Accademia di Belle Arti di Carrara
Diploma Accademico di II livello Scuola di Nuove Tecnologie dell’arte Prof. Domenico Quaranta
NUOVA POESIA VISIVA
Dalla Typewriter art alla poesia elettronica
Tesi di Serena Paoli Matr AMB101 Relatore Prof. Romeo Traversa A.A. 2019/2020 3° Sessione: febbraio 1
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Indice Introduzione………………………………………………………………………….............…….………...5 Capitolo 1: Gli Antenati della Poesia Visiva…………………………………….............………………..6 1.1 Typewiter Art…………………..………………………………………………………….......…..........7 1.2 I Calligrammi…………………………......................…………………………………........….....….16 Capitolo 2: Avanguardie storiche....…….……………………………………………….............……....21 2.1 Futursimo……………...................……………………………………………….............…………...21 2.2 Dadaismo.………………………………………………………………………………….............…..28 2.3 Surrealismo................................................................................................................................35 Capitolo 3: La Poesia Visiva in Italia………………………………………………………….................42 3.1 I temi..........................................................................................................................................43 3.2 Il linguaggio.................................................................................................................................46 3.3 Il collage......................................................................................................................................49 3.4 Altre tecniche..............................................................................................................................53 Capitolo 4: I successori della Posia Visiva……………………………………………….….............….57 4.1 Arte Concettuale.........................................................................................................................57 4.2 Post-Concettuale........................................................................................................................61 4.3 Poesia elettronica.......................................................................................................................64 4.4 La poesia oggi...........................................................................................................................69 Conclusioni……………………………………………………………………………………...............….72 Bibliografia……………………………………………………………………………………..............…...74
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Introduzione Capire i linguaggi che ci hanno preceduto ci aiuta a comprendere quelli contemporanei e magari, a crearne di nuovi. Ogni linguaggio possiede un personale codice comunicativo. Il linguaggio verbale ad esempio utilizza il codice verbale e adopera la parola. A volte però è impossibile esprimere ciò che proviamo con le parole e la scrittura ci sembra un mezzo inadeguato, per questo il linguaggio visivo è sempre stato molto importante nella storia dell’uomo. Per linguaggio visivo si intende la comunicazione di un messaggio attraverso l’utilizzo di un’immagine; ogni linguaggio contiene un codice personale comunicativo, che deriva dall’ambiente culturale in cui si è sviluppato. Il motivo della prevalenza dell’immagine sulla parola può essere ricercato nel fatto che quando si percepisce un oggetto o altro nella realtà, quello che rimane nella nostra mente altro non è che l’immagine. A questa immagine noi colleghiamo concetti, sensazioni, pensieri, un vero e proprio “bagaglio emozionale” che viene rievocato quando ricordiamo o rivediamo quell’immagine. Quando leggiamo o ascoltiamo, il nostro atteggiamento è quello di comprendere e decodificare ciò che stiamo percependo. Quando percepiamo un’immagine, invece, vengono attivate delle funzioni psichiche che sono connesse alle nostre esperienze precedenti e a ciò che ad esso è collegato. In sintesi, è molto più facile, più coinvolgente e più veloce essere attratti da un’immagine che ci dà una rappresentazione più immediata della realtà, che leggere o ascoltare delle parole. È infatti evidente che l’immagine disegnata è più antica della parola scritta (gli alfabeti erano ideografici prima di essere fonetici). Ma è meno chiaro se sia nato prima il linguaggio parlato o quello delle arti visive: pittura, scultura, architettura (anche una capanna di paglia, o l’arredamento di una caverna, sono opere architettoniche). Probabilmente lingua e arte sono nate e si sono evolute insieme: e spesso un’efficace combinazione di testo e di comunicazione visiva funziona meglio di quanto l’uno o l’altra potrebbero fare da sole. Ed è così che nasce un tipo di scrittura o per meglio dire, di poesia in cui significato e significante si fondono l’uno nell’altro: segno iconico e verbale raggiungono così la stessa finalità tecnica. Stiamo parlando della Poesia Visiva (o Poesia Visuale) e che trova le sue origini nelle sperimentazioni letterarie e artistiche delle neoavanguardie. A partire dal movimento Dada e dal Surrealismo (e anche dal Futurismo), la scrittura viene utilizzata come mezzo efficace per evocare un significato, e come metafora di un atteggiamento verso il fare artistico. In realtà esempi di ricerche verbo-sivive (o verbo-visuali) si trovano già nei calligrammi di Guillame Apollinaire, dove un rovescio di parole diventa scrittura e immagine, traendo spunto dalla tradizione poetica antica vicina a Callimaco. Parallelamente, già dalla fine del 1800, nacque la Typewriter Art: gli artisti appartenenti a questa corrente producevano opere d’arte usando esclusivamente la macchina da scrivere: geometrie di lettere e caratteri che si inseguivano sul foglio, per produrre forme astratte o reali: la tipografia diventava anche arte visiva, non più semplice veicolo di contenuto. La Poesia Visiva successivamente si è evoluta di pari passo allo sviluppo tecnologico, fino ad arrivare, tra gli anni 80 e 90, alla Poesia Elettronica che integra testo poetico e arte dei nuovi media (videoarte, digital art, net art, installazioni, ecc.). La ricerca di nuovi rapporti tra parola e immagine è iniziata molto tempo fa ed in questa tesi cercherò di riassumerne le tappe fondamentali fino ad arrivare ai giorni nostri.
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Capitolo 1: Antenati della Poesia Visiva Storicamente, ogni metodo di utilizzo delle parole è stato trasformato in un metodo per creare arte. Nel medioevo, ad esempio, gli artisti in quello che oggi è il Medio Oriente hanno usato elaborate calligrafie per trasformare testi religiosi in immagini. Le lettere, i grafemi, infatti, oltre ad avere un senso e un suono legato alle convenzioni linguistiche, sono anche segni tracciati sul foglio (ed è dalle immagini, d’altra parte, che derivano: come la lettera A deriva dall’ideogramma della testa di un toro).¹ Ed essendo segni, sono leggibili anche come immagini, al di là del significato semantico che possiedono. Se n’erano già accorti i miniatori medievali quando trasformavano il capolettera in una piccola opera d’arte figurativa basandosi sulle forme geometriche delle varie iniziali. Il nostro alfabeto, se da un lato proviene dagli ideogrammi, non ha la stessa immediatezza visiva delle grafie orientali. Tuttavia, nella disposizione delle lettere si può realizzare una composizione figurativa.
Sopra: evoluzioni della lettera A attraverso i secoli. Sotto: Vari esempi di capolettera
1 In origine in queste varie culture per “scrivere” messaggi venivano usate immagini realistiche, veri e propri disegni di oggetti (la casa, il grano, il cammello …) chiamati oggi pittogrammi. Queste immagini si sono progressivamente semplificate ed asciugate fino ad essere sostituite da un segno fonetico che ha perso la funzione rappresentativa, pur conservandone un pezzetto. Nel caso della A originariamente nei reperti si vede l’intero animale, poi solo la testa, poi un segno con le corna.
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1.1 Typewriter Art In Italia si ha notizia di una macchina da scrivere funzionante nei primi anni del XIX secolo (si chiamava The Hansen Writing Ball ² e fu rilasciata al pubblico nel 1870). E ben presto prese il suo legittimo posto tra le grandi invenzioni della tecnologia delle comunicazioni del diciannovesimo secolo a fianco al telegrafo, al telefono, alla fotografia e al grammofono e si guadagnò un posto di rispetto nelle case più ricche. Com’è il caso in ogni rivoluzione culturale, gli artisti si sono affrettati ad appropriarsi di questo apparecchio per divulgare il proprio messaggio. La prima artista che divenne celebre per l’utilizzo che ne fece, apparentemente rigoroso, fu Flora FF Stacey, una stenografa britannica (considerata una dei pionieri di questa corrente artistica) con il suo disegno di farfalla del 1898 grazie a cui vinse un concorso artistico, 17 anni dopo il debutto della prima emoticon. Tali concorsi non erano rari poiché i produttori e i primi sostenitori cercavano di entusiasmare il pubblico e sentirsi a proprio agio con questa nuova tecnologia: l’esplorazione creativa, dopo tutto, è il più grande canale per la sua adozione. Annunciando uno di questi inviti a presentare proposte per Fancy Work on a Typewriter, un documento di Syracuse citava Stacey come un esempio per i partecipanti: “Flora Stacey, una donna inglese, ha fatto dei lavori straordinari disegnando a macchina e dalle sue esperienze, che non hanno eguali, i concorrenti possono trarre alcune utili indicazioni”. Stacey, infatti, aveva sperimentato la “battitura a macchina” per diversi anni prima che il suo disegno a farfalla la catapultasse in fama internazionale, così come altri artisti. La prima edizione del Manuale per macchine da scrivere di Pitman, pubblicata nel 1893, includeva diversi esempi di ornamenti tipizzati
Flora FF Stacey, Senza Titolo, 1898
2 L’invenzione fu attribuita al reverendo Rasmus Malling-Hansen. La macchina da scrivere fu esposta in una grande mostra industriale a Copenaghen nel 1873, alla mostra mondiale a Vienna nel 1873 e all’Esposizione Universale di Parigi. Durante tutto l’anno 1870 ha vinto numerosi premi.
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che un operatore di macchine da scrivere poteva usare per abbellire il suo lavoro. Sebbene Stacey possa aver prodotto ben più arte della macchina da scrivere prima della sua famosa farfalla, nessuna di queste è conservata e la lastra anonima del manuale del 1893 è ora considerata il primo esempio registrato di “arte della tipizzazione”. E così nacque la Typewriter Art (in cui ‘typewriter’ significa ‘macchina da scrivere’): i tasti di questo macchinario divennero possibilità espressiva, non solo per incidere/imprimere frasi sui fogli ma per ideare opere sorprendenti. Le opere che ne risultano sono ritratti, paesaggi, ma anche figure estremamente complesse, i cui contorni si delineano grazie all’accostamento dell’inchiostro che crea giochi di chiaro-scuro. Naturalmente a differenza dei lavori digitali³ la grande difficoltà della typewriter art è l’impossibilità di cancellare: una volta digitato un segno non si può tornare indietro. Ecco che la creazione di un disegno, anche il più semplice, richiede uno studio attento di simboli e spazi. Il volume Typewriter Art: A Modern Anthology di Barrie Tullett³, ed edito da Laurence King, racconta la storia di questa particolare forma artistica attraverso un ampio materiale illustrativo che copre quasi 130 anni di storia. Trovano spazio anche interviste con alcuni degli artisti contemporanei più importanti del settore. Il libro si rivolge a progettisti grafici, tipografi, artisti e illustratori e a chiunque sia affascinato dalla tecnologia pre-digitale. Il libro raccoglie in 276 pagine (divise in quattro capitoli)
Pagine dal manuale di Barrie Tullet, Typewriter Art: A Modern Anthology, Londra, Laurence King Publishing, 2014
3 Barrie Tullett è Senior Lecturer in Graphic Design presso la Lincoln School of Art and Design, e co-fondatore di The Caseroom Press, casa editrice indipendente di libri d’artista con sede a Lincoln ed Edimburgo. Come graphic designer freelance ha lavorato, tra gli altri, per Canongate Books, Princeton University Press e Penguin Books.
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attraverso 180 illustrazioni, diverse idee geniali di artisti più o meno celebri fino ad arrivare a contemporanei typewriter artists e fotografi che usano la macchina da scrivere come elemento chiave per i loro lavori. Si parte dai primi esperimenti fino ad arrivare ai giorni nostri: una sorta di cronaca della macchina da scrivere che incontra nuovi usi e dimensioni, allontanandosi dalla sua funzione principale. Tullett nota il percorso non convenzionale intrapreso dai primi praticanti dell’arte della macchina da scrivere: “Le opere sopravvissute di questo periodo della storia dell’arte della macchina da scrivere sono state create da persone con esperienza in studi di segreteria piuttosto che in arte. Sebbene non abbiamo dettagli storici sulla loro vita, la loro educazione artistica dovrebbe essere presumibilmente limitata a ciò che era stato loro insegnato a scuola.” L’autore del volume indica al lettore le funzioni base della macchina da scrivere e la terminologia corretta per ogni sua parte (una piccola guida ad uso e consumo di chi è nato nell’era del computer in sostanza). Un altro interessante libro deve essere citato. Infatti negli anni ’30 è Julius Nelson, insegnante di battitura alla Windber High School di Windber in Pennsylvania e artista, che diffonde maggiormente questo tipo di arte, pubblicando anche un volume sui processi creativi che permettono di realizzarla, con il titolo di Artyping. Il volume spiega come utilizzare la macchina per scrivere per realizzare ritratti, cornici, decorazioni e grafiche. Le illustrazioni dell’autore spaziano da ritratti dettagliati a figure stilizzate e disegni di bordi decorati, e oggi sembrano molto simili all’arte ASCII⁴ nata durante la prima era dell’informatica. Elencando alcuni dei suoi vantaggi, scrive: 1. Aiuta manipolare in maniera più esperta tutte le parti della macchina 2. Aiuta a far nascere il desiderio di realizzare un lavoro più ordinato 3. Favorisce l’interesse per gli hobby degli studenti 4. Allevia la monotonia 5. Dà riconoscimento a quegli studenti che sono abbastanza bravi dattilografi, ma che non hanno la velocità necessaria per qualificarsi nei concorsi di dattilografia in cui la velocità è l’obiettivo principale. E poi ciò che segue è un’incredibile serie di sezioni che insegnano a chiunque, dal principiante al dattilografo esperto, come creare un bordo, ritagli, lettere, disegni a punto croce e persino carta intestata. Nelson ha sponsorizzato il “Concorso di tipizzazione artistica” per più di dieci anni, attirando più di mille voci in alcuni anni, secondo i rapporti dei giornali. E alla fine degli anni ‘40, aveva accumulato 12.000 esempi di arte della macchina da scrivere. Ci sono ritratti, come quello di seguito, di Lincoln, che Nelson nota “è stato realizzato colpendo più di ventisei volte. Sono state usate tutte le lettere dell’alfabeto”. La penultima pagina del libro di Nelson si avvicina infine agli “usi dell ‘” artyping “. Cita il disegno del bordo, newsletter, volantini, monogrammi, carta intestata, e poi lascia che il sogno si insinui alla fine. 4 L’arte ASCII è un mezzo artistico che si basa principalmente sui computer come supporto di presentazione; consiste di immagini prodotte componendo i 55 caratteri ASCII. Il termine viene usato inoltre per indicare altre forme artistiche basate sull’uso di caratteri tipografici in generale. Immagini d’arte ASCII possono essere create con ogni editor di testo, e sono talvolta usate in combinazione con i linguaggi di programmazione per produrre programmi per computer il cui testo forma un disegno o una immagine.
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Pagina 10 dal libro di Julius Nelson, Artyping, Pennsylvania, The Gregg Publishing Company, 1939
L’opuscolo termina con l’esortazione che “come la raccolta di francobolli, la ‘tipizzazione artistica’ può facilmente trasformarsi in un hobby redditizio”. Un manuale simile è Il libro di Typewriter Art⁵ di Bob Neill (con un programma speciale per computer) del 1982. All’interno si possono trovare istruzioni dettagliate per creare affascinanti ritratti di tutto, dalla famiglia reale britannica ai gatti siamesi e persino al Kojak.
5 Il suo contenuto è interamente una guida fai-da-te per creare l'arte della macchina da scrivere ed è molto simile alle riviste di computer dei primi anni '80 come Byte che includerebbe programmi BASIC. Qui, invece del codice del computer, ci vengono date lettere dattiloscritte come codice. E infatti, il libro include un'appendice con un programma Microsoft BASIC per la creazione di un "Prince Charles Portrait", programmato per il PET Commodore.
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Gli artisti di cui parlano questi manuali e da citare sono molti, ma mi soffermerò solo su alcuni di loro. Il primo è Steve McCaffery (nato il 24 gennaio 1947) poeta e studioso canadese, professore alla York University: i suoi esperimenti con la disintegrazione/reintegrazione del linguaggio iniziarono a metà degli anni ’60. I due pannelli del Carnival prodotti tra il 1967 e il 1975, sono tra i pezzi più significativi della Typewriter Art/ Poesia Concreta⁶ / Poesia Sonora mai prodotti. Il testo chiede ai lettori di distruggere il libro strappando le sue pagine vicino alla spina dorsale, e quindi di assemblare il “pannello” disponendo le pagine in un quadrato di quattro. Ironia della sorte, si deve distruggere il libro per leggerlo. Carnival offre ai lettori un ruolo produttivo non solo perché chiede loro di manipolare fisicamente il libro, ma anche perché le istruzioni del testo non indicano il modo preciso in cui i pannelli devono essere riassemblati. Ci sono sedici pagine di “typestract” o arte astratta della macchina da scrivere nel primo pannello (non incluse le copertine, l’introduzione, il foglio errata e la cartolina con le istruzioni per la lettura). Come sottolineano McCaffery e il suo collega bpNichol nel loro articolo di collaborazione del 1973: “Carnival è un libro anti-libro, le pagine devono essere strappate dalla sequenza e visualizzate contemporaneamente nel più grande insieme composito. Il lavoro richiede che il linguaggio sia impegnato in modo non sequenziale piuttosto che in sequenza”. L’autore lo vide essenzialmente come un “progetto cartografico”; un ripudio della linearità della scrittura e la ricerca di una sintassi alternativa nella ‘mappatura’. Il lavoro si è sviluppato e cresciuto in tutti e due i pannelli per acquisire complessità tipografica, passando dalla semplicità delle maschere rosse e nere di un nastro per macchine da scrivere a forme letterali colorate, carta carbone, fino a forme più complesse. Un terzo pannello digitale è stato concepito nel 2012. Con McCaffery, i materiali della scrittura vengono esplorati in relazione al modo in cui la poesia vie-
Steve McCaffery, I Panel Carnival, 1967-975
6 La poesia concreta è un fenomeno a diffusione mondiale iniziato nei primi anni cinquanta quasi in diretta continuità rispetto alle diverse esperienze della sperimentazione poetico-letteraria delle avanguardie" del principio del Novecento. In questa grande area della poesia concreta si situano ricerche più specifiche e circoscritte, come la poesia visiva (che integra immagini e parola), la poesia sonora (che sperimenta con il suono e la voce), la poesia performativa, spesso legata alla poesia sonora, che vede il poeta in scena modulare variamente la voce e il gesto.
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ne sia prodotta che percepita. Il poeta utilizza il mezzo tipografico come mezzo per formalizzare la relazione della poesia con il tempo e lo spazio, concentrandosi in tal modo sui modelli che emergono da vincoli narrativi, insieme a quelli che determinano la composizione della pagina e del libro. Quando McCaffery immagina che il lettore costruisca una nuova sequenza per Carnival , riconosce se stesso e i suoi lettori come soggetti unificati, poiché sia il lettore che lo scrittore sono soggetti allo sguardo e alle coordinate culturali che definiscono la soggettività; in effetti, Carnival guarda il lettore/scrittore, stimolando così il loro desiderio inconscio. Il foglio di istruzioni di Carnival afferma che il primo pannello è “sedici piedi quadrati di cemento”, ma questa affermazione è falsa pubblicità. Poiché ciascuna delle sedici pagine misura effettivamente solo undici pollici per otto pollici e mezzo, il contenuto effettivo della confezione è inferiore al numero pubblicizzato sull’etichetta. Chiamando apertamente in discussione le affermazioni di verità della pubblicità attraverso questa contraddizione, Carnival fornisce un primo esempio delle critiche mosse da McCaffery al media commerciale. Assemblato, il lavoro scorre dentro e fuori l’astrazione sia a livello testuale che visivo. Le lettere sono separate dalla lingua, ma poi ritornano in essa. Le forme sono solo parole, ma tornano a forma mentre l’occhio continua a muoversi attorno al lavoro. È un flusso lavico di simboli, a volte indurendosi in rocce di significato in un modo o nell’altro. Dom (Pierre-) Sylvester Houédard (16 febbraio 1924 - 15 gennaio 1992) noto anche con le iniziali dsh (o “The Dom”), era un sacerdote benedettino all’Abbazia di Prinknash nel Gloucestershire, teologo e noto poeta. I suoi poemi visivi astratti, noti come Typestracts (combinazione delle parole “macchina da scrivere” e “astratto”, termine coniato dal suo amico poeta Edwin Morgan⁷) pubblicati all’inizio degli anni ’60 in formato A4 e vennero digitati su una Olivetti Lettera 22⁸. Man mano che queste poesie si sono evolute, sono diventate sempre più astratte, poichè Houédard cominciò ad attribuire maggiore importanza all’impatto visivo dei caratteri dattiloscritti. Piuttosto che dichiarazioni dadaiste, Houédard credeva nel potere trasformativo delle sue disposizioni basate sulla parola per suscitare connessioni linguistiche, visive e spirituali: visto in questa luce, il suo uso del linguaggio è specifico, il suo lessico è un cumulo di segni, materia e significati, di solito senza lettere maiuscole e scarso rispetto per la grammatica. Il suo tempo trascorso in servizio durante la seconda guerra mondiale e l’esperienza come impiegato amministrativo possono indicare una possibile origine del suo interesse nell’uso sovversivo della macchina da scrivere. Trovando nelle sue funzioni la possibilità di visualizzare il linguaggio in modo da alleviare le parole della loro funzione burocratica, Houédard costruì un piano pittorico e modellò la loro disposizione visiva. In tal modo, le parole non venivano più interpretate come significanti linguistici in senso convenzionale, ma venivano invece assorbite dalla forma e da uno stato autoreferenziale che apriva uno spazio più fluido per l’interpretazione. In questo flusso di poesie combinava associazioni di parole conscie e inconscie con personaggi fortemente condensati e tratti chiave sovrapposti e questi poemi erano spesso pieni di frasi evocative e di vocaboli relativi ai suoi studi su molte tradizioni mistiche.
7 Edwin George Morgan (27 aprile 1920-17 agosto 2010) è stato ampiamente riconosciuto come uno dei poeti scozzesi più importanti del 20 ° secolo. 8 La Lettera 32 è una macchina per scrivere portatile prodotta dalla Olivetti e commercializzata a partire dal 1963. Progettata dall'architetto e designer Marcello Nizzoli e ideata come erede della Lettera 22, la 32 fu molto popolare tra giornalisti e studenti ed ebbe un grande successo commerciale in tutto il mondo.
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Le sue tavolozze di colori per lo più blu, rossi e neri evocano gli artisti Mondrian e De Stilji che hanno usato l’astrazione per elevare le loro opere d’arte verso lo spirituale. È stato una figura influente all’interno dei movimenti artistici internazionali dell’epoca, componendo partiture per eventi per John Cage e Yoko Ono⁹, fondando il collettivo di poesie concrete Gloup & Woup, partecipando al movimento di mail art e collaborando con altri. Nelle sue opere dattiloscritte è stato in grado di riflettere le avanguardie delle arti cinetiche, ottiche e dei modelli internazionali, superando i limiti meccanici del mezzo attraverso uno spettro di nastri colorati per macchine da scrivere. A metà degli anni Settanta aveva abbandò molte delle sue attività esterne per dedicare più tempo all’abbazia e alle sue ricerche e scritture sulla teologia. “Vedo i miei caratteri tipografici come icone che raffigurano domande sacre - doppie sonde spaziali di interno ed esterno ... probabilmente dovrebbero essere viste come tracce di nuvole e ondulazioni di marea - schemi di felci e voli di gabbiani - o semplicemente come orizzonti e livelli di spirito”. Dom Sylvester Houédard (1972)
Dom Sylvester Houédard, Typestract 110464, 1964
9 John Cage (5 settembre 1912 – 12 agosto 1992) e Yoko Ono (18 febbraio 1933) appartengono al movimento Fluxus, un collettivo artistico d’avanguardia che, tra anni 60 e 70, tra Berlino e New York, si propone di “fondere le tendenze rivoluzionare in campo sociale, politico e culturale in un fronte d’azione unitario”.
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Paul Smith (21 settembre 1921 - 25 giugno 2007) era un talentuoso typewriter artist americano affetto da una grave paralisi cerebrale spastica che gli impediva di frequentare la scuola e di essere autosufficiente a causa della perdita del controllo motorio del viso e delle mani. Inoltre la sua malattia gli ha reso molto difficile esprimersi e utilizzare il linguaggio per manifestare le sue emozioni ed esigenze: non riusciva ad utilizzare normalmente carta e penna, perciò quando da ragazzino scoprì la macchina da scrivere, la digitazione dei tasti divenne per lui la più soddisfacente forma espressiva, che continuò ad utilizzare e perfezionare fino al 2004.¹⁰ Paul Smith per creare le sue opere teneva premuto il tasto “shift” con una mano e con l’altra utilizzava i simboli nella parte superiore dei tasti numerici (@ # $% ^ & * () _). In breve tempo fu in grado di creare immagini molto complesse ed estremamente dettagliate, fin dalla giovane età di 15 anni, fino ad arrivare a produrre quasi 400 opere dattiloscritte raffiguranti animali, treni, nature morte e scene di guerra oltre ai ritratti del Papa e di Madre Teresa. Moltissime immagini dell’autore ritraggono anche barche e navi, proprio in ricordo e in memoria delle innumerevoli gite che faceva con la sua famiglia in barca sul fiume Delaware e successivamente a Bermuda. Sebbene lavorasse su una macchina, il suo processo era tutt’altro che meccanico. Ha escogitato una tecnica di ombreggiatura, in cui preme il pollice sul nastro per applicare inchiostro ai disegni.
Paul Smith, Senza Titolo, 1999
10 Paul Smiths ha dato via molte delle sue opere originali e a volte, manteneva le copie delle sue creazioni per i propri “record” personali.
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Tra le più interessanti artiste contemporanee che ancora oggi usano la macchina da scrivere c’è Keira Rathbone (nata nel 1983) è ritenuta la diretta discendente artistica di Paul Smith e riesce a creare ritratti formidabili e paesaggi dettagliatissimi utilizzando lettere e linee della tastiera. Si esibisce soprattutto in performance dal vivo dove sorprende il pubblico creando disegni con la sua macchina, mentre alcune delle immagini che produce diventano stampe per t-shirt.¹¹ Rathbone ha iniziato a sperimentare questo “tipo” d’arte quando era alla sua università. Ha acquistato una vecchia macchina da scrivere da un mercatino delle pulci con la speranza che presto l’avrebbe usata per scrivere qualcosa. Il tempo è passato prima che decidesse di usarla come strumento di disegno perché la scrittura non funzionava così bene. Il suo primo pezzo si è rivelato promettente e ben presto ha capito che avrebbe potuto esplorare questa nuova forma d’arte molto di più. L’artista è stata ispirata da immagini composte da parti costituenti più piccole, che si tratti di pixel di uno schermo TV o di punti di colore in un dipinto. Ha emulato questo con il suo lavoro e afferma che offre allo spettatore diverse prospettive a seconda di come stanno guardando le opere: “Mi piace che il mio lavoro abbia significati diversi da diverse distanze”. L’arte della macchina da scrivere è l’antenata di tutto ciò che va sullo schermo: la televisione, il monitor del pc, lo Smartphone.
Keira Rathbone, Senza Titolo (Bonnie Greer Obama Music Book Cover), 2009
11 Ancora oggi Keira rathbone continua a creare opere su commissione per clienti privati e anche per pubblicazioni.
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1.2 I Calligrammi “Per me un calligramma è un insieme di segno, disegno e pensiero. Esso rappresenta la via più corta per esprimere un concetto in termini materiali e per costringere l’occhio ad accettare una visione globale della parola scritta”. G. Apollinaire Un coup de dés n’abolira jamais le Hasard (= Un colpo di dadi mai abolirà il caso) è una poesia di Stéphane Mallarmé (18 marzo 1942 - 9 settembre 1898) grande poeta simbolista, apparsa nel 1897 sulla rivista Cosmopolis e poi pubblicata nel 1914 in La Nouvelle Revue française. È uno dei primi poemi tipografici della letteratura francese. In questo componimento poetico, la versificazione non segue un’impostazione grafica tradizionale ma si disloca nello spazio a volte con un andamento a gradini, spesso a blocchi collocati sulla destra, a volte sulla sinistra rispetto al centro della pagina, creando suggestivi effetti spaziali che influenzano la lettura del testo conferendo una certa drammaticità ai versi stessi. Un esempio di caligramma, uno dei primi, da parte di uno dei più importanti esponenti del simbolismo francese¹². Si tratta di testi poetici distribuiti lungo un’immagine legata al contenuto stesso (ma può capitare che la forma generi un senso che si oppone al testo). L’origine della parola è dalla contrazione di calligrafia e ideogramma: la parola composta significa “bei caratteri”, riprendendo l’aggettivo greco kalòs (bello) e il sostantivo gramma (che significa “carattere alfabetico”). I primi calligrammi conosciuti appartengono ai poeti greci del periodo ellenistico (secolo IV-III a. C.). Questo modo di raffigurare la poesia veniva chiamato in greco technopaegnia e in latino Carmina figurata. Ricordiamo autori come Teocrito, Dosiada, Simia di Rodi, Optaziano Porifirio e Publilio. L’operazione di Mallarmé con Un coup de dés introduce un elemento che merita di essere menzionato: la non linearità della lettura. Potrà apparire cosa banale nell’epoca dei millenials, avvezzi alla navigazione in rete ed alla lettura di ipertesti, ma Mallarmé svincola il lettore dal dovere di scorrere il testo una linea alla volta, dall’estrema sinistra all’estrema destra. A ben vedere, si è di fronte ad una specie di ossimoro: la poesia è fatta di parole e di
Stéphane Mallarmé, Un coup de dés n’abolira jamais le Hasard, 1897
12 Il simbolismo è un movimento culturale sviluppatosi in Francia nel XIX secolo che si manifestò nella letteratura, nelle arti figurative e di riflesso nella musica. Sebbene manifestazioni di arte simbolista si siano avute anche prima, convenzionalmente si fa coincidere la data di nascita del Simbolismo con la pubblicazione del Manifesto del Simbolismo del poeta Jean Moréas.
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suoni; la sua nascita precede addirittura la scrittura ed è dunque una forma d’arte fatta per l’ascolto, forse più vicina alla musica che non alla pittura o alla scultura. Eppure questa apparente dualità incomincia ad essere messa in discussione già con quest’opera che si può senz’altro considerare come l’origine della Poesia Visiva e di tutte le ricerche affini. In questa composizione, il poeta si occupa della distribuzione delle parole sulla pagina, degli spazi da lasciare vuoti, della scelta dei caratteri tipografici e del loro spessore; in sintesi, l’aspetto visivo della poesia, cioé il modo di presentarsi sulla pagina, assume un’importanza senza precedenti. Nel 1918, a conclusione del primo conflitto mondiale, Guillaume Apollinaire (26 agosto 1880 - 9 novembre 1918) ispirandosi a Stephane Mallarmé, fa uscire Calligrammes, Poèmes de la paix et de la guerre (1913-1916). Assegnato, quale sottotenente, alla 45.ma batteria del 38° Reggimento di artiglieria, è di stanza a Champagne. A partire da maggio 1915, sotto il fuoco degli obici, programma una piccola raccolta delle sue poesie più recenti e riesce persino a stamparne alla bene in meglio una sessantina di copie col titolo di Case d’Armons. Il processo tipografico lascia a desiderare, per cui costringe i compagni d’arme a ritoccare a mano le imperfezioni di ogni copia. Lui interviene con aggiunte e ripensamenti. Queste poesie, anticipano l’opera vera e propria che vedrà la luce nel 1918. Nell’arco del biennio 1914-1916, il poeta realizzò e spedì all’amata Louise de Coligny-Châtillon ¹³ («Lou», l’affettuoso nomignolo) una serie di missive “calligrammate”; la prima delle quali,disegnata su foglio ed inviata da «Gui» alla sua donna,conteneva la lirica dal titolo “Lou”; nelle cui vene fluiva sangue nobiliare (era contessa), venne conosciuta nel 1914 dallo scrittore in un ristorante di Nizza, destinata a diventare la “regina che verrà amata di un amore nuovo”. Ad ella furono dedicate poesie accompagnate da lettere pervase di struggente lirismo, in esse traspariva una relazione sublimata, non vincolante:«Sii libera, non voglio forzarti a nulla, nemmeno a farti amare».
Guillame Apollinaire, Saignante flèche, 1914
13 Il suo vero nome è Geneviève Marguerite Marie-Louise de Pillot de Coligny, nacque il 30 luglio 1881 a Vesoul e morì il 7 ottobre 1963 a Ginevra (Svizzera). Nel 1912 aveva respinto Guillame Apollinaire.
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Dall’amicizia con i pittori cubisti (Picasso, Braque) nasce in lui la volontà di creare una nuova scrittura dal gioco con lo spazio della pagina. Nei Calligrammi sperimenta la poesia visiva unendo lettere, parole e frasi in disegni complessi. La lettura tradizionale della poesia, secondo assi lineari (dall’alto al basso, da destra a sinistra) diventa impossibile. I Calligrammi segnano il limite valicato tra poesia e arte e scuoteranno il mondo delle arti visive quanto quello della letteratura. Il fulcro dell’opera è il lasciare piena libertà di scelta di interpretazione al pubblico, il quale, tra le righe di quelle parole deve decidere attivamente cosa diventare, se lettore o osservatore. Un intento, quello di Apollinaire, di stimolare la fantasia dello spettatore ponendolo davanti a collegamenti reali ed immaginari che inevitabilmente hanno finito per influenzare poeti, scrittori, artisti e musicisti che hanno sperimentato nei più disparati modi il mondo della parola col mondo del visivo e per fino del suono. In una lettera indirizzata ad André Billy,¹⁴ Apollinaire commenta «Per quanto riguarda i Calligrammi, sono una idealizzazione della poesia dai versi liberi e una precisione tipografica nel momento in cui la tipografia è in procinto di concludere brillantemente la sua carriera, all’alba dei nuovi mezzi di riproduzione che sono il cinema e il fonografo» Per la verità la tipografia, con le veloci linotype, si sta aprendo anch’essa alla tecnologia, ma il poeta ignaro di ciò si mostra sedotto da altre innovazioni industriali che legano parola, suono, immagine. E pensa che questi nuovi mezzi espressivi possano influenzare la sua stessa poesia, attraverso artifici come l’eliminazione della punteggiatura, l’abolizione della metrica, l’esultanza del verso libero,
Guillame Apollinaire, Calligrammes. Poèmes de la paix et de la guerre, 1913-1916.
14 André Billy (13 dicembre 1882 - 11 aprile 1971) fu uno scrittore francese.
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la meraviglia grafica del calligramma. Parole che divengono immagini o immagini che divengono parole. Apollinaire lo fa a ridosso degli anni Venti e, come il Futurismo, esalterà il “movimento” quale parola chiave della sua poetica: il movimento come simultaneità dei punti di vista che può offrire un foglio bidimensionale. Il testo poetico non deve limitarsi a descrivere la forma dell’elemento protagonista, ma esprimere un sentimento, un’emozione legati alla forma disegnata. I Calligrammi sono componimenti caratterizzati da un fervente sperimentalismo, che porta alla frammentazione del discorso poetico e all’accelerazione del ritmo. Molti dei versi traggono ispirazione dalla cronaca e dall’attualità più provocatoria ed indisponente al fine di spingere la forma verso una libertà totale, assoluta, che più avanti sarà prerogativa delle avanguardie dadaiste. Il calligramma sfida l’ordine positivistico e razionale del reale, indagando le molteplici possibilità offerte dalla pagina bianca e ricercando nuovi significati e nuovi orizzonti con cui interpretare il presente. Le nuove tecnologie (il cinema, l’illuminazione elettrica, l’autobus a vapore, la macchina, il telegrafo…), e conseguentemente la diversa percezione dello spazio e del tempo, portarono l’uomo a osservare se stesso e il mondo con occhi nuovi, forse più critici ma anche curiosi. Con la poesia visuale il ruolo della lettura subisce quindi un profondo cambiamento, e il lettore riceve e crea al tempo stesso un significato. Tuttavia, mentre al lettore moderno è richiesto un impegno attivo e sociale, l’erudito antico si limita a ricercare un piacere intellettuale, sfidando i propri compagni nell’interpretazione del componimento. Da un punto di vista grafico si può definire il calligramma in vari modi: testo che definisce una sagoma disponendosi sul contorno di essa, testo all’interno di una sagoma, testo all’esterno di una sagoma; naturalmente ogni combinazione fra le varie modalità è possibile. Questo genere poetico si inserisce nel filone della poesia visiva del Novecento e insieme alle esperienze del Futurismo e del Dadaismo¹⁵ manifesta la volontà di superare gli schemi linguistici e letterari tradizionali e sperimentare nuove forme di libera espressione. La parola e il senso del discorso si scompongono e si ricompongono in una immagine dalla forma compiuta. Non occorre spiegare alcunché, perché il rapporto con il lettore è istantaneo. L’immagine è già nei suoi occhi perché il libro espone raffigurazioni. Gli artisti che seguiranno coglieranno interamente la lezione.
15 Il Futurismo nasce nel 1909 a seguito della pubblicazione del Manifesto del Futurismo di Marinetti. Il Dadaismo invece nasce nel 1916 a Zurigo grazie all'artista Tristan Tzara.
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Capitolo 2: Avanguardie Storiche All’inizio del XX secolo, l’evolversi della civiltà industriale, l’avvento delle macchine, il rinnovamento del pensiero dovuto tra l’altro alle nuove scoperte scientifiche, lo sviluppo delle comunicazioni e la conquista del volo, operano una profonda trasformazione nella società europea: è l’era del dinamismo, dell’attivismo, del trionfo delle macchine, dell’audacia e a volte anche della violenza, che danno alla vita un ritmo febbrile. Le arti intendono esprimere questa nuova frenesia, e per farlo devono dimenticare ogni insegnamento e protendere verso il futuro: bisogna allora distruggere ogni legame con il passato, simboleggiato da musei e biblioteche e creare un’arte che sia in grado di cogliere la realtà nel suo continuo divenire, di riprodurre la velocità e la potenza delle macchine, di cogliere non gli oggetti ma il loro moto vorticoso.
2.1 Futurismo «[lo] stile analogico è […] padrone assoluto di tutta la materia e della sua intensa vita. / […] Per avviluppare e cogliere tutto ciò che vi è di più fuggevole e di più inafferrabile nella materia, bisogna formare delle strette reti d’immagini […] lanciate nel mare misterioso dei fenomeni. […]/ Noi inventeremo ciò che io chiamo l’immaginazione senza fili».¹⁶ Il Futurismo è un movimento artistico italiano dell’inizio del XX secolo, nonché la prima avanguardia europea, ed ebbe influenza su movimenti affini che si svilupparono in altri paesi dell’Europa (in particolare in Russia e Francia), negli Stati Uniti d’America e in Asia.¹⁷ I futuristi esplorarono ogni forma di espressione, dalla pittura alla scultura, alla letteratura (poesia e teatro), la musica, l’architettura, la danza, la fotografia, il cinema e persino la gastronomia. La denominazione ufficiale del movimento si deve al poeta italiano Filippo Tommaso Marinetti (22 dicembre 1876 – 2 dicembre 1944). Si tratta di un gruppo di artisti che intendono rompere con il passato con lo scopo di portare avanti le loro aspirazioni: l’amore del pericolo, l’essere temerari, l’abitudine all’energia; celebrano la guerra (definita “sola igiene del mondo”) e dichiarano di essere contro la tradizione per combattere il moralismo e il femminismo. La “violenza travolgente e incendiaria” del movimento vuole svecchiare l’immaginario estetico e rivolgersi, come fonte d’ispirazione privilegiata, ai nascenti miti della modernità: la “bellezza della velocità” e dell’automobile, (preferita alla Nike di Samotracia, come afferma Mario Morasso nel suo La nuova arma, 1905), il treno, la motocicletta, le folle del gran pubblico della Belle époque. Come i mezzi, anche le città industriali erano considerate tali, a conferma dell’idea che era avvenuto quello che loro definivano il “trionfo tecnologico” dell’uomo sulla natura. Quindi i caratteri fondamentali di questa poesia sono la ribellione, il coraggio e l’audacia e tutto ciò che è in movimento; esaltano la modernità e soprattutto la bellezza della velocità. Il manifesto ufficiale è il Manifesto del Futurismo pubblicato da Marinetti sul quotidiano parigino Le Figaro nel 1909, seguito dal Manifesto tecnico della letteratura futurista del 1912. In quest’ultimo l’autore traccia le
16 Filippo Tommaso Marinetti, Manifesto tecnico della letteratura futurista, Milano, Direzione del Moviemnto Futurista, 1912, pp. 48-49, 53. 17 Anche se non c’è una vera fine del Futurismo, visto che ancora oggi ci sono pittori futuristi, si considera che il movimento termini verso la fine degli anni venti, anche se la vera energia del Futurismo cominciò a perdersi con l’inizio della prima guerra mondiale.
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linee essenziali della poetica futurista che si sintetizzano nella necessità di distruggere la sintassi tradizionale: abolire l’aggettivo, l’avverbio e la punteggiatura, usare il verbo all’infinito, usare l’analogia in modo generalizzato (esempio: uomo-torpediniera, donna-golfo, folla-risacca, ecc) e impiegare segni musicali e matematici. «Bisogna introdurre nella letteratura tre elementi che furono finora trascurati: 1) il rumore (manifestazione del dinamismo degli oggetti); 2) il peso (facoltà di volo degli oggetti); 3) l’odore (facoltà di sparpagliamento degli oggetti)… Solo il poeta asintattico e dalle parole slegate potrà penetrare l’essenza della materia e distruggere la sorda ostilità che la separa da noi…».¹⁸
Prima pagina del Manifesto tecnico della letteratura futurista, F. T. Marinetti 1912
18 Tratto dal Manifesto tecnico della letteratura futurista, F.T. Marinetti, 1912.
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Da questi principi e regole nasce lo stile letterario delle Parole in Libertà (detto anche Paroliberismo) in cui le parole che compongono il testo non hanno alcun legame sintattico-grammaticale fra loro e non sono organizzate in frasi e periodi. Questa tecnica viene esposta e definita da Marinetti anche in due successivi manifesti: Distruzione della sintassi-Immaginazione senza fili-Parole in libertà e Lo splendore geometrico e meccanico e la sensibilità numerica (1913-1914). Un esempio di utilizzo di parole in libertà è dato dal libro Zang Tumb Tuuum. Zang Tumb Tuuum (questo è il titolo corretto riportato nel frontespizio, non Zang Tumb Tumb come appare in copertina) è un’opera letteraria del futurista italiano Filippo Tommaso Marinetti e viene considerata la prima opera parolibera. Venne pubblicata nella primavera del 1914, dopo essere apparsa sulla rivista Lacerba nel 1913 con il titolo Adrianopoli Assedio Orchestra e nello stesso anno anche sul manifesto L’arte dei rumori di Luigi Russolo, senza titolo, come esempio di poesia rumorista. In queste due pre-pubblicazioni, tuttavia, l’aspetto tipografico del testo è piuttosto tradizionale, appena vivacizzato dall’uso di corsivi e neretti, mentre nell’opera finale l’intera impaginazione viene ripensata. In questo poemetto, l’autore esalta la crudeltà della guerra (vista come evento liberatorio, capace di purificare) attraverso il racconto dell’assedio di Adrianopoli durante la prima guerra balcanica, a cui Filippo Tommaso Marinetti assiste come corrispondente di un quototidiano francese. Il libro è un insieme di 228 pagine in cui vengono utilizzati metodi di stampa particolari, inserendo caratteri tipografici di varie dimensioni, nonché grassetto e corsivo, creando in tal modo un effetto visivo in grado di riportare il lettore al centro della battaglia del 1912. Il testo, dal forte carattere visivo non segue regole grammaticali, ortografiche e punteggiatura e vengono impiegati moltissimi termini onomatopeici (difficilmente comprensibili) per riprodurre i suoni della guerra nella maniera più oggettiva e fedele possibile. Non descrive, perciò, ma raccoglie con ossessiva attenzione le impressioni, le immagini, i suoni e i colori di una giornata di guerra. Le forme sulla pagina imitano lo sconquasso provocato dai bombardamenti. Notiamo infatti che Filippo Tommaso Marinetti in questa poesia non utilizza la punteggiatura, ma anzi preferisce inserire le varie parole liberamente e in maniera sregolata, badando più a come avrebbero risuonato nella lettura. Accanto alle strane espressioni troviamo pure la parola “vampe” che l’autore avrebbe usato per riportare l’immagine delle luci e degli scoppi fatti dale artiglierie durante la guerra. Tra parentesi, in maiuscolo, sono presenti delle didascalie, che forniscono indicazioni sulla velocità delle azioni e sui tempi di lettura, come se si trattasse di uno spartito musicale. Sempre tra parentesi troviamo invece la funzione degli spazi bianchi tra le parole, che coincidono alle pause e ai silenzi. Testo, immagine, colori, materiali, tutto è finalizzato a coinvolgere il lettore non in una semplice lettura ma in una esperienza sensoriale, mettendo in moto più che l’intelletto la fantasia e l’immaginazione senza fili.¹⁹ Quando Filippo Tommaso Marinetti utilizza termini come “taratatatatata” per la mitragliatrice, il lettore ha esattamente nelle orecchie un rumore preciso, che tra l’altro è uguale per tutti: infatti rievoca comunemente il rumore di una mitragliatrice in qualunque parte del mondo; anche DON-DAN-DONDIN è riconosciuto ovunque come il suono delle campane, e BEEEE è il verso di una pecorella in Italia come in Giappone. La genialità della letteratura futurista dunque, risiede nella sua “universali-
19 Distruzione della sintassi-Immaginazione senza fili-Parole in libertà del 1913, è fondata su un uso estremo dell'analogia e dell'onomatopea per restituire sulla pagina l'effetto bruto e immediato del rumore e sulla posizione del poeta che dovrà allacciare, cose tra loro lontane, senza fili conduttori, bensì per mezzo di parole essenziali in libertà.
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Pagine dal libro di F. T. Marinetti, Zang Tumb Tuuum, Milano, Edizioni futuriste di Poesia, 1914
tà”: Marinetti non ha solo trovato il modo di tradurre in parole le sensazioni uditive, ma ha soprattutto trovato il modo di tradurle in maniera immediata e in una lingua universale, quella del rumore-suono. L’utilizzo di veri e propri “rumori” al posto delle parole è la tecnica che diventerà propria di un altro genere ‘letterario’, il fumetto, qualche anno più tardi.²⁰ È questo che distingue Zang Tumb Tuuum dalla poesia di Mallarmé: l’intento di quest’ultimo, anch’esso cruciale e concentrato sull’importanza della costruzione tipografica, è opposto a quello di Marinetti: in Mallarmé il rapporto fra testo e pagina tende a un ordine e a un equilibrio essenziali, giocato sul filo del nulla, una sorta di liberazione dal tedio della vita: il libro rimane contenitore di un pensiero. Marinetti dichiara di voler combattere “l’ideale statico di Mallarmè” con una rivoluzione tipografica, che permetta di imprimere alle parole tutta la velocità, infatti la sua opera al contrario è coinvolgimento vitale, contaminazione dello spazio intellettuale da parte della realtà con la sua miscela di bene e male, bellezza e orrore, banalità e genio: “Il libro deve essere l’espressione futurista del nostro pensiero futurista… Combatto in questo l’estetica decorativa e preziosa di Mallarmé e le sue ricerche della parola rara, dell’aggettivo unico, insostituibile, elegante, suggestivo, squisito… Combatto inoltre l’ideale statico di Mallarmé, con questa 20 Il fumetto si è diffuso nel corso del Novecento con origini nel secolo precedente, ma si trovano esempi in diverse epoche precedenti legati alla necessità di dare rappresentazioni o di associare testi a immagini. Durante la preistoria le pitture rupestri usavano immagini per raccontare resoconti di caccia, vita quotidiana o determinate idee o desideri.
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rivoluzione tipografica che mi permette di imprimere alle parole (già libere, dinamiche e siluranti) tutte le velocità, quelle degli astri, delle nuvole, degli aeroplani, dei treni, delle onde, degli esplosivi, dei globuli della schiuma marina, delle molecole e degli atomi”.²¹ La parola di Filippo Tommaso Marinetti è un’autentica fuoriuscita, anche fisica, della parola, dal libro e dalla lettura tradizionale, assumendo elementi comportamentali di lirico coinvolgimento totale. La visualità del testo esce dalla linearità verbale per essere sonorizzata dall’autore ed espressa “fuori”. La parola tende a essere sostituita dal corpo dell’autore e dai suoi gesti, uscendo dalla spazialità lineare per creare “nuovi orizzonti imprevisti”. Malgrado tutto Marinetti non riesce però a ricorrere in maniera esclusiva alle parole in libertà. Nel testo incontriamo infatti frasi di sapore tradizionale (non sento più i miei piedi gelati), incentrate su quell’io che, in teoria, la sua poetica rifiuta. L’autore vorrebbe eliminare gli avverbi, e invece si lascia sfuggire un “comunica telefonicamente” e gli avverbi di luogo (su giù là là intorno in alto), che accentuano il senso del movimento spaziale. La stessa caduta della punteggiatura è compensata dall’uso degli spazi bianchi, che hanno, in fondo, la medesima funzione di scandire i temi della letteratura. Parole in libertà e rivoluzione tipografica si impongono dunque insieme: lo scatenamento del linguaggio dalle regole di composizione del testo – grammatica, sintassi, punteggiatura, figure retoriche tradizionali – libera l’oggetto libro dalla sua funzione di puro e semplice contenitore predisponendolo a divenire vera e propria opera d’arte. Opera d’arte in cui si amalgamano in perfetta armonia le istanze teoriche sul come far versi, le invenzioni tipografiche (ideate da Marinetti ma realizzate materialmente dal tipografo Cesare Cavanna), il flusso di coscienza, la politica, la morale, la tecnologia, la musica e tanto altro ancora. Con il “Paroliberismo” si sfruttò fino in fondo le capacità percettive ed immaginative del pubblico e dell’artista, il quale, di fronte ad una macchina da stampa, si serve anche della disposizione dei caratteri nello spazio del foglio bianco. Una forma d’arte, quindi, che si dedica all’espressione realistica al cento per cento, rinunciando all’annosa questione poetica sulla metrica, la grammatica di una letteratura che ormai si lascia alle spalle, figlia di una realtà a cui non appartiene più.
F.T. Marinetti, Parole in Libertà
21 F.T. Marinetti, Ditruzione della sintassi – Immaginazione senza fili – Parole in libertà, in Zang Tumb Tuuum, Milano, Edizioni Futuriste di Poesia, 1914; pp. 25-26).
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Sull’esempio di Filippo Tommaso Marinetti sono numerosi che si avventurano nella creazione di questi “quadri parlanti” e vengono citati nella pubblicazione di due antologie, I Poeti Futuristi del 1912 e I Nuovi Poeti Futuristi del 1925: raccolgono poesie, parolibere e parolibere grafiche, molte di esse in edizione originale. Uno dei poeti di cui si parla nella prima pubblicazione è Corrado Govoni (29 ottobre 1884 – 20 ottobre 1965) e la sua poesia Il Palombaro. Il Palombaro è una poesia visiva che appartiene alla raccolta Rarefazioni e Parole in Libertà pubblicata nel 1915 (dedicata a Filippo Tommaso Marinetti) ed è uno degli esempi più noti di Tavole Parolibere dell’autore. Il testo è costituito dalle parole e descrizioni che fanno da commento alle immagini; in sostanza si tratta di analogie disegnate. Parole e disegni sono disposti in modo da creare la sensazione di un movimento ondulante, per ricreare la sensazione di essere in un fondale marino, e conferire all’ambiente sottomarino una scenografia vibrante di vita. In conformità con la poetica futurista, l’autore utilizza punti tipografici differenti, elimina verbi, punteggiatura e congiunzioni, e si mostra particolarmente libero nel disporre testo ed immagini sulla pagina. Il termine “rarefazioni”, che compare nel titolo della raccolta, costituisce la spia indicativa di una poetica ancora attenta alla staticità di atmosfere sospese e un po’ evanescenti. Si tratta di una poesia visiva, ciò vuol dire che è costituita da disegni e da didascalie associate a ciascun disegno. Il testo non avrebbe alcun senso senza la parte raffigurata e viceversa; Govoni fa uso di punti tipografici differenti, elimina i verbi, la punteggiatura, le congiunzioni e dispone il testo e le raffigurazioni in modo totalmente libero. La poesia racconta l’immersione di un Palombaro nell’animato mondo sottomarino. Secondo i canoni futuristi, e la consuetudine di Govoni, abbondano metafore e analogie, per citarne alcune: 1. la medusa viene definita “ombrello di mendicante”; 2. i rametti di corallo vengono definiti “primavera metallizzata dei coralli”; 3. il Palombaro, munito di accetta, viene definito in vari modi: dapprima uno “spauracchio”, un “burattino inteso a divertire i pesci”, un “acrobata profondo”, ma poi diventa un “becchino mascherato che ruba cadaveri d’annegati”, “assassino ermetico”, “boia sottomarino”. È quindi una presenza minacciosa e ostile collegata con l’esterno tramite quella che viene definita una “lenza”, un “cordone ombelicale”, proveniente dalla superficie del mare. Pur ricollegandosi al Futurismo (basato sulle parole in libertà e il verso libero), si differenzia per la maniera inconfondibile del tratto e del segno. Se quello di Marinetti e dei seguaci futuristi è uno stile scattante, aggressivo e dinamico, quello di Govoni è invece un disegno infantile accompagnato da una scrittura altrettanto infantile, che fanno parte della sua formazione crepuscolare.²² Dalla radice etimologica stessa della parola si può dedurre qualcosa: palombarius, lo sparviero (= uccello rapace). Il palombaro e lo sparviero sono accomunati dall’immagine di chi si precipita o s’immerge per raggiungere la preda. È uno spauracchio perché è fonte di terrore assiduo e sempre incombente; è uomo pneumatico perché lo scafandro del palombaro è colmo d’aria; assassino ermetico perché lo stesso è chiuso ermeticamente; è boia sottomarino perché con un’accetta sembra un boia! “Il Palombaro” è come la poesia stessa: egli rappresenta tutta la produzione letteraria delle parolibere, che minacciosamente si immergono nel panorama letterario mondiale. Queste rinnegano tutta la produzione poetica antecedente, da Omero a D’Annunzio.
22 Corrado Govoni fu uno dei primi poeti crepuscolari. Il crepuscolarismo è una corrente letteraria sviluppatasi in Italia all'inizio del XX secolo. I banali aspetti, privi di ogni ornamento e liberi dal peso della tradizione, sono accomunati dal bisogno di compianto e di confessione, dal rimpianto per i valori tradizionali persi e da una perenne insoddisfazione che non si sfoga in ribellione ma cerca solamente tranquilli angoli del mondo e luoghi conosciuti dell'anima in cui rifugiarsi. Inoltre, i crepuscolari, pur da questi segnati e logorati eredi, declinano la poetica celebrativa di Carducci e l'esasperato estetismo di D'Annunzio.
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C. Govoni, Il palombaro, 1915
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2.2 Dadaismo Il Dadaismo è un movimento artistico che nasce in Svizzera, a Zurigo, nel 1916. La situazione storica in cui il movimento ha origine è quella della Prima Guerra Mondiale, con un gruppo di intellettuali europei che si rifugiano in Svizzera per sfuggire alla guerra. Questo gruppo è formato da Tristan Tzara (16 aprile 1896 – 25 dicembre 1963) Hans Arp (16 settembre 1887 – 7 giugno 1966) Marcel Janco (24 maggio 1895 – 21 aprile 1984) Richard Huelsenbeck (23 aprile 1892 – 20 aprile 1974) e Hans Richter (6 aprile 1888 – 1 febbraio 1976) e il loro esordio ufficiale viene fissato al 5 febbraio 1916, giorno in cui fu inaugurato il Cabaret Voltaire, un centro di intrattenimento artistico, fondato dal regista teatrale Hugo Ball (22 febbario 1886 – 14 settembre 1927). Il Cabaret Voltaire dura 5 mesi in tutto. Le serate sono dapprima la presentazione di un misto di testi, prose e poesie, e di esecuzioni musicali, musica impegnativa ma anche canzoni appunto da cabaret. Vi si presenta il meglio della letteratura e della musica del momento. Poi via via l’atmosfera si scalda, la provocazione ottiene i suoi effetti, Tzara è un grande promotore e si dà subito da fare. Le serate al Cabaret Voltaire non sono molto diverse dalle serate organizzate dai futuristi: in entrambe vi è l’intento di stupire con manifestazioni inusuali e provocatorie, così da proporre un’arte nuova ed originale. E in effetti i due movimenti, futurismo e dadaismo, hanno diversi punti comuni (quale l’intento dissacratorio e la ricerca di meccanismi nuovi del fare arte) ma anche qualche punto di notevole differenza: soprattutto il diverso atteggiamento nei confronti della guerra. I futuristi, nella loro posizione interventista, sono favorevoli alla guerra, mentre ne sono del tutto contrari i dadaisti. Inoltre era decisamente differente la concezione stilistica e l’idea del “bello”: i futuristi inneggiavano ad una nuova bellezza, quella della velocità, mentre i dadaisti non erano interessati alla bellezza dato che criticavano proprio quell’ideale. Un altro punto in comune tra i due movimenti è inoltre l’uso dei “manifesti” quale momento di dichiarazione di intenti. L’origine della parola Dada²³, che identificò il movimento, non è chiara; esistono varie interpretazioni e vari fatti collegati con la scelta del nome. Tristan Tzara definì il termine come un nonsense. Hans Richter ne sostiene la derivazione dall’uso frequente della parola da (sì in russo ed in rumeno). In italiano costituisce una delle prime parole che i bambini pronunciano indicando tutto: dal giocattolo alle persone. In francese evoca il “cavallo a dondolo”, e tale parola fu scoperta in modo del tutto casuale e fortuito da Richard Huelsenbeck e da Hugo Ball. Facendo fede a questa testimonianza, la scoperta del nome si collocherebbe sulla scia di quella casualità, illogicità che sono tratti peculiari dell’intero movimento dadaista. Questa mancanza di significato riflette la ricerca di un linguaggio puro che non sia un prigioniero di significato. Come il discorso di un bambino. Ecco perché sperimentano inventando parole, giocando con sonorità e possibilità. Quindi la parola Dada "non significa assolutamente nulla"²⁴, e già in ciò vi è una prima caratteristica del movimento: quella di rifiutare ogni atteggiamento razionalistico. Il rifiuto della razionalità è ovviamente provocatorio e viene usato come una arma per abbattere le convenzioni borghesi intorno all’arte. Il Dadaismo propone, attraverso una grande creatività, la negazione dell’arte in quanto espressione dei valori e delle convenzioni borghesi, che frenano la libertà d’espressione; l’atteggiamento apparentemente incoerente, illogico e dissacratorio è fondamentale per raggiungere lo
23 La definizione sintetica più famosa è di Hugo Ball e figura nel suo diario: “Un gioco da pazzi uscito dal nulla”, che è tradotto anche con “una farsa del nulla”, con duplice significato di farsa su un tutto che viene denunciato come nulla e rivolta del nulla contro le pretese del tutto. 24 Tzara T., 3 dicembre 1918, Manifesto Dada, pubblicato nella rivista “Dada”, in Posani G., 1990, Manifesti del dadaismo e Lampisterie Einaudi, Torino.
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scopo di distruggere l’arte. Distruzione assolutamente necessaria per poter ripartire con una nuova arte non più sul piedistallo dei valori borghesi ma coincidente con la vita stessa e non separata da essa.²⁵ Si predilige una forma di anarchia espressiva, al di là di ogni convenzione. Il risultato è un’arte dissacrante, priva di ogni regola e principio (in ciò, il Dadaismo supera lo stesso Futurismo, poiché quest’ultimo proponendo una poetica alternativa, ne fissava codici e criteri). In un suo passo Hans Arp afferma: «La legge del caso, che racchiude in sé tutte le leggi e resta a noi incomprensibile come la causa prima onde origina la vita, può essere conosciuta soltanto in un completo abbandono all’inconscio. Io affermo che chi segue questa legge creerà la vita vera e propria». Secondo i dadaisti stessi, il dadaismo non era arte, era anti-arte. Tentava, infatti, di combattere l’arte con l’arte. Per ogni cosa che l’arte sosteneva, Dada rappresentava l’opposto. Se l’arte prestava attenzione all’estetica, Dada ignorava l’estetica; se l’arte doveva lanciare un messaggio implicito attraverso le opere, Dada tentava di non avere alcun messaggio, infatti l’interpretazione di Dada dipende interamente dal singolo individuo; se l’arte voleva richiamare sentimenti positivi, Dada offendeva. Attraverso questo rifiuto della cultura e dell’estetica tradizionali i dadaisti speravano di distruggere loro stessi, ma, ironicamente, l’arte Dada è diventata un movimento che ha influenzato l’arte moderna. Tristan Tzara afferma: «Dio e il mio spazzolino sono Dada, e anche i new yorkesi possono essere Dada, se non lo sono già.» Nel 1918 Tristan Tzara scrisse il Primo Manifesto del Dadaismo in cui espose i principi teorici e pratici del nuovo movimento “antitutto”. “Scrivo un manifesto e non voglio niente, eppure certe cose le dico, e sono per principio contro i manifesti, come del resto sono contro i principi (misurini per il valore morale di qualunque frase […]). Scrivo questo manifesto per provare che si possono fare contemporaneamente azioni contraddittorie, in un unico respiro; sono contro l’azione, per la contraddizione continua e anche per l’affermazione, non sono né favorevole né contrario e non dò spiegazioni perché detesto il buonsenso. […]” Per Tristan Tzara la missione dell’artista è superare la contrapposizione tra “azione e sogno”. Inoltre, la rivoluzione e la poesia devono avere un solo scopo: quello di liberare l’uomo dai lacci morali e materiali. Per il Dadaismo «la vita e la poesia non erano che un’unica e indivisibile espressione dell’uomo alla ricerca di un imperativo vitale. L’uomo d’azione e il poeta devono applicarsi al rispetto dei propri principi fino alla fine dell’esistenza stessa, senza compromesso alcuno, con totale abnegazione». Il movimento, che ha interessato soprattutto le arti visive, la letteratura (poesia, manifesti artistici), il teatro e la grafica, incarnava la sua politica antibellica attraverso un rifiuto degli standard artistici, tramite opere culturali che erano contro l’arte stessa. Il dadaismo ha quindi messo in dubbio e stravolto le convenzioni dell’epoca, dall’estetica cinematografica e artistica, alle ideologie politiche; ha inoltre enfatizzato la stravaganza, la derisione e l’umorismo. Gli artisti dada erano volutamente irrispettosi e preferivano il caos all’ordine, la satira e l’ironia. Ecco perché l’umorismo ha svolto un ruolo fondamentale nello sviluppo delle sue proposte. Tra le tecniche utilizzate erano il collage, l’oggetto trovato, la scrittura automatica e le poesie sonore.
25 “Dada come negazione di tutto”. Negazione dell’arte: “Nel suo significato più ampio e completo, ivi compresi i gesti abituali, gli eventi naturali, i comportamenti quotidiani, gli oggetti di uso comune”, Spatola A. in Pignotti L., Stefanelli S., 1980, La scrittura verbo-visiva. Le avanguardie del novecento tra parola e immagine, Roma, Editoriale l’Espresso, p. 71.
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Le tecniche del collage, del frottage e dell’assemblage, il fotomontaggio, i rayographs di Man Ray, i ready-mades di Duchamp e le macchine di Picabia, la poesia tipografica, visiva e sonora, la musica dei rumori, e molte altre innovazioni tecniche ed espressive, anche se in gran parte riprese dalle precedenti ricerche futuriste, costituiscono un patrimonio a cui hanno attinto artisti delle più diverse tendenze. Per Tzara la poesia è una forma vivente di espressione. Il poeta non può limitarsi a scrivere il suo testo e a darlo alle stampe, ma dovrà declamarlo in pubblico per meglio assumere la responsabilità del suo gesto e per testimoniare di persona il vivo prodursi della poesia. Attorno a questo evento spettacolare, che coglie il momento sorgivo della parola poetica, il poeta ha organizzato e animato, con le sue performance, tutte le serate Dada. Ha saputo mettere in evidenza il fatto che il linguaggio vivo della poesia è un fenomeno non solo scritto ma soprattutto parlato: «Il pensiero si fa nella bocca»²⁶ diceva. Per lui si trattava di testimoniare che la convenzione linguistica non è altro che un veicolo puramente occasionale: il linguaggio della poesia così si spogliava di ogni potere di significazione normativa e si articolava in una serie di ripetizioni sillabiche, di fonemi, di suoni disparati. Per giustificare la destrutturazione linguistica delle sue opere, Tristan Tzara si appellava alla gioia, una gioia che comporta la distruzione, che travolge i principi del ragionamento logico e del linguaggio. Si trattava per lui di sostituire al vecchio modo di fare poesia una forma nuova di linguaggio che si spogliasse della volontà di comunicare, permettendo così all’uomo l’apertura della via del sogno, lasciando la parola al desiderio e alla pluralità del senso. Tzara così scrisse così la ricetta per creare una poesia dadaista: “Prendete un giornale. Prendete delle forbici. Scegliete nel giornale un articolo della lunghezza che desiderate per la vostra poesia. Ritagliate l’articolo. Ritagliate poi con cura ognuna delle parole che compongono l’articolo e mettete le parole in un sacchetto. Agitate dolcemente. Estraete le parole una dopo l’altra, disponendole nell’ordine in cui sono uscite dal sacchetto. Copiate scrupolosamente. La poesia vi somiglierà. Ed eccovi diventato uno scrittore infinitamente originale e di incantevole sensibilità, benché incompresa dal volgo.”²⁷ Le indicazioni comunicano un preciso atteggiamento che sconvolge la modalità di composizione lirica usuale a favore di un immediato contatto con il quotidiano per mezzo del prelievo di frammenti di realtà. La vita del movimento è abbastanza breve. Del resto non poteva essere diversamente. La funzione principale del dadaismo era quello di distruggere una concezione oramai vecchia e desueta dell’arte. E questa è una funzione che svolge in maniera egregia, ma per poter divenire propositiva necessitava di una trasformazione, e ciò avvenne tra il 1922 e il 1924, quando il dadaismo scomparve e nacque il surrealismo. Si capisce come il dadaismo non muore del tutto, ma si trasforma, in effetti, nel surrealismo, movimento, quest’ultimo, che può quasi considerarsi una naturale evoluzione del primo: il caso verrà usato sia dai surrealisti, per far emergere l’inconscio umano, sia dagli espressionisti astratti, per giungere a nuove rappresentazioni del caos, come farà Jackson Pollock con l’action painting.²⁸
26 Tzara T., 12 dicembre 1920, Manifesto sull’amore debole e l’amore amaro, letto alla “Galerie Povolozky” e pubblicato sul n° 4 della rivista “La vie de letters”, p. 25. 27 Tzara T., 1920, Manifesto sull’amore debole e l’amore amaro, pag. 28, in Alinovi F., 1980, Dada anti-arte e post-arte, Messina-Firenze, Casa editrice G. D’Anna, p. 128. 28 L'action painting (letteralmente "pittura d'azione"), a volte chiamata astrazione gestuale, è uno stile di pittura nella quale il colore viene fatto gocciolare spontaneamente, lanciato o macchiato sulle tele, invece che applicato con attenzione. L'opera che ne risulta enfatizza l'atto fisico della pittura stessa.
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John Alcorn, Instructions on how to create a Dadaist poem, Push Pin Graphic N. 11, 1957
Hugo Ball scrisse nella nota opera uscita postume nel 1927, Die Flucht aus der Zeit (La fuga dal tempo): «Con la poesia fonetica si rinuncia di primo acchito a una lingua corrotta dal giornalismo e resa impossibile. Dobbiamo ritirarci nell’alchimia più intima della parola, abbandonare addirittura anche la parola in modo da preservare così il campo più sacro della poesia».²⁹ Il valore fonetico attribuito alla declamazione poetico-teatrale sollecita la ricerca di una grafica che accordi l’impostazione ottica della pagina all’effetto sonoro della recitazione attivando un corto circuito tra percezione visiva e senso acustico che annovera la tipografia Dada. La prima poesia teatralizzata, Karawane scritta da Hugo Ball, dopo la stesura del manifesto nel 1916, è un’opera priva di contenuto semantico, l’ordine delle parole non segue una logica paratattica ma un accostamento casuale che produce un non-senso, voluto, in realtà, per oltrepassare
29 La Fuga dal tempo. Fuga Seculi, H. Ball, a cura di R. Caldura, Mimesis, Milano, 2016
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la soglia della superficie apparente degli eventi e avviare l’introspezione diacronica: nella pagina questa precisa indicazione è trascritta con caratteri di diversi spessori, grandezza e colore accostati senza ordine in un’anarchia dispositiva che esprime il principio poetico Dada del rifiuto della convenzionalità. Hugo Ball ha descritto la sua poesia come uno sforzo per “tornare all’alchimia più intima della parola” per inventare una nuova lingua al di fuori di quella convenzionale. Dei versi fonetici che ha creato, che ha chiamato “Lautgedichte” (“poesie sonore”), ha scritto: “Non voglio parole inventate da altre persone... Voglio le mie cose, il mio ritmo, e anche vocali e consonanti, che corrispondano al ritmo e tutto al mio. Se questa pulsazione è lunga sette iarde, voglio parole lunghe sette iarde. “ Nel poema ogni intenzione di significato viene abbandonata alla ricerca di un linguaggio primitivo libero da ogni pregiudizio intellettuale. La parola adotta poi caratteristiche che la avvicinano alla musica e alle arti visive. Cerca un suono originale e, allo stesso tempo, gioca con la tipografia e le tecniche di stampa dell’epoca. “Ogni cosa ha la sua parola ma la parola è diventata una cosa stessa”.³⁰ C’è in questo scrittore un rifiuto dell’uso della parola, una ribellione contro il linguaggio stesso che non può più significare nulla in un mondo alienato dal capitalismo e dalla prima guerra mondiale. Il poeta, quindi, non aspira più a comunicare altro che un semplice suono primordiale che comporterà sia la distru-
Hugo Ball, Karawane, 1917
³⁰ Ball H., 14 luglio 1916, Manifesto Dada, letto la prima volta nella sala “Waag”, traduzione in Schwarz A., 1976, Almanacco Dada, Feltrinelli, Milano, pp. 53, 54.
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zione del linguaggio sia la sua salvezza, perché nella sua rinuncia al significato, la voce trova la libertà di esprimersi. Nel suo diario, ha descritto come la performance di Karawane gli avesse ricordato di aver partecipato alla messa cattolica da bambino, dopo aver pronunciato una serie di parole senza senso con una sobrietà quasi liturgica. Per l’evento, ha iniziato fuori dal palco, al buio. Continuò a parlare mentre saliva sul palco ed entrava nello spazio illuminato, dove ora il pubblico poteva vedere piuttosto che semplicemente ascoltarlo. Ball aspirava a creare una sorta di teatro fondato sul concetto di Gesamtkunstwerk³¹, “una sintesi di tutte le arti”, che riteneva avesse il potenziale per provocare una trasformazione sociale. Quindi la luce, il suono e le parti visive si sono tutte combinate in un’opera d’arte completa. Ball aveva prodotto un costume fatto con materiali di uso quotidiano - principalmente cartone ma anche vernice e tessuto per legare il “colletto” ingombrante attorno al collo. Il costume rifletteva l’assurda natura di Dada: racchiudeva le gambe e il corpo in tubi di cartone blu. Le mani simili a artigli dell’aragosta sporgevano dai tubi sulle sue braccia. Un altro foglio di cartone, oro all’esterno e rosso all’interno, formava un colletto goffo che sbatteva quando muoveva le braccia e un imponente cappello a forma di toque da chef gli copriva la testa. Il costume sembra essere stato una parodia degli elaborati disegni di costumi di gruppi d’avanguardia come i costruttivisti russi e deve sicuramente aver ispirato i disegni selvaggiamente creativi per i costumi di balletto del designer Bauhaus, Oscar Schlemmer solo un decennio dopo. Una poesia sonora combina essenzialmente la composizione letteraria e musicale per enfatizzare il ruolo centrale del discorso umano nella lettura o nella recitazione del testo. L’arte della poesia sonora si concentra sugli “aspetti fonetici del linguaggio umano” piuttosto che sulla semantica o sulla sintassi. Per sua natura, una poesia sonora deve essere eseguita piuttosto che semplicemente letta silenziosamente. Le poesie sonore dadaiste differivano dai loro predecessori - quelli dei futuristi italiani, in particolare Marinetti. Mentre le poesie di Marinetti si basavano pesantemente sull’onomatopea, come, ad esempio, “Zang Tumb Tumb”, che descriveva gli eventi di una battaglia, le poesie sonore di Ball dovevano staccarsi completamente dal linguaggio coerente. Ciò che rende unica la poesia sonora è la sua enfasi sul non senso, sul rifiuto piuttosto che sul rafforzamento del significato. I dadaisti pensavano che stessero entrambi distruggendo la lingua e la letteratura, che pensavano fossero state degradate da condizioni moderne specifiche come la guerra e l’imperialismo, e che lo reinventassero. Sempre dal diario di Hugo Ball, troviamo questo estratto: “Io indossavo uno speciale costume disegnato da me e da Janco. Le mie gambe erano in una specie di colonna di cartone blu licido che mi saliva aderente fino ai fianchi, tanto che fino lì sembravo un obelisco. Sopra a questo portavo un enorme collo a mantellina, di cartone dipinto internamente di scarlatto e esternamente verniciato in oro: intorno al collo questo era allacciato in modo che io, alzando e abbassando i gomiti, facevo l’effetto di batter le ali. Per finire, portavo un cappello da sciamano a forma di cilindro, alto e dipinto a strisce bianche e blu.”
31 Gesamtkunstwerk (traducibile in italiano: opera d'arte totale) è un termine che fu usato per la prima volta nel 1827 dallo scrittore e filosofo tedesco K. F. E. Trahndorff e poi utilizzato, a partire dal 1849, anche da Richard Wagner, che lo inserì all'interno del suo saggio Arte e rivoluzione (Die Kunst und die Revolution). Il termine indicava l'ideale di teatro in cui convergono musica, drammaturgia, coreutica, poesia, arti figurative, al fine di realizzare una perfetta sintesi delle diverse arti.
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È molto importante che lo spettacolo Dada ambisca al coinvolgimento del pubblico, nell’estremo tentativo di farlo diventare esso stesso attore e coautore dell’evento, perché ripropone l’evasione dai confini scenici che caratterizza la prospettiva di ricerca arte-vita. ³² Un'altra opera che merita di essere citata è Fisches Nachtgesang (Canto notturno del pesce) una poesia di Christian Morgenstern (6 maggio 1871 - 31 marzo 1914) contenuta nella raccolta dei Canti Patibolari. I Canti Patibolari sono famosi per la ricchezza di giochi di parole, deformazioni, personificazioni, neologismi, accostamenti di suoni e parole senza senso. In questa poesia i versi sono costituiti dai simboli delle sillabe brevi e lunghe. Questo crea qualcosa di simile a un "poema" (graficamente circoscritto) in 13 righe senza che una sola parola venga detta o scritta - solo la canzone notturna del pesce muto! La poesia è ben organizzata, i segni cambiano da una riga all'altra e il loro numero aumenta da 1 a 4; le linee a quattro e tre sillabe si alternano quattro volte ed infine, il numero diminuisce nuovamente a 1. A questa poesia si è ispirato Man Ray quando pubblicò sul periodico Picabia 391 nel 1924, un giocoso Poema Ottico, composto da trattini di diversa lunghezza, che imitano l’effetto dell’alfabeto morse.
Christian Morgnstern, Canto notturno del pesce, 1905
Man Ray, Poema Ottico, 1924
³² Ball H., in Henkin Melzer, 1973, The Dada Actor and Performances Theory, traduzione di Alinovi F., 1980, Dada anti-arte e post-arte, Messina-Firenze, Casa editrice G. D’Anna, p. 17.
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2.3 Surrealismo «Automatismo psichico puro, attraverso il quale ci si propone di esprimere, con le parole o la scrittura o in altro modo, il reale funzionamento del pensiero. Comando del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica e morale.» Il Surrealismo fu un movimento artistico d'avanguardia del Novecento nato come evoluzione del Dadaismo e che coinvolse tutte le arti, toccando anche letteratura e cinema, nato negli anni 20 a Parigi. Il movimento surrealista è di gran lunga il più longevo fra le avanguardie storiche, e la sua diffusione capillare in tutto il mondo ha reso la sua storia molto variegata rispetto a movimenti circoscritti nel tempo e nello spazio come il dadaismo o il futurismo. Il Surrealismo vuole esprimere una realtà superiore, fatta di irrazionale e di sogno e che vuole rivelare gli aspetti più profondi della psiche. Questa corrente artistica ebbe come principale teorico il poeta André Breton (18 febbraio 1896 28 settembre 1896) che fu influenzato dalla lettura de L'interpretazione dei sogni di Sigmund Freud del 1900: dopo averlo letto arrivò alla conclusione che fosse inaccettabile il fatto che il sogno e l'inconscio avessero avuto così poco spazio nella civiltà moderna, e pensò quindi di fondare un nuovo movimento artistico e letterario in cui essi avessero un ruolo fondamentale. Il Surrealismo è quindi un automatismo psichico, ovvero quel processo in cui l'inconscio, quella parte di noi che emerge durante i sogni, emerge anche quando siamo svegli e ci permette di associare libere parole, pensieri e immagini senza freni inibitori e scopi preordinati. I surrealisti utilizzavano diverse tecniche per far in modo di attivare il loro inconscio, una di queste è il cadavere squisito (detto anche cadaveri eccellenti), tecnica nata intorno al 1925 e basata sulla casualità e sulla coralità, che prevede la collaborazione di più artisti: uno di essi comincia l'operazione tracciando un disegno, una figura, che deve essere ignorata dagli altri, poi il foglio deve essere passato a tutti i partecipanti, uno per uno, i quali a loro volta faranno una figura, e così via.³³ Questa tecnica era utilizzata anche in ambito poetico, ovvero aggiungendo uno per uno una parola, decidendone a priori la struttura (ad esempio “nome – aggettivo – verbo – complemento oggetto”) ignorando lo scopo finale dei singoli. Il nome della tecnica deriva infatti dalla prima poesia ottenuta in tal modo: "Il cadavere squisito berrà il vino nuovo". ³⁴ Il risultato è solitamente sorprendente, in quanto nella più spontanea libertà emerge l’espressione di una realtà altra, inconsueta, stravagante e spesso molto poetica, attraverso l’intensa attività metaforica della nostra parte intuitiva. Ci sono poi altre varianti fatte con i testi, come ad esempio il gioco dei sillogismi che fu ideato a Parigi nel 1953. Il primo giocatore scrive una frase che inizia per tutti, il secondo un’altra premessa che inizia con però e il terzo conclude con una frase che inizia per quindi: «tutti gli dei arrossiscono nell’erba alta però la libellula vede tutto nero quindi il crepuscolo è una frittella che arretra». André Breton non ama la parola «invenzione», preferisce parlare invece di «rivelazione»: il gioco di parole rivela significati nascosti, nel senso che risveglia, suscita, rianima significati che abbiamo represso, taciuto. Solo considerando la parola in sé e studiando molto da vicino le reazioni delle parole le une sulle altre, afferma ancora Breton, si può sperare di ridare al linguaggio la sua piena
³³ Totems Without Taboos (“totem senza tabù”) fu la prima esposizione di cadaveri eccellenti degli Stati Uniti, organizzata dal Chicago Surrealist Group. ³⁴ La frase è stata ottenuta grazie alla collaborazione fra 5 persone in cui vi erano Andre Breton e Jacques Prévert: fu quest’ultimo che scrisse “berrà il vino”.
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destinazione e con ciò far compiere un passo in avanti alla conoscenza e esaltare in pari misura la vita.
Un esempio di Cadavere Squisito.
Altre tecniche frequentemente utilizzate dai pittori di questo movimento (che tentavano di applicare l’automatismo verbale anche nel gesto) sono il collage, frottage, assemblage, fumage, coulage, disegno alla candela ecc. e di diffonderli per essere accessibili a chiunque perchè “la poesia come l’arte deve essere fatta da tutti”. I temi prevalenti dell’arte surrealista sono legati all’amore, alla liberazione dai vincoli sociali e dalle regole ma soprattutto l’universo surrealista è legato al sogno e alla follia.³⁵ La caratteristica comune a tutte le manifestazioni surrealiste è la critica radicale alla razionalità cosciente, e la liberazione delle potenzialità immaginative dell'inconscio per il raggiungimento di uno stato conoscitivo "oltre" la realtà ("sur-realtà"). Il Surrealismo è certamente la più "onirica" delle manifestazioni artistiche, proprio perché dà accesso a ciò che sta oltre il visibile. Inoltre esso comprende immagini nitide e reali ma accostandole tra di loro senza alcun nesso logico. Breton afferma: «Il surrealismo tende al recupero della nostra forza psichica con un mezzo che non è altro che una discesa vertiginosa in noi stessi, l’illuminazione sistematica dei luoghi nascosti…la deambulazione perpetua in piena zona interdetta…il dettato dell’inconscio nella letteratura».
35 Il primo studio sistematico sul sogno risale al 1900, quando Freud pubblicò : «L’interpretazione dei sogni». Secondo lo studioso il sogno è la «via regia verso la scoperta dell’inconscio». Nel sonno, infatti, viene meno il controllo della coscienza sui pensieri dell’uomo e può quindi liberamente emergere il suo inconscio, travestendosi in immagini di tipo simbolico. La funzione interpretativa è necessaria per capire il messaggio che proviene dall’inconscio, in termini di desideri, pulsioni o malesseri e disagi.
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Il gioco, in particolare quello con le parole, è per i surrealisti il veicolo elettivo di una rivelazione intesa come punto supremo dello spirito in cui il comunicabile e l’incomunicabile, il reale e l’immaginario cessano di opporsi, strumento della volontà di decifrare il mondo. I primi casi in cui compaiono parole nell’opera di René Magritte (21 novembre 1898 - 15 agosto 1967) sono dipinti privi di riconoscibili oggetti della realtà.³⁶ Con le sue opere, un misto di immagini e parole, Magritte ha da sempre cercato di mettere in discussione le convenzioni linguistiche e visive del suo tempo. Del 1928 è Miroir vivant, che inserisce parole in forma di scrittura dipinta nei campi irregolari di un reticolo dall’aspetto vagamente minerale. Tutte le parole iscritte sono trattate allo stesso modo e perciò sostantivi e verbi sono tutti posti sullo stesso livello. In altri dipinti o incisioni Magritte inscrive invece le parole in bolle amorfe, isolate, dai contorni spessi. In L’uso della parola (1927) le bolle verbali sono disposte all’incirca come lo sarebbero gli oggetti se, invece che (de)scritti, fossero raffigurati: “orizzonte” è all’orizzonte, “nuvola” è in cielo, “strada” è in diagonale, su di essa “fucile” è in verticale, “cavallo” poggia su quello che sembra un suolo rappresentato di scorcio. Le parole, o meglio i loro informi contenitori, proiettano persino ombre come fossero corpi tridimensionali. I personaggi, che nella rappresentazione pittorica potrebbero essere caratterizzati formalmente e stilisticamente in un modo o in un altro, sono invece qui ridotti a generiche etichette. Sembrerebbe così che le parole vogliano solo funzionare da rimandi per individuare dove vadano collocati gli
A sinistra: René magritte, Miror Vivant, 1928. A destra: René Magritte, L'usage de la parole, 1927
elementi della composizione pittorica. Ci sarà poi un’evoluzione rispetto ai dipinti degli anni venti, in cui parole e immagini campeggiavano indipendenti tra loro: dall'inizio degli anni Trenta poi tenderanno invece a interagire o almeno a presentarsi insieme. La prima di queste due nuove tipologie compositive prevede la presenza di oggetti accompagnati da un nome scritto sotto, o vicino, o collegato con una freccia, come se fosse una didascalia o un’etichetta, al fine di mettere in evidenza le differenze fondamentali che esistono tra un oggetto reale, la sua rappresentazione in immagine e la parola utilizzata per denominarla. Ne Il tradimento delle immagini, uno dei suoi quadri più famosi, Magritte dipinge una pipa sotto la quale scrive le parole “Questa non è una pipa”. Epure il carattere fotografico della rappresentazione tende ad affermare esattamente il contrario. Non si tratta quindi che della rappresentazione bidimensionale dell’oggetto. Quindi Magritte avverte lo spettatore che ciò che è rappresentato è, appunto, solo rappresentato, come sono rappresentazioni una parola o 36 René François Ghislain Magritte insieme a Paul Delvaux è considerato il maggiore pittore del surrealismo in Belgio. Dopo iniziali vicinanze al cubismo e al futurismo, il suo stile s'incentrò su una tecnica raffigurativa accuratissima basata sul trompe l'oeil, alla pari di Salvador Dalí e di Delvaux, ma senza il ricorso alla simbologia di tipo paranoide del primo o di tipo erotico-anticheggiante del secondo.
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un pensiero, l’arte non copia la natura, né tantomeno la ricrea. Essa è un linguaggio convenzionale esattamente come la scrittura. Ciò che l’artista ci mostra è, dunque, un ragionamento e non la copia del reale né la realtà medesima. Il quadro è il frutto della ricerca di Magritte del rapporto tra immagine e linguaggio. È la parola che contraddice l’immagine e, pur convivendo con quest’ultima, nega la sua autenticità. In questo modo l’artista ribalta il principio della pittura classica, che imponeva l’indiscutibile verosimiglianza del dipinto con la realtà, e introduce uno stile che ha il fine di decontestualizzare gli oggetti riconoscibili. Quest’opera è una provocazione, con un testo sintetico che richiama lo stile pubblicitario (Magritte iniziò la sua carriera come grafico), che ci ricorda la differenza tra la realtà tangibile e l’impalpabile rappresentazione di essa. Ceci n’est pas un pipe è anche il titolo di un saggio di Michel Foucault del 1968 dedicato a questa serie di opere di Magritte e a varie riflessioni sullo stesso artista e sull’arte del XX secolo.³⁷ Foucault ipotizza che l’opera sia in raltà un sorta di “calligramma disfatto” perché il testo ha ritrovato il suo posto di “legenda”, in basso, separato dall’immagine. Nel calligramma, per via di un’alternanza percettiva non si possono al tempo stesso vedere l’immagine e le parole, ma leggere l’una implica non vedere l’altra e viceversa. Questa alternanza si conserverebbe, sebbene dissociata, nel dipinto di Magritte. Inoltre esiste tra testo e immagine un conflitto, sintetizzato nella parola “questo”: si intende questa immagine o questa parola? “Questo” (“Ceci”) è volutamente ambiguo, neutro. Se fosse al femminile si potrebbe attribuire alla pipa, invece può essere riferito a entrambi o al loro stare insieme.
René Magritte, Il tradimento delle immagini, 1928-1929
37 «Paragonato alla tradizionale funzione della didascalia, il testo di Magritte è doppiamente paradossale. Si propone di nominare ciò che, evidentemente, non ha bisogno di esserlo (la forma è troppo nota, il nome troppo familiare). Ed ecco che nel momento in cui dovrebbe dare il nome, lo dà negando che sia tale». M. Foucault
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La seconda tipologia invece prevede la presenza di oggetti e parole accoppiati all’interno delle caselle di una griglia tabulare: qui parole e immagini possono almeno condividere un frame comune. La parola si affaccia, ma appena entra nel dipinto si fa pittura essa stessa, diventando la scrittura figura di se stessa, e il vero potere assertivo sembra sempre, come abbiamo visto, restare dalla parte dell’immagine. Come ne La chiave dei sogni, in cui l’autore associa alcune immagini di oggetti a delle parole che non corrispondono loro ponendo una domanda importante “perchè non potremmo chiamare questi oggetti in un altro modo? Perchè la parola “uovo” è stata scelta per indicare l’oggetto uovo? Attraverso Questa serie di dipinti Magritte ci avverte: bisogna diffidare delle parole e delle immagini che non rappresentano mai la realtà. Scrive Magritte: “Un oggetto non svolge mai la stessa funzione del suo nome o della sua immagine”; dunque, anche un oggetto del pensiero non svolge mai la stessa funzione del suo nome o della sua immagine. René Magritte, La chiave dei Sogni, 1930
In realtà l'inserimento di iscrizioni all’interno di un’opera non era una novità “linguistica” sensazionale nell’ambito della produzione surrealista, né, nelle sperimentazioni delle avanguardie del primo trentennio del secolo. Un primo stimolo all’utilizzo iconico della parola può essere giunto a Magritte dal collage cubista (Braque, in particolare): i papiers collés³⁸ prelevano e assemblano frammenti di carta stampata per aumentare la presa sul reale. L’iscrizione fa dunque la sua comparsa nella pittura di Magritte nel pieno di un’esplosione della parola nelle arti visive, in particolare nell’ambito delle avanguardie storiche: perciò possiamo dire che l’atto in sé di interpolare la parola all’immagine abbia perso, almeno in parte, alla fine degli anni venti, il suo carattere trasgressivo, o che, quantomeno, sia ormai una trasgressione ampiamente praticata. Tuttavia, nell’arte di Magritte, le parole non servono a far fuoriuscire la pittura da se stessa o dai limiti dell’opera, al contrario: le parole divengono esse stesse pittura, o meglio 'scrittura dipinta', vengono assorbite nel medium pittorico. Questo aspetto caratteristico emerge dal confronto con Paul Klee o Joan Miró, autori nelle cui opere si materializza invece una scrittura che risulta deformata, ornata e non lineare: una grafia che diventa forma-figura, in cui quasi non si distinguono i segni grafici della
38 I papiers collés sono delle opere d'arte che sono realizzate mediante l'accostamento di pezzi di carta (carta di giornale, carta da parati...) incollati sulla tela per rendere l'idea dei diversi materiali rappresentati (come il legno, ad esempio). Alterano l'idea di rappresentazione figurativa tradizionale: l'opera presenta i materiali prelevati dalla realtà per quello che già sono e significano. Il procedimento è analogo al collage (che anch'esso si era diffuso nei primi anni del Novecento, con il cubismo e il futurismo). La diffusione si deve al cubismo sintetico, grazie alle opere di Pablo Picasso, Georges Braque e Juan Gris.
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figurazione da quelli grafemici di una scrittura. Nell’opera qui di seguito di Mirò Escargot, femme, fleur, étoile, del 1934, ad esempio, il titolo fa parte della composizione, segue l’andamento delle figure e certe parole sostituiscono persino le immagini.
Joan Miró, Escargot, femme, fleur, étoile, 1934
Le parole nei quadri di Magritte sono, invece, estranee alla scena e come sovraimpresse: sono calate come indicazioni di un soggetto esterno, da qualcuno che sembra voler esprimere valutazioni con l’autorità di un maestro o di un giudice, per quanto, a prima vista, appaiano umili ed innocue. Una struttura apparentemente simile hanno le parole introdotte dai cubisti attraverso il titolo dell’opera, spesso duplicate anche nel campo dell’immagine, quando cercano di rendere intelligibili i loro dipinti nei quali la figura, completamente scomposta, diviene altrimenti irriconoscibile per il pubblico (come ad esempio Nudo che scende le scale n.2, 1912, di Duchamp).³⁹ Secondo un procedimento opposto, ma utilizzato più raramente, appare nelle opere di Magritte una
39 Nel dipinto il nudo è difficilmente percepibile. La figura che si nota somiglia piuttosto ad un manichino di legno. Anche la direzione del movimento è chiarita nel titolo che guida alla comprensione dell’opera. Il movimento che si crea va da sinistra , in alto, verso destra in basso. Anche la composizione tonale asseconda tale lettura con le zone scure poste sulla diagonale che sale da sinistra in basso.
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"scrittura intradiegetica", non sovrapposta ma generata dalle condizioni stesse della scena rappresentata. In L’art de la conversation (l'immagine di seguito) la parola non è più scrittura dipinta: l’artista dà l’impressione di una materiale 'presenza' delle lettere, dissimulate nelle strutture di un’architettura. E infatti la parola cui le pietre rappresentate danno forma, nel loro accostarsi e sovrapporsi, è “rêve”: sogno. Qui Magritte sembra attingere all’antica tradizione degli 'alfabeti pittorici', di cui le celebri tavole di Antonio Basoli, pubblicate a Bologna nel 1839.⁴⁰
René Margitte, L'art de la conversation, 1950
Questo aspetto concettuale, analitico, della pittura magrittiana, eserciterà un'importante influenza su alcuni movimenti artistici del Novecento come la Pop Art o la stessa Arte Concettuale.
40 Antonio Basoli (18 aprile 1774 – Bologna, 30 maggio 1843) è stato un pittore e incisore italiano esponente del neoclassicimo bolognese. Nel 1839 aveva pubblicato in un testo intitolato “Alfabeto pittorico, ossia raccolta di pensieri pittorici composti di oggetti comincianti dalle singole lettere alfabetiche” che raccoglieva venticinque raffinatissime litografie che presentano architetture immaginarie in forma di lettere.
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Capitolo 3: Poesia visiva in Italia “L’arte, dunque, è una pratica della coscienza e la coscienza di una pratica che si estraniano dal mondo, che vi si allontanano per meglio osservarlo e solo, in tal modo negandolo, lo costituiscono.”⁴¹ Le sperimentazioni verbovisive, emerse in Italia nella prima metà degli anni Sessanta, riaprirono questioni di poetica già diffusamente utilizzate dalle avanguardie storiche. Tuttavia, è dalla rinascita culturale del secondo dopoguerra che le ricerche verbo-visive hanno il loro punto di partenza, come presa di posizione critica sulla cultura, sulla società e sul linguaggio attraverso il quale si esprime la nuova realtà modernizzata e industrializzata del secondo dopoguerra. Afferma Lamberto Pignotti: "Qualcuno potrebbe anche affermare che la poesia visiva è anche sempre esistita, dal momento che simili associazioni di parole e immagini si ritrovano spesso durante i secoli. A questa osservazione, io rispondo: sì, però c’è la consapevolezza che questi due codici – della parola e dell’immagine – quando entrano in funzione insieme, fanno sì che ciò che viene fuori – ovvero, l’oggetto artistico, l’opera d’arte – sia una cosa diversa dai codici di partenza; ecco, tale fatto non era stato molto ben compreso, in termini di consapevolezza.. E neanche da qualcuno che era arrivato molto vicino a questo tipo di rapporto, di relazione, come i futuristi ed in particolare Marinetti, nonostante tale tema fosse stato trattato in modo pertinente perchè approcciato dallo sfondo, dalla piattaforma dei “media”, delle comunicazioni di massa." Da queste sperimentazioni nacque la Poesia visiva (detta anche Poesia visuale o Poesia tecnologica)⁴². La Poesia visiva è una tecnica che sperimenta la possibilità di instaurare rapporti tra la cultura e la comunicazione di massa attraverso una sintesi, in forma di collage, fra parola ed immagine, fra scrittura e pittura, fra codice linguistico e visivo, che acquisiscono così nuovi significati simbolici, definendo un nuovo sistema complesso ed eterogeneo, sia logico-verbale che iconico. Più che una tendenza artistica, si tratta di una variegata esperienza di contaminazione fra linguaggi: la contaminazione lessicale tra scrittura ed immagine, l'interscambio tra grafia e grafismo, trasforma la parola in segno visivo, immagine, colore, luce e superficie, permettendo ai due linguaggi, la letteratura e la pittura, di potenziarsi reciprocamente e facendo sì che la poesia venga fruita come un quadro e viceversa. Si parla quindi di un fenomeno di “arte totale” (presente in molti movimenti degli anni ‘60/’70): il poeta visivo si muove impunito tra le varie discipline maneggiandole a suo piacimento; se ne va “da un’arte all’altra” con estrema indifferenza; è scrittore, editore, produttore, attore, performer, cantante, filmaker e talvolta anche pittore e scultore. Le Poesia visiva nasce ad opera del Gruppo 70⁴³, fondato a Firenze esattamente nella primavera del 1963: "Non è che lo abbiamo fondato mediante un atto notarile. Eravamo a Firenze, lo fondammo in un bar a Piazza San Marco che era una piazza in cui soggiornavamo spesso perchè era la piazza del Rettorato della Facoltà di Lettere. [...] L’idea del Gruppo 70 era quella di un gruppo interdisciplinare. Non si trattava solo di un gruppo di poeti o di un gruppo di soli pittori, era un gruppo che voleva suscitare un’azione comune e condivisa tra poeti, pittori, musicisti, saggisti, non ufficialmente." ⁴⁴
41 Dal catalogo della mostra L’arte è ciò che le è estraneo, Forlì 1980. 42 Martino Oberto (1925 – 22 giugno 2011) è stato un artista che ha contestato l’impiego dell’aggettivo “visiva” proponendo invece il termine “visuale”, che a suo parere meglio rende conto del processo mentale, e non puramente visivo, che riguarda l’operazione di fusione dei due elementi – grafico e verbale – in un linguaggio nuovo. L’intervento di Oberto e il relativo dibattito è pubblicato sul primo numero di «Trerosso» (aprile-maggio 1966) rivista genovese.
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Tecnologia, interdisciplinarità e comunicazioni sono le caratteristiche principali del nuovo movimento. I fondatori furono Eugenio Miccini che coniò il termine "Poesia "visiva" e Lamberto Pignotti semiologo e teorico della pubblicità. A questo primo nucleo si uniranno più tardi Antonio Bueno, Lucia Marcucci, Ketty La Rocca, Luciano Ori, Emilio Isgrò, Michele Perfetti, Ugo Carrega, Adriano Spatola e anche critici, poeti, musicisti quali Gillo Dorfles, Eugenio Battisti, Umberto Eco, Giuseppe Chiari, Sylvano Bussotti. Il gruppo prende le mosse da due importanti convegni che ne anticiparono le linee direttive e che all'inizio degli anni Sessanta portarono una ventata di aria nuova nel clima culturale fiorentino prima, e nazionale poi. Si tratta di Arte e comunicazione, svoltosi al Forte Belvedere dal 24 al 26 maggio 1963 e Arte e tecnologia, sempre nella stessa sede nel giugno del 1964. In quello che può essere definito il manifesto dell'Arte tecnologica, illustrato da Pignotti nel convegno del 1964, vengono sintetizzate le caratteristiche che la Poesia visiva deve assumere: 1. il rapporto diretto fra operazione estetica e società tecnologica; 2. l'assunzione dei linguaggi tecnologici: linguaggio pubblicitario, giornalistico, la narrativa rosa, gialla e fantascientifica, il linguaggio umoristico, quello della moda, dell'oroscopo, i linguaggi logico-matematici-scientifici, il linguaggio della burocrazia, del commercio, dell'economia, del diritto e così via. Caratteristica di questi linguaggi è quella di essere veicolati dai mezzi di comunicazione di massa, di avere una circolazione autonoma molto larga e che mira progressivamente a rimpiazzare il linguaggio comune 3. l'interdisciplinarietà, l'interartisticità; 4. l'urgenza di nuovi e più potenti mezzi di diffusione. Essendo quella tecnologica un'arte che assume i problemi e i modi della società di massa, è naturale che essa avverta la limitatezza dei veicoli di diffusione fin qui impiegati dall'arte. L'arte tecnologica, o di massa, non intende affatto adeguarsi passivamente al gusto di massa, essa cerca al contrario di imporre un suo gusto inserendosi attivamente in un contesto in cui cultura di massa significhi effettivamente cultura democratica. Pignotti definisce la Poesia Visiva in un’intervista di quegli anni come “una poesia che ricerca dei rapporti fra materiale verbale e materiale visivo, ambedue i materiali per lo più tratti e ‘rigenerati' da quotidiani e rotocalchi, strumenti di informazione di largo consumo. […] Una forma, una corrente artistica, che coniuga, in varia misura, il codice verbale a quello visivo. Mette ovvero in collegamento l’ambito di quella che è la letteratura, la poesia, la narrativa, da una parte, con l’ambito delle arti visive, pittura, disegno e compagnia bella".
3.1 I Temi Gli artisti del Gruppo 70 si occuparono principalmente del rapporto tra arte e linguaggio, portando avanti lo studio della semiologia in ambito artistico. Attraverso la loro poesia visiva, nella quale si mescolano parole e immagini, creano un mondo ironico di controinformazione estremamente critico nei confronti dei nuovi mezzi di comunicazione di massa che penetravano nel tessuto sociale per la prima volta, colpendo anche l’immaginario artistico. Le loro opere sottolineano infatti le criticità della società contemporanea capitalistica: un’arte sovversiva che racconta l’atmosfera degli anni 70, attraversata da movimenti politici e sociali che sono stati il motore di conquiste importanti come
43 Il gruppo fu soprannominato ìn questo modo poichè il proposito era quello di agire artisticamente e criticamente non su un futuro fantascientifico, ma su un futuro abbastanza prossimo. 44 Intervista di Vania Granata a Lamberto Pignotti, tratta dalla rivista Art in Theory, num. 34/2008.
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la legge sul divorzio e quella sull’aborto⁴⁵ e, allo stesso tempo, sottolinea lo sviluppo economico e tecnologico che ha caratterizzato quegli anni. Specialmente è il ruolo della donna a cambiare visibilmente. Se da una parte essa è intesa come la consumatrice per eccellenza dall’altra, si impone come una nuova protagonista della vita sociale e culturale del Paese. I consumi che crescono sono specialmente quelli che riguardano la casa (ancora luogo specificatamente della donna), come gli elettrodomestici e i nuovi mobili funzionali che entrano a far parte della quotidianità di uno strato più ampio della società. Alla donna vengono dedicate specifiche riviste, rubriche e pubblicità, in cui tuttavia il suo ruolo è per lo più confinato a quello di regina del focolare o seduttrice. Lucia Marcucci (29 luglio 1933) e Ketty La Rocca (14 luglio 1938 – 7 febbraio 1976) si sono impegnate attraverso le loro opere a creare una nuova riflessione sul mondo femminile in linea con le istanze femministe di quegli anni. In particolare, i collage delle due artiste evidenziano in maniera esemplare il lavoro di scardinamento dei pregiudizi e degli stereotipi sulla figura femminile di cui gronda la società di massa, la quale non sa far altro che evocare un solo tipo di donna che deve rientrare perfettamente nei margini delle copertine patinate. Ketty La Rocca non ha mai lasciato il suo lavoro di maestra elementare, soprattutto perché tra quei banchi poteva toccare con mano i condizionamenti di genere che la società imponeva alle bambine. Quelle discriminazioni sessiste sono il fulcro di tutta la sua produzione creativa che denuncia: il suo è un lavoro complesso e sfaccettato che punta a superare gli stereotipi linguistici e pone al centro la questione della “sincerità”: l’artista deve parlare di ciò che conosce, non fingere, non farsi condizionare dalle categorie, siano esse sociali, politiche o linguistiche. L’artista decide di sfidare le rappresentazioni stereotipate del femminile attraverso l’ironia e il nonsense, in opere dove l’accostamento straniante tra parole e immagini di origine mediatica smaschera i valori di giovinezza, bellezza, purezza, remissività e dolcezza tradizionalmente legati alla figura femminile nella società maschilista e cattolica. Le donne rappresentate in queste opere sono seducenti, all’apice della bellezza, sono spesso circondate da oggetti connessi al make-up, alla cura del corpo o della casa ed esibiscono un’aria sicura e felice, di cui tuttavia i lavori dell’artista svelano il carattere illusorio, attraverso la presenza di parole e frasi incongrue, che aprono una frattura nella visione addolcita promossa dalla pubblicità. Così risultano pungenti i suoi collage ritagliati da rotocalchi femminili, come "Non commettere sorpassi impuri" che raffigura sopra uno sfondo monocromo una foto prelevata da un réclame di una provo-
Ketty La Rocca, Non commettere sorpassi impuri, 1964-65
45 Durante quegli anni, grazie soprattutto, alle battaglie condotte dalle donne, segnarono importanti vittorie civili, sociali e culturali: come ad esempio nel 1968 quando l'adulterio femminile non è più considerato reato; nel 1970 viene approvata la legge sul divorzio e nel 1978 viene approvata la legge sull'aborto.
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cante donna bionda, circondata dalla sagoma ripetuta di un borghese piccolo (un montaggio forse ispirato dalle "Tentazioni del dottor Antonio" di Fellini).⁴⁶ La donna è ritratta nell’atto di coprirsi il seno con la mano sinistra, mentre alza il braccio destro piegandolo dietro la nuca, nella posa canonica della tentatrice, che ha precedenti illustri nella storia dell’arte occidentale (dalla figura centrale delle Demoiselles d’Avignon di Picasso, alle diverse versioni delle Bagnanti di Cézanne). La pubblicità, come avrebbe spiegato John Berger⁴⁷ pochi anni più tardi, si appropria infatti dei modelli alti della tradizione pittorica per rinforzare una rappresentazione del femminile conforme ai desideri maschili, nella quale la donna non è considerata in qualità di soggetto vedente, ma di oggetto “veduto”⁴⁸. Le immagini sono accompagnate dal divieto “Non commettere sorpassi impuri”, in cui il sesto comandamento biblico si fonde con il titolo del film di Dino Risi, Il sorpasso (1962), dove Vittorio Gassman interpreta il cinico truffatore Bruno Cortona, simbolo dell’esuberanza senza scrupoli e della voracità dell’Italia del miracolo economico. La critica di Lucia Marcucci è invece ancora più semplice e diretta. Pennarelli spessi e colori acrilici sono i mezzi attraverso cui l’artista esprime se stessa, modificando immagini che diventano schiaffi in faccia all’osservatore: più che la struttura dell’insieme, ciò che conta è la forza del messaggio. Una giovane donna a bocca spalancata, sta per accogliere tra le proprie fauci un piccolo uomo rannicchiato, raccolto con un cucchiaio: stiamo parlando dell’opera Che stupenda, deliziosa creatura! È proprio il piccolo uomo a pronunciare, alla maniera del fumetto, la frase che dà il titolo all’opera, evidenziando così il palese rovesciamento del modello dominante di uomo come crudele divoratore di donne, e restituendo in verità ad un mito ben più antico la metafora positiva della vagina come bocca: per dirlo con le parole della stessa Marcucci, “la donna… si ritrova simbolo oggettivato in un universo di significati creati e disposti dall’uomo”.
Lucia Marcucci, Che Stupenda deliziosa creatura!, 1972
46 Le Tentazioni del dottor Antonio, film del regista Federico Fellini, Italia, 1962. 47 John Peter Berger (5 novembre 1926 - 2 gennaio 2017) è stato un critico d'arte, scrittore e pittore britannico. 48 John Berger, Ways of Seeing, Penguin, Londra 1972, trad. Questione di sguardi, Il Saggiatore, Milano 1998, p. 49.
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3.2 Il linguaggio Gli esponenti del Gruppo 70 si rendono conto che il linguaggio della letteratura e dell’arte è eccessivamente lontano da quello comune. Decidono così di colmare questa distanza creando un nuovo lessico proveniente dall’ambito dei mass-media, cioè dai quotidiani, dai rotocalchi, dalla pubblicità, dai fumetti. Il collage, tramite il riutilizzo di testi e immagini provenienti dalla stampa, è la tecnica che risulta più adeguata per raggiungere questo risultato. I poeti visivi tentano di strutturare un codice linguistico alternativo, mettendo in evidenza le contraddizioni della nuova era tecnologica e dei nuovi linguaggi mass-mediatici, e riflettendo, quindi, sui rapporti arte e tecnologia e arte e comunicazione. Segno verbale e segno visivo assumono un rapporto reciproco di equilibrio senza subordinarsi a vicenda, avendo lo stesso peso nell'insieme dell'opera d'arte. Si tratta in sostanza del 'potenziamento espressivo' di una prassi artistica che si muove al di là del canone tradizionale. In tal senso è significativo ricordare la tecnica dell'affiche e del manifesto, in quanto rispondono all'esigenza degli artisti di stabilire una presa diretta con il pubblico. Questi artisti intendono porre l'accento proprio sull'inversione ironica dei significati e sulla sorpresa e imprevedibilità prodotta dal cortocircuito che s'instaura tra parola e immagine. Si tratta cioè di suscitare una sorta di continuo “spaesamento” nei confronti di quella che è l'ossessionante panorama di segni, simboli e figure che regolano la società dei consumi. La pratica del poeta visivo assomiglia molto a quanto teorizzato da Barthes sulla morte dell’autore⁴⁹: non più il genio creatore, ma un organizzatore in nuove forme e combinazioni di materiali già esistenti. Lo scopo del gruppo è volto a potenziare il linguaggio artistico attraverso il "sinergismo di diversi codici espressivi per raggiungere la stessa immediatezza ed efficacia comunicativa della lingua parlata e della moderna pubblicità". Si propone quindi di analizzare "...l'esperienza estetica in rapporto ad un universo comunicativo profondamente mutato rispetto al passato." Questo si traduce in una trasformazione della poesia in comunicazione plurimediale, anzi in un «neo-volgare» mediale, cioè un linguaggio comprensibile a tutti (a differenza di quello della contemporanea neo-avanguardia), disponibile alla contaminazione con la tecnologia e capace, proprio per la sua semplicità di approccio, di smascherare i prodotti della moda e della pubblicità. I testi sono generalmente brevi e debolmente strutturati e le parole vengono scelte unicamente per la loro forma, vale a dire per il segno che le disegna, che viene accolto nella sua autonomia figurativa. La considerazione delle parole è quasi feticistica nella: si privilegia l’operare che sta nella scrittura e nelle sue figure, senza andare a cercare altri tipi di figurazione. La poetica della Poesia Visiva tende, in sostanza, alla riscoperta di quel messaggio poetico - che si era perso a seguito dell'incomunicabilità dell'ermetismo e della nuova società industrializzata - attraverso il recupero fisico e materiale del grafema e la realizzazione pittorico del significante. Tutto ciò avviene grazie a vari procedimenti, tra cui l'intensificazione della presenza verbale, l'associazione del segno verbale con altri segni extra-linguisti e non verbali, combinazione della semanticità fra parola e immagine, associazione di elementi fonetici o grafici della lingua all'immagine. Eugenio Miccini (23 giugno 1925) è tra i primi ad accorgersi che il linguaggio verbale si sta esaurendo e deteriorando. Supportato da un attento studio della teoria delle comunicazioni, l’artista,
49 Roland Barthes (12 novembre 1915 – 26 marzo 1980) è stato un saggista francese. In un suo saggio intitolato La morte dell’autore, l’autore afferma “non appena comincia a scrivere, l’autore entra nella propria morte”. L’atto di scrittura, abolendo ogni idea di soggetto individuale, di genio creatore e, con ciò, di proprietà dell’opera, afferma piuttosto la persona linguistica, la soggettività come effetto di senso del testo.
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propone un’indagine critica su tutti i generi di linguaggio precostituito, dal più aulico al più volgare, per raggiungere una selezione più ampia di sperimentazione espressive le quali, devono costantemente relazionarsi con un importante problema concreto: quello del rapporto con il pubblico che rischia di soccombere all’omologazione di un gusto comune. Sono dunque necessari nuovi modi di espressione più immediati che, si possono concretizzare, attraverso un distacco dai tradizionali mezzi linguistici in favore, di un linguaggio moderno, usato dalla comunità contemporanea, ottenuto omogeneizzando in un’unica forma visiva, parole e immagini, simboli e segni tra loro eterogenei. In particolare l’artista usa la violenza estetica della poesia per rovesciare le regole della comunicazione, come ad esempio in "La posia incendia le parole". Il centro d’attenzione è catalizzato dalla grande fiamma rossa che arde e si autoalimenta da quegli stessi elementi di cui si compone: semplici ritagli di giornale, che l’artista incolla seguendo un disegno mentale dal quale scaturisce una forma sinuosa e vitale, come lo è il fuoco quale elemento primigeneo. “Il poeta incendia le parole” è un’espressione ricorrente anche in altre opere, che sottolinea la volontà di esaltare le parole, ma anche per sfaldarle, bruciarle, purificarle, farne cenere, riscattarle, ricondurle a quello stato originario. Nella consacrazione del falò delle parole, si evidenzia provocatoriamente, l’esigenza di uscire dalla gabbia dorata creata dall’intellettuale, che appunto solitamente si limita alla parola, per ricercare invece, un nuovo linguaggio nato da una rielaborazione intelligente della banalità invadente su cui poggia la comunicazione sociale, come afferma lo stesso Miccini: “[…] Io tento di sollevare dal loro livello zero gli atti di parole e di immagini che realizzano la comunicazione sociale ed anche gli stereotipi culturali […]”.⁵⁰
Eugenio Miccini, La poesia incendia le parole, 1997
50 cfr. E. Miccini, Il poeta è un evaso dal quotidiano, in Poesia Visiva 1963-1988. 5 maestri, Firenze 1988, pp. 426-428.
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La parola permette cioè alle immagini di acquisire quei sensi la cui lettura non si presenta subito evidente, mentre l’immagine, con la sua apparente estraneità alla parola a o al suo impianto segnico, concorre a costruire livelli di significato che probabilmente rimarrebbero nascosti. La parola poetica di Miccini si configura come parola “riscattata”, per una “intenzione” che non la rinvia né alla letteratura, né all’immagine, caricata di ambiguità quel tanto che è necessario per liberarla dalla univocità di senso della scrittura tecnologica. Miccini, in particolare, utilizza il linguaggio e i meccanismi del messaggio pubblicitario manipolandone il senso, restituendo alla comunicazione il lirismo di una eticità perduta cogliendo, in tal modo, la valenza poetica del rapporto parola-immagine. Da un punto di vista artistico le opere si configurano per un forte coinvolgimento visivo, inducendo quasi il “lettore” ad entrarci dentro, a penetrare in un teatro di forme e di colori che divengono parola in una surrealtà gioiosa e visionaria. Alla fine l’artista è una sorta di colto bricoleur che rappresenta l’atteggiamento originario dell’uomo di fronte al mondo, sia nelle radici pratiche del suo agire, sia nelle radici intellettuali. Ugo Carrega (17 agosto 1935 – 7 ottobre 2014) si concentra invece sulla metafora della scrittura: nei suoi lavori di poesia visuale (che lui chiama "scrittura simbiotica"⁵¹ e poi "nuova scrittura") la pagina poetica diventa la piazza in cui si incontrano signifati visivi e verbali che producono rapporti tra segno e colore. L’interesse di Carrega per la parola ha origini infantili. “La parola parlata era calda, ricca di connotazioni, determinate dall’ambiente, dalle espressioni del viso, dai movimenti del corpo, dal tono della voce…”, mentre quella scritta vive perennemente sul ciglio dell’indifferenza, in bilico sul filo dell’interpretazione personale del lettore. La parola, il segno, l’incessante rimando tra significato e significante sono stati l’oggetto del desiderio di Carrega, motore della sua creatività e della sua ricerca. Un terreno oscillante tra il preciso indirizzo concettuale e una più ampia riflessione che coinvolgesse l’intero metodo comunicativo. Carrega fonda nel 1965 la rivista Tool nella quale viene trattato l’ampliamento dell’area della scrittura attraverso un’analisi e una ristrutturazione dei linguaggi. Partendo dall’idea della "Pagina Globale", luogo ideale dove la scrittura si arricchisce di espressioni e segni grafici, Carrega arriva alla definizione di scrittura simbiotica che visualizza non più l’interazione, ma la vera e propria simbiosi tra i segni verbali e quelli grafici. All’interno, l’autore enuncia le sei categorie concettuali dell’espressione grafica e verbale che si combinano liberamente nello spazio della pagi-
Ugo Carrega, Five, 1962
51 Si tratta di un tipo di poesia sperimentale in cui agiscono in modo paritetico segni di diversa natura.
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na bianca: elemento fonetico, elemento preposizionale, lettering, segno grafico, forma, colore. Il lavoro di Carrega trova originali combinazioni tra le parole, il supporto scrittorio e la contaminazione con altri elementi materici da cui scaturiscono sperimentazioni innovative. Carrega scopre che unitamente al significato della parola e al suo suono, la parola ha una sua "visività", una sua presenza fisica, che non viene utilizzata nell'espressione. Si butta su tale "scoperta" e non l'abbandonerà più. La sua ricerca si sviluppa in un percorso autonomo di lavoro per costruire un'opera d'arte che riassuma in sé la forza espressiva della letteratura e della pittura. Con la consapevolezza che 'tutto è significante', nelle sue opere la verbalità si rende sintetica esprimendo concetti 'forti' (formali e/o esistenziali) mentre il segno si qualifica come "ciò che non può essere espresso con parola", oltre il limite del significato verso un senso 'superiore'. Secondo Carrega, se una parola è scritta su un vetro o su un muro o su un pezzo di carta, il significato di quel testo cambia, così se una lettera è scritta a mano, dattilografata o stampata chi la riceve, già al primo sguardo, ha un'idea del mittente. Al testo poetico affianca una traccia pittorica, che rafforza emotivamente il segno freddo della parole, che delimita il loro intento comunicativo, che ne espande il riverbero evocativo. Una scrittura quindi essenziale perché punta alla sostanza. L’essenza di questa parola viene colta dal lettore tramite la vista, attraverso un coinvolgimento ampio e inedito.
3.3 Il collage I primi esempi di collage risalgono all’inizio degli anni '60 e si riallacciano alla teorizzazione di una poesia tecnologica. Questo termine, coniato da Lamberto Pignotti (sotto l’influenza di Max Bense)⁵² apparve in un saggio del 1962 sul n. 2 della rivista "Questo ed altro". Allude ad un nuovo genere artistico basato sul riutilizzo di parole e immagini prelevati dall'ambito delle comunicazioni di massa (quotidiani, rotocalchi, pubblicità e fumetti). L'intento era quello di svelare gli abusi espressivi e gli automatismi alienanti del linguaggio logoro dei mass media, attraverso l'impiego di strumenti analoghi a quelli della Pop Art e del Concettualismo. Questa linea di ricerca ha molto a che fare con la citazione e la parodia. La sua tendenziosità, infatti, consiste nel disperdere l’atmosfera e il fascino seduttivo delle immagini della società dei consumi attraverso la giustapposizione con frasi discordanti, che costituiscono una sorta di controcanto. Nel porsi di fronte alle opere della Poesia Visiva infatti non si avverte mai la sensazione di ricevere passivamente quanto l’artista ha deciso di imporre; perfino le opere che sembrano contenere dei messaggi molto espliciti necessitano di uno sforzo attivo da parte di chi le legge/guarda. Il gruppo 70 condivide l’idea che il linguaggio letterario si stia avvelenando a causa di uno sperimentalismo insistito e fine a se stesso che condanna la poesia all’illeggibilità. Gli artisti propongono allora uno stile nuovo e immediato, che attraverso l’aspetto visuale faccia direttamente breccia su un numero elevato di persone allo stesso modo dei mass-media. Grazie all’uso del collage e una pittoricità volutamente grezza, i testi così costruiti si fanno veicolo di messaggi politicamente e socialmente impegnati, creando uno shock semantico sul piano dei contenuti: se l’estetica del mass-media è associata al messaggio rassicurante del linguaggio pubblicitario, il lavoro dei poeti visivi scardina questa relazione, costruendo significati a sfondo sociale e politico proprio attraverso
52 Max Bense (7 febbraio 1910 – 29 aprile 1990) è stato un filosofo e scrittore tedesco. Noto per il suo lavoro nella filosofia della scienza, nella logica, nell'estetica e nella semiotica, i suoi pensieri combinano scienze naturali, arte e filosofia, seguendo una definizione della realtà, che, influenzata dal razionalismo esistenziale, è in grado di eliminare la separazione tra discipline umanistiche e scienze naturali.
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quei media che si vogliono indagare o mettere in crisi. Il loro è un viaggio iniziatico, uno studio volto a smascherare i paradossi della comunicazione verbale dimostrando che in realtà non comunica più niente, se non la propria incomunicabilità. A questo proposito Pignotti parla esplicitamente di 'contropubblicità', di 'controrotocalco', di 'controfumetto' definendo la poesia visiva come 'il gesto di chi rispedisce la merce al mittente"'. Il più delle volte ci troviamo di fronte a termini prelevati da contesti quotidiani (titoli di giornali, sigle televisive, segnaletica stradale) fatti interagire in maniera provocatoria e problematica con immagini estrapolate da altri contesti quotidiani (fumetti, fotoromanzi, cartelloni pubblicitari): questo, per operare sempre direttamente su linguaggi di massa. Si è parlato di "scrittura verbovisiva" e anche di arte "plurisensoriale", che sarebbe legata alla classica figura retorica della sinestesia (scambi tra i cinque sensi) e in generale a un’idea di arte totale capace di mettere in funzione tutte le facoltà dell’uomo. I poeti visivi vogliono superare la forma lineare della pagina scritta, per organizzare il messaggio entro l’intero spazio della pagina, proprio come un pittore compone le sue immagini sulla superficie della tela. I rapporti tra le parole non avvengono dunque solo alla luce delle leggi sintattiche e metriche, ma anche tenendo conto delle caratteristiche formali dell’insieme. La pagina quindi prende l’aspetto di un collage, in cui il testo non serve a commentare le immagini, né queste a illustrare il testo. Entrambi gli elementi conservano i loro autonomi significati, spesso anche volutamente in conflitto. Collage di parole ed immagini, per trasmettere messaggi indipendenti o contradditori, ma in grado di formare un'opera unitaria ed indipendente costruita su più livelli di informazione, che punta il suo significato sul processo narrativo e trasformativo dei singoli elementi. Lamberto Pignotti (26 aprile 1926) con netto anticipo rispetto alla nascita della Poesia visiva inizia a guardare alla scrittura, e quindi alla parola, come un’immagine, e al bianco della carta, più che come pagina, come una superficie su cui realizzare i suoi collage, portando così avanti lo studio in ambito della semiologia.⁵³ Le sue opere nascono dal confronto tra segni e codici di diversa provenienza: attinge dai linguaggi specialistici, logico-matematici-scientifici, burocratici, commerciali, economici, così come dai linguaggi tecnologici, pubblicitari, giornalistici, narrativi. Utilizza il mezzo della parodia proponendo dissacranti rivisitazioni di immagini tipiche del repertorio visivo della pubblicità e che mirano a prendersi gioco di (ma anche a condannare) stereotipi, potere, consumismo, abuso dell’arte e della cultura. La pubblicità è il linguaggio forse più tipico della società di massa, nonché uno dei mezzi che potere e capitalismo adopera per assoggettare i destinatari del messaggio: obiettivo è quello di “rispedire la merce al mittente” e trasformare in soggetto attivo (che non si limita a guardare, ma dopo aver guardato interpreta e pensa) il soggetto passivo che subisce il repertorio della comunicazione pubblicitaria (o del marketing, diremmo oggi). Pignotti a proposito del linguaggio poetico affermava con forza che non esistono un lessico e una sintassi poetica, in quanto la poeticità non risiede all'interno di elementi linguistici, ma nella finalità e nel significato. Nei due convegni fiorentini questi temi vengono ampiamente discussi, giungendo al termine del secondo convegno alla definizione dei punti fondamentali di quella che verrà in un primo momento chiamata Arte tecnologica ma che in realtà costituisce il tronco su cui si innesta la Poesia visiva. Per “poesia tecnologica” l'autore intendeva una poesia che attingesse ai linguaggi delle tecnologie delle comunicazioni di massa, alla pubblicità, alla moda, al giornalismo. Ha infatti parlato di "cultura del neo-ideogramma" intendendo proprio la nuova civiltà dell'immagine, della tecnologia
53 La semiologia (dal termine francese sémiologie, che significa "studio del segno") è una disciplina che studia i segni. A differenza della semiotica, si occupa prevalentemente di linguaggi verbali o comunque attribuisce al linguaggio verbale un'importanza centrale.
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e dei mass-media, in cui l'Arte e la Letteratura divenivano un semplice messaggio, uno strumento dell'informazione e della comunicazione, a vantaggio del contenuto e del significato. È qui che la poesia diviene un segno, più precisamente un segno culturale e semiologico. L’obiettivo di Pignotti è quello di utilizzare la pubblicità per far capire al pubblico quanto la pubblicità stessa sia ingannevole, smontando e ricostruendo le parti del discorso e ironizzando sulle nuove forme comunicative inventate. Nell'uso della tecnica del collage ricrea, con efficaci effetti parodistici, la dimensione patinata delle riviste di moda e della pubblicità, nell'intento di restituire alla comunicazione stessa una dimensione estetica negatale dal pragmatismo esasperato della società consumistica. Ecco che si iniziano a mescolare parole e immagini oppure scrittura e pittura in forma di collage creando "così nuovi significati simbolici, codificando un nuovo sistema complesso ed eterogeneo, sia logico-verbale che iconico, derivato dall'intreccio di vari sub-sistemi e veicolato da "un condotto comunicativo ipostatico rispetto ai valori ideolessicali degli ingredienti, e deviante rispetto alle suture della loro coesione" - Luigi Ballerini ⁵⁴
Lamberto Pignotti, La biennale poliziotta contro studenti e artisti, 1968
54 Luigi Ballerini (1940) è uno scrittore, poeta e traduttore italiano.
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Anche Michele Perfetti (1931-2013) fà del collage il suo metodo di espressione principale. L’artista osserva, analizza e interpreta la realtà nel rapporto tra arte, cultura e società (molto dibattuto negli anni Sessanta) compiendo un’approfondita indagine di critica ideologica sulla cultura di massa. Egli scandaglia l’atteggiamento dell’individuo comune condizionato dai poteri forti e dai mezzi di comunicazione e, nella convinzione che la poesia visiva “costringe a guardare il mondo con occhi diversi”, perviene all’idea utopistica che l’uomo può essere responsabilizzato con il linguaggio verbo-visivo. Con l’idea di “cambiare il mondo” l’artista attuò una serie di manifestazioni coinvolgendo gli operatori del luogo, i quali attraverso mostre e pubblicazioni svilupparono un’intensa attività di rinnovamento della poesia e dell’arte. Nel 1967 pubblicò il primo libro, …000+1 Poesie tecnologico/visive,⁵⁵ utilizzando un codice linguistico che sarà prevalente in tutta la sua produzione verbo-visiva, il collage di scritte e immagini tratte dai giornali e dalla pubblicità. In ogni tavola, attraverso gli slogan della comunicazione di massa, esprime significati ironici e dissacranti contro il potere economico e politico. L’artista saccheggia le icone dei mass-media utilizzando slogan e quant’altro per contestare ogni tipo di informazione, per interpretare, illustrare, criticare la società dei consumi, i riti e i miti del tempo, in cui l’immagine pubblicitaria è vista sotto la luce dissacrante dell’ironia. Perfetti colpisce il sistema attraverso i suoi strumenti di persuasione, e i fruitori passivi di questo strumento: denuncia la fatiscenza della piccola borghesia, la regressione, la inutilità del suo discorso anti-storico, dissacra i miti del perbenismo, oppone alla falsa virtù i feticci dell’Eros industrializzato. In fondo, quello di Perfetti è un messaggio che interroga il riguardante, lo induce a riflettere, lo invita al senso di responsabilità nei confronti dell’attorno. In altre parole, nelle opere del nostro artista forma e contenuto, estetica ed etica sono profondamente interconnessi. Nei suoi lavori i corpi tipografici, i colori, gli spazi, le forme e quant’altro pongono la questione del rapporto tra il linguaggio e il mondo. A differenza di molte opere criptiche del periodo, quelle di Perfetti sono convenienti quanto altre mai alla comunicazione, allo scambio di pensieri con il riguardante, perché sul supporto la relazione parola-immagine è di per sé eloquente e portatrice di significati e significazioni altre.
Michele Perfetti, Mai di domenica, 1967
55 Michele Perfetti, Ö 000+1 Poesie Tecnologico/Visive, Circolo Italsider, Taranto, 1967
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3.4 Altre tecniche La Poesia Visiva è un’arte inclusiva, che permette il suo inserimento su più canali e il cui principio ispiratore è proprio l’attivazione multisensoriale, la creazione di sinestesie attraverso le suggestioni delle immagini e il significato e la forma della parola. Le tecniche utilizzate sono numerosissime: scrittura a mano, collages fotografici, caratteri a stampa, montaggi video, pitture, ecc. La poesia è concepita come fatto artistico visivo, gestuale, fonetico, direttamente connesso con esperienze espressive diverse: arti visive, musica, teatro. Le parole non vengono più usate per la loro semanticità, per il loro significato, ma per i valori grafici e visivi che possono assumere. Ogni artista persegue la propria poesia visiva in cui prevale una ricerca comune di equilibrio tra imagine e parola, tra l'aspetto iconico e quello verbale. Il percorso degli artisti che legano la propria ricerca alla complessità totale del linguaggio ha una radice poetica e una tensione "politica". Tutti partono dalla scrittura ma arrivano fino agli ambiti più vari dell’espressività, dalla poesia al racconto, dalla pittura alla materia, dalla scrittura al pensiero, dalla parola al suono, alla musica, alla performance. Ciò che accomuna tutti gli esponenti della poesia visiva è il tentativo di fondare una nuova forma d’arte che non sia esclusiva della parola, come la poesia, né dell’immagine, come la pittura. Si cerca una forma d’arte che si configuri come un’arte generale del segno. “La cancellatura? È una forma di distruzione creativa”. Questa è la strada intrapresa da Emilio Isgrò (6 ottobre 1937) che ha fondato un nuovo linguaggio, originale e composito grazie alle cancellature che hanno aperto la strada ad un nuovo modo di intendere il valore della parola e della comunicazione. L’operazione artistica, semplicissima, consiste nella cancellazione di quasi tutte le parole in una pagina tale che quelle rimaste producano un nuovo senso e le strisce nere creino una composizione geometrica astratta. Tutto cominciò nel 1962, quando correggendo un testo di Giovanni Comisso⁵⁶, Isgrò si ritrovò alla fine tra le mani un aggrovigliato insieme di segni e correzioni, episodio che così descrive: ”Un mare di cancellature, il cui peso era più forte delle parole”. Lo racconta in un’intervista “Una volta, correggendo un articolo, mi sono improvvisamente accorto che le cancellature avevano più forza delle parole. È stata per me una rivelazione, e da quel momento ho intrapreso un’operazione radicale, destinata a sconvolgere le regole del sistema, tanto che conia slogan estremisti, come ‘La parola è morta’, che fecero molto scalpore. Era evidentemente un’esagerazione, ma descriveva bene il mio stato d’animo e il desiderio di reagire al pieno di parole che aveva fatto la cultura occidentale”.⁵⁷ Così l’artista ha iniziato ad intervenire sul testo, che fossero manifesti o libri, fumetti e riviste, coprendo con un segno nero deciso la maggior parte delle parole, fino ad arrivare all’Enciclopedia Treccani, la Bibbia e la Costituzione Italiana; stravolgendo così le attese del lettore attraverso l'alterazione del linguaggio con cancellature e sostituzioni. Isgrò dichiara di voler eliminare attraverso la cancellatura quello che egli stesso definisce come “brusio di fondo”, colpevole di limitare se non d’impedire totalmente al fruitore una corretta comprensione dei testi. La cancellatura è il mezzo attraverso cui ha fatto spiccare in modo particolare alcune parole e alcune frasi, poichè la sua idea era di rinforzare la dignità della parola. L’artista elimina dunque ciò che è superfluo per far emergere la parola da un “silenzio visivo”⁵⁸. Il vuoto creato dalla cancellatura permette allo spettatore di ragionare sul valore estetico della parola, sull’importanza di
56 Giovanni Comisso (3 ottobre 1895 – 21 gennaio 1969) è stato uno scrittore italiano. 57 Una parte dell’intervista qui riportata è tratta dal volume: Emilio Isgrò, Come difendersi dall’arte e dalla pioggia, Maretti Editore, 2013, pag. 266 58 Questa tecnica è fedele a una filosofia assimilabile al celebre motto “Less is more” coniato da Mies van der Rohe (27 marzo 1886 – 17 agosto 1969) architetto e designer tedesco.
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senso e significato di cui è veicolo e infine sulla dannosa quantità di superfluo a cui l’uomo è inconsciamente assuefatto. La cancellatura non è una banale negazione ma piuttosto l’affermazione di nuovi significati: è la trasformazione di un segno negativo in gesto positivo.⁵⁹ Tutti i lavori che realizza nel corso della sua carriera si basano sul culto delle parole e sui significati che queste possono assumere se manipolate attraverso il gioco dell’arte, la cui forza è proprio quella di ridisegnare la realtà. Le sue opere oltre ad essere esteticamente attrattive inducono a una riflessione: l’arte più della vita è in grado di regalare grandi emozioni, offrendoci prospettive altrimenti impossibili. Cancellare, ingrandire e decontestualizzare sono azioni che mirano – nel processo creativo dell’artista – allo stesso, identico scopo. Allo spettatore è richiesta attiva partecipazione, diventa egli stesso parte integrante dell’operazione artistica di Emilio Isgrò. Questa è la cifra più significativa nella produzione dell’artista. Parola e immagine vengono destrutturati e successivamente rielaborati in una forma nuova. Estratte da un contesto che ne ha gradualmente dimenticato valore e significato, le parole vengono riproposte allo spettatore sotto nuova luce. Isgrò suggerisce l’importanza fondamentale di non considerare come ovvi, scontati e conosciuti questi canali di comunicazione, troppo facilmente opacizzati attraverso un loro utilizzo improprio. Toccando svariati linguaggi espressivi – cancellerà infatti anche spartiti ed opere musicali, cartine geografiche e planisferi – l’artista arriverà ad esprimersi anche attraverso la scultura.
Emilio Isgro′, Volume VI dell’Enciclopedia Treccani “Banato”, 1970
59 È importante non confondere la cancellatura di Emilio Isgrò con il Metodo Caviardage (tecnica ideata da Tina Festa) perchè il processo di quest’ultimo è diametralmente opposto ed ha dei passaggi chiave ben precisi. La parola francese caviardage (derivata da caviar, caviale, di colore nero), significa sopprimere, cancellare, censurare.
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Una tecnica differente è quella usata da Adriano Spatola (4 maggio 1941 – 23 novembre 1988). Nelle sue opere la veste tipografica della scrittura acquista qualità estetica al di là del suo specifico significato: così nascono gli "Zeroglifici" ove la parola è distrutta, ne rimane solo lo sfacelo grafico. A Spatola interessava la distruzione semantica per una liberazione del linguaggio, secondo un programma che era stato una ipotesi dei poeti russi Krucenych e Chlebnikov nel 1913.⁶⁰ Pubblicata nella collana «Il dissenso» della casa editrice Sampietro, l'opera si compone di 16 schede in cartoncino rigido raccolte in un contenitore a forma di busta. Le schede non portavano alcuna indicazione di alto/basso, potevano di conseguenza essere “lette” secondo una scelta del lettore o a caso; inoltre le varie schede non erano numerate e quindi le stesse regole valevano per la loro disposizione. Le tavole sono prive di titolo e presentano grafemi dai contorni tagliati e ridisposti nello spazio come se si trattasse di un collage, sviluppando un'opposizione tra i colori bianco e nero dei caratteri e dello sfondo, alternati nelle varie composizioni. I testi sono stati ottenuti mediante la frantumazione programmata di un materiale linguistico preesistente: quest’ultimo rinuncia non solo alle possibilità semantiche, ma anche a quella “leggibilità” immediata che è prerogativa della lettera alfabetica. Zeroglifico nasce naturalmente dalla parola “geroglifico” – con la sostituzione di zero a gero: e sappiamo che geroglifico deriva dal latino tardo hieroglyphicum, dal greco hieroglyphicos ossia pertinente alle sacre (da hieros) incisioni (dal verbo glyphein, incidere, scolpire) – e vuol significare l’annullamento del messaggio semantico, fermo restando il messaggio iconico. Tutto ciò esprime la
Adriano Spatola, Zeroglifico, 1966
60 Velimir Chlebnikov, pseudonimo di Viktor Vladimirovič Chlebnikov (9 novembre 1885 – 28 giugno 1922) e Aleksej Eliseevič Kručënych (21 febbraio 1886 – 17 giugno 1968) furono importanti poeti russi futuristi. Insieme diedero vita alla lingua poetica detta zaum o zanghesi: parola usata per descrivere esperimenti linguistici di fonosimbolismo e di creazione del linguaggio.
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la volontà di tornare al grado “zero” della scrittura e quindi della parola. Fin dai primi anni Sessanta, Spatola aveva perfettamente compreso che l’arte della parola sarebbe stata coinvolta in processi di sconfinamento linguistico e di contaminazione interartistica in misura sempre maggiore. Infatti quest’ultimo è tra i primi ad avvertire questa nuova dimensione creativa. E nel suo saggio Verso la poesia totale indica chiaramente la vastità e la complessità della ricerca, che ponendosi al di là di qualsiasi limitazione di tipo linguistico, strutturale, metodologico, tecnico, disciplinare o mediatico procede verso la totalità, organizzandosi come atto inglobante. Cosicché ogni aspetto coinvolto nel gesto creativo deve essere inteso come mezzo e non come fine. Dopo la grande rottura degli anni Ottanta, segnata da un faticoso ripiegamento verso il passato e la fine delle grandi ideologie, il complesso panorama dei “gruppi” nati negli anni Sessanta si disgrega. L’epoca postmoderna, di cui si sente ancora l’eco, ha portato una rivoluzione altrettanto importante: la frammentazione che, se da una parte ha creato isolamento, dall’altra ha reso possibile un recupero individuale e approfondito degli interessi culturali propri di ogni artista e il confronto con i più recenti strumenti di comunicazione ed editoria. Gli artisti e studiosi del linguaggio sono diventati esploratori di se stessi, della storia, della cronaca, delle arti, del web. Nel mondo dell’arte vi è ancora molta attenzione per l’uso del linguaggio e della parola poetica e per la conservazione di chi ha posto le basi di tali questioni.
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Capitolo 4: I successori della Poesia Visiva 4.1 Arte Concettuale Si definisce Arte concettuale qualunque espressione artistica in cui i concetti e le idee espresse siano più importanti del risultato estetico e percettivo dell'opera stessa. Il movimento artistico si è sviluppato dagli Stati Uniti d'America a partire dalla seconda metà degli anni sessanta e si è sviluppato in quasi tutto il mondo (Italia compresa). L'arte concettuale fu il punto d'arrivo del percorso che, dall'impressionismo in poi, aveva caratterizzato l'evoluzione dell'arte visiva contemporanea mediante la volontà di sottrarre l'arte medesima ai vincoli formali e culturali che ne avevano costituito la tradizione: la scelta di rinunciare addirittura all'opera dopo aver ripudiato in sequenza la prospettiva (cubismo), il passato (futurismo), il valore venale dell'opera (dadaismo); rappresentò senza dubbio il momento più alto e, nel contempo, l'ultimo possibile offerto alla ricerca e all'ansia di novità delle avanguardie novecentesche. In questo senso possono essere definite "concettuali" esperienze molto diverse tra loro ma caratterizzate comunque da un comune denominatore inequivocabile (la Land Art, l'Arte povera, la Body Art, la Narrative Art, ecc.). Vi sono sei tipologie diverse di Arte Concettuale⁶¹, sei modi differenti adottati dagli artisti per contestare la definizione estetica di opera d’arte e porre in evidenza il ruolo svolto dalle idee nell’ambito della produzione di significato enunciato da forme visive: una di queste viene definita parola e sogno, in cui le opere sono inerenti alla sfera del linguaggio, le quali assumono la forma di testi dipinti, scritti o stampati. Sul finire degli anni ’60 infatti i testi invasero le gallerie d’arte e la distinzione tra spazi espositivi e luoghi di pubblicazione cessò di esistere. I testi, rivendicati alla stregua di opere d’arte vere e proprie, acquistano nuove e precarie valenze artistiche culturali. Il contenuto semantico delle parole dipinte e la loro forma visiva vennero messi sullo stesso piano. L’arte concettuale è arte incentrata sul definire cosa sia arte e che mette al centro dell’espressione artistica un ragionamento estetico, spesso autoreferenziale. La definizione di arte concettuale nel contesto dell'arte contemporanea si deve a Joseph Kosuth (31 gennaio 1945) che la utilizzò verso la metà degli anni sessanta per definire il suo obiettivo di un'arte fondata sul pensiero e non più su un ormai frainteso ed equivoco piacere estetico. Secondo lui gli artisti hanno a che fare con i significati e mai con la forma: è compito dello spettatore\lettore “creare” l’opera, ed è attraverso il suo atto visivo\linguistico che l’opera stessa acquista significato. Le opere di Kosuth, nella loro apparente banalità, comportano una totale immersione in un mondo, quello delle parole e del loro senso più intrinseco, che porta l’idea e il concetto a ridefinire ciò che osserviamo. I sensi comuni non bastano più, ciò che l’artista ci chiede, invece, è liberarsi dell’idea di un’arte prettamente estetica e abbandonarsi a una ricerca antropologica, un’immersione iconica e segnica del senso. La sua arte è soggetta a un processo di dematerializzazione e ciò che ne resta è una sequenza di definizioni estratte dalle pagine di un vocabolario in una complessa dialettica tra significato e significante. L’artista considera quindi l’opera d’arte come un’investigazione sulla natura del linguaggio artistico, come una definizione dell’artista su cosa l’arte è. “La mia opera è una costruzione della sua stessa idea”, afferma l’artista. L’intenzione è molto forte: neutralizzare qualunque questione riguardo il piacere estetico nel modo più radicale: eliminandolo. Il concetto dice, logi61 Le tipoloie di Arte Concettuale (tratte da P. Osborne, Arte concettuale, Phaidon Press Limited, 2011) sono "Istruzione, performance, documentazione" che identifica le prime performance documentate; "Processo, sistema, serie" che riguarda quella parte dell'arte concettuale legata al Minimalismo; "Parola e segno" che identifica l'arte legata alla sfera del linguaggio; "Appropriazione, intervento, quotidianità" dedicata alle pratiche artistiche che intervengono su altre forme culturali; "Politica e ideologia" che si incentra sulle opere d'arte di contenuto politico; e infine "Critica istituzionale" che riguarda le opere che pongono al centro i rapporti di potere all'interno delle istituzioni create per la produzione e la fruizione dell'arte.
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camente e semioticamente, tutto il necessario per fruire dell’opera. Il piacere non serve. Per i suoi lavori utilizza il linguaggio verbale o immagini fotografiche, prende spesso spunto dalla pubblicità, ma a differenza della pop art o minimal art, utilizza l’elemento pubblicitario trasformandolo e decontestualizzandolo in modo che la gente non percepisca l’opera come pubblicità. Kosuth afferma: “Ogni esperienza di un’opera d’arte è completamente organizzata, modellata, fraintesa, esaltata e quant’altro dal linguaggio. Ogni oggetto naviga in un mare di parole, ma il linguaggio nell’arte veniva sempre usato in modo non critico. Io ho voluto invece che il linguaggio entrasse criticamente e dalla porta principale”. L'installazione Una e tre sedie comprende una vera sedia, una sua riproduzione fotografica (a sinistra) ed un pannello su cui era stampata la definizione da dizionario della parola "sedia" (a destra)⁶² l'artista si proponeva di richiamare lo spettatore a meditare sulla relazione tra immagine e parola, in termini logici e semiotici.⁶³ L’autore attraverso l’opera indaga i metodi di rappresentazione della realtà: qui in particolare sul concetto di sedia. Ci si può chiedere se questa operazione sia arte. Kosuth rispose a questa domanda che fare arte significa creare significato. Quindi nel suo caso l’artista riflette sul significato “sedia” e ne propone diverse rappresentazioni: muovendosi su tre livelli di realtà, l’installazione utilizza tre diversi linguaggi. Trattandosi di un’installazione che valorizza il linguaggio, la luce è distribuita in modo uniforme per rendere leggibile ogni parte dell’intervento e suggerisce una fruizione razionale e neutra e non emozionale e personale. L’osservatore quindi è invitato a fruire dell’opera ad una certa distanza in modo da leggere l’installazione nel suo insieme. Infatti non è importante la caratteristica oggettiva della sedia ma solo la sua presenza. Inoltre non è richiesta nemmeno la puntuale lettura della sua definizione scritta perché è presente solo in modo simbolico. Il visitatore non è quindi tenuto accogliere un aspetto estetico nel materiale ma la disposizione ambientale è organizzata in modo da evidenziare al meglio l’esempio dei tre linguaggi di fronte all’osservatore.
Joseph Kosuth, One and three chairs, 1965
62 Il riferimento polemico dell’opera è certamente Magritte, che solo dodici anni prima aveva realizzato l’ultimo di una serie di rifacimenti de L’inganno delle immagini. 63 Il riferimento filosofico esplicito per quest’opra dell’artista è Ludwig Josef Johann Wittgenstein (26 aprile 1889 – 29 aprile 1951) filosofo e autore in particolare di contributi di capitale importanza alla fondazione della logica e alla filosofia del linguaggio e considerato da alcuni, specialmente nel mondo accademico anglosassone, il massimo pensatore del XX secolo.
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Kosuth fa anche spesso uso del neon, infatti sostiene che “il neon è simile alla scrittura, non è permanente. Ha una diversa dimensione della permanenza. Poiché il neon tende ad adattarsi bene ai progetti pubblici, che attirano più attenzione, la gente associa la mia opera ad esso. Ho iniziato ad usarlo a metà degli anni sessanta, ma rappresenta soltanto uno dei modi in cui lavoro”. Con Joseph Kosuth, altri artisti come Mario Merz, Bruce Nauman e Maurizio Nannucci⁶⁴ fanno la loro prima comparsa i testi al neon. Frasi che spesso descrivono solo se stesse ma che nella loro luminosità diventano oggetti astratti, immagini fluttuanti nello spazio, vere opere visive. E’ per la sua tangibile immaterialità e per il richiamo piuttosto pop alle insegne pubblicitarie, che il neon è diventato presto il materiale preferito dagli artisti concettuali dagli anni Sessanta in poi. Il lavoro di Bruce Nauman (6 dicembre 1941) è rivolto all’investigazione dell’uomo e della conoscenza di se stesso, cattura lo spettatore e lo porta in una nuova dimensione, una dimensione psicologica, disturbata, parallela e se vogliamo ribaltata. Nei suoi lavori c’è un cortocircuito tra lo spazio e la realtà, che è intrappolata negli schermi di Nauman, dando via ad un percorso neurotico senza fine, dove l’unico arrivo è il ripetersi. La paura ed il soffocamento sono presenti nel lavoro dell’artista, sono paure legate al silenzio e al vuoto dell’inconscio umano. C’è il doloroso sforzo del distacco totale dalla società e dal sistema linguistico, c’è la tristezza di chi abbandona un linguaggio. In Nauman si percepisce che l’avvento della società odierna e sedentaria, che circonda noi e l’uomo, provoca la crisi della memoria e del linguaggio articolato che ci distingue dal mondo animale e ci proietta in una sfera le cui dimensioni, potenzialità, valori vanno al di là dell’universo sensibile da cui proveniamo. Le opere dell’artista, spesso, si caricano di una sottile ironia, si sente il suo interesse per le sperimentazioni linguistico-dadaiste che sembra dare alle sue opere un alone di mistero e di significati da scoprire. Nell’opera One houndred live and die, vi sono quattro colonne di neon contenenti venticinque frasi che mettono in relazione la vita e la morte mediante diverse azioni, emozioni e colori. Nella prima e terza fila tutte le locuzioni terminano con “Die”, mentre nella seconda e quarta con “Live”. La sequenza di luci e tonalità differenti rappresenta l'esperienza umana. Le frasi si accendono e si spengono in modo alternato e ripetitivo fino al culmine dell'illuminazione quando l’intero brano si accende creando una sinfonia visiva. L’artista indaga proprio sul campo del linguaggio e dell’emotività. Il vivere e il morire sono due momenti che, inevitabilmente, fanno parte dell’esistenza umana e qui vengono enfatizzati accompagnandoli con semplici attività quotidiane. Il mangiare, il dormire, il parlare prendono vita in quel lasso di tempo che separa il nascere dal morire, azioni che facciamo durante il nostro “stare al mondo”, ma dietro cui aleggia sempre l’idea della morte, condizione imprescindibile della vita. Veder scritto con colori fluorescenti la parola “Morire” crea disagio, destabilizza: alla morte si collega, solitamente, il nero, l’assenza di luce, mentre il neon produce una forte luminosità. Questa opera rappresenta la serialità delle nostre attività giornaliere, svolte automaticamente, senza pensarci. Il fatto che accanto ad ogni affermazione ci sia il suo opposto destabilizza, disorienta, è come se non sapessimo più dove rivolgerci e cosa pensare, è come se improvvisamente non avessimo più certezze. Nella vita di tutti i giorni la certezza non esiste, a parte il Live e il Die, ma, non essendo abituati a fermarci e riflettere su questo, ci sentiamo smarriti quando la realtà delle cose ci si mostra forzatamente. Nauman non intende stabilire un legame tra le coppie di parole composte con il neon, né concepire un motivo reale per l’accostamento delle frasi in sequenza. Sembra piutto-
64 Mario Merz (1 gennaio 1925 – 9 novembre 2003) è stato un artista, pittore e scultore italiano, esponente della corrente dell'arte povera. Bruce Nauman (6 dicembre 1941) è uno scultore, fotografo videoartista e performance artist statunitense. Maurizio Nannucci (1939) è un artista italiano che sin dalla metà degli anni '60 esplora il rapporto tra arte, linguaggio e immagine, tra luce-colore e spazio, creando inedite proposte concettuali, caratterizzate dall’utilizzo di media diversi: neon, fotografia, video, suono, edizioni e libri d’artista.
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sto che rifletta sull’incapacità del linguaggi a descrivere effettivamente le cose: cento frasi sul vivere e morire non ne esauriscono, né ne spiegano la condizione effettiva. Nauman agisce direttamente sulla forma di quelle bacchette generatrici di luce, facendole diventare qualcosa di unico, di intimo. E il rapporto di parentela con l’oggetto è rivendicato dalla deformazione che i neon subiscono, fino ad assumere la forma del cognome dell’artista, che così può irradiarsi ed amplificarsi verso lo spettatore.
Bruce Nauman, One hundred Live and Die, 1984
La ricerca di continua di Nauman quindi, verte su l’analisi della condizione umana che non deve essere contemplata o emozionare, ma bensì è uno strumento di comunicazione, una guida che ci accompagna nei misteri della mente umana, che mette in contatto pubblico e artista, uomo e uomo. Io e tu.⁶⁵ Le immagini ci evocano memorie scomposte fissate negli spazi. Nel lavoro dell’artista, c’è il ricordo, stralci di ricordi che vengono impressionati in luoghi come una casa, un angolo, una stanza, prendono una nova forma e cancellano il passato, portandoli in territori dai confini sconosciuti dove convivono l’amnesia e la dimenticanza, che si ripetono all’infinito, come se non si volesse ricordare
65 Questa riflessione sulla condizione umana è in parte influenzata dalla lettura dello scrittore Samuel Beckett (13 aprile 1906 – 22 dicembre 1989). Nelle sue prime opere, egli ha provocatoriamente rifiutato ogni concessione a una facile comprensibilità e ha mirato a presentare l'uomo spoglio del suo aspetto sociale, delle sue stesse facoltà fisiche e intellettuali, che sconta “il peccato di essere nato”, alle soglie dell'assurdo e del silenzio, onde la disgregazione del suo stesso linguaggio.
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tutto, perché forse, sono poche le cose che meritano di essere ricordate. Nei lavori di Nauman prende vita un’ immagine dell’oblio che si manifesta attraverso figure instabili e molto complesse. Una poetica a-razionalista che esalta la follia, il sogno, il sonno, tutto quello che comunica un’ irregolarità rispetto ai normali comportamenti. La società, il sociale, il collettivo, diventano una prigione a cui si contrappone un rifiuto individuale, un imperfezione, che non sono più dei normali difetti, ma sono qualità. Sono rifugi. La ripetizione, lo sdoppiamento, la dimenticanza, la follia come forma di evasione. La sua indagine si può riassumere con l’affermazione “Io voglio usare la polarità investigativa che esiste nella tensione tra spazio pubblico e privato, e usarla per creare ansia”.
4.2 Post-concettuale All’inizio degli anni ’80, al rifiuto polemico del visivo era succeduto un più generale interesse postconcettuale per gli impieghi strategici delle forme visive della tradizione artistica e dei mass media. Questo si accompagnò a un’enfasi sull’installazione come atto di realizzazione di una data opera in un particolare contesto, dentro o fuori lo spazio espositivo: artiste come Jenny Holzer e Barbara Kruger scelsero infatti di intervenire su spazi pubblici. Jenny Holzer (29 luglio 1950) artista statunitense, fa della parola il suo mezzo di espressione artistica. I suoi primi testi appartenenti alla serie intitolata Truisms (=”verità ovvie”) consistevano in manifesti bianchi poco appariscenti con scritte nere, affissi su alcuni muri di Manhattan; questi hanno anticipato quella comunicazione non convenzionale che oggi chiamiamo guerriglia marketing⁶⁶. Si tratta di frasi brevissime, lunghe non più di una riga, che partono da aforismi noti fino a trasformarsi in provocazioni e riflessioni. Queste verità non rivelano apparentemente nulla ma assumono un peso attraverso il contesto che l’artista crea: in un primo momento si sono diffuse su qualsiasi tipo di supporto facilmente fruibile: t-shirts, volantini, confezioni di profilattici, cappellini o tabelloni segnapunti. Successivamente, la Holzer decide di inserire i suoi aforismi tra i grandi pannelli pubblicitari che illuminano le pullulanti strade di New York (nella sua più celebre installazione Spectacular Board) in cui si può notare la fusione di due retoriche contrapposte: l’impulso passionale e irrazionale tipico del manifesto, e la razionalità fredda e di servizio della didascalia. Le presenta quindi in modo da farle sembrare verità assolute, rendendole impersonali e neutre (per esempio eliminando i riferimenti al genere grammaticale) e imitando il linguaggio dei mass media. In questo modo Holzer rivela il condizionamento subliminale di cui siamo oggetto in quanto membri della società. Non sono inviti ad acquistare l’ultimo prodotto in voga, ma l’esortazione ad acquisire fiducia in se stessi o consapevolezza verso gli eventi che ci circondano: sono spot pubblicitari per la nostra coscienza. L’intenzionalità artistica di non firmarsi accentua l’universalità dei messaggi trasmessi, affermazioni brevi ed incisive che ancora oggi continuano a colpire il senso comune, il pensiero dominante o qualunque tipo di pregiudizio grazie alla loro profonda ma trasparente chiarezza. Non esiste un soggetto, l’autore delle frasi, spesso prese in prestito da poeti e scrittori, non viene percepito: il lettore é così forzato a porsi delle domande, a prendere una posizione in merito a queste frasi provocatorie, che sembrano stralci di conversazioni che si possono sentire in televisione o mentre camminiamo per strada, senza nemmeno rendercene conto. L’artista fa un uso più diretta-
66 Strategia pubblicitaria a basso budget, attuata attraverso tecniche di comunicazione non convenzionali per colpire l'immaginario e stimolare la curiosità degli utenti
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mente politicizzato e attivista di una tecnica già esistente, derivata dalle pratiche artistiche concettuali basate sul linguaggio. I Truisms ci mostrano, quindi, come fatti e concetti esterni a noi, spesso indotti dal sistema, vengano interiorizzati come pensieri individuali e monologhi interiori. Holzer ha saputo sfruttare gli spazi collettivi della nostra contemporaneità, dalle piazze, facciate di palazzi e muri. L’arte, accessibile a chiunque, che si inserisce in contesti non prettamente artistici ha sicuramente una presa più elevata sulle persone, indotte a leggere questi messaggi, cercando di estrapolarli dal loro contesto comunicativo. Al di fuori dell’ambiente protetto e schermato dell’arte, il loro impatto è infatti più forte, perché lì siamo più indifesi, naturalmente portati a leggere i messaggi che ci circondano non come oggetti estetici (finzioni) ma come messaggi funzionali, legati pragmaticamente al mondo reale e al nostro comportamento effettivo.⁶⁷
Jenny Holzer, Spectacular Board (Protect Me From What I Want), 1982
Barbara Kruger (26 gennaio 1945) graphic designer e artista, iniziò a montare immagini e testi nei primi anni ’80 lavorando su argomenti della vita quotidiana che hanno un enorme impatto psicologico su ciascuno: dal consumismo alla definizione della bellezza da copertina. L’intento è quello di catturare l’attenzione dello spettatore per condurlo ad un’istantanea presa di coscienza sul tema proposto dallo slogan, e quindi sul messaggio implicito contenuto in esso. Tipicamente pubblicitari sono anche i mezzi di trasmissione e di fruizione: le strade e i giornali diventano piattaforma comune per il suo lavoro, insieme anche a grandi installazioni che occupano anche 67 L'approdo più recente della sua ricerca artistica è costituito dalle proiezioni allo xeno: presentate per la prima volta a Firenze nel 1996, in queste opere le frasi luminose formano lunghi testi che scorrono sulle superfici urbane, assumendo inediti connotati di grande suggestione visiva.
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più di un’intera sala di una galleria. La Kruger si focalizza su temi che sono accessibili a chiunque e li esprime con un linguaggio artistico molto personale e fortemente caratteristico: partendo da fotografie estrapolate da riviste o pubblicità degli anni Cinquanta e successivamente acromatizzate. Una volta realizzato ciò che costituirà il background dell’opera, compone frasi provocatorie che incentrano l’attenzione su un particolare dell’esistenza frenetica del mondo moderno che si dà per scontato. Solitamente le parole riportate sulle fotografie vengono incorniciate da un box di colore rosso in modo che l’osservatore possa focalizzarsi ancora di più sul significato dell’opera: l’artista si rivolge direttamente allo spettatore senza alcuna intermediazione. In una severa collisione tra contenuto e forma, il contatto visivo è fondamentale perché le aree di significato non vengano fraintese e il lavoro rimanga quindi coerente. Kruger manifesta apertamente la sua opposizione alle ingiustizie politiche, economiche e sociali, scagliandosi contro il consumismo, il razzismo, la violenza, le discriminazioni e tutti gli abusi di potere. Avendo lavorato nel settore della grafica commerciale⁶⁸, l’artista è al corrente delle tecniche mediatiche mirate a persuadere il ricevente a conformarsi ai comportamenti sociali, economici e ideologici più vantaggiosi per i gruppi dominanti. Al pari di Holzer, anche Kruger prende in esame il modo in cui percepiamo i messaggi verbali e visivi messi in circolazione dai centri occulti del potere e li intercetta sovvertendone la logica.
Barbara Kruger, I Shop therefore I am, 1987
68 Dopo aver frequentato la Syracuse University e aver studiato arte e design con Diane Arbus alla Parson's School of Design di New York, la Kruger ha ottenuto un lavoro di design alle pubblicazioni Condé Nast. Lavorando per la rivista Mademoiselle, è stata rapidamente promossa capo designer.
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Smonta gli stereotipi che rinchiudono ognuno in categorie predefinite come un corpo magro o un lavoratore instancabile e dedito alla carriera, per riuscire a rendere ciascuno consapevole e quindi libero. La Kruger descrive una cultura che lei stessa definisce “piacevole ma brutale“, che instilla in ognuno la ricerca di un ideale di bellezza irraggiungibile e il culto per il successo a discapito anche di se stessi. D’altronde, anche il sociologo Zygmunt Bauman (19 novembre 1925 – 9 gennaio 2017) sosteneva che le palestre fossero diventate le “cattedrali moderne”, luoghi dove il culto del proprio corpo veniva giustificato e trovava compagni di viaggio. L’artista riesce a muovere una critica sociale senza cadere nel tranello di renderla astratta e quindi inutile all’uomo contemporaneo che osserva la sua opera. Quando l’artista impiega dei pronomi, fa sempre in modo che questi non contribuiscano alla forza costrittiva propria della pubblicità o della propaganda, ma indichino la posizione dell’individuo all’interno del sistema linguistico. I pronomi personali impiegati sono di prima e seconda persona, quindi non tradiscono alcun genere grammaticale e sostituiscono all’opposizione tra ‘maschile’ e ‘femminile’ quella tra ‘attivo’ e ‘passivo’, il che evidenzia i rapporti di potere e suggerisce come sovvertirli. Tra le sue opere più conosciute troviamo I shop therefore I am, il cui messaggio è palesemente un riferimento alla celebre frase cartesiana “Cogito ergo sum”⁶⁹ reinterpretata in chiave consumistica, volta a stimolare una riflessione critica sull’età contemporanea: la civiltà del consumismo spinge l’uomo, sempre più assetato di materia piuttosto che di essenza, a rappresentare se stesso per quello che possiede anzi che per il suo vero essere. Più in generale si rimanda a delle dinamiche di rapporto tra potere e destinatario del potere che non riguarda solo il consumatore e il prodotto, ma si estende a rapporti di potere più ampi e complessi. L’arte concettuale è un tentativo molto serio e profondo che molti artisti hanno fatto per costringere i fruitori a riflettere insieme, cioè non solo da artisti ma anche da spettatori, sullo statuto dell’arte, su cosa essa sia e cosa dovrebbe essere per un grande pubblico. 4.3 Poesia Elettronica «Mai come oggi si è sottoposti ad un flusso continuo di parole ed immagini, durante tutto l’arco di una giornata. A differenza di quanto succedeva negli Anni Sessanta, quando le persone erano soggetti passivi della comunicazione dei media, ora il flusso non è più monodirezionale, ma, attraverso varie forme, dai blog ai social network, multidirezionale. Il fatto che ogni individuo sia diventato produttore di immagini e testi ha avvicinato ciascuno al ruolo dei poeti visivi. Si deve quindi guardare a questi maestri come modelli proprio perché la loro attività di indagine del nuovo linguaggio, che unisce parole ed immagini, è diventata un’attività comune e quotidiana».⁷⁰ Tra gli anni ‘80 e gli anni ‘90 si viene formare un’area di ricerca che sperimenta tra scrittura, visualità e nuovi media. La produzione è varia e spazia dal video analogico a quello digitale, dalla computer grafica all’elaborazione digitale acustica, all’installazione. Nascerà quella che viene chiamata poesia elettronica. La poesia elettronica (detta anche e-poetry) è una sperimentazione artistica che integra testo poetico e arte dei nuovi media (videoarte, digital art, net.art, installazioni, ecc.). Si possono distinguere in essa due grandi aree, spesso intrecciate nella ricerca: la videopoesia (video poetry), definitasi
69 La locuzione cogito ergo sum, che significa letteralmente «penso dunque sono», è la formula con cui il filosofo e matematico francese Cartesio (31 marzo 1596 – 11 febbraio 1650) esprime la certezza indubitabile che l'uomo ha di se stesso in quanto soggetto pensante. 70 La citazione è tratta dal testo critico di Stefano Perrini realizzato per la collettiva “Parole dipinte, immagini scritte. Opere dagli anni Sessanta ad oggi”.
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come genere negli anni ‘80, e la computer poetry, che integra l'uso di tecnologie digitali e si afferma con il diffondersi di queste, tra la fine degli anni ‘80 e gli anni ‘90. La videopoesia, nota con vari nomi, come: poema video, poema filmico, videopoem opera, poetronica, cin(e)poetry, poesia video-visiva, a seconda delle tecniche usate, dell'intervento più o meno ampio di elaborazione, e anche in relazione alla lunghezza del lavoro filmico, è una categoria molto ampia in cui sono confluite tipologie molto diverse di opera d'arte. Talvolta la videopoesia si avvale di notevole elaborazione digitale, assumendo i caratteri della computer poetry, interamente elaborata o del tutto generata da software. La computer poetry (anche detta digital poetry, cyberpoetry, poetronica, poesia numerica, poesia visiva digitale), è invece un insieme di immagini, testo e animazioni, suono, generato con l'utilizzo di software; può consistere in grafica digitale, animazione, ipertesti, ipermedia e in ambienti interattivi, anche nel contesto di installazioni. Il testo poetico si integra a immagini, ferme o in movimento, o ad ambienti interattivi in modo diverso a livello visivo e/o sonoro. E’ destinata a supporti digitali, come HD, CD, DVD, Internet e DV: appare dunque come un universo ampio e molto vario. Alla base di esperienze così diversificate vi è il concetto dell’opera come fatto dinamico e interattivo, come work in progress, come dimensione allo stesso tempo iconica e aniconica, testuale e distruttiva nei confronti del testo, che viene manipolato, frammentato, destrutturato ai limiti della leggibilità. La poesia elettronica esplora in modo multiforme i rapporti che legano la sperimentazione nelle arti elettroniche alla poesia sonora, performativa, visiva e concreta, che avevano già portato la parola fuori dalla pagina. L’elettronica e poi il digitale hanno sviluppato quelle ricerche imprimendo il movimento e la materia digitale alla parola stessa, manifestando l’intento di non rinchiuderla in una nuova “pagina elettronica”, seppur dotata di qualità estetiche, ed enfatizzando invece gli aspetti interattivi e relazionali del lavoro. L’utilizzo di materiali digitali e informatici ha portato una vera rivoluzione non solo nella produzione, ma anche nella fruizione e nella critica dell’arte elettronica, che non può essere più valutata secondo i canoni tradizionali, in base alle qualità estetiche di un oggetto/testo “chiuso”, ma deve essere approcciata come processo.
Francesco Aprile, CSS poetry declaration, 2018⁷¹
71 L'opera sopra fa parte di un genere di poesia detto Source code poetry e si occupa della programmazione di un algoritmo al fine di ricombinare una serie di testi.
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Gli autori appartenenti a questo genere di poesia giungono a questo campo di sperimentazione da formazioni diverse: sono artisti visivi, videoartisti, videomaker, registi di cinema sperimentale, esperti di computer science, in pochi casi provengono anche da una formazione letteraria. L'artista, scrittore e poeta italiano Gianni Toti (24 giugno 1924 – 8 gennaio 2007) è considerato uno dei padri fondatori di questo genere di sperimentazione visiva e, alla ricerca di nuove forme linguistiche, coniò il termine Poetronica. Si tratta di un linguaggio che deriva da una calibrata commistione tra poesia, cinema e arte elettronica. Questo neologismo indica la volontà di fusione tra diverse forme d’arte, oltre che, in primis, poesia e video: “Ero un poeta, un semplice/ e ora sic et simpliciter / poetronico sarei, ma anche pittronico, / e scultronico, forse ormai teatronico / danzatronico e musicatronico”, si definiva così l’artista 1985. Considerato artefice di un mondo personale e originale di parole create ex novo nell’epoca della massificazione dei linguaggi, la sua modificazione continua di quest’ultimo risponde a un’esigenza di confronto tra le arti e partecipa alla diffusa richiesta di liberazione da categorie tradizionali; un linguaggio al passo con i vertici della sua stessa mutazione, parallela alle trasformazioni sociali e tecnologiche. A partire dagli anni ‘80 Gianni Toti iniziò a usare i linguaggi elettronici, prima analogici e poi digitali: cominciò a fondere cinema, testo, immagine elettronica per realizzare le sue 13 videopoesie intitolate VideoPoemOpere, dei mediometraggi o lungometraggi di fattura artigianale. Sono state definite tali poichè si configurano come un’opera d’arte totale in cui confluiscono discipline e temi diversi. Toti infatti nelle sue videopere ha sempre usato: elettronica, immagini, video, musica e voce per creare narrazioni audiologovisive dalla straripante forza immaginativa. L’artista, è da sempre stato impegnato nella volontà di coniare inediti paradigmi, operando direttamente nel vivo delle parole e delle tecniche di video-arte, opponendosi agli albori dell’omologazione multimediale che il digitale stava prefigurando. In queste opere è la parola a essere messa in scena, visualizzata, sviscerata e metamorfizzata: Toti prende la prende e le ridona nuova voce, la riveste di colore e frequenze sonore. La tecnologia elettronica, per non parlare in seguito del digitale, gli consente di realizzare ciò che prima era stato solo un suo miraggio: trasformare le parole e i pensieri in immagini-sonore, e suoni immaginati, in movimento. In “Per una videopoesia”⁷² il video elabora gli elementi del generale sovvertimento della linearità logico-sintattica e morfologica, che caratterizza l’agire creativo. L’opera è composta da singoli “capitoletti” autonomi, pensati in origine per riempire gli intervalli pubblicitari. Mai andati in onda, ebbero solo una diffusione nei festival. Sullo schermo l’immagine, anche quella prelevata da altre opere, è spesso mostrata in rewind o negativizzata; la conclusione delle opere è invece segnata dal riavvolgimento accellerato delle immagini su loro stesse. Toti affida al video anche la riflessione sulla non finitezza dell’opera d’arte, smontando il convenzionale impiego dei titoli di testa e di coda. Dichiara a voce o a lettere maiuscole la non-fine, la fine-senza-fine, smentendo il concetto stesso di conclusione. La parola per Toti è sempre stata per sua definizione “parola-immagine”. Finalmente in Per una videopoesia le parole possono guadagnare il movimento, mostrarsi nel loro comporsi, trasformarsi in “verbimmagini sonore silenziate”. Infittisce i suoi versi di riferimenti al linguaggio del video e alla terminologia attinente rideclinando termini tecnici quali “ottimizzazione”, “cablaggio”, “commutazione”, “deflessione”, “tubo poeticon”. Il suo gioco linguistico si fa spregiudicato e sempre più visivo. Il verso comincia a essere inteso pri-
72 Durata: 50’; Anno: 1980. Autore: Gianni Toti. Montaggio: Alfonso Lodato. Missaggio: Claudio Cavilotti, Enrico Funicola, Dante Mauri, Carlo Pirani, Camillo Quattrini, Paolo Tavernini. Scenografia: Giuseppe Sabino Produzione: Rai, Ricerca e Sperimentazione programmi. Coordinatore tecnico: Alfredo Costa.
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mariamente come “unità visiva” in cui il poeta esalta ogni artificio destinato all’occhio: gli enjambement a cumulo che spezzano l’unità logica delle parole a cavallo tra due versi; le parole e l’interpunzione scritte a rovescio o senza pause e spazi bianchi, in forma di calligrammi o di rebus attraverso numeri e punteggiature. Il video rappresenta l’ultimo salto di un percorso che parte dalla pagina allo schermo, fino a trovare nelle arti elettroniche e digitali l’alchimia tra parole e voce, immagini e suoni, musica e movimento che garantisce la sintesi dell’opera d’arte totale, dove la fantasia totiana trova modo di riflettersi in immagine.
G. Toti, Per una videopoesia, screenshot, min. 19 circa, 1980
Nel 1961 il poeta precursore del Gruppo 63⁷³ Nanni Balestrini (2 luglio 1935 – 20 maggio 2019) realizzò con l'aiuto di un calcolatore elettronico (il prototipo del computer) il progetto di un romanzo composto da diverse combinazioni degli elementi di un medesimo testo base. Tale romanzo avrebbe poi dovuto essere pubblicato in un numero illimitato di versioni ognuno diverso dall’altro. Ma le tecniche di stampa dell’epoca non ne consentirono la realizzazione.
73 Il Gruppo 63, definito di neoavanguardia per differenziarlo dalle avanguardie storiche del Novecento, è un movimento letterario che si costituì a Palermo nell'ottobre del 1963 in seguito a un convegno tenutosi a Solanto da alcuni giovani intellettuali fortemente critici nei confronti delle opere letterarie ancora legate a modelli tradizionali tipici degli anni cinquanta.
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Così nel 1966 l'editore Feltrinelli pubblicò il testo base con il titolo Tristano⁷⁴. L’opera è composta di capoversi di lunghezza pressoché uguale, separati da una riga bianca. I capitoli sono dieci e ogni capitolo ha lo stesso identico numero di capoversi. Il libro suscitò l’interesse della critica per il suo aspetto sperimentale e provocatorio, che rimetteva in discussione le nozioni di personaggio e di trama, di tempo e di luogo. “Nel 1961 avevo composto Tape Mark I, un esperimento poetico realizzato sfruttando le possibilità combinatorie di un calcolatore elettronico IBM⁷⁵ (così allora veniva chiamato il computer). Una serie di spezzoni di frasi venivano montate in successione, fino a formare sequenze di versi, seguendo semplici regole trasformate in un algoritmo che guidava il lavoro della macchina.”⁷⁶ L’immagine in copertina, un’opera di Giosetta Fioroni⁷⁷, presenta il primo piano di una giovane donna dagli occhi truccati che le danno un’immagine da femme fatale⁷⁸, con lo sguardo puntato dritto verso il lettore. Quarant’anni dopo, lo sviluppo della stampa digitale è in grado di realizzare quell’antico progetto che mette in crisi il dogma della versione originale e unica di un’opera (imposto dal rigido determiNanni Balestrini, Tristano, Feltrinelli, 1961 nismo della tipografia meccanica gutenberghiana, che produce esemplari tutti rigidamenti identici tra di loro), che può invece assumere molteplici varianti. Il superamento della riproduzione meccanica con quella ottenuta per mezzo dell’elettronica digitale, sembra alludere alla varietà infinita delle forme della natura, dove ogni elemento, dalla foglia di un albero a un essere umano, è una variante sempre leggermente differente di uno stesso prototipo ideale. Un nuovo modo di concepire la letteratura, che offre ai lettori inedite possibilità di libertà creativa e comunicazione. In modo analogo un racconto orale differisce, più o meno ampiamente, quando viene rivolto a ascoltatori diversi, o quando viene ripetuto in tempi diversi. E così anche un’opera letteraria, un romanzo, può realizzarsi, grazie alle nuove tecnologie, non più in un unicum immutabile, ma in una serie di varianti tutte ugualmente valide, ognuna materializzata in un libro, copia e storia personale del singolo lettore.⁷⁹
74 Il titolo è un ironico omaggio all’archetipo del romanzo d’amore. 75 L’IBM (International Business Machines Corporation) è un'azienda statunitense, la più vecchia e tra le maggiori al mondo nel settore informatico. Invenzioni famose di IBM includono il primo calcolatore elettromeccanico ovvero il Mark 1, il primo PC con sistema operativo DOS prodotto dalla Microsoft. 76 N. Balestrini, Tristano, Feltrinelli, 1966
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4.4 La poesia oggi Era il 2015 quando sul New York Times si parlava di “web poet’s society”, e dei social come strumento per diffondere versi e pensieri poetici. Nel frattempo molte cose sono cambiate: i blog, dove inizialmente gli aspiranti scrittori condividevano i propri testi, sono stati progressivamente sostituiti dai social, prima da Facebook e poi da Instagram. Il passaggio da un canale all’altro ha segnato un cambiamento nei contenuti e nella forma dei componimenti, i quali si sono trasformati diventando sempre più brevi e semplici: immediati. La trasformazione più radicale è avvenuta soprattutto con l’approdo a Instagram, un social di immagini, in cui anche le parole sono diventate “fotografiche”. Non è un caso che molti degli “Instapoets” (così sono definiti gli autori che pubblicano versi sul social) accompagnino spesso i propri testi con illustrazioni. Tra i nomi più noti a livello internazionale c’è senza dubbio quello di Rupi Kaur (4 ottobre 1992). Il suo lavoro è scritto esclusivamente in minuscolo, un modo per onorare la sua cultura (è di origine indiana) e un apprezzamento dell'uguaglianza delle lettere, uno stile che riflette la sua visione del mondo. Il suo lavoro scritto è pensato per essere un'esperienza facile da seguire per il lettore, con semplici disegni per mettere in evidenza le sue parole. I temi comuni presenti in tutte le sue opere includono l'abuso sessuale, la masturbazione, l’alcolismo, la femminilità e il ciclo mestruale, l'amore, la cura di sé. Nel 2014 ha auto-pubblicato la sua prima raccolta di 180 poesie, Milk and Honey. Il titolo fa riferimento alla sua cultura d’origine, hanno una dieta molto particolare e suo padre pratica la medicina ayurvedica: latte e miele sono spesso protagonisti in questa cultura medica, sono fattori di guarigione. Quando nel 2015 posta su Instagram una foto che la ritrae sdraiata su un letto, i pantaloni della tuta e le lenzuola macchiati di sangue (per il progetto intitolato Period), Instagram censura l’immagine, e lei risponde: «Non mi scuserò per non avere nutrito l’ego di una società misogina che vuole vedermi in mutande ma cui non va giù una piccola macchia di sangue», insomma, grazie a Instagram che ha confermato quello che voleva dimostrare, e cioè che il corpo femminile è un tabù.
Rupi Kaur, poesia tratta da Milk and Honey, 2014
77 Giosetta Fioroni (24 dicembre 1932) è una pittrice italiana. 78 La femme fatale (che significa “donna fatale”) è a donna maliziosa e disinvolta molto diffuso nella letteratura europea e spesso rappresentato in numerose opere cinematografiche. 79 Prefazione di Jacqueline Risset, poetessa, critica letteraria e traduttrice francese (25 maggio 1936 – 3 settembre 2014) alla traduzione francese, pubblicata nel 1972 dalle Editions du Seuil.
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Nel nostro panorama troviamo la firma della giovanissima Marzia Sicignano, che ha da poco pubblicato Io, te e il mare, un libro nato in rete a metà tra prosa e poesia che parla del primo amore, in cui appaiono le illustrazioni di Regards Coupables⁸⁰, con uno stile molto simile a quello che si vede sui social. n ruolo importante nella trama lo svolge il mare, che fa da sfondo alla narrazione. Il libro tratta anche della paura “[...] la paura è legata più al carattere della protagonista, che all’età. Credo addirittura che durante il primo amore si possa avere meno paura di quanta poi se ne avrà in futuro, perché non ci sono termini di paragone, si è ancora un po’ ingenui. Volevo mettere in luce le insicurezze dei due personaggi, è per questo che parlo molto anche del passato di entrambi, per legare quella fragilità alla paura dell’abbandono”. L’autrice stessa afferma che il libro si possa leggere sia come una raccolta di poesie, quindi in modo non lineare, sia come un romanzo, per scoprire la trama. Anche se è una definizione un po’ fuori moda, dice lei, parla di prosimetro,⁸¹ perché di fatto il libro è composto da un misto di prosa e versi. Marzia Sicignano, Io, te e il mare, pag. 33, Mondadori, 2018.
Il campo di ricerca tra testo poetico e nuovi media continua a svilupparsi e dopo il 2010 la poesia elettronica inizia ad essere utilizzata anche negli ebook. Come in Italia, nel 2016 con Poesie elettroniche⁸² di Fabrizio Venerandi, in formato EPUB3.⁸³ Cosa succede quando la poesia incontra il codice di programmazione per computer? Questo ci mostra l’autore attraverso sei diversi modi di interpretare l'electronic poetry in un originale ebook dove i versi cambiano nel tempo, reagiscono al tocco del lettore, si modificano sotto i suoi occhi, generano a loro volta altri versi, si muovono nella pagina avvicinandosi e separandosi. Ha scritto i versi e contemporaneamente ha programmato il codice per animarli e renderli instabili. La motivazione principale che ha spinto l’autore a creare quest’opera è la volontà di presentare un modello (manipolabile e modificabile) per quella che sarà l’editoria digitale del futuro, ossia come saranno composte le opere pensate direttamente in digitale. Venerandi voleva che il suo libro fosse leggibile su qualsiasi dispositivo (come uno smartphone o un tablet) e che quindi non fosse lega-
80 Regards Coupables (che significa “sguardi colpevoli”) è un artista francese specializzato nell’illustrazione erotica. Nessuno sa chi si cela dietro a questo nome, infatti il proprietario del profilo social ha deciso di non rivelare la sua identità in modo tale che l’attenzione dello spettatore fosse esclusivamente per le sue opere. 81 Il prosìmetro è un genere letterario in cui prosa e versi vengono alternati in modo equilibrato. Il prosimetro ebbe grande successo per tutto il medioevo, infatt si riteneva che producesse "un’armonia musicale gradevole per il lettore”. 82 Fabrizio Venerandi, Poesie elettroniche, poesie digitali ebook, Quintadicopertina & Nazione Indiana, 2016
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to a una dimensione fisica; desiderava inoltre che le sue poesie potessero cambiare continuamente: tutto questo lo ha condotto automaticamente tra le braccia della poesia digitale. Una caratteristica di questo libro è che si presenta simile a un gioco: il lettore deve sforzarsi per leggere e comprendere la poesia, giocare con i versi, capire il meccanismo e, se vuole, entrare all’interno della poesia stessa. Ad esempio, la prima poesia è il titolo dell’opera, che però cambia ogni volta il lettore apre l’ebook. Man a mano che quest’ultimo compie questa operazione, si rende conto che la cover è come se fosse una sorta di secret, come all’interno di un videogioco e che in essa è nascota una poesia: ogni volta che l’ebook viene aperto un verso della poesia diventa il titolo e il lettore può decidere (come non) di aprire tante volte di seguito la cover per riscostruirlo.⁸⁴ Nella prologo, ci sono delle poesie che si cancellano nel momento in cui il lettore visualizza la pagina: in questo caso quest'ultimo è tenuto a scegliere come relazionarsi con un testo che è legato al tempo. Ci sono poi delle poesie della seconda sezione i cui versi mostrano solo di notte, come un fiore notturno.
Copertina del libro di Fabrizio Venerandi, Poesie elettroniche, EPUB, 2016
La novità dell’ultimo decennio in questo campo, che avvicina arte relazionale e tecnologie, sono i social network e i siti di condivisione multimediale come youtube o anche la realtà immersiva di Second Life⁸⁵. Come sostiene la poetessa Francesca Genti⁸⁶ la situazione della poesia italiana è molto frammentata. Ci sono le storiche collane degli editori e poi ci sono i poetry slam, gare in cui i poeti si sfidano recitando i propri componimenti, e gli instapoets che producono e pubblicano sui social di continuo. Se è vero che queste due forme sono le meno istituzionalizzate e che, per tanto, sono spesso oggetto di critiche e, in certi casi, di ironie, è anche innegabile che assolvono alla funzione che la poesia storicamente ha avuto in campo letterario: quella di sperimentare generi e linguaggi sempre diversi.
83 EPUB (abbreviazione di electronic publication, "pubblicazione elettronica") è uno standard aperto specifico per la pubblicazione di libri digitali (eBook) e basato su XML ed è uno dei formati più diffusi nel mondo dell'editoria digitale. 84 Tratto da Premio Moebius Lugano 2018: Poesie Digitali - Fabrizio Venerandi. 85 Second Life è un mondo virtuale online lanciato il 23 giugno 2003 dalla società americana Linden Lab. Gli utenti, detti residenti, controllano un avatar con cui possono esplorare, teletrasportarsi, partecipare ad attività sia individuali che di gruppo, ecc. 86 Francesca Genti, è editor della casa editrice Sartoria Utopia e autrice di Anche la sofferenza ha la sua data di scadenza (HarperCollins, 2018) e del saggio La poesia è un unicorno (quando arriva spacca), (Mondadori, 2018).
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Conclusione E’ ancora possibile la poesia? Ci troviamo in una società dove il messaggio è ormai veicolato più dalle immagini che dalle parole; la poesia, ad esempio, ha assunto nuove forme ed esplora i moderni linguaggi per diffondersi nella cultura attuale. Come ad esempio il fenomeno degli Instapoets che hanno scalato le vette del successo attraverso grazie al web, che li segue sui social network. Internet e le nuove tecnologie ci spingono dunque a comunicare in un modo diverso: sono innanzitutto uno stimolo molto forte a migliorare la qualità generale della nostra comunicazione: a renderla più fluida e piacevole. Contemporaneamente, però, le innovazioni comunicative ci obbligano ad impadronirci dei loro linguaggi e delle loro regole, per utilizzarle nel modo che è loro proprio. Il mondo della comunicazione sta cambiando. Per quale motivo la letteratura e la poesia dovrebbero rimanere escluse da tutto questo? Il contatto è già avvenuto e dobbiamo solo prenderne atto e, anche del fatto che questi strumenti tecnologici non sono neutri, la poesia si modella su di essi e quindi risulta completamente stravolta dai media.⁸⁷ Se la tecnologia consente, potenzialmente, di aprire il mercato della Poesia Visiva ad un contesto più globale, quella stessa tecnologia rende al contempo molto attuale tale ricerca artistica. “Oggi, in particolare, si deve mirare a coinvolgere; insomma viviamo in una società – quella in cui siamo immersi, quella occidentale – in cui è vero, fino a un certo punto, che si è scritto tutto e si è già visto tutto… insomma, si è mangiato anche troppo. Ma se invece viene fuori qualcuno con qualcosa di insolito, siamo disposti anche a prendere un’indigestione pur di evitare che l’arte sia finita, come ci vogliono indurre a pensare i teoreti della morte dell’arte. Se invece pensiamo ancora all’arte come al quadretto da appendere alla parete, o alla poesia da leggere su un libro, si va poco lontano; si finisce nella fiction, perchè ci ostiniamo a riferirci ad un’estetica di vecchio stampo, a un’arte spocchiosa che in qualche modo vorrebbe essere solo ammirata, quando non venerata. Allora sì, che si va incontro alla morte dell’arte… Ma se si vuole uscire da tale funerea visione, se invece si trova ancora il modo di coinvolgere – in tutti i sensi – il lettore, l’osservatore, il “guardone”, l’arte ancora ci farà scoprire l’hic sunt leones, le terre di nessuno. È ciò che a qualcuno come me fa venir voglia di andare avanti." -Lamberto Pignotti ⁸⁸
87 Tratto dall'intervista a Caterina Davinio (artista e scrittrice italiana, attiva nel campo dell'arte digitale) nel video di La7Attualità, Innovation - 27/02/12 LA POESIA DIVENTA HIGH_TECH pubblicato su Youtube. 88 Citazione tratta dall'intervista di Vania Granata a Lamberto Pignotti pubblicata sulla rivista Art in Theory num. 34/2008
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Grazie al professor Romeo Traversa che mi ha accompagnata e guidata lungo questo percorso. Grazie alla famiglia che mi ha sempre sostenuto. Grazie agli amici che hanno creduto in me. Grazie a Cristiano che mi ha spronato a dare il meglio di me, sempre.
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