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Prefazione

Di Francesca R. Recchia LucianiI

DAL SESSISMO AL TRANSFEMMINISMO:

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Una Pedagogia Al Servizio Di Relazioni Sane

Nell’enciclopedia Treccani, la definizione di stereotipo è la seguente: «Opinione precostituita su persone o gruppi, che prescinde dalla valutazione del singolo caso ed è frutto di un antecedente processo d’ipergeneralizzazione e ipersemplificazione, ovvero risultato di una falsa operazione deduttiva». Inoltre, si precisa, lo stereotipo si connota per la sua «impermeabilità all’esperienza».

L’attitudine al pregiudizio è profondamente radicata nella mentalità umana poiché assicura almeno due vantaggi che semplificano i processi cognitivi: il primo consiste nello sposare un giudizio impersonale elaborato altrove senza doversene assumere la responsabilità né produrre lo sforzo di generarlo personalmente, il secondo sta nello scongiurare un confronto diretto con la realtà, ossia, con la dimensione fenomenica ed esperienziale.

Tuttavia, questo apparente guadagno epistemologico ha in realtà costi elevatissimi sul piano delle reali relazioni che gli stereotipi producono direttamente e indirettamente, non a caso essi permeano tutte le tendenze al dominio, alla sopraffazione, alla discriminazione e all’esclusione che costellano i rapporti di potere all’interno dei gruppi, delle formazioni sociali e delle comunità. Combattere idee preconcette e stereotipate è un dovere educativo assoluto, un compito pedagogico di prim’ordine, perché solo con una strumentazione cognitiva adeguatamente critica è possibile, se non liberarsene del tutto, almeno riconoscere le trappole in cui, con un grado più o meno elevato di inconsapevolezza, si abbracciano troppo facilmente visioni del mondo preconfezionate, rigide, impermeabili e immodificabili.

Le differenze sessuali sono affette da assunzioni preconcette acquisite con tempi e modi che sfuggono alla percezione individuale, ma che, invece, sono parte essenziale del controllo sociale che, attraverso la mentalità condivisa e il senso comune, modella e condiziona profondamente i legami relazionali tra persone assegnando ruoli, funzioni e comportamenti.

«Gli studi di genere non descrivono ‘la realtà’ in cui viviamo, bensì le norme eterosessuali che pendono sulle nostre teste. Norme che ci vengono trasmesse quotidianamente dai media, dai film, così come dai nostri genitori, e noi le perpetuiamo nelle nostre fantasie e nelle nostre scelte di vita. Sono norme che prescrivono ciò che dobbiamo fare per essere un uomo o una donna. E noi dobbiamo incessantemente negoziare con esse»II

Judith Butler, una delle filosofe contemporanee più attente agli intricati rapporti tra genere e potere sintetizza così il processo di naturalizzazione, ovvero di acquisizione inconscia delle categorie che presiedono all’organizzazione sociale in ambito sessuale, indicando nelle prescrizioni, nelle ingiunzioni e nelle aspettative eteronormate della società o dei gruppi d’appartenenza un fortissimo e potente impulso a perpetuare le logiche del dominio millenario che sono state cristallizzate dal patriarcato come sistema di potere. In questa affermazione si avverte l’eco di una critica inevitabile all’impostazione “biologistica” o naturalistica delle “questioni di genere”, ovvero la riduzione dell’identità alle caratteristiche biologiche e genitali, escludendo gli aspetti culturali e sociali che stabiliscono queste norme comportamentali. Ciò significa precludersi la possibilità di contestualizzare le categorie che utilizziamo per definire le donne, gli uomini, le soggettività LGBTQIA+ che chiedono di vedersi riconosciute non astrattamente, ma nella loro concreta esperienza esistenziale. In tal senso, le rivoluzioni femministe veicolano una liberazione

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