documentate attorno al 1400 dalle valli bergamasche; i bergamaschi erano infatti gli specialisti, già maestri nell’arte del ferro dai tempi dei romani. La siderite orobica era conosciuta e apprezzata anche nel lecchese: veniva chiamata ferro delle prealpi. Con essa attorno al 1700 si fecero palle da cannone

e bombe di qualsiasi tipo, oltre che strumenti per la chirurgia, supporti per i carri e normali attrezzi per la vita in montagna come roncole, falci da prato, ranzetti, scuri, chiodi e martelli.

La siderite

La siderite è un carbonato di Ferro, FeCO3 , la mineralogia parla chiaro: sistema trigonale, frattura romboedrica, isomorfa con la calcite. La siderite, però, è molto di più di una formula che un barbuto docente di mineralogia tenta di mettere in testa agli allievi. La siderite è una risorsa, un minerale utile, un sasso che non può essere dimenticato per il ruolo che ha avuto dal Medioevo sino a pochi decenni fa nello sviluppo delle nostre vallate. La siderite della valle dei Lupi è di color bruno rossastro, questo aspetto è dovuto ad una sottile patina di alterazione di goethite marrone (FeOOH).

In frattura fresca è giallastra, spatica e microcristallina con pochi cristalli superiori al centimetro. Nell’insieme è associata a grandi quantità di quarzo (SiO2), minerale duro e bianco latteo che va a disseminare gli ammassi sideritici conferendo alla roccia una struttura brecciata. L’aspetto della roccia e le analisi petrografiche e strutturali effettuate al Dipartimento di Scienze e Tecnologie Geologiche dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca concordano nell’ipotesi di una mobilizzazione di fluidi, portatori di quarzo e di siderite, nelle fratture degli gneiss chiari (roccia metamorfica quarzoso feldspatica che costituisce il Monte Cadelle e il Monte Valegino). La siderite della valle dei Lupi è solo un tassello di quell’esteso mosaico chiamato

Distretto Ferrifero delle Alpi Meridionali comprendente le Orobie intere dal Bresciano, al Bergamasco, alla Valtellina. Questo dominio comprende rocce di diversa natura e nella sua porzione più antica, quella affiorante nelle Orobie con pietre che vanno dal Paleozoico medio sino al Mesozoico inferiore, è arricchito in minerali di ferro.

L’articolo è tratto dalla tesi di laurea triennale in Scienze Geologiche di Alessio Gusmeroli, discussa a Milano il 26-102006: “Il rilevamento geologico minerario delle antiche miniere di ferro della Valle dei Lupi”. (relatore Prof. F.Rodeghiero)

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Ascensione

di Giuseppe Camillo Giumelli Traona 1917-1986

Strade sulla montagna, dure, - ma l’anima è leggera come un velo candido su – tra cascate d’acque e di faggi, su – tra balsamici boschi d’abeti ove lo scoiattolo balza e ti guarda, su – tra i pascoli sonanti di mandrie ove la parola dei pastori è antica e saggia, su – tra giardini di flammei rododendri e vigneti di mirtilli, fra gli ontani ove il gallo salta improvviso, su – tra gli ultimi prati ove stupendi fiori son sparsi dai puri colori, tra limpide sorgenti ove riluccicano iridescenti scaglie d’argento e d’oro, su – tra le petraie caotiche ove fischia irosa la vigile marmotta, su – tra le distese bianche di neve ove passa rapida l’ombra dell’aquila che sopra s’aggira in larghi cerchi ad ali dispiegate e il camoscio lascia la pesta, su – tra le spietate rocce di granito ove il vuoto richiama e respinge: tenta ... ove il sole trapassa da parte a parte e una improvvisa nube raggela, su – alle vette, nel cielo.

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Ascensione

di Giuseppe Camillo Giumelli Traona 1917-1986

Strade sulla montagna, dure, - ma l’anima è leggera come un velo candido su – tra cascate d’acque e di faggi, su – tra balsamici boschi d’abeti ove lo scoiattolo balza e ti guarda, su – tra i pascoli sonanti di mandrie ove la parola dei pastori è antica e saggia, su – tra giardini di flammei rododendri e vigneti di mirtilli, fra gli ontani ove il gallo salta improvviso, su – tra gli ultimi prati ove stupendi fiori son sparsi dai puri colori, tra limpide sorgenti ove riluccicano iridescenti scaglie d’argento e d’oro, su – tra le petraie caotiche ove fischia irosa la vigile marmotta, su – tra le distese bianche di neve ove passa rapida l’ombra dell’aquila che sopra s’aggira in larghi cerchi ad ali dispiegate e il camoscio lascia la pesta, su – tra le spietate rocce di granito ove il vuoto richiama e respinge: tenta ... ove il sole trapassa da parte a parte e una improvvisa nube raggela, su – alle vette, nel cielo.

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Punta Angela Anticima

Punta Angela 3215 m

Meridionale del Cengalo

Via dei Morbegnesi

30m

di Mario Spini

4/5 40m

In alternativi al classico spigolo Vinci, vi propongo un’altra interessante via di analoga difficoltà, nota anche come Via dei Morbegnesi, che, sempre sulla Punta Angela al Cengalo, sale la parte sud ovest. La prima salita risale al luglio 1962 ad opera di Giorgio Bertarelli, Giuseppe Dell’Oca e G. Mossini. L’attacco è raggiungibile in circa un’ora di cammino dal Rif. Gianetti, dapprima lungo il sentiero Roma che si abbandona presto per risalire direttamente i pendii a ovest della cresta sud, sud-ovest del Cengalo, lungo blocchi e facili placche. Il tratto iniziale è caratterizzato da una grande lama a cui segue una bellissima placca lavorata, segnata da una lunga fila di chiodi a pressione che con le pedule di oggi può essere superata in libera con difficoltà massime sino al sesto. Oltre la cengia a metà parete, superata sulla sinistra una fascia con lame rovesciate sovrapposte, la via risale una serie di diedri fessurati di ottima roccia rossastra. Se si esclude l’abbondante e ormai datata attrezzatura del secondo tiro, la via presenta pochi chiodi in posto; ci si protegge comunque agevolmente con nuts e friends. La discesa avviene in doppia come evidenziato sul disegno a fianco (2 corde da 50 m).

4/5 40m 4/5

30m 5 620m 40m 5 4+ 30m 5 30m 5+/6 45m

L.Mottarella

4/4+

Nella pagina a fianco: sopra, la prima lunghezza di corda. Sotto, la Punta Angela da ovest. Sul fondo il Ferro Occidentale.

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Punta Angela Anticima

Punta Angela 3215 m

Meridionale del Cengalo

Via dei Morbegnesi

30m

di Mario Spini

4/5 40m

In alternativi al classico spigolo Vinci, vi propongo un’altra interessante via di analoga difficoltà, nota anche come Via dei Morbegnesi, che, sempre sulla Punta Angela al Cengalo, sale la parte sud ovest. La prima salita risale al luglio 1962 ad opera di Giorgio Bertarelli, Giuseppe Dell’Oca e G. Mossini. L’attacco è raggiungibile in circa un’ora di cammino dal Rif. Gianetti, dapprima lungo il sentiero Roma che si abbandona presto per risalire direttamente i pendii a ovest della cresta sud, sud-ovest del Cengalo, lungo blocchi e facili placche. Il tratto iniziale è caratterizzato da una grande lama a cui segue una bellissima placca lavorata, segnata da una lunga fila di chiodi a pressione che con le pedule di oggi può essere superata in libera con difficoltà massime sino al sesto. Oltre la cengia a metà parete, superata sulla sinistra una fascia con lame rovesciate sovrapposte, la via risale una serie di diedri fessurati di ottima roccia rossastra. Se si esclude l’abbondante e ormai datata attrezzatura del secondo tiro, la via presenta pochi chiodi in posto; ci si protegge comunque agevolmente con nuts e friends. La discesa avviene in doppia come evidenziato sul disegno a fianco (2 corde da 50 m).

4/5 40m 4/5

30m 5 620m 40m 5 4+ 30m 5 30m 5+/6 45m

L.Mottarella

4/4+

Nella pagina a fianco: sopra, la prima lunghezza di corda. Sotto, la Punta Angela da ovest. Sul fondo il Ferro Occidentale.

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il paese CI RISIAMO E’ di quest’estate la notizia di una rinnovata, massiccia aggressione nei confronti dei salti d’acqua delle nostre montagne da parte dei soliti noti. Ma non c’è da preoccuparsi, perché lo Stato italiano ha in cima ai suoi pensieri l’ambiente e il paesaggio, in particolare quello montano. Si parte dalla Costituzione che, all’art. 9, si impegna a tutelare il paesaggio, per arrivare alle leggi che danno disposizioni per le zone montane. Ecco un esempio illuminante. La Legge 99/1994 non lascia dubbi, infatti all’articolo 1 recita: “La salvaguardia e la valorizzazione delle zone montane, ai sensi dell’art. 44 della Costituzione, rivestono carattere di preminente interesse nazionale.” Di questo solenne impegno si fa carico la Regione Lombardia che all’art. 1 della L.R. 118/1998, attuativa della suddetta legge statale, ribadisce con forza il concetto, assumendo “fra gli obbiettivi preminenti dell’azione politica la salvaguardia e la valorizzazione del territorio montano”. Tutti gli articoli 1 delle leggi che si occupano di pianificazione territoriale sono pieni di questi lodevoli propositi. Ci viene il sospetto che per i nostri governanti “salvaguardare e valorizzare” abbiano un significato diverso da quello definito dai vocabolari. Questi lungimiranti interpreti del bene collettivo ritengono tali verbi sinonimi di disboscare, scorticare, spianare, scavare, cementificare, edificare, incanalare, intubare e via dicendo. Forse, però, si comportano come quei timorati cattolici che, dopo aver rispettato il precetto domenicale della messa, si sentono autorizzati, in pace con la coscienza, ad andare all’osteria ad ubriacarsi e a bestemmiare. Meditate gente, meditate!

74 CAI MORBEGNO

ARS GOVERNANDI A proposito di politica territoriale! Tempo fa un gruppetto di amici decise di fare una gita sul Pizzo Berro e dintorni. Al parcheggio dei Ronchi, durante i preparativi per la partenza, furono avvicinati da un signore del luogo che, in evidente crisi di astinenza verbale, volle attaccare discorso: buongiorno, da dove venite, dove andate di bello più i soliti convenevoli sul tempo del momento, su quello dei giorni passati e sulle previsioni per le ore a venire. Nel frattempo, considerata la scarsa loquacità dei “foresti”, vagava con lo sguardo alla ricerca di nuovi spunti di dialogo. Quando intercettò nel quadro visivo la sbarra che, poco più a monte, interrompeva il traffico automobilistico ai non autorizzati, il suo viso si illuminò e, pieno di orgoglio, proseguì: “Eh, la strada … bel lavoro … prosegue dentro il bosco per un pezzo, sapete … fino a Garzino … bella … larga … ci passa un grosso camion”. Al che uno del gruppo domandò: “Sì, ma a cosa serve?” Il signore rimase stupito e disorientato dalla richiesta. “A cosa diavolo può servire una strada – parve pensare – se non a transitarvi sopra?”. Ma si capì che un dubbio lo aveva improvvisamente folgorato; non aveva mai affrontato la questione da questo punto di vista. Fu solo per un attimo, però, perché si riprese subito e, lieto di poter dare una spiegazione, rispose nell’idioma locale: “Mah, l’impurtant l’è fa quai cos”. Commento: con una semplice affermazione quel signore aveva sintetizzato come meglio non si potrebbe la filosofia di governo di molti nostri amministratori. Non importa il perché, ma, ricordiamocelo, l’importante è fare qualche cosa, comunque. Meditate gente, meditate!

dell’incontrario CORSI E RICORSI Negli ultimi anni sono state pubblicate su alcune note riviste di settore almeno tre monografie dedicate ai monti della Valmasino. Alternando il testo scritto alle numerose immagini di un ricco apparato fotografico, tutte danno ampio spazio alle gesta dei giovani “sassisti” che negli anni ’70, con la loro scanzonata rivoluzione, diedero una spallata alle verità e alle certezze che avevano caratterizzato “l’alpinismo eroico” dei decenni appena trascorsi. Oggi quei ragazzi dalle chiome fluenti e dall’abbigliamento anticonformista, volutamente trasandato, sono diventati posati signori di mezza età (e oltre), molti dei quali hanno fatto dell’attività alpinistica la loro legittima fonte di sostentamento. Dalle pagine patinate di queste riviste ci raccontano, filtrati dalla nostalgia, gli episodi più coinvolgenti della loro scapigliata gioventù e ci tramandano i particolari di imprese mirabolanti, proponendoci le certezze del loro “sassismo eroico”. Ma … allora? Che differenza c’è? Non avevano voluto dare una scrollata agli stereotipi del passato? Che sia arrivato il momento di una nuova rivoluzione alpinistico-esistenziale? Meditate gente, meditate! C’ ERA UNA VOLTA L’ALPINISMO A pensarci bene la rivoluzione di cui sopra è già in atto ed ha per protagonisti i cultori della corsa in montagna, anzi della skyrace, che sennò è roba da ragazzi dell’oratorio. La sopravvivenza dell’alpinismo in Italia è affidata a un manipolo di pochi intrepidi, ma si è sicuramente conclusa un’epoca, perché l’ascensione tradizionale, intesa come avventura unica e completa, costituita da avvicinamento, a volte lungo ed estenuante, e confronto fisico e mentale

con le difficoltà dell’ascensione, in un ambiente praticamente isolato dal resto del mondo, non esiste più. I telefoni satellitari, la tecnologia GPS, le più sofisticate attrezzature hi-tech super leggere consentono di affrontare le montagne del pianeta in sicurezza e di realizzare exploit prima impensabili, evitando magari (chi può) le fasi inutili e noiose del tragitto fino all’attacco della via e della discesa utilizzando l’elicottero. Esistono ancora, è vero, alcuni irriducibili nostalgici che insistono nel percorrere le vie classiche come una volta, ma assomigliano sempre di più a quei giapponesi trovati su un’isoletta del Pacifico che, ancora dopo 40 anni, rifiutavano di accettare che la 2a guerra mondiale fosse finita. I sassisti, infine, hanno subito una sconfortante involuzione e sono ridotti a una pletora di individui che si ritrovano dove la natura ha giocato con la roccia alla ricerca di sassi di pochi metri (peccato che non siano sulla spiaggia di Rimini) sui quali dimostrare, attraverso l’uso indifferenziato di braccia e gambe, che fra l’uomo e la scimmia non manca nessun anello. Ed ecco allora emergere i nostri nuovi eroi che, sostituito l’abbigliamento tradizionale con tenute simili a mise di biancheria intima, spesso con tanto di sponsorizzazione che la moda vuole ora sul fondo schiena, e l’alimentazione casereccia a base di pane e formaggio con disgustosi intrugli ad alto potere energetico (speriamo non siano le pozioni del Dottor Jeckyll), si cimentano con percorsi sempre più massacranti in quota alla ricerca della prestazione che li consacri campioni. Essi sono disposti a sobbarcarsi, accompagnati da parenti e fans, estenuanti trasferte per riuscire a star dietro ad un calendario sempre

di Bruno Orso

più fitto di manifestazioni, perché oramai ogni località montana vuole la propria gara. Tutto è diventato frenetico, non c’è più il tempo, ma neppure l’esigenza, di guardarsi un po’ attorno. Naturalmente ciò è legittimo e c’è posto per tutti, ma mi viene da pensare che queste gare stiano alla montagna come i panini di Mc Donald e le pizzette al trancio stanno alla sana cucina mediterranea. Propongo allora di fondare, sulla falsariga di Slow food, un movimento Slow mountain, per il quale l’andar per monti sia l’occasione per assaporare e gustare la montagna utilizzando i cinque sensi di cui l’uomo è fortunatamente dotato e, perché no? Per abbandonarsi a un momento di riflessione sul senso del creato, magari da condividere con la compagna di vita (“Toite insema ‘na putela e ‘na fiasca de bon vin per goder la Paganella e la vista del Trentin”, recita un noto canto di montagna). Meditate gente, meditate!

CAI MORBEGNO 75


il paese CI RISIAMO E’ di quest’estate la notizia di una rinnovata, massiccia aggressione nei confronti dei salti d’acqua delle nostre montagne da parte dei soliti noti. Ma non c’è da preoccuparsi, perché lo Stato italiano ha in cima ai suoi pensieri l’ambiente e il paesaggio, in particolare quello montano. Si parte dalla Costituzione che, all’art. 9, si impegna a tutelare il paesaggio, per arrivare alle leggi che danno disposizioni per le zone montane. Ecco un esempio illuminante. La Legge 99/1994 non lascia dubbi, infatti all’articolo 1 recita: “La salvaguardia e la valorizzazione delle zone montane, ai sensi dell’art. 44 della Costituzione, rivestono carattere di preminente interesse nazionale.” Di questo solenne impegno si fa carico la Regione Lombardia che all’art. 1 della L.R. 118/1998, attuativa della suddetta legge statale, ribadisce con forza il concetto, assumendo “fra gli obbiettivi preminenti dell’azione politica la salvaguardia e la valorizzazione del territorio montano”. Tutti gli articoli 1 delle leggi che si occupano di pianificazione territoriale sono pieni di questi lodevoli propositi. Ci viene il sospetto che per i nostri governanti “salvaguardare e valorizzare” abbiano un significato diverso da quello definito dai vocabolari. Questi lungimiranti interpreti del bene collettivo ritengono tali verbi sinonimi di disboscare, scorticare, spianare, scavare, cementificare, edificare, incanalare, intubare e via dicendo. Forse, però, si comportano come quei timorati cattolici che, dopo aver rispettato il precetto domenicale della messa, si sentono autorizzati, in pace con la coscienza, ad andare all’osteria ad ubriacarsi e a bestemmiare. Meditate gente, meditate!

74 CAI MORBEGNO

ARS GOVERNANDI A proposito di politica territoriale! Tempo fa un gruppetto di amici decise di fare una gita sul Pizzo Berro e dintorni. Al parcheggio dei Ronchi, durante i preparativi per la partenza, furono avvicinati da un signore del luogo che, in evidente crisi di astinenza verbale, volle attaccare discorso: buongiorno, da dove venite, dove andate di bello più i soliti convenevoli sul tempo del momento, su quello dei giorni passati e sulle previsioni per le ore a venire. Nel frattempo, considerata la scarsa loquacità dei “foresti”, vagava con lo sguardo alla ricerca di nuovi spunti di dialogo. Quando intercettò nel quadro visivo la sbarra che, poco più a monte, interrompeva il traffico automobilistico ai non autorizzati, il suo viso si illuminò e, pieno di orgoglio, proseguì: “Eh, la strada … bel lavoro … prosegue dentro il bosco per un pezzo, sapete … fino a Garzino … bella … larga … ci passa un grosso camion”. Al che uno del gruppo domandò: “Sì, ma a cosa serve?” Il signore rimase stupito e disorientato dalla richiesta. “A cosa diavolo può servire una strada – parve pensare – se non a transitarvi sopra?”. Ma si capì che un dubbio lo aveva improvvisamente folgorato; non aveva mai affrontato la questione da questo punto di vista. Fu solo per un attimo, però, perché si riprese subito e, lieto di poter dare una spiegazione, rispose nell’idioma locale: “Mah, l’impurtant l’è fa quai cos”. Commento: con una semplice affermazione quel signore aveva sintetizzato come meglio non si potrebbe la filosofia di governo di molti nostri amministratori. Non importa il perché, ma, ricordiamocelo, l’importante è fare qualche cosa, comunque. Meditate gente, meditate!

dell’incontrario CORSI E RICORSI Negli ultimi anni sono state pubblicate su alcune note riviste di settore almeno tre monografie dedicate ai monti della Valmasino. Alternando il testo scritto alle numerose immagini di un ricco apparato fotografico, tutte danno ampio spazio alle gesta dei giovani “sassisti” che negli anni ’70, con la loro scanzonata rivoluzione, diedero una spallata alle verità e alle certezze che avevano caratterizzato “l’alpinismo eroico” dei decenni appena trascorsi. Oggi quei ragazzi dalle chiome fluenti e dall’abbigliamento anticonformista, volutamente trasandato, sono diventati posati signori di mezza età (e oltre), molti dei quali hanno fatto dell’attività alpinistica la loro legittima fonte di sostentamento. Dalle pagine patinate di queste riviste ci raccontano, filtrati dalla nostalgia, gli episodi più coinvolgenti della loro scapigliata gioventù e ci tramandano i particolari di imprese mirabolanti, proponendoci le certezze del loro “sassismo eroico”. Ma … allora? Che differenza c’è? Non avevano voluto dare una scrollata agli stereotipi del passato? Che sia arrivato il momento di una nuova rivoluzione alpinistico-esistenziale? Meditate gente, meditate! C’ ERA UNA VOLTA L’ALPINISMO A pensarci bene la rivoluzione di cui sopra è già in atto ed ha per protagonisti i cultori della corsa in montagna, anzi della skyrace, che sennò è roba da ragazzi dell’oratorio. La sopravvivenza dell’alpinismo in Italia è affidata a un manipolo di pochi intrepidi, ma si è sicuramente conclusa un’epoca, perché l’ascensione tradizionale, intesa come avventura unica e completa, costituita da avvicinamento, a volte lungo ed estenuante, e confronto fisico e mentale

con le difficoltà dell’ascensione, in un ambiente praticamente isolato dal resto del mondo, non esiste più. I telefoni satellitari, la tecnologia GPS, le più sofisticate attrezzature hi-tech super leggere consentono di affrontare le montagne del pianeta in sicurezza e di realizzare exploit prima impensabili, evitando magari (chi può) le fasi inutili e noiose del tragitto fino all’attacco della via e della discesa utilizzando l’elicottero. Esistono ancora, è vero, alcuni irriducibili nostalgici che insistono nel percorrere le vie classiche come una volta, ma assomigliano sempre di più a quei giapponesi trovati su un’isoletta del Pacifico che, ancora dopo 40 anni, rifiutavano di accettare che la 2a guerra mondiale fosse finita. I sassisti, infine, hanno subito una sconfortante involuzione e sono ridotti a una pletora di individui che si ritrovano dove la natura ha giocato con la roccia alla ricerca di sassi di pochi metri (peccato che non siano sulla spiaggia di Rimini) sui quali dimostrare, attraverso l’uso indifferenziato di braccia e gambe, che fra l’uomo e la scimmia non manca nessun anello. Ed ecco allora emergere i nostri nuovi eroi che, sostituito l’abbigliamento tradizionale con tenute simili a mise di biancheria intima, spesso con tanto di sponsorizzazione che la moda vuole ora sul fondo schiena, e l’alimentazione casereccia a base di pane e formaggio con disgustosi intrugli ad alto potere energetico (speriamo non siano le pozioni del Dottor Jeckyll), si cimentano con percorsi sempre più massacranti in quota alla ricerca della prestazione che li consacri campioni. Essi sono disposti a sobbarcarsi, accompagnati da parenti e fans, estenuanti trasferte per riuscire a star dietro ad un calendario sempre

di Bruno Orso

più fitto di manifestazioni, perché oramai ogni località montana vuole la propria gara. Tutto è diventato frenetico, non c’è più il tempo, ma neppure l’esigenza, di guardarsi un po’ attorno. Naturalmente ciò è legittimo e c’è posto per tutti, ma mi viene da pensare che queste gare stiano alla montagna come i panini di Mc Donald e le pizzette al trancio stanno alla sana cucina mediterranea. Propongo allora di fondare, sulla falsariga di Slow food, un movimento Slow mountain, per il quale l’andar per monti sia l’occasione per assaporare e gustare la montagna utilizzando i cinque sensi di cui l’uomo è fortunatamente dotato e, perché no? Per abbandonarsi a un momento di riflessione sul senso del creato, magari da condividere con la compagna di vita (“Toite insema ‘na putela e ‘na fiasca de bon vin per goder la Paganella e la vista del Trentin”, recita un noto canto di montagna). Meditate gente, meditate!

CAI MORBEGNO 75


La nuova sede del Club Alpino Italiano Sezione di Morbegno

Entrata e piano soppalco

Piano salone

Sezione

76 CAI MORBEGNO

La nuova sede della sezione di Morbegno del Club Alpino Italiano sorgerà nel centro storico di Morbegno, in quella località, Scimacà (in antico somma domorum), in cui ha avuto origine l’abitato. Gli ambienti saranno ricavati in un edificio esistente, che costituisce una dipendenza del Palazzo Malacrida, storico palazzo seicentesco di proprietà del Comune di Morbegno. Si tratta di un fabbricato rurale annesso alle ex scuderie, probabilmente utilizzato in passato come deposito, attualmente senza alcuna destinazione specifica. Su richiesta del CAI di Morbegno, che come è noto da qualche tempo è senza una sede stabile, l’Amministrazione Comunale ha concesso in comodato all’associazione l’ultimo piano dell’edificio, con l’impegno da parte di quest’ultima di recuperarlo Il fabbricato è stato parzialmente ristrutturato in tempi relativamente recenti; infatti l’amministrazione ne ha rifatto il tetto, in piode della Valmalenco, e ne ha sostituito le solette. Il resto dell’edifico è in attesa di un restauro. Il progetto prevede, come accennato, il recupero dell’ultimo livello. Si intende soppalcare il locale, con una struttura in legno; verrà rifatta la pavimentazione e si

procederà alla coibentazione dei muri perimetrali e della copertura. Saranno poi realizzati nuovi serramenti, in legno a specchiature tradizionali. Si prevede poi la formazione di un servizio igienico ed di un piccolo ripostiglio. Verranno quindi realizzati gli impianti elettrici e termo-sanitari. Tutti gli interventi avranno caratteristica di reversibilità. Esternamente non è previsto di apportare modifiche al fabbricato, se si eccettua la riproposizione di nuovi serramenti, con tipologie tradizionali, come sopra accennato. In merito va ricordato che l’edificio è vincolato dalla Soprintendenza ai Beni Architettonici ed Ambientali e, come tale, il suo recupero deve sottostare ai rigidi criteri che la procedura impone. Lo scopo finale dell’intervento è quello di ricavare una sala riunioni, che troverà posto al livello inferiore, una zona lettura-biblioteca ed un’area per il consiglio, entrambe nella zona del soppalco. Da non trascurare è anche la presenza di un’area verde di pertinenza esclusiva alla sede; si tratta di un terrazzamento del giardino storico del palazzo Malacrida, con una splendida vista sul centro storico, adatto anche per

piccole manifestazioni estive. Il progetto edile è stato realizzato da chi scrive, mentre quello impiantistico dall’ing. Giulio Gadola. Riteniamo che l’intervento sia rispondente alle necessità della nostra associazione; anzitutto abbiamo avuto a disposizione un “involucro” completamente vuoto, per cui abbiamo potuto studiare un progetto con ambienti che calzassero con le nostre esigenze; le dimensioni sono funzionali, sufficienti ad ospitare un cospicuo numero di persone, ma senza eccedere negli spazi, con conseguenti problemi di gestione. Anche gli impianti e le attrezzature sono state pensate in funzione delle nostre attività, con una ricaduta positiva sulle stesse, in termini di riuscita. Pensiamo che la relativa scomodità della posizione (siamo comunque nel centro storico di Morbegno e non più nella sua periferia!), sia compensata dal prestigio e dalla bellezza del posto. La relativa bassa difficoltà tecnica di realizzazione fa sì che ci possa essere un intervento diretto di quanti, tra i soci, volessero contribuire direttamente alla costruzione della nuova sede, ciascuno con le proprie competenze e capacità. Potrebbe essere perciò anche un interessante momento di aggregazione e di crescita

della coscienza associativa, che ci porterebbe ad avere una “casa”, come dice la nota citazione dell’Ariosto, “parva sed apta mihi, sed nulli obnoxia, sed non sordida: parta meo sed tamen aere domus” (piccola ma adatta a me, non soggetta a nessuno, decorosa, e comprata col mio denaro). Arch. Alessandro Caligari A.E. CAI Morbegno

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La nuova sede del Club Alpino Italiano Sezione di Morbegno

Entrata e piano soppalco

Piano salone

Sezione

76 CAI MORBEGNO

La nuova sede della sezione di Morbegno del Club Alpino Italiano sorgerà nel centro storico di Morbegno, in quella località, Scimacà (in antico somma domorum), in cui ha avuto origine l’abitato. Gli ambienti saranno ricavati in un edificio esistente, che costituisce una dipendenza del Palazzo Malacrida, storico palazzo seicentesco di proprietà del Comune di Morbegno. Si tratta di un fabbricato rurale annesso alle ex scuderie, probabilmente utilizzato in passato come deposito, attualmente senza alcuna destinazione specifica. Su richiesta del CAI di Morbegno, che come è noto da qualche tempo è senza una sede stabile, l’Amministrazione Comunale ha concesso in comodato all’associazione l’ultimo piano dell’edificio, con l’impegno da parte di quest’ultima di recuperarlo Il fabbricato è stato parzialmente ristrutturato in tempi relativamente recenti; infatti l’amministrazione ne ha rifatto il tetto, in piode della Valmalenco, e ne ha sostituito le solette. Il resto dell’edifico è in attesa di un restauro. Il progetto prevede, come accennato, il recupero dell’ultimo livello. Si intende soppalcare il locale, con una struttura in legno; verrà rifatta la pavimentazione e si

procederà alla coibentazione dei muri perimetrali e della copertura. Saranno poi realizzati nuovi serramenti, in legno a specchiature tradizionali. Si prevede poi la formazione di un servizio igienico ed di un piccolo ripostiglio. Verranno quindi realizzati gli impianti elettrici e termo-sanitari. Tutti gli interventi avranno caratteristica di reversibilità. Esternamente non è previsto di apportare modifiche al fabbricato, se si eccettua la riproposizione di nuovi serramenti, con tipologie tradizionali, come sopra accennato. In merito va ricordato che l’edificio è vincolato dalla Soprintendenza ai Beni Architettonici ed Ambientali e, come tale, il suo recupero deve sottostare ai rigidi criteri che la procedura impone. Lo scopo finale dell’intervento è quello di ricavare una sala riunioni, che troverà posto al livello inferiore, una zona lettura-biblioteca ed un’area per il consiglio, entrambe nella zona del soppalco. Da non trascurare è anche la presenza di un’area verde di pertinenza esclusiva alla sede; si tratta di un terrazzamento del giardino storico del palazzo Malacrida, con una splendida vista sul centro storico, adatto anche per

piccole manifestazioni estive. Il progetto edile è stato realizzato da chi scrive, mentre quello impiantistico dall’ing. Giulio Gadola. Riteniamo che l’intervento sia rispondente alle necessità della nostra associazione; anzitutto abbiamo avuto a disposizione un “involucro” completamente vuoto, per cui abbiamo potuto studiare un progetto con ambienti che calzassero con le nostre esigenze; le dimensioni sono funzionali, sufficienti ad ospitare un cospicuo numero di persone, ma senza eccedere negli spazi, con conseguenti problemi di gestione. Anche gli impianti e le attrezzature sono state pensate in funzione delle nostre attività, con una ricaduta positiva sulle stesse, in termini di riuscita. Pensiamo che la relativa scomodità della posizione (siamo comunque nel centro storico di Morbegno e non più nella sua periferia!), sia compensata dal prestigio e dalla bellezza del posto. La relativa bassa difficoltà tecnica di realizzazione fa sì che ci possa essere un intervento diretto di quanti, tra i soci, volessero contribuire direttamente alla costruzione della nuova sede, ciascuno con le proprie competenze e capacità. Potrebbe essere perciò anche un interessante momento di aggregazione e di crescita

della coscienza associativa, che ci porterebbe ad avere una “casa”, come dice la nota citazione dell’Ariosto, “parva sed apta mihi, sed nulli obnoxia, sed non sordida: parta meo sed tamen aere domus” (piccola ma adatta a me, non soggetta a nessuno, decorosa, e comprata col mio denaro). Arch. Alessandro Caligari A.E. CAI Morbegno

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I NUMERI DEL C.A.I. MORBEGNO Alla data del 31.12.2006 gli iscritti sono 522 così suddivisi: 361 ordinari 134 famigliari 27 giovani. Ricordiamo che le iscrizioni si effettuano presso gli sportelli del Credito Valtellinese di Via Ambrosetti. IL CONSIGLIO DIRETTIVO DEL C.A.I. MORBEGNO Cambio della guardia ai vertici: Franco Scotti,in carica dal 2000, pur continuando a far parte del Consiglio, cede il timone. A Franco il ringraziamento della Sezione per le sue doti di umanità, per la disponibilità e la competenza mostrate in questi cinque anni di attività. Al nuovo Presidente, Domenico Del Barba, i nostri migliori auguri di buon lavoro. Presidente Domenico Del Barba Vicepresidente Lodovico Mottarella Mario Spini Segretario Davide Bonzi Consiglieri Danilo Acquistapace Enrico Bertoli Alessandro Caligari Angelo De Donati 78 CAI MORBEGNO

Giovanni Rovedatti Franco Scotti

19 marzo, alla Pesciöla; 25 marzo, alla Cima Cristallina.

GLI ISTRUTTORI DI ALPINISMO E DI SCI ALPINISMO Enrico Bertoli (ISA) Nicola Croce (ISA) Ivan Fabani (ISA) Giulio Gadola (ISA) Marco Riva (ISA) Franco Scotti (ISA) Vincenzo Spreafico (ISA) Cesare De Donati (INSA/IAIl)

Corso avanzato di scialpinismo Il corso si è svolto con 5 allievi. Le uscite sono state: 8 aprile, alla Palla Bianca; 22 aprile, al Palon de la Mare; 7 maggio, allo Strahlorn in Vallese; 27 maggio, al Nordent nel gruppo del Rosa.

BIBLIOTECA/VIDEOTECA Sono entrate in biblioteca 6 nuovi opere. Sono tutte guide della collana Monti d’Italia del CAI/TCI. Il totale dei titoli presenti negli scaffali è 355. Completano il patrimonio 31 videocassette e 152 carte geografiche. ATTIVITA’ IN PILLOLE Corso di ginnastica presciistica Da novembre 2005 ad aprile 2006 si sono svolte le lezioni del corso di ginnastica in preparazione della stagione invernale: in media 15 partecipanti per lezione. Corso base di scialpinismo Il corso si è svolto con 10 allievi iscritti. Le uscite sono state: 22 gennaio, al Munt de Sura; 5 febbraio, al Monte Olano; 12 febbraio, al Bivacco Suretta; 26 febbraio, al Piz Arpiglia;

Corso di arrampicata Il corso si è svolto con la partecipazione di 12 allievi. Le uscite sono state 6: Sasso di Remenno; Sasso Bianco a Prata; Palestra di Bette; Valle dei Bagni; Grigna meridionale; Val di Mello. Gite famigliari Sono state effettuate 8 escursioni: 12 febbraio, MenaggioRezzonico; 19 marzo, Domaso-Ponte del Passo; 2 aprile, Torno-Pognana; 7 maggio, Lierna-Varenna; 14 maggio, Morbegno-Ciani; 28 maggio, Anello manzoniano; 4 giugno, Sentiero Segantini 18 giugno, laghi di Villa di Chiavenna.

Sci alpinismo al chiaro di luna 12 gennaio - In una serata limpida e fredda si è svolta la tradizionale gita notturna con le pelli di foca. Come lo scorso anno è stata scelta la Valle di Pescegallo. Erano in tanti, una cinquantina: la maggior parte con gli sci, ma altri hanno affrontato a piedi la pista di servizio che conduce al Pianone, nel chiarore di una splendida luna piena. Al rientro a Fenile caldo e gradito ritrovo presso il ristorante Stella Alpina. Rallyno della Rosetta 3 marzo - tradizionale appuntamento di sci alpinismo sull’Alpe Culino. Squadre partecipanti: 35. Lotta in famiglia Del Barba per la prova di regolarità in salita. L’ha spuntata Anna che, in coppia con il consorte Giulio Gadola, ha prevalso sul fratello Pietro in coppia con Mauro Orlandi. La punzecchiatura fatta lo scorso anno da queste

pagine all’amico Giulio ha prodotto i suoi effetti. Vincitori Rallyno: Anna Del Barba e Giulio Gadola (penalità 12,544). Vincitori cronoscalata: Paolo Del Vò e Marco Martinoli (tempo 34’ 41”). Vincitori discesa: Cesare De Donati e Marco Selva (tempo 56”). Giornata ecologica 2 aprile – In pochi (Anna, Giacomina, Alessandro e Alessio), troppo pochi, hanno dato la loro adesione alla “giornata ecologica” organizzata dal Comune. E’ vero che molti dei nostri iscritti

erano presenti e inquadrati in altre associazioni, ma un po’ più di coscienza civica da parte di chi aderisce ad un sodalizio come il CAI non sarebbe sgradita. Gita sci alpinistica al Campagnun 23 aprile - Una splendida e tiepida giornata e una rassicurante neve primaverile hanno gratificato i 14 appassionati delle pelli di foca che hanno risposto all’invito del CAI. A pag 58 la testimonianza di uno dei partecipanti.

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I NUMERI DEL C.A.I. MORBEGNO Alla data del 31.12.2006 gli iscritti sono 522 così suddivisi: 361 ordinari 134 famigliari 27 giovani. Ricordiamo che le iscrizioni si effettuano presso gli sportelli del Credito Valtellinese di Via Ambrosetti. IL CONSIGLIO DIRETTIVO DEL C.A.I. MORBEGNO Cambio della guardia ai vertici: Franco Scotti,in carica dal 2000, pur continuando a far parte del Consiglio, cede il timone. A Franco il ringraziamento della Sezione per le sue doti di umanità, per la disponibilità e la competenza mostrate in questi cinque anni di attività. Al nuovo Presidente, Domenico Del Barba, i nostri migliori auguri di buon lavoro. Presidente Domenico Del Barba Vicepresidente Lodovico Mottarella Mario Spini Segretario Davide Bonzi Consiglieri Danilo Acquistapace Enrico Bertoli Alessandro Caligari Angelo De Donati 78 CAI MORBEGNO

Giovanni Rovedatti Franco Scotti

19 marzo, alla Pesciöla; 25 marzo, alla Cima Cristallina.

GLI ISTRUTTORI DI ALPINISMO E DI SCI ALPINISMO Enrico Bertoli (ISA) Nicola Croce (ISA) Ivan Fabani (ISA) Giulio Gadola (ISA) Marco Riva (ISA) Franco Scotti (ISA) Vincenzo Spreafico (ISA) Cesare De Donati (INSA/IAIl)

Corso avanzato di scialpinismo Il corso si è svolto con 5 allievi. Le uscite sono state: 8 aprile, alla Palla Bianca; 22 aprile, al Palon de la Mare; 7 maggio, allo Strahlorn in Vallese; 27 maggio, al Nordent nel gruppo del Rosa.

BIBLIOTECA/VIDEOTECA Sono entrate in biblioteca 6 nuovi opere. Sono tutte guide della collana Monti d’Italia del CAI/TCI. Il totale dei titoli presenti negli scaffali è 355. Completano il patrimonio 31 videocassette e 152 carte geografiche. ATTIVITA’ IN PILLOLE Corso di ginnastica presciistica Da novembre 2005 ad aprile 2006 si sono svolte le lezioni del corso di ginnastica in preparazione della stagione invernale: in media 15 partecipanti per lezione. Corso base di scialpinismo Il corso si è svolto con 10 allievi iscritti. Le uscite sono state: 22 gennaio, al Munt de Sura; 5 febbraio, al Monte Olano; 12 febbraio, al Bivacco Suretta; 26 febbraio, al Piz Arpiglia;

Corso di arrampicata Il corso si è svolto con la partecipazione di 12 allievi. Le uscite sono state 6: Sasso di Remenno; Sasso Bianco a Prata; Palestra di Bette; Valle dei Bagni; Grigna meridionale; Val di Mello. Gite famigliari Sono state effettuate 8 escursioni: 12 febbraio, MenaggioRezzonico; 19 marzo, Domaso-Ponte del Passo; 2 aprile, Torno-Pognana; 7 maggio, Lierna-Varenna; 14 maggio, Morbegno-Ciani; 28 maggio, Anello manzoniano; 4 giugno, Sentiero Segantini 18 giugno, laghi di Villa di Chiavenna.

Sci alpinismo al chiaro di luna 12 gennaio - In una serata limpida e fredda si è svolta la tradizionale gita notturna con le pelli di foca. Come lo scorso anno è stata scelta la Valle di Pescegallo. Erano in tanti, una cinquantina: la maggior parte con gli sci, ma altri hanno affrontato a piedi la pista di servizio che conduce al Pianone, nel chiarore di una splendida luna piena. Al rientro a Fenile caldo e gradito ritrovo presso il ristorante Stella Alpina. Rallyno della Rosetta 3 marzo - tradizionale appuntamento di sci alpinismo sull’Alpe Culino. Squadre partecipanti: 35. Lotta in famiglia Del Barba per la prova di regolarità in salita. L’ha spuntata Anna che, in coppia con il consorte Giulio Gadola, ha prevalso sul fratello Pietro in coppia con Mauro Orlandi. La punzecchiatura fatta lo scorso anno da queste

pagine all’amico Giulio ha prodotto i suoi effetti. Vincitori Rallyno: Anna Del Barba e Giulio Gadola (penalità 12,544). Vincitori cronoscalata: Paolo Del Vò e Marco Martinoli (tempo 34’ 41”). Vincitori discesa: Cesare De Donati e Marco Selva (tempo 56”). Giornata ecologica 2 aprile – In pochi (Anna, Giacomina, Alessandro e Alessio), troppo pochi, hanno dato la loro adesione alla “giornata ecologica” organizzata dal Comune. E’ vero che molti dei nostri iscritti

erano presenti e inquadrati in altre associazioni, ma un po’ più di coscienza civica da parte di chi aderisce ad un sodalizio come il CAI non sarebbe sgradita. Gita sci alpinistica al Campagnun 23 aprile - Una splendida e tiepida giornata e una rassicurante neve primaverile hanno gratificato i 14 appassionati delle pelli di foca che hanno risposto all’invito del CAI. A pag 58 la testimonianza di uno dei partecipanti.

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Trekking sul Sentiero Andrea Paniga 17 settembre – Punto di arrivo al Rifugio Bar Bianco. Dieci persone, nonostante un tempo poco promettente, hanno raccolto l’invito a prendere parte a questo tradizionale appuntamento. Hanno avuto ragione, perché strada facendo la situazione meteo è migliorata e un bel sole ha riscaldato la gita lungo il percorso Ciani, Combanina, Cima Rosetta e Bar Bianco. Di nuovo maltempo dopo il ritorno alle automobili. Meglio di così ... Giornata al Sasso di Remenno 21 luglio - Anche quest’anno, su invito del Comune di Morbegno, la nostra Sezione si è resa disponibile a collaborare con il Centro Ricreativo Diurno per assistere i ragazzi nel corso di una uscita in montagna. Sulla parete ovest del Sasso di Remenno Domenico, Lodovico, Rita e Vincenzo hanno aiutato una quindicina di giovani a familiarizzare con le tecniche di arrampicata. Escursione in Engadina 3 settembre – Traversata Surlej, S. Jan, Rosatsch La natura dell’itinerario, che si sviluppa tutto al di sopra dei 3000 metri, e l’incertezza del tempo hanno suggerito di accorciare la gita rinunciando a raggiungere il Piz Rosatsch. I 14 partecipanti hanno comunque potuto godere del panorama sempre gratificante dei laghi dell’Alta Engadina e della Val Roseg. 80 CAI MORBEGNO

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Trekking sul Sentiero Andrea Paniga 17 settembre – Punto di arrivo al Rifugio Bar Bianco. Dieci persone, nonostante un tempo poco promettente, hanno raccolto l’invito a prendere parte a questo tradizionale appuntamento. Hanno avuto ragione, perché strada facendo la situazione meteo è migliorata e un bel sole ha riscaldato la gita lungo il percorso Ciani, Combanina, Cima Rosetta e Bar Bianco. Di nuovo maltempo dopo il ritorno alle automobili. Meglio di così ... Giornata al Sasso di Remenno 21 luglio - Anche quest’anno, su invito del Comune di Morbegno, la nostra Sezione si è resa disponibile a collaborare con il Centro Ricreativo Diurno per assistere i ragazzi nel corso di una uscita in montagna. Sulla parete ovest del Sasso di Remenno Domenico, Lodovico, Rita e Vincenzo hanno aiutato una quindicina di giovani a familiarizzare con le tecniche di arrampicata. Escursione in Engadina 3 settembre – Traversata Surlej, S. Jan, Rosatsch La natura dell’itinerario, che si sviluppa tutto al di sopra dei 3000 metri, e l’incertezza del tempo hanno suggerito di accorciare la gita rinunciando a raggiungere il Piz Rosatsch. I 14 partecipanti hanno comunque potuto godere del panorama sempre gratificante dei laghi dell’Alta Engadina e della Val Roseg. 80 CAI MORBEGNO

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