Toyo Ito

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Più che a me stesso c'è una frase che ripeto spesso allo staff: "gambare!", che significa forza ragazzi, andiamo avanti! A me stesso dico: "Cerca di vivere allegramente, per favore" - Toyo Ito -


Il Giappone e Toyo Ito


Il Giappone si presenta come contesto a sè nel mondo contemporaneo, distinto dal mondo asiatico perchè la sua modernizzazione è iniziata ormai un secolo e mezzo fa e più vicino ai paesi occidentali per il suo esssere una delle potenze economiche mondiali. Mostra, in una superficie ristretta (377.835 km2), una gamma completa di climi e caratteristiche dai nordici ai tropicali, che ne fanno uno spazio geografico autonomo, unificato da una rete di attrezzature e vie di comunicazione fra le più moderne del mondo. La vicenda dell’architettura moderna giapponese ha una parte rilevante nel contesto mondiale. Fino alla seconda guerra mondiale la continuità della cultura architettonica tradizionale e l’imitazione dei modelli europei coesistevano come esperienze distinte. Mentre ad occidente vi era una costante e profonda attenzione nei confronti dell’arte e dell’architettura del Paese del Sol Levante il termine giapponismo designa con precisione. La lezione del movimento moderno, e in particolare l’insegnamento di Le Corbusier (recato in patria da Junzo Sakakura e Kunio Maekawa, che avevano lavorato con lui a Parigi fra il 1929 e il 1936), rompe questo eclettico dualismo e nel dopoguerra permette a una nuova generazione di architetti, capitanati da Kenzo Tange, (1934 - ) di inserirsi fra i protagonisti della nuova architettura mondiale. Si stabilisconocontatti tra gli architetti giapponesi maggiori movimenti d’avanguardia europei. Giovani studenti giapponesi frequentano i corsi del Bauhaus; architetti agli esordi lavorano negli studi dei più illustri colleghi europei. In seguito Tange stesso, Kisho Kurosawa (1934 - ) e altri che dirigono studi troppo numerosi, non riescono a mantenere questo ruolo. Emergono invece i titolari di studi più piccoli, che manifestano una spiccata vivacità intellettuale, come Fumihiko Maki (1928 - ) e Arata Isozaki (1931 - ). Gli architetti della generazione successiva sono alla ricerca di esperienze nuove e si muovono con cautela. Dall’eredità antica scelgono insegnamenti opposti alle innovazioni europee, come l’auto-limitazione e la volontaria restrizione del campo di lavoro.


Sompo Japan Head Office Building, completata nel 1976, di Uchida Shozo, Tokyo


L’opera di Toyo Ito può essere considerata come una delle più significative letture della complessità del mondo giapponese. Collaboratore di Kikutake fino al 1965, negli anni seguenti Ito rifugge programmaticamente da ogni continuità stilistica, cercando piuttosto di sintonizzarsi sull’alta frequenza di mutazioni e sulla transitorietà tipica dei paesaggi urbani del Giappone contemporaneo. La sua architettura è difficilmente riconducibile ad un filone preciso e coerente di pensiero e, di fatto, la volontà di Ito non è quella di seguire una sola direzione di ricerca o di creare un proprio “stile” applicabile ovunque. Egli parte dallo studio della società dei consumi giapponese e dall’osservazione del contesto. Mentre nelle città occidentale esiste un disegno della città e delle strade e il contesto ha dei punti di riferimento precisi, le città come Tokyo si presentano come sistemi indifferenziati con caratteristiche urbane neutre e sempre diverse, che potrebbero continuare all’infinito in qualsiasi direzione. Gli edifici vengono demoliti velocemente e sostituiti da altri, con nuove funzioni e forme, in un arco di tempo di circa vent’anni, sempre modificando l’immagine della città senza mai cambiare il concetto di base: un sistema neutro e frammentario, privo di punti di riferimento precisi, tranne per i sistemi di trasporto e comunicazione. Se guardiamo anche alla tradizione giapponese, gli edifici venivano realizzati in legno, mai in pietra o in mattoni a causa delle difficili condizioni sismiche, e quindi abitualmente ricostruiti dopo breve tempo per usura dei materiali. Non esiste nella cultura giapponese un’idea di architettura piena e consistente fatta per durare. Toyo Ito sviluppa l’idea di un’architettura effimera come strumento migliore per raccontare questi non-contesti metropolitani. La consistenza materica dei suoi edifici è ridotta all’estremo, sfrutta le tecnologie per diminuire il dimensionamento di strutture e dettagli, fino quasi a farli scomparire, con ampio uso del vetro per astrarre gli edifici dalla loro materialità e per ricondurli ad una fragilità simile a quella delle installazioni temporanee. Chi avesse occasione di vedere gli edifici di Ito in città come Tokyo o Yokohama, ne trarrebbe un’impressione diversa da quella ricavata dalle stesse opere pubblicate. Agli occhi occidentali tali strutture dinamiche e leggere potrebbero apparire futuristiche ed immaginarie, perché immaginate in un contesto urbano europeo, ma nel loro contesto l’impressione sarebbe diversa: poiché lontane dalla cultura locale le opere di Ito creano leggere ed eleganti interpretazioni del non-contesto esistente.


Neutralità White U

White U, completata nel 1971 e demolita nel 1998, di Toyo Ito, Tokyo


La progettazione di Ito può essere divisa in due momenti principali: all’inizio della sua carriera progettava prevalentemente edifici residenziali o per uffici, fino al progetto per la sua casa, la Silver Hut (1984), che segna il punto di passaggio verso la seconda fase, quando gli arrivano le prime commissioni pubbliche e comincia a costruire a grande scala. Dopo le prime realizzazioni che risentivano ancora di un certo formalismo e dell’influenza degli stili architettonici, Ito inizia reagire alla complessità urbana in negativo, sviluppando un’idea di neutralità. Nella White U (1971), casa costruita per la sorella, inizia invece il processo di superamento di qualsiasi vincolo formale verso la neutralità di uno spazio omogeneo, senza fine. L’edificio piega su se stesso, senza finestre perimetrali sulle strade, aperto solo sulla corte interna, per non vedere la città. Reagendo alla complessità del contesto urbano e alla sua frammentarietà, lo spazio viene isolato ed interiorizzato nelle informalità di un volume bianco assoluto, in cui si perde ogni contatto con l’esterno. La negazione della forma recupera il sistema neutro di base su cui è fondata la città giapponese, e sul quale tutte le soluzioni architettoniche possono essere applicate e modificate al tempo stesso. Se si mantenesse pieno di una materialità concreta, l’edificio si proporrebbe come una soluzione troppo compiuta e duratura. La scelta, invece, di una forma neutra inserisce il progetto nella indifferente fluidità urbana che lo circonda, senza diversificarlo verso alcuna direzione precisa. Il fatto che la White U sia stata demolita nel 1998 simboleggia quasi la rapida natura mutevole nel contesto urbano senza alcuna affezione ai suoi elementi. La neutralità permette anche a Ito di proporre i suoi progetti non come una soluzione definitiva e conclusa, ma solo come uno dei momenti di passaggio di un percorso progettuale più ampio.


De-composizione Silver Hut

Silver Hut, modellino della casa di Toyo Ito completata nel 1984, Tokyo


Nei suoi primi lavori troviamo ancora un ordine compositivo, mentre a partire dalla Silver Hut, la de-composizione diventa lo strumento che Ito adotterà spesso nei suoi edifici per superare i vincoli di un volume definito. Non si tratta di una de-cotruzione bensì di una frammentazione in elementi compositivi separati e distinti. Il processo di de-composizione di Ito è finalizzato solo a una semplice astrazione e alla smaterializzazione del risultato. Nella Silver Hut il volume complessivo viene scomposto in una serie di coperture a volta formate da una struttura reticolare leggera in acciaio, lasciata sempre a vista. Ne deriva un edificio privo di una consistenza volumetrica generale, ma frammentato in elementi di copertura leggeri, pieni o trasparenti. Quando Ito applica il suo processo di decomposizione non troviamo nessuna netta demarcazione tra funzioni distinte o parti diverse, ma solo alla semplice libertà dell’effimero. Il decostruttivismo deforma sì i volumi ma ne mantiene la regolarità e la geometria. In questo processo di liberazione, anche l’idea di una facciata principale viene progressivamente abbandonata e i suoi edifici si svincolano anche da limite della gerarchia dei prospetti. Essa lascia a vista elementi strutturali o meccanici, abbandonando qualsiasi forma decorativa. La decomposizione viene applicata da Ito in due modi diversi: può incidere su tutta la volumetria del progetto, come nella Silver Hut, o solo sulla definizione degli elementi, come nella Mediateca di Sendai (2001), nella quale il volume generale resta unico, ma gli elementi che lo compongono vengono chiaramente differenziati, come le strutture, le facciate, le pareti che sono realizzate con materiali e con forme nettamente distinti. Operare dagli elementi porta ad un risultato più complesso e meno diretto rispetto alla scomposizione dei volumi, ma contribuisce ugualmente all’astrazione effimera del progetto.


Tecnologia e Architettura Tower of Winds Egg of Wonds

Toyo Ito comincia a farsi conoscere con la singolare Tower fo Winds (Torre dei Venti) a Yokohama (1986) e una serie di edifici pubblici per la città di Yatsushiro, nell’isola di Kyushu. La Torre dei Venti, alta 21 metri e situata al centro di una rotatoria vicino alla stazione centrale di Yokohama, è il nuovo guscio di una vecchia torre per impianti. Ito trasforma la cisterna in una sorta di scambiatore di informazioni, nell’idea di base un’architettura sostenible e reattiva capace di mutare costantemente. Una serie di pannelli specchianti ne costituiscono lo stato profondo, a contatto diretto con la vecchia costruzione, racchiusa in un cilindro a sezione ovale formato da pannelli di alluminio perforato che permettono ai sistemi di illuminazione posti nell’intercapedine di produrre una sorta di effetto caleidoscopico: di giorno le proprietà riflettenti dei pannelli di alluminio esaltano la semplice forma metallica cieca della torre; di notte 1280 lampadine e 12 anelli di luce al neon disposti verticalmente offrono un gioco luminoso di luci riflesse. La Torre dei Venti non muta però secondo i ritmi preconfezionati di un carillon meccanico, ma si modifica interattivamente seguendo il flusso della vita e delle situazioni, lungo il mutare delle ore del giorno e della notte. Trenta riflettori regolati da computer creano effetti di luce dentro la torre e la loro intensità e la produzione di altri fenomeni “ naturali” sono controllati, oltre che dall’ora, dal numero di decibel prodotti dal traffico circostante e dalla forza e dalla direzione del vento: la torre cangiante, dotata di autoparlanti, consente di sviluppare una musica ambientale, in cui gli input sono i rumori della città. La complessità delle insegne nelle strade attorno, degli spazi commerciali e delle automobili in circolazione si enfatizza nella scomposizione grafica della torre in stratti di linee e di punti di luce artificiale. Un monolito in cui il procedimento della de-composizione, iniziato con la Silver Hut, diventa questa volta verticale e dinamicamente elettronico. Come la Torre dei Venti, anche l’Egg of Winds (l’Uovo dei Venti,1989) a Tokyo sfocia nell’ambito artistico: un misto tra scultura urbana riflettente la luce di giorno e una galleria video nella strada di notte. Sui pannelli traforati dell’Uovo si sovrappongono immagini proiettate e riflesse della città, facendo diventare l’Uovo un elemento di scambio. Egg of Winds, completato nel 1989, Tokyo


L’inconfondibile impronta dell’era elettronica conforma il volto della Torre dei Venti di Yokohama e dell’Uovo dei Venti di Tokyo, che fanno propria la spettacolarizzazione dello spazio metropolitano anticipata da Blade Runner (1982).La semplicità della forma dell’edificio non è finalizzata a facilitarne la comprensione, bensì alla creazione di una base neutra sulla quale varie installazioni producono un oggetto complesso in continuo cambiamento. Non dobbiamo leggere progetti come “stili” futuristici, ma considerare la dimensione temporale di questi edifici-installazione sempre e solo presente. Non esistono, infatti, particolari modelli del passato nelle città nipponiche, tantomeno i modelli classici della cultura occidentale. Nella lettura realistica del non-contesto si trova ad agire, Ito fa sua la negazione giapponese del perdurare dell’edificio e la limitatezza al presente. E’ difficile ricondurre tali progetti ad una proiezione nel futuro che li appesantirebbe e ne limiterebbe la lettura. La loro precarietà e immaterialità li limita alla consistenza del presente, come le installazioni temporanee o gli allestimenti di breve durata. Con queste opere Ito si interroga sull’impatto che l’elettronica può avere sul mondo dell’architettura: Come il nuovo mondo sempre più dominato dalle informazioni e dai suoi flussi si esprime in architettura? Come le nuove potenzialità legate all’elettronica si possono tramutare e sfruttare in architettura?


Tarzan in the Media Forest

“Per loro parlare con gli amici al cellulare è come masticare una chewing gum; non è la bocca ma i timpani che vogliono stimolare. Ascoltando la voce dei propri amici continuamente, essi cercano di eludere la solitudine. Con la stessa intensità con cui i loro corpi necessitano dell’acqua e dell’aria, allo stesso modo necessitano del flusso di elettroni”

- Toyo Ito -

Ito è stato uno dei primi architetti a porre in maniera articolata la questione dell’elettronica come universo di riferimento per l’architettura del nuovo millennio. Uno dei suoi scritti più celebri, Tarzan in the Media Forest (1997), pubblicato nella monografia a lui dedicata della rivista 2G, nasce in concomitanza con l’elaborazione del progetto della Mediateca di Sendai (2001), frutto di un concorso internazionale, risalente al 1995 e di cui fu vincitore. Dovendo progettare una mediateca, che si identifica come affermazione dei media nel quotidiano, Ito innesca una riflessione sull’impatto tra l’uomo e i dispositivi elettronici, sul genere di sensazioni provate, aspetti che cercherà di tradurre in una nuova immagine architettonica. Ito fa riferimento al ki nella sua teoria, l’alone di vita che forma i corpi, di cui perdiamo memoria concentrati come siamo sulla nostra fisicità. E’ ciò che ci porta ad estendere la comprensione di noi al di fuori di noi stessi, in uno scambio continuo di energia vitale con il mondo intorno. Secondo l’architettetto giapponese i media elettronici, riconducendo ad una dimensione più estesa della nostra fisicità, e in qualche modo alterandola, riportano alla memoria un mondo che avevamo quasi dimenticato. In un certo senso, il flusso è coincidente a quello del ki, ed è questa forte relazione con una dimensione “vitale” che rende singolare la sua posizione sui nuovi media elettronici. Altro punto di riflessione è quella dell’autonomia del self. Il nostro io apparentemente isolato si collega al mondo esterno tramite i media e il concetto di interno ed esterno appare mutato, modificando i confini dell’essere umano e dell’individuo. La nuova tecnologia non è antagonista alla natura. Essa sta piuttosto creando un nuovo tipo di natura. Se la natura come la conosciamo noi può essere considerata reale, ora


questa natura artificiale probabilmente potrebbe essere chiamata virtuale. Noi contemporanei siamo provvisti di due tipi di corpo coincidenti a questi due tipi di natura: il corpo reale, che è connesso al mondo reale per mezzo dei flussi che corrono al suo interno, mentre il suo corpo virtuale è unito al mondo mediante il flusso degli elettroni. La comunità virtuale viene vista come una sorta di estensione del sè in un unico spazio privo di limiti fisici, che nasce dagli scambi tra individui, delinenado una forma di inteligenza collettiva che permette di spaziare illimitatamente. Internet è letto come forma di universale senza totalità, recuperando un piano democratico alla diffusione e gestione dei saperi. Un nuovo senso del comunitario in cui ogni utente della Rete si spinge oltre la propria individualità, ciascuno aggiungendo nuovi input a questa forma di democrazia online. “..gli abiti e le case sono estensione della pelle, che sin dall’antichità sono serviti ad adattare l’uomo all’ambiente naturale”

- McLuban Marshall-

Al delinearsi di universi nuovamente naturali, in cui si delineano gli elettroni come veri protagonisti, serve pensare un nuovo tipo di involucro, meno protettivo e più permeabile, poichè il rapporto interno/esterno viene continuamente messo in discussione dai media che permettono ad ogni istante di proiettarci fuori dalle nostre abitazioni, collegandoci al resto del mondo Quindi mura troppo spesse, accompagnate da geometrie euclidee che separano e distinguono, sono certamente poco adatte. Diversamente è più consono puntare su ambienti più soft e flessibili che agevolino lo scambio di informazioni, rendendo letteralmente possibile l’immersione nel flusso degli elettroni. Il concetto di utilizzare il vetro non come banale materiale high-tech ma come il miglior non-materiale è il primo passo nella ricerca di Ito della trasparenza e dell’effimero. Tutto diventa visibile e le parti serigrafati creano ambigui filtri translucidi che offuscano le relazioni tra gli interni e gli esterni. Le funzioni, i percorsi, le strutture dei suoi edifici vengono messi a nudo da grandi facciate trasparenti, che si fondono in una nuova materia fluida e dinamicamente omogenea, verso cui l’architetto giapponese tende. Da notare come spesso le immagini che Ito sceglie per la pubblicazione di molti suoi progetti siano sempre immagini notturne, per l’effetto di messa a nudo degli interni. Il vetro persegue lo stesso metodo progettuale iniziato con i pannelli forati della Torre dei venti: se di giorno, riflettendo la luce, contiene i confini di un volume semplice ed elementare, di notte scompare. Ito è affascinato dalla metafora dell’edificio acquario in cui, al di là della parete vetrata, si rivela un mondo. Gli elementi scatolari di vetro sono rienpiti dalla materia urbana. Crea monovolumi semplici e neutri e vi immerge forme o strutture diverse che caratterizzanol’immagine architettonica. La trasparenza annulla il limite di un perimetro regolare e la forma sembra non avere nè fine nè principio.


Mies, l’acqua e lo spazio fluido il Padiglione tedesco Mediateca di Sendai

Padiglione tedesco di Mies van der Rohe, completato nel 1929 e ricostruito tra il 1983 e il 1989, Barcellona


Da qui nasce l’idea di creare architetture che funzionino come veri e propri abiti mediali per un corpo digitalizzato e trasparente. Quale immagine per una mediateca, che si presenta come luogo di culto per i nuovi media? Prima è necessario ragionare sulla natura stessa della mediateca che già di per sè esclude soluzioni architettonicamente rigide. “Una mediateca, diversamente da una biblioteca, non può esistere come entità isolata. Essa non è altro che un nodo nella rete, uno dei suoi innumerevoli punti focali” - Koji Taki -

Un luogo senza confini in cui gli spazi si fondono tra loro, senza distinzione tra galleria, museo o libreria. Non una presenza simbolica in una piazza, bensì un luogo nei pressi, ad esempio, di una stazione ferroviaria, fruibile a qualsiasi ora da chiunque per servire il pubblico nella vita di tutti i giorni e relazionarsi con questo e la sua quotidianità. Ito accoppia all’interesse per i media elettronici e per tutto il mondo nuovo delle informazioni anche questo sentire profondissimo e leggero allo stesso tempo verso gli elementi della natura, verso il mutare delle stagioni, degli agenti atmosferici, del paesaggio con una caratteristica di leggerezza e allo stesso tempo con un sentimento quasi mistico del divenire e del mutare che ad altre culture è estraneo. Egli guarda l’operato di Mies van der Rohe con un misto di ammirazione e critica, in quanto esempio dei paradigmi del moderno che l’architettura giapponese vorrebbe superare. In particolare Ito si ispira alle sensazioni sprigionate dal padiglione Tedesco a Barcellona, che gli piacerebbe trasmettere con l’architettura della Mediateca, in relazione alla possibilità di creare un universo fluido, mai perfettamente inquadrabile in una forma precisa. Uno spazio che sembra colpirlo, non tanto per gli effetti di leggerezza prodotti, quanto per apparire come spazio della liquidità densa, la stessa sensazione che si prova quando si è immersi nell’acqua e ci si muove lentamente al suo interno. Uno spazio traslucido, che emana erotismo, perchè i tre materiali usati - pietra, cristallo e metallo - sembrano fusi insieme nei continui riflessi prodotti dall’acqua intorno. Un’architettura che sembra dilatarsi e rifrangersi ogni volta che lo sguardo si posa. La sua bellezza deriverebbe dal suo essere fatto solo di immagini, senza avere una forma definita.


L’acqua è anche alla base della Mediateca di Sendai e in essa emerge un sentire subacqueo e ondeggiante, in cui i grandi alberi strutturali si immergono in una struttura trasparente e sembrano muoversi ai flussi delle nuove informazioni elettroniche della Mediateca. I tralici che fanno da struttura ondeggiano come alghe e sono spazio, luce e forma di questo capolavoro della nuova architettura. La forma non sembra qualcosa di definitivo: un cubo trasparente di 50 metri di lato e 35 di altezza. L’immagine dominante è quella del mondo sottomarino, un mondo scolpito dalle correnti, che costantemente ad esse si adatta. Il sistema strutturale dell’edificio è immaginato con elementi irregolari e flessibili (le alghe già citate), un sistema aperto al flusso delle informazioni, che lo modellano come nodo della rete. Con tale intenzione i sostegno non sono pieni, bensì cavi che permettono metaforicamente l’intenso fluire dei media. Hanno un diametro che varia dai 2 ai 9 metri e possono contenere ascensori, scale e impianti. Inoltre, permettono alla luce naturale di essere diffusa ovunque. Il sistema strutturale è lasciato totalmente a vista, poichè la superficie dell’edificio è costituita da una doppia parete vetrata che controlla la temperatura dell’edificio e la copertura è attrezzata con dispositivi orientabili che regolano l’ingresso della luce convogliata lungo le cavità dei sostegni durante il giorno. Il tipo di geometria prodotta non rientra in alcun schema noto: si parte da un cilindro reticolare, realizzato con fasci di elementi tubolari in acciaio che viene prima sottoposto a torsione e poi deformato per oscillazione per meglio assorbire le sollecitazioni sismiche. Il sistema di sostegni irregolari, in cui la sezione viene continuamente variata, è intervallato da solai sottilissimi, posizionati ad altezze differenti, realizzati con lastre piatte di acciaio con strutture sandwich di soli 40cm. Questa a sua volta è formata da griglie di travi coperte da piastre di acciaio sopra e sotto. Tutti i piani della Mediateca contengono funzioni diverse, connesse tra loro visivamente dal reticolo di elementi tubolari, rivestiti di vetro esternamente. La successione dei piani viene accentuata dal design affidato a desiger differenti che danno vita a una successione di colori, forme e materiali diversi. Questa de-composizione verticale crea veri e propri strati di “materie” diverse che si Particolare di una delle colonne strutturali della Mediateca di Sendai, completata nel 2001, Sendai


fondono in un unico volume, ancora trasparente e fluido. PT _ pensato come un luogo di incontro, una piazza pubblica attrezzata di caffetteria, banco per le informazioni, punti vendita. IP _ una biblioteca per bambini dalle sedute nere di forma irregolare disegnate da

Kazuyo Sejima

II-IIIP _ Karim Rashid ha realizzato gli arredi caratterizzati da un rosso intenso, che

ritroviamo sia al piano terra sia al secondo e al terzo piano, i livelli occupati dalla biblioteca vera e propria. IV-VP _ dedicati alla galleria espositiva con gli arredi scultura di Karim Rashid VIP _ Mediateca dove l’atmosfera è miscelata dal tocco organico di Ross Lovegrove

con ambienti soft

Il sistema distributivo risente dell’influenza razionalistica di Le Corbusier: l’orditura delle colonne è sempre regolare e i piani sono liberi, senza nessun vincolo formale per poterli adattare a qualsiasi soluzione. Questa base modernista potrebbe far sorgere alcuni dubbi sulla ragione di certe forme organiche e sulla molteplicità dei materiali e delle forme usate, ma non si tratta di formalismo, bensì della ricerca continua verso la caratterizzazione e il rafforzamento del sistema neutro su cui si basa. La Mediateca di Sendai si pone come primo tentativo di Toyo Ito di creare un’architettura che sia in sintonia con la natura e interagisca con il mondo esterno; che si basi sul concetto di natura totalmente artificiale, da non figurarsi come antagonista della natura reale. Egli nutre l’interesse a tenere unite le due immagini: quella del mondo marino e la dimensione artificiale e densa prodotta dai media.


Toyo Ito e il Moderno

“Per come la vedo io, oggi esistono due tendenze generali: una ha un fondamento strutturale e potremo considerarla più obiettiva; l’altra ha una base plastica e quindi potremo definirla emotiva. Le due tendenze non possono essere mescolate. L’architettura non è un Maritni Cocktail”

- Mies van der Rohe -

Da Sendai in poi l’opera di Toyo Ito è caratterizzata dalla collaborazione con diversi ingegneri che lo aiutano a realizzare architetture sempre più lontane dal Moderno. Già in questo progetto l’intero sistema costruttivo tipo del Moderno viene messo in discussione, toccando tutti punti che ne avevano costituito forza e diffusione a vasta scala: la regolarità della griglia di base, intervallarsi dei vari piani ad altezze predefinite, il camuffamento degli elementi portanti nella finitura delle pareti di riempimento, la suddivisione dello spazio in ambienti, ecc.. Abbiamo già visto come il progetto della Mediateca generi una profonda distanza dai principi del Moderno a partire dalla singolarità dei supporti strutturali che rompono con l’immagine di architettura a cui eravamo abituati. I cilindri reticolari sembrano fuggire ad ogni logica di contenimento degli sforzi, in opposizione a quello che veniva dettato dal Razionalismo, cioè il contenimento all’interno dei pilastri e dentro a geometrie scatolari. “Era questo il fine del famoso aforisma di Mies “Less is More”, far si che la gente viva in un vuoto Cartesiano? La visione di professionisti impassibili, mai sudati, con lo sguardo fisso davanti al monitor di un computer in spazi totalmente separati dalla natura, potrebbe plausibilmente esserre l’ultimo, più astratto magnifico obiettivo del ventesimo secolo. Ma dietro tutto ciò che cosa c’è da vedere se non le rovine del Moderno persino privo di questi freddi maniaci del lavoro?”

- Toyo Ito Secondo l’architetto giapponese, il Moderno ha finito per rendere asfittico il campo di azione del progettista, poichè l’obiettivo principale è quello di semplificare, racchiudere, contenere ed organizzare in schemi la vita di tutti i giorni attraverso gli edifici. Modellino della stazione dei vigili del fuoco, completata nel 1995, Yatsushiro


Sostiene lo scopo di incidere con il progetto sul sociale. Rendere la vita più “pratica” ad ogni livello, fino a pensare all’atto costruttivo come un fatto di ragione, perfettamente identificabile in ogni parte, la cui estetica doveva scaturire dalla sola forza compositiva, lontana dal superfluo e dalle facili declinazioni del sentire. Ma va ricordato anche il segno lasciato da Le Corbusier nell’opera di Ito. Per raccontare le stratificazioni della città, i piani del moderno furono usati come strati bidimensionali sovrapposti parallelamente. Il concetto di plan libre viene ampliamente usato da Ito per definire i suoi spazi neutri. Il moderno, che superò gli stili precedenti con la semplicità razionale, lo aiuta a superare i vincoli formali e a raggiungere nuove forme. La neutralità si associa facilmente a qualsiasi funzione o dimensione. Nella stazione dei vigili del fuoco di Yatsushiro (1995), il modello di Ville Savoye (1931) viene recuperato per sovrapporre due strati di funzioni, con una plastica distinzione tra spazi aperti e spazi chiusi. Al piano terra lo spazio completamente aperto su pilotis ospita le aree di parcheggio e di addestramento dei pompieri e crea una continuità tra le strade e gli interni. Al primo piano si trovano gli spazi chiusi degli uffici e dei dormitori. Ambigue aperture ellittiche nel volume del primo piano ospitano i collegamenti verticali e creano componenti di quella che Ito definisce “trasparenza opaca”. Ito recupera anche il sistema Dom-Ino di Le Corbusier già in alcuni dei suoi primi edifici come la casa Umegaoka (1982), fino alla più recente T House di Yutenji (1999). “Date le attività più o meno previste in questo edificio, era lecito immaginare una sovrapposizione di alcuni piani e per fare questo Ito ha preso a prestito il modulo Dom-Ino di Le Corbusier. E’ così arrivato a concepire una stratificazione di grandi piani (50m x 50m) senza alcun dislivello”

- Koji Taki -

L’equivoco più grosso sorto intorno al progetto della Mediateca di Sendai è stato vederlo come un ritorno all’architettura moderna. In realtà non si trattava neppure della riscoperta del Dom-Ino come prototipo dell’architettura del prossimo secolo. Per Ito il Dom-Ino non era altro che un punto di partenza. I primi schizzi mostrano chiaramente la stratificazione di sette piani, ma gli intervalli tra questi non sono identici, venendo così a creare una variazione nel ritmo. Inoltre, i pilastri che collegano e sostengono i vari piani crescono tortuosi dalla base (Ito stesso aveva indicato nei primi schizzi “Pilastri che assomigliano ad alghe”). L’obiettivo di Ito era di decostruire il Dom-Ino con elementi fluttuanti, cercando di trasformare il Dom-Ino di Le Corbusier, geometrico e meccanico, in una specie di water cube, di struttura morbida come un fluido.


Superficie strutturale il Padiglione di Bruges Serpentine Gallery Omotesando per TOD’s Parco Grin Grin

Concept per l’Omotesando per TOD’s


Ora per Ito l’architettura è ancora legata alla creazione di una natura artificiale esattamente come a Sendai, ma l’obiettivo principale diventa quello di avvicinare l’uomo a ciò che rischia irrimediabilmente di perdere nell’eccesso di omogeneità del paesaggio urbano: trovare un “nuovo reale potere” della materia in architettura. “L’analisi strutturale basata sulla matematica non lineare sta permettendo di realizzare la fluidità instabile del moviento del corpo e il complesso equilibrio del modo di crescere delle piante nello spazio architettonico. [...] Questi ingegneri stanno creando strutture dalla complessa e dinamica interazione di forze - “architetture del corpo fluide”- che sembrerebbero state inconcepibili, irraggiungibili il secolo scorso”

- Toyo Ito -

L’affermarsi della così detta analisi della forma (basata su sistemi di calcolo non lineari) influisce sull’evoluzione dei metodi di progetto, ossia sul processo che permette di ricavare la struttura ottimale di un edificio direttamente dal disegno dell’architetto, in contrapposizione all’approccio sequenziale dell’analisi strutturale convenzionale e il concetto di superficie strutturale è uno dei risultati ottenibili. Essa comporta profonde innovazioni degli spazi interni dell’edificio e della relativa elaborazione plastica complessiva. La possibilità di distribuire gli sforzi principali sulla stessa superficie dell’edificio permette di liberare lo spazio interno dai noti sostegni puntuali e dalle travi per luci molto ampie; di gestire in piena autonomia il tema delle aperture e delle chiusure esterne, fino a rivedere il concetto di decorazione, che sarà possibile comprendere nella stessa superficie, fornendo all’architettura soluzioni formali non più catalogabili in uno schema preciso.


Pprimo esperimento sul concetto di superficie strutturale è costituito dalla realizzazione del padiglione di Bruges (2002), precedente all’esperienza londinese del Serpentine Gallery (2002). In tale occasione Ito lavora solo ed esclusivamente sul concetto di superficie, che piegandosi a U crea un passaggio, con una luce superiore ai 12,5 metri. Un semplice pannello alveolare di alluminio viene progressivamente rinforzato con fogli ovali dello stesso materiale che riequilibrano le sollecitazioni strutturali sulla superficie e, allo stesso tempo, ne cambiano completamente l’impatto all’esterno, grazie ad un disegno accattivante che condiziona i giochi di luce e ombra. Gli ovali sono collocati in modo equidistante ma in senso diagonale e in direzione opposte in ciascuna delle due pareti. Praticamente, usando lo stesso materiale in modo diverso viene creato contemporaneamente un motivo decorativo e la struttura del padiglione. Lo strato superiore è costituito, infine, da un foglio di policarbonato, che protegge il tutto. E’ così che una semplice superficie di partenza prende forma e spessore e diventa motivo di attrazione, delimitando uno spazio che è interessante fruire sia dall’esterno sia dall’interno. Inoltre, il padiglione, che sorge in prossimità del municipio di Bruges, è circondato dall’acqua e dagli alberi: tutti elementi che contribuiscono ad arricchire gli effetti ottici prodotti, passando dalla superficie levigata dell’alluminio alla trama dei pannelli, dando all’impressione di essere all’interno di un gioco di riflessi e di rimandi. L’uso del computer comporta un tipo di astrazione non più guidata dalla volontà di ripulire la visione del reale, liberandola da ogni incrinatura emotiva (secondo la filosofia del Moderno), ma arricchirla grazie alla possibilità di astrarre i segni più espressivi. L’obiettivo, per Ito, sembra essere quello di “tenere insieme” e non di “distinguere”, a partire innanzitutto dalla possibilità di riunire in un unicuum sorprendente forma e struttura degli edifici. Secondo Toyo Ito si deve evitare di trasformare l’architettura in un mero passatempo per grafici esperti di CAD più che di progetto e il giudizio non cambia se si considerano certe architetture plasticamente accattivanti, frutto dell’elaborazione al computer, che tuttavia non mettano in gioco la qualità degli edifici e della vita stessa al loro interno. In Padiglione di Bruge, completato nel 2002, Bruges


fondo, anche molti progetti realizzati a partire dagli anni ‘80 dal cosidetto post-modern si basavano sull’effetto di novità rispetto al passato puntando sulla pura elabirazione formale, che però ben presto ha finito per mostrare i propri limiti, poichè si agiva sulla superficie delle cose, ricorrendo quasi sempre alla citazione storica. Le archietetture di quel periodo hanno finito per aquistare una patina demodè piuttosto che costituire un passo in avanti. Ora appare evidente che impiegare esclusivamente i nuovi media solo per generare effetti scenici “singolari”, sia più che altro un grande spreco di energie, destinato a produrre novità nel breve tempo, che a lungo andare stancherà gli utenti. Dopo l’esperienza dei cilindri irregolari con Sasaki (Mediateca di Sendai), è la volta di Balmond, l’ingegnere di Arup. “Come l’acqua che assume tutte le posizioni, Ito, con il suo flusso mentale, sembra essere impaziente di assimilare tutte le forme e di costruirle Da sempre affascinato dall’autonomia formale presenta in natura, Ito non ricerca una forma costante ma piuttosto l’energia di una linea in relazione all’energia di un’altra linea, cosa che egli persegue come ratio o tempo congelato che racchiude i movimenti nello spazio”

- Balmond -

Per Balmond la geometria consiste sempre nelle tracce di punti in movimento, per tutte le forme, anche quelle più pure. Questa idea porta alla scoperta di forme singolari tramite l’applicazione di procedimenti sistematici di calcolo computerizzati alla infinita molteplicità dei punti in movimento, per individuare direzioni ed intersezioni lungo le quali convogliare le sollecitazioni strutturali. La struttura, quindi, diventa un momento specifico (bloccato) di un processo seriale, impronta o traccia, applicazione di algoritmo, e consente di percepire l’architettura in modo non statico.


Ogni anno sono diversi gli architetti che vengono chiamati dalla direttrice della Serpentine Gallery, Julia Peyton-Jones, a creare strutture temporanee per i mesi estivi. Protagonista del padiglione londinese di Toyo Ito è l’elaborazione dell’algoritmo di un quadrato che si espande mentre ruota. Come spiega Balmond, alla base vi è una formula elementare che prevede di congiungere una metà del lato di un quadrato con una terza metà del lato adiacente “Si tratta di una regola matematica che si trasformava in realtà come forma emergente. La regola l/2, l/3 produceva una struttura che era sia architettura che decorazione“

- Balmond -

Riprendendo tale sequanza si arriva a definire una trama fitta di linee che si intersecano e che costituiscono sia la superficie che la struttura del padiglione, secondo una delle idee iniziali di Ito: realizzare un volume, con un unico involucro, senza colonne nè divisioni interne. La forma in questione è un cubo bianco di 17,5 metri di lato che, in virtù del gioco di intersezioni viste, sembra essere fatto solo di linee di fuga e non possiede nessun elemento di sostegno al suo interno. Non vi sono nè porte nè finestre, ma una superficie continua che funziona come struttura e come decorazione e che comprende sia il perimetro del padiglione che la sua copertua e, infine, le differenti aperture. “L’abitudine a separare e a ordinare secondo categorie, è messa in discussione grazie alla svrapposizione: non ci sono travi o colonne nel senso convenzionale, non ci sono pareti nè tetto, il “dentro” è “fuori” e viceversa. Il modello è aperto e lascia spazio a domande e ipotesi”

- Balmond -

Dal punto di vista strutturale le linee individuate dall’algoritmo si materializzano in lastre piatte di acciaio con una profondità di 55cm e con uno spessore che varia in funzione dello sforzo strutturale da sopportare. Le barre sono state saldate in fabbrica e vengonno poi assemblate sul sito. La struttura definisce anche i pieni e i vuoti, che vengono riempiti con vetro e lastre in alluminio. Ito osserva che questo padiglione è ancora architettura ma al tempo stesso non lo è. Pur accogliendo le funzioni indispensabili all’attività delle persone, non ha colonne, nè finestre, nè porte, cioè manca ogni connotazione architettonica. “Nel modo in cui si condidera la geometria: qualcosa di static, oppure, un movimento momentaneamente bloccato e tradotto in una forma”

- Balmond -

Padiglione estivo per la Serpentine Gallery, completato nel 2002, Londra


Il padiglione si integra perfettamente nel parco, in uno scambio di rimandi tra esterno ed interno, quasi una sfida alla bellezza tra i due mondi, un dialogo performativo che diviene architettura. Gli elementi vetrati, così come quelli vuoti, filtrano pezzi di cielo o di cielo e alberi insieme, mentre i riflessi di luce creano la giusta penombra e predispongono alla conversazione. L’esperienza del padiglione temporaneo realizzato a Londra è ora messa a frutto nella costruzione permanente dell’Omotesando per TOD’s (2004), dove ad essere protagonista è la natura: una serie di alberi sovrapposti che caratterizzano l’involucro dell’edificio, definiscono allo stesso tempo la struttura in cemento e gli effetti decorativi. Ito immagina un tale disegno debba avvolgere lo spazio come una pellicola sottile, diramata sotto forma di energia materica, così da rendere percepibile una certa differenza tra l’essere all’interno di un tale sistema di vita, o al contrario di osservarne lo sviluppo all’esterno. Araya, l’ingegnere che collabora a questo progetto, cerca di capire come le sollecitazioni statiche avrebbero potuto fruire in un tal complesso network di rami incrociati. Ito decide di utilizzare il cemento per distinguere l’edificio dal contesto costruito circostante, nel distretto Shibuya, popolato di imponenti costruzioni vetrate destinate allo shopping, ricorrendo, tuttavia, ad un suo impiego completamente innovativo. Piuttosto che creare una muratura massiccia dove le aperture bucano la parete piena, Ito unisce insieme i concetti di opacità e di trasparenza, riducendo lo spessore del cemento a 30 cm, così da creare una superficie piatta, in continuità con quella prodotta dai vetri di chiusura, montati a filo senza telaio. Si passa così dal concetto di struttura muraria a quello di superficie muraria in cui il diagramma strutturale è fatto di linee che assumono spessore e che segnano la superficie piana dell’edificio. Tutto questo grazie ad un tipo di geometria lineare, che rende l’idea dell’albero come un organismo con un’intrinseca razionalità strutturale in una serie di silhoutte sovrapposte, come l’incarnazione di flussi di forze in una geometria di forme libere ma non arbitrarie (astrazione del naturalismo). La superficie strutturale permette di ottenere uno spazio interno libero da qualsiasi sostegno, con una luce che varia da 10 a 5 metri. I sette piani su cui si sviluppa l’edificio contengono gli spazi destinati alla vendita, gli uffici, uno spazio multifunzionale per eventi e, all’ultimo piano, una sala riunioni e un giardino pensile. L’importanza di questo progetto nasce anche dalla forza con cui, in un certo senso, l’immagine simbolica degli alberi si impone nel panorama circostante, vivendo di una vita propria, come un albero che trae sostentamento dalla linfa accumulata. I rami stilizzati sembrano tendersi e avvolgere lo spazio interno, rimandano direttamente a una superficie che tiene e preserva la bellezza della vita come qualcosa di prezioso, che riusciamo a intravedere dalle 270 aperture ricavate. Un processo di astrazione dell’essenza stessa della natura nelle sue forme più caratteristiche, permesso dalla computer technology, dal risultato davvero sorprendente


Nel caso del parco Grin Grinn di Fukuosa (2005), non si parte dall’analisi dell’elemento naturale come per l’edificio Omotesando, ma è la superficie ad essere piegata e conformata per assumere una valenza naturale: un paesaggio ondulato di lievi declivi e colline percorribile in superficie, che contiene funzioni di svago e di riposo: nella superficie totale di 5000 mq, sono compresi tre giardini di inverno di 900-1000 mq, pensati per godere delle piante, per leggere libri, fare colazione, in un contatto totale con la sfera naturale. “Il nostro primo gesto fu quello di sovrapporre l’immagine di una serie di circoli (ondulazioni) e si distendevano dal Central Park per coprire l’intera isola. Questi ampi circoli diventano crateri e avvallamenti che alterano impercettibilmente la topografia della Green Belt che circonda il Central Park.[...] l’architettura non è stata concepita come un oggetto autonomo, ma piuttosto si confonde con gli avvallamenti della topografia, presentandosi come forma continua che si sviluppa liberamente a spirale”

- I-Project in Fukuoka 2004 -

Siamo di fronte ad una concezione formale completamente nuova poiché la superficie si sviluppa in piena libertà nel paesaggio in una successione di dolci ondulazioni, che la rendono parte integrante dello stesso. Anche questa volta viene usato cemento armato, conferendo ad esso un genere di proprietà a lui “impropria”, apparendo simile a un tessuto adagiato sul terreno. L’architettura sembrerebbe solo un pretesto per arrivare a sposare il paesaggio, entrando con esso in una relazione di grande intimità: si passa dall’interno all’esterno naturalmente si può risalire la collina e ridiscendere a valle un movimento armonico, senza interruzione. per ottenere un simile risultato, è stata adottata la cosiddetta Shape Analysis by Optimization e come spiega Sasaki, l’ingegnere coinvolto nella realizzazione del parco, è un processo che permette di trovare direttamente la struttura ottimale e la forma che soddisfa i parametri di progetto dello spazio desiderato, procedendo in senso opposto all’analisi strutturale convenzionale che, prima di passare alla simulazione, prevede di adattare le forme pensate dall’architetto ad un preciso schema strutturale. “Si usa la meccanica strutturale come metodo di design integrato. Partendo dal concetto che una forma strutturale consista nella propria geometria e in un determinato comportamento meccanico, tra i due esiste una interrelazione fissa: se la geometria della struttura cambia, il suo comportamento meccanico cambierà di conseguenza. tale relazione implica la necessità di percepire organicamente sulla struttura generale quando si crea la forma strutturale”

- Sasaki -

Parco Grin Grin, completato nel 2005, Fukuosa


La superficie viene trattata con un pezzo continuo di stoffa da modellare, adattato alle esigenze di progetto. Lo studio realizzato mediante simulazioni al computer è servito a porre l’attenzione alla pressione e alla deformazione della superficie. Ciò ha permesso di creare forme ottimali che si presentano come alterazioni incrementali. “Sono stati realizzati tre gusci con le aperture centrali alternate in una sequenza convesso-concavo che descrivono qualcosa di simile a una spirale, allontanandosi dalla nota tipologia “a guscio”. Lo studio per la tripartizione del guscio è diventato modello visibile nel rendering, che poi è stato misurato per digitalizzare i dati e per produrre, infine, la simulazione strutturale.il risultato è la possibilità di esprimere un tipo di spazio davvero dinamico”

- Toyo Ito -

Non vi è nessuna differenza tra pareti e copertura, come tra i due lati della superficie, creando così spazi tridimensionali continui “Ito sembra effettivamente sempre impaziente di avere nuove ipotesi da verificare in virtù degli strumenti informatici a disposizione.”

- Balmond Difatti, lavorano per aggiustamenti successivi, come nel caso del parco “Grin Grin” e dell’edificio per TOD’s, le idee vengono fissate, e piano piano prendono una forma. L’abbattimento delle distanze tra l’idea originale e la vivida idea di un edificio rende il processo progettuale più intimo, un genere di intimitàche si può provare seguendo passo dopo passo la nascita di un progetto al computer, la cui performatività permette di scandagliare i fenomeni a distanza ravvicinata, e in ogni più piccola parte. E’ come se il concetto di dettaglio, tanto caro alla cultura progettuale del Moderno, venisse esteso all’interno del progetto. All’interno di questo rapporto intimo si può cogliere anche un altro genere di intimità: quella dell’edificio con il luogo. Ito parla anche di nuovo regionalismo, ossia della capacità di un progetto di aderire maggiormente alle caratteristiche geografiche del territorio perché legato ad una genesi specifica, e non il frutto di schemi prefissati e adattabili ovunque. Ciascuna soluzione è differente dalle altre e dà origine a qualcosa di diverso. “..liberare il cubo dalla sua sorda identità di spazio regolare e regolato da un sistema geometrico di tipo lineare; fissare l’immagine avvolgente della natura; celebrare un certo protagonismo del mondo naturale, il suo essere fatto di scoperte continue, di scorci preziosi, di affacci improvvisi, di pause e di contrappunti; infine, creare dal nulla un gioco di visioni e di sensazioni.”

- Patrizia Mello -


Griglia emergente Berlin/Tokyo - Art of Two City Forum per la musica, la danza e l’arte Opera House

Installazione di Toyo Ito per la mostra “Berlin/Tokyo - Art of two city”, tenutasi nel 2006 nel la Neue Nationalgallerie, Berlin


Nel giugno 2006 si presentò un’occasione davvero unica: l’allestimento della mostra “Berlin-Tokyo/Tokyo-Berlin. The Art of Two City”, all’interno della Neue Nationalgallerie di Berlino (1968), l’edificio di Mies van der Rohe, considerato un vero e proprio tempio della geometria Euclidea del XX secolo. Opera matura del maestro, colpisce certamente per l’austerità della massiccia copertura in acciaio, che ricopre il volume cubico vetrato sottostante e domina il tutto. Questa geometria suggerisce a Ito di intervenire con un effetto quasi paesaggistico, grazie alla creazione di una serie di avvallamenti che inondano il pavimento della galleria e rimandano alla vaghezza del mondo naturale, offrendo un’occasione unica agli artisti per esporre le proprie opere. Perché, dunque, ho progettato un simile avvallamento? Perché volevo trasformare il pavimento piatto di Mies e rendere soft la rigida perfezione del suo sistema a griglia. [...] volevo dissolvere la sua modularità regolare, trasformare il suo pavimento in colline ondulate. Non per distruggere lo spazio di Mies o per opporsi ad esso, ma semplicemente per provare a mutare l’orientamento. Una gomitata verso ciò che ora definisco “grigla emergente” - Toyo Ito In effetti, superare la rigidità del sistema a griglia resta uno degli obiettivi di Ito, per uscire definitivamente da certi rapporti de percezione dello spazio architettonico, creare una situazione multisensoriale, di maggiore complessità visiva.


Il progetto non realizzato del Forum per la Musica, la Danza e la Cultura visiva di Gent, in Belgio, frutto di un concorso del 2004 rappresenta un esempio di uso di griglia emergente. Dalla collaborazione con Andrea Branzi e l’ingegnere Araya nasce l’idea per la creazione du un luogo ove il suono sia il vero protagonista. Ito crea un volume che ne prefigura la diffusione, da un capo all’altro dell’edificio. Si tratta di uno spazio tridimensionalmente continuo, dove “ingressi” ed “uscite” diventano concetti obsoleti: l’edificio non ha un fronte o un retro essendo penetrabile da più parti; gli ambienti, tutti tra loro interconnessi, avvolgono il pubblico in un movimento di espansione che si modifica ai diversi livelli, quasi fosse il suono a modellarli. Ma alla base di tale casualità c’è il concetto citato di griglia emergente. Il progetto parte, innanzitutto, dalla distinzione tra gli spazi A, identificati come “ spazi sonori” destinati a contenere l’auditorium, diverse sale di prova e i workshop: e gli spazi B, una sorta di paesaggio urbano continuo con foyer, uffici, ristoranti ad altro ancora. Si passa da una griglia regolare dove vengono iscritti una serie di cerchi che rimandano alla suddivisione detta tra i due tipi di spazio. Se si procedesse ad una sovrapposizione regolare di spazi, positivi e negativi, pieni vuoti, avremmo una sorta di forma e contro forma perfettamente bilanciate. Spostando i centri dei cerchi e modificano la loro misura, evidentemente non vi è più simmetria tra le parti. In pratica, ad emergere è una nuova griglia che produce un sistema di spazi regolari. “Noi abbiamo soprannominato tutto questo “griglia emergente”: un sistema con cui una griglia uniforme viene manipolata per produrre un continuum di spazi con un involucro tridimensionale curvo; un metodo per trasformare semplici spazi regolari in spazi complessi, suscettibili di numerose variazioni, rigidi spazi inorganici in spazi organici flessibili” - Toyo Ito Inizialmente, prima che la griglia venga deformata, l’edificio ha in tutto sei piani di 3,8 metri di altezza. Ad ogni piano, il rapporto tra spazi sonori e spazi pubblici cambia a seconda delle funzioni. Gi ambienti sono suscettibili di ulteriori espansioni grazie all’utilizzo di pareti mobili che contribuiscono a modificare la percezione degli spazi, permettendo una varietà di configurazioni per le differenti performance musicali, e innescando una compresenza alquanto insolita. “Questa soluzione conduce ad una fluidità totale dello spazio, ma lo fa senza una sua precedente definizione o attraverso la coesistenza di spazi aperti e chiusi in una relazione di scambio e di misure variabili. Tutto questo è prodotto da un unico meccanismo generatore della forma che integra in modo organico struttura e sistemi di chiusura in una sola forma geometrica e materica.” - Cortés Modellino per il concorso del Forum per la musica, la danza e l’arte di Gent, tenutosi nel 2005


Non vi è, infatti, alcuna distinzione tra piani, pareti e copertura che si sviluppano in continuità come parte della stessa superficie, e non vi è tra quelli alcuna distinzione materica poiché la superficie è stata concepita come un involucro continuo di cemento armato di 30 cm di spessore. All’esterno, il Forum è avvolto in una pellicola di vetri che segnano sottilmente lo sviluppo in verticale dell’edificio, come per alludere ad una regolarità a tutti gli effetti una cancellata. “Nel progetto del Forum per la Musica, la danza e la cultura visiva di Gent, l’intera architettura è un insieme di condotti, come nel corpo umano. [...] se si pensa al corpo umano come parte della natura, come nell’epoca pre-moderna, il confine definitivo che separa l’interno dall’esterno perde significato. Percepiamo l’esterno quando siamo all’interno. Naturalmente c’è un interno fisico e un esterno. La cosa importante non è l’esistenza di un muro ma fondamentale percezione dello spazio” - Toyo Ito Lo stato creato esclude il concetto di delimitazione, rimandando ad un universo aperto all’esterno, che invita ad essere attraversato in una serie di rimandi architettonici che dispiegano l’idea del luogo, lasciandola libera di fluire. Come afferma lo stesso Ito, è come se gli elementi cilindrici che a Sendai segnano la Mediateca in senso verticale, ora interessino l’intero progetto a Gent, verticalmente e orizzontalmente, per creare uno spazio continuo in tutte le direzioni. Il concetto di griglia emergente viene ulteriormente affinato nel progetto della Metropolitan Opera House in fase di realizzazione a Taichung. Il concorso indetto nel 2005 riguarda ancora una volta la realizzazione di un luogo in cui il corpo, la musica, l’arte e lo spettacolo sono fusi insieme. Viene messa a frutto l’intera esperienza del Forum di Gent, accentuando l’idea di spazio scavato che si sviluppa in senso tridimensionale, con ampiezze differenti e con un più intenso rispetto al progetto precedente. Tutto sempre all’insegna di un rapporto di continuità tra esterno ed interno, per rendere il luogo più vivibile e legato al contrasto. “La geometria che è solo Euclidea non è geometria. Se si pensa al fatto che la geometria nasce come traiettoria di un punto, immediatamente si estende la possibilità di generare architettura. La vita fertile e l’astrazione prodotte dalla geometria non sono opposte ma tra loro correlate” - Toyo Ito -


Ito in continuo divenire


Concludendo l’obiettivo di Ito resta quello di realizzare “l’organico come metodo di lavoro”. Tramite questo è possibile immaginare nuove ipotesi di evoluzione dell’architettura, rimettendo in questione il tema fondamentale del rapporto tra l’uomo e gli spazi intorno, sia quelli artificiali delle metropoli sia quelli naturali. Oggi il contesto è quello caratterizzato dalla presenza-assenza delle nuove tecnologie elettroniche, che stanno cambiando gli orizzonti dei nostri mondi. Secondo Lévy, il virtuale si contrappone all’attuale e non al reale. A quest’ultimo, invece, si contrappone il possibile. Anche Gille Deleuze riprende il concetto, interessandosi al “rapporto tra l’attuale e il virtuale”. Passando per il virtuale, guardo alla realtà non come a qualcosa di già dato ma come a un processo in atto, che prefigura più soluzioni e risoluzioni dell’ambito reale (dunque il virtuale amplificherebbe il campo d’azione della realtà); soluzioni e risoluzioni che possono assumere, a un certo punto del processo, una loro attualità. È un metodo, quello di Ito, certamente tra molti, che induce ad un confronto ravvicinato con la realtà al fine di sperimentare, evidenziando il senso di attualità del progetto. Ad Ito non interessa costruire o progettare oggetti che possano durare in eterno. La sua architettura si compone di flessibilità, di continuo aggiornamento e divenite. Egli vuole concretizzare tappe di un percorso personale, al passo con i tempi e con la società mutevole, utilizzando ed intendendo l’architettura quale materia viva. Come scrivono Deleuze e Guttari, riprendendo L’archeologia del sapere di Michel Foucault, “l’attuale non è ciò che siamo, ma piuttosto ciò che diveniamo, ciò che stiamo diventando, ossia l’altro, il nostro divenir-altro. Il presente, al contrario, è ciò che siamo e proprio per questo, ciò che non siamo più. Dobbiamo distinguere non soltanto il passato dal presente, ma, più profondamente, il presente dall’attuale”.




Toyo Ito in date

Copertina di El Croquis 71


1941_Nasce a Seul, Corea del Sud, quando il paese era ancora sotto la dominazione giapponese 1965_Laurea la facoltà di Architettura dell’Università di Tokyo 1965-1969_Lavora presso Kiyonori Kikutake Architect and Associates 1971_Apre il suo studio Urban Robot (URBOT) a Tokyo Aluminum House, Kanagawa 1976_House in Nagano, “White U”, Tokyo 1979_Cambia il nome dello studio in Toyo Ito&Associated 1984_Silver Hut, House of the architect, Tokyo 1986_Towers of Wind in Yokohama, Kanagawa 1989_Guest House for Sapporo Beer Brewery, Hokkaido 1991_Yatsushiro Fire Station, Kumamoto 1996_Nagaoka Liryc Hall, Niigata 1997_Community Activities + Senior Citizens Day Care Center in Yokohama, Kanagawa Dome in Odate, Akita 1998_Notsuharu Town Hall, Oita 1999_T-Hall in Taisha, Shimane 2000_Agricolture Park in Oita Health Future Pavilion at Expo 2000, Hannover 2001_Sendai Mediatheque, Miyagi 2002_Leone d’oro alla Carriera alla VIII Biennale di Architettura di Venezia Brugge Pavilio, Brugge Serpentine Gallery Pavilion, London 2003_Shinonome Canal Court, Block 2 2004_Matsumoto Performing Arts Center, Nagano TOD’s Omotesando, Tokyo Concorso per il Forum di Gent 2005_Royal Gold Medal del Royal Institute of British Architects (RIBA) Island City Center Park Grin Grin, Fukuoka Mikimoto Ginza 2, Tokyo Relaxation Park, Torrevieja, Valencia 2006_Meiso no Mori Municipal Funeral Hall, Kakamigahara, Gifu Hospital Cognacq-Jay, Paris VivoCity, Singapore Mostra: Berlin-Tokyo/Tokyo-Berlin. The Art of Two City 2007_Tama Art University Library, Tokyo 2008_Sumika Pavilion, Tochigi Za-koenji Pubblic Theatre, Tokyo 2009_The Main Stadium for the World Games 2009 in Kaohsing, Taiwan R.O.C Facade Renovation, Suites Avenue Apartaments, Barcellona


Bibliografia

- Andrea Maffei, Toyo Ito - le opere e i progetti, Electa,Milano, 2001 - Cecil Balmond, Dalla retta alla rete, in “Casabella”, n.711, 2003, pag.6 - Cecil Balmond, Cecil Balmond meets Toyo Ito, in “a+u”, n.404, 2004, pag.46 - Favio Bianconi, Marco Filippucci, Paolo Verducci, Architetture dal Giappone - disegno, progetto e tecnica, Gangemi Editore, Roma, 2006 - Gilles Deleuze, L’attuale e il virtuale, in “aut aut”, n.276, 1996, pag.29 - Gilles Deleuze, Felix Guattari, Che cos’è la filosofia?, Enaudi,Torino, 1996 - Juan Antono Cortés, Beyond Modernism, beyond Sendai, in “El Croquis”, n.123, 2004, pp.35 - Koji Taki, A conversation with Toyo Ito, in “El Croquis”, n.123, 2004, pag.15 - Leonardo Benevolo, L’architettura nel nuovo millennio, Laterza, Milano, 2006 - Matteo Belfiore, Salvador Jhon Liotta, Trentasette domande a Toyo Ito, Clean Edizioni, Napoli, 2010 - Marco Biraghi, Storia dell’architettura contemporanea - 1945-2008, Enaudi,Torino, 2008


- Patrizia Mello, Intervista a Toyo Ito, in “Arch’it”, www.architettura.it, 2007 - Patrizia Mello, Toyo Ito Digitale - Nuovi media, nuovo reale, EdilStampa, 2008 - Pierre Lévy, Il virtuale, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1997 - Toyo Ito, Tarzan in the Media Forest, in “2G”, n.2, 1997, pag.122-142 - Toyo Ito, L’immagina dell’architettura nell’era dell’elettronica, in “Domus”, n.800, 1998 - Toyo Ito, The New “Real”: Toward Reclaming Materiality in Contemporary Architecture, in “Toyo Ito: The New “Real” ”, catalogo della mostra, Toyo Ito Exhibition Executive Committee, Tokyo, 2006 - Toyo Ito, Architettura o non-Architettura? L’architetto e l’ingegnere, in “Casabella”, n.711, 2003, pag.5

- “Mies van der Rohe, l’architettura non è un Martini Cocktail”, intervista di Peter Carter, in “20th Century”, primavera 1964, ora in “Casabella”, n. 741, 2006, pag.5 - “I-Project in Fukuoka”, in “El Croquis”, n.123, 2004, pag.294


Toyo Ito

Serena Maria La Placa matr. 755603 a.a. 2010/2011


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