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Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a persone esistenti o esistite, avvenimenti, società, organizzazioni e luoghi reali ha l’unico scopo di dare alla narrazione un senso di realtà e autenticità. Tutti i nomi, i personaggi, i luoghi e i fatti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in maniera fittizia, e qualunque eventuale somiglianza con fatti o persone reali è del tutto casuale. Uniche eccezioni i personaggi di Dean Scott, Syd Fraser e Tony Wishart, che hanno dato il loro esplicito consenso ad essere personaggi di questo romanzo, e Hector, il fantasma residente nella stazione di polizia di Banff, che non lo ha dato. I tratti caratteriali a loro assegnati sono stati ideati per le esigenze del testo e non comportano necessariamente una somiglianza con le persone vere. L’insegna della piscina all’aperto di Tarlair compare per gentile concessione della contea di Aberdeen.
Titolo originale: The Missing and the Dead Copyright © Stuart MacBride 2015 First published by HarperCollins Publishers. Stuart MacBride asserts the moral right to be identified as the author of this work. All rights reserved Traduzione dall'inglese di Francesca Noto Prima edizione ebook: marzo 2016 © 2016 Newton Compton editori s.r.l. Roma, Casella postale 6214 ISBN 978-88-541-9176-1 www.newtoncompton.com Realizzazione a cura di Corpotre, Roma
Stuart MacBride
SCOMPARSO
Newton Compton editori
Per gli uomini e le donne pieni di coraggio che hanno contribuito a rendere la Grampian Police la grande forza di polizia che è stata.
Corri
Capitolo 1
Più veloce. Le foglie taglienti le frustano le orecchie, arbusti scheletrici e cespugli le afferrano le caviglie mentre si infila nel successivo giardino, con il respiro che si condensa in una scia di vapore alle sue spalle. I piedi nudi che bruciano nell’erba secca e gelata. Lo sente più forte, ora, mentre urla, impreca e spezza i rami delle siepi, nell’oscurità dietro di lei. Lo sente più vicino. Oh, Dio… Si arrampica su un’alta recinzione di legno, sollevando una nuvola di frammenti di ghiaccio. Con uno strappo netto, il bordo del suo vestito estivo si lacera, lasciandosi dietro un lembo irregolare. Piomba dentro a un recinto di sabbia, i polmoni che si svuotano con violenza all’impatto. Ti prego… Non così… Non distesa sulla schiena nel giardino di uno sconosciuto. Sopra di lei, il cielo sta passando da un grigio sporco a un arancione scuro e lurido. Una scintilla di luce lo attraversa: un aereo che punta verso sud. Il rumore crepitante di una radio si fa sentire dalla finestra aperta di una cucina, da qualche parte. La macchia fumosa di un fuoco di legna. Un bambino che strilla di non essere ancora stanco. Alzati! Si solleva a fatica in piedi, riprendendo a muoversi sull’erba dura e scivolosa del prato. Le scarpe perse parecchi giardini prima. Le calze smagliate e strappate, le unghie smaltate sui piedi infangati. Il respiro che brucia nei polmoni, creandole un muro di nebbia intorno alla testa. Corri. Attraversa il giardino mentre la porta sul retro della casa si apre e un uomo ne esce, con una tazza di tè in mano. Spalancando la bocca per la sorpresa. «Ehi! Che diavolo pensa di…». Lei non si ferma. Si piega quasi in due e si lancia contro la fitta siepe di cipresso. Rami e foglie taglienti le graffiano le guance. Un dolore acuto le trafigge il polpaccio. corri! Se Lui la prenderà, sarà finita. La trascinerà di nuovo nel buio. La rinchiuderà lontana dal sole, dal mondo e da chi le vuole bene. La farà soffrire. Irrompe fuori dall’altra parte della siepe. Una donna è inginocchiata in mezzo al prato, accanto a un border terrier. Ha in mano una busta di plastica azzurra, che le fascia la mano come un guanto, nel gesto di raccogliere un mucchietto di materia scura e fumante. Sgrana gli occhi, le sopracciglia che scattano in alto. Fissandola. «Oh, mio Dio, sta…?». La voce di Lui urla attraverso il tramonto. «torna qui!». Non fermarti. Non osare fermarti. Non permettere che ti raggiunga. Non ora. Non dopo tutto quello che ha passato. Non è giusto. Inspira profondamente, e continua a correre.
«Santo Dio…». Logan uscì dal fitto di una siepe, ritrovandosi in un altro grosso giardino, e si fermò barcollando. Sputò qualche foglia amara, dal sapore di disinfettante al pino. Una donna pronta a pulire gli escrementi del suo cane alzò lo sguardo su di lui. Logan tirò fuori il ricevitore radio e glielo puntò contro. «Da che parte è andata?». La mano avvolta nella busta di plastica si sollevò, indicando tremante la siepe dall’altra parte del giardino. Fantastico… «Grazie». Logan premette il pulsante del ricevitore e riprese a correre. «Dite a Bob Biorischio di portare l’auto a Hillview Drive, è…». Si arrampicò sul tettuccio di una specie di piccolo triciclo coperto, con le scarpe che scivolavano sulla plastica gelata. Da lì, arrivò in cima a uno stretto muro di mattoni. Strinse gli occhi, fissando la distesa di giardini bui e illuminati dalle luci delle case. «È all’incrocio con Hillview Terrace». La voce rauca dell’ispettore capo Steel venne fuori dal ricevitore, gracchiante come al solito. «Com’è che non ce l’hai ancora in custodia, eh?» «Non cominci. È… whoa!». Ondeggiò. Spalancò le braccia, roteandole nel tentativo di recuperare l’equilibrio. E poi riuscì a bloccarsi, ondeggiando, piegato a due metri e mezzo dal suolo, sopra a un quadrato di terra seminato a cavoletti di Bruxelles. «Che ti avevo detto riguardo al fatto di non mandare tutto a puttane?». Bla, bla, bla. I giardini si estendevano di fronte a lui, alle sue spalle e a destra, fino alla strada successiva. Non c’era traccia di lei. «Dove diavolo sei?». Laggiù, pronta a infilarsi in una piccola macchia di sorbi e frassini per raggiungere la siepe dall’altra parte. Altri due giardini e sarebbe arrivata sulla strada. Già. Logan premette di nuovo il pulsante del ricevitore. «Voglio che andiate…». Il piede destro gli scivolò sul muro. «aaaaaaargh!». Piombò su rametti verde scuro, finendo sul suolo gelato sotto di lui e lanciando piccole bombe verdi dappertutto. thump. «Uomo a terra!». «Laz? Gesù, ma che diavolo…». La voce della Steel si abbassò per un attimo. «Tu! Voglio subito un’unità armata e un’ambulanza al…». «Gah…». Si tirò su a fatica, con pezzi di cavoletti di Bruxelles spiaccicati sulla giacca sporca di terriccio. «Uomo di nuovo in piedi!». «Mi stai prendendo per il…». La radio tornò nella sua tasca e lui scattò verso la recinzione. La superò sbuffando, accompagnato dalle lamentele piene di imprecazioni della Steel che crepitavano fuori dal ricevitore, inascoltate. Superò il giardino successivo in una dozzina di passi, arrampicandosi su una siepe per superare un nuovo muro di mattoni. Lei si stava infilando a fatica in un roseto, i cui rami contorti e pieni di spine le afferravano il vestito estivo blu, lasciandole graffi insanguinati sulle braccia e le gambe. I capelli biondi impigliati tra le spine. «tu! fermati!» «No, ti prego, no, ti prego…». Logan saltò giù nel giardino. Lei si liberò dai rami spinosi e sparì verso l’ultima casa sulla strada, lasciandosi dietro lo scalpo… no, non lo scalpo… una parrucca. Logan scattò avanti. Saltò. Superò quasi del tutto il cespuglio di rose. Piombò oltre la siepe di ligustro dall’altra parte, di testa. Rotolò. Si risollevò in piedi. Eccola!
La placcò vicino al cancello, con la spalla che le schiacciava le reni, facendo finire entrambi sulla ghiaia. Una miriade di ciottoli aguzzi gli si piantò nelle ginocchia e nel fianco. L’odore di polvere e pipì di gatto gli riempì le narici. Lei urlò. Nessuna parola, soltanto uno strillo acutissimo, con il viso scarlatto, schizzi di saliva dalle labbra e gli occhi come schegge di granito. Un ispido accenno di barba sotto allo strato di trucco che le copriva le guance graffiate dalle spine. Il suo respiro una nuvola di vapore grigio e acido nell’aria fredda. Le mani chiuse a pugno, colpi ripetuti contro il petto e le braccia di Logan. Un pugno gli si avvicinò pericolosamente al volto e lui lo afferrò di scatto. «Piantala! Sei in arresto per…». «ti ammazzo!». L’altra mano gli si chiuse intorno alla gola, serrando forte le dita. Le unghie gli si piantarono nella pelle, sottili e laceranti. Al diavolo. Logan scattò indietro con la testa, per poi muoverla di scatto in avanti. Crack… dritto contro il setto nasale. Un grugnito, e lei lo lasciò andare, mentre qualche goccia di sangue gli schizzava sulla guancia. Calda, umida. La afferrò per un polso, strattonando fino a piegare la mano in avanti ad angolo retto, e applicando il peso sulla giuntura. Ogni movimento si interruppe di colpo, sostituito da un sibilo rauco di dolore. Il pomo d’Adamo che andava su e giù. Rivoli scarlatti lungo le labbra. «Lasciami andare, bastardo!». Non era la voce di una donna, niente affatto. E diventava sempre più bassa e profonda a ogni parola. «Non ho fatto niente!». Logan tirò fuori le manette e ne fece scattare una sul polso piegato, usando il tutto come una leva contro la giuntura tesa. «Dov’è Stephen Bisset?» «aiuto! stupro!». Logan fece più pressione. «Non te lo chiederò di nuovo: dov’è?» «Aaaaagh… Mi stai spezzando il polso! …Ti prego, io non…». Un’altra spinta. «Okay! Okay! Dio…». Un respiro profondo attraverso i denti serrati e macchiati di sangue. Poi un sogghigno. «Sta morendo. Tutto solo, nel buio. Sta morendo. E non puoi farci niente».
Capitolo 2
I tergicristalli cigolavano e mugolavano contro il vetro, ripulendo un velo di minuscoli fiocchi bianchi. Il consiglio cittadino non aveva ancora fatto smontare le decorazioni natalizie: pupazzi di neve e rami di agrifoglio, campanelli e renne e figure di Babbo Natale scintillavano stagliandosi contro l’oscurità. Dieci giorni prima, quel posto sarebbe stato pieno di gente; Hogmanay, Capodanno: come cento venerdì sera uniti insieme. Ma adesso era deserto. Tutti se ne stavano ben chiusi in casa, a lamentare i postumi del Natale e ad aspettare il giorno di paga. Le gomme della volante sibilavano attraversando il nevischio fangoso sull’asfalto. Niente traffico: gli unici altri veicoli erano parcheggiati al lato della strada, imbiancati dalla lenta nevicata della notte. Logan si girò sul sedile e lanciò un’occhiataccia sul sedile posteriore dell’auto, mentre svoltavano su North Deeside Road. «Ultima possibilità, Graham». Graham Stirling se ne stava incurvato in avanti, con i polsi ammanettati davanti a sé, ora, intento a tamponarsi le narici incrostate di sangue con le dita sporche di terriccio. La voce rauca e piatta. «Mi hai rotto il naso…». Seduto accanto a lui, Bob Biorischio tirò su con il naso. «Già, e tu non hai neanche detto grazie, giusto?». Il folto e unico sopracciglio che gli si estendeva sopra gli occhi formava una v cespugliosa. Si chinò in avanti, così vicino a Stirling da sfiorargli la fronte con una delle sue grosse orecchie a sventola. «E ora rispondi alla domanda: dov’è Stephen Bisset?» «Ho bisogno di andare in ospedale». «Hai bisogno di qualche calcio in culo, ecco di cosa hai bisogno». Bob Biorischio strinse il pugno peloso. «Ora dicci dove si trova Bisset o, che Dio mi aiuti, io ti…». «Detective Marshall! Basta». Logan mostrò i denti. «Non aggrediamo la gente che arrestiamo su una volante della polizia». Biorischio tornò ad appoggiarsi allo schienale del sedile posteriore, abbassando il pugno. «Già, poi è un casino ripulire la tappezzeria. Rennie, trova un posto tranquillo dove parcheggiare. Un posto buio». Il detective Rennie fermò la volante davanti alle strisce pedonali, tamburellando sul volante con le dita mentre due uomini ben vestiti attraversavano barcollando la strada, abbracciati. Cantando una vecchia canzone di Rod Stewart. Ignari del fatto che la neve stesse cominciando a cadere più fitta. I completi che indossavano sembravano parecchio più costosi di quello di Rennie. E anche il loro taglio di capelli. I suoi si sollevavano in un cespuglio biondo sopra il volto dalle guance rosee, con il collo che scompariva in un colletto di due taglie troppo grande. Come un bambino che avesse indossato per scherzo i vestiti del papà. Si guardò alle spalle. «Vuoi che il tribunale sappia che hai collaborato, vero, Graham? Che ci hai aiutato? Potrebbe evitarti un paio d’anni in più dietro le sbarre…». Silenzio. Stirling si staccò un grumo di sangue rappreso da sotto al naso e si ripulì le dita sul tessuto strappato del vestito. «L’ispettore sta parlando sul serio, Graham, non te lo chiederà di nuovo. Perché non ti fai un favore e gli dici quello che vuole sapere?».
Una pausa. Poi Stirling alzò lo sguardo e sorrise. «Okay». Biorischio tirò fuori il ricevitore dalla giacca. «Era ora. Avanti… l’indirizzo qual è?». Lui si passò la lingua rosea sulle labbra pallide. «No. Tu e il ragazzo dovete uscire. Parlerò solo con lui». Indicò Logan. «Oppure possiamo tornare alla stazione di polizia e mi trovate un avvocato». «Non dire sciocchezze, Stirling, non possiamo…». «No comment». Logan sospirò. «È un’idiozia, io…». «Mi avete sentito: no comment. O questi due escono, oppure mi trovate un avvocato». Rennie fece una smorfia. «Capo?» «No comment». Logan si stropicciò gli occhi. «Fuori. Tutti e due». «Capo, non penso che sia…». «Lo so. E ora fuori». Rennie fissò Biorischio. Una pausa. Bob si strinse nelle spalle. Poi uscì dalla volante, sul marciapiede deserto. Un attimo dopo, Rennie spense il motore e lo seguì. «Continua a non sembrarmi una buona idea». Clunk, lo sportello si chiuse, lasciando Logan e Graham Stirling soli in macchina. «Parla». «Il bosco sulla Slug Road. C’è un sentiero tra gli alberi, e ti servirà la chiave del cancello. Un… una vecchia baracca nascosta lì in mezzo, a miglia di distanza da qualunque cosa». Il sorriso di Stirling si fece vago, e anche il suo sguardo, come se stesse rivivendo un ricordo. «Se siete fortunati, Steve potrebbe essere ancora vivo». Logan prese la radio. «D’accordo. Ora…». «Non lo troverete mai senza di me. Quel posto non è su nessuna cartina. Non si vede neanche da Google Earth». Stirling si piegò in avanti. «Cercatelo quanto volete: ma quando lo troverete, Steve Bisset sarà morto da tempo». I fari della volante proiettavano lunghe ombre irregolari tra i rami degli alberi, le luci delle sirene che scintillavano di blu e di bianco contro gli aghi delle conifere, illuminando e facendo scintillare i fiocchi di neve che cadevano danzando al rallentatore verso il sottobosco. Logan spostò il peso da un piede all’altro, sul sentiero sterrato e gelato. Puntò la torcia verso gli alberi. Erano nel bel mezzo del nulla. Si asciugò il naso con il dorso della mano. «Be’, che altro avrei dovuto fare? Lasciargli ripetere i suoi “no comment” finché Stephen Bisset non fosse morto?». Il sentiero si snodava avanti nell’oscurità, fiancheggiato da entrambi i lati da ciuffi d’erba che iniziavano a sparire sotto la neve, scintillanti alla luce della torcia. Dall’altro capo del cellulare, la Steel ringhiò. «Non avresti potuto far cadere quel dannato piccolo bastardo dalle scale un paio di volte? Non siamo autorizzati a…». «Vuole dirglielo lei alla famiglia di Stephen che l’abbiamo lasciato morire congelato, tutto solo in una baracca nel bosco, perché ci stavamo preoccupando più delle procedure che di salvargli la vita?» «Laz, non è così semplice, noi…». «Perché se è quello che vuole, me lo dica e ce ne torniamo dritti in centrale. Potrà aiutare lei il dottor Simms a prendere una sacca di plastica per il cadavere. Anzi, probabilmente abbiamo ancora un po’ di carta da regalo in giro, dopo Natale: potrebbe usare quella. Ci può avvolgere ben bene il cadavere e metterci pure un fiocco in cima».
«Puoi chiudere la bocca e…». «Magari qualcosa con gattini e orsacchiotti sopra, così i figli di Bisset non ci staranno troppo male?». Silenzio. «Pronto?» «D’accordo, d’accordo. Ma sarà meglio che sia vivo. E, un’altra cosa…». Lui attaccò e puntò verso la volante. Biorischio era appoggiato al cofano, con le braccia incrociate sul petto e le spalle curve, il tacco dello stivale da cowboy contro il paraurti. Il naso gli stava diventando di un rosso furioso, come anche la punta delle orecchie a sventola. Sputò. Poi accennò al detective con il vestito troppo grande che se ne stava dietro al volante. «Il ragazzino ha ragione, stiamo facendo una cazzata». «Sì, be’, mi sono già chiarito con il capo, quindi andiamo avanti». L’altro tirò su con il naso. «E se Danny la Drag Queen prova a fare qualche scherzo quando sei lì fuori con lui?». Logan sbirciò oltre la spalla di Bob Biorischio. Stirling se ne stava sul sedile posteriore, il sangue ormai secco che gli formava una maschera nera sulla metà inferiore del volto. Lividi che già gli scurivano la pelle sotto agli occhi. Il prendisole blu che indossava sporco di fango e strappato in più punti dopo l’inseguimento in mezzo ai giardini. Stava tremando. «Correrò questo rischio». Logan recuperò la bomboletta di gas lacrimogeno dalla tasca della giacca, passando il pollice sul bordo del tappo. «Comunque, ammanettagli le mani dietro la schiena. E voglio che voi due siate pronti a intervenire». Logan aprì lo sportello posteriore e si chinò all’interno della volante. L’abitacolo puzzava di sudore, paura e ruggine. «Fuori». Rametti sottili si spezzarono sotto i piedi di Logan mentre insieme a Stirling procedeva in mezzo ai rami grigiastri, seguendo il cono di luce proiettato dalla torcia. Un punto minuscolo in mezzo a un oceano di oscurità. Qualcosa si muoveva, in mezzo al fitto sottobosco. Zampette veloci, artigli che graffiavano il terriccio e si allontanavano nella notte. Logan spostò la torcia in direzione dei rumori. «Quanto manca?» Stirling accennò a sinistra con il mento. «Da quella parte». Le parole gli uscirono di bocca in una nuvola di vapore colta dalla luce della torcia, che si dissipò poco dopo nella notte. Il respiro del drago. Giù lungo un pendio, in una conca piena di rovi e dei resti arricciati di felci morte da tempo, piegati sotto il peso della neve, che continuava a cadere da un cielo scuro e pieno di nuvole. Stirling lo seguiva impacciato con le scarpe di Rennie ai piedi, nere e apparentemente enormi, come i calzini bianchi sotto al prendisole strappato e alle calze smagliate. E poi su dall’altra parte, attraverso le felci, le cui foglie dure e ruvide si avvolsero intorno ai calzoni di Logan, lasciando una serie di impronte fredde e umide. «Perché lui? Perché proprio Stephen Bisset?» «Perché?». Un’alzata di spalle. La luce della torcia scintillò sul metallo delle manette che gli bloccavano le mani dietro la schiena, le dita intrecciate come se stessero passeggiando tranquilli sulla spiaggia. «Perché no?». Un piccolo sospiro. «Perché era lì». Logan controllò l’orologio. Quindici minuti. Altri cinque e poi basta: avrebbe messo fine a quella farsa. Avrebbe fatto chiamare un’unità cinofila. E l’elicottero da Strathclyde, con una telecamera a infrarossi. Sempre che la Steel avesse abbastanza potere da farlo arrivare così a nord in un venerdì notte di gennaio.
Continuarono ad avanzare tra gli alberi avvolti nel silenzio. Gli aghi di pino caduti formavano mucchi color ruggine tra le radici serpeggianti, i rami troppo fitti per far passare la neve. Si fermò, tirando su la manica e lanciando un nuovo sguardo all’orologio. «Tempo scaduto. Non resterò qui un minuto di più». Afferrò la sbarra di plastica in mezzo alle manette e costrinse Stirling a fermarsi. «È solo un modo per perdere tempo, vero? Non vuoi affatto mostrarmi dove si trova Stephen Bisset. Vuoi che muoia, così che non possa testimoniare contro di te». Stirling si girò. Fissò Logan. Il volto illuminato dal basso dalla torcia, come quando qualcuno racconta una storia dell’orrore intorno al falò di un campeggio. Piegò la testa di lato. «Non vedi?». Logan si scostò da lui. Mosse il cono di luce della torcia in un ampio arco tra gli alberi, riempiendo di ombre sfuggenti il suolo coperto di aghi del bosco… Una struttura cadente, di legno, se ne stava tra i tronchi, in uno spazio ristretto che quasi non si sarebbe potuto definire una radura, parzialmente coperta da un muro di rovi scheletriti. La voce di Stirling si abbassò a un sussurro raschiante. «È lì dentro». Un altro passo. Poi si fermò. Logan si girò. Puntò la torcia in faccia a Stirling, facendolo sussultare e ritrarre, con gli occhi serrati. Poi tirò fuori la chiave delle manette. «In ginocchio». Un grosso lucchetto d’acciaio bloccava la porta della baracca. Aveva una combinazione a quattro cifre alla base e univa insieme due pesanti placche di metallo, una fissata alla porta e l’altra inchiodata alla parete. Entrambe con le teste delle viti inaccessibili. Logan puntò di nuovo la torcia verso Stirling. «La combinazione?». L’uomo era ancora in ginocchio, le braccia avvolte al tronco di un albero come se lo stesse abbracciando. Le mani ammanettate dall’altra parte. Una guancia premuta contro la corteccia. «Uno, sette, zero, sette». Le rotelle per cambiare i numeri erano dure e rigide, ma dopo un po’ di insistenza cominciarono a girare. Cigolando contro il nitrile dei guanti che gli coprivano i polpastrelli. Allineandosi con piccoli schiocchi nell’ordine giusto. Il lucchetto si aprì, e lui lo sfilò dalle placche di metallo, facendolo scivolare in una busta di plastica per le prove. Spinse la porta. Rigido quasi quanto le rotelle del lucchetto, il battente si aprì con un cigolio, e il fetore di corpi non lavati, sangue, urina e feci assalì Logan. Facendolo istintivamente arretrare. Un respiro profondo. Avanzò oltre la soglia. «Stephen? Stephen Bisset? Va tutto bene, è al sicuro, ora; sono della polizia». Dannazione, faceva più freddo dentro che fuori. La torcia colse nel suo cono di luce una serie di pertiche, seghe e catene. Poi un mucchio di tronchi e una vecchia incerata. E una stufa di ghisa senza sportello. E infine una pila di coperte sporche. «Stephen? È lì?». Logan allungò una mano e afferrò una delle pertiche. Liscia e lucida per tutte le volte che era stata afferrata nel corso degli anni. Un uncino ondeggiò sulla sua estremità, con le viti lente e arrugginite. «Stephen? Sono qui per riportarla a casa». Fece scivolare l’uncino sotto la coperta più vicina e la sollevò. Oh, Cristo… Fuori. L’aria fredda gelò il sudore che gli copriva il viso. Un altro respiro profondo. Logan appoggiò la fronte contro un tronco, la corteccia ruvida contro la pelle. L’odore fresco delle conifere incapace di cancellare il fetore corrotto della capanna. Non vomitare.
Sii professionale. Oh, Dio… Un respiro profondo. «Dovrei…». Gli si chiuse la gola, strozzandogli la voce. Premette più forte la fronte contro il tronco, fino a farsi male con la corteccia dura. Ritentò. «Dovrei prenderti a calci fino ad ammazzarti». La voce di Stirling scivolò fuori dall’oscurità. «È bellissimo, vero?». Il cellulare tremò tra le mani di Logan, mentre lo tirava fuori dalla tasca per chiamare la Steel. «Ho trovato Stephen Bisset». Ci fu un urlo di vittoria, dall’altro capo del telefono. E poi: «Laz, potrei ficcarti la lingua in bocca. È…». «No». E se si fosse mai svegliato, probabilmente avrebbe desiderato di non averlo mai fatto. «Mi serve un’ambulanza, una squadra seb, un supervisore per la scena del crimine e qualcuno che mi impedisca di impiccare Graham fottuto Stirling all’albero più vicino».
Capitolo 3
Big Tony Campbell appese la giacca allo schienale della sedia e si sedette. Era il comandante di divisione di Aberdeen, il Grande Capo, il Primo Spacca-culi: un uomo enorme, con le spalle larghe e due mani in proporzione. Il cranio calvo scintillava sotto gli ultimi raggi del sole che scivolavano sui tetti della città, finendo nell’ufficio. Gli unici peli che ancora resistevano fedeli sopra il colletto dell’uomo erano quelli delle sopracciglia: pesanti, nere e cespugliose. Indicò la sedia dall’altra parte della scrivania di legno lucido. «Prego». Poi si girò e si piegò, dando a Logan una vista perfetta della camicia che gli usciva dai pantaloni, esponendo un ciuffo di peli scuri e fitti. Logan si sistemò sulla sedia indicata e soffocò uno sbadiglio, coprendolo con la mano, mentre Big Tony Campbell riemergeva da sotto la scrivania con una bottiglia di Highland Park in una mano e due tumbler di cristallo nell’altra. Tutto fu posato sul tavolo. Una generosa porzione di whisky finì in entrambi i bicchieri, poi il comandante di divisione ne tese uno a Logan. «Mi dicono che Stephen Bisset ce la farà». Logan si leccò i denti, fastidiosamente ruvidi e non lavati. «Sì, signore». «Sarebbe stato meglio se fossi arrivato troppo tardi». Sfiorò con le dita la cartellina posata davanti al computer. Non ne toccò la superficie di cartoncino giallo, come se fosse infetta. «Castrato, con i denti cavati, il petto aperto con degli “impianti” piazzati dentro a forza, stuprato ripetutamente… Senza parlare di tutte le fratture». Arricciò gli angoli della bocca. «Un cambio di sesso indesiderato a opera di Jack lo Squartatore. Comunque…». Sollevò il bicchiere, e Logan fece lo stesso. Li fecero tintinnare, prima di prendere un sorso di whisky. Il calore dell’alcol si fece strada nello stomaco di Logan, lasciandosi dietro impronte affumicate. Il comandante di divisione ruotò la sedia, in modo da guardare verso la finestra. Osservò il suo regno al di fuori, mentre l’oscurità lo avvolgeva. Prese un altro sorso di whisky. «Il tuo capo mi ha detto che non sembri molto a tuo agio nel ruolo del vice ispettore». «Davvero?». Stronza traditrice… Be’, sempre che non fosse lì per una promozione. Che non fosse il momento di smettere di essere provvisorio e diventare un vero ispettore. Con tanto di aumento. Okay, non avrebbe più avuto gli straordinari pagati, ma in fondo, come in tutte le cose, c’erano i pro e i contro. Si raddrizzò sulla sedia. «A dire il vero, signore, penso che il mio capo…». «Non fraintendermi». Il comandante di divisione sollevò una mano. «Non è che tu non sappia fare il tuo lavoro, e l’indagine Bisset lo dimostra ampiamente, ma secondo lei forse non ti piace farlo. La gestione degli uomini e del budget, il lavoro d’ufficio, le riunioni». Prese un altro sorso di whisky. «Ha ragione?». Non agitarti. «Be’, signore, è solo che… L’ispettore capo Steel, a volte…». «Vedi, Logan», tornò a guardarlo, un sorriso che gli si allargava sul volto, «per me è importante che i miei agenti raggiungano il loro pieno potenziale. Ed è un privilegio e un dovere, per me, aiutarli a farlo». Sollevò leggermente il bicchiere. «Soprattutto quando posso dare loro i mezzi per brillare davvero». Oh, no. Non dirlo.
Non quelle uniche due parole che nessun poliziotto vorrebbe mai sentire. Il whisky sembrò cagliarsi nello stomaco di Logan. Sentì in bocca il sapore acido di scorza di limone e cenere, ma comunque tentò di restare impassibile. «Signore?». Ti prego, no… «Penso di avere un’opportunità di sviluppo che sarebbe perfetta per te». Troppo tardi.
LunedĂŹ, turno serale
Cromarty: da sette a otto, in aumento. Occasionalmente severo
Capitolo 4
«…e, già che ci siamo: indovinate chi esce oggi?». Logan lasciò la frase in sospeso per qualche secondo, mentre i due agenti lo fissavano. «Alex Williams». Un mugolio di protesta. L’ufficio degli agenti non era molto grande. Color magnolia, con una grossa bacheca di sughero coperta di foto segnaletiche su una parete, accanto a una lavagna magnetica; volantini, rapporti, avvisi, calendari, e altre lavagne magnetiche sul resto dei muri. Piastrelle blu consumate sul pavimento, coperte di strati di macchie di tè e caffè. Un bancone da lavoro, su due lati della stanza, al posto delle scrivanie; quattro sedie da ufficio, con la plastica graffiata e l’imbottitura che usciva dalle cuciture del tessuto consumato; lo stesso numero di vecchissimi e obsoleti computer; e poi Logan e due agenti, pronti a uscire. Un odore fastidioso di piedi sudati, patatine alla cipolla e lucido da scarpe aleggiava nell’aria. Logan si passò una mano sui capelli rasati. «Metto una bandierina di grado uno sulla casa. Se dovesse succedere qualcosa, voglio qualcuno lì in meno di cinque minuti». Deano giocherellò con la bomboletta di gas lacrimogeno agganciata sul davanti del giubbotto catarifrangente, rigirando il contenitore color canna di fucile nel fodero di cuoio con le dita grosse come traversine. Arrotolando nel gesto la corda elastica a spirale attaccata alla base della bomboletta. Le sue larghe spalle tendevano allo stremo il tessuto della T-shirt nera della polizia che indossava. Perfino seduto, era chiaro che fosse l’uomo più alto in quella stanza. «Tenner dice che arriveranno al massimo fino a mercoledì». L’agente Nicholson si imbronciò e infilò le mani nello spazio tra il giubbotto antiproiettile e l’uniforme nera. Incurvò le spalle, facendo ondeggiare il corto e pratico caschetto di capelli corvini. Aggrottò la fronte. «Ospedale oppure obitorio?». Deano piegò la testa di lato. Le luci al neon della stanza scintillarono sui capelli radi in cima alla fronte. Ciuffi grigi tirati indietro sulle tempie. «Secondo me… ospedale». Lei tirò fuori una mano, che stringeva un piccolo portafoglio in tartan. «Io dico: obitorio entro sabato». Poi guardò Logan, sbattendo le palpebre. «Sergente, lei?» «Tu e l’agente Scott state davvero scommettendo su quando qualcuno aggredirà o ammazzerà la persona che dice di amare?» Un’alzata di spalle. «Okay». Si infilò una mano in tasca. «Ci scommetto cinque sterline: non morirà nessuno». Deano accettò le monete e le mise via. «Problema suo, sergente. Non sarò certo io a rovinarle la sua fiducia in…». «Scusate». La porta si aprì di scatto, e l’agente Quirrel entrò nella stanza camminando all’indietro, portando un vassoio con quattro tazze e un vassoio di panini dolci. Il viso spigoloso, i capelli corti e di un biondo chiaro, e due acquosi occhi azzurri. Più basso di un’intera testa di chiunque altro nella stanza. «Che mi sono perso?» «Alex Williams è fuori». «Sono già passati sei mesi?». Quirrel distribuì le tazze, a partire da Logan, poi girò per la stanza con il vassoio. Prese l’ultimo panino e sistemò le chiappe secche nell’unica sedia libera. «Non sono affari…». «Ciuffo», lo indicò Logan, «tu avrai il compito di andare a dire a chi convive con Alex: “È di nuovo quel momento”».
«Ma, se… sergente…». Quirrel aggrottò per un attimo le sopracciglia, stringendo gli occhi. Poi sorrise. «Non sarebbe meglio se ci andasse qualcuno delle Violenze domestiche? Sa, in modo che possano spiegare tutte le opzioni possibili? Sono loro gli esperti, e noi non vogliamo certo…». «Fai quello che ti ho detto». Logan prese un morso del panino dolce, superando la crosta glassata per raggiungere il burro, il lardo e il resto del ripieno. «E vedi di non fare l’idiota, già che ci sei. L’ultima cosa che ti serve sono altre lamentele». Un cenno del capo. «Andiamo avanti». Deano cliccò sul mouse e l’immagine sullo schermo del computer cambiò, passando a un piccolo peschereccio con segni di ruggine su una fiancata della chiglia blu e il nome “vagabonda” in lettere sbiadite di vernice bianca. La foto era posizionata accanto a quella di un uomo di mezza età con una giacca di un arancione vivace, i capelli umidi intorno a un volto che sembrava di cuoio, una bottiglia di birra in una mano e un grosso pesce scuro nell’altra. Le informazioni erano scritte alla base della slide di PowerPoint, ma Logan le lesse comunque: «Charles “Craggie” Anderson, cinquantadue anni, scomparso da una settimana e qualche giorno. Ciuffo?» «Sì…». L’agente Quirrel prese il taccuino e ne girò le pagine fino a raggiungere quasi la fine. «Ho parlato di nuovo con amici e vicini: non si è messo in contatto con nessuno. Sono andato anche alla Guardia Costiera, e non c’è traccia della Vagabonda da nessuna parte. Sto aspettando di ricevere delle informazioni dalle Orcadi, dalle Shetland e dalla Norvegia, in caso sia scappato». «Bene. Dopo essere stati a casa di Alex Williams, tu e Deano andrete a Whitehills, Madcuff, Portsoy e Gardenstown. Controllerete tutte le barche. Qualcuno ha visto Charles Anderson la notte in cui è scomparso? Qualcuno ha sentito dove stava andando? Aveva problemi di denaro? Insomma, conoscete la procedura». Deano annuì. «Sì, signore». «E tieni Ciuffo più sotto controllo, stavolta, okay? Non ho mai visto un novellino mettersi in così tanti guai». Quirrel arrossì. «Come potevo sapere che quella donna non indossava le mutande?». «Ripeto: più sotto controllo. Con questa sono cinque, le persone scomparse. Sarebbe piacevole se riuscissimo davvero a trovarne almeno una». Una pausa. «Ultimo, e anche assolutamente meno importante, abbiamo una nuova direttiva dall’alto. Siamo la Divisione di Moray e Aberdeenshire. Da ora in avanti, chiunque sia colto in flagrante a chiamarla “Mire” si becca una sculacciata. Ci sono domande?». Deano giocherellò un’ultima volta con la bomboletta lacrimogena. «Sì, signore: una sculacciata piacevole o spiacevole?» «Sei un pervertito, lo sai, vero?». Logan finì il panino e si succhiò il burro da un dito. Poi si alzò. «Deano e Ciuffo, voi siete nel furgone del Postino Pat. Io e Janet andiamo a beccare qualche drogato». «Sergente?». La Nicholson fece affrontare il tornante alla volante della polizia, scalando le marce per sostenere la salita. Alla loro sinistra, il Mare del Nord scintillava come una pietra lucidata. Yacht e piccoli pescherecci ondeggiavano lenti nel porto. Era un bel cambiamento, dopo quell’orribile weekend. Dall’altro lato della baia, Macduff brillava nel sole del pomeriggio. Poi la vista fu nascosta dalle pareti ruvide e bianche del Railway Inn. Una fila di vecchie case scozzesi si allineava lungo la strada, e su di esse torreggiava la minacciosa massa grigia e vittoriana dell’Health Centre. La Nicholson spostò le mani sul volante, cominciando a parlare in tono leggero e apparentemente noncurante. «Sergente, qualcuno le ha detto niente del pool? Insomma, come sta andando?». Logan aprì la chiusura lampo di una delle tasche del giubbotto antiproiettile e ne trasse un pacchetto di Polo. Ne tirò fuori una dalla sua prigione di carta argentata. Si ficcò in bocca la
caramella e la masticò. «Credimi: il cid è una pessima scelta». Il giubbotto antiproiettile era come un pugno che gli strizzava il petto a ogni respiro. Le manette tintinnavano contro la fibbia della cintura di sicurezza. Il manganello estensibile gli comprimeva la coscia. Le cinture di contenimento gli premevano contro le reni. La cintura dei gadget di Batman doveva essere molto più comoda, ci avrebbe potuto scommettere. «E non ho ancora capito perché vuoi andarci». Masticò la mentina. «Polo?», offrì, allungandole il pacchetto. Oltre l’incrocio, la strada si allargava in Castle Street, con le sue case molto più lussuose. La Nicholson salutò una vecchietta che si fumava una sigaretta fuori dal Castle Bar. «Avanti, sergente, lei è stato nel cid per anni. Lo sa perché voglio entrarci». Logan si ficcò in bocca un’altra Polo. «Sì, forse ai vecchi tempi. Ma ora danno tutto il lavoro interessante a gruppi specializzati esterni. Se non sei nel Team Investigativo Primario, non lavorerai mai su un omicidio». Si mise a contare sulle dita. «Ci sono i team antistupro, i team per la riduzione della violenza, quelli delle violenze domestiche, quelli dell’antidroga, quelli delle rapine, e così via». Si strinse nelle spalle. «E al cid non resta altro che la robaccia noiosa che a nessun altro va di fare». Girarono a destra su Seafield Street. E di nuovo in salita, con la Banff Bay che scintillava negli specchietti retrovisori. Sopra di loro, un cielo di zaffiro, senza l’ombra di una nuvola o graffi di scie di aeroplani. «Ma questo non le ha impedito di arrestare Graham Stirling, dico bene?». Era vero. Logan sorrise. «Lascia perdere il cid, Janet. Le divisioni sono il futuro, e dove c’è tutta la gente che vale». Lei abbassò leggermente le spalle. Gli edifici a destra erano enormi. Logan si girò a guardarli mentre sfilavano via al loro passaggio. «Quanto pensi che costi una di quelle case?». Tutto granito di lusso, con i cornicioni e le finestre a golfo, e quei blocchi intorno alle porte, alle finestre e alle estremità dei timpani. Tetti di tegole grigie e prati curati, con qualche nano da giardino di tanto in tanto. La Nicholson sospirò. «Più di quanto riusciremo mai a risparmiare». «Non fraintendermi, la Casa del Sergente sarà carina, quando sarà finita, ma sono stufo di vivere come un rifugiato». Una voce si fece sentire crepitando dalla radio della macchina. «Controllo a Bravo India, rispondete». «Oh, senti qua». Logan alzò il volume. «Deve essere qualcosa di grosso, se infastidiscono il capo». «Avanti, sergente, non voglio essere uno di quei poliziotti che passano la vita in un posto solo. Ho dei limiti da superare». La voce di una donna si udì dagli amplificatori, profonda e calda: «Bravo India a Controllo, ti sentiamo forte e chiaro». «Sì, signora, abbiamo un’altra cassa in fuga. Il proprietario dice che c’erano dentro ventisettemila sterline. Si tratta del Broch Braw Buys, su Gallowhill Road, a Fraserburgh». Un altro? «Ventisettemila sterline? Ma chi diavolo pensa di prendere in giro?» «È quello che dice lui». «Sergente?». Oltre il bowling, le case diventavano molto più popolari. Villette bifamiliari con pareti ruvide e sporche e antenne satellitari arrugginite. «Probabilmente spera di ottenere parecchi soldi dall’assicurazione. Fate sigillare la scena del crimine, arrivo appena posso…».
Logan abbassò di nuovo il volume della radio. Più tardi sarebbe passato al Broch Braw Buys per dare un’occhiata. Ma, con un po’ di fortuna, a quel punto quel caso sarebbe già stato il problema di qualcun altro. «Sergente, vuole…». «Ascolta: io domattina sono in tribunale per il processo. Vuoi prendere il mio posto, mentre non ci sono? Voglio dire, non puoi fare il sergente, ma puoi comunque gestire la squadra». La Nicholson si mordicchiò l’interno di una guancia. «Farà bene al tuo curriculum. Potresti anche cominciare a gestire tu qualche briefing. Tutto fa brodo». «D’accordo». Si piegò in avanti, stringendo gli occhi contro il sole e osservando le auto che si avvicinavano a loro dal senso opposto di marcia. «Quel ragazzo al cellulare?». Logan si fece scudo agli occhi con una mano. «Quello brutto nella Fiesta blu?». La Fiesta in questione li oltrepassò, seguita da altri tre veicoli. Poi un po’ di spazio vuoto… e poi una Passat. Il dito della Nicholson premette uno dei pulsanti al centro del cruscotto e le sirene della volante si accesero. Un altro pulsante, e cominciarono anche a suonare. Il conducente della Passat frenò di colpo, fermandosi a circa due metri da loro. Un vecchietto si sporse a guardarli da dietro gli spessi occhiali, le mani strette intorno al volante, un berretto in tartan ben calcato in testa. La Nicholson gli rivolse un cenno, poi fece un’inversione a u. Premette il piede sull’acceleratore. La spinta in avanti schiacciò Logan contro lo schienale del sedile, aggiungendo il suo peso alla stretta soffocante del giubbotto antiproiettile. Le auto si spostarono in tutta fretta davanti a loro, aprendo la strada verso la Fiesta blu e il suo poco attraente conducente. L’auto era lucida e perfetta, come nuova. La Nicholson gli si piantò alle spalle, suonando il clacson. Le sirene cambiarono tono, diventando più insistenti e decise. Mr Brutto lanciò un’occhiata verso di loro, il volto corrucciato nello specchietto retrovisore. Una pausa… poi si accostò al marciapiede, fermandosi. La Nicholson si fermò dietro di lui. Armeggiò con la radio fissata alla cintura. «Controllo, ho bisogno di un controllo su una Fiesta blu». Logan si allungò sul sedile posteriore per recuperare il berretto dell’uniforme e uscì dalla volante. Scosse una gamba come un cane a cui si gratta la pancia. Quei dannati pantaloni dell’uniforme sembravano fatti di carta vetrata. Aggirò con calma la Fiesta, fino a raggiungere il finestrino dal lato del guidatore. Con un ronzio, il vetro si abbassò e Mr Brutto lo guardò con astio. «Cosa c’è?». Le parole gli uscirono come bile da una bocca storta piena di denti storti. L’accento era senza dubbio di Birmingham. Sopracciglia folte, faccia larga, fossetta sul mento e una serie di brufoli di un rosso arrabbiato lungo la linea della mascella. Okay. Non sarebbe stato piacevole. Logan sganciò l’elastico che reggeva la telecamera che portava addosso e ne fece scivolare giù la parte frontale, cominciando a registrare. «Lo sa che è illegale usare il cellulare mentre si guida, vero?». L’uomo aggrottò la fronte. «Io non stavo usando il cellulare». «L’abbiamo vista, signore». Lui tornò a guardare avanti. Serrò la mascella, facendo fremere la linea di foruncoli. Un paio di vulcani nella catena sembravano sul punto di esplodere. «Lo deve dimostrare». «Il suo nome?». Silenzio. Altre attività telluriche in zona mascellare. Poi: «Martyn Baker. Con la y. Sedici dicembre del millenovecentonovantatré. Dresden Road numero trentotto, Sparkbrook. Birmingham».
Nome, data di nascita e indirizzo. La versione dei malviventi di nome, grado e matricola. Proprio così. Non doveva essere la prima volta che forniva le sue generalità alla polizia, dunque. Logan scrisse tutto sul taccuino. «Resti in macchina, signore». Poi si avvicinò al bagagliaio e aspettò che il Controllo gli fornisse i dati dell’auto. La Nicholson recuperò a sua volta il berretto dell’uniforme e si avvicinò, con i pollici infilati nei fori per le braccia del giubbotto antiproiettile, come Rumpole di Le avventure di Bailey. Alzò il mento. «Sergente? L’auto è di proprietà di un certo Martyn Baker…». «Del novantatré, residente in Dresden Road numero trentotto, a Birmingham?» «Sì, è lui. Ovvero Paul Butcher, ovvero Dave Brooks. Ha una fedina penale lunga un chilometro: effrazione, aggressione aggravata, possesso di droga, spaccio, lesioni a carico della fidanzata e della madre… Insomma, molto eclettico, tutto sommato». «Di sicuro non ha passato l’esame di simpatia, però». Logan riportò lo sguardo sull’auto. Baker li fissava con gli occhi ridotti a due fessure, dallo specchietto retrovisore. «Multe notevoli?» «No, al massimo un libro riportato in ritardo in biblioteca». La Nicholson spostò il peso da un piede all’altro. «Vuole multarlo per il cellulare?» «Dice che non è vero». Lei sbuffò. «Sul serio? Un cittadino modello come lui?». La ricetrasmittente agganciata sul petto di Logan trillò quattro volte: una chiamata diretta. Lanciò uno sguardo al piccolo schermo dell’apparecchio, e riconobbe il numero di matricola dell’agente Scott. La sua voce riecheggiò dalla trasmittente. «Pattuglia Sette, qui Dean, potete parlare?». Logan sporse una spalla avanti, piegando la testa di lato per poter portare le labbra vicino al microfono. Premette il pulsante. «Parla pure, Deano». «C’è stata un’aggressione a Whitehills. Al Drookit Haddie ad Harbour Place. Un gruppo di coglioni ha picchiato un vecchio. Io e Ciuffo stiamo aspettando l’ambulanza». «Qualche sospetto?» «Nah: sembra che tutti, nel pub, siano vittime di un’improvvisa amnesia. E Maggie è occupata: c’è una mucca che vaga sulla b9031 vicino all’uscita per Gamrie». «Okay. Ci pensiamo noi. Assicuratevi di recuperare le riprese delle telecamere di sicurezza del pub». Il viso della Nicholson si incupì. «Una mucca su una strada. Non è esattamente Il silenzio degli innocenti, eh?» «Attenta a quello che desideri». Logan lasciò la ricetrasmittente e tornò a guardare la Fiesta di Mr Brutto. «Non è così bello come sembra». «Allora… che facciamo con l’amico brufoloso, lì?». Ma Logan si stava già avvicinando al finestrino dal lato del guidatore. «Mi dica, Martyn con la y, cosa la porta così lontano da Dresden Road numero trentotto a Birmingham, fino alle soleggiate strade di Banff?». Un’altra dose di sguardo letale. «Sono motivi personali. Ha finito? Perché sta ledendo il mio diritto di muovermi liberamente, se non le è chiaro». «Capisco…». Logan tamburellò con le dita sul tetto dell’auto. «Sa, Mr Baker, volevo lasciarla andare con un’ammonizione, ma ho motivo di credere che non servirebbe a molto. Quindi, le confischerò il cellulare come prova…». «Oh, al diavolo!». La linea di foruncoli sembrò prendere fuoco. «Non si prenderà il mio cellulare, neanche per sogno!». «Secondo la legge scozzese, è nelle mie facoltà sequestrare qualsiasi oggetto che possa essere stato utilizzato per commettere un crimine. Oppure preferisce essere portato in centrale per resistenza a pubblico ufficiale?». Logan fece scattare avanti il polso e controllò l’orologio. «Ho un paio d’ore libere. Esca dalla macchina, Mr Baker».
L’uomo si piegò in avanti fino a sfiorare il volante con la fronte. «D’accordo». A quel punto, pescò dalla tasca un enorme Samsung ammaccato e graffiato. Lo schermo pieno di crepe che si irradiavano dall’angolo in basso a sinistra. Lo tese a Logan. «Contento?» «Assolutamente, signore. Le faccio una ricevuta per il telefono». Ma si assicurò di perderci più tempo possibile. «Guidi con prudenza, Mr Baker». Un sorriso. «La terremo d’occhio per assicurarci che stia bene». La Nicholson fissò la Fiesta che si allontanava. «Pensa che stia spacciando? Che stia facendo una consegna? O forse che stesse scappando da qualcuno?» «O forse tutte le opzioni insieme…». Logan fece scivolare il cellulare in una busta per le prove e la etichettò. «Ma chissà, magari era solo in ritardo a un appuntamento romantico con una bella pecora». Lasciò la busta nel bagagliaio della volante. «A proposito di animali, quella mucca non se ne andrà dalla strada da sola».
Capitolo 5
«…dice di non dimenticare la sua valutazione, oggi». Logan premette il pulsante della ricetrasmittente. «Dipende da come vanno le cose. Io e Janet siamo molto occupati a tenere la brava gente del nord dell’Aberdeenshire al sicuro da furfanti e delinquenti». I campi sfilavano oltre il finestrino della volante, scintillanti e verdi, con muraglie scure di ginestra che sembravano infiammate da lampi di fiori gialli. Più avanti, in mezzo alle colline, le scogliere sparivano nel Mare del Nord. La voce di Maggie si abbassò a un sussurro cupo. «Sergente McRae, le dirà che ho bisogno di un piccolo aumento, vero? Con Bill e la sua schiena, noi…». «Non posso promettere nulla, ma ci proverò. Sempre che finiamo in tempo, qui». Logan si spostò sul sedile. Guardò avanti, oltre il parabrezza, mentre superavano la sommità di un’altra collina. «Ecco, ci siamo». Una grossa mucca marrone si muoveva pigramente al centro della strada. Larga di spalle e di lombi, con la coda che ondeggiava da una parte all’altra. Le corna che dondolavano avanti e indietro mentre camminava. «L’ispettore dice che non può mancare. Le valutazioni devono essere consegnate entro mercoledì». La Nicholson suonò con forza il clacson. Breeeeeeeeeep. La mucca non sembrò neanche sentirlo. «È stata piuttosto insistente, in merito». «Okay, okay. Dille che torneremo alla stazione verso…». Controllò l’orologio. «Facciamo per le quattro e mezzo. Cinque meno venti. Più o meno». «D’accordo». E a quel punto, Maggie attaccò. La Nicholson riprovò a suonare il clacson. Breeeeeeeeep. Niente. «Mi sono addestrata da poliziotta per fare questo? Mesi all’accademia di Tulliallan. Due anni in prova…». Breeeeeeeeeep. Abbassò il finestrino. «Avanti, brutta stronza pelosa, togliti dalla strada!». Logan si agitò sul sedile. Intorno a loro c’erano soltanto campi vuoti. Non un singolo capo di bestiame, a parte quello che passeggiava pigramente al centro della strada. «Non so proprio da dove possa essere venuta». A sinistra, in lontananza, un prato verde era coperto di grosse balle di fieno avvolte in plastica nera. «Possiamo mandarla lì». Si slacciò la cintura. «Andiamo». La Nicholson si accigliò. «Ecco cos’è che succede quando ci impediscono di portarci dietro un taser». «Gah…». La Nicholson spinse il cancello per chiuderlo e serrò il chiavistello, facendolo cigolare. Lo lasciò andare, e con uno schiocco il cancello si bloccò. Sputò due volte. E poi una terza. Passandosi una mano sul fango che le copriva il viso da un orecchio all’altro. Ce n’era dell’altro sul giubbotto catarifrangente, e perfino dei grumi nelle aperture per le braccia del giubbotto antiproiettile. Sputò un’altra boccata di saliva mista a fango. Poi lanciò un’occhiataccia a Logan. «Le divisioni sono il futuro? Il futuro un paio di palle!». Logan si strinse nelle spalle. «Ti immagini cosa succederebbe se uscissi dalla curva, laggiù, a novanta all’ora, e finissi contro quella bestia?», indicando la grossa mucca marrone, che di sicuro appariva molto più pulita della Nicholson. «Poi ti dovrebbero scrostare dall’asfalto come settanta chili di macinato».
Lei si ripulì le mani sul davanti del giubbotto antiproiettile, spandendo il fango ancora di più. «Sta dicendo che sono grassa?». «Torna qui, piccolo bastardo!». Logan saltò oltre il muretto del giardino e attraversò correndo il prato, con le ginocchia che pompavano come pistoni. Una mano a tenere fermo il berretto in testa, l’altra stretta sul manganello alla cintura, per evitare che dondolasse selvaggiamente a ogni passo. Il piccolo bastardo in questione continuò a correre. Con le scarpe da ginnastica che mostravano le suole bianche a ogni passo e le gambe veloci, il cappuccio della felpa che gli ondeggiava dietro come un’oscena lingua rosa. Si infilò nel giardino successivo. Piombando dritto su un’aiuola di nasturzi e violette. I proprietari erano seduti su una panchina contro la parete della casa, intenti a condividere una bottiglia di vino. Scattarono in piedi all’istante, scuotendo i pugni contro il Piccolo Bastardo già lontano. Una siepe separava il giardino da quello adiacente. Il ragazzo la saltò, rischiando di perdere l’equilibrio dall’altra parte. La borsa che aveva a tracolla gli scivolò, cadendo sul prato. Un mucchio di bombolette di vernice spray rotolò sull’erba come bombe della seconda guerra mondiale. «Torna qui, ho detto!». Il Piccolo Bastardo si arrischiò a voltarsi per rivolgergli un ghigno. Lentiggini sul viso, non più di dodici anni. Forse tredici. Capelli ricci e rossi e fossette sulle guance. E poi thump, la Nicholson gli piombò addosso da un lato, con un placcaggio da rugby che avrebbe reso la nazione intera fiera di lei al Murrayfield. Rotolarono sul prato in un groviglio di braccia e gambe, travolgendo vasi e nani da giardino. Logan rallentò la corsa, fermandosi infine del tutto mentre la Nicholson si rialzava in piedi, sollevando anche il Piccolo Bastardo tenuto per il cappuccio della felpa. Sputò un filo d’erba. «Quando qualcuno ti grida “Fermo, polizia!”, tu devi fermarti, siamo intesi?». Il ragazzino tentò un paio di volte di dimenarsi, non ottenne nulla e alla fine restò immobile. «Ebbene?». Lei lo scosse leggermente. «Che hai da dire a tua discolpa?». Lui si mordicchiò il labbro superiore. Poi si strinse nelle spalle. «Era un commento sulla nostra classe dirigente e sulla privazione dei diritti civili e il disimpegno politico dell’uomo comune». La sua voce cambiò di tre ottave durante il discorso. «Disegnare dei peni su un cartellone del Partito Conservatore non conta come opinione politica». «Invece sì». La Nicholson lo spinse verso Logan, per poi tirare fuori il taccuino. «Il tuo nome?». Il ragazzino si irrigidì, come se stesse per fuggire di nuovo. Logan lo afferrò per le spalle. «Vuoi provare le manette, per caso? Perché se vuoi posso fartele provare». Lui alzò gli occhi oltre la spalla. La pelle chiara tra le lentiggini che gli coprivano il viso arrossì di botto. «Non lo direte a mia madre, vero?» La Nicholson lo pungolò con la penna. «Allora, il tuo nome?» «Voglio dire, da Edimburgo ci sfruttano e basta, non è così? I nostri politici. A nessuno di loro importa davvero cosa pensiamo, ormai. Siamo come delle stupide api operaie, per loro, solo che invece del miele, si ingrassano con le tasse che ci spillano». Logan abbassò lo sguardo a fissarlo. «Che ci spillano? Quanti anni hai, tu, tredici? Quando mai hai pagato una tassa, fammi capire?» «Sono i lavoratori a controllare i mezzi di produzione». La Nicholson lo pungolò di nuovo. «Senti, ultima possibilità, altrimenti ti porto alla stazione di polizia perché ti sei rifiutato di darmi le tue generalità. Allora: nome?».
Il ragazzino prese un respiro profondo. Poi abbassò lo sguardo alle scarpe da ginnastica. «Geoffrey Lovejoy». Poi tirò su con il naso, rialzando lo sguardo, gli occhi lucidi. «Sono un prigioniero politico. Dovete chiamare le Nazioni Unite. Potere al popolo!». Logan alzò lo sguardo dal taccuino. «È sicuro che la riconoscerebbe, se la vedesse?». Il negoziante annuì, facendo tremare i molteplici menti in una sorta di scossa tellurica facciale. «Certamente. Aveva addosso una dozzina di bottiglie di Chanel Numero Cinque, una manciata di correttori Touche Éclat ed Elizabeth Arden, e tutti i Paco Rabanne che avevamo sugli scaffali!». Puntò la mano dall’altra parte della profumeria, dove la porta d’ingresso era tenuta aperta da una vecchietta con un foulard sintetico in testa. «Li ha presi ed è scappata senza la minima vergogna. La nostra Stacey l’ha inseguita, ma…». Si strinse nelle spalle. Il giubbotto antiproiettile della Nicholson iniziava a sembrare mimetico: macchie d’erba che si mischiavano al fango dell’avventura con la mucca in fuga. Non aveva un bell’aspetto. Lei indicò la telecamera di sicurezza sul muro dietro al bancone. «L’ha registrata?». Le guance paffute dell’uomo avvamparono. «È finta. L’ho comprata su eBay per cinque sterline». La Nicholson indicò in una direzione. «Non è Liam Barden, quello?». Dall’altra parte della strada, un uomo grassoccio con una maglietta dell’Aberdeen Football Club entrò nel supermercato. Logan aggrottò la fronte, mentre le porte automatiche si chiudevano, nascondendo l’uomo e la sua maglia di un rosso scarlatto. «Ne sei sicura?» «Sì, assolutamente». Lei parcheggiò fuori dal supermercato. «Be’, ecco… all’ottanta per cento. Ce l’ha il manifesto con la foto?» Lui aprì il cassetto del cruscotto e ne tirò fuori quattro spiegazzati fogli a4 spillati insieme. Due foto su ogni foglio, insieme a nomi e dettagli di dove e quando quelle persone erano sparite. Liam Barden era in terza pagina: sorrideva, con entrambi i pollici in alto, a una partita dei Caley Thistle, e una macchia di quello che sembrava sugo sul logo della Orion Group in bella vista sulla sua maglietta rossa e blu. Un piccolo cardo d’oro gli scintillava intorno al collo, appeso a una catenina anch’essa d’oro. Che classe. Liam condivideva la pagina con la foto di un famoso spacciatore del luogo, Jack Simpson, con il collo coperto di tatuaggi tribali, le guance scavate e una miriade di piercing tra naso e orecchie. In realtà, quella foto mostrava anche dei baffetti da Hitler, un paio di occhiali, delle viti da Frankenstein sulle tempie e un dente annerito. C’era perfino un fumetto che diceva: «sono sexy!». «Ma dannazione». Logan tese il foglio alla Nicholson. «Quante volte dovrò ripetere a quegli idioti che non si scarabocchiano le foto delle persone scomparse?» «Non guardi me: io non ce l’ho neanche una penna blu». «Come ti sentiresti, tu, se un tuo parente fosse scomparso e qualcuno gli scarabocchiasse la foto? D’accordo, Jack Simpson è un vero stronzo, ma merita di essere trattato come tutti gli altri». «Non sono stata io!». «È come lavorare in un asilo infantile…». Tuttavia, dovette ammettere che la foto di Liam Barden somigliava in effetti all’uomo che era entrato nel negozio. Robusto, con una calvizie incipiente e un sorriso pieno di denti. «Il problema è: perché non ha i baffi?» «Magari li ha tagliati?». La Nicholson si tolse la cintura di sicurezza e uscì dall’auto, calcandosi in testa il berretto. «Non viene?» «E perché ha cambiato squadra, dagli Inverness Caley Thistle all’afc?». Logan la seguì sul marciapiede. Le tese di nuovo il foglio. «Vedi?». Lei fissò la foto, accigliandosi. «Non è un reato tifare per più di una squadra. E poi, pensi a quanto saranno felici sua moglie e i suoi figli, se lo troviamo».
Il che era molto più di quanto si potesse dire per Jack Simpson. Era scomparso già da dieci giorni, e neanche la madre sentiva la sua mancanza. Se non avesse preso i soldi a sua nonna, probabilmente non ne sarebbe neanche stata denunciata la scomparsa. Logan girò la pagina. «E perché nessuno aggiorna mai queste informazioni?». Si frugò nelle tasche del giubbotto antiproiettile. Aggrottò la fronte. Prese il taccuino e lo rimise via. «Dannato Hector». Le porse una mano. «Hai una penna?». La Nicholson gliene tese una e Logan tracciò una croce sulla foto di un bambino in fondo all’ultima pagina. «Abbiamo trovato Ian Dickinson quattro giorni fa». «Mi creda, il prossimo che cancellerà sarà Liam Barden». La Nicholson si raddrizzò il berretto in testa e puntò dentro al supermercato. Logan succhiò il leccalecca, cercando di raggiungere il cuore di vaniglia artificiale sotto alla copertura al lampone. Il sole gli scaldava la nuca. «Be’, valeva comunque la pena tentare». «Avrei potuto giurare che fosse lui», commentò la Nicholson, muovendo il braccio sinistro in un ampio cerchio, mentre il Cornetto nell’altra mano gocciolava cioccolato, ed entrambi scendevano lungo il pendio della collina. «Come va la spalla?». Lei scosse la testa. «Comunque, penso ancora che avremmo dovuto arrestare quel piccolo vandalo». «Però a quel punto avremmo dovuto portarlo fino a Fraserburgh per le pratiche, e questo ci avrebbe tolto dalle strade per almeno un paio d’ore. Con Deano e Ciuffo ancora in ospedale, chi avrebbe protetto la brava gente di Banff e Macduff?» «Non è questo il punto, lui…». «Il ragazzino stava soltanto disegnando un grosso uccello su un manifesto. Qualcuno potrebbe perfino pensare che il nostro futuro candidato dei Conservatori stia meglio con un grosso uccello addosso. Perlomeno, il cittadino Geoffrey è interessato alla politica». Quattro trilli risuonarono dalla ricetrasmittente. «Sergente McRae?». Lui succhiò di nuovo il leccalecca. «Dimmi, Maggie, ti ricevo». «Non sta dimenticando qualcuno?». Attraversarono la strada. «Lo sto facendo?». La risposta arrivò in un sibilo. «L’ispettore McGregor! Gliel’ho detto, deve fare la sua valutazione». Dannazione. «E quanto è arrabbiata?». Un cagnetto continuò ad abbaiare a perdifiato mentre loro passavano, correndo avanti e indietro lungo un cancelletto di ferro battuto. «Ha detto che sarebbe tornato qui per le cinque meno venti. Ma sono quasi le cinque». «Siamo…». Succhiò il leccalecca, avvertendo la prima goccia di vaniglia. «Siamo molto impegnati, qui, Maggie. Non possiamo rimandare a domani?». Silenzio. Svoltarono l’angolo, raggiungendo Low Street, con tutti i suoi bar, negozi e locali. «Maggie?» «Vuole persino che le risponda? E tra l’altro dovrebbe anche mettere una buona parola per me… e come potrà mai farlo, se la McGregor è inferocita?» «Okay, okay… dille che sarò lì alle cinque e mezzo». Superarono la Protezione Gatti e il negozio di alcolici. «D’accordo. Ci proverò. Ma cerchi di non arrivare tardi». A quel punto, Maggie chiuse la comunicazione. Il negozietto di articoli da regalo subito dopo doveva aver iniziato a vendere libri e giornali, perché una piccola locandina era appoggiata sull’asfalto all’esterno: “foto esclusive del liverpool”.
Aveva appena rimesso la ricetrasmittente nel suo fodero quando la sentì trillare di nuovo. «Sergente? Sono Dean, può parlare?» «Deano. Tu e Ciuffo avete finito in ospedale, o state pensando di passare tutto il turno lì?» «Siamo ancora qui, sergente. E abbiamo una persona scomparsa per lei». Un’altra strada conduceva a destra. Lunga, stretta, buia e claustrofobica. File di case con terrazzo su entrambi i lati, alti abbastanza per fermare la luce del sole e lasciare l’asfalto pieno di buche all’ombra. Pareti ruvide e grigie e tetti di tegole scure. Ogni tanto, qualche casa mostrava una facciata coperta di una vecchia mano di intonaco bianco, e spiccava come un dente curato in una bocca piena di carie. «Stai dicendo che abbiamo trovato una delle persone scomparse? O che è scomparso qualcun altro?» «Sì. Un certo Neil Wood, proprietario di un Bed and Breakfast su Shortgate Lane, a Peterhead. Suo padre dice che non torna a casa da tre, forse quattro giorni». «Fatti dare tutti i dettagli». Morse il leccalecca, prima che gli cadesse dal bastoncino. E poi si bloccò, indicando davanti a sé con la mano libera. Poco più avanti, sulla porta di un negozio con la vetrina sbarrata, c’era una donna magra come un chiodo, avvolta in una T-shirt troppo grande per lei, con un paio di pantaloni da jogging rosa e stivali Ugg sporchi ai piedi. La sigaretta fatta a mano che stava fumando era protetta da una mano chiusa a coppa, come se temesse di rivelare la sua posizione a eventuali cecchini nelle trincee nemiche. La Nicholson strinse gli occhi. «Lei ha più fortuna che…». «Non è fortuna, agente. È bravura». «Sergente? È ancora lì?» «Ascolta, Deano, segui casi del genere da più tempo di me. Sai cosa devi fare: annota tutti i dettagli e riempi il modulo per la denuncia della scomparsa. Forse lo troveremo, forse invece no. Non è…». «Il vecchio che hanno picchiato a Whitehills è il padre di Neil Wood. Sembra che quegli uomini l’abbiano aggredito per via del figlio. A quanto pare, Neil Wood è un bastardo. Si è fatto otto anni dietro le sbarre per abusi su minori a Tayside. È uscito, non poteva tornare a casa sua e si è stabilito qui. Ha comprato un Bed and Breakfast e ha fatto trasferire il padre dal sud per vivere con lui, perché a quanto pare il vecchio ha problemi di cuore». «E ora è scomparso». «Ed è per questo che non mi sto limitando a riempire un modulo». «Proprio quello di cui avevamo bisogno». La donna si girò, grattandosi l’interno di un gomito con una mano e facendosi avvolgere il fumo della sigaretta intorno alle dita. Non ci sarebbe voluto molto, prima che li notasse. «Deano, parla con l’Unità Controllo Pregiudicati. Scopri chi stava controllando Wood e digli di muoversi. Non vogliamo un tipo del genere nel nostro territorio senza neanche sapere dove si trova. Di’ loro di fare subito un appello a tutte le unità, perché tengano gli occhi aperti». «D’accordo». «Okay, e ora togliti di mezzo, abbiamo una drogata da arrestare». Un cenno alla Nicholson: gettarono in un bidone i gelati e puntarono verso il fondo della strada. «Niente?». Logan spostò la presa sul braccio scheletrito della donna, mentre la Nicholson controllava la sua borsa leopardata. Grande abbastanza per contenere un blocco di cemento da costruzione o un neonato. Un furgone li superò, con il logo della Tesco su una fiancata, lasciandosi dietro una nuvola di polvere. Una luce calda e dorata si faceva strada nello spazio tra due edifici.
Era grande abbastanza da contenere un’altra casa, ma se un tempo ce n’era stata una, non ne restava traccia. Ora lo spazio era occupato da un parcheggio polveroso, e faceva da accesso ai garage e alle rimesse che si trovavano nei giardini posteriori delle abitazioni. L’erba cresceva incolta alla base del muro di un metro e mezzo che formava i due lati dell’entrata priva di cancello alla terra segreta che si estendeva oltre. Chiudendo fuori dalla strada i tre. La Nicholson tirò fuori una sorta di penna dorata, stringendola tra le dita coperte da un guanto di nitrile azzurro. «Questa mi sembra un po’ lussuosa, non ti pare, Kirstin? Touche Éclat? Mi pare di averla vista da Boots… è roba che costa una fortuna». Kirstin Rattray si strinse nelle spalle ossute. Il gesto fece scivolare di lato la T-shirt troppo grande, esponendo la bretellina di un reggiseno verde acido tesa sulla pelle lattea. «L’ho trovata». Una serie di piccoli succhiotti violacei le correva lungo l’incavo del collo. Taglio di capelli anni ’80 e ombre scure sotto gli occhi. Zigomi così affilati da poterci sbucciare le patate. «Certo, come no. E queste?». La Nicholson tirò fuori dalla borsa due confezioni di Chanel No. 5, ancora chiuse, e poi una di Paco Rabanne. «Hai trovato anche queste?». Il labbro inferiore di Kirstin le scomparve tra i denti. Abbassò lo sguardo verso sinistra. «È stata lei a mettermele in borsa. Io non le ho mai viste prima». «Non fare la stupida, Kirstin. Le hai rubate tu? O è stato qualcun altro a farlo per te?» «Dovrei prendermi un avvocato. E denunciarvi per falso qualcosa». «Ooh, e c’è pure un iPhone nuovo di zecca». La Nicholson lo mostrò a Logan. «Quando vivevo con il sussidio di disoccupazione, era un giorno di festa se riuscivo a permettermi delle patatine e un paio di mutande nuove nella stessa settimana. Ora invece hanno smartphone e profumi costosi». Tornò a guardare la sua nuova amica. «Fammi indovinare: l’hai trovato?». Kirstin rovesciò indietro la testa, mettendosi a fissare il cielo limpido e azzurro. Espirò con un sibilo, mentre le ginocchia le cedevano di qualche centimetro. «Che diavolo volete?» «Io la pace nel mondo. E lei, sergente?». Logan aggrottò la fronte. «Io vorrei un Mars, a dirla tutta». «Sentite, ho una figlia piccola. Si chiama Amy, ha tre anni. Giuro sulla sua vita che non ho rubato niente». «Sul serio? E allora come mai corrispondi alla descrizione di una donna che ha rubato profumi e trucchi da una profumeria nelle vicinanze? E come mai la tua borsa è piena della roba che è stata rubata dal negozio?» «Ve l’ho detto, l’ho trovata». Tese una mano. «Ora posso riavere la mia borsa?» «Sergente?». Logan lasciò andare il braccio pallido della donna. «La Polizia di Scozia la ringrazia per la collaborazione, e per aver restituito gli oggetti che ha “trovato”. Davvero molto civile, da parte sua. Cercheremo di riportarli ai legittimi proprietari». Poi scribacchiò qualcosa. «Ora dobbiamo tornare di corsa alla centrale per un impegno improrogabile, ma dopo che avremo finito, che ne dice se ci ritroviamo da lei e scopriamo se non c’è qualcos’altro che lei ha accidentalmente “trovato”?». Kirstin tornò a chinare il capo. «Dannazione…».
Capitolo 6
Kirstin gli lanciò un’occhiataccia dalla panca della Sala Interrogatori Due. Teneva entrambe le mani di fronte a sé, torcendosi le dita, mentre la Nicholson se ne stava appoggiata alla parete alle sue spalle. Le serrande erano abbassate, ma la luce, nella piccola stanza, era comunque quasi accecante. Il nastro antipanico scintillante e mai usato. Un foglio spiegazzato di una lavagna a fogli mobili era attaccato su una parete. Molte più sedie di quante non ne sarebbero mai state necessarie in un interrogatorio affollavano la moquette grigia. Logan le rivolse un sorriso, per poi uscire e chiudersi la porta alle spalle. Raggiunse così la sala d’ingresso, con il suo complicato pavimento di piastrelle beige, marrone, blu e bianche. Non si abbinavano molto bene alle pareti, bianche fino alla striscia che correva all’altezza della vita e poi blu pastello fino al soffitto. Il cartello con i livelli di minaccia alla sicurezza era appena visibile attraverso la porta aperta che dava sulle scale. A quanto sembrava, il livello di minaccia terroristica di quel giorno era “favoloso!” in grandi lettere maiuscole. Dannati idioti del turno di giorno… Logan lo sostituì con l’ufficiale “moderato” e inserì il codice d’accesso nella tastierina per poter raggiungere l’ufficio principale. All’interno, il pavimento era coperto di moquette blu, le pareti erano color magnolia e sul soffitto piuttosto sporco correvano tubature squadrate di plastica. Due scrivanie opposte, posizionate in modo da darsi le spalle, circondate da pareti da postazione azzurre. Un’altra barricata dello stesso materiale separava il bancone principale – poco più che una mensola larga con una saracinesca al di sopra – dall’area della reception. Maggie aveva aperto uno degli armadietti quadrati, in modo da mettere in carica la sua ricetrasmittente. Era una donna alta, con addosso un paio di pantaloni neri, scarpe lucide e un maglioncino di seta rosa. I capelli grigi erano raccolti in una coda sulla nuca. Aveva lineamenti affilati, da uccello. Si girò verso la barricata intorno alla scrivania principale, coperta di poster e avvisi. «Dove era finito?» «Stavo salvando la società dall’ondata di crimine scatenata da una donna con la fissazione di rubare nei negozi». Aprì lo schedario nell’angolo e ne controllò l’interno. «Ci sono messaggi?» «Ha chiamato l’orribile ispettore capo Steel. E poi hanno chiamato anche da Nelson Street: dicono che non potrà riavere la Macchina Grande fino a domani…». «Non prendermi in giro. Sono stanco di non avere un’auto con una radio degna di questo nome al suo interno». «Be’, dovrà cantare da solo, allora, ecco. Devono montare un sistema di telecamere di sicurezza nuovo». «Ancora?» «Lo dica al sergente Muir, non sono io quella che ha lasciato Sammy “Puzzola” Wilson sul sedile posteriore senza guardarlo a vista. Oh, e Louise del Sunny Glen ha chiamato un’ora fa». Logan si bloccò, con una mano sulla spessa cartellina di cartoncino giallo con la scritta “divisione b – valutazione staff”. Si schiarì la voce. «Qualcosa non va?» «Oh, no, niente di brutto. Voleva solo parlare con lei sul cambiare medicinali alla sua fidanzata, tutto qui». Maggie recuperò un paio di post-it gialli dalla scrivania e glieli tese. «Ecco qui».
Dunque non era un’emergenza. Non era accaduto nulla di male. Il respiro gli svuotò i polmoni, lasciandosi dietro un sapore metallico. Come se avesse succhiato un filo di rame. «Grazie, Maggie». Prese i post-it che lei gli stava porgendo. «Per caso riusciresti a ordinare qualche altra penna? Hector ha rubato di nuovo tutte le mie». «Hmmph». Una piccola selezione dei quotidiani del giorno era appoggiata sulla partizione della sua postazione. Il «Press and Journal» esordiva con “tempeste sulla costa nord-orientale” a grandi lettere in prima pagina, e una foto di cavalloni che si abbattevano contro i frangiflutti del porto di Peterhead. L’«Aberdeen Examiner» apriva con “si apre il processo dello squartatore di woodland”, sopra a una foto di Graham Stirling che sorrideva con un party non meglio identificato sullo sfondo. E il «Daily Mail» aveva optato per “ancora a piede libero gli assassini della fermata dell’autobus”, con una foto di una fermata e delle figure mosse dietro a una striscia di nastro bianco e blu della polizia. “la polizia di liverpool inizia la caccia all’uomo in tutta la nazione, alla ricerca degli assassini”. Maggie prese l’«Aberdeen Examiner» e se lo mise sotto un braccio. «Bene. Sarà meglio che vada. La cena di Bill non si cucinerà da sola». Recuperò una giacca multicolore e la borsa. «Non si dimentichi di mettere una buona parola per il mio aumento del cinque per cento». Uscì dalla porta sul retro, canticchiando tra sé e sé quella che sembrava Onward, Christian Soldiers. Ce n’era, di gente strana, al mondo. E… cinque per cento? Da che pianeta veniva quella donna? Sarebbe stata fortunata se fosse riuscita a ottenere tre sterline e una confezione di graffette. Logan prese la cartella delle valutazioni, richiuse il cassetto dello schedario e controllò i post-it. Sbuffò, vedendo quello della Steel. «chiamare ispettore capo steel a proposito di graham stirling – urgente». Fantastico. Logan tirò fuori il cellulare e cercò il suo nome dalla rubrica. Chiamò, e restò ad ascoltare gli squilli a vuoto. La voce rauca della Steel gli gracchiò nell’orecchio. «Era ora. Sei pronto a testimoniare, domani? Perché se così non fosse, io ti…». «Sì, sono prontissimo. Va tutto bene». Si appoggiò con le reni contro la fotocopiatrice. «Meglio così. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è che Graham Stirling torni a piede libero. Hai visto come lo chiama ora la stampa? Lo…». «Lo Squartatore di Woodland. Sì, lo so. Va tutto bene. Non c’è nessun problema. Graham Stirling non andrà da nessuna parte, soltanto dietro le sbarre per i prossimi sedici anni». «Bene». Si udì un risucchio, poi la voce dell’ispettore capo tornò. «Susan mi chiede di dirti se ti ricordi che Jasmine ha un saggio di danza sabato prossimo. Perché devi andarci, che tu lo voglia o no». «Sabato?». «C’è forse l’eco, lì da te? Sì, sabato. Ha fatto piroette sulle punte per settimane, facendo impazzire me e sua madre. Non vedo perché dovremmo essere le uniche a soffrire». «A che ora?» «Alle dodici e mezzo. Ti ho tenuto da parte un paio di biglietti. Mi devi dodici sterline. E prima che tu me lo chieda: no, non puoi portare tua madre». Come se ne avesse voglia, poi. Logan afflosciò le spalle. «Non ce la faccio, per le dodici e mezzo. Il sabato ho il turno di giorno, non stacco fino alle tre». Spinse la porta e uscì sulle scale, facendo riecheggiare i passi sul pavimento. «Di’ a Jasmine che mi dispiace». «Oh, no, non andrà così. Non farò il lavoro sporco al tuo posto. Tu chiamerai tua figlia e le dirai perché il suo papà non può andare più a vederla da nessuna parte».
Lui chiuse gli occhi e sbatté la testa contro la parete. «Ne abbiamo già parlato». «Lungi da me fare…». «È stata lei a farmi trasferire qui! La colpa è sua». Salì fino al primo piano. «Cosa dovrei fare, sparire nel mezzo di un turno? Questo non è il cid, okay? Le divisioni di polizia non funzionano così». Svoltò a sinistra, in cima alle scale, e si fermò fuori dalla porta blu: “ispettore di banff e buchan”. Una placca d’ottone era stata sistemata sopra alla qualifica: “wendy mcgregor”. «Boo-hoo, povero piccolo Logan». Si sentì di nuovo il risucchio. «Sei fortunato che non sono…». Lui chiuse la telefonata. Spense il cellulare e lo spinse con rabbia in tasca. E se ne rimase lì per un po’, a digrignare i denti. Come se non avesse già abbastanza di cui preoccuparsi. Un respiro profondo. Conta fino a dieci. Su le spalle. Poi allungò una mano e bussò alla porta dell’ufficio dell’ispettore. «Prego». Entrò nella stanza. Aveva più o meno le dimensioni di quella che lui condivideva con gli altri al piano di sotto, ma con la moquette blu nuova e sedie che non davano l’impressione di potersi autodistruggere al solo pensiero di usarle. Un tavolino rotondo e una scrivania lucida. Due lavagne magnetiche sulle due pareti opposte, quasi completamente coperte di cartine e mappe. E una vista spettacolare dalla finestra all’angolo, sul porto di Banff e la sua baia. L’ispettore era dietro la scrivania, con una T-shirt nera e due mostrine scintillanti su ciascuna spallina. I capelli tirati indietro a incorniciare un viso a cuore, grigi sulle tempie. Si tolse gli occhiali e accennò a una delle sedie per gli ospiti. «È venuto davvero? Sicuro di sentirsi bene? Non è riuscito a trovare una scusa per disimpegnarsi?». Logan sentì il calore dell’imbarazzo risalirgli tra le scapole e bruciargli le orecchie. «Priorità operative…». «Si sieda, si sieda». La donna prese un taccuino e una penna d’argento. «Allora, quattro mesi di nuovo in uniforme». Lui si lasciò cadere sulla sedia e posò sulla scrivania la cartellina che portava con sé. «Come è andata al Broch Braw Buys?» «Di sicuro si tratta dei nostri soliti amici predatori di casse. Dentro e fuori in meno di due minuti. Se si trova a passare da Fraserburgh, stasera, mi faccia un favore e vada a dare un’occhiata. È ora che prendiamo quegli idioti». «Posso andarci anche adesso, se vuole». «No, non voglio. Voglio le valutazioni». Almeno ci aveva provato. Picchiettò la cartellina con le dita. «Sono tutte aggiornate. Un paio di apprendisti dovrebbero a mio parere essere supervisionati un po’ di più, e Greeny, di Peterhead, ha bisogno di qualche calcio nel sedere, ma per il resto, se la stanno cavando tutti bene». «E lei?» «Io vorrei far cominciare all’agente Scott il corso per il diploma. Sarebbe anche ora che diventasse sergente». Lei gli sorrise. «No, intendevo dire: che mi dice della sua condotta?». Ah. Si piegò in avanti, intrecciando le dita in grembo. «Io sto bene». L’ispettore McGregor prese un foglio dal contenitore della posta in arrivo, inforcò di nuovo gli occhiali e lo osservò. «“Come sergente, Logan McRae continua a integrarsi bene con le varie sezioni della Divisione b. Gestisce due squadre di agenti, oltre alla sua di quattro persone, e offre un appropriato supporto ai sergenti delle stazioni di polizia di Fraserburgh e Peterhead. Il sergente
McRae assiste in servizio attivo l’area della polizia locale, e affronta regolarmente con i compagni di servizio le sfide locali. Ha eccellenti qualità interpersonali e risponde bene alla direzione”». Logan non si mosse. «Direzione?». La donna si strinse nelle spalle. «Be’, dovevo metterci qualcosa». Diede una scrollata al foglio e continuò a leggere: «Da quando è arrivato a Banff, la percentuale di casi risolti nella Divisione b è notevolmente aumentata, con un particolare successo per quanto riguarda i problemi associati all’uso di stupefacenti, come effrazioni, comportamenti antisociali e spaccio». Mise giù il modulo, a quel punto. «Pensa che dovrei aggiungere altro?» «Maggie vorrebbe un aumento. Del cinque per cento». «Del cinque per cento?». L’ispettore McGregor arricciò il labbro superiore. «Per caso si è messa a fumare la cannabis che abbiamo sequestrato la settimana scorsa?» «Riesce a immaginare cosa succederebbe se levasse le tende? Chi altro potrebbe riempire i suoi moduli, aggiornare lo storm e controllare la produzione e l’ufficio? E ordinare le penne quando Hector le ruba tutte? E inoltre, lei è l’unica che sa come far funzionare le telecamere a circuito chiuso della stazione». L’ispettore si sfilò gli occhiali e alitò sulle lenti, pulendole poi con il bordo della T-shirt nera. «Logan, il resto dello staff di supporto sarà fortunato se otterrà l’un per cento, altro che cinque». Lui sollevò le mani. «Le avevo promesso di provarci. Lei…». La ricetrasmittente dell’ispettore pigolò. «Bravo India, possiamo parlare?». Lei sospirò. Si afflosciò appena. Poi premette il pulsante. «Prego, parlate pure». «La squadra seb alla fine è arrivata da Aberdeen. Parlano tutti di straordinari per occuparsi della rapina al Broch Braw Buys. Dicono che ci metteranno almeno sei ore. Per lei va bene?». L’ispettore McGregor fissò il soffitto per un attimo. «D’accordo. Ma digli che hanno quattro ore, non sei. Non esiste che perdano tempo approfittando del mio budget». «Certo». Lei lanciò la ricetrasmittente in un cassetto della scrivania e lo chiuse. «Un piccolo consiglio riguardo alla carriera, Logan: mai, mai offrirsi volontari per fare l’ispettore». Ci fu una breve pausa, mentre la donna digitava qualcosa sulla tastiera del suo computer. Poi tornò ad appoggiarsi allo schienale della sedia. «Bene: cosa mi dice delle sue azioni per lo sviluppo nei prossimi quattro mesi?» «Mi vorrei concentrare sulla lotta alla droga. Vorrei Frankie Ferris dietro le sbarre prima della fine dell’estate». Un’espressione quasi dolente solcò il viso dell’ispettore. «Frankie Ferris. Di nuovo». Logan si strinse nelle spalle. «È stato già beccato due volte per spaccio. Ancora una, e vincerà un orsacchiotto gigante e una vacanza di sette anni. Cosa c’è che non va?» «Lei ha un’ossessione per quell’uomo». La donna scosse la testa, prendendo appunti sul taccuino. «Non ci sarebbe qualcosa di un po’ meno spigoloso, tra le sue idee? Magari un miglioramento nell’affiatamento con la comunità? Per esempio…». Sporse la punta della lingua dall’angolo delle labbra e lesse a voce alta quello che aveva scritto: «“Miro a costruire legami più forti con i cittadini di Banff, Macduff e Portsoy. Ritengo che fare leva sulle opportunità di collaborazione con la comunità valorizzerà le possibilità del corpo di polizia attraverso lo sfruttamento di informazioni”». Logan la fissò. «Fare leva sul valore delle possibilità?» «Non diventerà mai qualcosa di più di un sergente, se non impara il linguaggio del management. Quando si diventa ispettori, è come svegliarsi in una nazione straniera dove tutti hanno la sindrome di Tourette e non fanno che ripetere frasi fatte. All’ultima riunione di divisione dove sono stata, uno se ne è uscito con: “Come possiamo incentivare i nostri azionisti ad accettare il pensiero a trecentosessanta gradi il centouno per cento del tempo?”. Giuro su Dio, e senza neanche l’ombra di un sorriso».
Logan si premette la radice del naso tra pollice e indice. Sembrava che qualcuno gli avesse piazzato un ratto dietro agli occhi. Un ratto furioso, che mordeva e graffiava. La Nicholson gli batté una pacca sul braccio. «Coraggio, sergente, ancora sette ore». L’appartamento di Kirstin Rattray era in cima a un grigio palazzone popolare su Saint Catherine Street. Si trovava all’inizio di una fila di edifici senz’anima che torreggiavano sulle più piccole e tradizionali case scozzesi dall’altra parte della strada. Minacciosi come bulli pronti a picchiare i compagni indifesi, rubando loro i soldi del pranzo. L’appartamento, più che ammobiliato, era… schifoso. La carta da parati si staccava a pezzi dalle pareti della cucina. Nel bagno le piastrelle erano rotte e sembravano non vedere da anni una goccia di ammoniaca. Un odore di muffa, sudore e sporco aleggiava nella camera da letto. La vista fuori dal soggiorno era magnifica, giù lungo la collina e sopra i tetti circostanti, fino al mare. Ma quella all’interno era qualcosa di molto diverso. Kirstin si lasciò scivolare su un divano di velluto marrone che aveva visto tempi migliori. Un finto quadro a olio, di quelli che si potevano stampare e comprare partendo da una foto da Tesco o da Argos, era appeso sopra al caminetto, in una pacchiana cornice dorata. Una bimbetta di due o tre anni, con i capelli color topo, mostrava il suo sorriso parzialmente sdentato dal centro della cornice. Un nasino a patata e un paio d’occhi scintillanti. Un orsacchiotto di pezza e due dinosauri erano sistemati sotto alla fotografia, sulla cappa del caminetto. Come un altare. Era l’unico angolo pulito di tutto l’appartamento. La Nicholson tirò fuori un computer portatile da dietro la libreria. «Nient’altro?». La donna si strinse nelle spalle ossute. Il mucchio di refurtiva sul tavolino era cresciuto notevolmente. Cellulari, lettori mp3, qualche gioiello, duecento sterline in contanti, e trucchi e profumi assortiti. Logan raccolse uno smartphone piuttosto nuovo, rigirandolo tra le dita inguantate di nitrile azzurro. «Parecchia di questa roba non sembra rubata nei negozi, Kirstin. Sembra frutto di furti con scasso. Quand’è che ti sei data alle effrazioni?». Lei mantenne gli occhi sulla macchia marrone scuro sul cuscino del divano accanto a sé. «Gliel’ho già detto: non ho rubato niente. Sono cose che ho trovato». «Scommetto che possiamo collegare la maggior parte di questi oggetti a denunce di furti». «Non sono miei!». La Nicholson posò il portatile e tirò fuori dal divano il cuscino macchiato. C’era una scatola di latta nascosta tra le molle arrugginite e il logoro tessuto di supporto. La foto sul coperchio era di biscotti Jammie Dodgers, in particolare delle strane ciambelline rosa. «Bene, bene, bene…». Sul divano, Kirstin lanciò uno sguardo alla scatola e poi lo distolse. Si agitò appena. «Quella non ha niente a che fare con me…». La Nicholson prese la scatola e la aprì. Per un attimo ne fissò il contenuto. «Sergente?». Poi la tese a Logan. All’interno c’era un mucchietto di pacchetti di alluminio, insieme a una bustina di plastica piena di polvere bianca; un pezzetto di hashish marrone grande quanto l’unghia di un pollice, avvolto in pellicola trasparente; e un pacchetto di cartine Rizla. Kirstin si piegò in avanti fino ad appoggiare il petto contro le ginocchia, coprendosi la testa con le braccia. «Quella roba non è mia…». Logan posò di nuovo il cellulare nel mucchio di oggetti “trovati” e osservò meglio l’interno della scatola. Era sicuramente abbastanza per accusarla di possesso di droga. E forse perfino ai fini di spaccio. «Dunque, Kirstin. Sembra che tu sia un tantino nei guai». «Non è mia», ripeté lei, con la voce soffocata dalle ginocchia. «D’accordo. L’hai trovata, scommetto». Restituì la scatola alla Nicholson. Lei la richiuse. «Quanto pensa che potrebbero darle, sergente? Quattro anni? Cinque, forse?».
Logan arricciò le labbra e risucchiò una boccata d’aria tra i denti, con una smorfia. «Dipende dallo sceriffo. Harding, al momento, ha la mano pesante quando si tratta di droga; potrebbe perfino arrivare a sette anni, se si dovesse convincere che siamo davanti a un caso di spaccio». «Capisco…». La Nicholson si accigliò, perdendo lo sguardo nel vuoto. Si massaggiò il mento. Infine schioccò le dita. «Ci sono! E se Kirstin, qui, provasse a fare un accordo con noi? Insomma, se decidesse di darci una mano?». Lui incrociò le braccia sul petto. «Be’, non saprei. Diciamo che al momento mi servirebbe una mano piuttosto grande, ecco». Kirstin mugolò. Si raddrizzò e si abbandonò contro lo schienale del divano, per poi coprirsi il viso con le mani. «Non avete sentito da me quello che sto per dirvi, okay?». Silenzio. «Non abbiamo sentito cosa, Kirstin?» «Klingon e Gerbillo hanno ricevuto un carico dal sud, oggi». La Nicholson fece scivolare la scatola di latta in una grossa busta per le prove. «Cocaina? Eroina? Hashish? Crack? Barbiturici? Caramelle? Cosa?». Un’alzata di spalle. Logan aggrottò la fronte. All’esterno, si udì il rumore di un’auto che passava. «Questa consegna è stata fatta per caso da un tipo con una brutta faccia in una Fiesta blu nuova, con l’accento di Birmingham?». Poi si passò un dito lungo la mascella. «Con parecchi foruncoli qui? Si fa chiamare Martyn con la y, oppure Paul, o Dave». «Non lo so. Non l’ho mai incontrato. Ma Gerbillo è tutto contento perché pensa che ora sta lavorando in un giro grosso. Non ha fatto che vantarsi, ieri sera, da queste parti». Kirstin lasciò ricadere le mani, scoprendo il viso. Alzò lo sguardo sul finto ritratto della bambina. «Non potete dirgli che ve l’ho detto. Mi ucciderà». «Kevin “Gerbillo” McEwan? Avresti più possibilità di essere uccisa da una pecora». Logan alzò il pollice verso il soffitto. «In piedi». «Me lo dovete promettere! La mia Amy non deve crescere orfana». La Nicholson aveva preso il suo taccuino. «Dove tengono la roba?». Kirstin alzò lo sguardo su Logan. «Posso vedere Amy solo nei weekend, la vado a trovare con la supervisione dei servizi sociali. Sto cercando di cambiare, davvero, ci sto provando». Si grattò l’incavo del braccio, staccando dalla pelle le croste lasciate dai segni dell’ago. «Per favore…». «Non finché non ci dici dove si trova la roba». «A casa di Klingon. Sua madre è in Australia per un mese». «D’accordo». Logan staccò la ricetrasmittente dalla giacca e puntò verso la porta. Indicò il mucchio di oggetti sul tavolino. «Nicholson, assicurati che quella roba sia impacchettata e catalogata. Ti aspetto fuori». Premette il codice dell’ispettore McGregor mentre scendeva le scale. «Bravo India da Pattuglia Sette, possiamo parlare?» «Logan, sta andando a Fraserburgh, per caso? Perché il caso della cassa rubata è un casino totale. Come è possibile che non abbiamo un supervisore della scena del crimine esperto in servizio?» «Io sto per fare un raid in una casa di Banff». «Cosa? Adesso?». «Appena ci arriverò». Spinse il battente del portone e uscì nel sole del pomeriggio. «Ho appena scoperto che Kevin McEwan e Colin Spinney hanno preso possesso di un carico di stupefacenti proveniente dal sud, e l’hanno nascosto in casa di Spinney. Se ci muoviamo in fretta, potremmo beccarli prima che venga diviso e sparisca nel nulla». «Klingon e Gerbillo stanno facendo carriera, quindi?» «A quanto pare, ci stanno provando». Silenzio.
Un gabbiano si librò sopra di lui, le ali di un bianco perfetto contro l’azzurro terso del cielo. «Capo?» «Ci servono delle prove». «Ho un faldone pieno di denunce di gente che si lamenta perché quei due spacciano da casa di Gerbillo». «Un momento…». Logan sentì una conversazione soffocata in sottofondo. Poi di nuovo silenzio. Logan si appoggiò con la schiena alla parete dell’edificio, con un piede premuto contro la facciata di un grigio sporco. Un secondo gabbiano si unì al primo, volando in lenti e ampi cerchi e planando verso il mare aperto. «È ancora lì? Mi mandi per email l’indirizzo e le farò avere il mandato. Il preavviso è troppo breve per far arrivare l’Unità di Supporto Operativo, ma può avere un furgone e due agenti in più da Inverurie». «Mi serve che siano esperti nella ricerca di droga. E ho bisogno di un’unità cinofila». «Mi sta chiedendo parecchio, lo sa, vero?» «È la nostra migliore opportunità per trovare il carico di Klingon e Gerbillo». Un sospiro. «Vedrò cosa posso fare. Ci vorranno un paio d’ore per organizzare tutto, però. Resti nei paraggi: andremo alle nove di stasera». «Grazie, capo». «Si assicuri, però, che ci sia qualcosa da trovare». Il telefono sulla scrivania continuava a squillare. Logan prese il post-it, si tappò un orecchio con un dito premendo il cellulare contro l’altro e uscì dall’ufficio principale per raggiungere il corridoio. «Scusami, stavi dicendo?». La voce di Louise si fece sentire tra le interferenze della linea. «Non sto dicendo che sarà per forza un problema, ma dobbiamo considerarlo. La salute di Samantha deve essere la tua priorità». Superò la mensa e il bagno degli uomini, entrando nell’ufficio degli agenti. All’interno, altri telefoni stavano squillando, mentre la Nicholson afferrava un taccuino e cominciava a prendere appunti. «Uh-uh, sì, signore. Lo farò, signore». Si era tolta il giubbotto antiproiettile, esponendo i cerchi di fango sotto le maniche della T-shirt nera. Come macchie di sudore sporco. Logan le posò davanti il post-it, al centro della scrivania. Lei annuì. «Quest’infezione alle vie respiratorie si trascina da due settimane, ormai, e vorrei davvero vedere se riusciamo a sconfiggerla una volta per tutte». «E non ci sono rischi?» «C’è sempre un minimo di rischio, quando si cambia la terapia a un paziente. Ma un’infezione alle vie respiratorie è una cosa seria per una persona rimasta in coma per tanto tempo, come Samantha». La Nicholson doveva aver concluso la sua telefonata, perché recuperò il post-it e strinse gli occhi per leggerlo, per poi sventolarlo verso Logan. «Cosa dice?» «Okay, e allora cambiamo la terapia». Posò una mano sul ricevitore. «Dice: “Abbiamo un’unità cinofila che verrà da Aberdeen”». «Ah, sì?». Lei strinse gli occhi ancora di più. «Ha mai pensato di diventare un medico?» «Passerai, domani?» «Non posso, sarò in tribunale tutto il giorno. Ma verrò mercoledì: va bene intorno alle dieci?». La Nicholson prese un pennarello e puntò alla lavagna magnetica appesa sopra al termosifone. Poi scrisse “unità cinofila” nella colonna con il titolo “vantaggi”. «Perfetto. E dobbiamo cercare di farti diventare quanto prima il tutore legale di Samantha».
«Io odio…». «Lo so. Ma se vuoi prendere delle decisioni riguardo agli interventi medici, abbiamo bisogno di qualcosa di un po’ più formale e legale del fatto che sei il suo fidanzato, capisci? È importante, Logan». Un peso insostenibile sembrò premergli sulle spalle, facendole afflosciare. «Okay. Ne parleremo mercoledì». «Fidati di me: è la cosa giusta da fare. Vedrai». E poi chiuse la telefonata. Logan ripose il cellulare in tasca e si voltò a guardare la lavagna magnetica. Inverurie aveva ritirato l’offerta dei due agenti in più, a quanto pareva per una violenta rissa fuori da Specsavers. Ma l’ispettore era riuscito a tirare fuori un agente esperto in operazioni antidroga da Mintlaw, e un altro da Fraserburgh. I due si aggiungevano alla Nicholson, a Deano, Ciuffo e Logan: sei agenti, un membro dell’unità cinofila, un grosso pastore tedesco e un labrador dall’olfatto imbattibile quando si trattava di trovare sostanze stupefacenti. Sarebbe potuta andare peggio. Almeno, avevano soltanto un indirizzo da controllare. Non era una di quelle follie con due possibili obiettivi in contemporanea. Il telefono dell’ufficio squillò. La Nicholson sollevò il ricevitore. «Stazione di polizia di Banff, come posso aiutarla?». Con un po’ di fortuna, poteva essere la chiamata che confermava l’arrivo del loro mandato. La madre di Colin “Klingon” Spinney avrebbe avuto un bello shock, al ritorno dall’Australia. La ricetrasmittente di Logan suonò. «Sergente?». Era Deano. «Puoi parlare. Dove sei? Prendi Ciuffo e tornate subito qui, abbiamo un’operazione da pianificare. Un carico di droga…». «Oh, no». Un respiro profondo. «Sergente, ho bisogno di lei qui alla Tarlair Swimming Pool. Subito». «Non dire sciocchezze, è…». «Sergente, c’è un cadavere. Di una bambina». Dio santo… Un pedofilo scomparso e una bambina morta, nello stesso giorno. Afferrò il berretto dell’uniforme. «Arriviamo».
Capitolo 7
«…che intende con “il raid antidroga deve attendere”?». Logan afferrò la maniglia sopra lo sportello del passeggero mentre la Nicholson procedeva a tutta velocità lungo Low Shore, oltre le squadrate casette con terrazzo di Newton Drive, a sirene spiegate e lampeggianti accesi. L’ispettore McGregor aveva la voce di chi stesse masticando una vespa. «Ha idea di quanti fili ho dovuto tirare per farle avere gli agenti di supporto, il furgone e i cani? E non parliamo del mandato, è…». «Ci hanno appena segnalato il ritrovamento del cadavere di una bambina alla Tarlair Swimming Pool». Le case, con i loro tetti di tegole rosse, svanirono nello specchietto retrovisore. Ora non c’era nulla a tenere compagnia all’auto, tranne la recinzione di rete metallica tra questa e le colline a sinistra della strada. Un sospiro che sembrava un sibilo. «E non poteva dirmelo subito?» «Mi scusi, capo. Gli agenti Scott e Quirrel stanno mettendo in sicurezza la scena del crimine. Abbiamo un orario previsto di arrivo?», domandò poi, guardando la Nicholson e sollevando entrambe le sopracciglia. Lei scalò la marcia e svoltò con decisione. «Se vado più veloce che posso…». L’ago del tachimetro toccò i 140 chilometri orari. «Diciamo due minuti». L’impianto di depurazione si fece vedere brevemente a sinistra, e la Nicholson schiacciò il piede sul pedale del freno, facendo derapare la macchina e affrontando uno stretto tornante, con un grande stridore di gomme. La Tarlair Outdoor Swimming Pool comparve in lontananza. Un gruppo di squadrati edifici art deco, non più grandi di prefabbricati, era circondato su tre lati da pendii rocciosi, mentre il quarto si apriva direttamente sul mare. Le pareti intonacate di bianco, e ormai tendenti al grigio per la mancanza di manutenzione, scintillavano sotto il sole del tramonto. Le due piscine esterne vuote e in rovina, davanti a loro. «È già stata identificata?». Logan spense le sirene. «Non ancora. Non abbiamo alcuno staff di supporto a Banff dopo le cinque. Può per caso trovarci qualcuno?». La strada proseguiva in una ripida discesa dopo l’ennesimo tornante; cespugli di ginestra si ammucchiavano a destra, come un muro di fuoco, mentre a sinistra si vedeva chiaramente la baia. Scogli scuri creavano l’illusione di sottomarini spezzati e relitti di navi nell’acqua scintillante. La schiuma bianca ne segnava i confini, mentre le onde tentavano di coprirli, raggiungendo la spiaggia sassosa e grigia. «Avete idea se sia un incidente o…?» «Lo spero. Abbiamo un pedofilo scomparso, nel nostro elenco: Neil Wood. È sparito tre giorni fa. Suo padre ha denunciato la scomparsa soltanto oggi». «Ci mancava solo questa…». La voce dell’ispettore si fece lontana e soffocata, come se tenesse una mano davanti al microfono, bloccando in parte gli ordini che stava gridando a qualcuno in sottofondo; stava dicendo di chiamare d’urgenza gli esperti al momento sulla scena del furto di cassa a Fraserburgh.
L’asfalto liscio cedette il posto a un tratto pieno di buche. L’erba, alta fino alle ginocchia, fiancheggiava la strada, punteggiata di tanto in tanto dai fiori rosa dell’epilobio. L’autopattuglia sobbalzò sulle sospensioni, affrontando l’asfalto malandato, poi prese a dondolare piano quando la Nicholson rallentò. Il rumore del paraurti che strisciava contro la superficie irregolare. La strada finì in un vicolo cieco, proprio davanti all’entrata della piscina. C’era un solo ingresso, che fungeva anche da uscita. Be’, sempre che non si volesse passare da un sentiero tra gli scogli, partendo dal campo da golf. La voce dell’ispettore McGregor si fece di nuovo sentire a pieno volume. «Logan, devo sapere al più presto se si tratta di una morte sospetta. Devo chiamare il Team Investigativo Primario oppure no? E poi bisogna cordonare la scena. Arrivo subito, mi serve solo il tempo per trovare qualcuno che gestisca le questioni amministrative al suo posto». Logan rimise a posto la ricetrasmittente. Il piccolo furgone della polizia di Deano e Ciuffo era parcheggiato in mezzo alla strada, tra due rocce irregolari, e bloccava l’ingresso. Avrebbe avuto bisogno di una lavata, tanto era diventata grigia la vernice bianca della scocca, ma la striscia di quadrati blu e gialli sulla fiancata scintillava alla luce dei lampeggianti dell’autopattuglia. Non c’era traccia di nessuno dei due. La Nicholson premette il pulsante per spegnere anche i lampeggianti. Silenzio. Logan prese il berretto. «Prendi il nastro e chiudi la strada. Non voglio nessuno nelle vicinanze». Si voltò sul sedile, poi indicò la cima della collina, dove si trovava il primo tornante. «Sarà meglio farlo dall’altra parte del depuratore. Non vorrei che qualche idiota con un teleobiettivo scatti qualche foto da consegnare ai rotocalchi». «Sergente». Non appena richiuse lo sportello del passeggero, la vide tornare indietro in retromarcia in mezzo alle buche. Poi fece una rapida inversione in tre tempi e accelerò, allontanandosi. Logan si voltò. Aggirò il furgone e chiamò Deano sulla ricetrasmittente. Ma prima di poter premere il pulsante per avviare la comunicazione, Ciuffo comparve, camminando lungo la spiaggia sassosa, le braccia spalancate come se stesse facendo il funambolo. Si fermò. Arretrò di un paio di passi. Poi gli rivolse un ampio cenno. «Sergente? Da questa parte». Logan lo seguì attraversando la spiaggia sassosa, evitando la strada. Radici strappate di alghe si aggrappavano alla linea dell’alta marea, pallide e sbiancate come mille tibie umane. Tutto sapeva di ozono e di sale, con un vago odore di pesce marcio in sottofondo. Ciuffo si guardò alle spalle. «Un tizio era da queste parti per scattare foto per un progetto sul decadimento urbano. Un ragazzo che sta seguendo un corso universitario di fotografia all’Aberdeen College. Insomma, si è spaventato. Poi ha pedalato fino a Macduff sulla sua bici, ci ha visti lì al porto e fine della storia». Logan annuì, mentre i ciottoli gli scricchiolavano e scivolavano sotto i piedi. «Gli avete confiscato la macchina fotografica?» «Deano ha preso la scheda di memoria». Ciuffo accennò a destra, verso un malandato terrapieno di cemento. «Da questa parte». «Perché lo studente non ha chiamato il numero di emergenza? Pensavo che ormai un cellulare ce l’avessero davvero tutti». Ciuffo accennò un sorrisetto e si strinse nelle spalle. «Si è fatto prendere dal panico. Ha detto che non riusciva a ricordare il numero. Bisogna arrampicarsi un po’, mi dispiace…». Salì sul terrapieno, raggiungendo un tratto erboso. Poi superò un gruppo di rocce coperte di licheni. «Sei sicuro di sapere dove stai andando?» «Deano ha detto che nessuno sarebbe mai riuscito a passare da qui trasportando un cadavere. Quindi, ecco… sto seguendo l’avvicinamento più sicuro per non inquinare la scena del crimine».
Dopo un’altra arrampicata, si ritrovarono su una sporgenza sopra le piscine. Ciuffo fece un cenno. «Laggiù». Il luogo era diviso a metà. Davanti agli edifici principali c’era una serie di ampi gradini da anfiteatro di cemento grigio scuro e macchiato, con i bordi coperti di vecchio intonaco ormai danneggiato. Si chiudevano intorno a una piscina bassa, a forma di d, secca come un torrente in estate, e con la parete che la separava dallo spazio principale danneggiata e in parte crollata. Dall’altro lato, l’acqua arrivava a metà del muro. Una spiaggetta sassosa si intravedeva da un lato, chiaramente artificiale e sparsa di frammenti di tubature e altri scarti arrugginiti. Poi il frangiflutti e subito dopo la vasta distesa blu del Mare del Nord. Una figura scura era china all’estremità più lontana della piscina, con una striscia di nastro giallo e nero che gli pendeva da una mano: “scena del crimine – vietato l’accesso”. Deano. Alzò entrambe le braccia per salutarli. «Sergente!». Ci volle un attimo in più per riconoscere il cadavere. Grigio contro uno sfondo altrettanto grigio. Non era un errore, dunque. Pochi centimetri sotto alla sporgenza su cui si trovavano c’era il tetto piatto e fatiscente di quella che sembrava una vecchia stazione di pompaggio. Logan non avrebbe rischiato per nulla al mondo di scendere su quel tetto. «Come si va avanti su questo avvicinamento sicuro?» Ciuffo indicò. «Da quello che possiamo presumere, deve averla portata in linea retta dall’entrata, laggiù, lungo il bordo, per poi usare la passerella tra le due zone e gettarla nella piscina». Il giovane agente afflosciò le spalle. «Avrei voluto fare qualche ricerca, ma Deano non me l’ha permesso. Ha detto che dovevo restare quassù». La giusta procedura. Incredibile ma vero. Logan scese con attenzione lungo la parete rocciosa per raggiungere i gradini dell’anfiteatro. Non c’era modo di raggiungere Deano senza attraversare il percorso dell’assassino. Be’, sempre che non avesse deciso di passare sul frangiflutti, ma sembrava stretto e scivoloso di alghe verdastre. E, secondo il cartello all’entrata, c’erano due metri di vuoto da lì agli scogli al di sotto. Quindi no, decisamente no. Sempre che poi ci fosse stato davvero un assassino. Indicò Ciuffo. «Per come siamo combinati adesso, tu dovrai fare il gestore della scena del crimine. Dovrai registrare la data e l’ora e tutti i nominativi di chi si è avvicinato al cadavere. Controlla l’entrata e assicurati che nessuno la oltrepassi se non sono io a permetterlo. Nessuno. Non mi interessa se si tratta del Capo della Polizia in persona, se ne resterà pure lui nel parcheggio finché non sarò io a dire il contrario. Siamo intesi?» «Sì, signore». Bene. Si spostò a destra, scese nella piccola piscina vuota a forma di d e avanzò lungo i detriti e i rifiuti fino all’estremità opposta. Deano piantò un paletto di metallo in una fessura nel cemento pieno di crepe intorno a lui e fece passare il nastro nell’estremità ritorta. Poi passò a un altro paletto, lasciandosi dietro una striscia di nastro giallo e nero. Sospirò. «Povera piccina». Logan si fermò davanti al nastro e sbirciò oltre la passerella fatiscente. «È una morte sospetta?». Deano fece una smorfia. «E quando mai quella di un bambino non lo è?» «Già». Logan si avvicinò e passò sotto il nastro giallo e nero. La bambina non poteva avere più di cinque o sei anni. La stessa età di Jasmine. Lo stesso colore di capelli… Qualcosa gli si annodò al centro del petto, compresso dal pugno serrato del giubbotto antiproiettile fino a diventare un nucleo duro e tagliente. Ma non era lei.
Si lasciò sfuggire un sibilante sospiro. Deano posò il nastro a terra. «Tutto bene, sergente?». Lui sbatté le palpebre. Poi si schiarì la gola, disfando quel nodo insopportabile. «Sì. È solo che… somiglia a Jasmine». La bambina era distesa a faccia in giù, a circa un metro dalla lurida parete di cemento e dalla rampa che scendeva nella piscina. Era immersa per metà nell’acqua. La testa, le braccia e il torso galleggiavano tra i detriti, mentre la parte inferiore del corpo era abbandonata sulle rocce. Una gamba era allungata dietro di lei, con una scarpetta rossa che puntava verso l’edificio principale. Sembrava che la cinghia intorno alla caviglia si fosse incastrata in un pezzo di tubatura arrugginita, tenendola bloccata dov’era. L’altra gamba era distesa quasi ad angolo retto. Calzini bianchi e una gonna grigia, completamente coperta di un sottile strato di cristalli bianchi. Il maglioncino grigio era fradicio, strappato tra le spalle e ai gomiti, a mostrare la camicia bianca al di sotto. Un’uniforme scolastica. La pelle era bianca come la neve, coperta di piccoli graffi e minuscoli buchi triangolari. Le mani gonfie e pallide. Il collo piegato in un angolo innaturale. La guancia posava su una pietra sommersa. Gli occhi erano aperti, sotto la superficie torbida dell’acqua. La bocca spalancata. I capelli biondi le fluttuavano intorno al viso. Una grossa, evidente contusione sulla fronte. Deano legò il nastro sull’ultimo paletto di metallo. «È sicuro di stare bene?». Logan si strinse nelle spalle. «Sì. È stato solo un attimo di sorpresa, tutto qui». «Be’, se fosse stata mia figlia, avrei scuoiato vivo quel figlio di puttana…». Poi tirò su con il naso. «Ecco, se avessi dei figli». Logan scese lungo la rampa, con gli stivali che scivolavano sul cemento coperto di muschio, e si accosciò sul bordo della piscina. Si leccò la punta dell’indice e la picchiettò sulla scarpetta rossa. Poi portò il dito alla lingua. Sale. «Deano, quando arriva l’alta marea?» «Non ne ho idea. Ma possiamo sicuramente scoprirlo». «Di sicuro non un incidente?». L’ispettore McGregor stava praticamente urlando, per farsi sentire al di sopra delle sirene dell’autopattuglia in cui si trovava. «Ne è sicuro?» «Per quanto posso esserlo senza toccare la scena del crimine». Logan tornò verso la strada, togliendosi i guanti di nitrile azzurro e ficcandoli in una busta di plastica vuota. Le dita tremavano, lottando contro il sottile strato di gomma. «Sembra che qualcuno le abbia spaccato la testa, ma non c’è traccia di sangue sulla passerella né sul muro, né sui gradini. Quindi non è successo mentre cadeva nella piscina. L’ipotesi più probabile è che fosse già morta quando è finita in acqua. Probabilmente da un paio d’ore. A un certo punto deve essere stata completamente sommersa: la gonna, le gambe e le scarpe sono coperte di cristalli di sale». Si fermò, espirò con forza. «Doveva avere solo cinque o sei anni». L’ululato delle sirene risuonò dalla sua ricetrasmittente. «Capo?» «Sarò lì entro cinque minuti. Avete cordonato la scena del crimine? E avete già diramato una richiesta di ricerca a tutte le unità per Neil Wood?» «Deano l’ha inviata appena abbiamo scoperto che quell’uomo era scomparso. Non so se sia già stata diramata o meno». «Santo Dio, Logan, è…». «Ha detto che dovevo tornare da lei prima possibile». La busta di plastica gli finì in tasca. «Pensavo che questa fosse la priorità». Un sospiro, appena udibile nel rumore di sottofondo. «Immagino che lei abbia ragione».
Deano tornò indietro lungo la spiaggia di ciottoli, raggiungendo a sua volta la strada. Si fermò e scosse una gamba, come se fosse finito in una pozzanghera. Le onde sciabordavano contro la spiaggetta di sassi. «Capo, è ancora lì?» «Sì. D’accordo. Faccio arrivare il Team Investigativo Primario da Aberdeen appena possibile. Si assicuri che nessuno tocchi niente finché non sarò lì». «Ho già messo l’agente Quirrel a gestire la scena». «Ciuffo è il nostro gestore della scena del crimine?… Fantastico… Siamo rovinati». E questa volta chiuse davvero la comunicazione. Deano si avvicinò, con una scarpa che lasciava orme umide sull’asfalto sbiadito dal tempo, mentre Logan chiamava con la ricetrasmittente l’assistente per le questioni amministrative che l’ispettore McGregor aveva trovato per loro. La donna dall’altra parte della linea rispose quasi subito. «Sergente McRae?» «Ho bisogno che lei controlli tutte le persone scomparse di età inferiore agli undici anni». La bambina sembrava molto più piccola, ma non aveva senso correre rischi inutili. «Femmina. Bionda. Con l’uniforme della scuola addosso: grigia con calzini e camicia bianchi. Scarpe e cravatta rosse. Nessuno stemma scolastico sul maglione». «Dove cerco?». Deano gli si fermò di fronte e si indicò. Poi, in labiale, gli chiese: «C’è qualcosa che posso fare?» «Sarà meglio che cominci dal nord-est e si allarghi da lì. Estenda la ricerca a tutto il Regno Unito, se necessario». Staccò il dito dal pulsante di trasmissione. «Deano, con chiunque tu abbia parlato dell’Unità Controllo Pregiudicati, chiamali subito e assicurati che abbiano trasmesso la richiesta urgente di ricerca per Neil Wood. Voglio che lo trovino». «Sì, sergente». «…Okay, ho tre persone scomparse in quella fascia d’età nel nord-est…». In sottofondo si udì il rumore ritmico di dita che digitavano su una tastiera. «Due sono femmine… Una con i capelli rossi, l’altra castani. È certo che la sua non si sia tinta i capelli?». Logan tirò fuori il cellulare e riguardò le foto che aveva scattato. Il faccino pallido che fissava le rocce sommerse. Un respiro profondo. «Ne sono ragionevolmente certo. Il colore delle sopracciglia è simile a quello dei capelli, comunque». «Allora dovremo cercare ancora. Potrei metterci un po’. Quanto vuole che risalga indietro nel tempo? Un mese, due, tre?». «Facciamo due anni, è meglio. Solo perché è uscita fuori oggi, non vuol dire che non fosse scomparsa da molto tempo». Un sospiro. E poi: «Quell’idiota di Josef Fritzl ha parecchio di cui rispondere». «Mi mandi un’email se trova qualcosa». Logan chiuse la comunicazione e riagganciò la ricetrasmittente al suo posto. Deano era dall’altra parte del furgone della polizia, e camminava avanti e indietro, provocando una serie di risucchi umidi con la scarpa bagnata. «…oh, no, niente affatto. Vi ho detto che era scomparso. E vi ho detto anche di inviare subito una richiesta e… No, no, no, no, no: tesoro, questo è un tuo casino, non provare a dare la colpa a me». Perfetto. Come se la situazione non fosse già tragica. La scogliera era inondata di sangue e le ombre si allungavano, buie, mentre il sole si inabissava nel Mare del Nord. Dipingendo l’erba di tonalità ambrate e dorate. Scintillando sulla recinzione di rete.
La Nicholson si infilò le mani nelle aperture per le braccia del giubbotto antiproiettile, che ora era coperto da una giacca catarifrangente pulita. Sollevò le spalle e le tenne così, con il berretto dell’uniforme piantato in testa. «Inizio a risentire un po’ del freddo». Logan ondeggiò sulle caviglie. Spalle dritte. Mani intrecciate dietro la schiena. Mento alto. «Non è il momento di battere la fiacca». Un doppio cordone di nastro bianco e blu con la scritta “polizia” si estendeva tra l’estremità della recinzione di rete e il palo del telegrafo dall’altra parte della strada. Qualche auto malmessa era parcheggiata davanti al cordone, con i conducenti e i passeggeri seduti sui cofani, macchine fotografiche e microfoni pronti all’azione. In attesa. Il furgone di Sky tv bloccava parzialmente l’entrata dell’impianto di depurazione, mentre un giornalista in felpa con un’espressione seria in viso parlava davanti a una telecamera. La bbc stava facendo lo stesso un centinaio di metri più indietro. «Mi sento un’idiota», borbottò lei, ma raddrizzò comunque la schiena. «Bloccati qui come due polli mentre tutti gli altri fanno il lavoro dei veri poliziotti». «Come due pali, semmai, non come due polli». «So benissimo quello che ho detto». Lei si voltò verso l’autopattuglia. «Non abbiamo una di quelle belle giacche imbottite nel bagagliaio, vero?». Un sospiro. «Vai pure». Un’auto anonima si fermò dall’altra parte del nastro e l’ispettore del turno di notte ne scese. Sollevò le mani mentre uno sciame di obiettivi puntava nella sua direzione. Quando parlò, le parole gli uscirono dalla bocca come una fitta serie di vocali acute. «Non possiamo ancora offrire dichiarazioni ufficiali, in questo momento. Grazie». Voltò le spalle ai giornalisti, passò sotto al cordone e si avvicinò a Logan. Tenne la voce bassa, questa volta. «Dannati avvoltoi». Una zaffata di Vicks VapoRub e caramelle al mentolo. «Capo». L’ispettore Fettes spostò il berretto dell’uniforme sotto un braccio. Aveva mani enormi, del tutto sproporzionate rispetto al resto del corpo, e coperte di efelidi, come anche le guance e il naso, su fino alla fronte, dove si trovava un magnifico casco di capelli rossi. Accennò alla strada, dove serpeggiava giù per la collina. «L’ispettore McGregor è ancora laggiù?» «È venuto a sostituirla?» «Ho già abbastanza gatte da pelare nella mia divisione. Wendy può sicuramente reggere il fortino fino alla conclusione del suo turno. Volevo solo assicurarmi di parlare con lei prima che se ne torni a casa». Il cellulare di Logan gli vibrò nella tasca. «Mi scusi». Lo tirò fuori: un’email dall’agente di supporto a Elgin, con la lista di tutte le ragazzine di cui era stata denunciata la scomparsa nel Regno Unito negli ultimi due anni, selezionate in base al colore dei capelli. Nessuna delle foto si apriva sullo schermo del telefono. «Ovvio, dannazione». «C’è qualche problema?» «Una persona mi ha mandato le foto di tutte le bambine scomparse, ma non riesco ad aprirle». Colpì con il palmo della mano il lato del cellulare. Non ci furono miglioramenti. Ovviamente, le foto sarebbero servite a qualcosa solo se qualcuno aveva denunciato la scomparsa della piccola vittima… L’ispettore Fettes tirò su con il naso. Poi se lo asciugò con un fazzoletto. «Comunque, immagino che non sia più davvero un nostro problema, giusto?» «Come se ci potessero mai affidare un omicidio». Logan ripose in tasca l’inutile cellulare. «No: ovviamente il Team Investigativo Primario si è presentato qui un’ora fa, a sirene spiegate, e si è appropriato del caso. Grazie per l’aiuto, ma ora levatevi dai piedi e andate a controllare il cordone per il resto della notte».
«Stronzi». «Proprio quello che stavo pensando anch’io, capo». Fettes tornò a tirare su con il naso. «Parli del diavolo…». Una Vauxhall malandata risalì borbottando la collina dalla zona delle piscine, fermandosi con un cigolio accanto all’autopattuglia. E se ne restò lì, con il motore acceso. Probabilmente si aspettavano che Logan lasciasse il suo posto di osservazione per correre da loro a chiedere cosa desiderassero. Al diavolo. L’ispettore Fettes si calcò il berretto in testa. «Sarà meglio che mi renda utile in qualche modo», commentò, dirigendosi verso l’auto. Si appoggiò al tetto e parlò con qualcuno attraverso il finestrino aperto. Poi indicò Logan. E infine si raddrizzò e tornò giù verso la strada che conduceva alla Tarlair Outdoor Swimming Pool. La Nicholson ricomparve, con addosso un enorme giubbotto fluorescente con tanto di strisce catarifrangenti. Accennò alla Vauxhall in attesa. «È successo qualcosa?». Logan tornò a guardare avanti. «Ne dubito». Lei controllò l’orologio. «Presto saranno le dieci e avremo il cambio. E allora una bella tazza di tè e una pasta al cioccolato non me le toglierà nessuno». «Non penso proprio che riusciremo a staccare alle dieci, oggi». «Oh…». L’espressione di lei si tinse di delusione. «Magari alle undici?» «Se siamo fortunati». Lo sportello del passeggero della Vauxhall si aprì e una zazzera scomposta fece capolino all’esterno. Capelli che facevano pensare a una donnola infuriata passata in mezzo a un pagliaio. Rughe profonde intorno alla bocca. E una voce come carta vetrata su un tubo arrugginito. «Laz! Smettila di perdere tempo!». La Nicholson inarcò un sopracciglio. «Laz?» «Non fare domande». L’ispettore capo Steel uscì goffamente dalla macchina. Un po’ curva nel suo completo grigio spiegazzato. Cappotto nero e camicia di seta azzurra. Gli fece un cenno. «Porta qui le chiappe». Una pausa. «Sergente?». Un sospiro. «Okay. Tu resta qui. Nessuno…». «Sì, “nessuno deve passare”, lo so». Lui si girò e si avvicinò alla Vauxhall. «Era ora, dannazione». La Steel puntò alle proprie spalle con il pollice. «Muoviti, io e te ci dobbiamo fare una passeggiata».
Capitolo 8
Si fermarono in cima alla collina che si affacciava sulla baia e sulla piscina all’aperto abbandonata. La Steel avanzò nell’erba alta fino al ginocchio, per poi sedersi su una panchina che qualcuno aveva sistemato lì anni fa, per far godere i cittadini della vista circostante. In tempi in cui le amministrazioni comunali avevano ancora i soldi per roba del genere. Tirò fuori una sigaretta elettronica e ne prese un tiro profondo, facendo brillare la punta di blu. Poi espirò uno sbuffo di vapore dal naso. «Be’, questa situazione è un gran casino, ammettiamolo». Logan le si sedette accanto, avvolto dall’odore quasi nauseante di profumo e mentine. Indicò le piscine in basso, dove un gruppo di gente in tuta bianca della Scientifica si stava spostando verso l’estremità più lontana del luogo. Due padiglioni erano stati montati accanto al vecchio edificio principale, entrambi illuminati dall’interno. Tre autopattuglie. Due furgoni della polizia. Una grossa Range Rover. E un malandato Ford Transit. «Sono riusciti già a identificarla?». La Steel si infilò la sigaretta elettronica all’angolo delle labbra e prese una busta da una tasca. «È arrivato oggi. Non ho ancora avuto il coraggio di guardarlo. Susan è terrorizzata». «Da quello che ho visto, non può essere morta da molto. Forse un giorno? Due? Siamo stati fortunati che i gabbiani non l’abbiano trovata prima di noi». «Già». La Steel passò un dito lungo la chiusura della busta, aprendola. Poi tirò fuori il foglio all’interno. E lasciò ricadere tutto in grembo. «Non riesco a leggerlo». «Allora si metta gli occhiali». Lei lo fissò in tralice. «Non ho bisogno degli occhiali. È importante, okay?». Picchiettò un indice sul foglio. «Si tratta di una faccenda seria». «E una bambina morta non lo è?». Un altro lungo tiro dalla finta sigaretta. «Anche tu hai ragione». «Senta…». Logan si schiarì la gola. Si sfilò il berretto e lo posò sulle ginocchia. «So che significa molto per Susan. Ma forse dovrebbe…». La Steel si limitò a fissarlo a bocca aperta. «Che c’è?» «Che diavolo hai fatto in testa?». Allungò una mano, passandogliela sulla nuca. «È come un uovo peloso». «Tolga quella mano». Logan si scostò, spostandosi verso il bordo della panchina. «Chi ti ha tagliato i capelli? Dimmelo e ci andiamo subito, così potrò picchiarlo a sangue. Sembri uno scroto irritato!». «Me li sono tagliati da solo». Le scacciò la mano, quando lei tentò di nuovo di toccarlo. «Mi sono comprato un rasoio elettrico su Internet». «La madre degli idioti è sempre incinta». La Steel prese un altro tiro dalla sigaretta elettronica e sbirciò il foglio che continuava a tenere in grembo. «L’anatomopatologo sta esaminando la bambina in questo momento. Darà un’occhiata, e poi la porteranno ad Aberdeen. Domani ci sarà l’autopsia». «Ha idea di quanto costa il barbiere di questi tempi? Non prendo certo gli straordinari che avevo con il cid. E con i contributi che continuano a salire…». «Al momento, sembra che la causa della morte sia attribuibile a un colpo alla testa. Con un oggetto solido e cilindrico. È ipotizzabile che l’abbia colpita con un tubo di metallo. Ne sapremo di più domani, dopo l’autopsia».
Logan intrecciò strette le dita in grembo. «Quando l’ho vista distesa lì, tutta scomposta, con l’uniforme scolastica addosso… Per un secondo, ho pensato che fosse Jasmine». La Steel allungò un braccio sullo schienale della panchina. Strinse appena la spalla di Logan. «Non fare la mammoletta. Lei è a casa, al sicuro con la sua mamma». «Chi è a capo dell’indagine?» «Ufficialmente, il nostro amatissimo sovrintendente detective Young sarà l’onnipotente capo delle indagini. Ma in tv sarà Finnie a metterci la faccia. Una bambina morta. Un pedofilo a piede libero. Bisogna tirare giù gli assi, per una cosa del genere». Tirò su con il naso. Poi si indicò un paio di volte con il pollice. «Indovina un po’ chi è che farà tutto il lavoro, comunque?» «Io scommetterei su qualunque poveraccio che è riuscita a farsi mettere alle calcagna». «Proprio così». La Steel sospirò profondamente. Poi raddrizzò le spalle. «Bene». Riprese in mano il foglio che se ne stava da un po’ sulle sue ginocchia. Poi lo spinse verso Logan. «Leggilo tu. Io non ci riesco». Lui spianò la carta spiegazzata. «“Gentile signora Wallace-Steel, le scrivo per informarla dei risultati della translucenza nucale effettuata nel primo trimestre di gravidanza e delle analisi del sangue effettuate…”». «Vieni al punto!». «D’accordo». Logan seguì il testo stampato con un dito. «Bla bla bla… i valori dell’hcg sono normali, ma quelli della papp-a sono elevati. Considerata l’età di Susan, possiamo stimare un rischio di 1 su 5000 che il feto possa avere la sindrome di Down». «Oh, grazie a Dio». La Steel rovesciò indietro la testa e si coprì il viso con le mani. Poi si raddrizzò, accigliandosi. «Uno su cinquemila. È buono, no?». Logan non ne aveva idea. Tirò fuori il suo miglior sorriso di circostanza. «Certo». «Ah!». Lei gli mollò una pacca sulla spalla. «Sarai di nuovo papà!». Il sorriso sul volto della donna si incrinò, e lei si guardò intorno, come se temesse che qualcuno li stesse spiando dall’erba alta. Abbassò la voce a un sussurro rauco: «Ma se tua madre te lo chiede, non sei stato tu, okay? Qualcun altro ha raccolto il suo seme in una tazza, stavolta. Okay? Non voglio che diventi soffocante anche con il nuovo bambino come ha fatto con Jasmine. Mi è stato più facile liberarmi di certe verruche, che di quella donna». «Non lo dica a me». Logan si alzò. «Senta, anche una scimmia in uniforme sarebbe in grado di controllare quel cordone. E lei ha tanti ragazzi in divisa a disposizione». «Vuoi che ti liberi dalla schiavitù?» «Non solo io. Il mio team. Abbiamo una divisione da gestire». La punta della sigaretta artificiale della Steel brillò nel buio. «Una possibilità su cinquemila». Sorrise. «Ah, fai pure. Mi sento generosa». Lui tornò verso la strada. Poi sfiorò la Nicholson su una spalla e abbassò la voce a un sussurro. «Pare che ce la facciamo per le dieci». Logan fece roteare la sedia a destra e a sinistra, con il telefono in una mano e il mouse nell’altra. Da una parte controllando le azioni del suo team sullo storm, dall’altra attendendo che il sergente di turno alla stazione di polizia di Fraserburgh gli rispondesse. Dall’esterno veniva il suono di diversi telefoni e di piedi pesanti. Come elefanti in completi economici, di quelli da lavare in lavatrice. Due di loro superarono la porta aperta dell’ufficio dei sergenti, blaterando di dover accedere al sistema holmes e quale degli agenti dovesse preparare il tè. Logan allungò al massimo la corda del telefono e distese la gamba. Riuscì a spingere con il piede l’angolo della porta, che si chiuse di scatto.
La stanza non era poi molto grande: due armadi chiusi da ante bianche; un paio di scrivanie messe l’una contro l’altra, così che gli occupanti potessero guardarsi negli occhi alzando lo sguardo dagli schermi dei vecchi computer neri; qualche cassettiera metallica e portadocumenti straripanti. Una fila di vecchie telecamere malandate che ammiccavano verso di lui con le loro luci verdi, mentre il mouse passava alla successiva serie di azioni. Clic. Deano era in pari su tutto il lavoro d’ufficio. Come anche la Nicholson. Ma Ciuffo… Santo cielo. Era come tenersi in squadra un bambino di cinque anni. Tre aggressioni, due rapine e uno scippo, e non aveva ancora chiuso niente. Cliccò sulla prima aggressione, incastrando il telefono tra orecchio e spalla, e digitò una nota nel sistema, con le dita che volavano sulla tastiera. Sistema al più presto questo caso: l’azione è rimasta in sospeso troppo a lungo. Voglio che venga aggiornata! Finalmente, qualcuno rispose dalla stazione di Fraserburgh, e una roca voce maschile riecheggiò nel ricevitore: «Casa degli Orrori Billy Broch, in cosa posso esserle utile?» «Sergente Smith, ti sembra normale rispondere così al telefono della stazione?» «Sapevo che eri tu dal numero. Cos’è questa storia che tu e il tuo gruppo di idioti avete trovato un cadavere?» «Una bambina». «Oh, no… scusami, non me l’aveva detto nessuno». «Cosa state progettando di fare tu e i tuoi scagnozzi per questa sera?» «Ti hanno già imposto un team di indagine?». Altri passi nel corridoio. «Hanno praticamente invaso tutto il piano di sopra. E il turno di notte. Riesci a trovare un paio di agenti per un giro al porto di Fraserburgh? Mi serve un controllo sulle barche, con tutte le informazioni che riuscirete a trovare su Charles “Craggie” Anderson. È scomparso una settimana fa. Non c’è traccia né di lui, né della sua barca, la Vagabonda». «E tu passerai a dare un’occhiata al nostro buco a forma di registratore di cassa?» «Ci stavo giusto pensando. C’è altro?». La linea si riempì del sibilo dell’aria risucchiata tra i denti. «Vediamo. Le novità di oggi: due potenziali infrazioni di arresti domiciliari, tre casi di violenze domestiche, un paio di lamentele sul campo nomadi fuori da Rosehearty, una manciata di effrazioni, e stiamo cercando un tossico che scippa borse. Per il resto, è il solito trantran. E il tuo raid antidroga? Ti serve ancora l’agente KingKong McMahon?». «È sospeso, per ora. Dovrò riprovare di nuovo mercoledì, se me lo permetteranno». Qualcuno bussò alla porta. Poi una voce soffocata: «Sergente?» «Entra pure, Ciuffo. Ora devo andare, Bill. Cerca di comportarti bene, finché non sarò lì, okay?» «Non posso prometterti nulla». Logan attaccò, mentre l’agente Quirrel entrava nella stanza. «Be’? Che succede?». Il giovane agente si guardò alle spalle come un ladro piuttosto incapace. Poi abbassò la voce a un sussurro. «Ci sono problemi nel blocco di detenzione». «Il vecchio o il nuovo?» «Ah…». Una smorfia. «Ho dimenticato di chiederlo». «…e non mi faccia neanche cominciare a parlare di quel coglione di Dawson!». La Nicholson camminava avanti e indietro lungo il pavimento grigio e graffiato, agitando i pugni in aria. Superò a passo di carica una delle due spesse porte blu di metallo aperte, entrando nella cella buia. Poi si girò e uscì di nuovo nella stanza. «Sa cosa mi ha detto? Lo sa?». Il nuovo blocco di detenzione era una stanza dal soffitto basso che sapeva di detersivo per pavimenti al limone e pasta sfoglia. Le celle vuote e immacolate, pressoché mai usate da quando
erano state costruite, una decina di anni prima, ma complete di materassi di plastica e gabinetti d’acciaio inossidabile. In attesa del giorno in cui avessero avuto abbastanza personale da poterle renderle di nuovo agibili. Come se potesse davvero succedere. Logan era appoggiato alla porta che dava sul garage, Deano a quella che portava alla parte vecchia dell’edificio, mentre Ciuffo passava in giro le paste. «No, ma sono certo che ce lo stai per raccontare». «Ha detto che…». «A pensarci bene, no, non farlo». Logan indicò la sedia dietro la scrivania nella stanza. «Siediti. Fai qualche respiro profondo. E calmati». «Ma sergente, lui…». «Siediti. Porta le chiappe su quella sedia. Ora». Qualunque cosa la Nicholson avesse borbottato a mezza voce non doveva essere gentile, ma comunque si sedette e incrociò le braccia sul petto. «Grazie». Logan si portò alla bocca un rotolo al caramello e noci pecan. Parlò con la bocca piena. «Nel bene e nel male, siamo legati a doppio filo con questa gente. Alcuni sono degli idioti, altri no. Ma non voglio che nessuno di voi si abbassi a quel livello, sono stato chiaro?». Le guance della Nicholson avvamparono, mentre abbassava lo sguardo sugli stivali. Deano sospirò. «Sta solo smaltendo la tensione». «Non mi interessa. E questo vale per tutti voi. Siamo una forza di polizia moderna e professionale. Non vi permetterò di mandare a puttane la Divisione b con il vostro comportamento da bambini arrabbiati». La risposta fu appena udibile, da parte della Nicholson. «Sì, sergente», mormorò. «Mi scusi, sergente». Logan annuì. Prese un sorso di tè. Bollente e con latte. «Ora che ci siamo calmati e siamo tornati adulti, sentiamo: cosa ha detto?» «Quel bastardo sessista pensava che io dovessi preparare il tè per tutti loro!». La Nicholson strappò un morso rabbioso al suo fagottino alla mela, spargendosi briciole di sfoglia sul davanti della T-shirt nera. Ciuffo le porse una tazza di tè. «E tu cosa hai fatto?» «Gli ho sorriso dolcemente e gli ho detto: “Sì, capo”». Abbassò le spalle. «Cosa avrei dovuto fare? Prendere a calci la mensa?». Logan accennò alla parte più vecchia dell’edificio, dove si trovava l’ufficio principale. «Vuoi che ci vada a parlare?». Lei fece una smorfia. «Pensa che mi aiuterebbe a entrare nel cid? L’agente Janet Nicholson, stronza femminista?» «Forse no». Ma questo non significava che quegli stronzi l’avrebbero passata liscia. Logan affondò di nuovo i denti nel suo rotolo dolce. «Più tardi devo andare a Fraserburgh. E potrei anche dover fare un giro a Peterhead, se succede qualcosa». Indicò Deano. «Tu e Ciuffo continuate a controllare i porti. Janet, prendi l’altra volante e passa davanti a casa di Alex Williams ogni mezz’ora. Non possiamo evitare che quei due tornino sotto lo stesso tetto, ma possiamo far sapere ad Alex che teniamo gli occhi aperti». Un cenno del capo. «Sì, sergente». «Quando non sei lì, tieni d’occhio la zona in generale. Tutti devono ricordarsi che siamo noi quelli che manteniamo la pace da queste parti, non un gruppo di stronzi di un Team Investigativo Primario». L’autopattuglia entrò a New Pitsligo, i cui edifici grigi e le cui strade altrettanto grigie erano illuminati dall’ambra dei lampioni. Prese la strada più lunga per raggiungere Fraserburgh, deviando attraverso le vie laterali del piccolo centro abitato. Lanciando sguardi attenti nei giardini sul
davanti e sul retro delle case. Facendo esattamente quello che aveva detto alla Nicholson di fare. Farsi vedere. Sventolando la bandiera della polizia dedita alla comunità. Facendo sapere alla gente che era lì. E intanto canticchiava la canzone che gli si era incastrata in testa, mentre la radio della macchina crepitava e risuonava di qualche stralcio di conversazione riguardo all’indagine che proseguiva alla Tarlair Outdoor Swimming Pool. Stavano cercando impronte digitali sugli scogli, alla luce delle torce. Qualcuno doveva essere impazzito. E comunque, non c’erano state novità. Tornò sulla a950. Poi girò a sinistra sulla strada per Strichen. Campi bui ai lati della strada. Qualche macchia di alberi s’intravedeva tra le ombre. Le stelle erano come minuscoli led incastrati nella melassa. La luna una palla di oscurità con una sottile falce bianca a un’estremità. Un gregge di pecore, con gli occhi che scintillavano come quelli dei vampiri alla luce dei fari. La ricetrasmittente suonò, interrompendo la sua imitazione appassionata del jingle della Birds Eye Steakhouse Grills: «Hope it’s chips, it’s chips…». Staccò una mano dal volante e premette il pulsante di ricezione. «Parlate pure, vi ricevo». «Sergente, sono Janet. Sono passata davanti all’appartamento di Alex Williams. Quei due sono seduti in soggiorno a guardare la tv. Come se non fosse successo niente. E, voglio dire, dopo quello che ha fatto Williams…». «Lo so. Tieni gli occhi aperti. Vincerò quella scommessa: nessuno morirà». «Se qualcuno provasse a fare una cosa del genere a me, gli farei saltare le rotule». «E nessuno finirà gambizzato». Una pausa. «Sergente?» «Cosa?» «Perché io non ho un nomignolo? Insomma, Stewart è Ciuffo, Dean è Deano. Perfino lei ne ha uno. Io invece sono solo Janet. O Nicholson. È perché sono una donna?». «Mi stai prendendo in giro, vero?». Logan si accigliò. «Be’… che nomignolo ti piacerebbe avere?» «Oh, no, non esiste! Solo i perdenti si danno il soprannome da soli». «Potremmo chiamarti agente Rompiscatole». «Molto divertente». In tono piatto. «Meno male che ho addosso il giubbotto antiproiettile, o con una battuta acuta del genere avrei rischiato grosso. Ah. Ah». «Ascolta, fammi un favore: fai un giro a Rundle Avenue. Voglio che Frankie Ferris sappia che lo teniamo d’occhio. Dobbiamo tenerlo sulle corde». «Dio: una mucca sulla strada, ore di guardia a un cordone, e ora la richiesta di scivolare a passo d’uomo davanti alla casa di una canaglia per il resto del turno? Tutto in un solo giorno? Ha ragione, sergente, chi mai vorrebbe abbandonare questo per una vita nel cid?». Strichen era piccola e silenziosa. Ma Logan le garantì lo stesso trattamento degli altri centri abitati, passando per tutte le stradine minori. Guardate, sono un poliziotto. Le vostre tasse al lavoro. L’unica cosa vagamente degna di nota era l’uomo nudo legato con il nastro adesivo al segnale di stop fuori dal municipio, all’angolo tra Bridge Street e High Street. Be’… forse era nudo. Era difficile dirlo, sotto allo strato di melassa e piume. E non si erano risparmiati neanche sul nastro adesivo, tra l’altro. Logan abbassò il finestrino dal lato del passeggero e si sporse attraverso i sedili. «Tutto bene?». Il signor Impiumato lo guardò sbattendo le palpebre, e poi gli rivolse un sogghigno stordito. «Mi… mi spo… mi sposo!». La voce impastata e strascicata. «Congratulazioni». Logan rialzò il vetro e si diresse a nord-ovest, verso Fraserburgh. «Controllo a Pattuglia Sette».
Logan guardò a destra e poi a sinistra. Nel corridoio non c’era nessuno. Era tutto solo con file e file di barattoli di zuppa. Premette il pulsante della ricetrasmittente. «Parlate pure, vi ricevo». «Siete a Fraserburgh stanotte? Dalle parti di Arran Court?» «Non ne ho idea. Mi trovo in un Tesco su South Harbour Road». La zuppa di porri e patate costava poco. Ma quella di lenticchie ancora meno. «I vicini sono preoccupati per una certa Mrs Bairden, che abita al numero ventisei. Non la vedono da ieri mattina. Ha problemi di cuore. E non risponde né alla porta, né al telefono». Alla fine, scelse le lenticchie. Tre barattoli finirono nel cestello, dove già si trovavano un pacchetto di patatine e un filone di pane bianco. «Datemi cinque minuti». «D’accordo». Svoltò l’angolo di buon passo e si diresse verso altri scaffali, dove si trovavano i medicinali e i dentifrici. Preservativi, pomate per le emorroidi, pillole per l’acidità di stomaco, colliri… Ah. Eccoli. Lassativi. Avrebbe sforato il budget settimanale, ma al diavolo. Certe volte ci si doveva pur concedere una botta di vita. Ne prese due tipi diversi, senza starci troppo a pensare, e li girò per leggere le istruzioni. Si sentì battere un colpetto sulla spalla. Si girò e vide una giovane donna con l’uniforme standard del luogo: camicia blu a maniche corte e pantaloni neri. Una targhetta con la scritta “chiedi a me per la polizza auto” sopra a quella con il suo nome: “amanda”. Gli sorrise. «Sta cercando qualcosa di specifico?» «Avete qualcosa di molto forte e che agisca in fretta?». Lei prese una confezione verde e gialla dallo scaffale. «Mia nonna usa questi: sollievo gentile e prevedibile». «Nah. Sto cercando qualcosa di un po’ più aggressivo. È il momento delle grandi pulizie. Ha qualcosa di utile in questo senso?».
Capitolo 9
Arran Court. Una singola fila di piccole case con terrazzo: pareti intonacate di bianco, tetti coperti di tegole; ogni tanto un blocco di legno scuro che collegava le finestre del pianterreno a quelle del piano superiore. La strada era nascosta nel complicato dedalo di vicoli ciechi di Fraserburgh. Circondata dai giardini posteriori di altri edifici. Un piccolo prato verde si estendeva di fronte alla via, illuminato dal bagliore dorato di un lampione di cemento. Qualche auto parcheggiata davanti. Logan contò le porte e fermò l’autopattuglia davanti al numero ventisei. Tre donne di mezza età erano ferme accanto al cancelletto del giardino. Due di loro erano sedute sul muretto basso che lo divideva dal numero venticinque. La terza camminava avanti e indietro, lasciandosi alle spalle scie di fumo di sigaretta che scintillava nell’aria illuminata dai lampioni. Indossavano tutte pigiama e vestaglia. Logan si infilò il berretto dell’uniforme e uscì dalla volante. Chiuse lo sportello e si avvicinò alle donne. «Qualcuna di voi ha le chiavi?». La donna con la sigaretta smise di camminare avanti e indietro e lo fissò con una smorfia acida sul viso. «E pensa che ce ne staremmo qui come cretine, se le avessimo?» «Che mi dite dei parenti? O magari un badante?». Una delle donne sedute sul muro scosse la testa. «Sua figlia Sandra vive a tre isolati da qui, ma ora è a Edimburgo per un impegno». Logan oltrepassò il cancelletto. «E siete sicure che non sia andata da qualche parte? Magari a trascorrere la notte ad Aberdeen, o a trovare degli amici a Peterhead?». La donna numero tre tirò su con il naso. «Ha problemi di cuore. E se fosse morta?». Logan provò a girare la maniglia della porta. Chiusa a chiave. Le luci, all’interno, erano spente. «Okay, proviamo dal retro». Indicò Mrs Sigaretta. «Avete il numero del cellulare della figlia?». Lei prese un cellulare dalla tasca della vestaglia, toccò alcune volte lo schermo e poi glielo porse. «Sta squillando». Logan lo prese. Se lo portò all’orecchio mentre puntava verso la fine della strada, girando oltre l’angolo dell’ultima casa della fila. Un vialetto correva lungo il retro di Arran Court, dividendola dalla parte posteriore della strada parallela. Logan continuò a procedere lungo le recinzioni di legno fino al numero ventisei, mentre il telefono continuava a squillare. E squillare. E squillare. Finalmente: «Pronto?». La voce di una donna, sottile e nervosa. «Salve, parlo con Sandra Bairden?». Non c’era un cancello per entrare nel giardino sul retro, ma un paravento di canne alto poco più di due metri si estendeva per tutta la lunghezza del prato. Ondeggiò, quando Logan vi si afferrò. «Chi è?» «Sono un agente di polizia. Non voglio spaventarla, Sandra, ma i vicini di sua madre sono preoccupati per lei». Mise un piede su un muretto di mattoni e si tirò su. C’era una luce accesa nella casa, che brillava fioca attraverso il vetro smerigliato di una piccola finestra. Probabilmente il bagno. Il giardino era immerso nell’oscurità. «Oh, Dio… Ha avuto un attacco di cuore?»
«Potrebbe anche non essere accaduto nulla. Vogliamo solo assicurarci che stia bene». Afferrò di nuovo il paravento di canne. Meglio fare in fretta, prima che venisse giù completamente. Lo scavalcò, finendo con entrambi i piedi in un’aiuola di ortaggi. «Lo… lo sapevo che non avrei dovuto lasciarla sola… Ma era un viaggio di lavoro e…». «Non balziamo alle conclusioni». Avanzò attraverso le piante di porri sistemate in ordinati filari, mentre un odore di cipolla fresca riempiva l’aria. Raggiunse la porta sul retro della casa. «Sa se per caso sua madre tiene una copia delle chiavi da qualche parte all’esterno? Magari sotto un vaso? Qualcosa del genere?». Staccò la torcia dal giubbotto antiproiettile e la accese, spostando il cono di luce da una parte all’altra del giardino. «No, assolutamente no. Mia madre è molto attenta alla sicurezza…». Un sospiro si udì dall’altra parte della linea. «Dio, ti prego, fa’ che stia bene…». Uno di quei ridicoli ornamenti da giardino a forma di cagnolino era sistemato vicino alla porta sul retro: la statuina sembrava scavare attraverso il gradino della porta, giù nelle fondamenta della casa. Logan lo rovesciò con un piede. C’era una chiave attaccata sotto, con un pezzo di nastro adesivo. Certo: perché quello era l’ultimo posto dove un ladro sarebbe andato a cercarla, giusto? Si incastrò il cellulare tra orecchio e spalla, raccattò la chiave e la fece scivolare nella toppa della porta sul retro. «Va tutto bene, sto entrando in casa in questo momento». La cucina era immersa nel buio. «Signora Bairden? È in casa?». Silenzio. «Oh, mio Dio, è morta, vero?» «Signora Bairden? Sono un poliziotto, sta bene?». Accese la luce. Piastrelle gialle e azzurre sulle pareti, un pianale di formica grigia, pensili bianchi. Raggiunse il corridoio. Click. Fotografie sui muri, e una rampa di scale: una bimbetta sovrappeso che giocava con un grosso cane a pelo lungo, poi la stessa bambina con l’uniforme scolastica e due incisivi mancanti, e poi sempre lei, cresciuta, sposata, e sempre più stanca e spenta, man mano che cresceva. «Perché diavolo ho deciso di venire a Edimburgo…?» «Signora Bairden? È in casa?». Salì le scale fino al pianerottolo. La luce filtrava da sotto la porta del bagno, e si udiva il ronzio di una ventola accesa, soffocato dalla porta chiusa. Logan bussò. «Signora Bairden? È lì dentro?». Provò a girare la maniglia. Chiusa a chiave. «Sono così stupida…». Logan provò a bussare di nuovo. «Signora Bairden?». Posò l’orecchio contro la porta. Era una voce, quella che aveva sentito? Appena udibile al di sopra dell’incessante ronzio della ventola. «Signora Bairden, sto entrando». Logan tirò fuori dalla tasca dei pantaloni una manciata di monete. Ne prese una da due penny e la incastrò nella vite subito sotto la maniglia. La girò finché non sentì scattare la serratura. La porta si aprì, rivelando un piccolo bagno con le piastrelle rosa a fiori e i mobili color salmone. E poi c’era un’anziana signora molto pallida, nuda nella vasca e circondata dall’acqua sporca. Capelli grigi e sottili. Guance scavate. Una spalla curva. E il lato sinistro della bocca aperto. Logan premette il tasto per silenziare il cellulare. Lo posò sulla vaschetta rosa del gabinetto, accanto a un portarotolo a forma di danzatrice di flamenco. E si inginocchiò accanto alla vasca. Posò due dita sul collo della signora Bairden. Poi prese la ricetrasmittente e chiamò un’ambulanza. «…unirsi a noi dopo il divorzio, quando Josie e Marshal dovranno decidere chi…».
Logan premette un pulsante sul telecomando, e l’idiota sullo schermo fu sostituito dalle risate in sottofondo di una mediocre sitcom. La mensa della stazione di polizia di Fraserburgh era vuota, a parte lui e i mobili. Le tapparelle della finestra rotonda erano chiuse, e solo qualche vaga lama di luce filtrava dalla strada. La sua economica zuppa di lenticchie non era poi così male, se ci si metteva sopra un bel po’ di salsa piccante rubata dal fondo della dispensa. Sulla bottiglia c’era scritto “proprietà di erin – tenete giù le mani, brutti ladri!” a lettere maiuscole tracciate con un pennarello indelebile nero. Come se servisse a qualcosa. Chi lasciava il cibo incustodito in una stazione di polizia si meritava di vederselo sparire sotto al naso. Sentì suonare la ricetrasmittente. «A chiunque sia nelle vicinanze di Cruden Bay, abbiamo un maschio bianco che minaccia il suicidio…». Logan strappò un angolo della sua fetta di pane tostato e la intinse nella zuppa. Il burro creò dei cerchi lucidi sulla superficie. Una copia arricciata dell’«Aberdeen Enquirer» era aperta sul tavolo davanti a lui. C’era un grosso articolo su due pagine sul primo giorno del processo di Graham Stirling. «il dolore della famiglia per le “dichiarazioni oscene”» era il titolo, con una grossa foto di Stephen Bisset scattata prima che Stirling lo rapisse. Un uomo sorridente e normalissimo, con un maglione blu e una camicia bianca. La riga da un lato e il sorriso melenso, mentre teneva una neonata in braccio. Gli altri due figli adolescenti erano accanto a lui; gli somigliavano nello sguardo e nel sorriso, e avevano entrambi i capelli neri e lunghi: «una famiglia felice: da sinistra a destra, david (17), stephen (41), la piccola davina (3 mesi) e catherine (14)». Logan girò la pagina e si trovò davanti un articolo di cronaca riguardo a una donna che aveva ustionato il marito con l’olio per friggere. Intinse di nuovo il pane nella zuppa. Lesse distrattamente di un’esecuzione di tre membri di una gang a Liverpool. E un altro che riguardava un membro del Parlamento Scozzese colto a “discutere una proposta di legge” nel bagno delle donne dopo l’orario di lavoro. La ricetrasmittente suonò di nuovo, e poi la voce rauca dell’ispettore capo Steel riecheggiò dal ricevitore. «Laz? Dove diavolo sei?». Fantastico… non poteva neanche godersi la sua zuppa dei poveri in pace. Premette il pulsante di ricezione. «Sono occupato. Cosa vuole?» «Come mai non riesco a trovare niente in questo labirinto che osate chiamare stazione di polizia? Dove diavolo sono tutti i pennarelli?». Lui prese una cucchiaiata di zuppa. «Hector li ruba tutti». «E chi cavolo è Hector? Vado a prenderlo a calci nel culo». «Troppo tardi: è morto anni fa». «Molto divertente. Dove diavolo sono i pennarelli?» «E ora infesta i corridoi della stazione di Banff, terrorizzando gli agenti in prova e chiunque sia così sciocco da avventurarsi al piano di sopra di notte… Uhhh-uhhhhuuuu!». Silenzio. Logan masticò rumorosamente un boccone di pane tostato. «Hai finito?» «Che c’è? Non è colpa mia. È il fantasma della stazione, e ogni volta che una penna sparisce, è colpa di Hector. Provi nella vecchia stanza delle telecamere al piano di sopra, vicino alle docce. Di solito ce n’è una confezione, lassù». «Quando torni? Devo fare un controllo di tutti i balordi, malviventi, stupratori e pedofili nell’area». «E allora? Ha tutti gli agenti liberi del nord-est per farlo: prego, si accomodi». «Mi serve qualcuno che conosca i dintorni».
«Il suo team…». «…è formato da un mucchio di idioti. Non mi fiderei di loro neanche se dovessero interrogare il loro stesso culo per sapere da dove viene un succhiotto. Quindi…?». Logan ingurgitò altra zuppa. «Dipende se riesco a liberarmi, più tardi. Le farò sapere». Certo. Credici. «Ora devo andare». Un’altra spruzzata di salsa piccante rubata. Migliorava decisamente il sapore. La porta si aprì alle sue spalle. «Sergente». Logan si girò a dare un’occhiata, e accennò un saluto con il cucchiaio. «Syd. Come sta il serraglio?». L’uomo si strinse nelle spalle. «Enzo sta bene, ma Lusso ha morso Dino. Proprio su una chiappa». La felpa nera della polizia dell’agente Fraser era rovinata intorno al collo e sulle maniche, e aveva uno spesso guinzaglio di cuoio sulle spalle, legato dietro la schiena. Come un attrezzo sadomaso. Un berretto bianco e nero con la scritta “polizia”, con l’orlo consumato e liso su un lato. E il sentore neanche tanto leggero di Eau de Labrador addosso. «Non so cosa abbia combinato, ma probabilmente se lo meritava». Logan lo fissò. «Il tuo cane ha morso Deano? Ha morso l’agente Scott? E quando è successo?» «Cosa?». Syd arricciò il labbro superiore, ritirando il mento verso il collo. Poi l’espressione perplessa gli sparì dal volto. «Ah, okay, no, non Deano, Dino. d.i.n.o., il mio pastore tedesco. Gli piace infastidire gli altri due». Grazie al cielo. Logan sbuffò fuori in un sibilo il respiro trattenuto. I documenti da riempire, se Deano fosse stato morso davvero, sarebbero stati un incubo. Syd si avvicinò alla cucina che occupava un angolo dell’ampia stanza. Infilò un contenitore di plastica nel forno a microonde e lo avviò. «Mi serve una volante a Market Street, a Macduff. Una donna anziana confusa gira da sola per strada». La voce della Nicholson si udì forte e chiara dalla ricetrasmittente. «Ricevuto, Controllo. Sto arrivando». Logan tornò a mangiare la zuppa. «Non sei là fuori a setacciare Tarlair?» «No. Lei ha cancellato l’operazione antidroga, quindi io ed Enzo siamo finiti a controllare pacchi sospetti all’ufficio postale. Abbiamo beccato tre buste di cocaina, due di hashish e un quantitativo minimo di eroina. Probabile che non arrivasse neanche a dieci sterline di valore di mercato, ma tutto fa brodo, no?». Ding. Syd andò a recuperare delle posate nel cassetto della credenza e si portò il contenitore di plastica al tavolo. Scostò la seconda sedia dopo quella di Logan e si sedette. Aprì il contenitore. L’odore intenso di ricche spezie indiane riempì l’aria, coprendo quello di cane bagnato. «Sa se hanno già identificato la bambina?» «Se ne sta occupando il Team Investigativo Primario. Pensi che me lo direbbero?» «Probabilmente no». Syd ficcò una forchetta nel curry, tirando su un mucchietto di ceci e cipolle. «Che mi dice del mandato? Io e i miei cagnacci lo stavamo aspettando». Si sfilò il berretto da baseball, esponendo una vasta chierica lucida, circondata da capelli grigi quasi rasati a zero. «Non ho niente di speciale da fare domani, se vuole». «Non posso: ho il processo di Stirling. Magari mercoledì? Sempre che mi diano gli uomini, con questa faccenda di Tarlair di mezzo». Una cucchiaiata di lenticchie lo aiutò a ingoiare un nodo di amarezza. «Mi sorprende che non abbiano mandato anche te là fuori ad annusare i dintorni della piscina». «Nessuno chiama mai i cani al primo tentativo». Un’altra forchettata di ceci. «Stupido, da parte loro».
«Vedrò cosa posso fare». Un altro piccolo suono acuto dalla ricetrasmittente. «Controllo a Bravo India Uno, potete parlare?». Syd indicò la tv. «Le piace quella robaccia?» «L’ho accesa solo per farmi compagnia, a dire il vero». La voce dell’ispettore si fece sentire dal ricevitore. Stanca. «Prego, parlate pure». «Bene». Syd prese il telecomando e iniziò a fare zapping tra i canali. «Ha sentito di Barney Massie? Stava gestendo quell’incidente mortale a Kirkwall, quando si sono messi a contestargli le spese del team». «In un supermercato di Aberchirder è stata prelevata la cassa». Dalla ricetrasmittente si udì un mugolio distinto. «Non di nuovo…». Poi un sospiro. E una pausa. Infine, l’ispettore riprese: «Okay, arrivo». «Insomma, qualche idiota a Tulliallan l’ha chiamato incazzatissimo: “Che sono tutti questi biglietti aerei? Nessuno ha pensato che si può prendere il treno?». Logan lo fissò, perplesso. «Per le isole Orcadi?». «Già». Altri ceci. «Questo lavoro è bello che fottuto, glielo dico io». Un altro tentativo di zapping portò a una replica di Chewin’ the Fat, con due marinai che imprecavano mentre la loro barca affrontava una tempesta. «Ma comunque, mi mancano solo otto giorni e poi me ne andrò in pensione». «Grazie di avermelo ricordato. Io sarò bloccato qui fino a sessantacinque anni». Sullo schermo, i marinai furono sostituiti da Ford Kiernan che comprava una torta e un panino dolce. «Ho già il titolo per il discorso d’addio: trent’anni passati a tenere la Grampian Police sulla retta via». Logan inspirò tra i denti. «Attento a come parli, ribelle. Non esiste più nessuna Grampian Police, adesso c’è solo la Polizia di Scozia. Un grazie sentito ai nostri potenti capi». «Ah, che vadano al diavolo. Cosa possono fare, licenziarmi?». Non c’era molto da vedere al Broch Braw Buys, a mezzanotte meno cinque di lunedì sera. Si trovava incuneato tra un negozio di scommesse e una friggitoria, entrambi chiusi per la serata. Il Kenya Bar and Lounge, all’angolo, aveva la porta chiusa, con la saracinesca di metallo abbassata. Il rumore di un’aspirapolvere veniva da qualche parte all’interno. Logan chiuse lo sportello della volante e si avvicinò, calpestando uno scricchiolante tappeto di schegge di vetro. Avevano sicuramente usato lo stesso metodo dei precedenti colpi per entrare nel luogo e rubare la cassa, perché la vetrina del negozio era sbarrata da assi di legno. Qualcuno aveva attaccato un cartello al centro del compensato: “1.000 sterline di ricompensa per chi darà informazioni sui bastardi che anno fatto questo in modo che siano gambizzati!!!” Logan allungò una mano per strapparlo via. Si poteva capire, certo, ma non era esattamente legale. E poi, quell’h mancante dava davvero fastidio. Si fermò lì di fronte e si voltò con lentezza su se stesso. Fraserburgh era tranquilla: il silenzio era assoluto, a parte l’occasionale e distante suono del motore di un’auto in qualche strada lontana. Non faceva freddo, ma neanche caldo. Le strade erano avvolte in un’anemica luce alogena. Quando era arrivata la chiamata all’ispettore? Non poteva essere stato più tardi delle tre e mezzo. Quindi, chiunque stesse facendo quei colpi stava diventando più audace, o più stupido. O forse avevano una tabella di marcia da seguire? Quattro registratori di cassa in tre giorni. Se non c’era ancora un Team Investigativo Primario dedicato a quel caso, di sicuro entro la mattina dopo sarebbe arrivato. Agenti in borghese dalla
faccia seria intenti a girare per le campagne con i loro scarponi chiodati e i loro abiti militari. Facendo innervosire tutti e lasciando ai poveracci in uniforme il compito di raddrizzare i casini che si lasciavano dietro. Le divisioni erano il futuro, e lÏ si trovava tutta la gente giusta‌
Capitolo 10
La campagna scorreva ai lati dell’auto, buia e sfocata, la strada davanti illuminata dai fari, che facevano scintillare i paletti catarifrangenti. Una pulsazione ritmica, mentre Logan proseguiva lungo la linea tratteggiata. Un mare di stelle si estendeva da un orizzonte all’altro. L’acqua era una distesa grigia a sinistra, circondata dagli scogli. In lontananza si vedevano brillare le luci delle case. Logan canticchiò la fine di Started Out With Nothin’, guidò in silenzio per un minuto, poi si lanciò in Living is a Problem Because Everything Dies. Ricordando forse metà delle parole. Prima fosse tornata l’auto grossa con la sua radio funzionante, meglio sarebbe stato. Davvero, era… La ricetrasmittente suonò quattro volte, a segnalare una comunicazione interna. «Pattuglia Sette, potete parlare?» «Parla pure, Deano». «Ho un paio di persone a Gardenstown che dicono di aver visto Charles Anderson, la scorsa domenica. Hanno detto che era ubriaco marcio e stava vomitando dalla fiancata della sua barca». «Altro?» «Hanno detto che prima era al pub e raccontava di voler andare a Papa Bank o a Foula Waters a pescare eglefini». Meglio di niente. Logan tamburellò con le dita contro il ruvido accenno di capelli rasati sopra un orecchio. «Quindi forse non è scomparso. Forse è solo andato a pescare». «Però dovrebbe rispondere almeno alla radio, sempre che non abbia più energia. Pensa che potrebbe essere alla deriva nel bel mezzo del Mare del Nord?» «Sono piuttosto certo che la radio abbia delle batterie autonome. È la base della sicurezza». «Giusto». Logan affrontò un’altra curva e le luci scintillanti di Macduff lo accolsero in lontananza. «Di’ a Ciuffo di mettere su il bollitore. Sarò lì tra cinque minuti». Altri campi immersi nell’oscurità. Altre sagome scure di alberi. E poi il cartello “benvenuti a macduff”. Qualcuno aveva appeso un foglio bianco con la scritta “auguri per i tuoi 40 anni, caz!!!!!” in grandi lettere di vernice nera, sotto al segnale dei limiti di velocità. Un paio di palloncini colorati erano stati legati al palo del segnale, e pendevano come i testicoli di un misero clown. Logan fece una breve deviazione su Moray Street, con i suoi edifici squadrati e grigi. Si fermò in fondo alla via, all’incrocio con High Shore. Aveva due scelte: girando a destra, sarebbe tornato alla stazione di polizia; svoltando a sinistra, invece, sarebbe andato verso la Tarlair Outdoor Swimming Pool. L’orologio del cruscotto gli fece notare che era già mezzanotte e mezzo. E anche andando fino a lì, non avrebbe potuto fare niente di utile. Era molto probabile che sarebbe finito a svolgere un compito che dei semplici coni stradali sarebbero riusciti a fare meglio di lui. Svoltò a destra. Superò le piccole case pittoresche, che seguivano le curve della strada, con gli abbaini che davano verso il mare e le sue onde che venivano a morire sciabordando sulla spiaggia di sassi.
Un pigolio dalla ricetrasmittente. «A tutte le unità nelle vicinanze di Rosehearty: aggressione in corso fuori dal campo nomadi…». Un secondo di pausa. Due. Tre… Poi qualcuno rispose. «Sergente Smith a Controllo, sto andando. Dite a McMahon e Barrow di muoversi e raggiungermi». Logan superò l’acquario, chiuso per lavori di ristrutturazione. Un camper era parcheggiato di fronte alla temporanea recinzione di rete che circondava l’edificio, simile nella forma a un enorme cirripede con intorno coni stradali arancioni. Un tipo arruffato come uno spaventapasseri, vestito di una tuta sporca, era seduto sul gradino del camper a fumare, con una mano a coppa intorno alla sigaretta, come se cercasse di nasconderne la punta accesa a qualche eventuale cecchino. Come se qualcuno potesse mai pensare di sprecare un proiettile per Sammy Wilson. Logan superò il cancello d’entrata, passando lentamente accanto alla grossa boa rossa che decorava il centro del parcheggio. La ricetrasmittente emise di nuovo quattro squilli, e la voce dell’ispettore capo Steel risuonò ringhiosa nella macchina. «Com’è che non mi hai ancora richiamato?» «Sono occupato». Logan rallentò. Premette il pulsante con la scritta “vicolo a sinistra” e un faro si accese di colpo, bucando l’oscurità e colpendo Sammy Wilson dritto in faccia. Tutto ossa e spigoli e pelle tesa e giallastra, sporcata da ombre di barbetta incolta, macchie e lividi. Sammy si rannicchiò contro il camper, con un braccio che andava a coprirgli gli occhi. Logan abbassò il finestrino. «Buonasera, Sammy». Una smorfia. Poi l’uomo tirò su con il naso e sbirciò da dietro la manica lercia. «Non ho fatto niente». «Certo che no». «Ehi! Sei ancora lì?» «No. Sta ascoltando una registrazione. Lasci un messaggio dopo il segnale acustico». Logan mollò il pulsante di ricezione e accennò alla recinzione temporanea, con i suoi cartelli pieni di avvertimenti. «Non stai pensando di fare qualcosa che disapproverei, vero, Sammy? Tipo qualche effrazione, forse? Magari per rubare degli oggetti dal cantiere?» «Nah, non lo farei mai. Mai. Non io. Non sono un ladro». Logan lo fissò. L’uomo sollevò una spalla e si guardò la punta dei piedi. «Immagino che ora sia meglio che vada». «Sì, probabilmente è meglio. Non vorrei che qualcuno si facesse un’idea sbagliata». L’uomo si alzò in piedi e si allontanò verso Market Street, lasciandosi dietro una scia di fumo di sigaretta. «Sei proprio uno stronzo a volte, lo sai?». La Steel si schiarì la voce. «Comunque, non ti sto chiedendo molto: solo una mano per parlare ai pervertiti locali, tutto qui». «Non sono io quello che sta facendo lo stronzo». Riavviò il motore dell’auto, percorrendo Laing Street e puntando verso il porto. «Ha il più grosso team della divisione. Lo usi». «Vuoi che il pervertito assassino che ha ucciso quella bambina la faccia franca? È questo che vuoi?». A sinistra, un gruppetto di vecchie case in stile tradizionale scozzese si affacciava sulla ringhiera che dava sui frangiflutti del porto e sulla massa grigia e immobile del Mare del Nord. Alcune avevano le pareti grigie e ruvide, altre di granito e altre ancora erano dipinte di bianco. «Il mio turno finisce tra mezz’ora». «Non mi stai dicendo che correre a casa per mangiare una confezione di spaghetti cinesi e praticare dieci minuti di onanismo è più importante che prendere l’assassino di una bambina, vero?»
«E inoltre, devo andare in tribunale, domani». Superò le case di Macduff Arms, tutte chiuse e silenziose. «Oh, non fare la mammoletta. Si tratta solo di un paio di pervertiti, non ci vorrà molto». Al Bayview Hotel si stava tenendo il ricevimento di un matrimonio, o qualcosa del genere: un gruppo di tipi ubriachi in kilt fumava e rideva davanti all’ingresso. «Quindi sarà lei ad autorizzare lo straordinario pagato?» «Ah…». Non c’era nessuno fuori da Bert’s. Due donne stavano ritirando del denaro dal bancomat della Bank of Scotland. L’Highland Haven Hotel era tranquillo. Era tutto sereno e pacifico. Silenzioso. Proprio come la sua ricetrasmittente. Poi il porto lasciò il posto alla zona industriale e al deposito degli autobus. Premette di nuovo il pulsante della radio. «Allora, lo autorizza?» «Non è così semplice…». «Questo non è il cid. Prendiamo l’intera paga per la prima mezz’ora di straordinario non previsto, dopodiché si calcola il tempo successivo. Non lavoro per beneficenza». Gli edifici svanirono nello specchietto retrovisore dell’autopattuglia. Le luci di Banff scintillavano dall’altra parte della baia. La Steel restò in silenzio per un po’. Poi, finalmente: «Okay, okay, straordinario sia. Sei un avido fi…». «Non sono avido. Sono al verde, è diverso. Ha una vaga idea di che razza di taglio al mio stipendio ha significato la cosiddetta opportunità di sviluppo che mi ha tirato addosso? Sto vivendo di zuppa in scatola in offerta e pane del supermercato». «Non è colpa mia! Come potevo sapere che Big Tony Campbell ti avrebbe rimesso l’uniforme sbattendoti in mezzo al fottuto nulla?». La voce della Steel si abbassò, diventando quello che probabilmente, nella sua idea, doveva essere un mormorio sensuale e accattivante. «Avanti: io e te a interrogare i pervertiti come ai bei vecchi tempi». «Sì, be’… In ogni caso stasera è troppo tardi per fare qualcosa». Superò in quel momento il ponte che conduceva dentro Banff. «Laz, Laz, Laz. Non hai imparato niente dal tempo che abbiamo passato insieme? Non è mai troppo tardi per mettere alle corde un pervertito». La Nicholson si sporse in avanti dal sedile posteriore. «Vorrei ringraziarla di nuovo per la possibilità di lavorare con il Team Investigativo Primario». Sul sedile del passeggero, la Steel prese un lungo tiro dalla sigaretta elettronica, facendone brillare la punta di blu. «Calmati, eh? A nessuno piacciono i lecchini». Poi batté un colpetto sulla spalla di Logan. «Siamo arrivati o no?» «Per l’ultima volta: saremo arrivati quando saremo arrivati». Lei si strinse nelle spalle. «Non è colpa mia se guidi come una vecchietta, Laz». La Nicholson picchiettò con un dito sul braccio della Steel. «Ehm… perché lo chiama Laz?» «È il diminutivo di Lazzaro. Ricordi il Mostro di Mastrick? È stato Laz, qui, a prenderlo. E si è ritrovato ad affrontarlo armato di coltello sulla cima di una torre». «Non è andata così». «Chi sta raccontando la storia, io o te?». La Steel prese un altro tiro di sigaretta elettronica. «Quindi sì, andò così: uno scontro all’arma bianca». La Nicholson aggrottò la fronte. «Ma perché Lazzaro?» «Perché il nostro ragazzone, in quell’occasione, si è fatto ammazzare». La giovane agente sgranò gli occhi, nello specchietto retrovisore. «Cosa è successo?». Logan cambiò presa sul volante e girò su Duff Street. «Mi sono ripreso». La Steel sbuffò. «Siamo arrivati?»
«Stia zitta». L’ometto basso sbatté le palpebre, fissandoli da dietro un paio di occhialetti dalla montatura pesante. «Prego?». Si strinse sul petto la vestaglia, nascondendo la mappa geografica di cicatrici e bruciature di sigaretta che aveva sulla pelle, e passandosi l’altra mano sulla sommità lucida del cranio. La Steel si sporse avanti, fino a trovarsi sul bordo della poltrona. «Non è una domanda difficile, ti pare, Marky? Dov’era?». L’uomo sbuffò, gonfiando le guance. Poi si strinse nelle spalle. «Qui, probabilmente. Non mi piace molto uscire. Non dopo…». Mark Brussels si schiarì la gola. «Be’, probabilmente è meglio così. Probabilmente. Insomma, di sicuro le avrete sentite certe storie, no? Persone che sono state condannate per crimini sessuali che vengono picchiate per strada». Fece un cenno verso l’esterno. E poi strinse le ginocchia. «Persone che scompaiono». Lei prese la sigaretta elettronica e la succhiò. «Che scompaiono? Come Neil Wood?» «Ne sono accadute tante di queste storie. Pestaggi. Scomparse. Cittadini preoccupati che se la prendono con poveracci come noi». «Poveracci?». Lei tirò fuori la sua lista. «Qui dice che ha abusato di bambine anche di sette anni di età, per dodici anni di fila». Logan ondeggiò sulle caviglie. «Quando ha ricevuto la sua ultima visita da parte degli agenti di controllo, Mr Brussels?». L’orologio sulla cappa del camino continuò a ticchettare nel silenzio. Un piccolo terrier puzzolente russava disteso sulla schiena su un cuscino a scacchi in un angolo. Una radio, in un’altra stanza, diffondeva le note zuccherose di una canzone di una boy-band. Il parquet scricchiolava mentre la Nicholson continuava a camminare per la casa, dopo aver finto di dover andare in bagno. Logan considerò di scambiare due parole con lei, più tardi, per spiegarle che non era il caso di somigliare a un elefante con le scarpe da tiptap. La Steel gonfiò le guance. «Avanti, Marky, qui sta diventando come una seduta dal dentista. Quando sono stati qui l’ultima volta quelli della Pattuglia Antipervertiti?» «Be’…». Gli occhi dell’uomo scivolarono verso lo schermo vuoto come lo sguardo di uno zombi della tv spenta. «Hanno detto che non sono più un rischio, quindi potevo passare a una visita ogni sei settimane. A dire il vero, mi manca la loro compagnia». Si alzò in piedi. «Qualcuno gradisce del tè?». «A me sembrano tutte stronzate, Billyboy». La Steel appoggiò i piedi sul basso tavolino che aveva di fronte. Si guardò intorno, stringendo gli occhi. «Uno come lei che si lascia sfuggire una cosina deliziosa in uniforme scolastica? Nah, non è nel suo stile». L’uomo in cardigan beige la fissò con gli intensi occhi azzurri che spiccavano sotto alle cespugliose sopracciglia bianche. «Mi chiamo William, non “Billyboy”, e la pregherei di togliere i piedi dalla mia mobilia, grazie». La schiena rigida come un’asse da stiro, i capelli grigi all’indietro, a scoprire la fronte alta. «È già abbastanza brutto vederla arrivare qui in un orario fuori dalla grazia di Dio; il minimo che può fare è avere la civiltà di non trattare casa mia come il porcile in cui vive lei». Logan fece un passo avanti. «Forse…». «No, no, no». La Steel sollevò una mano. «Billyboy ha tutto il diritto di lamentarsi, se vuole». Gli rivolse un sogghigno tutto denti innaturalmente bianchi. «“Porcile” perché siamo “porci”, ovvero poliziotti, giusto? Molto sottile. Il suo file non diceva che è così acuto». Tolse i piedi dal tavolino. «Ma dice che le piacciono le bambine. Dai quattro ai nove anni, giusto?». L’espressione dell’uomo si indurì: una lastra di granito dal naso adunco. «Non erano altro che voci infondate. L’intero processo è stato una farsa, dall’inizio alla fine. Una schifosa vendetta da parte di un mucchio di trogloditi ignoranti!».
Il rumore dello scarico del bagno fece tremare le tubature dietro la parete. La Steel sporse le labbra, facendo diventare la bocca circondata di rughe molto simile al didietro di un gatto. «Ma è stato abbastanza perché la giuria la condannasse a otto anni di carcere, giusto?» «Schifose menzogne». «Com’è che la chiamavano i rotocalchi scandalistici? No, non me lo dica… Ah, sì: il Pedo-iatra!». Certo, come se quell’approccio potesse essere d’aiuto. Logan tirò fuori il taccuino. «Mr Gilcomston…». «Dottore. Dottor Gilcomston, grazie». «Dottor Gilcomston, qualcuno l’ha per caso minacciata? Ha motivo di credere che qualcuno possa volerla aggredire?» «L’ignoranza è una piaga diffusissima nella nostra società, sergente». La Steel appoggiò il mento sulle mani. «E nessuno ha cercato di mettersi in contatto con lei?». Sfarfallò le ciglia. «Non so, per esempio qualcuno come Neil Wood?». Ci fu una pausa. «Se sta implicando che io abbia qualcosa a che fare con quel pervertito, sappia che mi sta offendendo». La porta del soggiorno si aprì e la Nicholson entrò nella stanza. «Mi scusi. Deve essere stato qualcosa che ho mangiato». Gilcomston rabbrividì. «Be’, spero che abbia pulito la tazza a dovere. Non ho nessuna intenzione di ripulire la sua immondizia». Il sorriso alogeno della Steel tornò a lampeggiarle sul viso. «“Immondizia”! Un’altra eccellente battuta contro la polizia. Oggi è come il dannatissimo Oscar Wilde, eh, Billyboy?». Logan abbassò la voce a un sussurro. «Sto soltanto dicendo che potremmo ottenere qualcosa di più, se lei la smettesse di essere così maleducata con tutti». La Steel si appoggiò allo schienale di pelle del divano e vi distese le braccia. «Niente male questo posto, eh? Mi stavo giusto domandando quanto potrebbe costare». Si trovavano in una villetta vittoriana su Church Street, con grandi finestre a golfo e un enorme giardino. Stampe con scene di caccia alle pareti, pigne e pot-pourri nel camino, sotto a una cappa di marmo scolpito. Un pianoforte a coda. Una libreria con le ante di vetro, piena di volumi rilegati in pelle. Lampade di lusso a tenere lontana l’oscurità della notte. «Il dottor Gilcomston…». «È un bastardo pervertito. E non è neanche un dottore: l’hanno radiato dall’albo, dopo la condanna». La Nicholson intrecciò le dita dietro la schiena. «Devo di nuovo fare la scenetta del bagno?». La Steel tamburellò le dita sul cuoio color tabacco. «Ognuno deve contribuire come può». L’agente sospirò. Poi si strinse le braccia intorno al busto. «Inizieranno a pensare che ho la cistite». La porta del salotto si aprì, e una donna corpulenta in coordinato violetto avanzò nella stanza come una chiatta color lavanda. Portava occhialetti a mezzaluna sulla punta del naso a patata. Solo le pantofole morbide che strisciavano sul vecchio tappeto lanoso facevano capire che era stata buttata giù dal letto, un po’ dopo l’una di notte. La donna posò un vassoio con dolcetti, tazze e una teiera, sul pianale di vetro del tavolino. «Chi è che ha la cistite?». La Steel indicò con il pollice la Nicholson. «È tutta la sera che perde come una vasca da bagno bucata». Ci fu una breve pausa di silenzio, poi la Nicholson strinse le ginocchia. «A dire il vero, mi scusi per il disturbo, ma potrei…?» «Un bagno è vicino alla porta sul retro, l’altro in cima alle scale a sinistra». «Grazie». E con questo, l’agente si allontanò.
La signora Coordinato si sistemò su una poltrona di pelle. «Allora, devo la vostra visita a queste stupide minacce?». Logan lanciò un’occhiata al taccuino. «Minacce, Mrs Bartholomew?» «Sì, minacce. Me le lasciano nella buca delle lettere, come dei dannati menu di cucina takeaway. “Brucerai all’inferno per quello che hai fatto. Dio non ti salverà. Stiamo arrivando”. Questo genere di cose». Sbuffò. «“Stiamo arrivando”. La gente non ha proprio alcun senso del decoro. Del resto, questa è l’epoca in cui viviamo, suppongo». Prese la teiera. «Posso offrirvi un tè?». La Steel sorrise. «Non è così che si è ficcata nei guai, all’inizio?». Un viso grassoccio e corrucciato sbirciò verso di loro attraverso lo spiraglio aperto tra la porta e lo stipite. La luce dei lampioni rendeva più evidenti i cerchi scuri sotto gli occhi dell’uomo, mentre li osservava da capo a piedi. «Ma lo sapete che ore sono?». La Steel fece scattare avanti il polso, in modo da far sporgere l’orologio dall’estremità della manica. «Sì. Ora, ci invita a entrare per fare due chiacchiere con lei, o dobbiamo trascinarla per il collo?». La Nicholson entrò in macchina. «Quanti ne abbiamo sentiti, finora?». Logan accese il motore. «Undici». «Pfff…». Lei si afflosciò, ben visibile nello specchietto retrovisore. «Il suo vecchio capo è… particolare». L’ispettore capo Steel camminava avanti e indietro sul marciapiede di fronte alle casette con il terrazzo, il cellulare premuto contro l’orecchio e la sigaretta elettronica in bocca. Una mano gesticolava con forza, enfatizzando qualunque concetto stesse sottolineando, anche se chiunque fosse dall’altra parte della linea non avrebbe mai potuto vederla. «Oh, poco ma sicuro». Logan piegò la testa da un lato e dall’altro, sciogliendo i nodi nei tendini del collo. «Il lato positivo della faccenda è che potremmo averti trovato un soprannome». La Nicholson si coprì gli occhi con una mano. «Sergente, giuro su Dio che se è “Pisciona” la strangolerò con le sue stesse cinture di contenimento». Lui sogghignò. «Non mi è mai neanche passato per l’anticamera del cervello». Lei si girò a guardare le case. C’era una luce accesa nell’appartamento che avevano appena visitato; le tende erano aperte e una figura era stagliata nella cornice della finestra. Alta, magra e con i capelli lunghi. Poi le tende si richiusero. La Nicholson continuò a guardare. «Mi sembrava troppo giovane per dare fastidio a delle bambine, non trova? Lui stesso era poco più che un bambino». «Pensi ancora che sia tutto rose e fiori, in un Team Investigativo Primario?» «In effetti, credevo fosse un po’ più…». La Nicholson si strinse nelle spalle. «Insomma, ha capito». La Steel chiuse la telefonata e si ficcò in tasca il cellulare, per poi muovere a passo di marcia verso l’auto. Logan annuì. «Se può consolarti, stai seguendo una lunga fila di agenti in una nobile tradizione». «Quella di piscione di turno?» «Io l’ho fatto per un sacco di tempo. “Oh, mi sta scoppiando la vescica, posso usare il bagno?”. E poi andavo a frugare nei cassetti e negli armadi mentre il capo di turno faceva domande idiote». «Già…». Gli angoli della bocca della Nicholson si tesero verso il basso, i tendini del collo che si facevano evidenti sotto la pelle. «Non crederebbe a certa roba che ho trovato stasera. Insomma, non roba pedopornografica o simili, ma vibratori, lubrificanti e oggetti strani come palline da pingpong attaccate a una cordicella». Arricciò il labbro superiore. «Quel tizio, il dottore, aveva un dildo anale, un bavaglio con la palla e delle manette pelose. Insomma, riesce a immaginarlo tutto lubrificato e…».
Lo sportello del passeggero si aprì e la Steel si lasciò cadere sul sedile. Tirò fuori la lista dei pervertiti e una penna, e tracciò una spessa riga rossa sull’indirizzo del giovane che molestava bambine. «Bene. Il prossimo: Windy Brae». Logan soffocò uno sbadiglio. Poi picchiettò con un dito sull’orologio del cruscotto. «Sono le due e venti. Io devo presentarmi in tribunale domani, se lo ricorda?» «Che c’è, hai paura di non fare bella figura se non dormirai abbastanza? Credimi, ti sei già perso quell’opportunità quando hai deciso di rasarti i capelli a zero e iniziare a somigliare a uno scroto». Lui aprì la bocca… e la richiuse. Poi si girò a guardarla. «Perché è qui?» «Te l’ho già detto: sto cercando di arrestare l’assassino di una…». «Oh, no. Non è così. Questo…». Indicò l’appartamento dove erano appena stati. «Infastidire tutti i pervertiti registrati? Questo non è un lavoro da ispettore capo. Forse da sergente, al massimo da detective». Lei richiuse lo sportello. «Non c’è niente di male nell’andare orgogliosi del proprio lavoro, no?» «Ha fatto incazzare qualcuno, vero? È per questo che è qui. Per punizione. Ha detto qualcosa che non doveva dire a Finnie o a Young». La Steel strattonò la cintura di sicurezza e la allacciò con un gesto un po’ troppo precipitoso. «Oh… vai al diavolo».
Capitolo 11
Logan controllò l’orologio. «Bene, un altro quarto d’ora e abbiamo finito». La Steel spostò il peso da un piede all’altro, mentre la Nicholson suonava di nuovo il campanello. Il cottage era in cima a una collina, e guardava verso la scogliera e il mare. Tutto era immobile e silenzioso, e la sottile falce di luna nel cielo dava a ogni cosa il colore del peltro. Non c’era altro che campi e cespugli di ginestra per miglia e miglia. Un filo di vapore si levava dalla sigaretta elettronica verso la notte stellata. «Una volta eri molto più divertente». «Solo perché lei è costretta a fare il turno di notte, non significa che avremmo dovuto farlo anche noi. C’è qualcuno che domani dovrà presentarsi davanti a una corte. Di solito dovrebbero passare almeno undici ore tra la fine di un turno di lavoro e una testimonianza in tribunale. Ma ormai è andato tutto al diavolo». «Non dire che non sono mai buona con te: Swanson deve andare ad Aberdeen, domattina, per depositare i risultati della ricerca: ti darà un passaggio. E potrai farti una dormita per tutto il tragitto». La Nicholson si allontanò dalla porta, per poi alzare lo sguardo alle finestre. «Non sembra in casa». Un altro sbuffo di sigaretta elettronica. «Proviamo dal retro». Accese la torcia a led e superò i cespugli di rose per raggiungere il lato posteriore del cottage. La Steel si ficcò le mani nelle tasche, con la finta sigaretta stretta tra i denti. «Non so perché ti lamenti tanto. Il caso è blindato: Graham Stirling passerà il resto della sua vita a giocare a raccogli la saponetta con stupratori e assassini». Logan si appoggiò alla parete con la schiena. Sbadigliò. Stiracchiò braccia e gambe. «Avanti, ora la Nicholson non è più qui: cosa ha combinato?» «Al diavolo». La Steel prese un tiro profondo, sbuffando fuori un sottile filo di vapore. «Ti viene mai in mente che potrei sentire la mancanza di queste cose?» «Cosa, svegliare i pervertiti nel bel mezzo della notte?» «Non sto parlando dei pervertiti…». La donna tirò fuori una mano dalla tasca e gliela posò con forza sul petto. «Questo. Io e te: Cagney e Lacey; Holmes e Watson; Dalziel e Pascoe». O forse Stanlio e Ollio, sarebbe stato più appropriato. «Credevo avesse Rennie, ora». «Rennie non è lo stesso. Piange, quando lo prendo in giro. E alla prossima battuta, temo che McKenzie si farà venire un aneurisma». Un gufo bubolò nei campi dietro al cottage. Subito dopo si udì il rumore sordo di qualcuno che sbatteva contro dei vasi, seguito da una sommessa imprecazione. Logan si accigliò, guardando verso l’oscurità. «Pensa che ci sia qualcosa da investigare su questi pervertiti che vengono assaliti e spariscono? Sono già due volte che succede». «Due volte su quanti pedofili, una ventina? Non ha molta importanza, statisticamente parlando, no?» «Tre, se si conta anche la minaccia del “Brucia all’inferno” di Mrs Bartholomew. Inoltre, il padre di Neil Wood è stato picchiato, oggi. Be’, tecnicamente ieri, ormai, ma ha capito cosa intendo». La Steel succhiò un altro tiro profondo dalla sigaretta elettronica. «Non che non se lo meritino, giusto?».
Tutti i parcheggi fuori dalla stazione di polizia erano occupati, tra autopattuglie e macchine anonime, tutte illuminate dalla sottile luce alogena della zona. Anche il parcheggio sul davanti era pieno. Tra i vari veicoli ne spiccavano un paio di osservazione della polizia e un Transit in pieno assetto da rivolta, con la griglia anteriore sollevata come un sopracciglio sorpreso. Logan trovò un posto dove parcheggiarsi più giù lungo la strada. La Steel si alzò dal cigolante sedile del passeggero e si fermò ad aspettare sul marciapiede, stiracchiandosi pigramente. La camicia di seta azzurra si sollevò, esponendo una striscia di pelle pallida e l’ombelico. «Pffff…». La donna si grattò. «Pensi che si possa trovare qualcosa da mangiare? Sto morendo di fame». Logan accennò alla stazione di polizia. «Ci sono dei distributori automatici, nella mensa. Pacchetti di patatine, bibite energetiche e cioccolato». Le sopracciglia della Steel si piegarono all’ingiù, dandole lo sguardo del cucciolo triste. «E delle patatine fritte vere? No?». La Nicholson uscì dallo sportello posteriore dell’auto, seguendoli sul marciapiede. «Il panettiere apre alle cinque. E fanno un ottimo pasticcio di pollo al curry». La Steel controllò l’orologio, poi afflosciò le spalle. «Ancora un’ora e venti minuti… sarò già morta di fame, a quel punto». «Bene, allora può tenere compagnia a Hector». Logan inserì il codice nel tastierino numerico vicino all’ingresso destinato ai fornitori. Poi si coprì la bocca per nascondere un lungo sbadiglio. Il suono dei telefoni filtrava attraverso l’edificio. Voci piuttosto alte. Qualcuno che rideva. La Nicholson indicò il corridoio, nella direzione dell’ufficio degli agenti. «Prima di tutto le scartoffie, sergente?» «Chiudi i rapporti e tornatene a casa. E chiedi tre ore di straordinario». Si volse alla Steel. «Mi pare giusto, no?» «Dannati agenti, vi state mangiando tutto il mio budget…». La Steel si voltò ed entrò a passi pesanti nell’ufficio principale. Due agenti erano seduti alla scrivania di Maggie, uno intento a inserire voci in un foglio di calcolo e l’altro piegato su un mucchio di buste di prove. Stava leggendo a voce alta i numeri sulle etichette, mentre il suo compagno li inseriva nel foglio di calcolo. Una donna in tailleur color carbone era seduta all’altra scrivania, la punta della lingua che sporgeva dall’angolo delle labbra mentre batteva con due dita sulla tastiera. Una ruga dritta in mezzo alle sopracciglia e una massa di capelli ricci e castani, legati sulla nuca in qualcosa che sembrava un misto tra una coda di cavallo e uno chignon. Nessuno di loro alzò lo sguardo, finché la Steel non schioccò le dita tre volte. «Ehi, Becky: ci sono messaggi?». La donna in tailleur sobbalzò. Poi recuperò un mucchio di post-it accanto a lei. «Il cadavere è arrivato ad Aberdeen, capo. L’autopsia verrà effettuata alle nove e mezzo. Il sergente Rennie vorrebbe sospendere le ricerche fino all’alba. Dice che ora è troppo buio per…». Un altro schiocco di dita. «So leggere, detective McKenzie: dammi quei cosi». Becky le porse i post-it. Serrò la mascella, i muscoli che guizzavano. «Sì, capo». La Steel passò da un quadratino giallo all’altro, allontanandoli dagli occhi e assottigliando lo sguardo. «Pfff… Non c’è neanche uno stronzo in tutta la polizia capace di prendere una decisione da solo?». Se li ficcò in tasca. «Se qualcuno ha bisogno di me, sono di sopra. Nel bagno delle donne. A fare le puzze». Fece una pausa sulla soglia. «E vedete di procurarmi una tazza di tè, eh? E qualcosa da mangiare». Poi si allontanò lungo il corridoio, dirigendosi verso le scale.
Un secondo. Due. Tre. Quattro. E il sorriso morì sul viso di Becky. Gli occhi si strinsero sulla porta. La voce sibilò, ridotta a un sussurro tagliente come un coltello seghettato. «Di cosa è morto il tuo ultimo schiavo, vecchia scopa?». Si girò e uscì a passi rabbiosi, diretta alla mensa. Sembrava che la Steel avesse ragione: quella donna stava per procurarsi un aneurisma. Non c’era niente di meglio che gestire un team felice e contento. Logan oltrepassò la stanza, diretto all’ufficio dei sergenti, e aprì la porta. Poi si bloccò. Un tizio magro in completo blu era seduto al suo posto. Con i piedi sulla sua scrivania. Si grattava la nuca con una penna e teneva premuto il cellulare contro l’orecchio. «…sì, era quello che avevo pensato anch’io…». Si accigliò. Poi guardò in direzione di Logan: aveva il naso lungo, un taglio di capelli elegante con il ciuffo sulla fronte, una barbetta curata. «Levati di mezzo, sono al telefono… No, non lei, capo. Un tipo in uniforme… Sì…». E poi rise. Logan annuì. Entrò nella stanza, sbattendo la porta alle sue spalle, abbastanza forte da far sobbalzare il coglione in completo. «E lei sarebbe?». L’uomo si leccò le labbra. Tolse i piedi dalla scrivania e raddrizzò le spalle. «Al telefono». Probabilmente era troppo giovane per essere uno dei capi, ma con quegli ultimi programmi a carriera fulminante, non si poteva mai sapere. «E mi dica, ispettore, per quanto pensa di dover utilizzare il mio ufficio?» «Scusi, capo, mi dia un minuto». Premette il cellulare contro il petto, coprendone il ricevitore. «Sono un detective. Detective Dawson. Team Investigativo Primario». «Ah, capisco». Dawson, il bastardo sessista che pensava che Janet dovesse fare da cameriera a tutti loro. Logan si sganciò la cintura e la lasciò cadere sul piccolo schedario grigio dove tutti i taccuini venivano depositati alla fine di ogni turno. «Be’, se l’avessi saputo, non l’avrei mai importunata». Piantò la punta delle dita nell’apertura sul lato del giubbotto antiproiettile, aprì le chiusure in velcro e poi fece lo stesso sulla spalla, facendoselo scivolare via dal busto. «Un uomo grande e importante come lei ha sicuramente cose più importanti di cui preoccuparsi, che la gestione della Divisione b». Un sorriso arricciò le labbra di Dawson il Coglione. «Lei e io abbiamo un problema?» «No, no, no. Ci mancherebbe altro». Logan appese il giubbotto antiproiettile al gancio dietro la porta. «Che ne dice se le faccio fare una bella tazza di tè da uno dei miei?». Dawson spalancò la bocca per un attimo, aggrottando la fronte. Poi il sorriso tornò. Ampio e magnanimo su quel faccino elegante. «Mi sembra… molto gentile da parte sua, sergente. Grazie. Con latte, e due zollette di zucchero». «Nessun problema». Logan sollevò entrambe le mani a palmo in su. «Ci penso io». Tornò nell’ufficio principale. Becky lo oltrepassò quasi a passo di carica, con una tazza in una mano e un pacchetto di patatine nell’altra. Imprecando tra i denti mentre sbucava in corridoio, puntando verso il piano superiore. Logan raggiunse l’ufficio degli agenti. La Nicholson stava battendo sulla tastiera per concludere i rapporti della giornata. Lui si appoggiò alla scrivania. «Non immaginerai mai chi ho appena incontrato». Lei alzò lo sguardo dallo schermo. «Babbo Natale?» «Il tuo bastardo sessista preferito, il detective Dawson». «Urgh…». Lei tornò a digitare sulla tastiera, con più violenza di prima. «Spero che si becchi la sifilide. Da un Rottweiler incazzato». «Non mi stupirei che si intrattenesse con…».
La porta dell’ufficio si aprì di scatto, facendo entrare l’agente che digitava i numeri delle etichette sulle buste nel foglio di calcolo: una faccia larga con qualche crosticina scura lungo il doppio mento, come se si fosse rasato troppo in fretta. «Sì, salve. Scusate». Un sospiro. «Sentite, il detective Dawson dice che se dovete preparare il tè, avremmo bisogno di tre tazze con latte e una zolletta di zucchero; quattro solo con latte; due caffè macchiati e uno nero con due zollette di zucchero. Per caso avete dell’Earl Grey? Al capo piace molto». La Nicholson si alzò in piedi di scatto. «Ora ascoltami bene, fi…». «Sarà un piacere», la interruppe Logan, alzandosi e battendo una pacca sulla spalla di Janet. «Non è così, agente?». Ci fu una pausa. L’uomo con le croste sul mento si strinse nelle spalle. «Sto solo facendo quello che mi hanno chiesto di fare». Lei esalò un respiro sibilante. «Sì, sergente». La Nicholson sistemò le tazze in fila, di malagrazia, sul bancone accanto al lavandino. Tutte e dieci. Mise a bollire l’acqua, poi fece cadere una bustina di tè e qualche cucchiaiata di caffè istantaneo nelle varie tazze. Logan si appoggiò al distributore automatico, accartocciando nel palmo l’avviso secondo il quale i prezzi della macchina sarebbero saliti ancora. «E non dimenticarti il latte». Lei lo guardò con riprovazione. «Non riesco ancora a capire perché dobbiamo servire e riverire quei…». «Perché noi siamo dei bravi piccoli poliziotti di provincia che sanno stare al loro posto». Allungando il braccio sinistro, Logan raggiunse la porta della mensa e la spinse. Il battente girò e si chiuse con un tonfo. La stanza aveva le pareti intonacate di un color magnolia molto industriale. Qualche bidone dell’immondizia, il distributore automatico e un televisore su una mensola da un lato; un tavolo blu al centro; gli scaffali, la cucina e il lavandino sulla parete opposta. Uno gnomo da giardino in cemento era appollaiato sul davanzale; qualcuno gli aveva dipinto gli occhi con il bianchetto e un pennarello nero, donandogli un paio di sinistre sopracciglia, per poi ficcargli in mano un tagliacarte spezzato. Probabilmente, per fare la guardia al salvadanaio a forma di maialino. Logan tirò su il porcellino di coccio e lo scosse. Tintinnò appena. La Nicholson lo indicò. «Vede? Non contribuiscono neppure alla cassa comune per il tè e il caffè. Luridi spilorci…». «D’accordo». Logan cercò qualcosa nelle tasche della felpa. «L’acqua bolle?». Lei controllò «Quasi». Poi si imbronciò. «Insomma, sergente, non è giusto». «Stiamo soltanto preparando ai nostri cari colleghi una buona bevanda calda. Non c’è niente di male in questo». La Nicholson posò il grosso cartone di latte parzialmente scremato vicino alla cucina. «Come fa a rimanere così calmo in questa situazione?» «Perché io sono un adulto». Tirò fuori le confezioni di quello che aveva preso al Tesco di Fraserburgh. «Quattro scatole di sollievo violento e imprevedibile». Ne lanciò una alla Nicholson. «Qual è la dose raccomandata?». Accigliandosi, lei controllò le istruzioni. «Una capsula prima di andare a dormire. Ma perché sta…?» «Che ne dici: tre o quattro per tazza?». Lei spostò il peso da un piede all’altro. «Non pensa che… sì, insomma, se ne accorgeranno?» «No, non nel tuo ottimo tè. Triturale bene, e vediamo se riusciamo a far cacare sotto i nostri graditissimi ospiti».
Capitolo 12
I raggi del sole entravano nella stanza, attraversando le tende sottili. L’odore di muffa era ancora avvertibile nonostante l’attacco combinato di due deodoranti a presa elettrica; messo all’angolo, ma ancora combattivo. Dalla radiosveglia provenivano le note gracchianti di una canzone vivace e allegra. Logan si girò sulla schiena e premette il pulsante per zittirla. Restò disteso a fissare la selva di macchie scure sul soffitto. Quella sembrava un bisonte. Quell’altra un piede maciullato. E quella laggiù… la Norvegia? Le pareti non se la cavavano molto meglio: coperte di carta da parati arricciata e staccata, di una rivoltante tonalità che somigliava a una mousse di ribes nero. Casa dolce casa. Fu scosso da un enorme sbadiglio, mentre allungava gambe e braccia, sotto alla coperta. Per poi restarsene lì, abbandonato e perso, a sbattere più volte le palpebre. Erano le sette. Aveva dormito per ben due ore e mezzo di seguito. Forza: in piedi. Graham Stirling non si sarebbe condannato da solo. Si alzò dal letto e si trascinò fino alla finestra, i piedi nudi che strusciavano sul parquet. Scostò di qualche centimetro una delle tende. Il cielo era di un azzurro cristallino, con qualche fiocco di nuvola molto in alto. La marea si era ritirata, lasciandosi dietro una striscia di sabbia chiara da lì fino al fiume Deveron. Qualche orlo di schiuma bianca si muoveva sull’ampia distesa del mare. Uno yacht si allontanava nel blu. «Unngh…». Si grattò. Sbadigliò. Cthulhu saltò sul davanzale accanto a lui, atterrando in un silenzio spettrale. Emise un basso miagolio, per poi spingergli la testolina contro un braccio. Piccola e pelosa, con il mantello tigrato e una coda quasi più grande del resto di lei. Logan le grattò un orecchio peloso, facendole socchiudere gli occhietti e fare le fusa. La radiosveglia si rianimò in quel momento. Alle note finali della canzone di prima si sostituì la voce allegra di una donna. «Non so a voi, ma a me piace!». Le fusa si interruppero. Cthulhu scosse la testa e saltò giù sul pavimento, atterrando come un sacco di mattoni, per poi allontanarsi, con la coda dritta in aria. Aveva sicuramente qualcosa di fondamentale da fare. «L’appuntamento con il notiziario e le previsioni del tempo è alle nove e trenta. E ne sapremo qualcosa di più riguardo alle ricerche di Neil Wood, il quarantatreenne scomparso. Ma adesso, godiamoci l’ultimo singolo dei Monster Mouse Machine…». Al diavolo. Era ora di una doccia veloce, e poi via verso Aberdeen. «D’accordo, d’accordo, arrivo…». Logan si avvolse il telo intorno alla vita, fece scivolare i piedi bagnati nelle pantofole e scese le scale, mentre il campanello continuava a strillare fastidiosamente. Superò il corridoio, puntando verso la porta. La aprì di scatto. «Che succede?». Oh… fantastico. L’ispettore capo Steel sollevò un sopracciglio e prese un lungo e lento tiro dalla sigaretta elettronica che le sporgeva dall’angolo delle labbra. «Sono lusingata, ma non credo che mia moglie approverebbe». I suoi capelli erano tutti schiacciati da un lato, mentre l’altro lato sembrava aver deciso di proclamare l’indipendenza dalla testa. Ombre scure le coloravano le borse sotto agli occhi. E altre ombre scure le circondavano le ascelle della stessa camicia di seta azzurra che
indossava il giorno prima. La giacca appesa a una spalla, una grossa busta di plastica che pendeva dall’altra mano. Accennò al torso di Logan. «Belle cicatrici, comunque». Lui incrociò le braccia sui segni rilevati e chiari. La Steel aggrottò la fronte. «Sei dimagrito. Che è successo al morbido orsacchiotto McRae che tutti conosciamo e amiamo? Sei diventato tutto pelle e ossa». «Ci provi lei a scarrozzare in giro per dieci ore al giorno più di sei chili di equipaggiamento». Un minibus pieno di signore anziane li superò, i volti avvizziti e pallidi delle occupanti premuti contro i finestrini. Ci fu un coro di esclamazioni entusiaste e gesti osceni. La Steel agitò una mano in un cenno di saluto. «Be’, hai intenzione di restare qui a gocciolare con l’uccello di fuori, o pensavi di invitarmi a entrare?». Lui sbuffò, si girò e tornò dentro. «Non posso stare molto: devo andare ad Aberdeen con la Swanson, ricorda?». La Steel si chiuse la porta alle spalle e fischiò tra i denti. «Wow. Rennie aveva ragione, vivi davvero in un buco orrendo». La carta da parati era stata strappata via nel corridoio e sulle scale, con l’intonaco rovinato e pieno di macchie. Un cavo elettrico grigio pendeva dal soffitto, con la sua lampadina nuda che somigliava alla goccia sulla punta di un naso non soffiato. La polvere si accumulava a mucchi su ogni gradino delle scale, la vernice scura che ne laccava il legno sbiadita e rovinata ai lati della striscia più chiara dove un tempo correva la moquette. Non c’era moquette neanche sul pavimento. Piccoli tratti rovinati di linoleum creavano punti irregolari sulle assi di legno. La Steel aprì una porta nel corridoio. La stanza era piena di scatoloni di cartone. Non proprio dal pavimento al soffitto, ma quasi. «È la tua collezione di riviste porno? È quasi grande quanto la mia». Lui salì le scale, in pantofole. «La stazione di polizia ha usato questo appartamento come archivio di emergenza per decenni. Il bollitore è in cucina. Si renda utile». Quando riscese, asciutto e vestito del tipico nero della Polizia di Scozia, lei era in salotto, con una bottiglia di birra stretta al petto. Stava osservando, accigliata, i libri sulla cappa del camino. Per il resto, c’erano un piccolo televisore in equilibrio sopra uno scatolone di cartone, un divano dall’aspetto usato che sembrava uscito da una vendita di beneficenza, una sedia pieghevole, due scale a pioli con dei teli per la polvere appoggiati sopra e qualche latta di vernice con dei pennelli. E qualche sacco di calce. Lui lasciò cadere la felpa nera sul divano e si infilò la T-shirt nei pantaloni ruvidi. Prese le ciotole di Cthulhu dal tappetino in un angolo. «Sono le sette del mattino. Dove l’ha trovata la birra?» «L’ho confiscata». Un sorso. «Laz, sul serio, questo posto è una discarica. E neanche una di quelle accettabili; questo è il genere di posto che ti costringe a correre dal dottore, dopo esserci stato, perché ti sei preso qualcosa. Metà delle finestre sono sbarrate!». Logan portò le ciotole in cucina. I pensili potevano anche essere economici, ma erano nuovi e puliti. Le pareti di un giallino allegro erano state ridipinte di fresco. Una fila di vasetti di erbe aromatiche faceva bella mostra di sé sul davanzale della finestra, godendo della luce del mattino. Attraverso il vetro, la stazione di polizia di Banff si vedeva nell’angolo opposto della piccola piazza. Tre piani di arenaria sporca, con un finto balcone sopra l’entrata principale e qualche capitello arricciato che sosteneva gli architravi. Degli elementi di pietra simili a urne decoravano la facciata frontale del tetto. Se non fosse stato per l’insegna bianca e blu con la scritta polizia e le file di autopattuglie e furgoni parcheggiati all’esterno, l’edificio sarebbe potuto sembrare un vecchio hotel. Un gruppo di reporter si aggirava davanti all’entrata; bevevano caffè da bicchieri di polistirolo e si scaldavano sotto il sole del mattino. In attesa… Logan svuotò il bollitore, lo riempì e lo mise sul fornello. «Le va un tè?».
La Steel comparve sulla soglia. «Quanto tempo ti ci vorrà per rimettere a posto questa casa? Cinque anni? Dieci?» «Si vedrà. I lavori sono in corso d’opera». «Pfff…». Lei infilò una mano nella busta di plastica e ne tirò fuori una copia del «Daily Mail». L’appoggiò sul bancone della cucina. «A quanto pare, la tua agente Nicholson non è l’unica con un problema di “perdite”». Su gran parte della prima pagina campeggiava una foto di Neil Wood, sotto al titolo “caccia al pervertito – la polizia è alla ricerca di un pedofilo scomparso”. C’era perfino una foto della piscina all’aperto di Tarlair. «Be’, non guardi il mio team, questa è sicuramente opera del suo gruppo di idioti». Infilò una delle ciotole di Cthulhu nella busta di croccantini per gatti, riempiendola. «Allora, cosa è successo con la bambina?» «L’autopsia è alle nove e mezzo. Ci sono Young e Finnie di turno, mentre la sottoscritta si prenderà cinque ore tutte per lei…». Spalancò la bocca in uno sbadiglio da slogarsi la mascella, seguito da un rutto. E da un brivido. E da un altro sorso di birra. «Sono sveglia dalle sette di ieri mattina. Due kebab, tre litri di caffè, una bustina di patatine al formaggio e cipolla e una birra». Sollevò la bottiglia come in un gesto di saluto. «Questo lavoro sta facendo meraviglie per la mia dieta». Logan svuotò la ciotola dell’acqua e la riempì di nuovo. «Allora venga a lavorare in divisione, vedrà che perderà qualche chilo come il sottoscritto». «Bastardo insolente». Un altro sorso di birra. «E questa fuga di notizie non può essere arrivata dal mio gruppo di idioti. La maggior parte di loro ha passato la notte a bombardare a tappeto i cessi. È stato come rivivere la battaglia di Dresda, ieri notte, alla stazione di polizia». Un cenno. «Fortunatamente, io sono più tosta di loro». Aveva soltanto avuto la fortuna di farsi portare una tazza di tè dal detective McKenzie prima che lui e la Nicholson avvelenassero quei bastardi, a dire il vero. Logan si asciugò le mani su uno strofinaccio. Fece del suo meglio per sembrare innocente. «Può farmi un favore?» «Se devo spogliarmi anch’io per fartelo: no». «Un paio di stronzi locali hanno ricevuto un grosso carico di droga dal sud. Ho un mandato per perquisire il nascondiglio. Ma ieri non ci sono potuto andare, per via del ritrovamento della bambina…». Attraversò il salotto per rimettere al loro posto le ciotole di Cthulhu. «Se li lasciamo in pace un altro po’, divideranno il carico e lo faranno sparire per le strade. E lei ha tutte le forze della divisione a sua disposizione». Tornò in cucina. «La smetti di andare avanti e indietro? Mi stai facendo venire il mal di mare». La Steel inghiottì quel che restava della birra, poi posò la bottiglia sul pianale della cucina. E afflosciò le spalle. «Quando, e quanti uomini ti servono?» «Domani sera. Diciamo… quattro specializzati e un cane antidroga? Quello di Syd Fraser è bravo, se potessimo avere lui». Un enorme sbadiglio la fece tremare e stiracchiare, con le spalle fin sotto le orecchie e le braccia sollevate sopra la testa. «Per quanto tempo?» «Un paio d’ore. Circa». Cercò una scodella nella credenza, insieme alla confezione di cereali di una marca sconosciuta. «Quanto alla bambina, state controllando la piscina all’aperto, il parcheggio e gli edifici, giusto?». Versò i cereali nella ciotola. «E se non fosse stata abbandonata lì?». La Steel tirò fuori un apribottiglie e aprì un’altra birra. «Non è certo volata fin lì da sola. Il corpo deve esserci arrivato, in qualche modo».
«C’è del muschio viscido intorno a tutta la piscina principale, soprattutto dal lato del mare. E quel genere di roba cresce soltanto se il muro viene coperto regolarmente dall’acqua. Considerando che abbiamo avuto un paio di giorni di brutto tempo durante il weekend…». Lei lo fissò. Poi si coprì il viso con le mani. «Dannazione. È stata portata lì dal mare». «È sicura di non volere una tazza di tè?» «Voglio andare a fare pipì». «Il bagno è in cima alle scale». Lei risalì i gradini, facendoli scricchiolare sotto le scarpe. Poi si udì il tonfo della porta che si chiudeva. Logan versò un po’ di latte sui cereali e controllò il cellulare: c’erano un messaggio vocale da parte di Deano e uno di testo da sua madre. Che finì cancellato senza essere letto. «Sergente, sono Deano. Senta, organizziamo un barbecue da noi, giovedì sera. Un amico porterà delle bistecche. Le va di unirsi a noi? Ci faccia sapere». Perché no? Sarebbe stato carino godersi una vera cena, per una volta. E per giovedì Graham Stirling sarebbe sicuramente già partito per Barlinnie, dove avrebbe passato il resto dell’esistenza. Inoltre, sarebbero già andati a perquisire il nascondiglio del carico di Klingon e Gerbillo. E avrebbero trovato tanta di quella droga da garantirsi citazioni di merito nei rapporti, medaglie e una parata. Sarebbe stato proprio il momento giusto per festeggiare. Era troppo presto per richiamare Deano. Quindi Logan divorò i cereali, si infilò in tasca il cellulare e fece scivolare una fetta di pane in cassetta in offerta nel tostapane. Fece capolino in corridoio. «Si sbrighi: devo uscire tra un minuto». Non ci fu risposta. «Okay, le lascio la copia delle chiavi sul tavolo. Può uscire da sola». Silenzio. «Senta». Logan raggiunse il fondo delle scale. «Pensavo di andare a trovare Susan, già che sono in città. Per vedere come se la sta cavando. La trovo a casa, oggi?». Niente. Forse non era stata così fortunata con il tè avvelenato, alla fine? «Ehi?». I gradini gli scricchiolarono sotto i piedi per tutto il tragitto. «Non ci è mica caduta dentro, vero?». Quando bussò alla porta del bagno, la vide aprirsi. Fortunatamente, la Steel non era seduta sul gabinetto con i pantaloni alle caviglie. La stanza era vuota, con le sue piastrelle e i suoi sanitari nuovi. Economici ma funzionali. Anche se ci erano volute settimane per sistemare tutto. «Ehi?». A quel punto, sentì uno strano rumore raschiante, come una sega al lavoro su un pezzo di metallo corrugato, proveniente dalla camera da letto. Ci fu una pausa di silenzio. Poi riprese. Mise una mano sulla porta e la aprì. Eccola lì: distesa sulla schiena, sul suo letto, con i piedi ancora sul pavimento. Un braccio disteso a sinistra, l’altra mano appoggiata sul seno. La bocca spalancata. Russava come un contrabbasso. Fantastico. Le sollevò le gambe sul letto, le tolse gli stivali e le drappeggiò addosso una coperta. Dal corridoio si sentì un basso miagolio. Cthulhu entrò nella stanza e saltò sul letto accanto alla Steel. Impastò la coperta con le zampine per una buona manciata di secondi, poi si girò un paio di volte e si acciambellò sul cuscino, accanto alla sua testa. «Stronzetta traditrice». Logan chiuse la porta e le lasciò sole.
Logan si passò la felpa da una mano all’altra ed entrò nella stazione di polizia. L’odore innaturale e acuto del disinfettante e del deodorante per ambienti all’aroma di pino lo afferrò al naso e gli scese fin nella gola. Era come se qualcuno stesse cercando di coprire una puzza terribile. Cercò di mantenere un’espressione seria. Fece capolino nell’ufficio degli agenti: era vuoto. C’era una coppia di scatoloni di cartone al centro della stanza: erano pieni zeppi di buste di carta marrone per le prove, ma a parte quello, l’ufficio era il solito mucchio di poster, avvisi e scrivanie affollate di scartoffie. Non c’era nessuno nella mensa, e neanche nell’ufficio principale. Due giornali abbandonati se ne stavano ripiegati sul bordo della postazione accanto alla scrivania di Maggie, una copia dell’«Aberdeen Examiner» e una dell’«Evening Express». Su una c’era una foto aerea della Tarlair Outdoor Swimming Pool, con una foto più piccola all’interno che ritraeva una sagoma scura che doveva essere una bambina: “cadavere rinvenuto in un belvedere abbandonato del nord-est”. Sull’altra si vedeva un primo piano di Neil Wood: “il pedofilo scomparso ha ucciso una bambina?”. Una sottile colonna laterale portava il titolo: “il processo contro stirling continua”. Si sarebbe potuto pensare che una notizia del genere meritasse più spazio, considerando quello che Graham Stirling aveva fatto a Stephen Bisset. Logan si girò su se stesso. «Ehi, c’è qualcuno?». Forse il Team Investigativo Primario aveva già arrestato chiunque avesse ucciso la bambina e se n’era tornato da dove era venuto? Sarebbe stato fantastico… Tirò fuori le chiavi e aprì l’armadietto blu con il suo nome sopra. Sganciò la ricetrasmittente dal caricatore, la accese e la infilò nella tasca della felpa. Poi si spinse nell’ufficio dei sergenti. E lì si fermò. Il detective Dawson era ancora alla sua scrivania. Solo che questa volta non sembrava più tanto arrogante. Aveva la faccia di un pallore grigiastro, con borse sotto agli occhi di un colore livido. Il ciuffo aveva perso tutta la sua baldanza e gli pendeva floscio sulla fronte sudata. Alzò gli occhi mentre Logan chiudeva la porta. Fece una smorfia, posandosi una mano sul ventre, mentre qualcosa che sembrava una macchina del caffè gli borbottava dentro. «Cosa ci fa qui? Pensavo che avesse il turno pomeridiano». Logan fece del suo meglio per non sorridere. «Non si sente bene?» «Urgh… Dobbiamo aver mangiato tutti del kebab avariato, ieri sera. Metà della stazione ha cominciato a correre al bagno dalle quattro di stanotte». «Che disgrazia». Logan sbloccò il piccolo schedario grigio e aprì il cassetto con il suo taccuino. Se lo infilò in una tasca. «Dovrei farmi dare un passaggio ad Aberdeen da Swanson. L’ha mica vista?» «Sono rimasto bloccato nelle celle per due ore: era l’unico bagno rimasto libero». Dawson gonfiò le guance e si massaggiò la pancia che continuava a borbottare. «Non toccherò mai più un kebab in vita mia». «Sembra una cosa terribile». Non sorridere. Non sorridere. «Allora, la Swanson?» «Non ne ho idea. So soltanto che tutti sono corsi fuori a fermare una rissa fuori dal… Urgh…». Un altro rombo di tuono dalle sue viscere. «Oh, Dio…». Si afferrò alla scrivania. Una pausa. Prese un respiro profondo, e lo esalò in un lungo e basso sibilo. «No, ce la faccio…». Logan si stampò in faccia l’espressione più comprensiva che gli riuscì di fingere. «Be’, ho un paio di minuti, quindi… che ne dice se le porto una bella tazza di tè?». L’agente Swanson spostò la presa sul volante, china in avanti sul sedile mentre affrontavano una curva, dirigendosi a sud sulla a947. Aveva mani grandi, il viso largo e capelli arruffati e castani con meches bionde a larghe strisce, legati in uno chignon sulla nuca. Portava gli occhiali. «Mi dispiace davvero tantissimo. Solo che quei due vecchietti se le stavano dando di santa ragione. Pugni e dentiere che volavano ovunque». Fece una smorfia. «Mi spiace».
«Te l’ho detto, non è un problema. Mi basta arrivare in tribunale per le nove, tutto qui». Logan tirò fuori il cellulare, mentre attraversavano a tutta velocità Castleton Bridge. Nessun nuovo messaggio. Un costante borbottio di chiamate si faceva sentire dalla sua ricetrasmittente: la Divisione b cominciava la sua giornata lavorativa. «Sospetta overdose su Crooked Lane, Peterhead». «C’è qualcuno nelle vicinanze dell’Asda di Fraserburgh? Un taccheggiatore è stato fermato dalla sicurezza del negozio». «A tutte le unità, stiamo cercando un certo Tony Wishart, maschio, bianco, diciotto anni, capelli scuri. Ha un mandato di arresto per effrazione e rapina». «Ci sono state lamentele per rumori molesti a Whitehills, c’è un’unità libera per rispondere? Priorità uno». Logan abbassò il volume e si sistemò meglio contro lo schienale del sedile, come se si volesse fondere con il tessuto. Era bello non dover indossare un giubbotto antiproiettile e una cintura piena di oggetti fastidiosi, per una volta. Fuori dal finestrino, campi di un verde vivace e alberi sfilavano rapidi. Il rollio di sottofondo delle ruote si unì al ronzio della ricetrasmittente e al borbottio ringhioso del motore dell’autopattuglia. E al tintinnio della cassetta di plastica blu sul sedile posteriore. La macchina affrontò un’altra curva, e il crepitio delle buste delle prove all’interno della cassetta si unì al concerto. La Swanson lo guardò con una smorfia. «Speriamo soltanto di non imbatterci nel traffico mattutino dell’uscita per Dyce. Non so se sia meglio o peggio passare da Inverurie o…». «Andrà tutto bene. I laboratori non faranno nulla con quelle prove fino a questo pomeriggio, comunque». Spinse indietro il sedile di un paio di scatti e si coprì gli occhi e il naso con il berretto dell’uniforme. «E se vedremo che si fa troppo tardi, accenderemo le sirene. Non penso che ai piani alti si lamenteranno, se servirà a sbattere in carcere una volta per tutte Graham Stirling». Si stiracchiò, represse uno sbadiglio e sospirò. «Sergente?» «Che c’è?» «Lei non russa, vero?» «Stiamo per scoprirlo». Lo scroscio di applausi cominciò non appena Logan entrò nell’ufficio del cid. Pareti beige, soffitto sporco, moquette ancora più sporca, lavagne magnetiche piene di appunti e linee. Era più piccolo del vecchio ufficio, ma del resto anche il team si era ridotto, dilaniato da tutte le unità specializzate che erano saltate fuori dalla trasformazione della Grampian Police in Polizia di Scozia. Ma la mezza dozzina di agenti lì dentro lo salutò con una standing ovation, una tazza di tè al latte e un panino al bacon. Biorischio gli batté una pacca sulla spalla e aprì il coperchio di una bottiglietta di ketchup, schizzandone un po’ sul panino. «Si deve tenere in forze per oggi». «Già. E tu quando vai a testimoniare?» «Domani mattina». Posò la salsa sulla sua scrivania. «Ma sicuramente a quel punto sarà già tutto finito». Gli altri tornarono alle loro scrivanie e ai loro telefoni, mentre Biorischio lo portò verso uno schedario accanto alla stampante, con la scritta “taccuini” a grandi lettere in pennarello nero. «Mi sono preso questa piccola libertà». Logan morse il panino. Era tiepido, ma sapeva di vittoria affumicata, mentre lui cercava nel cassetto i taccuini che aveva riempito quando stavano cercando Graham Stirling. Li posò sopra la stampante. «E Rennie?»
«Domani pomeriggio. Sempre che sappia come tornare qui, dal buco sperduto in mezzo alle campagne dove vive lei adesso». «Ehi, bada a come parli». Logan prese un altro boccone di panino, buttandolo giù con un sorso di tè. «Hai idea di come stia andando il processo, finora?» «Lo sa come vanno queste cose. Ieri hanno soltanto tergiversato. Argomentazioni preliminari e cose del genere. Niente su cui la giuria potesse affondare davvero i denti. E, a proposito…». Biorischio prese una cartellina verde e gliela porse. «Adesso usano i mock-up». Logan si ficcò in bocca quel che restava del panino e controllò il contenuto della cartellina. Invece delle vere foto della scena del crimine, qualcuno aveva modellato un corpo al computer e vi aveva aggiunto le ferite di Stephen Bisset. Una roba delicata e accettabile per la quindicina di persone che nel giro di un paio di giorni avrebbero spedito in carcere Graham Stirling. Logan rimise le immagini nella cartellina. Poi controllò l’orologio. «Sarà meglio che vada. Sai bene come sono i pezzi grossi, prima di un processo del genere». Inghiottì gli ultimi sorsi di tè. «Ci andiamo a bere qualcosa, dopo?» «Può contarci». Un sorriso illuminò il viso di Bob Biorischio, tutto denti e guance paffute. «La Steel ha perfino messo quindici sterline nel salvadanaio». «Era ora». Logan si ficcò i vecchi taccuini nelle tasche. «Bene, sarà meglio che vada». Bob ammiccò. «È una vittoria annunciata». Arricciò un lato del viso e si piegò a sinistra. Si udì un suono sibilante e acuto. E poi sorrise. «Un portafortuna tutto per lei». L’odore lo investì come una mazzata in testa. Logan arretrò, con gli occhi che quasi lacrimavano, agitando una mano davanti alla faccia. «Buon Dio… che hai mangiato?». Il sorriso sul volto di Bob si allargò. «Oh, sì, Stirling affonderà».
Capitolo 13
Il brusio delle voci riecheggiava dalla stanza dei testimoni. Logan si mise il berretto dell’uniforme sotto un braccio e tirò fuori il cellulare. Si diresse alle scale, superando diverse porte, mentre cercava nella rubrica il numero di Deano e saliva al piano di sopra. Si appoggiò al davanzale di una finestra, mentre il telefono squillava. All’esterno, la pavimentazione di granito di Marischal Street scendeva lungo la collina, interrompendosi davanti alla carreggiata a due corsie del ponte e poi procedendo fino al porto. Le case di tre piani di pietra grigia scintillante di inclusioni di mica sotto al sole avevano abbaini su cui la luce si rifletteva, abbagliante. Una barca si intravedeva sul fiume in fondo alla strada, con lo scafo giallo e nero macchiato di ruggine. Probabilmente avrebbero cominciato a bere al Blackfriars, dopo il processo. Un paio di pinte di birra, e poi sarebbero passati da Archie, dall’altra parte della strada, per una fetta di pasticcio con le patate e altra birra. E poi sarebbero andati all’Illicit Still. Al Prince of Wales. E da Ma Cameron’s… In tutti i vecchi locali di un tempo. Forse perfino al… «Pronto?» «Deano? Sono Logan. Grazie per l’invito al barbecue, mi sembra un’ottima idea». «Ottimo. Verranno anche Janet e Ciuffo. Ho una cassa di bistecche grosse quanto la sua testa». «Domani potremo far valere il mandato di perquisizione per quel carico di droga. Ho ottenuto gli uomini in più». «Ancora meglio. Sarà fantastico arrestare finalmente Gerbillo e quell’idiota di Klingon». «Puoi dire al team di tenere d’occhio il posto, stanotte? Probabilmente sono solo paranoie, ma non voglio che dividano il carico e comincino a venderlo prima che siamo riusciti a entrare lì dentro. Però tenete un profilo basso». «Senz’altro». «Vuoi che porti qualcosa, giovedì?» «Un’insalata di patate? Un po’ di coleslaw? Qualcosa del genere. Sì, e mi raccomando: non già pronta. Deve farla lei. Oops, devo andare: sto bruciando il pane». Logan stava per rimettere in tasca il cellulare quando lo sentì squillare di nuovo. «Ma che diavolo…?». Lo ritirò fuori. Numero sconosciuto. Premette il pulsante di ricezione. «Logan McRae». Silenzio. «Pronto?». Una voce sottile e nervosa gli riempì l’orecchio. «È… è il sergente McRae? Lei ha salvato la vita a mia madre, ieri sera». Lui aggrottò la fronte. Davvero l’aveva fatto. «Oh, Mrs Bairden». La vecchietta nella vasca da bagno. Un uomo robusto in giacca nera, con il cravattino e il colletto inamidato, sbucò dalla porta del pianerottolo al piano di sotto. Lanciò uno sguardo al piano inferiore, poi alzò gli occhi e vide Logan. Aveva orecchie e naso molto piccoli, e gli occhi nascosti in mezzo a una rete di rughe grigiastre. Il funzionario controllò la cartellina che aveva in mano. «Sergente McRae?». Logan annuì, sollevando un dito. Tornò al telefono. «Sta bene?» «I medici hanno detto che ha avuto un attacco di cuore. Se non fosse stato per lei…». Una pausa. «Grazie». Un’ondata di calore gli si espanse nel petto, come un sorso di whisky di malto. «Sono lieto di essere stato d’aiuto».
«Sergente McRae, la stanno aspettando». Il funzionario di corte si accigliò. «E non dovrebbe usare il cellulare qui dentro». «Davvero, grazie di cuore…». «È stato un piacere. Le faccia i miei auguri di pronta guarigione». «Sergente McRae, devo insistere…». «Mi scusi, ora devo andare. Sono in tribunale». «Sì, sì, certo. Grazie ancora…». Quando la donna attaccò, Logan si ritrovò a sorridere. Spense il telefono e lo rimise in tasca. Poi si calcò il berretto in testa e scese le scale, raggiungendo il funzionario di corte. Gli batté una pacca sulla spalla. «Sa, certi giorni mi ricordo perché sono entrato in polizia». La corte non sembrava affatto come quelle che si vedevano di solito in televisione. Era luminosa e moderna, con pannelli di legno chiaro lucidato e pareti color panna. Lunga e stretta, divisa a metà da una partizione che arrivava all’altezza della vita. Un folto gruppo di cittadini di Aberdeen si era accalcato nelle file di posti dedicati al pubblico, con i volti lucidi nella stanza fin troppo calda. Il tavolo della stampa era pieno di giornalisti con le camicie sudate, che digitavano furiosamente sulle tastiere dei portatili o prendevano appunti sui loro taccuini. Al centro della partizione, un pannello di vetro antiproiettile alto due metri e mezzo chiudeva su tre lati la postazione dell’imputato. Graham Stirling era seduto lì, fiancheggiato da due enormi guardie di sicurezza. Invece del prendisole azzurro con cui Logan l’aveva visto l’ultima volta, adesso indossava un ben più sobrio completo scuro. Aveva i capelli più lunghi, che gli si arricciavano intorno alle orecchie. Sembrava più un contabile che un manipolativo e crudele predatore sessuale. Girò la testa, evitando lo sguardo di Logan. Meglio così. Un grosso tavolo ovale occupava gran parte dello spazio di quel lato della partizione. Da una parte c’era l’accusa: un sostituto procuratore e il suo assistente in toga nera e cravatta; accanto a loro, il procuratore, in gessato grigio, con i capelli e i baffi militareschi dello stesso colore. La difesa era seduta al lato opposto: il patrocinante per la corona e il suo assistente in toga, parrucca corta e cravatta bianca; l’avvocato d’ufficio che sembrava un agente immobiliare di Elgin. Il funzionario di corte era seduto tra loro, come un arbitro in una terra di nessuno. La giuria si trovava dietro la difesa, di fronte al banco dei testimoni, con degli schermi televisivi piatti accanto. Altri due enormi schermi si trovavano sulle pareti opposte, per mostrarvi le prove. Niente mogano. Niente decorazioni vittoriane pseudo-gotiche. Niente odore di vecchie sigarette emanato dalla moquette consumata. L’unico accenno a qualcosa di antico era lo stemma intagliato sopra il banco del giudice e la mazza montata sulla parete lì accanto. Be’, e l’abito del giudice. La donna si sistemò la toga bianca, che virava su una vaga tonalità rosata, forse per via delle due grosse croci rosse sul davanti e di un ciclo di lavatrice a temperatura troppo elevata. La parrucca bianca era posata sui suoi lunghi capelli grigi. Aveva un paio di severi occhialetti sul setto del lungo naso sottile. Una mano si massaggiava la punta del mento appuntito, mentre osservava Logan raggiungere il banco dei testimoni. Il funzionario che l’aveva accompagnato attese che si sistemasse, prima di rivolgersi al giudice. «Vostro Onore, si presenta ora in aula il testimone numero sei, il sergente Logan McRae». «Bene». La donna si alzò e sollevò la mano destra. «Sergente McRae, ripeta dopo di me: giuro di fronte a Dio Onnipotente di dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità». «Quindi, sergente McRae», Sandy Moir-Farquharson si sfilò gli occhiali, pulendoli sul bordo della toga nera, «si aspetta davvero che la giuria creda che sia stata una coincidenza, se lei si trovava ai Cults, quella sera?». Si rimise gli occhiali e sorrise. L’espressione non fece che enfatizzare il modo
in cui stava arricciando il naso. Aveva capelli grigi pettinati all’indietro, ritratti sulle tempie, e con la chierica calva in cima alla testa coperta dalla parrucca bianca. Il completo che sporgeva dal bordo della toga probabilmente costava più di sei mesi di stipendio di Logan. Lui raddrizzò le spalle. «Non è quello che sto dicendo. Graham Stirling era lì e cercava di fare una nuova vittima, quindi…». «Obiezione». L’avvocato si volse al giudice, sorridendo. «Vostro Onore, il testimone sta facendo una supposizione». La donna annuì. «Accolta». Poi guardò verso il banco dei testimoni. «Sergente McRae, la prego di attenersi ai fatti». «Lo sto facendo, Vostro Onore. Graham Stirling stava pubblicando degli annunci personali anonimi nell’“Aberdeen Examiner”, in cerca di uomini interessati a rapporti sessuali con transessuali non operati. Seguendo il consiglio del nostro psicologo forense, abbiamo provato a rispondere a uno di questi annunci e abbiamo organizzato l’incontro…». «Ci arriveremo, sergente». Moir-Farquharson controllò i suoi appunti. Probabilmente solo per fare scena. Quel viscido piccolo bastardo di sicuro ricordava tutto a memoria. «Dunque, nella sua testimonianza ha dichiarato di aver iniziato un inseguimento attraverso i giardini sul retro di Hillview Drive perché c’era, e cito le sue parole testuali, “qualcosa di sospetto riguardo a quella persona in prendisole azzurro”. Dico bene? E sospetto in che senso?». «…qualcun altro ha sentito questa presunta confessione, sergente?». L’orologio sulla parete ticchettava silenziosamente. Particelle di polvere vorticavano nel fascio di luce che scendeva dalle finestre. «Sergente?». Logan girò un paio di pagine del suo vecchio taccuino. «Graham Stirling ha detto: “Stephen Bisset sta morendo nel buio, e non puoi farci niente”». Moir-Farquharson scosse la testa. «No, sergente, non le ho chiesto quello che lei afferma di aver sentito, le ho chiesto se c’è qualcuno che può confermare le sue parole». Tick. Tick. Tick. «Eravamo soli nel giardino, in quel momento, ma…». «Pensavo di no». Il sorriso dell’avvocato era ampio e splendente. Doveva avere un bravo dentista. Non si riusciva neanche a distinguere in quale punto qualcuno gli aveva fatto saltare i denti a suon di calci. «Quindi, lei ha aggredito Graham Stirling: l’ha colpito con una testata e gli ha rotto il naso. Ha cercato di fratturargli un polso e poi, miracolosamente, ha ottenuto la sua confessione, che nessun altro ha sentito». Il sostituto procuratore scattò in piedi, puntando il braccio verso il collega della difesa. «Obiezione!». Aveva lunghi ricci grigi tirati indietro a scoprire la fronte alta, e un viso arcigno. La voce roboante non mascherava affatto il netto accento di Edimburgo: «Il sergente McRae ha agito con l’energia necessaria per fermare un sospetto che stava resistendo all’arresto con tutte le forze. Dipingere questa realtà come una specie di confessione ottenuta sotto tortura è agire in malafede, per non dire di peggio». Moir-Farquharson sollevò una mano. «Mi scuso, Vostro Onore. Il sottoscritto non voleva implicare nulla del genere». «Le confessioni prive di conferme da parte di terzi sembrano essere un marchio di fabbrica della sua testimonianza, non trova, sergente? Mi riferisco, ovviamente, a quella che afferma di aver ottenuto da solo sul sedile posteriore dell’auto della polizia…». Tick. Tick. Tick… Logan si sistemò la T-shirt della polizia. «Graham Stirling ha dichiarato che avrebbe parlato soltanto se i miei colleghi fossero usciti dalla macchina».
«Quindi non ci sono persone che possano corroborare le sue affermazioni». «Abbiamo ritenuto, correttamente, che la vita di Stephen Bisset fosse in grave pericolo. Era importante che…». «Secondo la sua dichiarazione, le è stato detto…», l’avvocato sollevò un foglio di carta e lo lesse da sopra il bordo degli occhiali, «“Non troverete mai la capanna senza di me. Quel posto non è su nessuna cartina. Quando lo troverete, Steve Bisset sarà morto da tempo”. È vero?» «Sì, è così». «Molto conveniente per lei…». «Mi dica, sergente McRae, è normale pratica della Polizia di Scozia negare a un sospetto di avere un avvocato, quando viene arrestato?». Santo Dio. «Si trattava di circostanze fuori dal comune: Stephen Bisset era gravemente ferito e stava morendo…». «Ha sentito parlare della sentenza Cadder, vero, sergente? È sua abitudine contravvenire ai diritti umani dei suoi sospetti?». Tick. Tick. Tick… «Sergente?» «Noi non abbiamo… ho preso la decisione che, considerando il tempo che giocava a nostro sfavore, era più importante salvare la vita di Stephen Bisset!». «Capisco». Moir-Farquharson si volse alla giuria. «Quindi, ancora una volta, signore e signori della giuria, il sergente McRae ha deciso di ignorare la procedura, di piegare le regole alla sua volontà e di fare di testa sua». «Per riassumere: ancora una volta, abbiamo soltanto la sua parola in proposito, sergente?». Respiri profondi. Calma. Logan guardò dritto davanti a sé. «Graham Stirling si rifiutò di mostrarmi dove fosse la capanna, a meno che il detective Rennie e il detective Marshall non fossero rimasti indietro. Potevo andare con lui, o lasciare che Stephen Bisset morisse». L’avvocato sospirò. Poi scosse la testa. Quindi si girò verso la giuria. «E ancora una volta, le regole vengono infrante». «Non avevo scelta! E solo lui conosceva la combinazione del lucchetto, solo lui…». «Lei ha la fastidiosa abitudine di ignorare le procedure, sergente McRae. Come possiamo sapere se il suo senso della giustizia non sia altrettanto compromesso? Quanto si spingerebbe avanti per ottenere un arresto?» «Obiezione!». «Mi sembra, sergente McRae, che lei abbia considerato Graham Stirling responsabile della scomparsa di Stephen Bisset, e abbia manipolato le circostanze e le prove in modo che dimostrassero la sua convinzione». «Questo non è vero. Avevamo le prove che Stephen Bisset aveva risposto a un annuncio personale di Stirling, cercando un rapporto sessuale con quello che lui riteneva fosse un transessuale e…». «bugiardo!». Un giovane si era alzato in piedi, in mezzo al pubblico in aula. Aveva i capelli neri lunghi fino alle spalle, una cravatta nera e una camicia che conservava ancora le pieghe con cui era stata confezionata. Il volto sottile era rosso e gonfio intorno agli occhi. La saliva spruzzata a ogni parola che scintillava in controluce. «lei è un bugiardo! mio padre non avrebbe mai fatto una cosa del genere!».
Lo sceriffo in carica sbatté il martelletto contro il banco. Tre colpi secchi. «Mr Bisset, non glielo ripeterò di nuovo. La corte comprende il suo dolore, ma è…». «lei è un bugiardo!». La giovane donna accanto al ragazzo lo prese per un braccio, cercando di farlo rimettere seduto. Aveva gli stessi capelli neri, lo stesso volto sottile. «David, non…». «mio padre non era un pervertito!». Altri tre colpi secchi di martello. «Ora basta, Mr Bisset. Questa corte non può…». «fategli dire la verità!». «Ordino di far allontanare quest’uomo dall’aula». E per tutto il tempo, Graham Stirling non si mosse. Se ne rimase lì seduto in silenzio al banco degli imputati. Sbattendo lentamente le palpebre. A milioni di miglia da lì, mentre i figli della sua vittima venivano scortati fuori dall’aula. «Sta forse negando che ha minacciato di uccidere Graham Stirling, sergente McRae?». Logan piantò le unghie nel legno chiaro del banco dei testimoni. «Non ho mai minacciato di ucciderlo». «Davvero?». L’avvocato sembrò sorpreso. «Allora nega di aver detto: “Dovrei prenderti a calci fino ad ammazzarti”?». Tick. Tick. Tick… «Sergente?» «Non me lo ricordo. Avevo appena ritrovato Stephen Bisset. Era stato…». «Mi dica questo, sergente: lei ha detto o non ha detto al suo superiore: “Mi serve un’ambulanza e qualcuno che mi impedisca di impiccare Stirling all’albero più vicino”?». Logan si piegò sul lavandino. Le gocce gli caddero dal viso, creando cerchi concentrici nell’acqua. Affondò di nuovo le mani nell’acqua e se ne gettò altra in faccia. Fredda contro la pelle. Capace di spegnere il calore bruciante che sentiva. Bastardo. I bagni del tribunale erano abbastanza puliti, profumati di deodorante e detersivi. Un’altra manciata d’acqua, che lasciò gocciolare nel lavandino. Tutti quei cerchi concentrici che si intrecciavano tra loro, per poi scomparire, senza lasciarsi dietro niente che facesse immaginare la loro esistenza. Sentì il cellulare vibrare sul pianale tra i lavandini. E poi partì la Marcia imperiale di Star Wars. L’ispettore capo Steel. Ignorala. Lascia che parli con la segreteria telefonica. La porta del bagno si spalancò e il procuratore entrò a passo di marcia: corti capelli grigi pettinati in avanti, sulle sopracciglia aggrondate. I baffi da generale fremevano, mentre le labbra masticavano le parole in un potente accento di Glasgow, che risuonava in una voce troppo forte per appartenere a un ometto alto poco più di un metro e sessanta. «Ma che diavolo è successo là dentro?» «Cosa dovevo fare, secondo lei, mentire sotto giuramento?» «Certo che no. Ma… questo…». Quattro passi netti e raggiunse il bagno più vicino. La cui porta ricevette un calcio da mulo da parte di una scarpa elegante e lucidissima. Ci fu una pausa. Poi il procuratore si passò un dito sui baffi, come ad assicurarsi che tutto fosse in ordine. «Sono riusciti a distruggere la confessione di Stirling. Dopo quella farsa a cui abbiamo appena assistito, sarà considerata inammissibile». Logan afferrò una manciata di tovaglioli di carta verde appoggiati accanto all’asciugamani automatico rotto. «Non avevo scelta, okay?». Si asciugò la faccia con la carta ruvida e verde, prima di gettare i tovaglioli usati in un bidone dell’immondizia. «Se mi fossi attenuto alle procedure,
Stephen Bisset sarebbe morto. Probabilmente sarebbe ancora disperso, disteso in quella dannata capanna a marcire nel bel mezzo di quel fottuto bosco!». Logan chiuse gli occhi, serrandosi il setto nasale tra pollice e indice della mano destra. Una smorfia corrucciata, poi espirò. «Mi scusi». Il procuratore sbuffò sibilando, come se si stesse sgonfiando. «Avrebbe potuto registrare quella dannata confessione sul suo cellulare. Avrebbe potuto utilizzare la ricetrasmittente per farla sentire ai colleghi. Avrebbe potuto fare qualcosa». Logan lasciò ricadere la testa all’indietro, picchiando la nuca contro il muro. Poi lo fece di nuovo. E poi ancora una volta, per buona misura. «Lo so». «Sì, be’, suppongo che Cartesio avesse ragione: il senno di poi è uno specchio ingannevole. A questo punto, dobbiamo sperare che la corrispondenza del dna li convinca». Accanto al lavandino, il cellulare di Logan riprese a emettere la Marcia imperiale. Lui lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi. «Vi servirò di nuovo?». Il telefono continuò a suonare, finché non si attivò la segreteria. Il procuratore si schiarì la gola. «Credo che lei abbia già fatto abbastanza». Il cellulare di Logan ricominciò a suonare mentre lui scendeva le scale. Non era la Marcia imperiale, stavolta, ma la musica dei Muppet. Controllò lo schermo. “nicholson”. Premette il pulsante di ricezione con il pollice. «È importante? Perché non è un buon momento». «Sergente? Sono Janet. Pensavo che le facesse piacere saperlo: la Macchina Grande è tornata». Lui raggiunse il piano terra. «Janet, al momento non me ne potrebbe fregare di meno della…». «L’odore all’interno non è dei migliori. È come se ci fosse morto dentro qualcosa». L’agente abbassò la voce a un sussurro. «Senta, riguardo a quei tè e caffè di ieri notte… ecco, glielo devo dire, mi sento un tantino… in colpa». «Al diavolo. Non permetterò a nessuno di quegli stronzi del Team Investigativo Primario di trattare qualcuno del mio team come una cameriera qualsiasi». «Sì, ma… stanno lavorando a un caso di omicidio, e da quello che ho sentito, gran parte di loro ha passato metà della notte a impersonare un razzo Soyuz». Lui uscì da un’entrata laterale, ritrovandosi su Marischal Street ed evitando la calca dei media davanti al tribunale. «E quindi?». Una pausa. «Si tratta di una bambina, sergente». Qualcuno suonò il clacson. C’era un taxi parcheggiato in mezzo alla strada, che bloccava il traffico mentre faceva scendere un cliente. Una bambina morta… la Nicholson non aveva tutti i torti. Perfetto: un’altra dose di sensi di colpa. «Se può farti sentire meglio, non sarebbero riusciti comunque a ottenere niente, ieri notte». Attraversò la strada. Non aveva senso risalire la collina, ritrovandosi di nuovo a tiro dei giornalisti e delle loro telecamere. «Per prima cosa: tutti sono già là fuori a cercare Neil Wood. Secondo: finché non la identificheranno, non potranno formare una valida lista di sospetti. Terzo: senza un’identità e senza testimoni, c’è ben poco che possono fare, finché l’autopsia non dirà la sua». Raggiunse il marciapiede opposto. Nuovo piano: attraversare il ponte, scendere le scale fino a Shore Lane e poi raggiungere la parte posteriore di Castlegate. A quel punto, sarebbe potuto entrare di soppiatto nel quartier generale della Divisione passando da East North Street. «Se un gruppo di arroganti sessisti passa qualche ora a contorcersi al cesso, non cambierà proprio niente». Si sentì un lungo e profondo respiro. Poi: «Grazie, sergente». «E poi, ho dato un’altra dose di lassativi al detective Dawson, stamattina». «Urgh… Lo so che ho detto che volevo ucciderlo, ma non intendevo che avremmo dovuto davvero…». Il resto della frase si perse nel nulla. «tu!». Logan si fermò. Si girò.
Il ragazzo che era nell’aula, quello con i capelli lunghi e neri, stava uscendo dal taxi. Lo fulminò con lo sguardo. «bastardo mentitore!». Il figlio di Stephen Bisset. Fantastico. Perché fino a quel momento la giornata non si era già rivelata abbastanza speciale, giusto? «Scusami, Janet, devo andare». Attaccò e rimise il cellulare in tasca. Tese le mani avanti. «Deve calmarsi». Il giovane si era allentato la cravatta, che ora gli pendeva dal collo come un cappio. «hai mentito. perché hai mentito?». La sorella scese dal taxi dopo di lui. Ora che erano più vicini, era chiaro che la ragazza era più giovane di lui. Un’adolescente appena. «David, per favore, ne abbiamo già parlato. Se ti calmi…». «non voglio calmarmi!». Il viso del figlio di Bisset stava prendendo un insano colorito violaceo, mentre le lacrime gli rigavano le guance. «papà non è un pervertito!». Percorse la discesa a passo di carica, diretto verso Logan, con le mani chiuse a pugno. «tu hai mentito!». Dio santo… «Non ho mentito. Abbiamo seguito la pista dei messaggi, ed è stato così che abbiamo trovato suo padre…». «sta’ zitto, bugiardo! chiudi quella cazzo di bocca!». La sorella lo raggiunse e lo afferrò per un braccio, come aveva fatto anche in aula. «Devi smetterla». «No! Catherine, quest’uomo ha mentito, ha mentito sotto giuramento!». «Va tutto bene. Va tutto bene, shhh…». La ragazza cercò di riportarlo verso il taxi, ma lui non si mosse. «Avanti, David, torniamo a casa. Ti prego…». Logan arretrò di un passo. «Senta, mi dispiace che questo la turbi, ma non ho mentito. Ho fatto tutto quello che potevo per riportare a casa suo padre sano e salvo». Sì, perché poi ci era riuscito, soprattutto, vero? David Bisset gli mostrò i denti, sibilando le successive parole come se fossero acido. «Sano e salvo?». Puntò l’indice nella direzione dell’Aberdeen Royal Infirmary. «Davvero? sarebbe stato meglio se fosse morto!». «Lo so che è difficile, ma…». «bugiardo!». David Bisset si scosse di dosso la sorella e si lanciò contro Logan, cercando di colpirlo, totalmente a caso. Non aveva la minima idea di quello che stava facendo. Logan si scostò, lo afferrò per un braccio e glielo piegò dietro la schiena. Poi portò l’altra mano sul gomito di David, bloccandogli il polso. Lo afferrò per la spalla opposta e lo strattonò verso di sé. La classica presa di sottomissione. «lasciami! lasciami, ho detto, bas…». Logan applicò una leggera pressione. «aaaaargh!». «Adesso calmati». La ragazza, Catherine, si afferrò alla manica della felpa di Logan. «La prego, non intendeva offenderla, è sconvolto, la prego, non gli faccia del male». «lasciami!». «Ti calmi, adesso?» «La prego, non è colpa sua. È arrabbiato… lo siamo tutti». David si zittì, limitandosi a respirare affannosamente tra i denti stretti. «Siamo tutti calmi, ora? David? Va tutto bene?». Catherine si morse le dita. «David, ti prego, non…». Il respiro del ragazzo rallentò. Smise di opporre resistenza e chinò il capo. «Mi dispiace». «Okay». Logan lo lasciò andare e arretrò di un passo. «Non è successo niente».
David si appoggiò alla parete di granito dell’edificio più vicino, massaggiandosi la spalla dolorante con una mano. Si fissò la punta delle scarpe. «Mio padre non è un pervertito». «Se può esserti d’aiuto, so cosa significa…». «No». La mascella del ragazzo si serrò, le parole appena udibili tra i denti stretti. «Non è vero. Tu non ne sai niente». Un respiro profondo. «La mia ragazza è caduta». Logan si girò e indicò un punto di Marischal Street, verso l’appartamento all’ultimo piano che ormai apparteneva a qualcun altro. «Proprio da lì. Cinque piani. Sono quattro anni che è in coma. So cosa significa avere qualcuno che ami bloccato in un letto d’ospedale, incapace di muoversi o di parlare». Si schiarì la gola. «È orribile. E ingiusto. E fa schifo. Ma comunque è tuo padre». David lo fissò con rabbia, le labbra ridotte a una linea sottile e tremante. Poi la sorella lo prese per un braccio e lo ricondusse verso il taxi. «Vieni, David, torniamo a casa. Va tutto bene». «Lui non è un pervertito…». «Lo so». Risalirono sul taxi, con lui piegato in avanti, una mano ad asciugarsi le lacrime e lei che lo accarezzava sulla schiena, tra le scapole. Logan restò dov’era, mentre il taxi lo superava. David stava piangendo a dirotto, adesso, il viso disfatto, la schiena che sussultava. Ma la sorella guardava fuori dal finestrino, fissando Logan dritto negli occhi. Il viso inespressivo. E poi sparirono. Giù lungo Marischal Street e poi a sinistra, scomparendo su Regent Quay. Graham Stirling non aveva rovinato la vita solo a Stephen Bisset, ma anche quella dei suoi figli. Li aveva distrutti al punto che forse non si sarebbero mai più ripresi, dopo aver visto il padre disteso in quel letto d’ospedale nel reparto di terapia intensiva, collegato a tutti quei tubi e quei cavi e quei macchinari. Erano passati quattro mesi, e quasi non si era mosso. Non aveva detto una sola parola. Era rimasto lì, disteso. Un brivido danzò sulla nuca di Logan. Quattro mesi da vegetale, ad attendere la morte. E lui non stava neanche riuscendo a sbattere in galera il bastardo che l’aveva ridotto così. David Bisset aveva tutto il diritto di infuriarsi con lui. Se lo meritava. Il sedile di Logan vibrò mentre il grosso motore diesel affrontava la salita, su per il crinale della collina. Fuori dai finestrini, le case di granito scintillavano nella luce del pomeriggio. Gli alberi brillavano di mille tonalità di verde e oro. Le rose creavano fuochi d’artificio congelati nei giardini. Logan pescò dalla borsa termica la prima lattina di birra. Ancora fredda di frigo, imperlata di condensa sulla superficie metallica. Strappò la linguetta e ne prese un lungo sorso. Serrò i denti e deglutì. Amaro. Un sapore che si addiceva perfettamente alla situazione. Il 35 era quasi vuoto. Una coppia di vecchietti se ne stava davanti, vicino al conducente. Non parlavano tra loro: lui leggeva il giornale, lei guardava fuori dal finestrino. E Logan aveva quasi tutto l’autobus per sé. Un altro sorso. Dannato Sandy Moir-Dannato-Farquharson. Cosa diavolo avrebbe dovuto fare, lasciar morire Stephen Bisset? Riprese il berretto dell’uniforme dal sedile accanto a sé e lo ficcò nella borsa. Seguito dalle spalline della polizia, staccate dalla maglia. Okay, sulle maniche c’era ancora scritto “polizia”, ma rimboccandole un paio di volte lo nascose. Ora era uno skinhead come tanti, vestito di nero, che beveva birra di bassa qualità sul fondo di un autobus. Fissando con odio la città, mentre il
conducente li portava attraverso Berryden, oltre l’Aberdeen Royal Infirmary, e attraverso Bucksburn e Dyce, per poi spingersi nelle campagne. Prese la seconda lattina, schiacciando quella vuota e riponendola nella borsa termica. Campi, pecore e bestiame scivolavano via oltre i finestrini. Terra verde, cielo azzurro e allegre, dannate nuvolette bianche e soffici. Avrebbe dovuto piovere. Ci sarebbe dovuto essere un dannato temporale, secchiate d’acqua da un cielo grigio come l’asfalto, e un vento violento contro l’autobus e gli alberi. Il cellulare squillò di nuovo. Tanto per cambiare, non la Marcia imperiale: un numero sconosciuto. Trattenne il pollice sopra il pulsante di ricezione. Alla fine lo premette. «Pronto?». La voce della Steel gli muggì nell’orecchio. «Come diavolo hai fatto a rovinare tutto? Era un caso semplice e chiaro. Che cazzo c’è che non va in te?» «Non è stata colpa…». «Hai idea di cosa stanno facendo adesso i grandi capi? Stanno appuntendo un grosso palo, così potranno ficcarmelo nel didietro e arrostirmi su un dannato falò!». «Io non…». «Tutta la fatica che avevamo fatto per quell’indagine… e ora è rovinata!». «Ci sono ancora le prove del dna. Possono…». «sei stato tu a portare stirling sulla dannatissima scena del crimine!». Silenzio. Probabilmente la Steel stava contando fino a dieci. Poi tornò a parlare, con la voce di qualcuno che si era appena fatto cadere qualcosa di pesante su un piede. «Sid Sibilo già punta alla contaminazione crociata. Non solo stiamo rischiando di non riuscire a far condannare quel bastardo, ma saremo fortunati se Graham Stirling non ci querelerà di corsa! È…». Logan attaccò. Tre secondi dopo, il cellulare riprese a squillare. E poi anche la ricetrasmittente si unì al coro. Spense entrambi, affondandoli nelle tasche della felpa. Si aprì un’altra lattina di birra. E tanti saluti ai festeggiamenti.
Capitolo 14
Il suono di un allegro riff di chitarra accompagnato dalle note di un pianoforte fece riemergere Logan da profondità abissali, facendolo precipitare nel grigiore del mercoledì mattina. «Restate con noi per altre hit famose degli anni ’80 dopo il notiziario e il meteo con Bernie». Logan tornò a sdraiarsi sul letto, con una mano sugli occhi, mentre l’altra armeggiava alla ricerca della radiosveglia. «Grazie, Clyde. La polizia di Merseyside ha confermato questa mattina che una delle donne uccise nella sparatoria di domenica a Liverpool era Mary Ann Nasrallah, una poliziotta sotto copertura. Ne parleremo in modo più approfondito nel prossimo notiziario della mattina. Nel frattempo, la caccia al pedofilo scomparso Neil Wood è al secondo giorno, mentre…». Logan colpì la radio, zittendola. Avrebbe dovuto togliere la sveglia prima di crollare la sera prima. Qualcosa di buio e pungente gli pulsava dietro gli occhi. E gli riempiva la gola di polvere ruvida e amara. Facendo sapere tutto di whisky di infima qualità. Poi quel qualcosa gli affondò le zanne nella vescica. Unnngh… Il mondo gli sembrò un luogo acuminato e nauseante, mentre si trascinava in bagno. Per poi tornare a letto. Al diavolo la giornata. Le rondelle del lucchetto cigolano sotto le sue dita avvolte nel nitrile blu. La parte inferiore cade al suolo, seguita dal resto del meccanismo, e lui spalanca la porta. I cardini cigolano come il coperchio di una bara, e lui entra nell’oscurità fetida. «Stephen?». Quella parola si espande in un soffio di vapore, pallido come un fantasma. «Va tutto bene, sei al sicuro, ora…». No, non è vero. La torcia porta il suo occhio giallastro su mucchi di paletti, seghe e catene, tronchi e una stufa di ghisa. E poi si ferma su una pila di coperte luride. Non farlo. Ma la sua mano si allunga comunque. Ha forse una scelta? Afferra il tessuto ruvido e lo strattona. «Stephen?». Il corpo giace su un fianco, raggomitolato su un pianale di legno macchiato di scarlatto e di nero. Gli spazi tra le assi sono scuri e vuoti, come la bocca spalancata dell’uomo. Le gengive spaccate e sanguinanti dove i denti sono stati strappati via. Le dita piegate in modo innaturale, come se qualcuno le avesse frantumate a colpi di martello. Spessi giri di nastro adesivo argentato sugli occhi. Sangue ormai secco intorno all’inguine ferito e alle natiche sporche. Altro sangue sul petto gonfio. Catene intorno ai polsi e alle caviglie, pesanti e arrugginite. È morto. Deve essere morto. Logan si sente chiudere la gola da un nodo che sembra fatto di ghiaia appuntita. Lo inghiotte. Si costringe a mandarlo giù, acuminato, duro e gelido. «Mi dispiace». E poi quella testa cieca e massacrata si gira e urla…
La tazza del gabinetto era fredda contro la guancia di Logan. Il respiro rallentò. Il martellio nelle tempie si ridusse a un ritmo da rematori su una galera, che pulsava a tempo con il suo cuore. Seduto sul pavimento del bagno, ebbe un nuovo conato e buttò fuori fiotti di vomito giallastro. Mugolò. Si risollevò in piedi. L’uomo che lo guardò dallo specchio sembrava una comparsa di The Walking Dead. Si sciacquò la bocca. E poi la faccia. Si asciugò. Non riuscì a guardarsi ancora. Sentì lo stomaco gorgogliare e si bloccò dov’era, una mano premuta contro le cicatrici che gli attraversavano l’addome. Ma poi sembrò calmarsi. Non avrebbe più bevuto whisky di pessima qualità in vita sua. Mai più. Soprattutto, non mezza bottiglia da solo. Tornò in camera da letto. Restò in piedi a fissare le lenzuola disfatte e umide di sudore. Già, al diavolo anche tornare a letto. Il sole entrava dalla finestra, trasformando l’aria in uno sciroppo dorato, pieno di scintillanti particelle di polvere. Il silenzio del reparto era spezzato dal sibilo dei ventilatori. Dal lontano ronzio monotono di una lucidatrice. E dallo scricchiolio di scarpe comode sulle piastrelle azzurre del pavimento. Logan bussò sullo stipite della porta aperta. «Si può?». Louise alzò lo sguardo da una cartellina. Sorrise. «Logan. Non è una bellissima giornata?». Il taglio corto e sbarazzino che portava era di almeno vent’anni troppo giovane per lei. Tinta di biondo, con la frangia bloccata con il gel in una linea spezzata sopra un paio di pesanti sopracciglia scure. Una camicia di lino bianco, jeans a zampa d’elefante su scarpe da ginnastica nere. Prese dalla scrivania una grossa busta marrone e poi accennò con il pollice alle proprie spalle. «Ci prendiamo una tazza di tè?». Louise uscì sul balcone, con la cartellina sotto un braccio e un vassoio retto con entrambe le mani. Una teiera, una caffettiera, due tazze e un piatto di mini sandwich triangolari. Posò il vassoio sul tavolo. «Scusami se ci ho messo tanto». La casa di cura Sunny Glen faceva onore al suo nome. Le pareti coperte di pannelli di legno scintillavano alla luce del sole, e la balaustra di vetro e metallo cromato brillava. Logan aveva scelto il tavolo sulla terrazza superiore, all’ombra, con la vista sulla vallata e verso il mare. Un mercantile arancione puntava verso l’orizzonte, lasciandosi dietro una scia di un bianco accecante. E, cosa più importante di tutte, la terrazza superiore permetteva di osservare quella inferiore. Laggiù, qualche sedia a rotelle era sistemata lungo il pavimento piastrellato. Alcuni dei pazienti indossavano dei cappelli, altri dei berretti da baseball. Testa scoperta per un paio di loro. Louise versò il tè nella tazza di Logan. Accennò alla busta marrone. «Tutto firmato?». Lui la spinse lungo il pianale del tavolino verso la donna. «Sì. E ora?» «E ora daremo i documenti agli avvocati, che li consegneranno allo sceriffo, che dichiarerà Samantha incapace di intendere e di volere, e tu diventerai il suo tutore legale. Dovrebbero volerci al massimo un paio di settimane». Logan si agitò sulla sedia. «Non è incapace, è malata. Non è la stessa cosa». «Lo so, ma bisogna farlo. Non ha nessun altro. Se i suoi genitori fossero ancora vivi…». L’infermiera si strinse nelle spalle. Poi sorrise e accennò alla terrazza inferiore. «Però sta bene, non trovi?». La sedia a rotelle di Samantha era vicina alla ringhiera, e voltava loro le spalle. Aveva i capelli ormai quasi del tutto castani, con solo una sottile frangia del colore precedente sulle punte. Un rosso che ormai si era trasformato in una sorta di rosa grigiastro. Teneva le braccia strette intorno
al corpo, le ginocchia unite e la testa piegata di lato. Come se una mano enorme l’avesse afferrata e stretta fino a deformarla. Era abbastanza lontana da loro da non sentire quello che stavano dicendo su di lei. «E questa infezione alle vie respiratorie…?». Louise si strinse nelle spalle. «Lo sai com’è. Ora che sta seduta dritta per la maggior parte del tempo è meno suscettibile a questo genere di malattie. Ma quando si tratta di danni cerebrali, è sempre la stessa cosa. Infezioni polmonari, o alle vie urinarie. Perlomeno, il controllo della temperatura va molto meglio: sono mesi che non ha più attacchi». Il tè era caldo ma troppo leggero. Insipido e anemico. La pallida ombra di quello che sarebbe potuto essere. Louise premette il pulsante della caffettiera a filtro. «Samantha ha compiuto notevoli progressi, da quando è arrivata qui. Se continua così, potremmo pensare a una cranioplastica tra agosto e settembre. Così che possano chiuderle il buco nel cranio con una placca metallica». «Una placca metallica». «Be’, se la pressione endocranica resta nei limiti accettabili… Ma non c’è motivo di credere che non lo faccia. Così, sembrerà di più com’era prima, senza quella grossa cavità in testa». Louise si versò il caffè e lo sorseggiò. «Ieri ha sorriso». Logan si raddrizzò di colpo. «Cosa?». L’infermiera sorrise. «Non è fantastico? Per la prima volta ha reagito a qualcosa. Ho provato a chiamarti. Non hai ricevuto il mio messaggio?». Non entusiasmarti troppo. Procedi a piccoli passi. Ricorda quello che ha detto il neurochirurgo. «A cosa ha reagito? Cos’è che l’ha fatta sorridere?». Logan si accosciò accanto alla sedia a rotelle, sedendosi sui talloni. Guardò Samantha in faccia, poi si accigliò, prendendo un fazzoletto per asciugarle un filo di bava che le colava sul mento. «Ho saputo che hai sorriso al tipo che ti massaggia i piedi. Furfante». Non ci furono reazioni. Ma del resto, non ce n’erano mai. Due spesse strisce di velcro la tenevano dritta sulla sedia, avvolte intorno alla struttura di metallo dello schienale e al suo petto. Evitavano che scivolasse in avanti o cadesse. «Louise dice che adesso hai raggiunto ufficialmente un indice di dieci sulla Scala del Coma di Glasgow. Non è fantastico?». Niente. «E ti stiamo facendo dichiarare incapace, il che è una buona cosa, no?». Sbuffò, gonfiando le guance. «Ho cercato di dissuaderli più a lungo possibile, ma a quanto pare non ho più scelta. Quindi diventerò il tuo tutore legale. Come Bruce Wayne con Cosetto il Ragazzo Prodigio. Solo che tu non dovrai indossare quello stupido mantello giallo e calzoncini verdi sopra i collant». Ancora niente. Le asciugò un altro filo di bava. «Comunque, sembra che vogliano montarti una placca di metallo in testa. Forse a settembre. Se continui come stai facendo adesso. Sarebbe divertente, no?». Le scostò una ciocca di lunghi capelli castani dal viso. Facendo del suo meglio per non toccarle la grossa indentatura sopra l’orecchio sinistro, dove le avevano rimosso una parte di cranio per ridurre la pressione cerebrale. «Potrai di nuovo indossare dei cappelli, pensa. Oppure potremmo attaccarci dei magneti, tipo quelli per il frigo…». Logan appoggiò la schiena alla balaustra di vetro. «Abbiamo trovato il cadavere di una bimba, lunedì notte. Giù alla piscina abbandonata. La Steel se ne sta occupando con il Team Investigativo Primario. I risultati delle analisi di Susan sono arrivati, e c’è solo una possibilità su cinquemila che il bambino possa avere la sindrome di Down. È una buona cosa, no?». Samantha non si mosse, guardando attraverso di lui come al solito.
Si schiarì la gola. Distolse lo sguardo. «Sì, era quello che pensavo anch’io». Il mercantile era più piccolo, ora, mentre si allontanava verso l’orizzonte attraverso l’immensa distesa blu. «Ho fatto casino. Graham Stirling riuscirà a cavarsela nonostante quello che ha fatto a Stephen Bisset. Riuscirà a scrollarsi di dosso le accuse e tornerà a piede libero… a causa mia». Un gabbiano si posò dall’altra parte della ringhiera di vetro. Iniziò a camminare impettito avanti e indietro, fissandolo con i selvatici occhi gialli. «Dovrebbe passare il resto della vita dietro le sbarre, e invece… lo lasceranno andare…». Il gabbiano piegò la testa di lato e gracchiò. Poi continuò a camminare. Strillando e guardandolo. Come un ispettore capo Steel in miniatura. «Sid Sibilo sta cercando di dimostrare che ho incastrato Stirling. Ci pensi? Io?». Una breve risata amara come il vomito che aveva lasciato nella tazza del gabinetto quella mattina. «Non ho mai incastrato nessuno in vita mia». Il gabbiano sollevò le ali e gli strillò contro, con uno stridio acuto e fastidioso, che gli affondò nel cervello come un assalto di piccoli artigli aguzzi. «Ho passato metà della vita a cercare di sbattere in gabbia bastardi come lui, e i giudici li lasciano andare. Se avessi voluto incastrarlo, mi sarei almeno assicurato che non potesse salvarsi in nessun modo…». Logan fissò il gabbiano con odio. L’uccello ricambiò lo sguardo in tralice. «Te lo dico io cosa dovrei fare: dovrei andare a casa di Stirling nel bel mezzo della notte e spaccargli la testa con un piede di porco». Un sospiro. «Be’, si può sempre sognare, no?». Si rialzò in piedi, spolverandosi i jeans. «Non ti va di sentire queste brutte cose, vero? Certo che no. Sono solo i miei stupidi piagnistei». Batté le mani, recuperò una sedia dal tavolino più vicino e la posò accanto a Samantha. «Ora che ne dici se guardiamo le barche e i gabbiani per un po’?». «Sì, un momento…». Logan incastrò il cellulare tra l’orecchio e la spalla, spostando le pesanti buste di plastica da una mano all’altra, per poi recuperare le chiavi da una tasca. «Scusa, stavi dicendo?». Dall’altra parte della linea, Biorischio aveva la voce di chi stesse masticando delle schegge di vetro. «Stavo per prenderlo a pugni. Giuro su Dio, lì in mezzo all’aula del tribunale. Omofobico? Io?» «Quindi siamo fottuti». «Ha detto, e ti cito le sue testuali parole: “Da quanto tempo la Polizia di Scozia sta operando una vendetta contro le comunità di lesbiche, gay, bisessuali e transgender di Aberdeen?”. E lo sai perché? Perché Stirling era vestito da donna quando l’abbiamo beccato, e io l’avevo chiamato Danny la Drag Queen!». «Non è…». Logan fece scivolare la chiave nella serratura. «Senti, non potevamo farci nulla. Abbiamo salvato la vita a Stephen Bisset. È pur sempre qualcosa, no?» «Vallo a dire ai suoi figli». Logan entrò nell’appartamento. Si chiuse la porta alle spalle e la bloccò. Si premette il cellulare contro il petto. «Cthulhu? Papà è a casa». Non era in salotto. E neanche in cucina. Tornò a parlare a Biorischio. «Si sono già fatti sentire quelli degli Affari Interni?» «Che ne dici? Ho passato le ultime due ore a farmi distruggere le orecchie riguardo ai pregiudizi di genere e alle pari opportunità per transessuali e drag queen». Logan chiuse una grossa busta di patate in offerta nell’armadietto sotto al lavello. Mise sul fuoco il bollitore. «Hanno detto niente su di me?»
«Ormai è chiaro che la giuria non condannerà mai quel viscido bastardo. Non c’è una confessione, non ci sono prove forensi e non c’è un avvaloramento delle prove. Tutto quello che abbiamo si riduce a un paio di messaggi nella colonna degli annunci per cuori solitari». «Biorischio: concentrati. Cosa ha detto Napier di me?» «Non ne ho idea, mi sono beccato la mia ramanzina dall’ispettore Laird. Quella vecchia acida leccaortiche. Per quello che ne so io, il prossimo sulla lista sei tu». Fantastico. «Vedrai se non ho ragione: quando tutto il caso crollerà miseramente, tu, io e quel povero ragazzo di Rennie ci ritroveremo in una vasca di merda fino alle orecchie». «Tanto per restare sul piacevole argomento». «Già. E ora scusami, ma devo andare a farmi massacrare». A quel punto, Biorischio attaccò. Logan restò in cucina, a fissare la stazione di polizia di Banff dalla finestra. Forse sarebbe stato meglio dare subito le dimissioni. Prendersi quello che poteva prima che lo sbattessero fuori a calci. Andare a lavorare su una piattaforma petrolifera, o comunque in un posto che non richiedesse di indossare un giubbotto antiproiettile all’inizio della giornata. E dove si avessero turni normali. E una paga migliore. E un bel po’ di tempo libero… La tentazione era forte. Ma poi chi avrebbe badato a Cthulhu, mentre lui era al largo della costa? Tirò fuori il suo piatto speciale e andò a prendere una scatoletta di cibo per gatti. Fischiò un motivetto bitonale, una nota alta e una bassa. Si fermò sulla porta della cucina con la scodella in mano. «Cthulhu?». Niente miagolii sommessi. Niente zampette sorprendentemente pesanti giù per le scale. Salì al piano di sopra. Si fermò in corridoio e tese l’orecchio per cogliere l’eventuale coro di fusa ritmiche e asimmetriche. Poi gettò indietro la testa e imprecò. Posò una mano sulla porta della camera da letto e la spinse. La Steel era sdraiata sulla schiena, nel suo letto, con un piede nudo e una mano che sporgevano dalla coperta. La bocca spalancata. Stava russando. Un mucchio di vestiti sgualciti era appallottolato sul pavimento sotto la finestra. Una copia di Cinquanta sfumature di grigio se ne stava placida sul comodino. Cthulhu sollevò la testa dal cuscino, mostrò l’ampio triangolo di uno sbadiglio e si sollevò sulle zampe. Si girò e si acciambellò di nuovo per riaddormentarsi. Tipico. Logan posò la scodella con il cibo per gatti sul comò e spinse la Steel su una spalla. «Ehi!». «Mmmnnnghphhhhh…». La sua bocca si mosse in umidi cerchi. Poi ricominciò a russare. «sveglia, sveglia!». «Gnph…!». Lei scattò goffamente a sedere sul letto, sgranando gli occhi e sbattendo le palpebre. «Cosa? Non l’ho toccata, giuro…». Oh. Santo. Dio. La Steel era nuda… Logan deglutì. Arretrò di un passo, mentre un sapore acido gli riempiva la bocca. «Oh, Dio, non di nuovo!». «Noooo…». Lei afferrò le coperte e se le tirò fin sotto il mento, prima di lanciargli un’occhiataccia. «Brutto bastardo. Stavo sognando Claudia Schiffer!». Sbatté di nuovo le palpebre. «Che ore sono?»
«Che ci fa nel mio letto? Nuda, per giunta. Perché se ne sta nuda nel mio letto?». Un altro passo indietro, e si ritrovò con le spalle al muro. «Aveva giurato che non sarebbe mai più successo! L’aveva promesso!». La Steel tornò a sdraiarsi contro il cuscino. «Era anche coperta di Nutella…». «Sa cosa? Ora basta». Un respiro profondo. Poi Logan si raddrizzò. «Questo non è un Bed & Breakfast». Andò alla finestra e aprì le tende. «In piedi». «Gah! Non fare lo stronzo!». La Steel si coprì anche la testa, tirando la coperta e mostrando i polpacci e le ginocchia. «Non riuscivo a dormire in albergo, c’era un qualche idiota che russava». «Probabilmente era lei. Avanti, fuori di qui». La massa sotto alla coperta non si mosse. «Io non russo». «Al diavolo, certo che sì. Sembra un maiale ubriaco intrappolato in un cassonetto dell’immondizia». Logan afferrò i vestiti e glieli lanciò. «La voglio di sotto. Entro cinque minuti». La Steel si trascinò in cucina con addosso un accappatoio dell’albergo e le pantofole di Logan. Si lasciò cadere sull’unica sedia di legno e spalancò la bocca in uno sbadiglio da scardinare la mascella, mostrando tutte le otturazioni. «Caffè». «Nel mio letto, dannazione!». «Non fare la ragazzina. Ho cambiato le lenzuola e la coperta, prima. Di certo non mi sarei infilata nella tua tana schifosa. Dio solo sa cosa mi sarei potuta prendere, altrimenti». Un altro sbadiglio. «Hai del pane tostato?» «Non è stata colpa mia. Graham Stirling, intendo. Ho fatto quello che dovevo fare e non mi scuserò oltre per questo. Ma a loro questo non piace». Lei si infilò una mano sul davanti dell’accappatoio e si diede una grattata. «Forse avrei dovuto indossare il reggiseno…». Oh, Dio. Non di nuovo. Una volta era stata già abbastanza. Le voltò le spalle e rimise l’acqua a bollire. «Se vuole urlarmi contro, può prendersi le sue cose e andarsene. Il mio turno comincia alle tre: fino a quel momento, non mi interessa». «Invece sì che ti interessa». Lei tirò su dal pavimento la bottiglia di whisky di infima qualità e la scosse appena. «Altrimenti non berresti questo piscio». «E, già che ci sono, come diavolo è entrata qui?». Un altro sbadiglio. «Mi hai lasciato le chiavi, ricordi?». Fuori dalla finestra della cucina, un gruppo di agenti in uniforme con addosso i soliti giubbotti catarifrangenti salì sul retro di un grosso furgone della polizia. Probabilmente andavano di nuovo a controllare la scogliera o la strada. Come se servisse a qualcosa. Logan prese due tazze dalla credenza e vi versò un paio di cucchiaiate di caffè istantaneo. «Avete già identificato la vittima?» «Magari». Un leggero sospiro si fece sentire alle spalle di lui. «Non è nel database delle persone scomparse, quindi Finnie è andato a consegnare ai notiziari una sua foto e ha lanciato un appello per chiunque avesse informazioni rilevanti. E indovina un po’ cos’è successo?» «Niente?» «Seicento telefonate, e neanche un’informazione utile». Un altro sbadiglio. «Non so neanche perché ci stiamo affannando tanto». Il bollitore cominciò a borbottare con forza. Logan infilò nel tostapane due fette di pane bianco da supermercato. Poi mise su il tono più noncurante che gli riuscì di trovare. «Facciamo comunque quella perquisizione, oggi? Quattro agenti specializzati e un’unità cinofila?» «Ne hai, di faccia tosta. Dopo quello che hai combinato ieri?». Lui versò l’acqua bollente nelle tazze. «Potrei comunque buttarla fuori a calci. In quell’accappatoio rubato».
Lei si strinse nelle spalle. «Provaci». … D’accordo. Logan versò l’acqua sui granelli di caffè istantaneo. Fissò fuori dalla finestra, mentre il furgone della polizia si allontanava. «Mi serve un successo, okay? Biorischio dice che quelli degli Affari Interni stanno per farmi a pezzi». «Mi domandavo quando ci saremmo arrivati. Povero Logan, oh, povero piccolo Logan, guardalo lì, tutto triste e disperato, è solo piccino, capiamolo…». La Steel tornò a grattarsi. «Certo, Biorischio non ha tutti i torti. Ti massacreranno di sicuro, per come è andata ieri. Direi che al momento ti basta una singola stronzata per farti buttare fuori dalla polizia».
MercoledĂŹ, turno serale
Certa gente avrebbe proprio bisogno di uno scappellotto‌
Capitolo 15
Logan tirò fuori le spalline dalla tasca della felpa, alitò sulle stellette cromate da sergente e le lucidò sulla stoffa dei pantaloni. Le attaccò al loro posto, sulle spalle della maglietta della polizia. Poi fissò lo schermo del computer. Il sistema storm era pieno di rapporti non supervisionati del turno serale del giorno prima. E molti di essi dovevano ancora essere aggiornati. Ciuffo era come al solito il peggiore: da quello che vedeva, nella giornata precedente non aveva neanche toccato il lavoro d’ufficio. Be’, oggi sarebbe stato molto occupato, anche solo a togliersi uno stivale numero quarantatré dal didietro. Il telefono sulla scrivania esplose nel suo fastidioso squillo elettronico. E addio pace e tranquillità. Logan prese un sorso di tè e rispose. «Stazione di polizia di Banff». La voce di una donna, esitante e bassa. Un vago accenno di accento dell’Ayrshire. Il rumore di un motore diesel in sottofondo. «Vorrei parlare con qualcuno per… per il corpo della bambina che è stato ritrovato». Lui tirò fuori il taccuino. «Ha qualche informazione in merito?». Tenne pronta la penna. «Posso… posso vederla?». Fantastico. L’ennesima pazza. «La Polizia di Scozia non permette ai civili di vedere le vittime di un omicidio. È una questione di sensibilità. Grazie comunque di aver chiamato». «Aspetti! Io…». La donna si schiarì la voce. «Credo che possa essere mia figlia». «Okay». Guardò il display del telefono e si appuntò il numero del cellulare da cui la donna stava chiamando. «Posso sapere il suo nome, per favore?» «Helen. Helen Edwards. Mia figlia si chiama Natasha. Natasha Clara Edwards. Avrebbe… sei anni, adesso. Non la vedo da tre». «Può attendere un attimo in linea?». Logan si incastrò il telefono tra l’orecchio e la spalla, si inserì nel database delle persone scomparse e digitò “natasha edwards” nella casella di ricerca. Ottenne una sfilza di risultati per i cognomi Edwards, Edward e Edwardson. Natasha Clara Edwards era a metà della schermata. Un clic, e comparve il sunto del caso. Rapita quando aveva appena compiuto tre anni, giusto tre anni prima, da casa sua a Falkirk. Bla, bla, bla… chi aveva lavorato al caso era certo che fosse stato il padre a rapirla, poiché era scomparso nello stesso periodo, due settimane prima che venissero fuori delle irregolarità nello studio contabile per cui l’uomo lavorava. Si pensava che l’avesse portata in Spagna, dove viveva la sua famiglia. Ma le indagini con le autorità spagnole si erano impantanate e il caso era stato archiviato. Logan aprì una pagina del browser e tentò una ricerca su Google. Uscirono fuori pagine di rabbia da rotocalco contro padri impazziti che rapivano i loro figli piccoli, e contro l’immobilismo della polizia al riguardo. La foto sotto i titoli era quasi sempre la stessa, tra giornali e riviste: una bimbetta seduta in una piscina gonfiabile. Capelli biondo cenere lunghi fino alle spalle, sopracciglia così chiare da sembrare quasi invisibili. Un gran sorriso. Una paletta in una mano e degli anatroccoli sul costume da bagno. Con tre anni in più, sarebbe potuta essere la piccola trovata nella Tarlair Outdoor Swimming Pool.
«Okay, mi scusi per l’attesa». Sottolineò il nome scritto sul taccuino. «Signora Edwards, riesce a ricordare qualche segno particolare che potrebbe aiutarci a riconoscere sua figlia? Una voglia, per esempio, o una cicatrice? Magari ricorda se aveva subito qualche frattura, da piccola? Oppure dei nei, o cose del genere?». Anche eventuali cure dentali potevano aiutare… sempre che ne avesse ricevute quando era molto piccola, e che i denti da latte non fossero ancora caduti. Ma era un’ipotesi improbabile. «Avete bisogno del dna, o cose del genere? Ho una ciocca di capelli». Qualcuno bussò alla porta. «Logan?». L’ispettore McGregor entrò nella stanza. «Siamo pronti per la perquisizione a casa di Klingon e Gerbillo?». Lui indicò il telefono che teneva in mano. Poi riferì, in labiale: «La bambina uccisa». Per tutta risposta, ricevette un sopracciglio inarcato. «Prima di procedere con l’esame del dna, dobbiamo capire se c’è qualche particolare più ovvio che possa escludere che si tratti di Natasha». Scribacchiò le parole “cadavere di tarlair – potrebbe essere sua madre al telefono” su un post-it e lo tese all’ispettore. La McGregor lo prese e di nuovo sollevò un sopracciglio. Poi si appoggiò al bordo della scrivania. «Oh, capisco…». «Non ha senso farle perdere tempo a venire fin qui, se capiamo che non può trattarsi di lei». «Troppo tardi. Ho preso il treno per Aberdeen oggi pomeriggio. Sono su un autobus per Banff, ora». «Oh… d’accordo… Quando pensa che sarà qui?» «Alle cinque e un quarto, più o meno». Il che dava loro un paio d’ore di tempo. «Okay, la farò venire a prendere alla fermata dell’autobus e vedremo cosa si può fare». «Grazie». A quel punto, la donna attaccò. Logan riagganciò il ricevitore, fissandolo con le sopracciglia aggrottate. L’ispettore allungò il collo per sbirciare verso i risultati della ricerca sul monitor. «È credibile?» «Non ne ho idea. Forse». Indicò la bimbetta sorridente sulla prima pagina del «Daily Mail» sullo schermo del computer. «Un po’ ci somiglia. Contando che dovrebbero essere passati tre anni…». Si strinse nelle spalle. «Be’, assicurati di farlo sapere al Team Investigativo Primario». L’ispettore incrociò le braccia sul petto. «C’è qualcosa di cui dovrei preoccuparmi, per oggi?» «Dovrebbe andare tutto bene, capo. Syd Fraser verrà con i cani e un team di quattro persone dell’Unità di Supporto Operativo. Partiremo appena saranno tutti qui». «Capisco. Be’, vedi di tenere d’occhio l’agente Quirrel: lo sai quanto diventa ansioso». A quel punto, posò sulla scrivania di Logan un foglio con una foto identificativa stampata sopra. Indicò il volto segnato che li guardava con astio dalla stampa. La pelle aveva il colore del cuoio conciato, i capelli erano ricci e biondi. «L’Unità dell’Intelligence dice che Stevie Moran è di nuovo nel paese. Potrebbe capitare da queste parti, prima o dopo, per andare a trovare la madre. Sarebbe carino se riuscissimo a tenerlo dietro le sbarre un po’ più a lungo, stavolta. Non so, sei o otto anni». Logan aggiunse il foglio allo schedario sulla scrivania. «Dirò ai ragazzi di tenere gli occhi aperti». «Bene. Offrirò torta e/o pasticcini a chiunque riesca ad arrestarlo». Si sfilò gli occhiali, alitò sulle lenti e le pulì. Poi continuò, mantenendo un tono noncurante: «Ora, ti spiacerebbe spiegarmi cosa è successo ieri?». In realtà, sì. Gli dispiaceva e anche tanto. Prese un respiro profondo. «Sid Sibilo ha fatto sembrare che avessi voluto a tutti i costi incastrare Graham Stirling. Sono troppo arrogante per seguire le procedure, ma troppo incompetente per andare poi a mentire davanti al giudice. Quindi, a meno che Stephen Bisset non si svegli e non incrimini Stirling, non potremo farci niente».
Lei masticò in silenzio per un po’. Poi: «Ci saranno delle ripercussioni, lo sai, vero? Gli avvoltoi inizieranno a girare a caccia di un capro espiatorio, e tu mi sembri la cosa più simile a una capra che abbiamo disponibile al momento». Logan si afflosciò sulla sedia, passandosi una mano sulla faccia. «Cosa dovevo fare, secondo lei, lasciar morire Stephen Bisset?». L’ispettore McGregor si alzò. «Proverò a parlare con un paio di persone. Vedrò se c’è un minimo di spazio di manovra». Si allontanò verso la porta, per poi fermarsi sulla soglia. «Nel frattempo, potrebbe essere un bene se tu riuscissi a portare a casa un buon risultato da Klingon e Gerbillo. Più grande il risultato, meglio sarà per te». Logan attese che la porta si richiudesse dietro la donna prima di roteare gli occhi. «Sì, grazie tante». Poi digitò il numero interno per la sala delle riunioni del Team Investigativo Primario all’ultimo piano. Suonò per un bel po’, prima che finalmente qualcuno rispondesse. «Detective McKenzie». «Ce ne ha messo di tempo». «Oggi siamo a corto di gente. Cosa vuole?» «Ho ricevuto una chiamata da parte di una donna che potrebbe essere la madre della vostra vittima». Logan le passò i dettagli di Helen Edwards. «Arriverà a Banff alle cinque e un quarto. Alla fermata di Low Street». «Lo farò sapere al capo». Poi uno scatto: aveva attaccato. «Prego, stronza, non c’è di che». Logan agganciò il ricevitore, recuperando gli appunti del briefing, e si allontanò verso l’ufficio principale. I soliti giornali erano ammucchiati sul bordo della postazione di Maggie: un «Evening Express» e un «Aberdeen Examiner», insieme a una copia dello «Scottish Sun». I titoli recitavano: “le accuse a graham stirling sul punto di crollare”, “l’indagine dirottata dalla polizia” e “dubbi sul caso che ha sconvolto il clydeside”. Logan afferrò l’«Evening Express» e l’«Aberdeen Examiner» e li lanciò nel cestino dell’immondizia più vicino. Subito dopo, il «Sun» li seguì. Maggie sporse la testa dalla parete divisoria della postazione. «Le va una tazza di tè?» «Apprezzo il pensiero, ma sto bene. Davvero». Lei aggrottò le sopracciglia. «Ne è sicuro? Non ha preso i messaggi quando è entrato. E… be’…». Sollevò un mucchietto di post-it. «Magari posso prenderle anche dei biscotti». «Oh, Dio. È così terribile?». Lei gli tese i messaggi e Logan diede un’occhiata. Due erano del Comandante dell’Area. Tre della Steel. Uno del sovrintendente capo Finnie. E tutti avevano più o meno lo stesso contenuto: come diavolo era riuscito a demolire il processo di Graham Stirling? E, giusto in fondo, c’era anche un messaggio degli Affari Interni. La grafia perfetta di Maggie aveva appuntato un numero di cellulare in cima al biglietto, seguito da: “chiamare il sovrintendente capo napier. dice che lei sa perché”. Fantastico. Semplicemente fantastico. Be’, del resto Biorischio l’aveva avvertito. Una vasca piena di merda, proprio così. Logan ripiegò sommariamente i biglietti e li infilò in una tasca. «Se Napier dovesse richiamare, digli che sono nel bel mezzo di un’operazione. E che non sai quando sarò di ritorno». Il telefono squillò, sulla scrivania di fronte a quella di Maggie, ma non c’era nessuno che potesse rispondere. «Dove sono tutti quanti? Il Team Investigativo Primario non dovrebbe essere al lavoro?» «Non ha saputo?». Maggie abbassò la voce a un sussurro. «Il detective Dawson è finito in ospedale». Ah…
«A quanto pare, gli sono uscite le budella di fuori e…». «Okay, d’accordo, ora sarà meglio che vada». Logan arretrò verso la porta. «Ho… una perquisizione da compiere». E una fuga, anche. Nell’ufficio degli agenti, Deano stava digitando sulla tastiera con due dita. La Nicholson era piegata su un mucchio di buste delle prove, intenta a controllare la corrispondenza tra le etichette e l’elenco sullo schermo. Ciuffo era afflosciato sulla sedia, con le braccia abbandonate ai lati e la testa rovesciata indietro. Dondolando a sinistra e poi a destra. Logan chiuse la porta con un tonfo secco. Ciuffo rischiò di piombare giù dalla sedia. «Sergente, mi ha quasi fatto venire un infarto». «Dimmi, agente Quirrel, sei in pari con i rapporti sullo storm? Perché l’ultima volta che ho controllato, ed è stato, uhm…», Logan scattò avanti con il braccio, così da far uscire l’orologio dalla manica, «cinque minuti fa, ce n’erano dieci che non hai toccato da una settimana». «Ah…». Logan gli torreggiò sopra. «Ora, di solito non mi piace il bullismo sul posto di lavoro, ma inizierò a mollarti uno scappellotto per ogni rapporto che non aggiornerai come si deve». «Ma…». «No. Niente ma». Logan puntò l’indice contro il monitor dell’agente. «Muovi le chiappe, prima che ti appiattisca il retro della testa!». «Sì, sergente. Scusi, sergente». Ciuffo rigirò la sedia ed entrò nel sistema, cominciando a digitare velocemente sulla tastiera. «Così va meglio». Logan attaccò il foglio con la foto identificativa di Stevie Moran sulla bacheca di sughero vicino al termosifone, aggiungendo quella brutta faccia alla collezione di drogati, spacciatori, rapinatori e altri personaggi poco raccomandabili al momento a piede libero tra Banff e Macduff. «L’ispettore McGregor ha detto che Stevie Moran è tornato a bazzicare in zona. Tenete gli occhi aperti: c’è un premio per chiunque riesca a beccarlo». La Nicholson fissò la foto per qualche istante. Poi tirò fuori una scatola di biscotti. «Facciamo dei test su questo, o lo consideriamo già per quello che è?». Lui aggrottò la fronte. Una scatola di biscotti…? Ah, certo: quella nascosta sotto i cuscini del divano della topaia in cui viveva Kirstin Rattray. «Fammi un favore e segnalo come “in attesa” finché non avremo concluso la faccenda con Klingon e Gerbillo. Potremmo considerarla tra i nostri informatori, se la perquisizione andrà a buon fine». Janet mise da parte la scatola. «Sergente, riguardo a ieri…», lanciò uno sguardo a Deano e Ciuffo, «vogliamo che sappia che siamo dalla sua parte. C’è qualcosa che possiamo fare per lei? Sa, tipo…». La porta si aprì, e lei si zittì di colpo. Ma non era la Steel, e neanche uno degli idioti del team del detective Dawson. Era l’agente Syd Fraser. Con dei guinzagli di cuoio appesi al collo e chiusi dietro la schiena. La felpa consumata e piena di strappi. Il berretto da baseball a scacchi con la scritta “polizia” calcato in testa. «Salve, strana gente. Andiamo a bussare alla porta di qualcuno, oggi, vero?» «Stiamo aspettando il team di agenti specializzati». «Sono qui fuori nel furgone, a quanto pare stanno cantando in coro». Syd batté le mani un paio di volte. «Allora, qualcuno ha voglia di una tazza di tè?». La Nicholson scattò in piedi. «Ci penso io, Syd. Sergente? Deano? Ciuffo?». Okay… se non voleva destare sospetti, aveva appena ottenuto l’effetto contrario. Logan scosse la testa. «Io sto bene così, grazie. E l’agente Quirrel è troppo impegnato per prendersi un tè. Vero, agente Quirrel?» «Sì, sergente». «Bene». Lei scivolò oltre Syd e uscì dalla stanza.
La ricetrasmittente di Deano si svegliò di colpo. «A tutte le unità, attenzione a una bmw blu che procede in modo strano sulla a97 vicino Aberchirder. Possibile conducente ubriaco…». Lui abbassò il volume, e poi indicò il proprio schermo. «Sergente, ho un’altra persona scomparsa. Linda Andrews, ottantadue anni, demenza senile accertata. Vive a Gardenstown. Il marito afferma di essere tornato a casa dopo aver fatto la spesa mezz’ora fa, e di non averla trovata». Logan tamburellò con le dita sul pianale della scrivania. Non poteva cancellare due volte la perquisizione. Non gli avrebbero mai più concesso gli agenti in più. Non dopo quello che era successo il giorno prima. E aveva bisogno di quel successo. E quindi cosa avrebbe dovuto fare? Ignorare un’anziana vulnerabile che vagava sperduta chissà dove, nel suo territorio di competenza? No, grazie. Si alzò e posò con forza la mano sulla spalla di Ciuffo, facendolo sobbalzare. «Agente Quirrel. Ti sei appena guadagnato una temporanea sospensione del lavoro d’ufficio. Fuori di qui, e trovami Mrs Andrews prima che le accada qualcosa». Ciuffo scattò in piedi. «Ma, sergente, io volevo venire con voi alla perquisizione, non potrebbe andarci qualcun altro a cercare la…». Poi però sembrò riconoscere l’espressione sul viso di Logan, perché deglutì rumorosamente e si schiarì la gola. «No, volevo dire… sì, sergente». «Esatto. E non appena l’avrai trovata, voglio che aggiorni quei rapporti». «Sì, sergente». Il giovane recuperò il berretto dell’uniforme e la cintura con l’equipaggiamento, correndo fuori dalla stanza e rischiando di schiantarsi contro la Nicholson che tornava con il tè. «Ehi, fa’ attenzione!». Lei si bloccò di colpo, con la tazza destinata a Syd che ondeggiava, facendo muovere da una parte all’altra il contenuto, mentre il giovane agente la oltrepassava. «Idiota». Janet tese la tazza a Syd, mentre una raffica di «Scusami» veniva dal corridoio alle sue spalle. L’Unità di Supporto Operativo entrò nella stanza. Erano in quattro, tutti vestiti di nero, i volti che sembravano scolpiti nel granito. Uno dovette perfino abbassarsi per passare sotto la porta. L’uomo fissò Logan per un attimo, poi tese la mano gigantesca verso di lui. «Tu sei McRae, vero?». Fu come stringere una pressa da meccanico. Le grosse dita dell’agente avvolsero la mano di Logan, facendola sparire e schiacciandola. «Sergente Mitchell?» «Chiamami Rob». Accennò agli altri giganti. «Baz, Davy e Carole». Gli altri tre accennarono un saluto. «Scusateci per il ritardo. Ma alla radio è passata Bohemian Rhapsody proprio mentre parcheggiavamo. E non potevamo non cantarla, no?». Logan tirò fuori i fogli del briefing dalla cartellina e li tese alla squadra. Sulla prima pagina campeggiavano una foto di Gerbillo e una di Klingon, insieme a una breve biografia di entrambi. I capelli rossi di Gerbillo sfoggiavano un bizzarro taglio all’indietro che sembrava provenire dritto dagli anni ’20: rasati sui lati e lunghi sopra, con un ciuffo laterale. Aveva la faccia larga e piccoli occhi porcini. La zazzera biondo sporco di Klingon si arricciava intorno a lineamenti sottili e sospetti. Le labbra erano imbronciate e umide, gli occhi incorniciati da occhiali dalla montatura spessa. «Abbiamo un mandato per entrare in casa di questo Colin Spinney e perquisirla. Lui e il suo socio, Kevin McEwan, hanno parecchi precedenti per spaccio. Potete trovare la lista delle ultime informazioni sul loro conto a pagina due». Tutti girarono diligentemente pagina. «L’abitazione è al numero trentasei di Fairholme Place. A pagina tre troverete una foto della casa e una piantina. Commenti, domande, dubbi?». Silenzio. Poi Carole alzò la mano. «Che tipo di porta ci troveremo davanti?». Logan tornò alla cartellina e recuperò un modulo con i metodi di entrata. «pvc non plastificato marrone, con lastre di vetro smerigliato». Passò il foglio alla donna. Lei diede un’occhiata, aggrottando le sopracciglia. Poi annuì. «Rob, preferisci spaccare la serratura, o buttare giù la porta con la Grande Chiave Rossa?»
«Hmm». La fronte di granito del sergente Mitchell si coprì di increspature. «Potrebbero essersi barricati all’interno?». Logan scosse la testa. «Ne dubito. Si tratta della casa della madre di Spinney». «Oh». Le spalle enormi dell’uomo si afflosciarono appena. «Peccato. Erano secoli che non usavamo la motosega. Okay, ci basterà la Grande Chiave Rossa». Carole alzò di nuovo la mano. «Cani? Bambini? Armi da fuoco?» «Non che noi sappiamo». «Bene». Logan mostrò le ultime carte. «Dovete leggere tutti il mandato e firmarlo sul retro. Poi potremo andare». «Perfetto, fermatevi qui». Logan si infilò una larga felpa rossa di quelle con il cappuccio sopra al giubbotto antiproiettile. La massa sotto alla felpa faceva sembrare che avesse messo su una decina di chili. Come il morbido orsacchiotto che alla Steel sembrava mancare tanto. Un berretto da baseball verde completava il look. Il furgone dell’Unità di Supporto si fermò al lato della strada. Era enorme e bianco, con la scritta “polizia” sulla fiancata in lettere catarifrangenti. La griglia antisommossa era sollevata. Non esattamente un mezzo capace di passare inosservato. Seduto di fronte a lui, Deano si abbottonò una camicia a scacchi extralarge. Poi si infilò un paio di larghi pantaloni da jogging grigi sopra ai calzoni neri della divisa. La Nicholson tirò su con il naso. «Sembrate entrambi ridicoli». «Grazie». Logan aprì il portello laterale del furgone e saltò giù sul marciapiede. Il sedile ribaltabile scattò su con uno schiocco secco come una fucilata. «Okay, tutti sintonizzino la ricetrasmittente sul canale Shire Event Due. Niente chiacchiere su canali comuni. Appena capiremo se c’è qualcuno in casa, vi daremo una voce». Deano scese dal furgone dietro di lui, poi richiuse il portello e fece un cenno, mentre il mezzo si allontanava. Seguì Logan nello stretto vicolo che collegava Harvey Place a Victoria Place. «Sergente?» «Niente pausa pipì. Ci saresti dovuto andare prima di lasciare la stazione». Il sole picchiava sull’asfalto e sulle case intorno a loro. L’odore dell’erba appena tagliata aleggiava, intenso e verde, nell’aria. «No, sergente. Dobbiamo parlare di Ciuffo». Uscirono su Victoria Place. Un rapido sguardo a destra e a sinistra, poi attraversarono la strada. «Che altro ha combinato?» «I rapporti sullo storm. Il lavoro l’ha fatto, è solo che diventa un po’… indolente, quando si tratta di aggiornare il sistema». «“Indolente”? Oh, non sapevo ti piacesse usare certe parole ricercate». Puntarono a destra, risalendo il fianco della collina. Le piccole case tradizionali dall’altra parte della strada si diradarono, fino a mostrare il pendio erboso e vuoto che scendeva verso gli scogli e il mare. Dalla loro parte della strada, un muretto alto fino alle spalle sosteneva una striscia di giardini terrazzati. Grosse villette con la tipica architettura degli anni ’80 erano appollaiate ben sopra il livello della strada. «Forse potrebbe essere un po’ meno severo con lui? So che è infuriato per il caso di Graham Stirling, ma non è colpa di Ciuffo». Vero. Tuttavia… L’autobus 35a li superò borbottando, dirigendosi verso le bellezze edonistiche di Elgin. Logan ficcò le mani nelle tasche della felpa. «Una volta un mio capo mi ha detto che ci sono due tipi di persone, a questo mondo: le persone da carota, e le persone da bastone». A sinistra, dei
gradini erano intagliati nel muretto che divideva due proprietà. Prese a salirli. «Tu e Janet siete persone da carota. Ciuffo non potrebbe essere più da bastone neanche se ci provasse». «Probabilmente è così…». Oltre le scale, percorsero un sentiero e salirono un’altra rampa di gradini. Deano iniziava a sudare e annaspare. Niente di strano. Faceva un caldo infernale, e quel poveretto indossava due paia di pantaloni. «Ma ogni tanto provi a offrirgli la carota, eh? Se otterrà soltanto il bastone, finirà per riempirsi di lividi». «Pensavo fossi il suo tutore, non sua madre». «Vuole forse che cominci a pensare: “Al diavolo tutto, mi conviene andare a lavorare su una piattaforma petrolifera”?». Valida osservazione. Salirono un’altra rampa di scale. «Okay. La prossima volta che farà qualcosa di buono, ci proverò». I gradini finirono e i due si ritrovarono su Provost Gordon Terrace. «A proposito di carote, Janet vuole sapere perché lei è l’unica del gruppo a non avere un soprannome. E pensa che sia perché è una donna». Quella parte della strada era fiancheggiata da una fila di villette bifamiliari da una parte e dagli strani giardini sul retro delle case con il prato terrazzato che avevano visto prima su Victoria Place. Tutta una serie di parcheggi, garage, rimorchi e cassonetti dell’immondizia. Una zona tranquilla, infestata dalla presenza di due dannati spacciatori giusto nella strada accanto. Raggiunsero la fine della strada, si infilarono in un vicoletto e sbucarono su Fairholme Place. Deano accennò con la testa a una delle villette. «È quella?» «Già». A dire il vero, sembravano tutte uguali: due piani di mura grigie e ruvide con tetti di tegole altrettanto grigie. Due finestre al piano di sopra e due al pianterreno, di cui una appartenente a una veranda. L’unica particolarità della casa della madre di Klingon era che la saracinesca del garage era dipinta di un orrendo viola fluo. Logan e Deano avanzarono lungo la strada, con le mani in tasca. Come due tipi spensierati. Due amici in giro per una passeggiata pomeridiana. Innocui, tranquilli e innocenti. Deano tirò su con il naso. «Janet ha già detto che tipo di soprannome le piacerebbe?» «Credo che dovremmo essere noi a decidere». «Guardi la macchina parcheggiata fuori dalla casa di Klingon. Non è quella di Gerbillo?». Era una trasandata Honda Civic sportiva, con i cerchioni in lega e una striscia rossa che correva nel mezzo della carrozzeria dipinta di bianco. Lo sportello del passeggero veniva sicuramente da un’altra macchina, essendo di un rugginoso arancione. Il paraurti posteriore era deformato. «Già. E ci sono movimenti anche all’interno. Piano di sopra, a sinistra». «Che ne dice di… “Killer”? Oppure potremmo andare sul sarcastico con “Coccola”?» «Per come prepara il tè, potremmo chiamarla Crippen». Logan fece scivolare la ricetrasmittente fuori dalla tasca della felpa. Si inginocchiò come se si stesse allacciando una scarpa e premette il pulsante. «Operazione Schofield partita. Approccio silenzioso». La voce del sergente Mitchell si fece sentire crepitando dal ricevitore. «E questo è il momento in cui arrivo io, con la Cavalcata delle Valchirie che spara a cannone dagli amplificatori del furgone». Un respiro profondo. «Spartani! Stasera ceneremo a Banff!». Logan mise via la ricetrasmittente e alzò lo sguardo sulla casa. L’unico modo per raggiungere il giardino sul retro era attraversare, o superare, il cancello alto circa un metro e ottanta. E considerando il grosso lucchetto giallo che lo chiudeva, attraversarlo non sembrava un’effettiva possibilità. «Preferisci l’ingresso principale o il retro?» «Ce la giochiamo a morra cinese?». Logan tese il pugno vicino a quello di Deano. «Uno, due… e tre».
«Oh… questi dannati calzoni». Deano si tirò su i pantaloni da jogging e si allontanò lungo il vialetto, superando il garage e aggrappandosi alla sommità della recinzione. A fatica vi si issò per scavalcarla, mentre il furgone dell’Unità di Supporto svoltava l’angolo a tutta velocità. Si fermò con un forte stridore di freni proprio davanti alla casa della madre di Klingon, i portelli si spalancarono e la squadra di Mitchell saltò giù. Tutti bardati con l’equipaggiamento antisommossa, dai caschi alle protezioni per gomiti e mani. I volti nascosti da visiere e sciarpe. Si lanciarono oltre il basso muretto del giardino. Uno di loro portava con sé una barra Halligan, una specie di accetta da ghiaccio lunga un metro, con due sporgenze all’estremità. Un altro stringeva i manici di un piccolo ariete rosso. Doveva essere Mitchell: torreggiava sugli altri di una buona quindicina di centimetri. Mitchell sollevò la Grande Chiave Rossa, ritraendola per poi abbatterla in avanti, al centro della porta di pvc non plastificato, proprio sopra la buca delle lettere e in mezzo ai pannelli di vetro. L’ariete vi passò attraverso, facendo crollare tutta la parte centrale del battente e lasciandosi dietro soltanto la cornice. Poi l’uomo si appiattì contro il muro e gli altri tre entrarono di corsa. «polizia! nessuno si muova!». Mitchell lasciò cadere la Grande Chiave Rossa e si lanciò all’interno dietro di loro. La Nicholson scese dal furgone. «Una scena meravigliosa, non trova, sergente?» «Ne ho viste poche di migliori». Logan si sfilò la felpa e la gettò nel furgone. «Senti, riguardo a… al giro di tè e caffè che abbiamo offerto lunedì notte…». «Ah». Lei mostrò i denti per un attimo. «Sì». «Credo che sia meglio se io e te non ne parliamo mai a nessuno. Mai. Giusto per precauzione». «È vero che Dawson è finito in ospedale?» «Sarà il nostro piccolo segreto. Okay?». Logan si schiarì la gola. «Allora, che avete fatto tu e il resto del gruppo, ieri? C’è qualcosa di cui devo essere messo a parte?» «Le solite cose. Abbiamo arrestato qualche drogato, fermato un conducente in stato di ebbrezza, avuto a che fare con due effrazioni e beccato due ubriachi che pisciavano in un androne. Roba esaltante». «Pattuglia Sette, potete parlare?». Logan premette il pulsante della ricetrasmittente e parlò contro la spalla. «Dimmi, Maggie». «Abbiamo ricevuto una telefonata. Qualcuno ha visto Ian Dickinson scendere da un autobus con una donna, a Cullen. Aveva diramato un avviso di ricerca per…». «Ian Dickinson? Cinque anni, capelli castani e occhi azzurri? Lo stesso Ian Dickinson che abbiamo ritrovato giovedì scorso? Era scomparso di nuovo, o si sono semplicemente dimenticati di togliere gli annunci che lo davano per disperso?» «Non ne ho idea». «Era con una signora corpulenta con i capelli ricci e un bastone da passeggio?» «Sì». «È sua madre. Maggie, fammi un favore: chiama qualcuno e accertati che gli avvisi siano ritirati davvero, questa volta. E che tolgano di mezzo quei dannati annunci sparsi in giro!». Un secondo Transit percorse la strada. Si parcheggiò proprio dietro al furgone dell’Unità di Supporto. L’agente Syd Fraser li salutò da dietro il volante, poi aprì lo sportello. «Il luogo è già sotto controllo?» «Ci stanno lavorando». Logan tornò a guardare la Nicholson. «Altro?» Lei si strinse nelle spalle. «Be’, Deano e Ciuffo hanno interrotto una rissa fuori dal Seafield Hotel. C’è stata una rapina allo Spotty Bag Shop. Qualcuno ha dato fuoco a un cassonetto su Castle Street. Ho indagato sulle denunce riguardanti un guardone su Melrose Crescent, ma non ho scoperto nulla. E ho riportato a casa quella vecchietta che anche l’altra notte vagava per Market
Street. Sono due notti di seguito che succede. Ha detto che non riusciva a dormire nel suo letto perché era pieno di ratti». Syd si avvicinò al retro del Transit, da cui veniva un coro di latrati e uggiolii. «Cosa, era pieno di ratti?» «La vecchietta pensa che il suo letto sia pieno di ratti. Ogni notte escono dalle pareti e le si infilano sotto la coperta. E lei dice che la stanno facendo impazzire. L’ho riportata a casa e mi ha coperto di insulti dicendo che a nessuno importa niente e che siamo tutti dei bastardi. Di nuovo». Un sospiro. «Chi è stato l’idiota che ha pensato che la “cura all’interno della comunità” fosse una buona idea?». Syd si appoggiò alla fiancata del furgone dell’Unità di Supporto. «Per cosa siamo venuti qui? Eroina? Un po’ di coca? Erba?». Logan annuì. «Probabile». «Bene. Basta che non sia Valium. Enzo non è stato addestrato per il Valium». La Nicholson sorrise. «Certo, certo, già tiriamo fuori le scuse, eh?». La ricetrasmittente di Logan trillò. «Operazione Schofield sont arrivé. Deux hommes dans les manette». Lui sorrise. Premette il pulsante per parlare. «Non ricordi il francese per manette, eh?» «Quante storie. Sii lieto, peccatore, perché la scena del crimine è sotto controllo». Logan agganciò la ricetrasmittente al giubbotto antiproiettile. Prese il berretto dell’uniforme dal furgone e se lo calcò in testa. «Bene, Syd, è ora che i tuoi amichetti pelosi si guadagnino da vivere». E, ti prego, Signore, fa’ che trovino qualcosa.
Capitolo 16
Gerbillo e Klingon erano seduti l’uno accanto all’altro sul divano sporco. L’intera stanza era lurida, dal tappeto alle pareti alle tende. Perfino il soffitto era pieno di macchie. C’era dell’immondizia accumulata sul pavimento intorno al divano, come se chiunque se ne stesse lì di solito non si preoccupasse di usare un bidone della spazzatura, gettando i rifiuti dove capitava. Il sergente Mitchell era dietro a Gerbillo e Klingon, una mano sulla spalla di ciascuno. I due stavano facendo del loro meglio per non guardare negli occhi gli altri presenti nella stanza. Un tavolino malandato era al centro del tappeto, con delle bilance digitali e un cucchiaio sistemati sopra a una rivista dalla copertina rossa: “pervertito in fuga: wood, pedofilo scomparso, ha fatto un’altra vittima?” Logan tirò fuori un paio di guanti di nitrile azzurro. «Allora, volete risparmiarci la fatica e dirci dove si trova la roba?». Gerbillo si fissò le ginocchia. Klingon sbatté le palpebre dietro agli occhiali dalla montatura pesante. Nessuno dei due spiccicò parola. «Okay». Logan tolse l’elastico che teneva chiusa la telecamera che portava addosso, e fece scivolare giù il pannello frontale, iniziando a registrare. «Sergente Logan McRae, ore sedici e cinque minuti del ventuno maggio, Fairholme Place numero trentasei. Agente Fraser?». Syd staccò il guinzaglio dal collare di Enzo e gli fece scivolare sopra la testa una mantellina di un giallo fluorescente, assicurandola dietro le zampe anteriori del Labrador. Il cane era enorme, con un folto mantello dorato, una coda lunga e piumosa e una grossa testa pesante. «Avanti, Enzo, vai pure…». Il cane dondolò sulle zampe anteriori, poi si mosse, scodinzolando e annusando in giro. Syd si passò il guinzaglio sopra la testa e lo agganciò sulla schiena in un unico, fluido movimento. «Per il primo minuto e mezzo non lavora davvero. Annusa in giro. È troppo eccitato all’idea di essere in un posto tutto nuovo». Il cane ricomparve da dietro il divano e tornò dritto verso le gambe di Syd. Ondeggiò ancora un po’, incerto. «Avanti, Enzo, calmati e fai lavorare il naso». Gerbillo si agitò sul divano. Poi raddrizzò le spalle e se ne uscì con un pesante accento di Glasgow. «Voglio un avvocato, e subito. È un mio diritto, no?». Deano lo fissò. «Davvero? Sappiamo che sei di Peterhead, Kevin, cos’è questo accento finto?» «Non risponderò a nessuna domanda finché non vedrò un avvocato». Deano sospirò. Poi aggrottò le sopracciglia, guardando Logan. «Glielo dico io, si fanno diciotto mesi a Polmont ed escono tutti che parlano come Begbie». Il Labrador fece un altro giro del salotto. Solo che questa volta invece di saltellare da una parte all’altra come prima cominciò ad annusare intorno con più attenzione. «Ecco, ora si è messo a lavorare sul serio». Syd alzò un braccio e lo allargò, come se stesse presentando agli altri una parete del salotto. Enzo si girò e seguì la direzione del gesto annusando lungo il bordo del muro. Poi intorno al divano. Poi si fermò davanti a Klingon e lo fissò. Il sergente Mitchell staccò la mano dalla spalla di Gerbillo e fece alzare Klingon, strappando un gemito acuto e involontario da quelle labbra umide. «Penso proprio che sia ora di una bella perquisizione, no?»
«Vieni, Enzo, andiamo a dare un’occhiata in cucina». Syd schioccò le dita e ripeté quel gesto da apprendista stregone, questa volta indicando il corridoio. Logan li seguì, tenendo il cane più o meno inquadrato dalla lente della telecamera. Superarono il corridoio, oltre le scale, ed entrarono nella piccola cucina. Se il salotto era sporco, la cucina era direttamente un porcile. Piatti impilati nel lavello. Macchie di cibo sul muro sopra ai fornelli. Scatolette aperte e contenitori da rosticceria ovunque. Il secchio dell’immondizia strabordava di cartoni di pizza e carta per avvolgere il kebab. Si respirava un terribile fetore di cibo avariato e cenere di sigaretta. Il ronzio pigro dei mosconi, che danzavano un valzer al rallentatore nell’aria fetida. Fermandosi ogni tanto a sbattere contro la finestra. Logan arricciò il labbro superiore. «Riesci a immaginare di vivere così?» «Pff…». Syd gonfiò le guance, mentre Enzo faceva un giro. «Pensi che questo sia uno schifo? Una volta ho dovuto perquisire un posto in cui tenevano un secchio accanto al letto. E non per la spazzatura, ma per evitare di lasciare la stanza se dovevano pisciare o cacare. E non si erano mai neanche preoccupati di svuotarlo. Dio, la puzza». Logan aprì il pensile più vicino alla porta. Era pieno di scatole di latte in polvere. «Sembra che si siano attrezzati per dividere il carico». «Probabilmente una volta che arriverà in strada sarà più latte che eroina. Se la Camera di Commercio dovesse occuparsi degli spacciatori…». Sorrise. «Ecco, ci siamo». Enzo si era seduto davanti alla cucina, con lo stesso sguardo che aveva riservato a Klingon. «E ora andiamo di sopra». Syd fece cenno al Labrador verso le scale. Logan lanciò uno sguardo in salotto. La Nicholson e Carole non si vedevano, ma, purtroppo, non si poteva dire lo stesso di Klingon. Era in mutande al centro della stanza, con le braccia ammanettate dietro la schiena con i palmi delle mani in su. I muscoli si tendevano sulle sue membra come bande elastiche, e aveva il petto incavato e le costole sporgenti e gli addominali tesi. Se ne stava lì, con le spalle afflosciate e la schiena curva, a mostrare la forma di ogni singola vertebra. Una serie di lividi bluastri e violacei si estendeva sull’addome e lungo un fianco dell’uomo. Un tatuaggio un po’ incerto dell’Enterprise e del capitano Picard gli copriva un braccio dalla spalla al gomito. O, almeno, sarebbe dovuto essere il capitano Picard. Ma sembrava più una patata stitica. Zaffate di cipolla acida emanavano da lui come tentacoli dotati di vita propria, piantandosi con forza nei seni nasali di Logan. Mitchell stava infilando un altro paio di guanti di nitrile sopra a quelli che già portava. Non voleva correre rischi, evidentemente. «Allora, Colin, per caso ti sei infilato qualcosa lì dentro? Devo andare a controllare?». Logan non aveva alcuna voglia di assistere a quella scena. Accennò alla cucina. «Quando hai finito qui, prova a dare un’occhiata ai fornelli della cucina. Il cane ha puntato lì». Poi uscì, prima che quelle mutande grigie fossero abbassate. Salì al piano di sopra. Una striscia unta correva lungo la carta da parati all’altezza delle spalle. Logan tenne le mani lontane dalla balaustra e avanzò al centro del pianerottolo, tenendosi lontano dalla parete sporca. Di solito, sulla scena di un crimine si evitava di toccare qualsiasi cosa per non contaminare le prove. Ma in quel caso, era più per evitare di prendersi qualche malattia. La porta della camera da letto principale era aperta. Syd era sulla soglia, e la coda di Enzo sporgeva appena dall’altra parte del letto. Non c’erano lenzuola sul materasso, né federa sul cuscino schiacciato. Entrambi erano coperti di macchie giallastre, consumati e rovinati. Mucchi di vestiti sporchi circondavano il letto. Un’immagine incorniciata di Gesù se ne stava appesa sul muro sopra alla testiera del letto. Syd si guardò alle spalle. «Lascio il bagno per ultimo».
Già, perché sarebbe stato sicuramente piacevole. Diedero a Enzo un paio di minuti, poi gli aprirono l’armadio. Niente. La seconda camera da letto, più piccola, era uguale all’altra, solo ancora più in disordine. Un materasso singolo era abbandonato sul pavimento, con una grande macchia marrone su un lato e mosconi che vi ronzavano intorno. Sul davanzale c’era un cimitero di mosche e vespe. Oltre a un bong e a una striscia di carta d’alluminio bruciata sul davanzale, Enzo non trovò nulla neanche lì. Una scala pieghevole se ne stava appoggiata al muro in un angolo della stanza. Priva di calzini, mutande, magliette o pantaloni sporchi. Logan la indicò. «Non ti sembra sospetta?». Tornò sul pianerottolo e alzò gli occhi al soffitto. C’era una botola che conduceva alla soffitta, appena fuori dalla stanzetta. I bordi erano coperti di strati e strati di impronte digitali sporche. Logan la indicò. «Pensi che potremmo far salire Enzo lassù?» «Non senza farci venire un’ernia». Logan afferrò la scala e la portò sotto alla botola, aprendola. Salì i primi due pioli. Lanciò uno sguardo oltre la balaustra, fino in fondo alle scale. Era un bel salto. «Fammi un favore e reggimi la scala per un attimo, okay?». Meglio prevenire che curare. Salì e spinse verso l’alto e poi di lato lo sportello della botola. Era tutto buio. La sua torcia spedì un cono di luce alogena a danzare contro le travi del soffitto. Altri due pioli, e sbucò con la testa nella soffitta. Faceva caldo, lì sopra. Ed era pieno di roba. In parte pavimentato. Logan spostò la luce della torcia intorno a sé: scatoloni e scatoloni e ombre e scatoloni e… «Oh, oh. Cosa abbiamo qui?». Era una mazza da baseball, con del nastro adesivo avvolto intorno al manico e l’estremità di legno graffiata e rovinata. Sembrava macchiata di quella che pareva marmellata scura, ma aveva l’odore metallico della carne cruda. E non era l’unico odore che aleggiava nella soffitta. C’era anche qualcosa di rancido, come il fetore di una fogna. Altri due passi sulla scala, fino a sbucare con tutto il torso nella soffitta. Scatoloni e poi ancora scatoloni. Ne aprì uno e sogghignò. La voce di Syd si fece sentire dal basso. «Trovato qualcosa?» «O Klingon e Gerbillo hanno un magazzino intero di pacchi di farina di mais, quassù, o abbiamo fatto bingo. È…». Cos’era? Una mano gli tirò l’orlo dei pantaloni. «Tutto bene, lì sopra?» «Shhh…». Spostò il piede sull’ultimo piolo della scala. Ondeggiò per un attimo. Poi, con un piccolo sforzo, si ritrovò nella soffitta, in ginocchio sul bordo della botola. Una mano sulla trave più vicina, la torcia nell’altra. Spostò il raggio di luce a sinistra e a destra, con lentezza, facendo danzare le ombre e scintillare granelli di polvere nello spazio ristretto. Eccolo di nuovo. Era come se qualcosa grattasse contro il pavimento, sibilando. Ratti? Dovevano essere enormi, in quel caso. «Polizia. C’è qualcuno?». Si spostò in avanti. Lasciò andare la trave del soffitto. Allungò la mano e spostò uno scatolone. Si ribaltò con un tonfo, facendo rotolare polverosi frammenti di terraglia sulle assi del pavimento.
C’era un uomo disteso su un fianco, con le braccia dietro la schiena e le caviglie legate da numerosi giri di nastro adesivo. Era imbavagliato, sangue secco sul lato del volto poggiato contro il pavimento. Un occhio era chiuso dal sangue rappreso, l’altro ridotto a una fessura, con soltanto la sclera visibile. Zigomi prominenti, orecchie e naso pieni di piercing. Tatuaggi tribali e spinati sul collo. Gli mancavano i baffetti da Hitler, gli occhiali e le viti da Frankenstein ai lati del collo, ma non c’erano dubbi sul fatto che fosse proprio lui, il bastardo spacciatore scomparso, di cui la nonna aveva denunciato la scomparsa solo perché le aveva rubato i soldi. Jack Simpson. Ecco dov’era finito per tutto quel tempo…
Capitolo 17
Logan si chinò sul test usa e getta, strofinando insieme i polpastrelli delle dita inguantate. «Avanti, puoi farcela…». Nell’ufficio dei sergenti c’era un silenzio di tomba, rotto soltanto dall’occasionale scricchiolio o da qualche colpo di tosse da parte dei presenti. La stanza era piena: c’erano Syd, il sergente Mitchell e due dei suoi. La Nicholson, Ciuffo e Deano erano fuori, ma la maggior parte degli agenti del turno di giorno era accalcata lì dentro, a perdere gli ultimi dieci minuti prima di poter tornare a casa. Maggie comparve sulla soglia. «Be’?». Un vago alone rosa sporco comparve sulla sottile striscia che riempiva un lato del rettangolo di plastica nera grande quanto una penna. «Linea rossa, linea rossa, linea rossa…». Ed eccola lì. Proprio dove sarebbe dovuta essere, lungo il bordo del test. Logan si raddrizzò. Sollevò la striscia di plastica, in modo che tutti potessero vederla. «È un maschietto!». Mitchell si lasciò sfuggire un fischio acuto. Fissò lo scatolone confiscato nella soffitta di Klingon. «Quanto ci sarà, lì dentro? Qualcosa come ottanta o centomila sterline di roba?». Syd sogghignò. «Anche di più, se non è stata tagliata». Logan lasciò scivolare il test in una busta delle prove. «Signore e signori, dichiaro l’Operazione Schofield un totale, dannatissimo successo». Dio, grazie. Grandi sorrisi. Risate. Pacche sulle spalle. Logan si sfilò il giubbotto antiproiettile e lo lasciò cadere in un angolo. «Maggie, mi serve che tutta questa roba sia etichettata e catalogata nel sistema e nell’archivio». «Sarà un piacere». Logan si diresse verso l’ufficio principale e prese le scale che conducevano al primo piano, salendo i gradini due a due. Fischiettando We’re in the Money mentre saliva. Lo squillo dei telefoni e il brusio delle voci filtrava dall’ultimo piano. Doveva essere il Team Investigativo Primario, intento a fare qualunque cosa stesse facendo per far sembrare che stesse producendo qualcosa di concreto, a parte scartoffie e scuse. Al contrario della squadra di Logan. La porta dell’ispettore era aperta, perciò bussò sullo stipite prima di entrare. La McGregor era dietro la scrivania, e due borse violacee le campeggiavano sotto agli occhi. Si sfilò gli occhiali e li agitò verso l’uomo seduto di fronte a lei. «Ah, sergente McRae. Conosci senz’altro il sovrintendente detective Young, giusto?». Merda… Young non avrebbe sfigurato in mezzo all’Unità di Supporto del sergente Mitchell. Largo di spalle, con delle mani enormi dalle nocche piene di cicatrici. Capelli grigi rasati quasi a zero. Una camicia bianca inamidata e una cravatta blu scuro. La giacca del completo nero drappeggiata sullo schienale della sedia. Annuì. «Sergente». «Signore». Un sorriso. «Va tutto bene, non faccio più parte degli Affari Interni, non devi metterti sull’attenti». «La forza dell’abitudine». Logan si sentì avvampare le guance. Tornò a guardare l’ispettore. «Mi scusi per il disturbo, capo, ma pensavo che le avrebbe fatto piacere saperlo: abbiamo recuperato
almeno ottantamila sterline di eroina dall’abitazione di Klingon. Non potremo saperlo per certo finché i laboratori non ci daranno una risposta, ma se non è tagliata…». «In quel caso, il valore arriverebbe a duecento, forse trecentomila sterline». La donna annuì. «Ottimo. Mi fa piacere che tu abbia preso sul serio il mio consiglio sul fatto di portare a termine un’operazione di successo». «Inoltre, c’era un mattone di resina di cannabis nel forno. E, ultimo ma non meno importante, abbiamo ritrovato Jack Simpson: era pesto, legato e imbavagliato nella soffitta di Klingon». «Ancora vivo?» «A malapena. L’agente Scott lo sta tenendo d’occhio, in caso riprenda i sensi e dica qualcosa di coerente». «C’è una prima volta per tutto». La donna si sfregò le mani. «Un risultato eccellente, non trova, sovrintendente? Ci dimostra quello che le divisioni possono fare, se c’è la gente giusta al loro interno». Young stiracchiò il collo da un lato, come se stesse cercando di sciogliere qualche nodo. «E chi interrogherà questo… Klingon, giusto?» «Colin “Klingon” Spinney. Uno spacciatore locale». Logan accennò alla cartina di Banff e Macduff sulla parete dell’ufficio dell’ispettore, dove una rosa di puntine rosse infestava le strade. «Lui e il suo socio Kevin “Gerbillo” McEwan cercavano di salire in cima alla scala gerarchica da molto tempo. Li ho spediti entrambi a Fraserburgh per il processo. Non appena saranno dentro, e le solite idiozie degli avvocati saranno finite, andrò lì e…». «A dire il vero, temo che questo non sia possibile». Logan irrigidì le spalle. «Grazie per la preoccupazione, signore, ma credo che il mio team sia perfettamente in grado di…». «Lo so, lo so». Young sollevò una di quelle enormi mani segnate. «Ma se questi due avevano ottantamila sterline di roba in casa, è chiaro che abbiano dei collegamenti con qualche pesce grosso. Il che significa che dovremo utilizzare un Team Investigativo Primario. E dovremo coinvolgere l’Ufficio di Intelligence Divisionale e scoprire come si colloca questa situazione nella rete del narcotraffico. E collegarci a qualsiasi area del paese da cui il carico sia venuto. Probabilmente a quel punto ci sarà da coordinare un’operazione internazionale…». L’ispettore McGregor inforcò di nuovo gli occhiali. Controllò la sezione delle informazioni sui fogli del rapporto dell’Operazione Schofield. Fece una smorfia amara. «Al momento, tutto quello che sappiamo è che il carico è venuto “dal sud”». «Capo, credo che potremmo…». «Logan. La prego». Young si strinse il setto nasale tra due dita. «Nessuno vuole prendersi il merito del suo lavoro. Lei e il suo team sarete menzionati positivamente in tutti i rapporti e le segnalazioni, e avrete tutte le pacche sulle spalle che meritate, ma così tanta eroina?». Si strinse nelle spalle. «È troppa perché se ne occupi una singola divisione. Mi dispiace, ma ormai le cose funzionano così». «Capisco». L’ispettore McGregor sospirò. Poi prese una spessa busta di carta marrone dal suo schedario. «Già che abbiamo qui con noi il sovrintendente detective, ho pensato che fosse il caso di consultarlo su questa faccenda». Aprì la busta e ne tirò fuori un mazzo di fogli a4 tenuti insieme da una graffetta metallica in un angolo. «Abbiamo ricevuto una chiamata dalla Divisione di Aberdeen: il caso contro Graham Stirling è crollato mezz’ora fa. È finita». Logan serrò le palpebre e imprecò, stringendo i pugni. «Ma è stato lui. Non possono lasciarlo libero!».
«Il giudice ha considerato la maggior parte delle prove inammissibili. L’ufficio del Procuratore sta sputando sangue. E gli Affari Interni hanno richiesto le copie di ogni lamentela, richiamo e commento fatto sul tuo conto negli ultimi cinque mesi». Il fascicolo piombò con un tonfo sulla scrivania. «Ha torturato Stephen Bisset. Gli ha spezzato tutte le dita, gli ha strappato i denti, l’ha castrato…». «Sappiamo quello che ha fatto». L’ispettore aprì la cartellina. «È per questo che dobbiamo risolvere questa situazione». Logan sollevò il mento. «Si ricevono sempre delle lamentele, quando si indossa un’uniforme. Ci si trova a contatto con il pubblico per tutto il tempo: e alla gente non piace essere arrestata o perquisita. E nessuno di quei casi è stato mai portato davanti a un giudice!». «Non è quello che…». «L’unico modo per non ottenere nessuna lamentela è starsene dietro a una scrivania per tutto il giorno». Lei lo fissò. «E con questo cosa vorresti dire?». Ah. Aveva esagerato. Si schiarì la gola. «Intendo dire che gli Affari Interni non hanno idea di cosa significhi dividere della gente che si massacra di botte fuori da un nightclub di Peterhead alle due del mattino. La gente si lamenta. L’ha sempre fatto e continuerà a farlo». «Logan, abbiamo ricevuto una denuncia formale secondo la quale tu ti sei fatto corrompere dagli spacciatori». «È la prima volta che sento parlare di una cosa del genere». Lei controllò il primo foglio del fascicolo. «La denuncia è stata presentata stamattina da un certo Mr Brown». «Buster Brown? Mi sta prendendo in giro?». Young incrociò le braccia sul petto. «Le accuse di corruzione vengono prese molto sul serio, da queste parti». «L’ho arrestato la settimana scorsa per possesso di stupefacenti a fini di spaccio. E credo che questa sia la sua idea di vendetta». «Sergente», Young si appoggiò allo schienale della sedia, «se vuole un consiglio: considerate le accuse che le sono state mosse contro ieri, i miei ex colleghi le saranno addosso come mosche su uno stronzo. Deve minimizzare la sua vicinanza a situazioni che puzzano di merda». Indicò il fascicolo. «E questo puzza». «Non avevo scelta! Graham Stirling…». «Non importa se aveva scelta oppure no. Con il senno di poi, è così che gli Affari Interni stanno vedendo la cosa. E ora, ha qualcosa da dire riguardo a questa storia di lei che prenderebbe mazzette dagli spacciatori?» «Ovviamente no. Due mesi fa, Buster Brown mi ha accusato di averlo fatto cadere dalla bicicletta facendogli rompere entrambe le gambe. L’avevo arrestato per taccheggio e possesso di stupefacenti la settimana prima, e così ha cercato di vendicarsi. Ma non ha pensato che il fatto di essere bloccato da quindici anni su una sedia a rotelle ha leggermente fatto crollare le sue accuse». L’ispettore McGregor osservò di nuovo il foglio. «Era lui? Pensavo si trattasse di Ricky Welsh». «No, Ricky era quello della finta aggressione mentre era in arresto». «Ah. Ecco». La donna appoggiò le mani sulla scrivania. «Be’, avrai tutto il mio supporto quando gli Affari Interni saranno qui. Ti considero un valido elemento per la Divisione b, Logan, e l’operazione di stamattina lo dimostra, ma il sovrintendente ha ragione, devi fare più attenzione».
Come se le false accuse di Buster Brown potessero avere una rilevanza anche solo vagamente paragonabile al fiasco di Graham Stirling. Come se potessero fare una qualche differenza. Come se il sovrintendente capo Napier non avesse già deciso di fargli piovere addosso un monsone di merda. Comunque, quando si affoga… Logan annuì. «Sì, capo». «Nel frattempo», proseguì Young, alzandosi, «visto che la stampa sembra aver deciso che Neil Wood sia il responsabile dell’omicidio della bambina che abbiamo trovato, penso che sia il momento di piazzare un agente a controllare notte e giorno il suo Bed & Breakfast. Suo padre uscirà oggi dall’ospedale e non voglio che si ritrovi all’obitorio per colpa del figlio. Puoi pensarci tu, Wendy?». Il viso dell’ispettore McGregor restò impassibile. Come se avesse indossato una maschera. «Manderò una richiesta e sentirò cosa dice il Grande Capo. La disponibilità di agenti nella Divisione è già scarsa, al momento». Rimise il fascicolo delle lamentele nella busta. «Ma faremo il possibile». «Grazie». Un cenno del capo. «È stato bello rivederla, Logan. Si ricordi quello che le ho detto. Tenga la testa bassa e si mantenga pulito. Non dia a Napier altre possibilità di darle problemi. Già ne ha fin troppe». Young si fermò sulla soglia. «E lo richiami. Se c’è una cosa che odia, è essere ignorato». L’ispettore attese che la porta si chiudesse dietro al sovrintendente detective prima di afflosciarsi sulla sedia. «Come pensa che potrò tirare fuori un agente da mettere giorno e notte davanti alla casa di qualcuno? Non abbiamo già abbastanza a cui pensare?». Logan si piegò in avanti e sbatté la fronte contro il pianale della scrivania. «Lo stanno liberando…». Un sospiro. «Già due agenti hanno dato le dimissioni, questo mese. La polizia è una nave appestata, e stiamo cadendo come mosche». «Come possono lasciare libero Graham Stirling? Ma ha visto cosa ha fatto a Stephen Bisset?» «Logan, abbiamo…». «E non si fermerà, lo sa, vero? Ora che sa che può cavarsela!». Un altro tonfo con la fronte. «Ah…». Logan si raddrizzò, massaggiandosi la fronte. «Come hanno potuto scagionarlo?». La McGregor fece una smorfia. Girò la sedia e fissò fuori dalla finestra. Cielo azzurro, mare blu, gabbiani che planavano nel vento, compiendo larghi, pigri giri sotto al sole. Avrebbe dovuto piovere. Logan si afflosciò ancora di più sulla sedia, fissando le piastrelle del soffitto. «Sono fottuto, vero?». Nessuna risposta. Alla fine, l’ispettore si schiarì la gola. «Hanno fatto arrivare il rapporto dell’autopsia, ieri sera. A quanto pare, la maggior parte delle ferite della bambina risalgono a dopo la sua morte. Probabilmente causate dagli scogli dove è stata sbattuta dalle onde». «Totalmente fottuto…». «Logan!». Un sospiro. «Non pensavo fosse più un caso di nostra competenza». «Su, assecondami». La McGregor non si guardò intorno, mantenendo lo sguardo e il viso rivolti alla finestra, dove lui non poteva vederli. «Il mare ci restituisce una bambina di sei anni e nessuno ne denuncia la scomparsa. Perché?» «Okay… causa della morte?» «Qualcuno le ha spaccato la testa con un pezzo di tubatura metallica. Poi l’ha gettata in acqua. Secondo Young, ci sono anche tracce di violenze sessuali. Portate avanti per parecchio tempo».
Povera piccola. Logan gonfiò le guance. Espirò lentamente. «Il che ci riporta a Neil Wood». «Come facciamo a dimostrarlo? Il mare non aiuta molto, quando si tratta di impronte e dna. Non sappiamo neanche quando è finita in acqua. L’anatomopatologo afferma che un bambino del peso e delle dimensioni della nostra vittima ha una spinta di galleggiamento neutra: potrebbe essere stata gettata in mare dove l’abbiamo trovata, e poi la marea l’ha portata via e riportata indietro. Oppure potrebbe essere scesa lungo la costa, trasportata dalla corrente. Impossibile dirlo». «Questo non ci aiuta affatto». L’ispettore appoggiò i piedi sul davanzale, intrecciò le dita dietro la testa e fissò la distesa blu increspata di onde. «So che sei infuriato per quello che è successo con Graham Stirling, ma lamentarsi non aiuterà. Vuoi che ti conceda un po’ di ferie?» «Sì, perché una cosa del genere farà un’ottima impressione, quando gli Affari Interni saranno qui. Sospeso senza paga e con un’indagine in corso». Si coprì il volto con le mani e sbuffò. «Fantastico. Avrei dovuto lasciar morire Stephen Bisset nel bosco. Sarei stato un bravo poliziotto che si attiene alle procedure, lasciandolo lì a crepare». «Nessuno sta dicendo questo». «Ah, no?». Logan si raddrizzò. «Invece è esattamente quello che stanno dicendo. Fai quello che ti si dice, attieniti alle procedure, non pensare con la tua testa. Non siamo altro che robot con un berretto a scacchi in testa e un paio di dannati pantaloni ruvidi addosso. Non mi stupisce che non vogliano neanche affidarci un’indagine che riguarda gli spacciatori del nostro territorio». Lei non si girò. «Hai finito?» «Mi scusi, capo». «Okay: è frustrante non poter seguire quel caso dopo il sequestro del carico che siamo riusciti a ottenere, ma ormai è questo il mondo in cui viviamo. Devi accettarlo». «Non si tratta solo della droga, però, vero? Non ha alcun senso parlare di quella povera bambina uccisa, perché ci hanno tolto anche quel caso. Ogni volta che ci imbattiamo in qualcosa di grosso, qualcuno arriva e ce lo porta via». Batté un colpo con le nocche sul pianale della scrivania. «E almeno io ho ottenuto un risultato! È più di quanto il team di Young possa affermare». All’esterno, i gabbiani planavano e stridevano. Le onde formavano sottili linee bianche contro la costa. Un’auto passò sulla strada sotto di loro, emettendo distorti «Bmmmmtshhh-bmmmmtshhhbmmmmtshhh» dalle casse. Per poi allontanarsi fino a far tornare il silenzio. L’ispettore McGregor si accigliò, fissando il soffitto. «Allora, perché nessuno ha denunciato la sua scomparsa? A chi è che non manca una bambina morta?». Era tornata alla questione di prima. D’accordo. «Be’…». Logan aggrottò la fronte, cercando di recuperare qualche ricordo dai recessi più profondi e oscuri della sua memoria. «Una volta, anni fa, ho seguito un caso, quando ero appena entrato nel cid: una bambina non identificata. Si scoprì che la madre era stata fatta entrare clandestinamente dai Paesi dell’Est, e costretta alla prostituzione. Era morta, quando la bambina sparì, quindi non c’era stata alcuna denuncia». «Non ci aiuta molto». «Può darsi che la nostra vittima stesse da parenti o amici mentre i genitori erano all’estero? Oppure… la sua scomparsa potrebbe essere stata denunciata, ma molto tempo fa?» «Hmm…». L’ispettore si mordicchiò l’interno di una guancia per qualche secondo. «Perché vestirla con un’uniforme scolastica, e poi ucciderla?» «Intende, a parte per i motivi più ovvi? A questo genere di persone piace che le bambine sembrino bambine».
«Giusto». Logan fissò il grosso fascicolo di lamentele sulla scrivania della McGregor. «Ma perché ucciderla? Perché non tenersela e… continuare a fare quello che stava facendo?» «Un incidente, forse? O magari ha cercato di fuggire? E forse non è un travestimento, forse è davvero la sua uniforme scolastica». Logan recuperò il taccuino. «È il periodo delle pagelle. Anche se davvero era a casa di parenti, la scuola avrebbe notato la sua scomparsa. Pensa che valga la pena fare un controllo?». L’ispettore McGregor annuì. «Be’, probabilmente il Team Investigativo Primario ci ha già pensato, ma suggeriamoglielo comunque. E quando avrai finito il rapporto della perquisizione di stamattina, faremo due chiacchiere su come pensi di procedere per le tue azioni di sviluppo della valutazione interna. Sto parlando della parte del collegamento e dei rapporti con la comunità». Fantastico. «Young le ha forse dato l’ora del decesso?» «Della bambina? Probabilmente è successo durante il weekend. Venerdì, a volersi tenere larghi. L’acqua è ancora piuttosto fredda, a maggio». «Che senso ha fare un’autopsia se non riescono a ottenere niente di utile?» «Sei un ottimista nato, Logan, te l’hanno mai detto?». L’ispettore tolse i piedi dal davanzale e tornò a voltare la sedia verso la scrivania. «C’è altro?» «La mia informatrice, quella che ci ha fatto arrivare a Klingon e Gerbillo, quando l’abbiamo beccata era in possesso di stupefacenti di classe a e b e anche di beni rubati». «Capisco». La McGregor prese un taccuino da sotto una pila di moduli e lo aprì. «E questa tua fonte di informazioni è già registrata sui nostri libri?» «Non ancora. Ha una bambina, ma non la riesce a vedere molto spesso. Se la sbattiamo dentro per possesso di stupefacenti e furto…». «Le hai promesso qualcosa?». L’ispettore McGregor cercò di nuovo qualcosa tra i mucchi di scartoffie che le ingombravano la scrivania. Poi si appoggiò allo schienale della sedia e fissò il taccuino, accigliandosi. «Non ci credo. Questa settimana Hector mi ha già fatto sparire tre penne, ed è solo mercoledì». «Non le ho promesso niente. Però le sue informazioni oggi ci hanno fatto ottenere almeno ottantamila sterline di eroina. Quindi…?». Un sospiro. «Vedrò cosa ne pensa il Grande Capo. Ma se vogliamo tenercela come informatrice, dobbiamo farlo nel modo giusto. Sarà sui registri di Aberdeen e tutto sarà controllato. Le informazioni devono passare dall’Unità preposta. Non esistono più le mance informali». Lui si alzò in piedi. «Grazie, capo». «E richiama Napier!».
Capitolo 18
Logan concluse la sezione di introduzione e passò alla parte centrale del rapporto del raid alla tana-barra-deposito di droga di Klingon e Gerbillo. Torturando la propria lingua come solo un poliziotto addestrato sapeva fare. Era giunto al punto in cui, Quattro specialisti addestrati dell’Unità di Supporto hanno rimosso la porta principale della proprietà per mezzo di forza contundente per ottenere l’ingresso nel luogo. L’azione si è svolta con successo. …quando la porta dell’ufficio dei sergenti si spalancò con un tonfo, facendo entrare la Steel. Aveva la finta sigaretta in una mano e una tazza nell’altra. «È qui che ti eri rintanato, eh?». Lui tornò al rapporto. «Ha fatto mandare qualcuno a prendere Helen Edwards alla fermata dell’autobus?» «Sono io che faccio le domande, qui, Uomo dei Disastri». Si lasciò cadere sulla sedia dietro alla scrivania di fronte a quella di Logan. «Come hai fatto a mandare all’aria il caso Stirling?» «Non le sto chiedendo di volare fino alla luna, ma solo di andare a prendere una persona che forse potrebbe identificare la vostra vittima. Quanto può essere difficile?» «Hai una vaga idea di quanta merda mi sta volando addosso dai piani alti, per colpa tua?». Posò la tazza sulla scrivania e si ficcò un dito nell’orecchio. Come se si stesse cercando il cervello. «Sono stata al telefono per almeno un’ora». «Senta, Helen Edwards potrebbe essere la madre della vittima. Il minimo che può fare è…». «Non sei nella posizione di fare la predica a nessuno, Laz, non dopo il fiasco di ieri. Sei fortunato a non essere stato ancora licenziato in tronco, dopo quello che hai combinato». «Ho salvato la vita a Stephen Bisset!». Lui la fulminò con lo sguardo. «Ma sa cosa? Basta così. Ho appena sequestrato qualcosa come centomila sterline di stupefacenti. E lei? Qual è l’ultimo successo che può dire di aver portato a casa, lei?». «Non fare la principessa delle fiabe». La Steel gli puntò contro la sigaretta elettronica. «Smonta dal tuo unicorno magico e vai a prendere Helen Edwards. Sei stato tu a organizzare la cosa, ora tocca a te…». «D’accordo!». Logan spinse indietro la sedia, facendola sbattere contro la parete. «Andrò a fare il suo lavoro. Come sempre!». Afferrò il berretto dell’uniforme e uscì. La voce della Steel lo seguì fino all’ufficio principale. «E prendi dei biscotti decenti, già che ci sei!». La Nicholson appoggiò le braccia sul volante. «Credo che i genitori di Ciuffo gli abbiano regalato un abbonamento al “New Scientist”». Logan si appoggiò al sedile e guardò fuori dal parabrezza, con aria cupa. «Quelli al “New Idiot” li avevano finiti?». Il sole picchiava su Low Street, scintillando sulla pensilina in Perspex della fermata dell’autobus. Qualche abitante di Banff passeggiava sul marciapiede, come se stessero prendendo aria sulla Riviera. A braccetto, godendosi il bel tempo. Dannata Steel. Dopo tutti quegli anni, ancora continuava a fare commissioni per lei. Annusò l’aria e arricciò il naso. «E cos’è questa puzza terribile, ora?». Era un fetore che somigliava alle uova marce, forte e rancido. Il tipo di puzza di cui Bob Biorischio sarebbe stato orgoglioso.
La Nicholson si strinse nelle spalle. «Gliel’avevo detto. Abbiamo tenuto i finestrini abbassati per tutto il giorno. Dovrò trovare uno di quei deodoranti per ambienti…». Si sedette in avanti sul sedile. «Oh, oh, ci siamo». Un grosso autobus rettangolare svoltò l’angolo borbottando. Si fermò accanto al marciapiede con un sibilo di freni ad aria, mentre Logan scendeva dalla macchina. Si calcò in testa il berretto dell’uniforme e attraversò la strada, in tempo per vedere gli sportelli che si aprivano e il primo passeggero che scendeva dall’autobus. Era un vecchietto tutto vestito di grigio e beige, con un abbigliamento che sembrava venire da un grande magazzino per soli vecchi. La seconda a scendere fu una donna incinta con il viso rosso e un marmocchio urlante in braccio. Poi più nessuno, per un po’. Poi un’altra donna, più anziana. E infine, l’ultimo passeggero toccò il marciapiede. Gli sportelli dell’autobus si chiusero sbuffando. Il motore ringhiò e il mezzo si allontanò con calma. Le altre persone alla fermata fecero lo stesso, lasciando sola la donna che era scesa per ultima, con una sacca accanto ai piedi. Logan si fermò vicino al cartello delle informazioni. «Signora Edwards?». Lei spostò il peso da un piede all’altro e raccolse la borsa. «Mi scusi». I capelli ricci e a caschetto, di un biondo cenere le incorniciavano il viso a cuore, come molle rotte. Borse sotto agli occhi scuri. Un rossetto scuro sotto a un naso lungo e sottile. Carina, anche se un po’ inquietante. Indossava un maglione di lana grigia e un paio di jeans, con un piumino tenuto ripiegato su un braccio. «Mi chiami Helen». Un vago accento dell’Ayrshire, quasi sepolto sotto a una cadenza britannica del tutto generica. «Helen». Le tese una mano, per prendere la borsa. «Sono il sergente McRae, abbiamo parlato al telefono mentre stava venendo qui in autobus, ricorda? La accompagnerò alla stazione di polizia, così potrà parlare con l’ispettore capo che sta gestendo questa parte dell’indagine. Vuole che le porti la giacca?» «Oh. Okay. Grazie». Un piccolo sorriso. «Mi scusi. Non immaginavo che avrebbe fatto così caldo. A Edimburgo pioveva, stamattina». Lui la condusse alla macchina. «Ha un posto dove stare?». Lei arricciò il labbro superiore, stringendo gli occhi e riempiendone gli angoli di rughe. «Ho solo messo qualcosa nella borsa e sono saltata sul primo treno diretto a nord». «Sono certo che la aiuteranno». Aprì lo sportello posteriore dalla parte del guidatore. «Probabilmente ci avrebbe messo di meno a piedi, ma ho pensato che le avrebbe fatto piacere trovare qualcuno alla fermata». Un lieve sorriso. «Grazie». La donna pescò qualcosa nella borsetta che aveva a tracolla e ne trasse una busta rosa, di quelle che di solito contenevano un biglietto di auguri per le bambine. Gliela tese. «Ho portato delle ciocche di capelli». «Sarà meglio che le consegni all’ispettore capo Steel». «Oh. Sì. Mi scusi». Un sospiro, poi la donna distolse lo sguardo. «Immagino che lei abbia altre cose da fare». «Non si preoccupi: abbiamo un team dedicato che sta lavorando unicamente a questo caso. Io e l’agente Nicholson ci occupiamo della gestione locale. Vogliamo solo assicurarci che dia i campioni alla persona giusta». «Sì, giusto. Scusi». Salì in macchina, e Logan le chiuse lo sportello. La Nicholson effettuò un’inversione a tre tempi e tornò verso la stazione di polizia di Banff. Helen restò in silenzio per tutto il tragitto, che durò circa cinque minuti. Ogni tanto arricciava il naso, come se cercasse di capire da dove venisse quello strano odore. «A tutte le unità, trattore John Deere rubato nell’area di Strichen…».
L’auto si fermò davanti all’entrata della stazione. Clunk. Clunk. Helen Edwards si accigliò, nello specchietto retrovisore. Poi riprovò ad aprire lo sportello. «È bloccato». «Sono i blocchi di sicurezza per i bambini». Logan uscì e le aprì lo sportello dall’esterno. «A volte le persone che facciamo salire in macchina cercano di scappare». «Oh. Giusto». La donna smontò dalla macchina. Alzò lo sguardo al piccolo portico con le sue false colonne e i capitelli arricciati. «Andrà tutto bene. La porterò all’area della reception e qualcuno si occuperà di lei». Una ruga dritta comparve tra le sopracciglia di Helen. «Non sarà lei a…?» «Noi dobbiamo uscire di pattuglia. Ma non si preoccupi, andrà tutto per il meglio. Se ha bisogno di qualcosa…». Logan tirò fuori un biglietto da visita e le indicò il numero di cellulare sul retro. Poi glielo tese. «Il Team Investigativo Primario sta facendo tutto il possibile». «Grazie». Lei infilò il biglietto nella borsa, si riprese la giacca e la sacca, e poi salì i gradini della stazione di polizia, entrando all’interno. Un forte fetore di sudore acido emanava a ondate dall’uomo magro come un chiodo, mentre teneva le braccia alzate. Gli tremavano le mani. Era quasi impossibile dire di che colore fosse stata in origine la sua tuta. Adesso era quello del liquido rancido che poteva uscire da un cassonetto dell’immondizia. E l’odore era più o meno lo stesso. La Nicholson si infilò un paio di guanti di nitrile azzurro. «Ora, prima di cominciare, hai qualcosa in tasca di cui devo sapere prima, Sammy? Aghi, coltelli, qualcosa di tagliente?» «Nah». Quell’unica parola gli scivolò fuori dalla bocca insieme a un alito da cadavere in decomposizione. La pelle di Sammy Wilson era quasi traslucida, tesa sul cranio dagli zigomi prominenti come lame, con le ossa dei polsi perfettamente visibili. E le dita come rami secchi e sporchi. Sottili strie argentee gli correvano dal naso al labbro superiore. Le pupille erano ridotte a due capocchie di spillo. «Ma comunque può prendersi tutto il tempo che vuole, per le tasche davanti, okay?». Ammiccò, con gli occhi arrossati. «Mi piace farlo lentamente». Logan cercò di non respirare quella puzza più del dovuto. «Da chi compri, adesso, Sammy? Sei ancora un cliente di Klingon?». Lui si strinse nelle spalle. «Come dire… non seguo una sola religione, okay? Sono un tipo aperto. E comunque… non mi faccio più…». Socchiuse gli occhi, poi un lento sorriso gli si allargò sul volto, mentre la Nicholson gli frugava nelle tasche anteriori dei pantaloni. «Oh, sì… così…». I lampeggianti della Macchina Grande aprivano la strada nel traffico serale, il motore che ruggiva mentre la Nicholson schiacciava il piede sull’acceleratore. Logan si aggrappò alla maniglia sopra lo sportello, premendo di nuovo il pulsante di comunicazione della ricetrasmittente. «Scusate, Controllo, ho perso l’ultima parte, potete ripetere?» «Ricevuto: abbiamo diverse segnalazioni di persone che entrano ed escono dall’abitazione di Francis “Frankie” Ferris, al numero quindici di Rundle Avenue. Chi ci ha chiamato afferma che potrebbe trattarsi di traffico di droga». «Avete idea di chi potrebbe essere?». Uno stridio di freni, mentre la Nicholson affrontava a tutta velocità una curva, facendoli immettere su School Lane, sbandando dall’altra parte della strada con la parte posteriore dell’auto. E mancando per un soffio un grosso furgone rosso della nettezza urbana. Il loro Arbre Magique nuovo di zecca dondolò come un pendolo dallo specchietto retrovisore. «Chi ci ha chiamato non ha saputo identificare nessuno di loro, ma ci stanno mandando le descrizioni fisiche».
Valeva la pena andare a dare un’occhiata. «Dite all’agente Scott di recarsi sul posto e controllare le strade adiacenti. Chiunque corrisponda alle descrizioni dovrà essere fermato e perquisito. Con un po’ di fortuna, potremo ottenere un mandato per dare un’occhiata alla tana di Frankie». «Ricevuto». L’auto attraversò in corsa l’incrocio con Main Street, ignorando lo stop. Le piccole case di granito che fiancheggiavano la strada sfilarono rapide lungo i finestrini. Un’anziana signora si fermò a guardarli a bocca aperta, mentre passavano ruggendo, a sirene spiegate. Logan lasciò andare il pulsante di comunicazione. «Cos’è, oggi, siamo finiti in una gara automobilistica senza che lo sapessi? Stai recensendo la Macchina Grande per Jeremy Clarkson?». La Nicholson gli rivolse un sorrisetto veloce. «Sergente, qualcuno è in pericolo di vita». Percorsero North Street, con l’ago del tachimetro che superava i novanta, mentre oltrepassavano il segnale del limite di velocità, su cui campeggiava un grosso 30. Logan tornò a parlare alla ricetrasmittente. «Controllo, notizie dai vigili del fuoco?» «Stanno arrivando… sono a venti chilometri». Dannazione. Una brusca svolta a destra, e raggiunsero infine Taylor Drive. Ma invece di fiamme che ruggivano attraverso finestre esplose, travi crepitanti e colonne di fumo nero a innalzarsi verso il cielo limpido, trovarono un uomo di mezza età, al centro della strada, con un grembiule con la scritta “baciate il cuoco”. Il volto annerito dal fumo. Alzò le mani, come se si aspettasse di essere abbattuto a colpi di pistola, mentre Logan e la Nicholson uscivano dall’auto. «Scusate, scusate, è tutta colpa mia». Logan gli si avvicinò di corsa. «Sono usciti tutti dalla casa?» «No, è stato un piccolo disastro. Mi dispiace. Ho messo un po’ troppo liquido infiammabile sul barbecue e… be’… ecco, il capanno ha preso fuoco. Un pochino. L’abbiamo spento con la pompa del giardino». L’uomo accennò un lieve sorriso imbarazzato. «Mi dispiace». «Nah, finora niente». Il sospiro di Deano raschiò contro la ricetrasmittente. «Abbiamo fatto il giro di quest’isolato così tante volte che Ciuffo sta cominciando ad avere la nausea». Logan reclinò il sedile di un paio di centimetri. «Dobbiamo avere fortuna una volta sola». Il sole si rifletteva sul parabrezza, catturando particelle di polvere e impronte digitali lasciate da chiunque avesse aggiustato la Macchina Grande. Ma la Nicholson era comunque ben visibile, mentre bussava alla porta rossa. Se ne restò lì, con le mani infilate nel giubbotto antiproiettile, a dondolare avanti e indietro sulle caviglie. A giudicare dall’odore, chi aveva aggiustato la macchina doveva essersi lasciato dietro qualcosa di più delle sole impronte digitali. Era come se un cadavere fosse stato marinato nella scorreggia più puzzolente di Bob Biorischio. «Se fossimo in un film, potremmo abbattere la porta di Frankie, ci sarebbe un rapido montaggio della perquisizione, e torneremmo in stazione in tempo per lo stacco pubblicitario». Una brunetta aprì la porta, si guardò intorno e tornò dentro. La Nicholson la seguì in casa, chiudendosi la porta alle spalle. «Questo succede perché i poliziotti dei film non devono mai vedersela con quelli degli Affari Interni». «O con le scartoffie. Glielo dico, ieri sera stavo guardando una cosa e… Un momento, sergente. Ciuffo, da quella parte. Il tizio con la felpa verde e la tuta arancione». Silenzio. Un bambino passò sulla sua bmx, in piedi sulla sbarra posteriore. Ancora nulla da Deano. Logan tirò fuori il cellulare e controllò i messaggi.
Gonfiò le guance. Iniziò una partita al solitario sullo schermo del telefono. Perse. Se ne restò seduto dov’era, annusando l’aria. La puzza non veniva dal retro, e neanche dal lato del passeggero. Veniva dal lato del conducente. Logan uscì dalla macchina, aprì lo sportello del guidatore e annusò il sedile. C’era decisamente qualcosa di puzzolente. Forse qualcuno aveva avuto un piccolo incidente? Si accucciò e guardò sotto il sedile. Sì, c’era qualcosa, lì sotto. Poi Deano si fece sentire. «Mi scusi per l’attesa, sergente». «Trovato niente?». Allungò una mano verso lo spazio vuoto sotto il sedile, tastando il tappetino sporco. «Soltanto uno spinello». «Ah, be’, valeva comunque la pena tentare». C’era quasi… ecco. Il sorriso gli morì sulle labbra quando affondò le dita in qualcosa di viscido. Urgh. «Sembra che l’informatore abbia detto un sacco di cazzate. E questo è il termine tecnico della nuova Polizia di Scozia, in caso se lo stesse domandando». La bile gli si raccolse in gola. Oh, Dio. Perché non si era infilato un paio di guanti? Era troppo tardi, ormai. Tirò fuori la cosa viscida. Era un sandwich alle uova mezzo mangiato, con il pane e il ripieno ormai coperti di muffa verde. «Che schifo…». Lo lasciò cadere nel canale di scolo, poi passò una mano sul marciapiede, cercando di liberarsi di qualche pezzetto appiccicoso. «Sergente?» «Non mi stupisce che la Macchina Grande puzzasse. Qualche idiota ha lasciato ammuffire mezzo panino sotto al sedile!». Tornò dalla parte del passeggero, aprì il cassetto del cruscotto e tirò fuori la confezione d’emergenza di salviettine umidificate. Poi si pulì le dita. «Scommetto che sono stati quelli del turno di notte. Vuole che io e Ciuffo continuiamo a controllare le strade, qui intorno?». La porta rossa si riaprì e la Nicholson ne uscì. Si voltò verso la casa, dicendo qualcosa. Poi annuì e si avviò verso la macchina. «Altri dieci minuti, poi vedete di trovare qualcosa di più utile da fare». «Grazie, sergente». La Nicholson aprì lo sportello del passeggero e scivolò dietro al volante. Si sistemò la cintura in modo che il manganello estensibile non premesse contro il freno a mano. «Controllo effettuato». Logan appese di nuovo la ricetrasmittente al giubbotto antiproiettile. «E…?» «Le solite stronzate». La Nicholson avviò il motore e si allontanò dal marciapiede. «Alex non è più come prima. Ad Alex dispiace. Alex ha promesso che non succederà più. Si amano». Svoltò l’angolo, tornando verso il centro cittadino. «Io glielo dico, sergente, certe persone sono troppo stupide per rendersi conto di avere la mano in un frullatore, fin quando l’amore della loro vita non lo accende».
Capitolo 19
Il guidatore strinse le mani intorno al volante. Aveva le guance arrossate e i muscoli della mascella tesi come una morsa industriale. Fissò dritto davanti a sé mentre Logan controllava la patente che gli era stata consegnata. «Grazie, Mr Clifton». Gliela restituì. Poi vi aggiunse la contravvenzione. Gli fu tolta di mano con malagrazia. Schiacciata nel pugno. Poi si udì uno strozzato «Grazie» a denti stretti. Logan batté una pacca sul tetto dell’auto. «Guidi con prudenza». Una mano tremante andò ad afferrare la cintura di sicurezza per allacciarla. Poi la bmw si allontanò dal marciapiede. La Nicholson rimise in tasca il libretto delle contravvenzioni. «Se l’avesse fatto fin da subito, si sarebbe risparmiato un centinaio di sterline». «…effrazione all’Aberdeen Heritage di Mirtlaw, qualcuno è da quelle parti?» «Sa cosa mi infastidisce?». La Nicholson condusse l’auto oltre il ponte sul fiume Deveron. «Se avesse malauguratamente fatto un frontale, sarebbe finito oltre il parabrezza come una palla da bowling. Splat. E probabilmente sarebbe morto». L’acqua grigia e cupa del fiume scorreva sotto di loro. Le onde andavano a rompersi in archi bianchi all’imbocco della baia. Superato il ponte, svoltarono a destra, verso Macduff. «Sì, qui sergente Smith, ci pensiamo io e King-Kong». «Hmm…». Logan si annusò le dita, che sapevano di talco e sostanze chimiche, e allungò la mano verso la radio dell’auto, accendendola. Premette i pulsanti fino a sintonizzarsi con Northsound. Le note di una blanda e insensata canzone da boy band si fecero sentire sopra il brusio della ricetrasmittente. «Riesci a immaginare come possa essere? Senti parlare di una bambina ritrovata morta e ti metti in viaggio con dei campioni di dna». «E sa cosa? Probabilmente, quando tornerà a casa stasera, non parlerà di come gli abbiamo salvato la vita, ma di come la polizia si diverta a derubare dei poveri e innocenti guidatori. E di come dovremmo andare ad arrestare veri criminali, invece di dare il tormento agli onesti cittadini». «Secondo te, sta sperando che sia la figlia?». Logan aggrottò la fronte, fissando l’acqua. «Forse “sperando” è la parola sbagliata. Magari però cerca qualcosa per mettersi l’anima in pace su questa faccenda?». Dopo la svolta a destra, la boy band fu sostituita da una canzone molto simile. L’equivalente auditivo della colla per carta da parati. La Nicholson fece una smorfia. «Mi ricordo di un tizio che aveva colpito un lampione. Bang: da novanta a zero in una trentina di centimetri. L’abbiamo trovato sei metri più giù, lungo la strada, con mezzo scalpo venuto via quando ha colpito l’asfalto». Ovviamente, era stupido ascoltare la radio, e non solo per la musica orrenda. Prima o poi, un notiziario avrebbe tirato fuori i dettagli del processo Stirling. Era come tormentare una ferita o un’unghia incarnita. Sapendo benissimo che avrebbe fatto male e sanguinato. A tal proposito, sapeva di dover chiedere alla Nicholson di fermarsi, così che lui potesse richiamare Napier. Ma lei continuava a parlare di quell’incidente. «C’erano ovunque quei… pezzi con i capelli attaccati. Al tempo ero una recluta, quindi è toccato a me raccoglierli. Freddi e viscidi». Un brivido.
Dio solo sapeva cosa stava passando la famiglia di Stephen Bisset. Probabilmente qualcosa di non molto diverso da quello che stava provando Helen Edwards. Era quello il guaio dei crimini violenti: alla fine, tutto si riduceva a dolore e perdita. «Avevo quasi finito, quando un gatto è uscito fuori da un giardino e ha afferrato l’ultimo pezzo, scappando via e infilandosi in un cespuglio di ginestra dall’altra parte della strada». Rallentò. Mise la freccia. «Insomma, che avrei dovuto fare, lanciarmi dietro al gatto? Al diavolo». Logan si raddrizzò sul sedile. «Probabilmente deve essergli sembrato un grosso topo…». «Laggiù!». Logan si calò una mano sul berretto, mentre l’altra afferrava il manganello estensibile, correndo oltre l’edicola. Svoltò bruscamente su Cullen Street. «Stevie Moran, torna subito qui!». Il grosso uomo si guardò alle spalle, imprecò e corse ancora più veloce. Giù per la collina. Oltre l’ufficio postale. La giacca della tuta rossa gli svolazzava dietro. Per il resto, indossava un paio di jeans macchiati di vernice e un paio di luride scarpe da ginnastica. I lunghi capelli brizzolati al vento e un volto che sembrava intagliato nel legno. Delle vecchie case tradizionali si allineavano ai lati della strada, con le facciate in varie sfumature di grigio. Pietra grezza e intonaco ruvido. Il rumore ritmico di stivali sull’asfalto risuonava nell’aria. La Nicholson affiancò Logan, i gomiti e le ginocchia che pompavano. Il berretto della polizia calcato sulle orecchie e il respiro affannato. Poi lo superò. Moran svoltò a sinistra, con le braccia che mulinavano per fargli mantenere l’equilibrio. Seguito dalla Nicholson, che rischiò di schiantarsi contro il segnale di stop all’angolo di Low Street. Logan strinse i denti e accelerò, raggiungendola mentre Moran saltava un muretto di pietra, attraversava un giardino lungo e stretto schiacciando fiori e cespugli, e superava il muro dall’altra parte. Per poco non finì lungo sull’asfalto, ma riuscì in qualche modo a restare in piedi, sbattendo contro il muro sotto all’indicazione di Church Street. Le case in quel punto erano ancora più vecchie: edifici di tre piani con un negozio al piano terra da un lato e antiche costruzioni senza connotati particolari dall’altro. Moran si infilò di corsa in un vicolo, con la Nicholson alle calcagna. Logan non la seguì. Tagliò al lato dello Shore Inn, sfiorando la pietra intonacata della parete esterna con la spalla, e tornò in strada. Erano usciti dal centro abitato. Ora l’unica cosa che li divideva dal Mare del Nord era il porto. Stevie Moran scattò verso il muro. La Nicholson si raccolse e saltò, ma non lo prese, e finì contro una panchina marrone, mentre Moran superava il muro e spariva. Logan si fermò sull’asfalto tiepido, sbirciando oltre la parete. Dall’altra parte c’era una caduta di tre metri, che finiva su un tratto di ciottoli e scogli. Stevie Moran era lì, disteso in avanti. Gemeva piano. «D’accordo, Stevie, ora basta». Ma lui si risollevò a fatica in piedi, zoppicando verso l’acqua, un braccio stretto intorno al petto. «Cosa pensi di fare, nuotare fino in Norvegia?». Ci fu una pausa. Poi l’uomo scivolò sulle rocce coperte di alghe e si ritrovò in ginocchio, sul ciglio dell’acqua. «Affogherai prima di arrivare a mezzo miglio dalla costa. Basta, arrenditi». Lui abbassò le spalle. «Stronzi…». «E non immaginerai mai in chi ci siamo imbattuti a Portsoy: in Stephen “Stevie” Moran». Logan rallentò il passo, seguendo la Nicholson e Moran lungo North High Street, tornando verso l’autopattuglia.
I due zoppicavano, sbuffando e lamentandosi. Moran con le mani bloccate dietro la schiena, la Nicholson che stringeva con rabbia la sbarra di plastica tra le manette. Assicurandosi che non riprovasse a polverizzare il record dei cinquecento metri a ostacoli. Dalla ricetrasmittente, Deano sembrava parlare da una stanza piena di echi. «Da quant’è che era latitante? Otto mesi? Dieci?» «Quell’idiota se ne sarebbe dovuto restare in Irlanda». «A proposito di idioti, il suo vecchio capo vorrebbe parlarle». La voce ruvida e graffiante della Steel riecheggiò in sottofondo. «Ehi, guarda che ti ho sentito!». «Eccola». «Allora, perché non hai ancora richiamato Napier?». Ci fu una piccola pausa. Poi: «D’accordo, agente Furbetto, ora ti puoi anche levare dai piedi». Un’altra pausa. Poi il tonfo soffocato di una porta che si chiudeva. «Dunque? Vuoi farti licenziare?» «Ero impegnato ad arrestare qualche criminale». La strada si aprì, allargandosi nel raggiungere la piazza, con la sua griglia ordinata di parcheggi delimitati da linee bianche al centro. «Rimandare non farà che peggiorare le cose. Lo sai com’è Napier». «D’accordo, d’accordo, lo chiamo». E, con un po’ di fortuna, avrebbe scoperto che Napier se n’era già tornato a casa. E avrebbe potuto procrastinare la faccenda ancora per un po’. Un furgone grigio lo superò, mentre il conducente abbassava rapidamente la mano sotto al cruscotto. Come se Logan non avesse visto il cellulare che stringeva. «Bene. E, già che ci siamo, della tua allegra banda di pervertiti locali c’è qualcuno che si è beccato una denuncia per droga? E non parlo di possesso, ma di uso sui bambini che molestavano. Le analisi hanno scoperto una massiccia presenza di fenobarbital nel sangue della bambina». «Forse… probabilmente sì. Sono abbastanza certo che il dottor Gilcomston ha fatto cose del genere. Barbiturici e visite a domicilio? Controlli i fascicoli». «Sono un ispettore capo, ricordi? Che senso ha avere delle scimmie al tuo servizio, se poi devi controllarti i fascicoli da solo?». Stevie Moran si gettò a destra, ma la Nicholson sollevò la barra delle manette e lui piombò in ginocchio nel bel mezzo del parcheggio, ansimando una sequela di imprecazioni. «E allora lo chieda a qualcuna delle sue scimmie. Io sono occupato». «Ti stai nascondendo, piuttosto». Era vero. Ma non significava che lo avrebbe ammesso. La Nicholson strattonò Moran in piedi. «Ti prego, riprovaci. Mi piacerebbe troppo rifarlo». Ed entrambi tornarono a zoppicare verso la Macchina Grande. «Già è stato abbastanza fastidioso dover andare a prendere la madre della sua vittima… o perlomeno quella che potrebbe essere la madre. Non può chiedermi di fare tutto il suo lavoro». «Ah… mi domandavo quanto ci avresti messo a rinfacciarmelo. È quella donna carina con i capelli ricci e le labbra imbronciate? Tutta angosciata e vulnerabile? Proprio il tuo genere». Logan si fermò per un attimo, lasciando che una Mini nuova fiammante gli passasse davanti, prima di attraversare la strada. «Ci ho parlato per cinque minuti». «Bla, bla, bla. Chi vuoi prendere in giro?». Uno sbuffo. «Se lo chiedi a me, mi sembra un po’ inquietante». «Non gliel’ho chiesto». «Una che viaggia da una scena del crimine all’altra, come un turista a caccia di luoghi macabri. Inquietante e strana. Non mi stupisce che a te piaccia». La Nicholson fece sbloccare gli sportelli dell’auto e aprì quello posteriore, spingendo Stevie Moran all’interno. Gli allacciò la cintura, bloccandolo sul sedile, e richiuse lo sportello con un
tonfo. Per poi appoggiarvisi contro. Sollevò un piede dall’asfalto, flettendo la caviglia a destra e a sinistra, e si massaggiò il gomito sinistro. «Ahi…». «Sai cosa sta facendo, adesso? Se ne sta fuori dalla stazione come una stalker. Una donna tanto squilibrata? Sono sorpresa che tu non abbia ancora provato a portartela a letto». «Okay, sto per attaccare». «Non fare l’idiota. Se fossi…». Logan spense la ricetrasmittente, riagganciandola al giubbotto antiproiettile. La Nicholson aggrottò le sopracciglia, imbronciando le labbra. «Temo di essermi rotta qualcosa, quando sono finita contro quella panchina». «Però l’abbiamo preso: otto denunce per rapina, due per ricettazione, possesso di stupefacenti, un’aggressione ed evasione dagli arresti domiciliari. E a tutto questo potremmo anche aggiungere resistenza all’arresto». Logan aprì lo sportello del passeggero. «E la cosa migliore è che adesso la Polizia di Scozia dovrà pagare a entrambi un dolce per averlo arrestato. Io mi prenderò un danese». «Io una fetta di torta alla crema». Janet tornò a massaggiarsi il gomito, arricciando il labbro superiore. «Ahh…». Logan controllò l’orologio. «Se ci sbrighiamo, possiamo portarlo a Fraserburgh, consegnarlo e beccarci il premio in tempo per la fine del turno». Mettendoci il tempo perso ad aspettare un avvocato e il primo interrogatorio… probabilmente non sarebbero tornati in tempo per la cena. «Devo passare dalla stazione, però, mentre andiamo. Non ho mangiato la mia zuppa». La Nicholson si lasciò cadere sul sedile del conducente. «È un’ossessione, questa zuppa». «Be’, sì. Chiamalo pure masochismo». «Ci metterò solo un minuto». Logan chiuse lo sportello e indossò il berretto dell’uniforme. Il sole era un globo dorato che scendeva verso il confine tra il cielo e il Mare del Nord. Accendeva la superficie dell’acqua di rubini, proiettando riflessi di fuoco sulla parete della sua casa. Si affrettò in cucina, a cercare un barattolo di lenticchie e un paio di fette di pane in cassetta economico. Mise tutto in una busta di plastica e uscì di nuovo. Il tutto in meno di due minuti. Chiuse a chiave la porta e si girò. Fermandosi di scatto. C’era qualcuno appoggiato al muretto che dava sul mare. Capelli biondo cenere, ricci a cavatappi intorno al viso. Logan posò la cena sul tetto dell’autopattuglia. Attraversò la strada e si fermò sul marciapiede accanto a lei. «Signora Edwards? Helen? Tutto bene?». Lei non si guardò intorno. «Ci sono dei delfini». «Ogni tanto si fanno vedere, sì». Helen indicò verso un punto della baia, mentre una forma snella si inarcava fuori dall’acqua, per poi sparire di nuovo. «Non ne avevo mai visto uno dal vivo, prima». «Questo posto è molto bello». Logan appoggiò i gomiti sul muro, accanto a lei. Da quel punto, il terreno scendeva ripido per quattro o cinque metri. Il sole che volgeva al tramonto colorava di un arancione acceso la sabbia più in basso. «È sicura di stare bene?». Lei grattò via con l’unghia un tratto di lichene che cresceva sul muretto di cemento. «Non hanno voluto prendere i capelli di Natasha per fare il test del dna. Hanno detto che non servirebbe a niente, perché i capelli sono tagliati. Avevano bisogno delle radici. Quindi mi hanno fatto strofinare un tampone contro l’interno della guancia». «Sì, andrà bene lo stesso». Al largo della baia, i delfini continuarono a saltare. «Non so se sperare in un risultato positivo oppure no. Significherebbe che è morta, in quel caso. Ma se fosse negativo…». Helen si scostò un ricciolo dal viso, con le dita tremanti, dalle unghie rosicchiate.
«Perché pensa che potrebbe essere sua figlia? Magari è… dove, in Spagna? Con suo padre?» «Perché lui non è in Spagna. Non è più lì da anni. Avevo ingaggiato un investigatore privato molto costoso per trovare Brian. Ed è scomparso a Middlesburgh due anni fa». Il sole scese ancora di più sul mare, rendendo i colori ancora più vividi. «Be’, è…». «Brian aveva problemi di alcolismo e un brutto carattere. Oh, andava tutto bene finché uscivamo insieme. Ma poi sono rimasta incinta…». Un altro pezzetto di lichene venne via, grattato dall’unghia rosicchiata del suo pollice. «Quasi ogni giorno era come cercare di disinnescare una bomba con i guantoni da boxe. Si ubriacava sempre, e bastava un nonnulla per farlo esplodere». «Deve essere stata dura». «Non posso neanche riprendermi il mio cognome da nubile. Devo continuare a essere la signora Edwards finché non troverò Natasha. Se la gente inizierà a pensare che non sono davvero sua madre, sarà finita: alzeranno le barricate e via. Quindi, fino a quando non l’avrò trovata, non potrò lasciarmelo del tutto alle spalle». Si strofinò le braccia con le mani, come se stesse cercando di togliersi di dosso l’ex marito. «Quindi, questa è la mia vita. Ogni volta che trovano una bambina, il mio investigatore mi avverte e io vado a controllare, con una nuova speranza. Forse sarà lei? Forse. Ma non è mai lei. Così finisco per passare da una scena del crimine a un rapimento a un incidente, e così via. E sono tre anni che vado avanti così». Logan accennò alla stazione di polizia alle loro spalle. «Le va una tazza di tè? Sto andando a Fraserburgh, ma posso fare in modo che qualcuno…». «Ha idea di cosa significhi amare qualcuno che si è perduto? Almeno, se una persona cara muore, si può cercare di andare avanti. Ma una situazione del genere non te lo consente; continui a cercare di aggrapparti a quel filo di speranza che però resta sempre fuori portata». Logan si sentì salire una vampata di calore tra le scapole, che risalì fino a stringergli gli artigli intorno alla gola, soffocando la sua risposta. «È dura». «Mi scusi». Lei sciolse l’intreccio delle braccia e alzò gli occhi al cielo che si andava oscurando. «Non volevo continuare a parlare come una squilibrata. Helen Edwards, il disco rotto della disperazione e della tristezza». Logan lanciò un’occhiata all’autopattuglia. La Nicholson li fissava dal parabrezza, con le sopracciglia sollevate. Lui arretrò verso la macchina. «Abbiamo arrestato un uomo. Deve scusarmi». «Sì. No. Non si preoccupi, sto bene». Helen si girò a guardare di nuovo verso la baia, mentre riflessi scintillanti di luce danzavano e si disperdevano nell’acqua. Logan entrò nell’ufficio vuoto e si chiuse la porta alle spalle. All’esterno, le assi del pavimento scricchiolavano e gemevano sotto il peso degli agenti di passaggio. La stazione di polizia di Fraserburgh doveva essere stata costruita almeno un secolo dopo quella di Banff, ma sembrava un galeone in mezzo al mare ogni volta che qualcuno metteva piede in corridoio. Attraverso la finestra dell’ufficio, gli edifici di granito erano avvolti nella luce dorata del tramonto. In alto, qualche cirro lievissimo sfoggiava tonalità improbabili di rosa e arancione. Tanto valeva farla finita. Si sedette su una scricchiolante sedia, si succhiò via dalle dita gli ultimi resti appiccicosi del danese che aveva divorato, tirò fuori il cellulare e i post-it che Maggie gli aveva dato all’inizio del turno. Compose il numero. Lo sentì squillare. Fa’ che scatti la segreteria. Fa’ che scatti la segreteria. Fa’ che scatti la segreteria. Ti prego. E poi uno scatto. «Napier». La Voce del Buio.
Logan chiuse gli occhi. Rovesciò indietro la testa. E quando parlò, cercò di non farlo come un uomo con il cappio al collo e i piedi sulla botola della forca. «Sovrintendente capo. Salve. Sono il sergente McRae. Ho saputo che voleva parlarmi…». «Tutto bene, sergente?». Il secondino lo guardò da dietro la scrivania. Era un tizio robusto, con le spalle larghe e dei cardi tatuati su entrambe le braccia, che spuntavano dalle maniche corte della sua polo, alquanto illecita con la sua vecchia scritta “grampian police” stampata sopra. «Sembra quasi che abbia visto un fantasma». Logan si appoggiò al pianale del tavolo. «Gli Affari Interni». L’agente succhiò l’aria tra i denti stretti, serrando le palpebre per qualche attimo. «Me li ricordo bene. È come cavalcare al galoppo in un campo minato e con le emorroidi. Le va una tazza di tè? Lo sto facendo comunque». «Grazie». L’uomo sparì oltre la porta dietro alla scrivania, avvicinandosi al cucinino su un lato della piccola stanza. «Latte e zucchero?» «Solo latte». Logan si girò e sbirciò verso il blocco di detenzione. L’ampio corridoio grigio e beige sfoggiava una fila di porte solo su un lato, per magazzini e detenzioni in attesa di interrogatorio; una, in fondo, dava sull’ufficio del sergente; e poi c’era il cancello sbarrato che conduceva alle celle vere e proprie. Non c’era traccia di vita. «Non ha visto l’agente Nicholson qui in giro, vero?» «La deliziosa Janet?». Il secondino ricomparve, posando una tazza con il logo della Polizia di Scozia di fronte a Logan, e una di polistirolo accanto alla prima. «Sta aiutando Suzanne a perquisire una giovane donna beccata a rubare nella farmacia accanto a Farmfoods». Indicò la porta chiusa di una delle celle. «Mi sa che hanno sentito le urla e le imprecazioni fino a Inverness. Mi scusi…». Aggirò la scrivania, tenendo in mano la tazza di polistirolo come se fosse piena di nitroglicerina. Fece dondolare le chiavi nella mano libera. «Temo che uno dei nostri ospiti abbia bisogno di un po’ di tè e di tanta comprensione». Logan lo seguì fino al blocco di detenzione maschile, richiudendosi alle spalle il pesante cancello con le sbarre. «Ha idea di quanto ci metterà l’agente Nicholson?» «Dipende da quanto ci darà del filo da torcere la nostra taccheggiatrice novellina, mentre la perquisiscono». L’uomo svoltò a destra, su un corto corridoio dalle pareti beige. A metà strada, cominciavano le celle. Ce n’erano dieci: cinque da una parte e cinque dall’altra. Quasi tutte avevano la porta spalancata, con il retro dei battenti d’acciaio che faceva pensare alla scenografia di un film di fantascienza. Tre erano chiuse. Il davanti delle porte era dello stesso blu scuro delle zoccolature e degli architravi. Il secondino puntò in fondo al corridoio, da dove si sentivano provenire singhiozzi sommessi, soffocati dalla pesante porta blindata. «Sa, avevo una novellina come la sua Nicholson, quando ero un agente a Mintlaw. Aveva il suo stesso fuoco dentro. Non ha perso tempo ad arrampicarsi su per la scivolosa scala del cid. Niente ha potuto farle cambiare idea». «E lei cosa ha fatto?» Lui si strinse nelle spalle. «L’unica cosa che potevo fare: l’ho sposata». Fece scorrere la parte metallica della finestrella rettangolare nella porta, in modo da esporre la parte in vetro e l’avvertenza riguardo alla mancanza di sicurezza attuale della finestrella, e il rettangolo di plastica dove erano scritti i dettagli dell’occupante della cella. Era lì che veniva annotato se mordeva o sputava, se tendeva all’autolesionismo, o a scatti di violenza. In questo caso, c’era scritto, in incerte lettere a pennarello nero: “avrebbe davvero bisogno di una doccia!!!”. Il secondino sbirciò dalla finestrella e sbloccò la porta. Entrò, mentre singhiozzi e gemiti continuavano incessanti. «Avanti, non è poi così male, giusto?».
Logan restò dov’era, mentre una zaffata di sudore rancido si espandeva come un’onda nel corridoio. Qualcosa che ricordava delle cipolle marce, misto al sentore di ammoniaca dei vestiti lasciati troppo a lungo in lavatrice. «Santo Dio…». Tossì, sbattendo le palpebre, mentre il fetore gli faceva lacrimare gli occhi e sembrava volergli grattare via le iridi come carta vetrata. Kevin “Gerbillo” McEwan era seduto sulla sottile sporgenza di cemento che correva lungo una parete della cella. Era piegato in avanti, con la fronte premuta contro le ginocchia e le mani intorno alla testa. I capelli biondi che sporgevano tra le dita. Le spalle che sussultavano a tempo con i singhiozzi. Il secondino posò la tazza di polistirolo sul bordo di cemento, poco fuori dalla portata del detenuto. «Ascolta, se dirai la verità andrà tutto bene». Alzò lo sguardo su Logan. «Giusto?» «Non posso parlare con lui. Non voglio contravvenire ai suoi diritti umani». Gerbillo alzò la testa, con le guance rosse e bagnate, e qualche striscia di pelle pulita dove le lacrime avevano lavato via lo sporco. Il moccio gli aveva creato un paio di baffi da Magnum pi sul labbro superiore. Gli occhi sembravano due fori di proiettile. Quasi non riuscì a tirare fuori le parole. «Quelli… quelli mi… mi ammazzano!». Ogni traccia dell’accento da duro che aveva sfoggiato in casa di Klingon era svanita. Ora era soltanto la voce di un ragazzo terrorizzato. Il secondino schioccò la lingua contro il palato. «Nessuno ti ucciderà, figliolo». «Loro… loro scopriranno… scopriranno che abbiamo perso… il carico». «Be’, non è la fine del mondo, no?» «Io… io finirò in… in prigione e loro mi uccideranno. Manderanno qualcuno a uccidermi!». Logan non si mosse. Non farti coinvolgere. Segui la procedura come un bravo piccolo robot. Non era più neanche il suo caso. Doveva tenere a mente quello che gli aveva detto Napier. Si schiarì la gola. Voltò le spalle alla cella. E si allontanò.
Capitolo 20
«Non capisco perché non l’hai mangiata per cena». Logan fece uscire la Macchina Grande dai confini di Fraserburgh, tornando verso Banff. Il cielo era una distesa di indaco e nero, trapuntata di stelle. La Nicholson prese un altro morso soddisfatto della sua torta alla crema, coprendosi il davanti del giubbotto antiproiettile di briciole. La bustina di Tesco sistemata sotto il collo come un bavaglino. «Gratificazione a scoppio ritardato. Dovrebbe provarla, ogni tanto». La ricetrasmittente di Janet crepitò: «A chiunque si trovi nelle vicinanze della Dales Industrial Estate, a Peterhead: abbiamo ricevuto notizia di un’effrazione nel magazzino dietro all’edificio della Marathon…». «E non spargere zucchero a velo o altro sul sedile del passeggero. Già è stato abbastanza orribile trovare quel sandwich ammuffito sotto al…». «La prego, non ricominci con la storia del panino ammuffito», sorrise lei, parlando a bocca piena. «Sa, credo che dovrebbero rendere obbligatoria in tutta la Polizia di Scozia la procedura di offrire dolci a chi deve fare una perquisizione corporale completa». «Okay, voterò per questa mozione». «Era come la grotta di Alì Babà, lì dentro. Quella tipa si era ficcata dentro tre confezioni di temazepan, una di diclofenac e una di ossicodone. A dire il vero, nell’ultima c’erano effettivamente delle supposte, però di solito si usano senza la confezione». Lui accese la radio. Altra robaccia da boy band. «Ma cos’è, la giornata nazionale della musica orrenda, oggi?». La strada si snodò in una serie di curve e tornanti, tra salite e discese accompagnate dal sibilo dei freni e dalla musica banale di sottofondo. «Sergente?». Ecco, era il momento. «Deano ha suggerito “Killer”, oppure “Coccola”. A me non dispiace “Crippen”, invece». Lei aggrottò la fronte. «No… in realtà volevo chiederle se secondo lei c’è una qualche possibilità di entrare nel Team Investigativo Primario dell’infanticidio di Tarlair. Quando siamo andati a interrogare tutti quei pedofili, ho fatto un buon lavoro nel perquisire le loro abitazioni, no? Insomma, lo so che non ho trovato niente, ma non è colpa mia se non c’era niente da trovare». «Segnalazione di una bmw portata da possibile conducente in stato di ebbrezza sulla strada per Keith, a nord di Huntly…». I campi ormai bui scivolavano lungo i finestrini, con le luci distanti di fattorie e villette che sembravano occhi ambrati e scintillanti nell’oscurità. «Vuoi abbandonare la nave? Okay, credo di averti trovato un soprannome: Ratto. E neanche stiamo affondando». «Oh, avanti, sergente. Voglio un po’ di emozioni. Come in televisione. Arrestare assassini, buttare giù qualche porta, fare qualche inseguimento ad alta velocità… cose così». «Abbiamo avuto anche noi un inseguimento ad alta velocità, la scorsa settimana. Harry Valentine: combattimenti tra cani e aggressione. Abbiamo buttato giù una porta giusto stamattina e sequestrato un carico di eroina da ottantamila sterline. E poi abbiamo inseguito Stevie Moran: già lo hai dimenticato? Quante altre emozioni vuoi?» «Qualcuno a Banff? È in corso una lite domestica su…».
«Sa cosa intendo. È…». «Shhhhh!». Logan piegò la testa di lato. «Dove ha detto che era la lite domestica? Non era per caso l’indirizzo di Alex Williams?». Lei premette il pulsante della sua ricetrasmittente. «Qui Pattuglia Sette: potete ripetere l’indirizzo della lite domestica, Controllo?» «Appartamento trentanove b, Colleonard Heights. Ci pensate voi?». Non era Alex Williams, dopotutto. Logan le fece un cenno. «Ciuffo e Deano ci possono arrivare molto prima di noi». «Negativo, Controllo, abbiamo appena lasciato Fraserburgh. Gli agenti Scott e Quirrel dovrebbero essere più vicini». Si appoggiò allo schienale del sedile e lasciò andare la ricetrasmittente. «Comunque, non mi sembra questo grande tradimento, voler risolvere un caso di omicidio». «È quello che dicono tutti i ratti». «Non potrebbe mettere una buona parola con il suo vecchio capo?». Un grosso camion li incrociò, proveniente dalla direzione opposta, con il logo “fillitin’ fine fish” che scintillava alla luce dei fari dell’autopattuglia. «Okay, vedrò cosa posso fare. Sempre che riusciamo a far arrivare qualcuno al tuo posto». Un ampio sorriso. «Grazie, sergente». «Sai che ti metteranno a fare i lavori più umilianti, vero? Fare il piscione di turno quando si va a parlare con i sospetti è una passeggiata, a confronto. Tutto il resto sarà…». «Pattuglia Sette, potete parlare?». La Nicholson premette di nuovo il pulsante di comunicazione sulla ricetrasmittente. «Vi sentiamo forte e chiaro». «Abbiamo ricevuto una chiamata dall’area delle Highlands: c’è stato un incidente fatale sul Kessock Bridge, dalla parte di Inverness. Una Ford Fiesta è finita sotto un autoarticolato. Una donna se l’è cavata, ma il marito e il figlio di quattro anni sono morti. I parenti più vicini sono a Gardenstown». Logan chiuse gli occhi. Già sapeva come sarebbe andata a finire. «Vogliono che qualcuno avverta i parenti, vero?». Era ovvio. Le luci pallide dei lampioni illuminavano la ripida discesa che correva verso il mare. Sembravano una fila di lucciole intrappolate nell’oscurità sotto la striscia di case di granito grigio dove la Nicholson parcheggiò l’autopattuglia. Gardenstown era appollaiata su quel lato della scogliera, con le stradine che si snodavano giù fino al piccolo porto in fondo. Janet spense il motore. Prese un respiro profondo. «Li sappiamo i nomi?». Logan li lesse dal taccuino. «Joyce Gordon: ricoverata in condizioni gravi al Raigmore Hospital. Ian e Colin Gordon: entrambi dichiarati morti sul luogo dell’incidente». Gonfiò le guance. «Aveva quattro anni». La Nicholson si asciugò i palmi sui pantaloni. «Odio questa parte del lavoro». «Anch’io». Logan si slacciò la cintura di sicurezza e uscì nella notte. Le stelle scintillavano in un cielo del colore dell’inchiostro, che si estendeva, limpido come un cristallo, da un orizzonte all’altro. Oltrepassarono il cancello del giardino, percorrendo il vialetto che conduceva a una villetta bifamiliare a due piani. Rose e caprifogli intorno alla porta, a riempire l’aria fredda della sera di un profumo dolciastro quasi nauseante. «Bene». La Nicholson raddrizzò le spalle. «Non serve a niente attendere oltre». Allungò una mano e suonò il campanello. «Ian, Joyce, Colin. Ian, Joyce, Colin. Ian, Joyce, Colin».
Non ci fu risposta. Lei provò a suonare di nuovo, tenendo il campanello premuto per più tempo, finché non si accese una luce dentro casa. Logan buttò fuori il respiro trattenuto. «D’accordo, ci penso io». Janet annuì. «Grazie, sergente». La porta si aprì cigolando, e un uomo dai capelli bianchi li guardò accigliato, con una vestaglia rosa avvolta intorno al corpo magro. «Avete idea di che ore siano?». Logan si fece avanti. «Mr Gordon, possiamo entrare? Temo di avere delle brutte notizie da darle…». Il soggiorno era un forno, con le pareti coperte di paesaggi marini e fotografie. Una collezione di piccole sculture di giada se ne stava sulla cappa del caminetto elettrico. Mr Gordon si sedette sul divano, fissando il vuoto, con una mano su quella della moglie che singhiozzava senza tregua. La Nicholson si accosciò accanto a lei, tenendole l’altra mano. «Shh…». L’unico altro suono era il ticchettio dell’orologio sulla parete. Poi il cellulare di Logan attaccò la Marcia Imperiale di Star Wars. Abbastanza forte da far sobbalzare tutti. Non aveva bisogno di controllare lo schermo per sapere che era la Steel. «Scusatemi, sono desolato», mormorò, affrettandosi a raggiungere il corridoio e a chiudersi la porta alle spalle, prima di tirare fuori il cellulare. «Cosa c’è?». La voce dell’ispettore capo Steel gli ringhiò nell’orecchio. «Non rispondi alla ricetrasmittente». Lui percorse il corridoio fino alla cucina. «Sono occupato». Era una stanza piccola, con le pareti rosse, il pavimento di mattonelle nere e la mobilia di legno, con diversi ripiani in acciaio inossidabile. Aveva un’aria costosa. «Non mi interessa». Il suono di un risucchio. «Ascolta…». «Ha ottenuto niente dalle scuole?» «Ovviamente no. E, in caso te lo stessi domandando, ci avevamo provato già molto prima che venisse in mente a te». Già che era lì, poteva fare qualcosa di utile: mise il bollitore sul fuoco. «Be’… ha controllato anche i bambini che risultano ammalati o in vacanza?» «Ehi, hai finito di dirmi come si fa il mio lavoro? Nessuno la conosce, nessuno l’ha riconosciuta, e non la sta cercando nessuno». Povera piccola. Logan trovò delle tazze nel pensile sopra la cucina. Anche tè e zucchero erano conservati lì. «Allora probabilmente non era una vera uniforme scolastica. È stata vestita così». Il sarcasmo sembrò colare dal ricevitore del telefono. «Ma davvero?». Poi un altro risucchio, probabilmente la sigaretta elettronica della Steel. «Ho mandato Becky a fare qualche ricerca. Quell’uniforme viene dalla collezione “Back to School” di Asda. Non c’è modo di scoprire da quale magazzino sia stata comprata. Non ha niente di particolare, quindi non sappiamo neanche a quale scuola fingesse di farla appartenere». Lui aggrottò la fronte. «Indossava delle scarpe rosse. Non può essere normale». «È la tua testa a non essere normale». Un altro risucchio. «E, a proposito di poco normale: come mai non mi hai ancora chiesto niente della tua Mrs Edwards di Edimburgo, eh? Il primo lampo di ardore si sta già raffreddando?». Logan incastrò il cellulare tra l’orecchio e la spalla, poi mise delle bustine di tè nelle tazze. «Ha identificato il cadavere?» «Sua figlia non ha voglie, né segni particolari o fratture infantili. Secondo l’anatomopatologo, c’è corrispondenza con la nostra vittima. O meglio, ci sono segni di fratture, ma non prima dei quattro o cinque anni. Quindi proveremo a confrontare il suo dna con quello della donna. Ma i laboratori di
Aberdeen sono ancora chiusi, quindi dovremo mandare i campioni a Dundee. Ci vorranno un paio di giorni, prima che possiamo avere qualche certezza». Be’, almeno era qualcosa. «Ora devo andare. Sto cercando di gestire i parenti delle vittime di un incidente fatale. Scontro con un camion, una delle vittime aveva solo quattro anni…». «Ascolta, riguardo al tuo completo e tragico disastro di ieri…». Logan chiuse gli occhi e premette la fronte contro il pensile che aveva davanti. Eccola di nuovo. «Gliel’ho già detto: non mi scuserò per aver salvato la vita a Stephen Bisset». «Sì. Molto nobile da parte tua. Ma a quanto pare non ha alcuna importanza». Il bollitore iniziò a fischiare. Poi ticchettò e tacque quando lui spense il fuoco. La voce soffocata della Nicholson si udì dal corridoio, seguita dal rumore di una porta che si chiudeva. La Steel restò in silenzio. Lui versò l’acqua bollente nelle tazze. «Allora, forza. Quale pungente battuta sarcastica sta per scaricarmi addosso?» «Nessuna battuta, Laz. Graham Stirling è stato liberato alle quattro e mezzo. E quindici minuti fa, un’infermiera ha trovato Stephen Bisset. Morto. Tutto solo nel suo letto d’ospedale. Qualcuno lo ha soffocato». Oh, davvero… fantastico. La conclusione perfetta di una fottuta giornata perfetta. Logan tornò a sbattere la fronte contro il pensile. E poi se ne restò lì. «La prego, mi dica che qualcuno ha arrestato Stirling». La Nicholson entrò in cucina, con il viso arrossato e gli occhi lucidi. Si passò il dorso della mano sul volto, poi vide Logan e si bloccò. Sbatté le palpebre. Raddrizzò il giubbotto antiproiettile. «Sergente». Lui indicò il cellulare che aveva nell’altra mano. «Hanno arrestato Stirling o no?» «Quindi tutta la fatica che hai fatto non è servita a nulla, capisci? Questo è quello che hai ottenuto infrangendo le regole per salvargli la vita. Stephen Bisset è morto comunque, solo che ha sofferto per altri quattro mesi». Dunque, si era sbagliato. Quella giornata poteva finire ancora peggio.
Capitolo 21
La Nicholson parcheggiò nell’unico spazio vuoto che trovò nelle vicinanze della stazione di Banff. Le malandate autopattuglie del Team Investigativo Primario e il furgone Transit della squadra di ricerca si erano presi tutti gli altri parcheggi utili. Non sarebbe passato molto tempo prima che i residenti cominciassero a lamentarsi. «A tutte le unità, siamo alla ricerca di un maschio bianco con felpa scura e berretto da baseball. Sui venticinque anni, con baffi e pizzetto. Un incisivo scheggiato. È ricercato per tentato stupro a Stuartfield…». Logan scese dall’auto. «Bene. Una tazza di tè, e poi aggiorna i rapporti. Per una volta, riusciremo a uscire da qui a un orario decente. Le due in punto». Lei annuì, con gli occhi ancora gonfi e rossi alla luce che trapelava dalle finestre della stazione. «Sì, sergente». Nell’ufficio principale c’erano i soliti due agenti che digitavano sulla tastiera di un computer, mentre la donna che faceva da braccio destro alla Steel se ne stava seduta davanti all’altro con il viso corrucciato. Alzò lo sguardo, rivolgendo quell’aria accigliata a Logan per qualche secondo, prima di tornare a qualunque cosa le stesse rovinando la vita, su quello schermo. Piacere di rivederti. L’ufficio dei sergenti era vuoto, per una volta. Logan si sfilò il giubbotto antiproiettile e si lasciò cadere sulla sua sedia con un sospiro. Appoggiò le mani sulla scrivania. Niente detective Dawson. Che sollievo… E poi un piccolo amo di dispiacere gli si agganciò alla gola. Perché il detective Dawson non era lì? Eh, già. Comunque, nessuno era mai morto per un’overdose di lassativi. Giusto? C’era da augurarselo. Logan si collegò allo storm e fece rapporto sulla sua visita a Gardenstown. Poi iniziò a controllare le azioni del suo team. La porta dell’ufficio si aprì, e la Steel marciò nella stanza. Lo guardò con aria di rimprovero, prima di posare la tazza di tè che teneva in mano sul suo taccuino. «Dove diavolo sei stato?» «Gliel’ho già detto: a portare un annuncio di decesso a una famiglia». Spostò la tazza e tornò alla tastiera. «Se vuole qualcosa, dovrà attendere. Ho le azioni di tutto il team da revisionare. E poi me ne torno a casa». «Pffff…». Lei si lasciò scivolare sulla sedia di fronte alla scrivania, e vi mise i piedi sopra. «Non fare il vecchio: la notte è appena cominciata. E abbiamo un assassino di bambini da prendere». Poi si cacciò due dita in bocca ed emise un fischio acuto. «becky, porta qui le chiappe!». Si udì una sfilza di imprecazioni soffocate dall’ufficio principale, poi il detective McKenzie comparve sulla soglia. Lo chignon che portava si stava disfacendo su un lato, con qualche ciocca di capelli ricci che le si gonfiava intorno all’orecchio. «Non c’è bisogno di gridare così. Poteva anche alzare il telefono». «Bla, bla, bla». La Steel infilò la mano in una tasca interna della giacca e ne tirò fuori una piccola busta delle prove. Poi scribacchiò qualcosa su uno dei post-it di Logan. «Falla mandare a questo indirizzo. E non ficcarla nella buca delle lettere. Voglio che qualcuno in uniforme impeccabile la consegni a mano. Digli che se non arriva a Dundee per l’ora di pranzo, gli ficcherò il pugno dove so io e lo trasformerò in una marionetta».
Le guance della McKenzie avvamparono. «Sì, capo». Poi prese la busta e il post-it dalla scrivania e uscì a passo di carica, sbattendo la porta. Logan attese che l’eco si placasse. «Doveva proprio comportarsi così?» «Ah, in realtà lo adora anche lei». La Steel si infilò una mano nello scollo della camicia, dandosi una furiosa grattata delle sue. «Probabilmente moriremo di vecchiaia prima che quei pigri bastardi ci facciano sapere qualcosa del dna, ma il mio nuovo migliore amico, il professor Comesichiama, dell’istituto di Dundee, ha detto che se gli faccio avere qualche campione della bambina, lui farà delle analisi sugli isotopi stabili. Al volo e gratuitamente, solo per la bella sensazione di aiutarci a prendere il figlio di puttana che l’ha uccisa. E per una bottiglia di whisky di malto». «Dico sul serio, se non ci va più piano con il detective McKenzie, finirà per farsi venire un infarto per lo stress, o per inseguirla con una mannaia». «Se solo potessi fargli avere dei capelli… Ma comunque è meglio che niente. Con un po’ di fortuna, il professore ci farà sapere da dove viene la nostra vittima, e dove è stata. Sarebbe carino se ci fornisse anche un codice di avviamento postale, ma forse chiedo troppo». Tirò su con il naso. «Sì, sempre che Becky non faccia casino e non mandi il campione a Glasgow, o a Timbuctu». «Non serve a niente cercare di parlare con lei, vero?» «No». La donna si accese la finta sigaretta e se la infilò in bocca. «Che ne dici se io e te andiamo a dare una svegliata a qualche altro pervertito?» «Il mio turno finisce tra un quarto d’ora. E poi me ne andrò a casa, e mi prenderò due giorni di pausa. Quindi, se vuole qualcuno che le corra appresso, provi a chiederlo a qualcuno dei suoi fedeli servitori». «Loro non mi piacciono. Non mi divertono per niente, sono noiosi». Agitò in giro la sigaretta elettronica, come il bastone di un presentatore. «I miei vecchi servitori erano molto meglio». «Ne dubito». Lei lo fissò. «Laz, ai vecchi tempi ci mettevamo pure a cercare nelle scarpe da ginnastica di un barbone morto, se pensavamo che ci avrebbe fatto fermare un assassino. Che diavolo ti è successo?» «Che mi è successo? Ma dice sul serio? Non può essere…». Tre colpi alla porta, e la Nicholson fece capolino nella stanza. «Sergente, ha… Oh, mi scusi, non sapevo fosse in compagnia». Gli occhi le erano tornati normali. Era difficile immaginare che avesse pianto nella cucina di un’anziana coppia che aveva perso il figlio e il nipotino in uno stupido incidente d’auto. «Posso…». «Ci puoi fare un favore, agente?». La Steel sollevò la tazza. «Un caffè con due zollette di zucchero. E Laz, qui, prenderà un tè al latte». Lei alzò le sopracciglia. «Sergente?». La Steel fece ondeggiare la tazza. «Dacci un minuto, okay? Devo motivare qualcuno, qui». Logan chiuse gli occhi e imprecò. La Nicholson sbatté le palpebre un paio di volte, poi accennò un sorriso imbarazzato. Prese la tazza che l’ispettore capo le stava porgendo e arretrò di uno o due passi. «Sì, certo. Non c’è problema». Poi si girò e scomparve in corridoio, chiudendosi la porta alle spalle. La Steel si grattò un’ascella. «Finalmente soli». Eccola… «Ascolti, se vuole costringermi a restare qui fino a tardi, può anche…». «Dobbiamo parlare di Stephen Bisset». Oh. La Steel giocherellò con i bottoni della giacca. Osservò il proprio riflesso nella finestra dell’ufficio. «La stampa impazzirà: “Vittima di un pervertito uccisa in ospedale!”. E tutti vorranno sapere perché la polizia non lo proteggeva. Perché abbiamo speso tutti quei soldi in un processo ridicolo, solo per lasciare poi che Graham Stirling tornasse libero come l’aria».
Lasciò andare i bottoni e si sistemò il reggiseno. «Sentiti libero di intervenire quando vuoi». «Hanno già arrestato Stirling per l’omicidio?». Lei scoppiò in una breve, rauca risata. «Certo che no. Era con quel bastardo del suo avvocato, quando è successo. Probabilmente stava cercando di capire quanto potrà scucirci per le accuse ingiuste che gli abbiamo rivolto». «Dio santo…». Logan si afflosciò sulla sedia, passandosi una mano sulla fronte. «Okay, quindi non è stato lui. Stirling deve avere un complice, o un parente, o qualcuno che voleva assicurarsi che Stephen Bisset non si potesse mai più risvegliare per identificarlo». «Questo è…». «Possiamo prendere le registrazioni delle telecamere a circuito chiuso dell’ospedale e controllarle, per scoprire se c’è qualcuno che può essere ricondotto a Stirling». «Già, e, che tu ci creda oppure no, ci abbiamo già pensato. Ma non è venuto fuori nulla». La Steel scosse la testa. «A quest’ora, domani, non ci sarà un solo giornale, notiziario o programma di informazione che non parlerà della famiglia di Bisset. E diranno a tutti quanto siamo stati incompetenti». E forse non avevano neanche torto. Logan lasciò ricadere indietro la testa. «Gli alti papaveri cercano un capro espiatorio, vero? E già immagino chi sarà». Silenzio. La Steel si schiarì la gola. «Ascolta, perché non torni a lavorare per me? Te l’ho detto, i miei sottoposti attuali fanno schifo. Rennie è inutile e Becky ha una faccia che solo il culo di un babbuino potrebbe apprezzare. Non so cosa le sia strisciato addosso oggi, ma ci ha lasciato le uova». «Non posso farlo». «Ma certo che puoi. Io potrei proteggerti». «Come?». Logan allargò le braccia. «Come diavolo pensa di potermi proteggere da Napier? Quello è una jihad vivente, e io sono la strafottuta America!». «Non lo so ancora, ma troverò un modo. Ti farò entrare nel mio Team Investigativo Primario e ti renderemo indispensabile. Sistemeremo le cose in modo che tu sembri Sherlock Holmes e Robocop in una persona sola. Non oseranno cacciarti». Sì, buonanotte. «Non può sperare di sistemare magicamente…». «Dobbiamo soltanto trovare Neil Wood, farlo confessare e dire a tutti che sei stato tu a beccarlo». «Questo è il suo piano? Io e lei che risolviamo un caso che un intero Team Investigativo Primario non riesce a risolvere? Così, dal nulla? E immagino che dovremmo farlo prima che Napier si getti su di me come un terrorista suicida imbottito di esplosivo, giusto?». Lei lo guardò con aria di rimprovero. «Be’, non mi pare che finora siano arrivati piani geniali dalla tua parte di scrivania!». «Perché non c’è un piano. Sono fottuto, okay? Tutto qui. Io. Fottuto». Si coprì il viso con le mani. «Ho lavorato come vice ispettore per quattro anni. Quattro anni, e non mi hanno mai promosso. Ora pensa che mi faranno mai diventare ispettore se scappo da Banff dopo tre mesi? Resterò sergente per il resto della mia carriera». Lasciò ricadere le braccia ai lati della sedia. «Gah…». «Quindi è questo che vuoi fare? Arrenderti? Mollare?» «No! È esattamente quello che non voglio fare. Resterò qui e me la caverò». Qualcuno bussò alla porta. «Alleluia. Entra pure, Janet».
La Nicholson spinse il battente, con due tazze in mano e un pacchetto di biscotti allo zenzero sotto il braccio. «Mi scusi, sergente, non volevo che si raffreddasse». La Steel annusò l’aria. «Agente, il tuo sergente vuole tornarsene a casa». «Oh. Okay…». Lei posò una tazza sulla scrivania. «Be’, se vi serve una mano per qualcosa, potrei…». «No». Logan sollevò una mano. «Il turno finisce tra…». Controllò l’orologio. «Venti minuti. Torneremo a casa in orario, per una volta». «Ma sergeee-eeente…». «Non gliene importa nulla che c’è un criminale a piede libero. E che la brava gente di Banff non può dormire tranquilla, la notte, per il timore di bla, bla, bla». La Steel prese un sorso di caffè. «Cosa è successo allo spirito del cid che avevi un tempo, sergente McRae?» «È svanito nel nulla appena lei mi ha fatto tornare in uniforme». La Nicholson si fece avanti, tendendo la tazza di tè. «Ma per me sarebbe una grande occasione di fare esperienza, no? Lavorare in un Team Investigativo Primario, intendo». «Vuoi farlo? Si può fare. E con la mia benedizione». Logan indicò la Steel. «Ma lei deve pagare gli straordinari». La Steel lo guardò dal sedile posteriore dell’auto. «Non sto scherzando, Laz. Possiamo farcela». «Non è vero. E questa volta se ne resti nella sua stanza in albergo. La mia casa non è un Bed & Breakfast». Lei alzò il naso in aria. «Sei proprio una principessa viziata». Poi batté un colpetto sulla spalla della Nicholson. «Andiamo a fare giustizia!». Logan restò sul marciapiede mentre la Macchina Grande si allontanava, con i fari posteriori ridotti a due puntini rossi, fino a sparire dietro l’angolo. Due vere idiote. Le finestre della stazione erano ancora illuminate. Di solito avrebbero lasciato accesa una sola lampadina nell’ufficio principale, così da far sembrare che c’era qualcuno all’interno. Non sarebbe stata una bella cosa, se qualche stronzo fosse entrato, portandosi via narcotici, computer e armi da fuoco, giusto? Ma quella notte l’ultimo piano, metà di quello centrale e tutto il pianterreno scintillavano come un albero di Natale. Il Team Investigativo Primario stava lavorando anche alle due meno un quarto del mattino. E la Steel era convinta che loro due da soli avrebbero potuto trovare l’assassino di una bambina quando tutta quella gente non ci stava riuscendo. Anche se la metà di loro non sarebbe riuscita a trovarsi neanche i genitali nei pantaloni. Si lasciò sfuggire un lungo, lento sospiro. Non era possibile. Se doveva sembrare indispensabile, avrebbe dovuto farlo in un posto più vicino a casa. Un posto accettabile. Chiamò Deano sulla ricetrasmittente. «Qui Pattuglia Sette. Deano, puoi parlare?». Ci fu una pausa, poi. «Dica, sergente». «Come è andata con quella lite domestica?» «Tanto rumore per nulla. Un litigio furibondo sul fatto di andare a EuroDisney o a Lossiemouth con i nipoti, quest’estate. L’unico a farne le spese è stato un servizio da tè». «E Ciuffo?» «Si è comportato benissimo. Potrei perfino comprargli un lecca lecca». C’era sempre qualcosa per cui stupirsi, in fondo. «Mi fa piacere. State ancora gestendo quella guida in stato di ebbrezza, o state tornando?» «Siamo di nuovo in ospedale. Quell’idiota è così ubriaco che non sta neanche in piedi, ma è convinto di poter guidare. A casa non c’è nessuno che possa prendersi cura di lui, quindi sarà un
problema della Sanità Nazionale finché non tornerà sobrio. Si ricorda i bei vecchi tempi in cui potevamo sbatterli in cella per una notte?» «Okay, d’accordo. Io ho quasi finito il turno. Assicurati che Ciuffo aggiorni i rapporti prima di andarsene, o si beccherà un bel calcio nelle palle dal sottoscritto». «Sì, sergente». Logan rientrò nella stazione di polizia. Un posto vicino a casa… Premette di nuovo il pulsante. «Deano, fammi un favore, già che sei in ospedale. Vai a controllare se Jack Simpson si è ripreso dalla sua vacanza nella soffitta di Klingon e Gerbillo. Se non mi trovi sulla ricetrasmittente, chiamami sul cellulare». Valeva comunque la pena di tentare. Poi tornò nell’ufficio dei sergenti. Finì di aggiornare le azioni sullo storm. Si scollegò. Spense il computer. Lasciò la tazza sporca nel lavello della mensa. Aprì lo sportellino blu dell’armadietto dove teneva la ricetrasmittente, più una nicchia che altro, accanto a ventotto altre piccole nicchie identiche e blu. Tirò fuori il cavo per ricaricarla. In quel momento, la ricetrasmittente pigolò, facendo comparire sullo schermo il numero di Deano. «Sergente, può parlare?» «Dimmi». «Jack Simpson. Il medico dice che non si sveglierà per un altro paio di giorni. Klingon e Gerbillo gli hanno causato un danno serio, con quella mazza da baseball. Lo terranno in coma indotto finché il trauma cranico non si sarà riassorbito». Certo, perché con Samantha aveva funzionato così bene… «Grazie, Deano». Logan spense la ricetrasmittente. Attaccò il cavo. Inserì il tutto nella nicchia e richiuse lo sportello. Avrebbe dovuto cercare da un’altra parte la sua salvezza. Logan uscì a passi pesanti dalla porta laterale della stazione. Si assicurò che fosse chiusa. Poi restò lì sul marciapiede, lasciandosi andare a un sonnolento sbadiglio che gli risalì dalle ginocchia, scuotendolo tutto. E afflosciò le spalle. Tanti saluti alla speranza di trovare un caso da chiudere velocemente per scrollarsi di dosso Napier. Non c’era niente di abbastanza importante da cancellare quello che era successo al processo di Graham Stirling. Un’intera ondata di arresti per taccheggio non sarebbe riuscita neanche a scalfire la situazione a suo favore. Si mise in testa il berretto dell’uniforme e attraversò il parcheggio… Poi si fermò. Una figura era appoggiata al muro che separava la strada dalla spiaggia. Seduta sul marciapiede, con le ginocchia contro il petto e le braccia a circondarle. Il viso nascosto nelle profondità del cappuccio di un parka. Logan si avvicinò. «Ehi, sta bene? Tutto a posto?». La figura sobbalzò, poi alzò gli occhi su di lui. Abbassò il cappuccio sulle spalle, rivelando una capigliatura simile a un’esplosione in una fabbrica di molle. Helen Edwards, la donna con la figlia scomparsa. Sbatté le palpebre un paio di volte, poi si strinse nelle spalle. «Ho freddo». «È rimasta qui fuori per tutto il tempo?». La aiutò a rimettersi in piedi. Ci volle un po’, visto che le sue ginocchia non sembravano funzionare a dovere. «Mi scusi…». «Davvero, può tornare al suo hotel, la chiameremo non appena sapremo qualcosa». Lei barcollò leggermente. Si afferrò al muretto basso che divideva la strada dalla spiaggia. «Mi si è addormentato un piede». «Posso darle un passaggio, se vuole».
«Non ho un albergo. Non volevo…». Fece spallucce. «Se fosse successo qualcosa e io non fossi stata qui?» «Quindi pensava di restarsene qui seduta al buio per tutta la notte? E anche per tutta la giornata di domani? Lo sa che ci vorrà qualche giorno, per avere i risultati del dna?» «Che altro posso fare?». Logan pescò da una tasca le chiavi di casa. «Ha mangiato qualcosa, almeno?» «Lo so, sono un’idiota». Lei chinò il capo. «Argh… è come avere mille aghi nella scarpa». Helen Edwards zoppicò in giro per la cucina, mentre il forno a microonde ronzava e il bollitore borbottava sul fuoco. Si fermò davanti alla fila di foto incorniciate accanto al calendario. Il disegno di maggio mostrava un gatto e un pony che giocavano in un prato, a matite colorate e brillantini. «Ha dei figli?». Logan lasciò cadere due bustine di tè nelle tazze che aveva tirato fuori dallo scaffale. «In realtà, no. Più o meno. È complicato». Il bollitore fischiò. «Zucchero?» «Una zolletta, grazie». Lui riempì le tazze di acqua bollente. «Il mio capo e sua moglie volevano un bambino, quindi ho donato lo sperma per loro. Jasmine ha sei anni, ora. Mi ha fatto quel calendario per Natale. Può prendere il latte e il burro dal frigo?» «È molto brava». «Non ha preso di sicuro dalla mia parte della famiglia». Logan prese il pane in cassetta economico dal cestino e lo posò sul tavolo. «È la sua fidanzata?». Helen Edwards indicò una delle foto appese alla parete, con la cornice un po’ storta. Logan e Samantha che mangiavano il gelato fuori dall’Inversnecky Café sulla spiaggia di Aberdeen. Sam aveva i capelli di un rosso acceso, una mano sporca di vaniglia e uno sbuffo di cioccolato sul viso. Un sorriso enorme. Quasi quanto quello di Logan. Come se il mondo non fosse un postaccio crudele, misero e sporco. Helen raddrizzò la foto. «È molto carina». Ah… «Anche… questa è una storia complicata». Logan tirò fuori le bustine di tè dalle tazze e appoggiò queste ultime accanto al pane. «È sempre così». Lei prese il latte e il burro. «Ricordo quando era così, per me e Brian. I sorrisi, le patatine, la domenica mattina… Prima delle urla, degli insulti e delle critiche costanti che ti divorano come acido». Il forno a microonde emise i suoi trionfanti trilli finali. La scodella era quasi troppo calda per toccarla, ma Logan riuscì a portarla in tavola solo con qualche ustione di secondo grado sulle dita. «Mi spiace, è solo una zuppa di lenticchie». «A me piacciono le lenticchie». «Dopo un paio di settimane, cominciano a stancare». Le passò un piatto e un cucchiaio. Poi versò un po’ di latte nella sua tazza e se la portò al lavello, dove sciacquò la scodella in cui aveva scaldato la zuppa. «È buonissima, grazie». Il rumore lieve di lei che gustava la sua zuppa con un po’ di pane si fece sentire alle sue spalle, mentre lei cominciava a mangiare. «Molto buona, davvero». «Be’, nel mio caso è complicato perché Samantha è rimasta in coma per quattro anni». Silenzio. Logan posò la scodella sullo scolapiatti. «Adesso è nella fase che chiamano “minimamente cosciente”». «Mi dispiace». Un lungo, lento sospiro gli fece abbassare le spalle. «Non parla. Non si muove da sola. E ha un grosso buco nel cranio per impedire al cervello di gonfiarsi e ucciderla». «Deve essere dura».
«Non so neanche se sia ancora lì. Insomma, io le parlo, ma…». Sì, be’, non aveva alcun senso continuare quel discorso. Accennò un sorrisetto forzato, che gli lasciò in bocca un sapore amaro. «Mi scusi. Deve essere il mio turno di interpretare Capitan Disperazione e Tristezza». Scrollò le spalle. «Comunque, le va un po’ di salsa piccante? Sulle lenticchie sta benissimo, le migliora all’infinito». «È sicuro che vada bene così?». Logan le tese un cuscino. «Va benissimo, davvero. Mi sembra una persona onesta, Helen, e comunque non ho assolutamente niente che valga la pena rubare». Helen si distese sul divano e si tirò la coperta fin sotto il mento. «Grazie». Click, e la stanza piombò nell’oscurità. Lui uscì in corridoio. «Non sono di turno, domani, quindi non la sveglierò presto». La voce della donna si udì dal salotto buio. «Logan?» «Sì?» «Si ricorda quello che ho detto, riguardo al fatto di amare qualcuno che si è perduto? E che almeno se quel qualcuno fosse morto, si potrebbe andare avanti?» «Sì». «Mi spiace tanto». «Anche a me». Chiuse la porta e salì le scale per andare a dormire. Giovedì: giorno di riposo
Capitolo 22
Uno sbadiglio. Si stiracchiò e si grattò. Poi tornò a sdraiarsi. La luce del sole scintillava ai bordi delle tende, rivelando la carta da parati che si staccava a pezzi intorno alla finestra in tutta la sua gloria. Avrebbe dovuto eliminarla, quel giorno. O quello, o ridipingere il soggiorno. O le scale. O uno dei mille altri lavori che richiedevano la sua… Ehi, cos’era quel rumore? Logan si sedette di scatto sul letto, tendendo le orecchie per cogliere quel suono. Da qualche parte al piano di sotto si udì uno scricchiolio. C’era qualcuno in casa. Doveva prendere un’arma. Il manganello estensibile. Non era efficace quanto un fucile, ma se lo sarebbe fatto bastare. Passò una mano lungo il bordo del materasso, alla ricerca della cintura con l’equipaggiamento e… Idiota. Ma certo che c’era qualcuno in casa: Helen Edwards. Probabilmente doveva andare in bagno. E non essendocene uno al piano di sotto, stava salendo le scale. Chi diavolo doveva essere, altrimenti, Freddy Krueger? Tornò a sdraiarsi. Lente, calme inspirazioni, finché il battito furioso del suo cuore non si calmò un minimo. Idiota. Altri cinque minuti. Poi si sarebbe alzato. Logan si infilò la T-shirt e scese di sotto. Una manciata di volantini dei vari ristoranti takeaway dei dintorni se ne stava sparpagliata sotto alla buca delle lettere, insieme a una collezione di locandine per le imminenti elezioni municipali. Vota per me, non sono una canaglia! Sì, certo. Raccolse tutto e andò in cucina. Helen Edwards era in piedi davanti al lavello, con le braccia immerse nell’acqua saponata fino ai gomiti. Pentole e padelle erano allineate ad asciugare, mentre ogni piatto presente in quella casa sembrava essere stato impilato dall’altra parte. Logan si fermò sulla soglia. «Era tutto così sporco?». Lei si girò. Le guance le si colorarono di rosa. «Oh… no. Volevo solo…». Si scostò dagli occhi un ricciolo biondo cenere con un dito insaponato. «Me ne stavo di là senza fare nulla e ho pensato di rendermi utile. Così mi sono messa a pulire la cucina». Lui mise il bollitore sul fuoco. «Le va un tè?» «Sì, grazie. E… se non ti spiace, dammi pure del tu». Per un minuto, l’unico rumore fu il borbottio dell’acqua che bolliva. Logan si schiarì la gola. Cthulhu entrò in cucina e saltò sul davanzale con un unico, fluido movimento. Inarcò la schiena e si sedette, con la coda in aria e le zampine davanti che formavano un angolo preciso, come quelle di una piccola ballerina classica pelosa. Logan allungò una mano a grattarle le orecchie, guadagnandosi un rumoroso coro di fusa. Dietro la gatta, il sole inondava di luce la facciata della stazione di polizia di Banff, dando alle sue guance di arenaria una tonalità rosata.
Un vecchietto passò in bicicletta. Helen si schiarì la gola. Sì, be’, era una situazione un po’ imbarazzante. Il bollitore fischiò. Logan fece il tè. «Andrò a trovare Samantha, più tardi». «Pensi… Pensi che oggi arriveranno le analisi del dna?» «Probabilmente no. Stanno facendo dei lavori di aggiornamento nel laboratorio di Aberdeen, quindi tutte le analisi sono dirottate su Dundee. E hanno sempre una marea di lavoro, ormai, tra violenze sessuali, omicidi, piedi tagliati… Oggi è giovedì. In tutta onestà, sarebbe un miracolo se i risultati arrivassero prima del weekend». «Oh». Helen chinò il capo. «L’ispettore capo Steel sicuramente farà la voce grossa e cercherà di far dare la priorità alle nostre analisi, ma non può fare più di tanto». L’ultima pentola si aggiunse al mucchio di quelle pulite. «Posso vederla?» «Vedere cosa?». Lei prese il primo piatto dalla pila e lo fece scivolare nell’acqua saponata. Non si girò a guardarlo. «La piscina. Il luogo dove l’hanno trovata». Logan si fermò in cima alla collina. Da lì, il Mare del Nord era una liscia distesa di marmo blu, con qualche venatura di bianco dove le onde morivano sciabordando sulla spiaggia di sassi più in basso. La costa si estendeva davanti a loro, con la scogliera che impallidiva e svaniva nella foschia azzurra in lontananza. Dita di pietra che si allungavano verso l’orizzonte. Il gruppo di edifici cubici e bianchi della Tarlair Outdoor Swimming Pool era incastonato nelle profondità della conca rocciosa, con le pareti scintillanti sotto il sole del mattino. Il motore della vecchia Clio sembrava un cacciavite che grattava contro un blocco di cemento. «Sei sicura di volerlo fare?». Helen annuì. «Okay». Logan ingranò la marcia e scese dalla collina, affrontando un tornante a gomito e procedendo sull’asfalto rovinato e pieno di buche della strada che portava alla piscina. Un prefabbricato della polizia era stato sistemato nel parcheggio, davanti ai resti bruciati di un cassonetto, ma la porta era chiusa. Non c’era traccia di vita. Lui parcheggiò l’auto lì accanto. «Se dovessi provare disagio o sentirti male, o altro del genere, fammelo sapere e ce ne andiamo. Non è un problema». «Sì. D’accordo». Helen si slacciò la cintura di sicurezza. Espirò profondamente e si scostò i riccioli dal volto. «Puoi farcela…». Poi aprì lo sportello e uscì. Logan la seguì. Fece scattare la chiusura centralizzata della macchina. Come se esistesse qualcuno di tanto disperato da provare a rubare un rottame come quello. Una striscia di nastro bianco e blu della polizia si tendeva lungo lo spazio tra le rocce che fungeva da entrata nel luogo. Lui lo sollevò e la fece passare. Helen si guardò alle spalle, occhieggiando il prefabbricato. «Possiamo farlo, vero? Non stiamo facendo qualcosa di illegale?» «Ho chiamato l’ispettore capo Steel, e mi ha detto che hanno finito di controllare il luogo. Il nastro è qui per evitare che gente strana venga a ficcanasare sul posto». Lei avanzò lungo il sentiero, superando la spiaggia sassosa con l’arco di pietra e le alghe secche. Si fermò davanti al cartello del Consiglio dell’Aberdeenshire: la tarlair pool è chiusa questa area può essere
pericolosa! divieto di balneazione L’acqua non è controllata o depurata. Non c’è sorveglianza. La struttura non è sicura. Attenzione alle superfici scivolose. non camminare sul frangiflutti, è pericoloso. C’è un vuoto di due metri dal lato del mare. I bambini devono essere sempre sorvegliati. Helen fissò il cartello per un po’. Poi prese un respiro profondo e proseguì, puntando agli edifici art deco poco oltre. «Sicura di stare bene?». Lei annuì. «Sì, va tutto bene. Sto bene». Si strinse le braccia intorno al busto, trattenendo il respiro. Si fermò in cima all’anfiteatro. Tre ampie gradinate di cemento scuro, con i bordi bianchi, conducevano alla piscina interna. Niente più che una distesa di grigio piena di crepe e circondata di scogli. Helen gonfiò le guance. Quando parlò, lo fece in tono completamente piatto. «Dove l’avete trovata?». Lui indicò l’angolo della piscina più esterna. Il livello dell’acqua era sceso, da lunedì sera. Doveva essere evaporata nel sole, o passata attraverso delle fessure nel frangiflutti. Lei lo seguì oltre l’edificio principale, con le pareti macchiate di sporcizia, fino al bordo dell’anfiteatro e allo spiazzo laterale. «Attenzione a dove metti i piedi». La passerella era sempre meno sicura, man mano che si avvicinavano alla piscina esterna; in più punti era crollata, esponendo ampie buche piene di ciottoli. Schegge di vetro e pacchetti vuoti di patatine scoloriti dal sole si annidavano tra le erbacce. Logan si fermò all’angolo della piscina più esterna. «È stato qui». L’intero luogo doveva essere periodicamente colpito da enormi onde di tempesta, almeno a giudicare dalle dimensioni e dal numero delle rocce finite contro i lati della piscina. La forza necessaria a spostarle doveva essere immensa. Helen si sedette sul bordo della piscina, con i piedi sospesi sopra le pietre. Fissò l’acqua sotto di sé. Chiuse gli occhi. Si morse il labbro inferiore. A quel punto, le spalle presero a sussultarle piano, seguite dalle prime lacrime. Logan deglutì. Distolse lo sguardo. Se ne restò in piedi in silenzio, ad ascoltare il suo dolore. «Senta, sto solo dicendo di mettergli un po’ di pepe al culo, okay?». Logan si appoggiò al tetto della macchina. «Ha bisogno di sapere se è sua figlia oppure no». Dall’altro capo della linea, la Steel sembrava masticare un foglio di alluminio. «Oh, certo, e come mai di colpo ti interessi tanto alla faccenda? Fino a ieri sera, non era il tuo caso. Avevi un letto che ti aspettava, o sbaglio?» «Come si sentirebbe, se si trattasse di Jasmine?» «Non ci provare neanche, dannazione». «Be’, allora dia una svegliata a quelli del laboratorio. Stiamo parlando di una bambina uccisa». «Se qualcuno toccasse Jasmine, farei sembrare l’Inquisizione spagnola una riunione di vecchiette rimbambite. Potrebbe scappare quanto vuole, ma comunque lo troverei e lo spellerei vivo». «E come mai nessuno ha trovato una camera a Helen?» «E gli farei indossare il mio culo al posto della faccia».
«Ha dormito sul mio divano, ieri notte. O così, o la facevo dormire in una cella». Helen si alzò in piedi, sulla spiaggetta sassosa, restando in piedi sulla riva a fissare il mare. «Oh, capisco. L’hai presa sotto la tua ala protettrice, e ora trovare l’assassino della bambina è diventata una priorità, vero? Che è successo, ti ha lucidato il bastone, ieri notte?» «Pensa che sua figlia sia morta. E a lei questo sembra divertente?». Un sospiro. «No». La Steel prese un respiro profondo. «Ascolta, ho detto alla McKenzie di occuparsene. Sia per quanto riguarda il trovarle una stanza che per tutto il resto. Sistemerò tutto. E dirò a quelli del laboratorio di muoversi, okay?» «Grazie». «Però non sarà affatto facile. Sua altezza Finnie ha decretato che non ha senso avere tutti questi agenti al lavoro sul caso. Priorità operative». «Non vuole pagare gli straordinari?» «Metà del team tornerà ad Aberdeen entro domani. Non mi lasciano neanche Rennie, ci credi? Rennie! È utile quanto un dildo di cartone, sono d’accordo, ma sempre meglio del detective Musolungo McKenzie». «Non stia sempre a lamentarsi. E si assicuri di fare una chiamata al laboratorio, okay? Ora devo andare». Logan attaccò e si rimise in tasca il cellulare. I ciottoli gli scricchiolarono sotto i piedi. Gli occhi di Helen erano arrossati e gonfi, la punta del suo naso di un rosa acceso. Logan si fermò accanto a lei. «Tutto bene?». Lei annuì, poi si asciugò gli occhi con il dorso di una mano. «Scusami. Mi sto comportando da stupida». «Cercheranno di far mettere le analisi in cima alla lista delle priorità». Al largo, un peschereccio rosso disegnava una scia bianca nel blu intenso del mare. «Inoltre si scusano per non averti trovato una sistemazione. L’ispettore capo Steel ha detto che si assicurerà personalmente di farti avere una stanza, così non dovrai continuare a dormire sul mio divano». «Oh». Helen si tormentò il bordo di un’unghia. «È molto gentile, da parte vostra». Afflosciò le spalle, incurvando la schiena. «Sicura di stare bene?». Lei distolse lo sguardo. «Non voglio essere un peso. È solo che… non vorrei stare da sola. Sto sempre da sola, nei Bed & Breakfast o in qualche albergo, o sull’autobus e sui treni, e per una volta è bello avere qualcuno con cui parlare. Qualcuno che capisce cosa sto provando». Logan la fissò. La pelle della nuca di Helen avvampò, seguita dalle sue guance. «E potrei aiutarti… Mio padre era un imbianchino e decoratore di interni per il municipio di Glasgow…». Si schiarì la gola, per poi abbassare gli occhi a terra. «Scusami. Mi sto di nuovo comportando da stupida». Lui le posò una mano sulla spalla. «Devo andare a trovare Samantha. Come te la cavi a togliere la carta da parati?». Una grossa nave mercantile si trascinava dietro una scia di schiuma bianca, puntando verso l’orizzonte. Il cielo creava una perfetta cupola azzurra aggrappata alla linea irregolare della costa e punteggiata dalle linee sottili delle ali dei gabbiani. Le loro strida lontane arrivavano, portate dal vento, fin sulla terrazza. Tutte le sedie a rotelle erano rivolte verso il mare, con gli occupanti afflosciati contro le fasce che li tenevano bloccati al loro posto. Sistemati lì a prendere il sole. Logan passò il cellulare nell’altra mano e tamponò con un fazzoletto di carta l’angolo della bocca di Samantha. «Sì, mi dispiace». All’altro capo della linea, Deano sospirò. «Ne è sicuro?» «Non posso. Ho avuto un contrattempo e sono bloccato».
«Ricorda, vero, che ho preso delle bistecche grandi quanto la sua testa?» «Lo so. Mi piacerebbe molto, Deano, ma non posso». La fronte di Samantha si stava arrossando un po’. Avrebbe dovuto portarle un cappello a tesa larga, o qualcosa del genere. «E abbiamo anche tanta birra». Logan si lasciò sfuggire un sospiro. «Non mi stai aiutando». Be’, non poteva lasciare Helen da sola a imbiancargli le pareti di casa mentre lui se ne andava a ingozzarsi a un barbecue, giusto? E non poteva certo portarla con sé, nossignore. Assolutamente no. Presentarsi a una cena con quella che poteva essere la madre di una bambina uccisa? Non sarebbe stato affatto giusto per lei. E tantomeno per il team. Come si sarebbero potuti rilassare e divertire, con una persona con cui essere gentili e comprensivi per tutto il tempo? Sarebbe stato un disastro. «Be’, se è proprio sicuro sicuro…». «Fidati: se avessi potuto, sarei venuto». Dopotutto, ci sarebbero stati altri barbecue. Altre bistecche. Si sentì brontolare lo stomaco. In fondo, aveva barattoli di zuppa di lenticchie in abbondanza, a casa. Logan incastrò il telefono tra l’orecchio e la spalla, mentre legava la terza busta dell’immondizia. «Sta scherzando? Niente fino a lunedì?». Dall’altra parte, la Steel tirò su con il naso. «Due stupri di alto profilo, e altri tre piedi tagliati a Clyde, oggi». Logan lanciò uno sguardo alla porta della camera da letto. Non c’era traccia di Helen, ma lui abbassò comunque la voce. «Penso che una bambina uccisa sia più importante di tre piedi mozzati, o no?» «In un mondo normale, sì. Qui? No. Ho provato anche a far intervenire Big Tony Campbell, ma non è servito a nulla. Siamo in coda, e non c’è niente da fare». «Qualcuno avrebbe bisogno di un calcio nelle palle». Logan aprì un’altra busta dell’immondizia e vi infilò dentro un mucchio di carta da parati strappata. La stanza aveva un aspetto decisamente migliore, senza quella carta viola marcio che si staccava e arricciava ovunque. Ora c’era solo l’intonaco rosa, punteggiato da qualche tratto di stucco bianco. Una passata di detersivo antimuffa e una mano di bianco aveva fatto sbiadire un minimo le macchie sul soffitto, ma non era ancora abbastanza. L’aria aveva l’odore pungente della vernice. «Il che mi ricorda una cosa: mi sono mangiata viva Becky per non aver trovato una sistemazione per la madre della nostra vittima. Quindi è andata di corsa a risolvere tutto, con l’aria di qualcuno a cui sta per scoppiare una vena». «Ah…». «Solo che… sai cosa ha detto la signora Helen “Potrebbe-Essere-Mia-Figlia-Morta” Edwards, quando Becky le ha detto che c’era una stanza prenotata per lei? “No, grazie, sto da un amico”». «Be’, forse…». «Stronza ingrata». Qualcosa crepitò dall’altra parte della linea, e la voce della Steel si fece impastata e soffocata, come se avesse la bocca piena. «Comunque: ti va di essere la voce della giustizia, per una volta?». L’ultima striscia di carta da parati finì nella busta dell’immondizia. «Che intende dire?» «L’unico motivo per cui quei piedi sono più in alto nella lista è perché la stampa ha fatto pressione. E se qualcuno lo rivelasse? “I laboratori della polizia ignorano il dna di una bambina di sei anni uccisa per cercare il favore della stampa”». Altro rumore di masticazione. «O qualcosa di
ancora più forte: “Le canaglie del laboratorio procrastinano le giuste analisi”. Sai, una cosa del genere». «No». «Be’, allora trovalo tu un titolo migliore». «No, intendo dire: no, non lo faccia. Se lo farà sapere ai giornali dopo aver fatto pressione per ottenere la priorità per quelle analisi, capiranno subito che è stata lei. Davvero ha così tanta voglia di passare più tempo con Napier?». Logan chiuse l’ultima busta e la aggiunse alle altre. «Non può farlo sapere. La inchioderanno al soffitto». «Allora lo farò fare a Rennie». «Certo, perché non lo collegherebbero subito a lei, vero?». Tirò su le buste e le trascinò sul pianerottolo. Dal bagno, qualcuno fischiettava una melodia monocorde. Logan portò giù le buste. «Come è andata con la Nicholson ieri notte?» «Che ne pensi di Becky? Potrei dire a lei di farlo». «No». «Pfff…». Un altro morso di quel qualcosa che stava mangiando. «La tua Nicholson è una tipa piena di entusiasmo, eh?». Lui lasciò le buste dell’immondizia davanti alla porta. «Mi lasci indovinare, non avete ottenuto nulla». «Due ore di dannatissimo niente. Be’, se non si contano le tazze di tè schifoso e le occhiatacce. Gilcomston il Pedo-iatra dice che vuole denunciarmi per molestie». Si sentiva dalla voce che stava sogghignando. «A quanto pare, non gli piace ricevere visite alle tre del mattino, ed essere interrogato sull’accesso che ha ai barbiturici. Poverino. Avrebbe dovuto pensarci prima di cominciare a molestare i bambini». Dal piano di sopra venne il rumore dello scarico. Helen sarebbe scesa da un momento all’altro. «Senta, ora devo andare». «Oh, certo, hai un appuntamento galante, vero? La tua amichetta ha invitato le sue cinque sorelle per un’orgetta?» «Sto attaccando». «Spero tu abbia le giuste protezioni. Un guanto di gomma dovrebbe andare bene, se…». Lui spinse il pulsante rosso, poi infilò il cellulare in tasca, in tempo per vedere Helen che compariva in cima alle scale. Lei si portò un ricciolo dietro un orecchio e sorrise. «Cosa c’è per cena?» «Zuppa di lenticchie». Il sorriso scemò. «Di nuovo?» Venerdì: giorno di riposo
Capitolo 23
«…resterò con voi per la prossima ora, ma prima c’è Carol con il notiziario di mezzogiorno, le notizie sul traffico e il meteo. A te, Carol». «Grazie, Justin. La polizia di Glasgow non conferma né smentisce le voci secondo le quali i tre piedi mozzati trovati nel Clyde ieri si ricolleghino a una faida tra sette…». Logan fermò la malandata Clio vicino al marciapiede, di fronte alla sua casa. Tirò fuori il cellulare e controllò i messaggi. C’era un messaggio vocale da parte di sua madre, che finì subito cancellato. Poi uno di testo da Rennie, riguardo a un clochard morto che aveva dovuto tirare fuori da un cassonetto dell’immondizia ad Aberdeen. Cancellò anche quello. «…confermato che la morte della vittima di violenze sessuali Stephen Bisset avvenuta nell’Aberdeen Royal Infirmary mercoledì notte è da considerare sospetta. Dopo la caduta delle accuse contro…». Logan spense il motore. Restò seduto in silenzio. Tornò a fissare lo schermo del telefono. C’era un messaggio della Steel, che si lamentava del fatto che non sarebbe andato alla gara di danza di Jasmine il giorno dopo. Lo cancellò. Ed eccone un altro, sempre della Steel, che gli raccomandava di controllare gli eventuali contatti di Neil Wood nel sottobosco dei colpevoli di reati sessuali. E c’era anche un messaggio da parte di Bob Biorischio. Napier è stato qui oggi a fare un sacco di domande su di te. Ha continuato a chiedere se fossi impazzito su questo caso. Se ne fossi stato ossessionato, e cose del genere. Guardati le spalle: hanno tirato fuori i coltelli! «Fantastico». Digitò una risposta e la inviò. Poi se ne restò lì seduto a fissare la distesa scintillante del Mare del Nord. Avrebbe potuto fare come Reginald Perrin. Spogliarsi sulla riva e andarsene tra le onde. Sparire, emigrare da qualche altra parte. E poi cosa ne sarebbe stato di Samantha? Chi avrebbe pagato le sue spese mediche? Già. Esatto. Mise via il telefono e uscì dalla macchina. Davanti all’entrata della stazione di polizia di Banff si era radunato un gruppo di uomini trasandati e donne ben vestite. Alcuni intenti a riprendere con le telecamere, altri a fumare o a bere caffè da bicchieri di polistirolo. Come diavolo ragionava la Steel? Aveva parlato con la stampa, anche se lui le aveva ribadito di non farlo. Idiota. Riprese il cellulare. Lei rispose al quarto squillo. «Non te lo ripeterò ancora: non avrai altro denaro da me!». «Cosa?» «Cosa?». La Steel si schiarì la gola. «Oh… pensavo fossi qualcun altro. Perché mi…?».
«Che le avevo detto ieri sera?». Attraversò la strada a lunghi passi, diretto verso casa. «L’ha fatto sapere alla stampa, e ora risaliranno sicuramente a lei. Perché ha dovuto fare una mossa tanto stupida?» «Mi stai chiamando stupida? Dovrei…». «Dire quelle cose ai media… pensa davvero che non le esploderà in…». «Frena la lingua, Laz. Io non ho detto un bel niente a nessuno». Lui fece capolino da dietro l’angolo. Il gruppo di giornalisti era ancora lì. «E allora perché sto guardando un mucchio di idioti della stampa nazionale che si accalca fuori dalla stazione di polizia di Banff?». Silenzio. Già, non aveva una risposta pronta da dargli, stavolta, vero? Logan entrò in casa. «Che diavolo le è passato per la mente, eh?». Ancora silenzio. All’interno, il suono di qualcuno che fischiettava lo raggiunse dalla cucina, insieme a un delizioso profumo di carne speziata. «Ehi? È ancora lì?» La massa di ricci esplosivi di Helen fece capolino dalla porta della cucina. «Ciao, Logan. Mi sembrava di aver sentito qualcosa. Sei arrivato giusto in tempo». Aveva un viso radioso, le guance arrossate. Lui chiuse la porta d’ingresso. «Ciao. Scusami». Le indicò il cellulare nell’altra mano. «Ah, sì. Scusami tu». Lei si ritirò in cucina. Logan tornò al telefono. «Okay, sto riattaccando. Ha davvero…». «Io non ho fatto sapere niente a nessuno. Per tua informazione, tesoro, la calca di giornalisti fuori dalla stazione di Banff non è lì per il caso Tarlair. Non è lì per me, ma per te». Logan si sentì riempire la bocca di sabbia e ghiaia. «Per me?» «Già, proprio così. Chi è l’idiota adesso?». Lui si schiarì la gola. Sbirciò dalla porta della cucina e oltre la finestra più avanti. Dovevano essere almeno una dozzina, lì fuori, con telecamere, microfoni e taccuini pronti. «Perché vogliono me?» «Tu che ne dici? Hai fatto crollare le accuse contro Graham Stirling e ora Stephen Bisset è morto». Oh, Dio… Logan si scostò dalla porta. «Non sono di turno. Dite loro di andarsene». «Questo è un paese libero. Possono starsene lì finché vogliono, sempre che non causino fastidi». Lui premette la nuca contro il muro. Chiuse gli occhi. «Non è colpa mia». «Sì, be’, ricordatelo la prossima volta che provi a chiamarmi idiota». La linea tornò muta. Perfetto. Come se la caccia alle streghe di Napier non fosse già abbastanza un guaio, ora ci mancava solo la stampa a cominciare una vera e propria crociata. «Logan? Va tutto bene?». Certo. Tutto bene. Tutto perfetto. Meglio di così… Riaprì gli occhi, notando Helen di nuovo sulla soglia della cucina. Una ruga sottile le si formò tra le sopracciglia. «È successo qualcosa, in clinica? Samantha sta bene?» «Sì, è tutto a posto. È solo… una cosa di lavoro». Logan mise via il telefono. «Sai come vanno queste cose. C’è sempre qualche problema». «Comunque, non avevo trovato niente in cucina per il pranzo, a parte barattoli di zuppa di lenticchie». Helen si girò e tornò in cucina. «E ho capito che deve essere il tuo piatto preferito, altrimenti non ne prenderesti tante confezioni, ma io non riesco a mangiare lenticchie per giorni di seguito».
Lui la seguì. Si sforzò di sorridere. «Il profumo è delizioso, qualunque cosa sia». «Macinato con patate. A me piacciono carote e piselli. Non avevi del brodo istantaneo, però». «Mi spiace». «Né le carote, i piselli, la carne o le cipolle. Però avevi le patate». Helen tirò fuori un paio di piatti. «Le preferisci in purè o intere?» «In purè». «Ottima scelta». Versò le patate bollite in una pentola e la mise sul fuoco, con un po’ di latte e una noce di burro. Cominciò a schiacciarle, dandogli le spalle. «È il piatto preferito di Natasha». Giocherellò con la pentola, distogliendo lo sguardo. «Be’, lo era quando era piccola. “Ciccia e ’tate”, diceva. Ne faccio sempre troppo». Indicò il tavolo apparecchiato per due, con tanto di tovaglioli e bicchieri. «Sono pronta a portare il pranzo in tavola, se per te va bene». «Grazie». «Ciccia e ’tate. E anche altri piatti scozzesi. Adorava tutto quello che si poteva pasticciare nel piatto con una forchetta…». Helen prese lo schiacciapatate da un cassetto. «Ovviamente, Brian voleva sempre che mangiasse paella, chorizo e tutto il resto. Lei gli diceva che la paleia sapeva di vermi. E allora scoppiava la lite. Lui continuava a ripetere che io non rispettavo le sue origini spagnole. E io gli facevo notare che non era davvero spagnolo, perché era nato a Dalkeith. Non aveva neanche mai visto la Spagna fino a tre anni di età». A quel punto, Helen chinò il capo. «La stessa età che aveva Natasha quando lui l’ha portata via». Schiacciò con forza le patate. «Allora me ne stavo zitta e preparavo la sua stupida paella, e magari lui non mi urlava contro. Ma non sempre funzionava. E questa era la nostra famiglia felice». Schiacciò ancora le patate. «Perché non l’hai lasciato?» «Bene, penso che possiamo sederci a tavola». Helen riempì i due piatti di carne tritata e speziata e purè di patate. Poi si sedette di fronte a Logan. Lui infilò la forchetta nel purè e recuperò insieme a quello anche un boccone di macinato scuro, disseminato di pezzetti di cipolla cotta e piselli verde smeraldo. Lei si passò le dita sullo stomaco, imbronciando le labbra in una smorfia tondeggiante, con le sopracciglia aggrottate. «Va bene?». Logan deglutì. Ne prese un’altra forchettata. «Grazie, è delizioso». «Ne sei proprio sicuro? So che la zuppa di lenticchie è il tuo piatto preferito, ma…». «Dico davvero, è superbo. In realtà, mangio così tanta zuppa di lenticchie perché costa poco. E si può infilare in una busta e lasciare in macchina per quattro ore sotto al sole senza temere di rovinarla. E poi, ogni stazione di polizia ha un forno a microonde e un tostapane». Lei lo guardò inghiottire un’altra forchettata di carne e patate. «Quindi vivi di zuppa precotta e pane economico da una sterlina?» «Una sterlina? Scherzi? Non è mica così costoso». Helen rigirò la forchetta nel purè, lasciandolo arato come un giardino Zen. «Logan, quel problema di lavoro… non è per la questione di Natasha, vero?» «No. Si tratta di un altro caso. I laboratori stanno ancora analizzando il campione di dna che ci hai fornito, ma…». Logan si strinse nelle spalle. «Non dovrei parlartene, ma quei piedi mozzati che sono stati trovati nel Clyde riguardano probabilmente un serial killer. Quindi sono tutti concentrati su quella faccenda, prima che possa uccidere qualcun altro. O che la stampa si renda conto che non si tratta di uno scontro tra sette protestanti». «Capisco». «Ci hanno promesso che i risultati arriveranno lunedì». Lei tenne gli occhi sul piatto. «D’accordo». Per un po’, mangiarono in silenzio.
Logan tentò di ridacchiare, ma non gli riuscì tanto bene. «Immagino che questo significhi che sarai costretta a passare il weekend con il sottoscritto». L’orologio sulla parete ticchettò nel silenzio. Helen prese un sorso d’acqua. «Stavo pensando che se finiamo di ritinteggiare la stanza da letto entro oggi, potrei cominciare a lavorare al salotto, domani, mentre sei al lavoro. Per te va bene?». Lui posò una mano sulla sua, allungandola sul tavolo. «Se potessi farli lavorare più in fretta lo farei. Te lo giuro». «Lo so».
Sabato, primo turno
Il senno di poi è uno specchio ingannevole
Capitolo 24
«…ogni volta: dice che il suo letto è pieno di ratti. E odia la polizia». La Nicholson premette il pulsante del mouse, facendo comparire la slide successiva del PowerPoint del briefing mattutino. Un’immagine sgranata presa da una telecamera a circuito chiuso mostrava quello che sembrava un mucchio di gente accalcato fuori da un pub. «Okay, c’è stato un violento alterco fuori dal Fish and Futrit, a Peterhead, ieri notte. I festeggiamenti per un matrimonio sono un po’ sfuggiti al controllo». Guardò Logan. Lui prese un sorso di tè. «Quindi, le celle di Peterhead sono piene e il resto delle persone arrestate è finito a Fraserburgh. Il che significa che…?». Posò con forza una mano sulla spalla di Ciuffo, facendolo sobbalzare. «Ehm… Che dovranno mettere due persone a controllare le celle, secondo la legge?» «E quando riapriranno i tribunali?» «Lunedì?» «E quindi?» «E quindi…». Il giovane agente aggrottò la fronte. Pensa. Pensa. Pensa. «Quindi non avranno abbastanza personale nel weekend?» «Esatto. Hai appena vinto una barretta di croccante». Quelle parole gli fecero rivolgere uno sguardo confuso. «Siamo quasi sotto il numero minimo dappertutto, quindi perdere due agenti sia a Peterhead che a Fraserburgh significa che dovremo fare anche il lavoro degli altri». L’annuncio fu seguito da svariati mugugni di protesta. «Sì, lo so. Prendetevela con le famiglie degli sposini». Ciuffo alzò una mano. «Non possiamo chiedere qualche rinforzo dal Team Investigativo Primario del caso di Tarlair?» «Lo hanno già ridimensionato. Il grosso dell’operazione sarà gestito da Aberdeen, per “massimizzare l’efficienza operativa”, a detta loro. Ovvero: non vogliono pagare gli straordinari e le trasferte». Deano giocherellò con la bomboletta di gas lacrimogeno che portava alla cintura. «Ovvero: non hanno ottenuto niente, e ora se ne tornano a casa con la coda tra le gambe». «No comment». Logan si rivolse alla Nicholson. «Janet?» «Fortunatamente, è tutto piuttosto tran…». Si schiarì la gola. «Non riteniamo ci siano molte questioni da risolvere, di sabato mattina». Deano si lasciò sfuggire un respiro sibilante tra i denti. «Ooh, eri vicinissima a portare sfortuna a tutto il turno». «Sta’ zitto». Janet tornò alle slide. «Comunque. Altri avvenimenti di ieri notte: c’è stato un incendio a Rosehearty. Una delle villette di North Street ha preso fuoco. Non si considera la pista del dolo, finora. Ci sono state quattro effrazioni a Pennan nel cuore della notte: sono stati rubati beni elettronici, libri, qualche gingillo e qualche gioiello». Logan posò la tazza sulla scrivania. «Deano, tu e Ciuffo andate a dare un’occhiata, scattate qualche foto e cercate eventuali impronte digitali. Facciamoci vedere». «Sì, sergente». «Quattro effrazioni sono tante, per un paese così piccolo. Si stanno spazzolando tutto il centro abitato porta per porta. Voglio ottenere dei risultati».
La Nicholson proseguì: «Due persone sono state fermate per guida in stato di ebbrezza: una fuori da Strichen e l’altra sulla a947, a nord di Keilhill. Quell’idiota è uscito di strada ed è finito ribaltato in un campo. E, ultimo ma non meno importante, il nostro amico guardone gira di nuovo su Melrose Crescent. Adesso abbiamo una descrizione». Un clic, e lo schermo mostrò l’immagine un po’ sgranata dell’identikit di un uomo. «Vaga, poco chiara e decisamente poco utile». Janet si appoggiò allo schienale della sedia. «Sergente?» «Bene. Allora, prima di tutto: credo di dover dedicare un applauso per il barbecue di giovedì sera di Deano…». La Nicholson e Ciuffo applaudirono, mentre Deano faceva compiere un lento giro completo alla sua sedia, con le braccia sollevate come se avesse appena vinto una maratona o gli fosse stata puntata addosso una pistola. «Grazie, grazie». Ciuffo sogghignò. «Sarebbe dovuto esserci, sergente. C’era perfino un castello gonfiabile!». «Davvero?». La Nicholson annuì. «Mio zio ne ha uno. E ha detto che potrebbe prestarcelo per l’open day della stazione, a giugno». «D’accordo». Logan tirò fuori il taccuino e se lo segnò. «Secondo: Klingon e Gerbillo non hanno ottenuto il rilascio su cauzione. Quindi se ne staranno rinchiusi a Craiginches fino al processo. Da Queen Street ci hanno fatto sapere che saremo coinvolti soltanto come testimoni in tribunale, e un Team Investigativo Primario si occuperà di tutto il resto». Deano gonfiò le guance. «Come al solito». «Terzo: non mi interessa se il team del caso Tarlair se ne torna ad Aberdeen con le pive nel sacco, noi non ci arrenderemo. Tenete gli occhi aperti, lì fuori, okay? Neil Wood non è sparito dalla faccia della terra, si è solo nascosto. E prima o poi dovrà venire fuori». Logan chiuse il taccuino con uno scatto. «E quando lo farà, noi saremo lì, pronti ad arrestarlo». Qualcuno bussò alla porta dell’ufficio dei sergenti, e Ciuffo fece capolino all’interno. «Sergente? Sapeva che c’è una barbona che dorme nella nostra mensa?». Logan alzò lo sguardo dalla tastiera e si accigliò. «Una barbona?» «Mezza spalmata sul tavolo. Russa e scorreggia». Logan si raddrizzò sulla sedia. Assottigliò lo sguardo. «È una femmina, ne sei sicuro?» «Sì. E ha i capelli come Albert Einstein dopo un’esplosione». Ovviamente. «Meglio mettere su l’acqua, Ciuffo. Un caffè con latte e due zollette di zucchero. E un tè per me». «Sì, sergente». «E dai la sveglia alla barbona. Falla venire qui». Logan tornò a guardare lo schermo, controllando che gli altri team della stazione di polizia di Banff avessero aggiornato i rapporti. Aggiunse qualche commento e ne segnalò un paio da sistemare. Poi aprì il file dei crimini. «Gnnnph…». La Steel si appoggiò allo stipite della porta, con l’aria di una donna che si era presa un gorilla come stilista personale. Spalancò le fauci in un enorme sbadiglio che finì con un piccolo rutto. Poi sbatté le palpebre un paio di volte. Logan controllò l’orologio. «Non sono neanche le otto. A cosa dobbiamo questo onore?» «Io odio il turno di mattina». Un altro sbadiglio. Ciuffo ricomparve con una tazza fumante per mano. Ne posò una sulla scrivania di Logan, per poi spostare più volte lo sguardo da lui al mostro scapigliato sulla porta. «Sergente?». La Steel allungò entrambe le mani. «Caffè. Subito. Il caffè fa sentire meglio». Logan si collegò al file dei crimini. «Agente Stewart Quirrel, lei è l’ispettore capo Roberta Steel, del Team Investigativo Primario del caso Tarlair».
«Ah. Okay. Prego, capo». Le passò l’altra tazza. Lei vi seppellì dentro il viso, cominciando a bere rumorosamente. Ciuffo sollevò le sopracciglia mentre gli angoli delle sue labbra scivolavano verso il basso, dandogli l’aspetto di una rana sorpresa. Poi accennò un paio di volte con il mento verso la Steel e arricciò il naso, come se avesse avvertito un qualche odore fastidioso. Lei non alzò lo sguardo dal caffè che stava bevendo. «D’accordo, Ciuffo, basta così. Vai a cercare qualcosa di utile da fare». «Vuole che io e Deano andiamo a Pennan?» «Hai finito di aggiornare i tuoi rapporti?». Le guance del giovane agente avvamparono. «Vado subito, sergente». Non appena fu sparito, la Steel avanzò a passi strascicati verso la scrivania di fronte a quella di Logan e si lasciò scivolare sulla sedia. Poi spalancò di nuovo la bocca in uno sbadiglio gargantuesco. «Pfff… il tuo letto è molto più comodo di quel pulcioso albergo». «Sembra appena uscita da un cassonetto». «Ti odio…». La Steel prese qualche altro rumoroso sorso dalla tazza. «Perché non ci sono biscotti?» «Lo chieda al suo ragazzo, il detective Dawson». Logan controllò il file dei crimini. C’erano tre richieste di pubblicare un messaggio su Twitter riguardo a una grave aggressione a Mintlaw. Il volto della polizia moderna. «Ti propongo uno scambio: il tuo porcile per la mia lussuosa camera d’albergo. Bottigliette di shampoo e tutti gli asciugamani puliti che vuoi». «No. Cosa sta succedendo al caso Tarlair?» «E c’è anche la colazione inclusa. Salsicce, uova e scones di patate. Ti piacerebbe. E metteresti un po’ di carne intorno a quelle ossa». «È venuta qui a lamentarsi o vuole provare a lavorare seriamente, oggi?». Lei si incurvò in avanti, avvolgendo la tazza di caffè con entrambe le mani come se fosse l’unica cosa che le impediva di morire congelata. «Ci stanno rimandando a casa. Quattro giorni e non abbiamo ottenuto un singolo, maledetto indizio su chi sia quella bambina, o chi possa averla uccisa». «Ho sentito». Logan si collegò a Twitter e mandò l’appello ai testimoni come richiesto. Combattere il crimine 140 caratteri alla volta. «Quindi se ne tornerà ad Aberdeen». Almeno in quel modo avrebbero riavuto il possesso della stazione. Avrebbero potuto aprire qualche finestra e mandare via la puzza di disperazione, fallimento e troppi lassativi. «Ti piacerebbe». La Steel stese le braccia, piegò la testa di lato e inarcò la schiena. Mugugnò e sbadigliò, scuotendosi tutta. «Qualcuno resterà qui a dirigere la Divisione b nell’indagine». Ovviamente. «Quindi, praticamente il Team Investigativo Primario non è riuscito a trovarsi il culo da solo, e ora il problema è nostro». Logan chiuse gli occhi, si piegò in avanti e premette la fronte sul tavolo. «Oh, che fortuna». «Non sei nella posizione di fare del sarcasmo. Stephen Bisset è morto, ricordi?». Come se potesse dimenticarlo, con tutte le prime pagine che la notizia aveva ottenuto sui giornali negli ultimi due giorni. Almeno, avevano smesso di accamparsi fuori dalla stazione di polizia. La Steel lo pungolò su una spalla. «E sai cosa hanno scoperto quando hanno controllato le registrazioni delle telecamere dell’ospedale? Un cavolo di niente. Hanno controllato tutti i volti registrati, e nessuno ha qualcosa a che fare con Stirling. Quindi la tua teoria del “complice” è utile più o meno quanto il detective Rennie». Piegò il collo da un lato e dall’altro, facendolo scricchiolare, per poi massaggiarsi la nuca. «Non riesco ancora a credere che nessuno abbia visto niente».
«È proprio sicura di non voler tornare ad Aberdeen con gli altri? E magari lasciare qui qualcuno di meno fastidioso?» «Insomma, ti aspetteresti che qualcuno possa notare un tizio che entra, si masturba su Stephen Bisset e lo soffoca, no? Dovresti dare un minimo nell’occhio, con la salsiccia dell’amore in una mano e un cuscino nell’altra, o sbaglio?». Logan la fissò. «Hanno trovato del seme sul cadavere? Ma allora va fatta un’analisi del dna!». «Sì, grazie tante, Hercule Poirot, ci abbiamo già pensato. E non è venuto fuori nulla dal database. Te lo dico io, la stampa impazzirà, quando si verrà a sapere». Sospirò, prendendo un altro sorso di caffè. «Era già abbastanza quando ci massacravano sul processo di Graham Stirling, ma questo? Siamo seriamente nei guai. E quel piccolo bastardo può anche non aver fatto nulla finora, ma puoi scommettere i ruvidi pantaloni della tua fottuta uniforme che ci farà causa, e la stampa ci starà di nuovo addosso, peggio di prima. Se fossi in te, mi attaccherei come una sanguisuga a chiunque fosse in grado di togliermi di dosso un po’ di tutta questa merda». «Glielo ripeto: non entrerò nel suo Team Investigativo Primario. Non posso». Lei sollevò le mani. «Dicevo per dire». «Be’, io no. Già è abbastanza brutto…». Si sentirono tre rapidi colpi sulla porta, e la donna che faceva da braccio destro della Steel fece capolino nell’ufficio dei sergenti. «Capo?». La Steel non la guardò neanche. «Per l’ultima volta, Becky, non tornerai ad Aberdeen finché Dawson non esce dall’ospedale. Non sei un granché, ma sei tutto ciò che ho, al momento, per tenere in riga questi agenti». La detective McKenzie si incupì, e le rughe che aveva intorno alla bocca si fecero più profonde. «Si tratta della registrazione delle telecamere dell’ospedale. Non c’è nessuno, lì sopra che non dovrebbe esserci, giusto? Insomma, ci sono i medici, le infermiere, qualche volontario, l’urologo…». Si fermò, facendo una pausa drammatica. «E i figli di Bisset». La Steel appoggiò i gomiti sulla scrivania, facendo dondolare la testa sopra la tazza di caffè. «Stai suggerendo sul serio che possano essere stati i suoi figli?». La McKenzie entrò nella stanza e si chiuse la porta alle spalle. «So che è un azzardo, ma ci pensi. Loro…». «Laz, sono troppo stanca. Fallo tu». Logan le indicò la sedia vuota. «Vuole sedersi?». La donna non lo fece. Si appoggiò alla parte della scrivania dove si trovava la Steel. «Avanti, capo, nessuno sospetterà mai di loro, giusto?». Logan si morse le labbra. Doveva essere gentile. Non aveva senso farla sembrare una stupida, ma non sarebbe stato facile evitarlo. «Capisco cosa intende, detective McKenzie, ma la sua ipotesi non tiene conto del seme trovato sul corpo di Stephen Bisset». Silenzio. Poi la McKenzie arricciò il naso. «Dannazione». La Steel doveva aver deciso che dopotutto poteva anche dire la sua, perché si raddrizzò e indicò la detective. «Sono fratello e sorella, Becky. Non è molto probabile che ammazzino il loro caro vecchio padre per poi venire sul suo corpo ancora caldo, giusto? Siamo ad Aberdeen, non nel fottuto Trono di Spade». Il rossore sul collo della McKenzie aumentò. La donna tentò un sorriso che sembrava più la smorfia di chi avesse appena usato un ananas intero come supposta. «Capisco…». Un respiro profondo. Poi alzò il mento. «C’è altro?». La Steel agitò la mano verso la porta. «Vai a controllare se qualcuno ha avvistato Neil Wood, nel frattempo. I pervertiti non spariscono nel nulla». Un secco cenno della testa. «Sì, capo». Poi uno sguardo astioso a Logan, come se fosse colpa sua. «Sergente». E se ne andò sbattendo la porta.
Lo spostamento d’aria fece arruffare i post-it incollati sulla scrivania di Logan. Lui sospirò. «È andata bene». «Te l’avevo detto… è a un passo dal farsi venire un aneurisma». «E allora la smetta di tormentarla». Logan passò la punta delle dita sulla scrivania una o due volte. Guardò fuori dalla finestra, mentre un fastidioso senso di colpa gli si piantava come una lama sottile nel petto. «Il detective Dawson è ancora in ospedale?» «Gli sta bene. Mai fidarsi del kebab, questo è il mio motto». La Steel sorseggiò il caffè e aggrottò la fronte. «Sicuro di non avere biscotti?». I familiari e deprimenti rumori di un ospedale ticchettavano, ronzavano, tintinnavano e mormoravano lungo il corridoio. Logan si appoggiò alla parete con la schiena e premette un dito contro l’orecchio libero. «Puoi ripetere, Deano?» «Sì, stiamo continuando a girare intorno a Rundle Avenue. Di nuovo. Abbiamo ricevuto una chiamata secondo la quale il suo amico Frankie Ferris stava ricevendo parecchi visitatori». Logan controllò l’orologio. «Alle otto e venti di sabato mattina? Se è sveglio così presto, non deve essere andato a dormire ieri notte». «È quello che ho pensato anch’io. Ma abbiamo ricevuto questa chiamata, quindi non siamo andati a Pennan per continuare a girare in circolo da queste parti, a caccia di drogati mattutini che non esistono». La porta in fondo al corridoio si aprì, e una giovane donna in camice azzurro ne uscì, con un mucchio di fascicoli sotto un braccio. Capelli corti e castani, due cicatrici che da sotto il naso le raggiungevano il labbro superiore. «Okay, fate un altro paio di giri e poi basta. Con Klingon e Gerbillo fuori dai giochi, qualcuno sicuramente sta cercando di colmare il vuoto. E potrebbe anche essere Frankie Ferris». Logan riagganciò la ricetrasmittente sulla spalla e si avvicinò alla donna. «Dottoressa?». Lei gli rivolse un sorriso che faceva pensare a una notte di sonno mancata. «Come posso aiutarla?». Logan indicò la porta da cui era uscita. «Jack Simpson». «Ah, sì». Lei prese una delle cartelline e vi frugò dentro, tirandone fuori un foglio che osservò stringendo gli occhi. «Trauma cranico, lesioni alla milza, fratture alle costole, al femore sinistro, alla tibia e alla fibula destra, all’omero sinistro e…». «Sì, è lui. Si è svegliato?». Lei sporse le labbra per un attimo. Arricciò il naso. Probabilmente non era abituata a essere interrotta in quel modo. «Mr Simpson ha ripreso conoscenza questa mattina. La pressione intracranica sta recedendo, quindi siamo fiduciosi sul fatto che possa riprendersi completamente. Anche se, ovviamente, avrà bisogno di molta fisioterapia». «Posso parlarci?» «Devo avvertirla, è un po’… irritabile». Non lo sorprendeva: Jack Simpson non doveva aver vissuto un giorno solo senza eroina da anni, ormai. Perlomeno, doveva essere rimasto sedato per tutto il periodo peggiore della crisi d’astinenza. Logan entrò nella stanza. Le serrande erano leggermente aperte, e proiettavano strisce di luce sul pavimento e sul letto. C’era un televisore montato sulla parete, con l’immagine che sfarfallava a tempo con qualche macchinario lontano. Un giornalista in giacca e cravatta parlava in camera, il microfono tenuto come un tirapugni. «…il Primo Ministro ha annunciato oggi che la detective deceduta Mary Ann Nasrallah, della Polizia di Merseyside, sarà insignita della Medaglia al Valore della Polizia. Ci colleghiamo live con Westminster…».
Jack Simpson era sdraiato sulle lenzuola, con le braccia e le gambe ingessate, un collare rigido che lo bloccava con il mento in alto e la testa fasciata. Il volto era una tavolozza di macchie violacee e giallastre, le labbra gonfie e piene di croste. «…la coraggiosa agente sotto copertura la cui uccisione della scorsa domenica non fa che dimostrare…». Logan afferrò il telecomando e spense la tv. Poi sorrise a Jack Simpson. «Klingon e Gerbillo ti hanno giocato un bel tiro mancino, eh, Jack?». Gli occhi iniettati di sangue dell’uomo lo fissarono, furiosi. «Vvv ffft fttr». «Avanti, è questo il modo di parlare a chi ti ha salvato la vita?». Prese una sedia di plastica da un angolo della stanza, trascinandola accanto al letto. Ci si accomodò. «Mi spiace, ho dimenticato di portarti un po’ di frutta». «Nnn ti drrr nnnt». «Okay, non devi dirmi niente. Perché invece non mi ascolti un po’? Quando ti ho trovato nella soffitta di Klingon, eri mezzo morto. Tra le lesioni interne, la crisi d’astinenza e la disidratazione, i medici hanno detto che saresti riuscito a resistere forse per un altro giorno. O forse due. Al massimo». Simpson restò lì, fissando con odio il soffitto. «Hanno cercato di ucciderti, Jack. Ti hanno quasi ammazzato di botte e ti hanno chiuso in soffitta. Se non fossi salito lì sopra, sarebbe stata la fine, per te. Niente più Jack Simpson». Difficile che qualcuno potesse dispiacersi di quella perdita. Non c’era una singola cartolina di pronta guarigione nella stanza; niente orsacchiotti, palloncini o mazzi di fiori. Le uniche cose che decoravano il comodino accanto al letto erano una tazza e una confezione di fazzoletti di carta. Ma, del resto, chi mai si sarebbe messo ad augurare a uno spacciatore di riprendersi presto? Ormai i suoi clienti dovevano aver trovato qualcun altro a cui chiedere il loro veleno preferito. Neanche alla madre o al padre di Jack Simpson importava qualcosa del figlio. Logan si piegò in avanti e bussò sul gesso intorno al braccio destro dell’uomo. «Vuoi che Klingon e Gerbillo se la cavino? Vuoi perdonarli e dimenticare il passato, per caso?». Un sibilo uscì dalle labbra spaccate di Simpson. «Li ammzzz». «E come pensi di riuscirci, Jack?». Indicò la sacca appesa sotto al letto, collegata a un tubicino che spariva sotto il camice ospedaliero di Simpson. «Non puoi neanche pisciare da solo, al momento». Logan curvò la schiena in avanti e abbassò la voce. «Al momento, staranno sicuramente patteggiando. Tireranno fuori i nomi di chi ha venduto loro la roba in cambio di una riduzione della pena. Chissà, se le informazioni sono davvero utili, potrebbero perfino ottenere la libertà. È questo che vuoi?». Un colpo di tosse. Poi un altro. La saliva che lasciava a spruzzi le sue labbra. Serrò le palpebre, i denti scheggiati stretti contro gli spasmi convulsi del petto. Finché l’accesso di tosse non si esaurì e lui ripiombò sul cuscino, respirando ad ansiti rauchi. Il volto quasi scarlatto in mezzo ai lividi. «A…acqua…». Logan prese la tazza dal comodino e la portò alle labbra di Simpson. «Fa’ piano. Ecco, così. Non soffocarti». Il respiro dell’uomo si calmò, il volto gli tornò al pallore malsano di prima. «Meglio?» «Sono in arresto?». Le parole gli scivolarono tra le labbra un po’ sibilanti. «No. Tu sei la vittima, qui, Jack. Vogliamo solo assicurarci che coloro che ti hanno fatto questo non se la cavino senza una condanna». Lui restò a fissare il soffitto per un po’, accigliato. Un carrello passò cigolando nel corridoio fuori dalla stanza. Delle voci svanirono in lontananza.
Poi Simpson annuì. Non molto, appena un lieve movimento della testa bloccata dal collare. «È stato un bastardo del sud a fornire la roba». «Un momento». Logan tolse l’elastico alla telecamera che indossava e iniziò a registrare. «Sergente Logan McRae, otto e trenta del mattino, ventiquattro maggio, Chalmers Hospital. Interrogatorio a Jack Simpson». Poi tirò fuori il taccuino. «Okay, torniamo all’inizio. Chi è stato a fornire l’eroina che si trovava nella casa della madre di Colin Spinney?» A quelle parole, Simpson gli lanciò un’occhiata perplessa. «La casa di sua madre? Ma sei scemo? Quella è morta da… anni, penso». «Anni? So che si trova in Australia, ma…». «L’uomo che ha fornito la droga era uno della zona di Newcastle o di Liverpool. Insomma, aveva quel genere di accento». Logan prese qualche appunto. «Come si chiama?». Probabilmente era una perdita di tempo: Klingon e Gerbillo dovevano averlo rivelato a chiunque stesse gestendo l’indagine nei primi cinque minuti di interrogatorio. Ormai il fornitore doveva essere stato arrestato, o in fuga. In ogni caso, di certo non si trovava a Banff. E tuttavia… «Nah». Simpson sembrava voler aggrottare la fronte, ma il suo volto massacrato non collaborava. «Si faceva chiamare con uno stupido soprannome, come… Candelaio? O Uomo delle Candele? Una cosa del genere. L’ho visto solo una volta: era basso e largo. Come un giocatore di rugby in miniatura, o un pugile. Un duro». «Età? Colore di capelli? Segni particolari?» «Quel sadico bastardo se ne stava lì a incitare Gerbillo e Klingon mentre loro si davano il cambio con la mazza da baseball…». Le lacrime gli riempirono gli occhi, per poi rigargli le guance livide. «Diceva loro che dovevano… dovevano continuare a…». Tirò su la testa di qualche centimetro, lottando contro il collare rigido, spingendosi contro i cuscini. Sbattendo le palpebre per trattenere le lacrime. «Me ne stavo lì sul pavimento del garage, urlando e cercando di coprirmi la testa, e quelli continuavano a colpirmi, e tutto era… Dio, faceva così male». Le lacrime scorrevano libere, adesso, e un filo di muco traslucido gli scendeva da una narice, mentre lui tremava. «E quelli ridevano! Ridevano, mentre mi massacravano di botte». Un brivido lo scosse, facendo sussultare i gessi che gli bloccavano gli arti. Prese qualche respiro profondo, sibilante. Logan posò la penna. «Vuoi fare una pausa?» «Voglio una cazzo di dose. La morfina, qui, fa schifo…». Ci volle qualche minuto, ma alla fine i tremiti si placarono e il respiro di Simpson tornò normale. Logan prese due fazzoletti dal comodino accanto al letto. Si alzò e asciugò il volto dell’uomo dal grosso delle lacrime e del muco. «Cosa hai fatto, Jack? Come mai il…». Tornò a sedersi e controllò gli appunti. «Come mai questo Candelaio voleva che Kevin McEwan e Colin Spinney ti uccidessero?» «Uccidermi? No, quello è stato solo il primo giorno». Quella che doveva essere un’amara risata gorgogliò fuori dalla bocca rovinata di Jack Simpson. «Quei bastardi mi hanno tirato fuori dalla soffitta il giorno dopo e l’hanno fatto di nuovo. E anche il giorno dopo ancora. Li ho implorati di uccidermi». «Ma non l’hanno fatto». «Il Candelaio ha detto loro che era così che si sarebbero costruiti una reputazione. Dopo una settimana passata a… rompermi ogni osso possibile, mi avrebbero dovuto abbandonare sulla strada. E quando la voce si fosse sparsa, nessuno avrebbe più osato mettersi contro di loro». Mostrò i denti spaccati. «Non era niente di personale, capisci? Era una questione di affari». «Perché hanno scelto proprio te?» Un lieve sorriso sollevò un angolo delle labbra di Simpson. «A quanto pare, a loro non piace quando ti prendi qualche campione gratuito…».
Capitolo 25
Logan era sul marciapiede all’esterno dell’ospedale, intento a ricontrollare gli appunti sul taccuino a partire dal lunedì precedente. Trovò il numero di Kirstin Rattray e lo compose sul cellulare. Ascoltò gli squilli susseguirsi, finché… «Pmmmmph». Un denso sbadiglio si fece sentire dall’altra parte della linea. «Chi è?» «Kirstin? Sono il sergente McRae». Un piccolo gemito. Poi la voce di un uomo in sottofondo. «Chi diavolo è?» «Mia… mia madre. Mi sta dicendo qualcosa di Amy. Non lo so… cose della scuola». Poi Kirstin tornò al telefono. «Mamma, aspetta un momento, vado a mettere su il tè e poi potremo parlare». «E chiudi quella cazzo di porta». Clunk. Poi la donna tornò al telefono, la voce ridotta a un bisbiglio nervoso. «Ma è pazzo? Non può chiamarmi a casa!». «Metti su il bollitore. Non vorrei che chiunque sia con te cominci a chiedersi perché non fischia». «Se Klingon e Gerbillo scoprono che ho parlato con la polizia, mi ammazzeranno!». «Dopo quello che abbiamo trovato in casa loro? Non credo proprio. Quei due se ne staranno dietro le sbarre per almeno sedici anni». «E l’uomo che li ha riforniti? Pensa che sarà contento di sapere che tutta la sua roba è finita in mano alla polizia?» «Be’, dovremo fare qualcosa anche per quanto riguarda lui, no? Il mio capo vuole che tu sia registrata come nostra informatrice ufficiale, quindi…». «L’ha detto al suo capo? Dio santo…». Si sentì qualche tintinnio e tonfo in sottofondo. Poi il borbottio di un bollitore. «Mi vuole morta, per caso? Vuole che la mia piccola Amy diventi orfana?» «È per questo che è meglio fare tutto secondo le regole». «Non capisco perché non ci può lasciare in pace. Non le ho mai fatto niente di male». «È la polizia di Aberdeen a gestire ogni cosa, quindi non dovrai mai più parlare con me». «Ha idea di cosa fanno alle spie? Preferisco che le mie dita restino dove sono, grazie tante!». «Questo non è fare la spia, è contribuire alla sicurezza della propria comunità. Vuoi che la tua piccola Amy cresca in un posto sicuro, giusto?». Passò il cellulare da un orecchio all’altro, mentre una vecchia e malandata Land Rover gli passava davanti, seguita da una nuvola di fumo grigiastro emessa dal tubo di scappamento. «Hai mai sentito nominare un certo Candelaio? O forse Uomo delle Candele?» «È pazzo o cosa?» «Dovrebbe essere di Newcastle o di Liverpool. Un tizio basso ma tozzo e dall’aria pericolosa». «No». Una vecchietta scese dal marciapiede, con la schiena curva, tirandosi dietro un decrepito piccolo terrier che avanzava rigido sulle zampette tese, il pelo che doveva essere stato bianco ora macchiato come i denti di un fumatore. Il conducente della Land Rover suonò un asmatico colpo di clacson. La vecchietta tornò in fretta sul marciapiede e lo fulminò con lo sguardo mentre passava. Poi tornò ad attraversare la strada e rivolse il dito medio alla nuvola di fumo in allontanamento. Il povero terrier riuscì a tirare fuori un piccolo latrato infastidito. Ah, c’era da amarle, certe vecchiette.
«…mi sta ascoltando, almeno?». Ah, già. Tornò al telefono. «Sicura di non conoscerlo?» «Posso tornare a letto, ora?». Oh, be’, almeno ci aveva provato. «Salutami chiunque sia lì con te, quando ci torni». La vecchietta avanzò verso di lì, borbottando e imprecando tra sé e sé. Il cagnolino che le veniva dietro come un giocattolo a molla rotto. Hmm… «…puoi andare a fotterti con un…». «Senti, già che ci sono: la madre di Klingon». «Che vuole sapere di lei?» «Avevi detto che era andata in Australia. Ma quando?» «Non ne ho idea. Forse un paio di mesi fa? Che importanza ha?» «Com’era? Sciatta? Ubriaca? Una drogata anche lei?» «Vuole scherzare? Quella donna sembrava nata inamidata, con il detersivo in una mano e l’aspirapolvere nell’altra. Ti costringeva a toglierti le scarpe prima di entrare in casa». Le sarebbe preso un infarto, quando fosse tornata a casa e l’avesse trovata nello stato in cui l’aveva vista Logan, allora. «Immagino che tu non abbia il suo numero di telefono, vero?» «Sì, perché di cognome faccio “Pagine Gialle”. Dio santo…». E a quel punto, Kirstin attaccò. Tornandosene a letto con chiunque stesse finanziando la sua dipendenza in quel momento. Un paio di mesi in Australia. Era abbastanza per permettere a Kevin e Gerbillo di trasformare la casa nel porcile che avevano perquisito? Forse. O forse no. La vecchietta si stava avvicinando, il capo chino e le labbra che proferivano una sfilza di oscenità senza fine. Logan chiamò il numero di Maggie sulla ricetrasmittente. «Ehi, Maggie: il tuo Bill lavora ancora per il municipio?» «Dipende dalla tua definizione di “lavoro”». «Fammi un favore. Vedi se ha qualche conoscenza nell’ufficio del catasto. Ho bisogno di sapere chi è che paga l’affitto della casa di Klingon e Gerbillo». «Di sabato?» «Ci sarà un motivo se ti chiamano “donna dei miracoli”, no?». La vecchietta si fermò, emanando un sentore di Voltaren e menta piperita. Puntò un indice contorto in direzione della nuvola di fumo di scarico ormai lontana, mostrando la dentiera come se volesse mordere Logan. «L’ha visto?». Da vicino, gli arrivava a malapena al petto. «Okay, vedrò cosa posso fare, ma non prometto nulla». «Grazie, Maggie. E metti su il tè, torno alla base tra cinque minuti». Mise via la ricetrasmittente. «Mi dica, come posso aiutarla?» «Gente come quella dovrebbe essere fucilata! Ha suonato il clacson come se fosse colpa mia! Quell’idiota. Ho ottantadue anni!». «Be’, almeno sta bene, è quello l’importante…». «Non hanno un minimo di buone maniere. Per niente. È come vivere nel Signore delle mosche». La vecchietta tirò su con il naso e ruminò per qualche istante. «Ho una gran voglia di prendermi la licenza per un fucile e dare loro una bella lezione». «Be’, forse non è una buona idea, signora». «È tutta colpa dei genitori. Questo è ciò che succede quando dicono alla gente di non picchiare i figli. Io ho ottantadue anni e mio padre prendeva a cinghiate me e i miei fratelli se lasciavamo il
coperchio del gabinetto alzato! Pensi cosa avrebbe potuto fare se non avessi portato rispetto agli anziani». Alle sue spalle, il terrier si sedette sul marciapiede, ansimando a fauci spalancate, con la lingua penzolante tra i denti rovinati e gialli. La donna strattonò il guinzaglio, facendo rialzare il cagnolino. «E ha visto cosa hanno fatto al cartello vicino al ponte? Un enorme uccello viola, proprio sopra alla faccia di quel brav’uomo del Partito Nazionale Scozzese. Che disgrazia». Fantastico… Geoffrey Lovejoy, il giovane attivista politico del quartiere, aveva colpito ancora. Logan annuì. Arretrò di un passo. «Sì. Ha ragione. Proprio una disgrazia». «Secondo me sono i Conservatori a fare cose del genere. Sarebbe tipico di certa gentaglia. Questa non è una campagna elettorale, è una guerra». A ogni parola, la vecchietta si avvicinava, costringendolo ad arretrare contro il muro. Logan si calcò il berretto in testa, scivolando di lato tra la donna e la parete di granito dell’ospedale. «Sì, be’…». Indicò alle proprie spalle verso la baia, il ponte e l’enorme uccello viola. «Sarà meglio che vada a vedere cosa possiamo fare per quel cartellone». La sentì ringhiare alle sue spalle, mentre si allontanava: «Ho ottantadue anni, per la miseria!». «Ricevuto, saremo lì entro due minuti…». Logan strinse tra le dita la maniglia sopra lo sportello del lato del passeggero mentre la Nicholson superava in corsa il furgone di un carpentiere. I lampeggianti della Macchina Grande pulsavano nell’aria del mattino, accompagnati dall’ululato delle sirene. Entrarono a tutta velocità nei confini del centro abitato. “benvenuti a portsoy – guidate con prudenza”. Tanti saluti a quell’invito: l’ago del tachimetro superava i cento. «Fate attenzione, i colpevoli sono ancora sulla scena». C’era una fila di villette su un lato della strada, campi di un verde brillante sull’altro. Logan premette di nuovo il pulsante, parlando nella ricetrasmittente agganciata al giubbotto antiproiettile. «Ricevuto». La Nicholson si girò e gli rivolse un sorriso tutto denti. «Li beccheremo con le mani nella marmellata!». «Guarda la strada». Le villette lasciarono il posto al granito scozzese vecchio stile, e poi agli alberi, che sfilarono in tutta fretta oltre i finestrini dell’autopattuglia. E poi raggiunsero il centro di Portsoy, con le sue antiche case di marmo grigio. La Nicholson affrontò una brusca svolta a destra su Seafield Street, con il motore che urlava mentre lei scalava le marce e frenava, per poi premere di nuovo l’acceleratore a tavoletta. Oltrepassando a tutta velocità negozi e vecchiette. Poi superò un minibus con la scritta “w i soy!!!!” su una fiancata e file di bambini in divisa da calcio a righe bianche e nere che fissarono con gli occhi sgranati l’autopattuglia. Logan puntò un dito. «Lì». La Nicholson schiacciò i freni, facendoli fermare sbandando subito dopo la fermata dell’autobus. Frammenti di vetro, lattine, confezioni e barattoli erano sparsi sulla strada davanti al supermercato. L’insegna sopra le vetrine pendeva dalla parte più vicina a loro, il supporto sotto la parola “Supermercato” mancante e il vetro che la sosteneva ridotto a una ragnatela di crepe intorno ai bordi. C’era un grosso buco nel muretto alto al ginocchio sotto l’insegna. E non c’era traccia di chiunque l’avesse causato. Logan saltò giù dall’auto, afferrando il berretto dell’uniforme. «Tu!», esclamò, rivolto a una giovane donna con un passeggino. «Da che parte sono andati? Che macchina hanno?». Ci fu una pausa, poi la donna sollevò un braccio. «Una di quelle grosse quattro per quattro. Ehm… blu… credo». Lui rientrò in macchina, dando un colpo al cruscotto. «Vai!».
La Nicholson schiacciò di nuovo l’acceleratore e la Macchina Grande scattò in avanti. «Pattuglia Sette a Controllo, i colpevoli hanno lasciato la scena. Un testimone ha detto che hanno preso la strada per Cullen. Li stiamo inseguendo». «Avete un contatto visivo?». L’auto superò a tutta velocità una fila di giardini e qualcuno che passeggiava con il cane. «Negativo». Tre macchine, un autobus, un carro attrezzi e un’autocisterna che venivano dal lato opposto della strada si scansarono per farli passare. Cosa che non fece l’idiota con il camper dalla loro parte di carreggiata. La Nicholson sbatté i pugni sul volante. «Togliti di mezzo, vecchia mummia!». Non appena oltrepassarono l’autocisterna, spostò bruscamente la Macchina Grande sulla carreggiata opposta e accelerò superando il camper. «Non possono essere molto lontani…». Logan premette il pulsante della ricetrasmittente. «Dove sono tutti gli altri?» «Le unità stanno arrivando. La più vicina è a quindici minuti». «Dite loro di convergere sulla a98 prima possibile. Stiamo cercando una quattro per quattro blu. Non si conoscono la targa o il modello, ma deve avere il lato posteriore ammaccato». Alla loro sinistra sfilò via una stazione di servizio, poi il negozio di un idraulico e l’estremità di un condominio. L’ago del tachimetro toccò i 140, mentre superavano i confini del centro abitato e si ritrovavano in aperta campagna. «Ricevuto». Dieci secondi dopo, l’appello risuonò dalla radio dell’autopattuglia. «A tutte le unità, stiamo cercando una quattro per quattro blu che si dirige verso ovest sulla a98…». Con un po’ di fortuna, questa volta, sarebbero riusciti ad arrestarli.
Capitolo 26
«Si sa qualcosa?». La Nicholson rialzò gli occhi dalla ricetrasmittente e scosse la testa. «Non c’è traccia di loro da nessuna parte». Logan legò un’estremità del nastro della polizia alla grondaia tra le due parti del supermercato. Da un lato si sviluppava al pianterreno di un edificio di granito di tre piani, ma l’entrata principale, quella che era stata rapinata, era un’estensione di un solo piano, dipinta di bianco e con una facciata verde e una cassetta delle lettere rossa posizionata accanto all’ingresso. L’altra estremità del cordone bianco e blu era avvolta intorno a quest’ultima, come il nastro di un regalo molto brutto, e si allungava verso un cono arancione al centro della strada, per poi raggiungerne un altro davanti alla grondaia. Un grosso rettangolo che proteggeva la scena. La Macchina Grande bloccava l’altro lato della strada, con le sirene che lampeggiavano al sole. Logan sentì la ricetrasmittente animarsi con un pigolio, e poi: «Sergente, sono Deano. Può parlare?» «Dimmi». «Io e Ciuffo siamo stati a Pennan per quelle effrazioni. Non ci sono testimoni, ma gli oggetti rubati sono piuttosto strani. Ci sono i soliti iPad, dvd e cellulari, una certa quantità di denaro e gioielli, ma da un appartamento manca una Bibbia del 1875, una baionetta della prima guerra mondiale e un vaso giorgiano. Dall’appartamento accanto mancano dei dipinti degli anni ’20. E da un altro ancora un set di decanter di cristallo proveniente dal Cutty Sark». Logan aprì il bagagliaio della Macchina Grande. «Come sono entrati?» «Hanno rimosso un vetro dalla porta sul retro. Il fatto è, sergente, come facevano a sapere di un set di decanter, prendendo quello e ignorando un impianto stereo?» «Forse rubano su commissione? Questo, oppure hanno un interesse particolare. Vai a controllare sul database, forse possiamo ottenere un risultato rapido». Logan recuperò la paletta e la scopa dal bagagliaio. «Tienimi aggiornato, okay?» «Senz’altro». Logan passò scopa e paletta alla Nicholson. «E, prima che cominci a lamentarti, non è perché sei una donna, ma perché hai il grado di agente». Lei fece una smorfia. «Sì, sergente». «Ripulisci questo lato della strada. A quel punto potrai spostare la macchina e far scorrere di nuovo il traffico. Non ripulire niente all’interno del cordone». Poi si allontanò verso il supermercato, zigzagando tra i detriti sparsi sull’asfalto. All’interno, sembrava come se ci fosse stata un’esplosione. L’epicentro era il buco al posto delle due vetrine, e da lì si dipartiva una rosa distruttiva di confezioni di caramelle, lattine e biglietti della lotteria istantanea. Uno scaffale metallico per i giornali era spezzato in due, e aveva sparso in giro la sua collezione di rotocalchi, riviste e copie di «Farmers Weekly». Poi c’era un mucchio di mattoni di cemento dalla soglia distrutta. La responsabile del supermercato era dietro al bancone, con una tazza di tè e una confezione di compresse per i bruciori di stomaco davanti a lei, il cellulare premuto contro l’orecchio. Indossava una gonna verde e una felpa nera. “stacey”, secondo quanto diceva la sua targhetta. Spalle cadenti, capelli che tendevano al grigio e con un vago profumo di menta. Masticò un’altra
compressa antiacido. «Non lo so, Mike. Dovrà dircelo la polizia. Ma il supermercato…». Si guardò brevemente intorno. Le spalle si afflosciarono ancora di più. «Ti aggiorno appena so qualcosa». Logan si fermò davanti al bancone, in mezzo al caos di giornali e biglietti della lotteria istantanea. Sarebbe potuto capitare a chiunque. Ma oggi era capitato a Stacey. Lei alzò lo sguardo, sbattendo le palpebre. «Ora devo andare». Chiuse la telefonata e mise giù il cellulare. «Mi scusi. Era l’ufficio centrale. Volevano sapere se stavamo tutti bene». Logan accennò al buco dove in precedenza si trovavano le due vetrine. Le altre erano bloccate da scaffali e ripiani. «Dove si trovava la cassa?». La donna indicò uno spazio rettangolare vuoto sul pavimento, con quattro buchi su di esso e un tratto di cavi strappati. «È stato come… non lo so. La vetrina è esplosa e c’erano pezzi di vetro e oggetti ovunque ed è successo tutto in un attimo». Strinse le mani intorno alla tazza. «Pensavo che in casi come questo tutto scorresse al rallentatore, ma invece… whoosh». Alzò le spalle. «Avete delle telecamere a circuito chiuso?». Stacey annuì. «Sì. Le abbiamo». Lo guidò dal punto d’impatto a degli scaffali intatti. Oltre le file di patatine e cibo per gatti, fino a una doppia porta. Entrò in un magazzino pieno di bancali di cereali per la prima colazione e sacchi di patate. Da un lato c’era un piccolo ufficio. Stacey aprì la porta e fece entrare Logan. «Ci sono tre telecamere sul davanti del negozio, due interne e una esterna». Un tavolo correva lungo due pareti, con un computer, due telefoni e un paio di sedie da ufficio. Un monitor era montato nell’angolo, sopra a una postazione con dell’apparecchiatura di registrazione digitale. Otto diverse angolazioni del supermercato riempivano lo schermo, ognuna con un piccolo timer che segnava il tempo in un angolo. Solo una partizione dello schermo era oscurata. Stacey prese un telecomando da sopra l’apparecchiatura di registrazione e si lasciò scivolare su una delle sedie. Premette i pulsanti, facendo tornare indietro le registrazioni. Dieci minuti. Venti. Trenta. Quaranta… e il riquadro oscurato si schiarì, sostituito da una visuale del negozio da un punto sopra allo scaffale dove i clienti dovevano grattare i loro biglietti della lotteria istantanea. «Ecco qui». Gli schermi si bloccarono. La telecamera quattro mostrava un vecchietto con un cestino della spesa e una bottiglia da due litri di birra. Nella numero sei c’erano una bambina con un orsacchiotto e una signora che sceglieva un filone di pane. La numero uno mostrava l’esterno fuori dall’entrata principale. E nella due si vedeva Stacey, dietro al bancone, intenta a lavorare a dei documenti. La registrazione andò avanti. Il vecchietto posò il cestino. La bambina si mosse lungo lo scaffale. Una grossa quattro per quattro blu arrivò in retromarcia sulla telecamera uno, girò di scatto e fece finire il lato posteriore contro la vetrina accanto all’entrata. La telecamera due si riempì di schegge di vetro e polvere, lattine e pacchetti sparsi ovunque. Tutto in un silenzio perfetto. I detriti bloccarono la visuale delle telecamere due e tre, ma nelle altre si videro gli scaffali che ondeggiavano. La donna si strinse al petto il filone di pane come se fosse un paracadute. La telecamera numero tre perse il segnale. Ci volle qualche secondo perché la telecamera due si riprendesse, e a quel punto il retro dell’enorme quattro per quattro sporgeva all’interno del negozio. Non era una Range Rover e neanche un suv, ma un bestione gigantesco, con tanto di piano di carico e cappotta. Un Toyota Hilux, o forse un Mitsubishi Warrior. Difficile dirlo da quell’angolazione. Forse era un Isuzu?
Qualcosa del genere. Quel tipo di mezzo in cui si potevano accatastare balle di fieno, o caricare un paio di pecore. Sulla sommità della cappotta si intravedevano pezzi di intonaco e barattoli. Telecamera uno: gli sportelli posteriori della quattro per quattro si aprirono e due figure ne uscirono di corsa, oltrepassando il buco irregolare aperto nelle vetrine. Passamontagna nero, guanti, tute. Uno dei due aveva una pesante catena tra le mani. La arrotolò intorno alla cassa, mentre il compagno ne agganciava l’estremità alla barra di traino dell’auto. Quello della barra saltò di nuovo a bordo e bussò con la mano sul lato del veicolo. L’altro corse dietro alla cassa mentre chiunque era al volante schiacciava l’acceleratore, strappando via l’intero blocco dal pavimento. Poi i due aprirono la parte posteriore della cappotta e lo sportello del bagagliaio e vi caricarono sopra la cassa. Chiusero tutto e uscirono di corsa dal buco nella vetrina. La telecamera uno li inquadrava mentre montavano a bordo della quattro per quattro e fuggivano. All’interno del negozio, un pezzo di soffitto crollò di colpo. Un secondo di pausa. Due. Tre. Quattro. Poi Stacey tirò su la testa da dietro il bancone. Il tutto era avvenuto in poco più di un minuto. Fantastico. Tanti saluti al «Fate attenzione, i colpevoli sono ancora sulla scena». Logan posò una tazza di tè sulla scrivania della Nicholson. «Grazie, sergente». Lei si schiarì la gola, piegandosi in avanti sulla sedia per sbirciare fuori dalla porta dell’ufficio degli agenti. Poi abbassò la voce a un sussurro: «Maggie mi ha detto che il detective Dawson è ancora in ospedale». «Già». Logan prese un sorso di tè dalla sua tazza. Caldo e con latte. «Non dovevamo mai più parlarne, ricordi?» «Sì, ma, sergente, forse… sa, se avessero idea di cosa ha ingerito, potrebbero aiutarlo meglio. Non so, potremmo farlo sapere in modo anonimo, o qualcosa del genere? Non dovrebbero per forza sapere che siamo stati noi…». «Ma lo capirebbero. E tu non riuscirai mai a passare al cid, se non sai neanche mantenere un segreto». Lei fece una smorfia. «Sì, sergente». Logan tornò all’ufficio dei sergenti. L’ispettore McGregor era seduta nell’altra sedia presente nella stanza, intenta a controllare il contenuto di un grosso scatolone. «Abbiamo delle batterie stilo tripla a? Riesco a trovare solo quelle doppia a…». «Mi spiace, capo. Gli alcolometri vanno tutti con le doppia a». Logan si sedette dietro la sua scrivania. «Posso mandare Ciuffo a prenderne qualche confezione, mentre torna qui?». Lei spinse via la scatola. «Un uccellino mi ha detto che per quasi tutta la giornata di ieri c’è stata una pletora di giornalisti assiepata qui fuori». Ah. Logan prese un sorso di tè. Allineò il taccuino, i post-it e la tastiera del computer. Poi tentò una noncurante alzata di spalle. «Non me ne sono accorto. Ero impegnato a ridipingere casa». «A quanto sembra, erano molto interessati a parlare con te. Ora che Stephen Bisset è morto, la storia è diventata molto più appetibile per la stampa. C’è qualcosa che vuoi dirmi in merito?». Lui chinò il capo. «Non è stata colpa mia». «A me non piace che i giornalisti si accalchino fuori dalle mie stazioni di polizia, Logan. La gente si innervosisce, quando succede. E inizia a pensare che abbiamo commesso qualche errore». «Non è stata colpa mia! Io ho fatto quello che…». Logan sospirò. «Ci siamo già passati». «Certo, le cose sarebbero andate sicuramente meglio, se fossi riuscito a catturare i rapinatori delle casse dei supermercati, stamattina, invece di farteli scappare».
«Non me li sono fatti scappare, erano già spariti da un pezzo quando siamo arrivati sul posto. Ho visto le registrazioni delle telecamere di sicurezza: è successo tutto in ottantadue secondi netti». Si piegò in avanti, premendo l’indice contro il pianale della scrivania. «L’unico modo in cui saremmo potuti arrivare a Portsoy prima che quei bastardi si dileguassero era essere forniti di un tardis». «Si pensava che fossero ancora sulla scena?» «Ho controllato: l’uomo che diceva che i rapinatori erano ancora sul posto era ubriaco. Niente male, per le nove e mezzo di un sabato mattina». L’ispettore prese una busta di carta marrone, battendo contro la scrivania con un’estremità. «Hai sentito? Quelli del traffico hanno fermato un Isuzu D-max blu a un miglio a nord di Keith». Un sorriso sbocciò sul volto di Logan. «Fantastico. E hanno…». «Non erano loro. Ma comunque, non è più un nostro problema. Sarà l’ispettore McCulloch a occuparsene, con il suo Team Investigativo Primario». Il sorriso gli svanì dal volto. «E questo non le dà fastidio? Ogni volta che incappiamo in qualcosa di grosso, ce lo portano via da sotto al naso». Lei posò la busta sulla scrivania. «I risultati delle valutazioni, freschi freschi dal Quartier Generale. Il Grande Capo dice che Maggie potrà avere un aumento del due e mezzo per cento. Non un penny di più». «Meglio di niente». Logan aprì la busta e tirò fuori le stampe. «Oh, ho parlato con Jack Simpson, stamattina». «E come sta il nostro amico spacciatore?» «È fortunato a essere ancora vivo, e sembra piuttosto vendicativo. Gli ho strappato una dichiarazione firmata in cui accusa Klingon e Gerbillo di averlo aggredito. Non stavano cercando di ucciderlo, ma di instillare il terrore in tutti gli altri. Inoltre, chiunque abbia fornito loro la droga era lì con loro. Quindi, non appena il Team Investigativo Primario avrà finito con le accuse per traffico di stupefacenti, potremo chiedere al Procuratore di procedere». «Ottimo». L’ispettore si rialzò, raddrizzandosi la T-shirt nera. «Non è riuscito a identificare il fornitore?» «Il massimo che è riuscito a dirmi è questo: un tipo basso e tosto da Newcastle o da Liverpool che si fa chiamare il Candelaio o l’Uomo delle Candele. Non conosce il suo vero nome. Proverò a fare un controllo in giro e vedrò se qualcuno riconosce il soprannome». «D’accordo, tienimi informata». La McGregor si fermò sulla soglia. «E comunque, sì, mi dà fastidio quando un Team Investigativo Primario interviene e si porta via tutto. Ma è così che vanno le cose, adesso. Dobbiamo soltanto provare a tenerci qualche caso di tanto in tanto, senza che se ne accorgano».
Capitolo 27
Logan incrociò le braccia sul petto e si appoggiò al muro del vicolo. «Davvero?». Sammy Wilson sbatté le palpebre un paio di volte con l’unico occhio buono – l’altro era gonfio e scuro, la pelle di tutte le tonalità del viola, del blu e del verde. Abbassò lo sguardo sulla busta di carta che aveva nella mano sporca e scheletrica. Si leccò le labbra sottili con la lingua pallida. Poi tirò su con il naso. «Sì… io non ero… questa…». Si guardò alle spalle, dove la Nicholson gli chiudeva la via di fuga. Un colpo di tosse. Un’altra secca annusata all’aria. Poi l’occhio funzionante di Sammy scivolò a terra, verso le sue malandate scarpe da ginnastica. «L’ho trovata». «Ah, davvero?». Lui si passò l’altra mano lungo le macchie d’erba sulla parte superiore della tuta. «La busta era lì abbandonata». «Sì, certo». La Nicholson si avvicinò. Aprì la bocca per parlare, ma poi arricciò il naso, arretrò e ci riprovò da una maggiore distanza. «E allora perché sei scappato, Sammy?» «Dovevo prendere l’autobus. Sì, un autobus, e non potevo arrivare tardi, altrimenti sarebbe partito, no? Insomma, come… il Ninky Nonk…». Aprì la busta di carta. «Ehi, guardate, ci sono dei panini al burro, dentro, sì, insomma, niente di che, giusto? Dei panini. Li ho trovati». Lei lo indicò. «Come ti sei procurato quell’occhio nero, Sammy?» «L’ho… trovato». Sammy ondeggiò da un piede all’altro. «Non avete bisogno di me, vero? Non sono, tipo, sul vostro radar o altro, e stavo solo passando vicino al panettiere… per prendere qualcosa per Jack Simpson. Sì, un regalo, perché ho saputo che è finito in ospedale tutto pesto, e cose del genere». Il sorriso di Sammy era un cimitero di lapidi gialle e marroni. «Per colpa di Klingon e Gerbillo. Che brutta cosa, eh? Molto brutta. Non avete bisogno di me, vero?» «Non avevi detto di averla trovata, quella busta?». Logan prese un respiro profondo. E se ne pentì subito. L’aria puzzava di carne marcia e cipolle. «La gente normale porta dei fiori e della frutta a chi è ricoverato in ospedale, Sammy. Non dei panini». «Sì. Giusto. Me n’ero dimenticato. Fiori, non panini». Un altro sorriso punteggiato di denti marci. «Mi confondo sempre. Dovreste vedere la tomba di mia madre, tipo». «Sammy, hai mai sentito parlare di un narcotrafficante che viene dal sud, e che si fa chiamare il Candelaio? O magari l’Uomo delle Candele, o qualcosa del genere. Basso e tozzo, da Newcastle o Liverpool». «Sì, no, non conosco narcotrafficanti. Non so niente di droga, io. Una volta mi facevo, ma ora sono pulito come… sapete, no, ultimamente? Pulito, pulito, pulito». Logan restò zitto e lo fissò. Una mano salì a grattare un tatuaggio su quel petto da piccione. Le scarpe sporche strusciarono sul marciapiede. «No. Nessun narcotrafficante. Mai». Sammy si schiarì la gola. Abbassò lo sguardo sulle braccia piene di croste. «Non potreste prestarmi dieci sterline? Per una tazza di tè, tipo? Per accompagnarla ai panini…».
Silenzio. «Se te ne do venti, devi dirmi il nome del tipo che ha fornito la roba a Klingon e Gerbillo. Il nome vero. E dove posso trovarlo». Sammy deglutì. Si grattò il tatuaggio sul petto. Si morse il labbro inferiore. Poi tese la mano tremante, a palmo aperto e con le dita allargate. Logan tirò fuori il portafoglio. Tirò fuori gli ultimi due biglietti da cinque, lasciandosi dietro nient’altro che polvere e lanugine fino alla fine del mese. Sollevò le due banconote. «Ti avverto, Sammy: voglio quel nome, o ti verrò a cercare. Siamo intesi?». L’unico occhio iniettato di sangue scintillò come quello di un ratto. La mano si allungò verso i soldi. «Sì, sì, il suo nome e dove potete trovarlo». «Metà adesso, metà più tardi». «Te lo prometto sulla tomba di mia madre…». Le dita di Sammy fremettero. Logan lasciò cadere le banconote e lui le afferrò a mezz’aria come un gatto con due uccellini. «E ora togliti di mezzo e trovami quel nome». «Sì, certo, certo. Vado a trovare Jack Simpson. E poi trovo quel nome. Il nome, il nome, il nome». Si ficcò il denaro in una tasca della tuta e si allontanò con le gambe rigide, come un robot a molla il cui meccanismo di funzionamento si chiamava eroina. La Nicholson si affiancò a Logan vicino al muro. Aggrottò la fronte, guardando Sammy che spariva dietro l’angolo, su Kingswell Lane. «È sicuro che sia una buona idea?» «No». Logan mise via il portafoglio vuoto. «Ora sono al verde». «Be’, temo proprio che quelle dieci sterline non le rivedrà mai più». Poi si sventolò una mano davanti alla faccia. «Pensa che abbia mai visto una saponetta in vita sua?» «Non si sa mai, magari scoprirà qualcosa». Logan tornò verso la Macchina Grande, parcheggiata per metà sul marciapiede, dove l’avevano lasciata per inseguire Sammy. La Nicholson scosse la testa. «Perché se ne preoccupa, comunque? Klingon e Gerbillo hanno la spina dorsale di un lombrico. Avranno fatto il nome del loro fornitore da un pezzo, ormai». Perché l’ispettore aveva ragione: ogni tanto bisognava provare ad agire fuori dai radar. «Pattuglia Sette, potete parlare?». Logan premette il pulsante. «Parla pure, Maggie». «Ho un’altra segnalazione di persona scomparsa per lei. Si tratta di Liam Barden, visto stamattina al Waterstones di Dundee». La Nicholson portò l’autopattuglia verso il mare. Il porto di Macduff scintillava come una distesa di zaffiri, con un paio di piccoli pescherecci attraccati al molo. I gabbiani stridevano, facendosi portare dal vento. Logan abbassò il finestrino, lasciando che l’aria carica di iodio e sentore di alghe irrompesse nell’auto. Poi allungò una mano e punzecchiò la Nicholson su una spalla. «Visto? Te l’avevo detto che non va al supermercato di High Street». Poi tornò a parlare nella ricetrasmittente. «Maggie, puoi chiamare la stazione di Tayside e chiedere loro di controllare le telecamere della libreria? Potrebbe non essere lui, ma sarebbe carino far sapere alla sua famiglia che sta bene». «D’accordo. E ho parlato con Bill, sta chiedendo tra i colleghi con cui va a pescare chi è che paga l’affitto di Klingon e Gerbillo». «Grazie, Maggie». Fuori dal finestrino, le strade di Macduff lasciarono il posto alla a98, che procedeva lungo la baia. Logan risistemò la ricetrasmittente sul suo gancio. «Dunque… Liam Barden è a Dundee». La Nicholson alzò il mento. «Non posso farci niente se sono meticolosa». Lui sorrise. «Illusa, più che altro».
«Non sono io quella che ha dato a Sammy “Puzzola” Wilson le sue ultime dieci sterline». Ah… Vero. Superarono il ponte che portava a Banff. Un cartellone era posizionato sul lato della strada, non lontano dal campo di calcio. L’orribile vecchietta con il terrier decrepito aveva ragione: qualcuno aveva davvero disegnato un enorme pene sul poster del candidato locale del Partito Nazionale Scozzese. Un grosso uccello viola. Geoffrey Lovejoy aveva colpito ancora. Se non altro, sembrava che almeno il loro piccolo rivoluzionario marxista fosse equo nel distribuire disegni di peni in giro, e non risparmiasse nessuno dei candidati in causa. «A tutte le unità, stiamo cercando una femmina bianca, un metro e cinquantacinque circa, magra, capelli biondi, nella zona di Peterhead. Ricercata per collegamento a un’aggressione a un volontario dell’Esercito della Salvezza». «Scusami». Logan abbassò il volume, finché il brusio della ricetrasmittente non diventò appena udibile. Il vapore aveva annebbiato il vetro della finestra della cucina, piena del profumo ricco della carne tritata e delle patate appena schiacciate. Logan affondò di nuovo la forchetta nel piatto. «È davvero buono». Seduta di fronte a lui, Helen sorrise. «Natasha non voleva mai la carne tritata con le patate, se non c’erano anche piselli e carote. Non li voleva da soli, ma se li cucinavo con la carne diventavano il suo piatto preferito». «Be’, molto meglio della zuppa di lenticchie». Lei arricchì il suo piatto con una macinata di pepe. «Andrai a trovare Samantha, più tardi?» «Una volta finito il turno. Non dovrei fare troppo tardi». «Bene. Puoi darmi una mano a finire il soggiorno, allora. Dovrebbe venire grazioso, alla fine. E poi, pensavo… ti andrebbe una bistecca per cena?» «Una bistecca?». Inghiottì un altro boccone di carne macinata e purè. Prese un sorso d’acqua. «Non so quando è stata l’ultima volta che…». La ricetrasmittente suonò quattro volte. Dannazione. «Non possono darmi cinque minuti?». La prese in mano, alzando il volume. «Scusami ancora». Poi premette il pulsante. «Pattuglia Sette». La voce dell’ispettore McGregor si diffuse in cucina. «Logan? Puoi parlare?». «Mi dia un secondo, capo». Scostò la sedia. «Devo prenderla per forza. Ci metto un attimo». Poi uscì dalla cucina e si fermò in salotto. Il divano era al centro della stanza, insieme alla libreria e al televisore, tutti coperti da teli di stoffa per proteggerli dalla vernice. Sopra di lui, il soffitto era di un bianco scintillante. Helen doveva averci passato almeno tre mani di vernice per farlo venire così. Logan chiuse la porta e premette il pulsante. «Mi dica». «Dove sei?» «A pranzo. L’agente Nicholson doveva fare degli acquisti, quindi ci rivedremo alle due meno un quarto e torneremo a Macduff. Daremo un’occhiata a Melrose Crescent e vedremo di scoprire qualcosa del nostro guardone». «Dovrai pensarci più tardi: c’è qualcuno che vuole vederti». Di sicuro qualche altro onorato cittadino di Banff che voleva lamentarsi della raccolta differenziata fatta male, o del cane del vicino, o dei marziani che rubavano le loro lattine di birra e mettevano incinta la gatta di casa. Grazie tante, collaborazione con la comunità. «Non può pensarci Deano?» «Logan, veramente…».
«Oh, e già che ci siamo: può farmi un favore, capo? Può chiedere a chi sta gestendo l’indagine di Klingon e Gerbillo se ha già ottenuto il nome del loro fornitore? Nel frattempo, sto cercando di sentire che dicono in giro sull’argomento». «Non è più il nostro caso. E lo sai benissimo». «Sì, ma se stanno arrivando altri carichi di droga da queste parti, ci sarebbe d’aiuto sapere con cosa abbiamo a che fare prima che arrivi sulle strade. E chi è che gestisce il giro». «Be’, immagino che questa sia un’argomentazione valida. Ora, prima che torni alle mie patate al forno che si stanno raffreddando, la persona che vuole vederti…». «Davvero, capo: Deano può cavarsela meglio di me. Io ne ho fin sopra le orecchie di matti, per oggi». «Hai per caso battuto la testa, Logan?». La voce dell’ispettore si abbassò a un sussurro melodrammatico. «Non puoi permettere che qualcuno ti senta definirlo “matto”. E se dovesse scoprirlo? Dio solo sa cosa potrebbe succedere. Ed è già abbastanza spaventoso così com’è». Logan si schiarì la gola. «Capo?» «Il sovrintendente capo Napier è venuto fin qui da Aberdeen, e solo per vedere te. Tra l’altro, non penso di averlo mai visto così felice in vita mia». Napier era felice? Perché diavolo sembrava una cosa così terribile?
Capitolo 28
Il sovrintendente capo Napier giunse le mani, appoggiò i gomiti sulla scrivania e lo fissò. Si era appropriato della sala investigativa principale, all’ultimo piano, sedendosi all’estremità del lungo tavolo per le conferenze e dando le spalle alle finestre, in modo da far arrivare la luce in faccia a Logan. Il sole gli faceva risplendere intorno alla testa il nembo di capelli biondi e diradati come un’aureola di fuoco. Un sorriso gli si allargò sul volto, facendo fremere la punta del suo lungo naso. Non sembrava molto a suo agio nella T-shirt nera della polizia. Probabilmente non aveva abbastanza bottoni scintillanti per lui. O un posto dove appendere la sua medaglia di buona condotta. Non aveva niente per intimidire il prossimo, se non la corona argentea e la stelletta singola su ogni spallina. Logan restò perfettamente immobile sulla sua sedia. L’ispettore arrivato con Napier stava sistemando una videocamera digitale montata su un treppiede e borbottava tra sé e sé mentre controllava i settaggi. Poi una luce rossa si accese sul dispositivo e la donna annuì. Era una donna magra, di mezza età, con la frangia castana a cercare di coprire le rughe che le attraversavano la fronte. Lei si sistemò su una sedia di fronte a Logan, in diagonale. Posò un registratore digitale sul tavolo tra loro. Infilò una mano in una borsa di pelle e ne tirò fuori un taccuino e uno spesso fascicolo. Li allineò sul tavolo e tolse il cappuccio alla penna. Infine si schiarì la gola. «Sabato ventiquattro maggio, ore due e quarantasette p.m.». Aveva una voce sorprendentemente alta e giovanile. «Sono presenti il sovrintendente capo Napier, l’ispettore Gibb e il sergente Logan McRae». Poi si girò e annuì verso il suo capo. Lui allargò il sorriso. «Sergente McRae, che cosa gentile, da parte sua, trovare un buco nella sua agenda piena di impegni per parlare con noi, oggi». Regola numero uno delle interviste registrate: tieni la bocca chiusa finché non ti viene rivolta una domanda diretta. Napier appoggiò il mento sulla punta delle dita unite. «Forse le piacerebbe togliersi un peso dalle spalle prima di cominciare? Qualcosa che le opprime la coscienza?». Non era una domanda diretta. Logan tenne la bocca chiusa. «D’accordo, magari più tardi». Il sovrintendente capo controllò il fascicolo aperto sul tavolo davanti a lui. «Per esempio: vedo che ha trascorso un enorme ammontare di tempo su un certo Francis “Frankie” Ferris. Centinaia di ore di lavoro trascorse senza alcun risultato. Pensa davvero che questo sia un valido utilizzo delle risorse della polizia?» «Sì». Regola numero due: rispondi solo alla domanda che ti viene posta, niente di più. Mai offrire qualcosa d’altro. Mai partire per la tangente. «Davvero?». La fronte di Napier si increspò. «Può spiegarsi meglio?» «I raid bloccano il flusso di droga in arrivo nella zona e tengono gli spacciatori sempre sulle corde. L’ambiente diventa più pericoloso per loro». Non era proprio la recita a memoria del documento strategico antidroga della Divisione b, ma vi si avvicinava molto. «È una strategia proattiva». Napier non poteva essere venuto fino a lì da Aberdeen solo per chiedergli di Frankie Ferris. Quello era solo l’antipasto dell’orribile banchetto che aveva apparecchiato. Un cocktail di scampi prima dell’arrivo della portata principale.
Non poteva tornare di nuovo alla morte di Stephen Bisset in ospedale, giusto? Si era già lamentato abbastanza di quella storia al telefono mercoledì sera. Perché ripetere tutto di persona? L’ispettore Gibb se ne stava lì con la penna pronta. Fino a quel momento non aveva preso un singolo appunto. Logan strinse gli occhi. Fece per aprire la bocca… e poi la richiuse. Regola numero tre: mai fare una domanda di cui non conosci già la risposta. Napier lasciò che il silenzio si protraesse. Poi piegò la testa di lato. «Lei ha una fidanzata di nome Samantha Mackie, vero?» «Sì». «Al momento risiede presso una casa di cura privata, non lontano dalla costa e da qui, da quello che mi risulta. Sunny Glen, giusto?» «Esatto». «Hmm…». Il sovrintendente capo rialzò la testa, per poi piegarla dal lato opposto. «Da quello che ho inteso, si tratta di una clinica privata piuttosto costosa. Cure continue e totali per una persona in stato vegetativo… deve essere difficile permetterselo, per un sergente con il suo stipendio». Mai aggiungere nulla. «Mi dica, sergente, come fa esattamente a pagare per le cure di Miss Mackie?». La penna dell’ispettore Gibb cominciò a scribacchiare sul taccuino. Okay, quella era una domanda. «Ho venduto il mio appartamento in città. Avrei voluto affittarlo, ma non mi sarebbe bastato per coprire le cure di Samantha». «Quindi ha venduto il suo appartamento per prendersi cura della sua fidanzata in coma. Che gesto nobile, da parte sua». Ti prego, non chiedermi a chi l’ho venduto. Resta lontano da quel vespaio. Logan appoggiò le mani sul tavolo, sentendo i muscoli delle spalle tendersi. «È rimasta ferita come risultato diretto di un’indagine in corso, quindi le spese mediche sarebbero dovute essere coperte dall’assicurazione lavorativa!». Napier si appoggiò allo schienale della sedia. «Le sue indagini hanno la brutta abitudine di causare danni collaterali, vero, sergente McRae? La sofferenza del prossimo la segue come un fetore indesiderato». «Non è stata…». Logan chiuse di scatto la bocca. Stupido. Ecco quello che si meritava per aver infranto la regola numero due. Non sarebbe dovuto partire per la tangente. «E, a proposito di danni collaterali, abbiamo Stephen Bisset. Ucciso nel suo letto d’ospedale, per la gioia della stampa». Napier accennò con un dito in direzione dell’ispettore Gibb, e la donna controllò qualcosa nel grosso fascicolo davanti a lei. Ne trasse un mucchietto di pagine di giornale – le prime pagine di sei o sette quotidiani – e le sistemò davanti a Logan. «Una piccola selezione da “Daily Mail”, “Daily Record”, “Scottish Sun”, “Aberdeen Examiner”, “Evening Express”, “Scotsman” e, ultimo ma non meno importante, “Press and Journal”». I titoli andavano da “padre distrutto ucciso nel suo letto d’ospedale” a “vittima di un pervertito uccisa con il cuscino del suo letto d’ospedale”. L’«Aberdeen Examiner» esordiva con “‘mio padre non era un pervertito!’, dice il figlio della vittima”. Su ogni pagina c’era una foto di Stephen Bisset, sorridente in mezzo alla sua famiglia felice. Non disteso su un lenzuolo lurido, coperto di sangue e sporcizia, in un capanno, nascosto nel mezzo di un bosco coperto di neve.
In un articolo c’era una piccola foto di Logan in uniforme, mentre accettava la menzione d’onore per aver arrestato il Mostro di Mastrick. “poliziotto eroico accusato di aver ‘incastrato’ graham stirling”. Un altro titolo commentava: “secondo la giuria, un poliziotto ha inventato le prove”. Dunque era questo. Napier non era lì per parlare dell’assassino di Stephen Bisset, o delle spese di Samantha, bensì per il fatto che lui non aveva seguito le procedure a gennaio. Perché obbedire alle regole aveva più importanza di salvare la vita a qualcuno. Tenne la bocca chiusa. Napier imbronciò le labbra. «Mi dica, sergente…». Una pausa a effetto. «Dov’era ieri notte tra le undici e le tre?». Cosa? Okay, questo non se l’aspettava. Lo fissò. «Perché?» «È una domanda semplice. Dov’era?» «Ero a casa a dipingere la camera da letto». Napier piegò di nuovo la testa di lato. «Fino alle tre del mattino?» «No, fin circa all’una. Poi sono andato a dormire». Regola numero due. Quel sorriso furbo e affilato sul volto del sovrintendente capo non si era mai affievolito. Se ne stava lì, su quella stupida faccia, come se ce l’avessero incollato. «E c’è qualcuno che può confermare il suo alibi?». Certo, come se potesse dirgli tutto riguardo a Helen Edwards che era ospite in casa sua, vero? La luce rossa sulla telecamera digitale scintillava come una brace, mentre la lente sembrava un occhio vuoto, nero e morto. Logan spinse indietro la sedia di qualche centimetro. Al diavolo le regole. «Devo avere per caso qui con me un rappresentante sindacale?» «Pensa di averne bisogno?» «Voglio che sia chiaro, per la cronaca, che non ho mai ricevuto una richiesta formale di interrogatorio, né sono sotto giuramento, né sono stato minimamente informato di che diavolo stia succedendo». Si scostò di qualche altro centimetro dal tavolo. Napier allargò le braccia, con le mani a palmo in su e le dita distese. Come un cattivo di un film di Bond pronto a spiegare il suo piano diabolico. «È interessante sentirla dichiarare che pensa di aver fatto qualcosa che richiede un interrogatorio formale». Logan si alzò. «Per me abbiamo finito». «Si ricorda di aver discusso di Graham Stirling con Miss Mackie la mattina di mercoledì ventuno maggio?» «Discusso? Cosa dovrebbe essere, questo, uno scherzo?». Logan serrò le mani a pugno, fino a farsi sbiancare le nocche. «Samantha non pronuncia una sola parola da quattro anni». «Ha discusso…». «No». Avanti, colpiscilo. Un ultimo atto glorioso da poliziotto: staccagli la testa a pugni. «Ispettore Gibb?». La donna tornò a controllare il fascicolo e tirò fuori due fogli uniti da una graffetta. «Abbiamo la dichiarazione di un certo Mr Kevin Cooper, infermiere del Sunny Glen. Il ventuno maggio l’ha sentita parlare a Miss Mackie della chiusura del processo contro Graham Stirling. Mr Cooper ha affermato di averla sentita dichiarare: “Andrò a casa di Graham Stirling nel cuore della notte e gli spaccherò la testa con un piede di porco”». Napier raddrizzò la schiena e accavallò le gambe. Non indossava un paio di robusti stivali neri, come tutti gli altri in uniforme. No, aveva ai piedi un paio di sottili scarpe eleganti di cuoio, perfettamente lucide. Non potevano essere più grandi di un quaranta. Probabilmente non aveva
bisogno di qualcosa di più lungo, per coprire i suoi zoccoli caprini. Una mano si mosse in un pigro cerchio nell’aria. «Ricorda di averlo detto, sergente McRae?» «No. Forse. Non lo so. Se l’ho fatto, era solo…». «Il motivo per cui glielo chiedo è che Graham Stirling è scomparso. Sua sorella è andata a casa sua alle nove di stamattina e… vuole sapere cosa ha dichiarato?». Napier sorrise all’ispettore Gibb. La donna prese un foglio dal fascicolo. «Secondo le sue testuali parole: “Sono entrata usando la mia chiave. Ho chiamato Graham, ma non ho ricevuto risposta. Sono entrata in cucina, ed era come se ci fosse esplosa dentro una bomba. C’erano piatti e bicchieri rotti e una sedia con le gambe rotte. E c’era del sangue sul pavimento e sul frigorifero”». Ah… Logan tornò a sedersi. «Non ho niente a che fare con questa storia. Niente». «Ma ora capisce perché volevamo parlare con lei? Eccola qui…». La mano del sovrintendente capo descrisse un breve cerchio in aria, considerando la stanza, e probabilmente l’intera stazione di Banff e l’area circostante. «Ridotto ai minimi termini, degradato da vice ispettore con una brillante carriera davanti nel cid a sergente nel bel mezzo del…». «Non sono stato degradato. Questa è stata l’idea del sovrintendente capo Campbell per…». «Non mi interrompa. Da quello che ho saputo, si è lamentato per il fatto che alcune indagini le siano state tolte per essere affidate a dei Team Investigativi Primari, più adatti a gestirle. Dunque: degradato e frustrato». L’uomo tornò a unire le dita e ad appoggiarvi sopra il mento. Il sorriso da Stregatto era sempre al suo posto. «E ora il caso contro Graham Stirling crolla perché lei sembra ritenere che seguire le procedure sia qualcosa da cui può esimersi all’occorrenza. Perché non fare un po’ di giustizia sommaria, allora? Giudice, giuria e boia». «Io non ho ucciso Graham Stirling!». Logan spinse indietro la sedia e scattò in piedi, sbattendo i pugni sul tavolo. «E se avesse delle prove a mio carico, non ce ne staremmo qui a chiacchierare, ma saremmo in una sala per gli interrogatori, con un avvocato e un rappresentante sindacale. Quindi, sa dove può ficcarsi le sue accuse!». Napier non si mosse di un millimetro. Il sorriso non svanì dal suo volto. Se ne restò seduto a fissarlo. Logan si raddrizzò. «E adesso, se volete scusarmi, ho del vero lavoro da fare». Si girò e puntò alla porta. Stava già abbassando la maniglia, quando la voce di Napier lo raggiunse. «Cosa mi direbbe, se le dicessi che sappiamo chi ha ucciso Stephen Bisset?». Logan spalancò la porta. «Se sta implicando che sono stato io, può…». «Ehi!». L’ispettore capo Steel entrò nella stanza, tirandosi su i pantaloni con una mano e stringendo un cellulare nell’altra. Lanciò un’occhiataccia a Logan e poi a Napier. E infine alla telecamera digitale. «Qualcuno vuole spiegarmi che sta succedendo?». Napier sollevò un dito. «Il sergente McRae ci stava aiutando a capire la scia di distruzione che sembra lasciarsi dietro come una petroliera bucata. Morti. Gente in coma. Cose del genere». «Be’… abbassate la voce. Qualcuno sta cercando di lavorare, qui dentro. E tu», la Steel pungolò Logan sul petto, «dovresti aiutarmi ad arrestare l’assassino di una bambina, quindi adesso saluta i tuoi cari amici, qui, e porta le chiappe nel mio ufficio. Subito». Napier si alzò, continuando a sorridere. «Non ha risposto alla mia domanda, sergente. Qualcuno può confermare il suo alibi per ieri notte?». La Steel si tirò su di nuovo i pantaloni. «Il sergente McRae era con me, ieri notte. Stavamo ridipingendo quel cesso di casa in cui vive. Vernice color magnolia, credo». L’ispettore Gibb scribacchiò un altro appunto. Il suo capo si leccò le labbra, per poi tornare a sedersi. «Capisco. Be’, in questo caso, veda di mettersi a lavorare sul serio, sergente. Per adesso non ho bisogno di altro, da lei».
«Parole sante». La Steel spinse Logan fuori dalla stanza, nel corridoio. «E non fate rumore, qui dentro». Chiuse la porta con un tonfo e si allontanò lungo il corridoio coperto di moquette grigia fino all’ufficio successivo, facendovi entrare Logan. Si chiuse la porta dietro e vi appoggiò contro le spalle. Abbassò la voce a un sussurro. «Cristo a cavallo di un emù, ci è mancato un pelo». L’ufficio della Steel sfoggiava un paio di vecchissimi armadietti, uno schedario, una sedia e una scrivania piena di fascicoli. Un computer portatile il cui screensaver consisteva in file di gattini che facevano capolino da dentro stivali e teiere si trovava dietro i mucchi di scartoffie, e le pareti erano occupate fino all’ultimo centimetro di spazio libero da cartine e lavagne di sughero. Le ultime piene di foto e rettangoli di carta collegati tra loro da tratti di spago rosso. Lei tirò fuori il cellulare e iniziò a toccarne lo schermo mentre tornava dietro la scrivania. «Sai che mi sto perdendo la gara di danza di Jasmine per questa storia, vero?» «E dovrebbe essere colpa mia?» «Se non avessi trovato quella bambina morta, adesso me ne starei seduta in una palestra, circondata da altri genitori, a guardare i loro marmocchi saltellare in giro come elefanti ubriachi…». Sbuffò. «Quindi direi che non è andata poi così male». Si lasciò scivolare sulla sedia. «Accomodati». L’unica altra sedia nella stanza era di quelle blu e con le ruote, ma lo schienale mancava, lasciando sporgere il supporto come una spina dorsale spezzata. Lei la indicò. «Piazza lì le chiappe». Lui si sedette, restando appollaiato sul davanti del sedile. «Grazie per avermi aiutato con Napier. Come faceva a…». «Shhh!». Lei si portò un indice alle labbra. «Quel Nosferatu lì accanto ha orecchie come le antenne di una stazione di ascolto dell’nsa». Poi strinse gli occhi, fissandolo. «Per cosa ti ho appena fornito un alibi? Cos’è che non hai fatto?» «Uccidere Graham Stirling». Lei spalancò la bocca, fino a renderla una caverna tonda e umida. Poi la richiuse di scatto, sgranando gli occhi. «Non l’hai fatto, vero?» «Certo che no!». «Pfff… è già qualcosa». Delle voci soffocate si avvertivano dall’altra parte del muro. E poi quella che sembrò una risata. Logan si girò a fissare la parete. Sarebbe dovuto rientrare in quella dannata stanza e presentare i denti di Napier al suo retto. Poi si sentì il tonfo di una porta che si chiudeva, e le voci del sovrintendente capo e dell’ispettore Gibb si allontanarono verso le scale. Di sicuro per andare a tormentare qualcun altro. Logan si afflosciò sulla sedia. Poi si bloccò e scattò di nuovo dritto, prima di finire sul supporto che sembrava una spina dorsale spezzata. «Gah…». La Steel sogghignò. «Forte, vero? Evita che gli agenti si distraggano quando li rimproveri». «Come ha fatto a saperlo?» «L’ho fatto a Rennie per mesi. A volte cerco di essere super noiosa, per scoprire se riesco a farlo finire gambe all’aria. Basta allentare un paio di viti e il supporto viene via come niente». «No, intendevo dire come faceva a sapere che stavo ridipingendo la casa». «Non ti avevo detto che hai bisogno di qualcuno che ti protegga?». Tirò fuori un foglio bianco dalla scatola sulla scrivania, poi si accigliò e iniziò a rovistare nei cassetti. «Dannazione, non di nuovo. Questo posto è il Triangolo delle Bermuda delle penne…». «Gliel’ho detto: è Hector». I fogli sulla lavagna di sughero mostravano ciascuno il nome di una persona condannata per crimini sessuali, insieme ai dettagli della condanna e al tempo trascorso in carcere. Tutti quelli che
erano andati a trovare lunedì notte erano lì, insieme a qualcun altro. Tutti sistemati sui fili scarlatti di una ragnatela. Con la foto della bambina uccisa al centro. Logan la indicò. «Ha ottenuto niente?» «Ti sembro una che ha ottenuto qualcosa? Questo posto ti sembra il luogo pieno di attività di un’indagine vincente?». Scrisse qualcosa sul foglio. «Tutto quello che riesco a fare è infastidire dei pervertiti a casa loro e salvare dei sergenti idioti che non dovrebbero cacciarsi nei guai». Lui abbassò lo sguardo sul tappeto. «Grazie per aver confermato il mio alibi, lì dentro. Si è presa un grosso rischio». «Pfff… hai delle macchie di vernice sulle orecchie e in quella buccia di kiwi che chiami taglio di capelli. Come ci sarebbero dovute finire?». La Steel sorrise. «E inoltre, sono rimasta per un po’ davanti alla porta di Napier, prima di venire a salvarti». «Ha detto che sanno chi ha ucciso Stephen Bisset». «L’hanno scoperto un’ora fa». Lei spostò una pila di scartoffie e girò il portatile così che lo schermo fosse rivolto a Logan, per poi premere un paio di tasti. «Dai un’occhiata». I gattini sparirono, sostituiti da una finestra che copriva gran parte dello schermo. Il filmato di una telecamera a circuito chiuso. Probabilmente doveva essere quello della telecamera montata sulla parete di un ospedale: si vedevano persone in camice con delle cartelline in mano, e altre in pigiama e vestaglia, spinte su sedie a rotelle. Tutti sembravano tristi e sconfitti. La data e l’orario in sovrimpressione in un angolo facevano sapere che il filmato risaliva a mercoledì sera, sette minuti dopo le otto. «Questa telecamera era all’esterno del reparto dove si trovava Bisset». La Steel premette un altro pulsante e il video andò avanti a doppia velocità, per poi dipanarsi a 8x e 12x. Medici, infermieri e pazienti schizzarono dentro e fuori dall’inquadratura. Quelli che sembravano i figli di Bisset entrarono nel reparto con un grosso mazzo di fiori, poi uscirono di nuovo. Poveri ragazzi. Poi la Steel si piegò in avanti e premette un tasto, facendo scorrere di nuovo il filmato a velocità normale. «Ecco». I numeri nell’angolo indicavano le dieci di sera. «Dove». Lei sospirò. «Ma dici sul serio? Rennie l’ha notato subito».
Capitolo 29
Logan sbirciò verso lo schermo. Che diavolo avrebbe dovuto…? «L’uomo con il cappotto lungo? Probabilmente stava morendo di caldo: l’Aberdeen Royal Infirmary tiene il riscaldamento a livelli mortali». «Gli infermieri non si sono preoccupati, perché quell’uomo fa il volontario in ospedale da anni. Parla ai pazienti in coma, fa ascoltare loro la loro musica preferita, legge loro i libri che amano di più. Quel genere di cose. Durante l’ultimo mese e mezzo è andato a trovare Stephen Bisset almeno una volta al giorno». Proprio come aveva fatto Logan con Sam per quasi quattro anni. «Come fate a sapere che si tratta di lui?». Un sorriso rovente le si piantò sulle labbra. «Elementare, mio caro Logan: è un pervertito. Si chiama Marlon Brodie. Ha un sito dove scrive di strane e bizzarre fantasie sessuali. Com’è che lo chiamano, sexblogging?». Il sorriso si allargò. «Rennie l’ha notato e tu no. Battuto da Rennie, ma quanto stai messo male?». Lui la fulminò con lo sguardo. «E che mi dice del fatto che non avevo mai visto questo filmato prima d’ora e non visito i siti dei sexblogger?». Premette un tasto sul portatile, zoomando sulla figura in cappotto lungo. Un uomo come tanti: altezza nella media, costituzione nella media, i lineamenti poco chiari nella registrazione. «E il dna…?» «Ovviamente corrisponde. Finnie ha ordinato a Ding-Dong di arrestarlo e fargli fare il test, e un’ora dopo… bingo. Il seme sul corpo di Stephen Bisset è quello di Marlon Brodie». La Steel si appoggiò allo schienale della sedia, facendola roteare a destra e a sinistra un paio di volte. «Ovviamente, ora Finnie sta cercando di prendersi il merito della scoperta, ma vedrò di fare qualcosa». Logan chiuse il portatile. «È riuscita a ottenere i risultati del test in un’ora? E Helen Edwards? Lei è in attesa dei risultati da mercoledì». «Sì, be’, se non fossi stato così noioso e mi avessi permesso di far sapere qualcosa ai giornali, adesso avremmo quei dannati risultati. Ma no, Mr Moralità doveva mettersi in mezzo». La Steel riprese il portatile, girandolo verso di sé. «Contento?» «Oh, non cominci. Sa che ho ragione, altrimenti l’avrebbe fatto comunque». Si girò a guardare la lavagna con i nomi dei pedofili. «La famiglia lo sa? Di Marlon Brodie?». «E tanti saluti alla teoria del sergente Muso Becky. I figli che uccidevano il padre. Idiota». «Dovrebbe andarci un po’ meno pesante con lei. Se continua a trattarla come la scema del villaggio, alla fine lo diventerà. Più carota e meno bastone». «Bla, bla, bla». La Steel agitò una mano in aria, come ad allontanare un odore sgradito. «Marlon Brodie nega di aver soffocato Stephen Bisset, ma cosa ci si poteva aspettare? E che razza di sadico chiama suo figlio “Marlon”, comunque? È volerseli cercare, i guai. Non mi stupisce che sia diventato un killer. E un pervertito. Hai visto il suo sito? Ci ha messo roba che farebbe arrossire perfino me». «Be’… almeno è…». «Pattuglia Sette, potete parlare?» «Dio santo». Logan si afflosciò. «Aaargh…». Si riprese prima di finire a gambe all’aria e si raddrizzò. Lanciò un’occhiataccia alla Steel. «Sta cercando di farmi ammazzare?». Poi premette il pulsante della ricetrasmittente. «Parlate pure».
«Sergente McRae? Sono Maggie. Il solito amico ha segnalato di nuovo movimenti sospetti su Rundle Avenue. Dice che tre persone sono entrate e uscite dalla casa di Ferris negli ultimi quindici minuti». «Grazie, Maggie. L’agente Nicholson è già rientrato?» «Proprio in questo momento». «Bene. Dille di scaldare la Macchina Grande, andiamo a caccia di drogati». Anche se, con la fortuna che aveva negli ultimi tempi… La Steel si alzò e prese la giacca. «Che stiamo aspettando?». Logan arretrò verso la porta. «È solo una faccenda locale. Niente di importante. Lei ha un assassino da acciuffare, ricorda?» «Oh, no, non ci provare. Ogni volta che ti perdo di vista ti cacci in un guaio. E io mi siedo davanti». Ovviamente. «Pfffff…». La Steel si afflosciò ancora di più sul sedile, le spalle che sfioravano appena l’estremità inferiore del finestrino. «Tutto qui? È questo tutto quello che fai?». La Nicholson svoltò l’angolo su Rundle Avenue. Di nuovo. Villette bifamiliari grigie da un lato e un codice Morse di brevi terrazze delimitate da assi di legno dall’altro. Come capanni da giardino troppo cresciuti, dipinti di marrone. Muretti alti al ginocchio delimitavano giardini fatti di ghiaia, erba e siepi varie a seconda della proprietà. L’ago del tachimetro toccava appena i dieci chilometri orari. Seduto sul sedile posteriore, Logan controllò la strada. Non c’era nessuno. «Non doveva venire per forza». La Steel sospirò di nuovo. «Che noia». «Non possiamo entrargli in casa, perché non abbiamo un mandato. Quindi controlliamo i dintorni e fermiamo chiunque vediamo uscire da quella porta, perquisendolo». «Come se qualcuno fosse così idiota da andare a prendersi una dose sapendo che girate qui intorno come avvoltoi in una grossa e sporca autopattuglia». Le terrazze simili a capanni da giardino lasciarono il posto ad altre dipinte di bianco. La Nicholson svoltò a sinistra, attraversando Tannery Street e raggiungendo Alberta Place. «Oh, resterebbe sorpresa a scoprire quanti lo fanno». In lontananza, un angolo di Mare del Nord si faceva vedere tra due case di un’altra strada. Di un blu cristallino contro un cielo senza una nuvola. Logan bussò con un dito dietro al sedile della Nicholson. «Quando hanno interrogato Klingon, si sa se ha detto qualcosa su sua madre? Dove si trova, quando dovrebbe tornare, cose del genere?» «Non ne ho idea. L’ultima volta che ho parlato con il secondino, ha detto che sembrava una storia da thriller di spionaggio. Che era arrivata tanta gente in completo nero e occhiali da sole. E che non si poteva parlare con i prigionieri, come se fosse una faccenda top secret». Ingranò la retromarcia e fece un’inversione in tre tempi, tornando indietro da dove erano venuti. Logan si sporse in avanti e tentò con la Steel. «Lei deve aver sentito qualcosa. Lei e tutti i suoi amici dei Team Investigativi Primari». La Steel tirò su con il naso. «Mi stai prendendo in giro? L’unico modo per tirare fuori qualche informazione a un altro team è usare le pinze e una sbarra di ferro». «Allora mi faccia un favore: faccia qualche domanda. Veda se viene fuori qualche informazione». Lei strinse gli occhi. «Perché? Dove vuoi arrivare?». Logan si strinse nelle spalle. «È solo una sensazione». Svoltarono a sinistra su Tannery Street e poi subito a destra. Lì non c’erano case, ma solo due file di una trentina di garage, con le saracinesche blu tutte uguali, ai due lati della breve strada chiusa. Non c’era anima viva.
La Steel sbuffò. «Sono ancora annoiata. E affamata. Direi che possiamo fare una pausa per il pranzo». La Nicholson fece un’altra inversione. Logan staccò la ricetrasmittente dal gancio. «Stiamo lavorando, qui». «Pranzo, pranzo, pranzo, pranzo, pranzo!». «Qui Pattuglia Sette, mi senti, Maggie?» «Prego, parli pure». «C’è qualche descrizione che puoi darci?» «L’ultima era di una donna bianca, con una tuta grigia e una felpa arancione con il cappuccio. E degli stivali Ugg». Quello sì che era stile. La strada scivolava oltre il finestrino. Un tranquillo quartiere di periferia. Giardini curati e auto altrettanto curate, con i proprietari che le tiravano a lucido per il sabato sera con spugna e panno di camoscio. «Pranzo, pranzo, pranzo, pranzo, pranzo!». Logan chiuse gli occhi, serrandosi la radice del naso tra pollice e indice. «Se ci fermiamo davanti al panettiere, mi promette di piantarla?». L’odore di pasticcio di pollo al curry riempiva la Macchina Grande di note speziate di cardamomo e cumino, lottando contro il vero piatto nazionale scozzese: le patatine fritte. La Steel se ne ficcò un paio in bocca, commentando mentre masticava: «Ve l’avevo detto». Seduta dietro il volante, la Nicholson prese un boccone del suo pasticcio. Poi mugolò come una scimmia, aprendo la bocca in un piccolo cerchio. «Brucia…». Logan se ne stava sul sedile posteriore, con lo stomaco che gorgogliava. «Dieci minuti e torniamo a caccia di drogati». «Pattuglia Sette, potete parlare?» «Dimmi, Maggie». «Da Tayside hanno dato un’occhiata alla registrazione delle telecamere della libreria a Dundee. Non era Liam Barden, mi dispiace». «Ah, be’, valeva comunque la pena fare un tentativo». «E quelli del traffico dicono di aver trovato un Toyota Hilux bruciato in un campo fuori da New Pitsligo. Il veicolo corrisponde a quello rubato da una fattoria a nord di Strichen tre giorni fa, ma a quanto pare ora il lato posteriore è distrutto». Probabilmente il bestione era stato mandato in retromarcia a tutta velocità contro la vetrina del supermercato di Portsoy. «I ladri delle casse». «L’ispettore McGregor è lì, adesso». «Okay, fammi sapere se dobbiamo fare qualcosa». Chiuse la chiamata mentre un rombo di tuono proveniva dalle sue viscere, abbastanza forte da far voltare sia la Steel che la Nicholson. «Sicuro che non ti vada qualche patatina?». La Steel gli offrì il contenitore di polistirolo. Una pausa. Poi Logan ne prese una manciata. Lei gli sottrasse il contenitore. «Ehi! Ho detto “qualche”, non “tutte”!». Lui uscì dalla macchina con le patatine rubate. Se ne ficcò una in bocca e staccò la ricetrasmittente dal gancio. Immise il numero di Deano sulla tastierina con un dito unto. «Deano, puoi parlare?» «Ci dia un minuto, sergente». Piccole villette scozzesi si allineavano su un lato della strada ricurva, ma dall’altro lato c’erano soltanto erba e ciuffi di ginestra che finivano sul bordo della scogliera. Poco oltre, non si vedevano
che il mare e il cielo. Qualche barchetta dondolava sulle onde, con le carene dai colori vivaci che brillavano come luci al neon contro il blu intenso dell’acqua. Logan masticò le ultime due patatine. Non erano buone quanto il piatto di carne tritata e purè che aveva lasciato a raffreddarsi sul tavolo della cucina, ma sempre meglio che un calcio nel sedere. Poi Deano tornò a parlare. «Eccomi, sergente, dica pure». «Avete fatto un controllo con il database su quelle effrazioni a Pennan? Ci ha dato qualche sospetto?». Logan si succhiò il sale e il grasso delle patatine dalle dita. «Cosa, i furti storici? Sì. Abbiamo trovato un paio di corrispondenze. Un tizio sta scontando sei anni a Berlinnie, quindi non è il nostro uomo. L’altro si chiama Tony Wishart. È una specie di pazzo ossessionato dalla storia, secondo quello che dice l’assistente sociale. Ha un mandato d’arresto per aver rapinato quel piccolo museo dell’Aberdeenshire Heritage a Mintlaw. Quindi lo stiamo già cercando». Era qualcosa, almeno. «Abbiamo ancora una ventina di minuti. Se puoi, passa da Alex Williams, per un controllo volante. E assicurati che Ciuffo resti in macchina. Non voglio un bis dell’ultima volta». La Macchina Grande girò di nuovo su Tannery Street, facendo il giro lungo. La Steel sonnecchiava sul sedile del passeggero, con la testa contro il finestrino. Aveva il respiro più profondo e sbuffava di tanto in tanto dalla bocca. La Nicholson si allungò dal sedile posteriore. «Che facciamo se comincia a russare?». Logan accese la radio, riportandola in vita. Questa volta niente boy band, ma un’insipida band di ragazze che trascinava avanti una canzone da dimenticare all’istante. «Temo che non riusciremo a ottenere molto, qui. Tanto vale tornare in stazione e riprovarci domani». La canzone zoppicò fino alla sua inutile conclusione, rimpiazzata dall’idiota al microfono. «Lo giuro, mi piace di più ogni volta che la riascolto. Non dimenticate: saremo in collegamento live con la Cattedrale di Liverpool per il funerale della detective Mary Ann Nasrallah, tragicamente uccisa in una sparatoria la scorsa domenica. Restate con noi. Però adesso è ora di riascoltare un po’ di Bieber!». La Nicholson colpì Logan su una spalla. «Noooo!». «Gah!». Lui premette il pulsante della radio appena in tempo, e una sinfonia classica riempì l’abitacolo. Logan si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo. Grazie al cielo… «Un ultimo passaggio davanti alla casa di Frankie e ce ne andiamo». Lei sporse in avanti la testa, tra i due sedili anteriori. «Lo sa cosa mi fa rabbia di questa storia della detective sotto copertura che è finita uccisa? Come mai i politici si mettono a parlare bene di noi soltanto quando un poliziotto muore? Che ne è di tutto il resto del tempo che passiamo a lavorare?» «Lo so». «Oh, certo, facciamo un lavoro spettacolare quando moriamo, ma a parte questo, niente». «Sfondi una porta aperta, Janet». Logan tornò su Rundle Avenue con la sua sfilza di linee e punti di casette terrazzate simili a capanni da giardino. Erba. Erba. Ghiaia. Altra erba. La Nicholson lo toccò di nuovo su una spalla. «Sergente? Laggiù… quella Ford Fiesta blu, nuova di zecca. Non è quella del tizio brutto che abbiamo fermato lunedì perché guidava parlando al cellulare?». Una piccola pausa, poi il fruscio delle pagine di un taccuino che venivano rapidamente girate. «Sì, eccolo: Martyn Baker. Ovvero Paul Butcher, ovvero Dave Brooks. Possesso di stupefacenti e possesso ai fini di spaccio…». Okay, quindi l’auto di Martyn con la y era parcheggiata proprio fuori dalla casa di Frankie Ferris, ma quello non era poi tanto strano. «Pensi che stia comprando o consegnando droga?» «Già».
«Anch’io». Logan si fermò accanto al marciapiede. Spense il motore e la radio. La Steel si raddrizzò. «Cosa? Stavo ascoltando, eh…». Sbadigliò. «Dove siamo?». La Nicholson indicò la Fiesta blu. «Quell’auto appartiene a uno spacciatore che viene da sud». «Buon per lui». L’ispettore capo si infilò una mano sotto il seno sinistro e si diede una grattata. «Perché non abbiamo del caffè? Pensavo che voi poliziotti in uniforme foste sempre pieni di caffè e ciambelle». Logan uscì dall’auto. Si calcò in testa il berretto dell’uniforme. Poi si girò e aprì lo sportello per la Nicholson. Lei lo seguì sul marciapiede, schiacciandosi il berretto così tanto da piegarle le orecchie. «Abbiamo un piano?». Rundle Avenue non aveva molti posti per nascondersi. Non c’erano vicoli dove rintanarsi per controllare da lì la casa di Frankie. Né alberi o grossi cespugli di rododendro. «D’accordo, tu vai da quella parte», decise Logan, indicando la Fiesta, «torni sulla Tannery, vai a sinistra, prosegui fino in fondo, giri su Golden Knowes e torni su dall’altra direzione. Trova qualcosa dietro cui nasconderti. Io controllerò da questo lato. Lo beccheremo quando esce e lo perquisiremo». E, ti prego, Signore, fa’ che abbia abbastanza roba addosso da finire dietro le sbarre per molto, molto tempo. Logan attraversò la strada mentre la Nicholson si allontanava. Restando sullo stesso marciapiede su cui si trovava la casa di Frankie Ferris. Lui si accucciò dietro a un Transit con la scritta “disinfestazioni big jeemie – chi chiamerai?” sulla fiancata, con tanto di logo dei Ghostbusters copiato. «Pattuglia Sette, potete parlare?» «Dimmi, Maggie». «Bill ha detto che l’affitto della casa al numero trentasei di Fairholme Place veniva pagato ogni quattro settimane con addebito su conto corrente dal conto bancario di una certa Mrs Lesley Spinney. Questo fino a dieci mesi fa. Poi ci sono stati due mesi di pagamenti in contanti». Sopra di lui, i gabbiani planavano sulle correnti. Un furgoncino dei gelati emetteva la sua musica in lontananza. Logan premette il pulsante per parlare. «Stai cercando di creare un po’ di suspense, Maggie? Rischio di morire di vecchiaia, nel frattempo». «Mi scusi, c’era qualcuno alla reception. L’affitto adesso viene pagato dal conto di Mr Colin Spinney, aperto presso la Bank of Scotland». Quindi la madre di Klingon aveva smesso di pagare l’affitto circa un anno prima e aveva lasciato l’appartamento a suo figlio. Sul serio? Come era possibile che chiunque si fidasse di un bastardo spacciatore come lui per pagare l’affitto? Era praticamente garantito che un giorno ci si sarebbe svegliati con un avviso di sfratto nella buca delle lettere. E se invece la madre di Klingon non aveva smesso di pagare l’affitto? Se invece l’addebito sul suo conto aveva smesso di funzionare perché il conto era stato svuotato? «Sergente McRae, è ancora lì? La reception…». «Sì, grazie, Maggie. Di’ a Bill che è il mio eroe». E se la madre di Klingon non fosse mai andata in Australia, in realtà? Logan si sedette sul marciapiede e sbirciò da dietro il furgone. Probabilmente la Nicholson ci avrebbe messo cinque minuti per fare il giro dell’isolato. E a quel punto avrebbero dovuto soltanto aspettare che Martyn con la y finisse quello che stava facendo con Frankie, e poi scoprire cosa era successo alla madre di Klingon, arrestare chiunque avesse ucciso la bambina della Tarlair Outdoor Swimming Pool, fermare i ladri dei registratori di cassa, risolvere i furti negli appartamenti di Pennan, e tutto sarebbe andato per il meglio. Quanto poteva essere difficile?
Qualcuno sbuffò contro la spalla di Logan. «Mi sto annoiando». Lui chiuse gli occhi, premendo la fronte contro la fiancata dipinta del furgone delle disinfestazioni. «E allora se ne torni alla stazione e faccia il suo lavoro, invece di lamentarsi del mio». Si girò e indicò la strada. «Vada. Da quella parte. Giù fino in fondo alla collina, poi attraversa la strada e segue le indicazioni per il porto. Le ci vorranno dieci, quindici minuti al massimo». La Steel imbronciò le labbra intorno alla sigaretta elettronica che le sporgeva dalla bocca. «Dammi un passaggio». «Stiamo cercando di beccare uno spacciatore. Non le sta bene?» «Tu sergente, io ispettore capo. Io chiede passaggio, tu dà passaggio». «No». Logan tornò a guardare verso la casa. «Lei dovrebbe essere alla stazione, a lavorare per arrestare chiunque abbia ucciso quella bambina. Vada a farlo». «Ti dirò: perché non agito la mia bacchetta magica ed evoco l’assassino? Ma certo! Perché non ci ho pensato prima? Aspetta un attimo…». La Steel agitò la sigaretta elettronica in aria. Poi si accigliò. «Niente. Che strano. Stamattina funzionava». Ancora nessun movimento da dentro la casa. «Be’, che mi dice della sua analisi degli isotopi stabili?». La Steel rimise la “bacchetta magica” in bocca e prese un tiro. «È stato un bene affidarlo a un team esterno. Non c’è niente di meglio di una bottiglia di Macallan invecchiato per ungere a dovere gli ingranaggi. Il mio guru di Dundee ha analizzato dei campioni di capelli della bambina, ieri sera, e secondo lui, la nostra vittima ha trascorso gli ultimi quattro mesi nel nord-est, l’anno prima a Glasgow e il resto del tempo tra la costa sud del Galles e la zona a nord di Londra». Logan annotò tutto nel taccuino. «E se andiamo ancora più indietro?» «Non si può sapere senza un campione di osso o un dente. Ho già inoltrato la richiesta al Procuratore». «E allora perché se ne sta qui a non fare niente, invece di mettergli fretta? Lo sa com’è il Procuratore!». Logan si girò a guardarla. «È questo quello che succede quando nessuno le sta dietro con il fiato sul collo, vero? Tutto va al diavolo». Lei lo guardò male. Poi un sorriso le si allargò sul volto, e il tono di voce si fece gongolante. «Dammi un passaggio, o non ti dirò cosa ha detto l’ispettore Porter». Neanche un briciolo di rimorso. Tipico. Logan prese un respiro profondo. Sospirò. E poi tornò a guardare verso la casa. Forse Frankie e Martyn con la y si erano messi davanti alla tv a guardare la partita di calcio? Magari con un paio di birre e pacchetti di patatine a non finire. Dannazione. La Steel lo sgomitò, insistente. «Non me lo chiedi?» «D’accordo: chi diavolo è l’ispettore Porter?» «Niente passaggio, niente informazioni». Lui afflosciò le spalle. «Senta, questo è il nostro lavoro, okay? Stiamo lavorando, qui». La Steel gli tirò la manica. «Sì, ma io mi sto annoiando». «Sa cosa non mi è mai mancato? Questo. Il fatto di dover essere il suo babysitter, e di doverla gestire come una bambina petulante». Strattonò via la manica dalla sua presa. «Se vuole andare, vada. Io resterò qui finché Martyn Baker non uscirà da quella casa». «D’accordo, come ti pare». Il rumore dei suoi stivali si perse in lontananza. Finalmente. Logan sbirciò dall’altra parte del furgone. La Nicholson era appostata dietro a una Fiat Punto, a un centinaio di metri da lui, lungo la strada. Stava usando il berretto dell’uniforme per sventolarsi la faccia, evidentemente accaldata. Del resto, era comprensibile: una giornata come quella, con il
sole che picchiava forte, non era l’ideale per vestirsi di nero e indossare anche un giubbotto antiproiettile. Un filo di sudore gli scivolò lungo la schiena, infilandoglisi nelle mutande. «Avanti, Martyn, dove diavolo sei?». Se fossero rimasti lì ancora un po’, qualcuno si sarebbe insospettito. Sempre che lui e la Nicholson non crollassero prima per un colpo di calore. Un secco crepitio di plastica schiantata ruppe il silenzio. E poi accadde di nuovo. La Nicholson scattò in piedi sul marciapiede, fissando con gli occhi sgranati qualcosa alle spalle di Logan. Il clangore del metallo colpito fu seguito all’istante dallo stonato e furioso ululato di un allarme. Logan si girò e vide la Steel, ferma sul marciapiede con le mani dietro la schiena. Gli sorrise, con la sigaretta elettronica che le dondolava dall’angolo delle labbra. «Che c’è?». La Ford Fiesta nuova di zecca di Martyn Baker aveva due fari rotti e una grossa ammaccatura sullo sportello del passeggero. Le frecce lampeggiavano e l’allarme strillava impazzito. La Steel si strinse nelle spalle. Alzò la voce oltre l’urlo dell’antifurto. «Cosa, quella?». Accennò alla macchina. «Era proprio così, quando l’ho trovata». Fantastico. E poi era lui quello che veniva braccato dagli Affari Interni. «Ma è impazzita?». Una porta si aprì di scatto, ed ecco comparire Martyn con la y, il viso paonazzo e le labbra arricciate a mostrare i denti. «la mia macchina!». Il suo accento di Birmingham allungò a dismisura l’ultima parola, facendola somigliare a un grido. Tuttavia, non era uscito dalla tana di Frankie, bensì dall’appartamento di fronte alla sua povera Fiesta ululante. Quello con cespugli di rose, fontana e casetta di plastica per bambini. Percorse a passo di carica il vialetto e raggiunse il marciapiede, la bocca che si muoveva come se stesse cercando di tirare fuori le parole e gli occhi fuori dalle orbite. Probabilmente notando i fari distrutti e l’ammaccatura nella fiancata. Poi si girò verso la Steel. «lei ha…». «È stato un tizio grosso come un armadio, e poi è scappato». Lei gli mostrò il distintivo. «Uno dei miei colleghi gli è corso dietro. Lei è il signor…?». L’uomo appoggiò i palmi sul tetto della Fiesta, come se potesse evocare un miracolo del Signore per guarire gli ammalati. «La mia macchina!». «Questo veicolo è suo, signor Lamiamacchina? Potrebbe gentilmente spegnere l’antifurto? Mi sta facendo venire il mal di testa». Lui arricciò le labbra in un ringhio. Poi arretrò, tirò fuori le chiavi della macchina e premette un pulsante. Silenzio. «Molto meglio». La Steel si ficcò un dito nell’orecchio, rigirandolo. «È residente in zona, signor Lamiamacchina?». Martyn con la y strinse gli occhi, serrando i denti e facendo risaltare la linea di foruncoli lungo la mascella. «Se metto le mani su quel piccolo…». «In realtà, sarebbe meglio di no». La Steel si tolse la sigaretta elettronica dalle labbra e accennò con quella alla strada, verso la casa di Frankie Ferris. «Per caso è mai stato in quella casa? Quella al numero quindici? Quella brutta con la porta color lime e l’odore strano?». Logan gli si avvicinò alle spalle, bloccandogli ogni via di fuga. «C’è qualche problema, Mr Baker?» «Ma guardate cosa ha fatto quel bast…». «Baker? Un momento», la Steel si rimise in bocca la sigaretta elettronica, «quest’uomo mi ha detto di chiamarsi Lamiamacchina. Non lo sa che è un reato dare false generalità alla polizia, Mr Baker?». Lanciò un sorriso a Logan. «Credo che sia il momento di perquisire questo signore, giusto, sergente?».
Logan si infilò un paio di guanti di nitrile azzurro. «Può allargare le braccia, Mr Baker?». La Steel prese un lungo tiro dalla finta sigaretta, mentre Logan perquisiva l’uomo. «Tra l’altro, non ha risposto alla mia domanda. È mai stato nella casa del vostro amichevole spacciatore di quartiere? Magari a prendere qualcosa, oppure a lasciargliela?». Se l’uomo avesse stretto ancora di più la mascella, uno di quei vulcani dormienti sulla sua pelle si sarebbe sicuramente risvegliato. «Mi state arrestando?» «Dipende da quello che troverà il sergente, no?». Logan finì di passare le mani lungo le gambe di Martyn con la y. «Ha qualcosa nelle tasche che sarebbe meglio dichiarare? Oggetti affilati, coltelli, aghi, lamette?». Lui gli mostrò i denti. «Queste sono molestie». «Paul?». Una donna comparve sulla soglia della casa da cui l’uomo era uscito. Accento di Birmingham pesante come un macigno. Jeans tagliati e una T-shirt con la scritta “barney deve morire”. Arricciò le dita dei piedi nudi, uscendo sul vialetto. «Tutto a posto?». Una bimbetta le venne dietro barcollando, per poi aggrapparsi alla sua gamba, succhiandosi il pollice. La smorfia aggressiva sul volto di Baker svanì, e l’uomo si girò, forzando un sorriso verso di lei. «Va tutto bene, Elsie. Torna dentro con Mandy e metti su il tè, d’accordo?» «Paul?». Il sorriso forzato cedette appena. «Ho detto che va tutto bene. Qualcuno ha vandalizzato la macchina e questi… agenti sono un po’ pignoli, tutto qui. Torna dentro». Lei annuì e sparì di nuovo all’interno della casa. La bimba esitò sulla soglia, fissandoli. Martyn con la y la salutò agitando una mano e lei seguì la madre. La porta si chiuse. Martyn Baker tornò in posizione. «Vediamo di farla finita».
Capitolo 30
«Dunque chi è Paul quando è a casa?». La Steel si girò a sbirciare dal lunotto posteriore della Macchina Grande che si allontanava lungo la strada. «Be’, più che “a casa”, direi “a spassarsela a Teuchter Town con una biondina dalle gambe lunghe”». «È un alias». La Nicholson li condusse oltre la rotonda e su Whinhill Terrace, con le mani che scivolavano sul volante in una buona imitazione di qualcuno che cerca di superare l’esame della patente con il massimo dei voti. «Martyn Baker, ovvero Paul Butcher e Dave Brooks». «Quindi quella poveretta che si porta a letto non sa neanche il suo vero nome? Non vi sembra un po’ triste?». Seduto sul sedile posteriore, Logan gettò i guanti di nitrile azzurro in una vecchia busta di plastica del supermercato e la ficcò in una delle tasche del giubbotto antiproiettile. «Non riesco a credere che fosse pulito». La Nicholson si strinse nelle spalle. «Magari la prossima volta…». «Comunque potrebbe risultare parecchio strano anche per lui, no? Insomma, ve lo immaginate, lì a spingere come un forsennato e lei che se ne esce: “Oh, Paul, che stallone! Ancora, Paul, ancora!”, e lui pensa: “Ma chi diavolo è Paul?… Oh, giusto, sono io”. Insomma, è roba che ti fa ammosciare, suppongo». La ricetrasmittente di Logan pigolò. «Pattuglia Sette, potete parlare?» «Dimmi, Maggie». «Stiamo ancora cercando un certo Charles “Craggie” Anderson? Perché abbiamo ricevuto una segnalazione: qualcuno l’ha visto stamattina mentre scendeva da un autobus a Inverness». La Steel prese un tiro di sigaretta elettronica, facendone brillare la punta. «Pensate che la bambina sia sua? Che situazione: crescere senza sapere il vero nome di tuo padre». «Siamo sicuri che sia Charles Anderson?» «Non al cento per cento. Lo sa come vanno queste cose. Qualcuno vede un tizio che somiglia vagamente alla foto di una persona scomparsa vista su un volantino che a malapena ricorda, e ci chiama». «C’è altro?» «Deano e Ciuffo si stanno occupando di un’overdose a Keilhill, l’ambulanza è sulla scena». «Grazie, Maggie». La Nicholson svoltò a destra su Castle Street. Era piena di coppie e famiglie. Passeggini e buste della spesa. Lei premette con forza il piede sui freni e indicò. «Lì! Stavolta è sicuramente lui!». Un uomo di mezza età piuttosto corpulento, con i capelli radi in cima alla testa, procedeva lungo il marciapiede, portando con sé due sedie di legno con le etichette ancora attaccate. La Nicholson si slacciò la cintura e saltò fuori dall’auto. «Liam Barden?». Non ci fu risposta. «ehi, liam!». Ancora niente. Lei afferrò il berretto, se lo infilò e gli corse dietro a piedi. La Steel si girò sul sedile. «Perché siete tutti ossessionati da questo Liam?» «Non è lui». Logan si sistemò meglio sul sedile. «E comunque, avanti, la stiamo riportando alla stazione in macchina. Cosa ha detto questo ispettore Porter?».
Lei lo guardò perplessa per un attimo, poi sembrò ricordare. «Ah, sì, Porter. È una donna, ed è a capo dell’indagine di quel grosso sequestro di stupefacenti… con quei due, lì, come si chiamano? Kevin e Costello?» «Klingon e Gerbillo». «Okay, quello che è». La Steel prese un lungo tiro dalla sigaretta elettronica. «Volevi sapere qualcosa della madre di Kevin». «Di Klingon. Dovrebbe essere in Australia da un paio di mesi, ma sembra che non sia a casa da molto più tempo». «E quindi?» «E quindi volevo sapere se Klingon o Gerbillo hanno detto qualcosa di lei». Ancora un tiro. «Perché?» «Non ha visto in che stato era quel posto. Non possono averlo ridotto così in poche settimane. Quella casa era un porcile da mesi. E lei invece è una maniaca del pulito. E, secondo il municipio, è Klingon a pagare l’affitto da quasi un anno. Quindi, cosa è successo alla madre?» «È tutto quello che hai in mano? Che la casa è sporca?». La Steel si indicò una guancia con l’unghia rossa e scheggiata dell’indice. «Questa ti sembra la faccia di qualcuno a cui frega qualcosa sulla capacità di due tossici di tenere in ordine una casa? Per quando saranno usciti di prigione, quella donna avrà rimesso tutto in ordine, no?». Una famiglia di cinque persone superò l’autopattuglia passeggiando sul marciapiede, il padre e la madre con l’aria di non aver mai trascorso un giorno felice in vita loro. Logan abbassò la voce. «E se quella donna non fosse mai andata in Australia, tanto per cominciare?» «Continua a non fregarmene niente». «E se fosse morta?». La Steel spense la sigaretta finta e la infilò in tasca. «Pensi che questo Kevin sia il tipo da ammazzare la madre?» «Dio santo, è Klingon. Kevin è il vero nome di Gerbillo». Logan si appoggiò allo schienale. «Potrebbero averla uccisa loro, oppure potrebbe aver avuto un incidente, ma c’è qualcosa che non torna». Tamburellò con le dita sul poggiatesta del guidatore. «Mi domando se stia ancora ritirando dei soldi dal suo conto in banca. Pensa che potremmo scoprirlo?». La Steel tirò fuori il cellulare e armeggiò per un po’ con lo schermo. Logan la pungolò. «Allora?» «Allora cosa?». Santo cielo. «Cosa ha detto l’ispettore Porter? Riguardo alla madre di Klingon?» «Niente. Non se ne è mai parlato». Poi gli tese il telefono. Sullo schermo campeggiava una foto di Susan e Jasmine. Si trovavano nell’atrio di una scuola, Susan in un abito a fiori che poteva essere uscito dritto dal set di un film di Doris Day, Jasmine in body nero con un tutù verde, sorridente e con una piccola coppa dorata in mano. Doveva essere una foto della gara di danza. «È arrivata terza. Pensi che dovrei chiedere loro di venire a Banff per un paio di giorni?» «Quindi non hanno mai parlato della madre di Klingon?» «Certo, non potrebbero stare in quel buco di casa con te, ma sarebbe carino, non ti pare? Un bel viaggio qui, in questi giorni di sole». «Come ha fatto a non chiederglielo?» «Potrebbero partire oggi, passare la notte qui e tornare a casa domenica. Sarebbe bello se potessero rimanere più a lungo, ma queste idiote di maestre impazziscono se non mandi a scuola i bambini nel periodo delle pagelle». La Steel osservò la foto. «Potremmo organizzare un barbecue. Andare a fare una passeggiata sulla spiaggia e una nuotata in mare». «Ma mi sta ascoltando?»
«No». D’accordo. Se non voleva dargli una mano… Logan tirò fuori il cellulare e controllò la rubrica. Selezionò un numero e aspettò di sentirlo squillare. Suonò a lungo, senza risposta. Poi la voce di un uomo si fece sentire dall’altra parte della linea. Dizione perfetta, a parte un leggerissimo accento dell’Essex. «Dipartimento di supporto amministrativo». «Derek? Sono Logan McRae. Ci siamo conosciuti al weekend per le norme di sicurezza dei Commonwealth Games, ti ricordi? Tu e il tuo capo stavate per essere cacciati da uno strip…». «Ah, sì, Logan. Certo. Come stai?». L’uomo si schiarì la gola. «Pensavo che non avremmo più parlato di quella storia». «Sei ancora con la Squadra degli Scoiattoli Segreti?». La Steel passò a una foto sul telefono di Susan e Jasmine in costume su una spiaggia di sabbia bianca, con tanto di palme e lattine di Irn-Bru. Derek tacque per qualche istante. «Non so di cosa tu stia parlando». «Okay, lo prenderò come un sì. Ascolta, ho bisogno di sapere se una persona ha lasciato il paese. Dovrebbe essere in vacanza in Australia. Potresti scoprire quando, e se, è partita?». La Steel girò il cellulare verso di lui. «Qui eravamo a Tiree. Ci bruciavamo al sole ogni mattina, le zanzare ci mangiavano vive ogni sera, ma ci siamo divertite un mondo». «Logan, il Dipartimento di supporto amministrativo non si occupa di antiterrorismo. Al massimo requisisce cucitrici e penne Bic. Segue i contratti di manutenzione delle fotocopiatrici. Cose così, molto terra terra». «Certo, lo so. Ma mi devi ancora un favore, ricordi? Lo strip…». «Non è stato…». Un respiro profondo. «Sì, be’, magari potrei fare qualche controllo discreto per darti una mano. Hai il nome di questa persona?». Logan prese il taccuino. «Lesley Spinney, nata a Fraserburgh l’otto di aprile del 1971». «Vedrò cosa posso fare». Poi attaccò. La Steel gli mostrò di nuovo lo schermo del cellulare. Erano tutte e tre, stavolta, sedute intorno a un falò con del pesce infilzato su rametti di legno. «Ed eccoci a Lossiemouth. Siamo andate a pescare su una barchetta». Sorrise. «Susan ha preso uno sgombro; quando l’ha staccato dall’amo ha cominciato a dibattersi come un forsennato. L’ha schiaffeggiata in faccia con la coda e si è lanciato di nuovo in acqua. Pesce: uno, Susan: zero». Un sospiro. «Penso che le chiamerò». Lo sportello del guidatore si aprì e la Nicholson tornò dietro al volante. Sospirando. Logan mise via il cellulare. «Fammi indovinare: non era lui». «Ma ci somigliava». «È lo stesso tizio dell’ultima volta vero? Quello che hai inseguito nel supermercato. Senza baffi e che tifa per la squadra sbagliata». «Be’… ma chi è l’idiota che se ne va in giro assomigliando a una persona scomparsa? Insomma, è andare a cercarsi dei guai, questo!». La Nicholson rimase immobile per qualche secondo, poi girò la chiave e avviò il motore. «Avrei potuto giurare che si trattava di lui». «Pattuglia Sette: è urgente». Logan sganciò la ricetrasmittente dal giubbotto antiproiettile. «Vi ascoltiamo». «Sono arrivate segnalazioni di un alterco violento e urla al numero sedici di Chapel Hillock Crescent. C’è una bandierina di grado uno a questo indirizzo…». «Alex Williams». Logan batté un colpetto sulla spalla della Nicholson. «Vai!». Lei ingranò la marcia e premette il pulsante per attivare lampeggianti e sirene. Schiacciò il piede sull’acceleratore. Il didietro dell’autopattuglia sbandò per un attimo, con le ruote posteriori che stridevano, poi fecero presa sull’asfalto e la macchina si lanciò in avanti, spingendo Logan contro il sedile.
Il traffico si divise per farli passare, con la gente intenta a fare shopping che si fermava a guardarli a bocca aperta, mentre l’autopattuglia schizzava via a sirene spiegate. Logan premette il pulsante della ricetrasmittente. «Ricevuto, ci stiamo avvicinando. Da chi è arrivata la segnalazione?». Si aggrappò alla maniglia sopra lo sportello, mentre la Nicholson sbandava in curva in fondo a Castle Street. Cespugli, alberi e lampioni scivolarono via, indistinti, dietro ai finestrini. La macchina schizzò sulla corsia opposta per superare un furgone pieno di bestiame. «I vicini di casa. Hanno detto che si sentiva il rumore di piatti e altri oggetti rotti». La Nicholson si piegò in avanti sul volante. «Gliel’avevo detto, sergente: tutto a posto e tutti felici, finché qualcuno non avvia il frullatore». La Steel si sistemò sul sedile. «Ora sì che va meglio. Un po’ di adrenalina, tanto per cambiare». Logan inserì il numero di Deano nella ricetrasmittente. «Deano, dove sei?» «Siamo in ospedale. Di nuovo. La tizia dell’overdose ha reagito violentemente quando le hanno fatto un’iniezione di Narcan. A momenti staccava la testa del paramedico che se ne è occupato. Che succede?» «Alex Williams». «Merda. D’accordo, ci dia un minuto. Arriveremo prima possibile». Il campo di calcio sfilò via in tutta fretta, poi arrivarono al ponte per Macduff. L’autopattuglia sfrecciò per le strade del centro abitato, le casette di granito che slittavano via, sfocate, fuori dai finestrini. La Macchina Grande affrontò la curva di Chapel Hillock Crescent con un forte stridio di gomme. Altre casette squadrate, villette bifamiliari e piccole terrazze. Facciate grigie. Facciate bianche. Tegole rosse. La Nicholson schiacciò il pedale del freno, facendoli fermare di colpo davanti al numero sedici. Saltò giù dalla macchina, allungando una mano per aprire lo sportello a Logan. Lui era già con un piede sull’asfalto quando la ricetrasmittente fece sentire quattro trilli. «Ispettore capo McInnes a Pattuglia Sette». Chi diavolo era adesso l’ispettore capo McInnes? Logan scattò fuori dalla macchina e premette il pulsante della ricetrasmittente, parlando contro la spalla. «Dovrò richiamarla, signore, siamo…». «Neanche per sogno! Lei mi parlerà adesso, o manderò personalmente qualcuno ad aprirle a calci un buco nel posteriore grosso abbastanza da farci passare un autobus!». La Nicholson corse fino alla porta rossa della casa. Bussò con forza. «polizia! aprite!». «C’è una lite domestica in corso. Faccia quello che vuole». Altri colpi sulla porta. «polizia!». Logan lasciò andare la ricetrasmittente. «Buttala giù». La Nicholson fece un passo indietro e colpì con un piede il battente di pvc non plastificato, pochi centimetri sotto la maniglia. La porta ondeggiò con un tonfo, ma non cedette. Lei ci riprovò. Un altro colpo sordo. Niente. «Sergente, la avverto!». La Steel scese dalla macchina e portò le mani a megafono intorno alla bocca. «prova a usare la maniglia, idiota!». La Nicholson seguì il consiglio. E la porta si aprì. Il rumore di voci alterate arrivò di colpo fino a loro. Poi qualcosa si schiantò. Lei corse dentro, con Logan alle spalle. La Steel li seguì sbuffando. C’era un breve corridoio, con una rampa di scale da un lato che conduceva a un piccolo pianerottolo. Al pianterreno c’erano due porte aperte. Una dava sulla cucina, l’altra… Un urlo, a destra.
La Nicholson si lanciò in salotto, estendendo il manganello con uno scatto. «polizia! nessuno si muova!». Un uomo di mezza età si bloccò con un pugno sollevato a mezz’aria, pronto a colpire. Aveva schegge bianche tra i capelli e sulle spalle della T-shirt strappata. Gocce scarlatte gli colavano dal lobo di un orecchio. Una giovane donna si raggomitolò sul divano, cercando di schiacciarsi contro i cuscini. Aveva un occhio pesto e chiuso, con la pelle che già cominciava ad arrossarsi intorno. Un angolo della bocca era macchiato di sangue. I capelli lunghi e castani le formavano un groviglio selvaggio intorno al viso. Logan allungò a sua volta il manganello estensibile. «basta così!». Il braccio dell’uomo tremò, per poi ricadere lungo il fianco. Restò immobile, afflosciando le spalle, il petto che si sollevava per il respiro affannato. «Mi… mi dispiace…». La Steel si fermò accanto a Logan. «Sì, e ti dispiacerà ancora di più, tra poco». Entrò nella stanza e tirò fuori il distintivo. «Ispettore capo Steel». Fece un cenno a Logan e alla Nicholson, per poi indicare l’uomo tremante. «Portatelo via». Il sole inondava il giardino sul retro della casa, facendo scintillare di un verde quasi impossibile l’erba e le siepi. Logan era seduto sul primo gradino di una piccola veranda, con la ricetrasmittente premuta contro l’orecchio. Con l’altra mano si stava massaggiando la fronte, ma il gesto non sembrava avere alcun effetto sulle lattine arrugginite che gli stridevano fastidiosamente dietro agli occhi. «Sono stato chiaro?» «Perfettamente». «Non voglio che provi ancora una volta ad aggirare il mio Team Investigativo Primario. E se dovessi venire a sapere che ha infastidito di nuovo l’ispettore Porter…». «Io non ho…». Ma che senso aveva? «Sì, signore». «Lei si terrà lontano dall’Operazione Troposfera, o giuro su Dio che gliene farò pentire amaramente». «Operazione Troposfera?». A un paio di giardini di distanza, un cane si mise a latrare, scatenando una reazione a catena lungo la strada. Uno staccato ritmato con assolo di tosaerba e coro urlante di bambini felici. «Sì, Operazione Troposfera. Pensa davvero di saperne di più di noi solo perché è incappato per primo in quel carico di droga? Be’, non è così. E poi che diavolo le è venuto in mente di chiamarla Operazione Schofield? Chiunque abbia mezzo cervello potrebbe collegarla a uno che si fa chiamare “Kevin il Gerbillo”. Stava cercando di farlo ammazzare?». «No, signore. In realtà…». «È per questo che usiamo il generatore casuale di nomi, sergente, per evitare stronzate come questa. In ogni caso, non è più la sua indagine. Tutti gli aspetti dell’Operazione Troposfera sono al di là dei suoi ambiti di competenza». Logan prese un respiro profondo. Valeva la pena di fare un ultimo tentativo. «Signore, con tutto il rispetto, saremo noi a doverci occupare delle conseguenze di certe faccende nelle strade. Se c’è un flusso imponente di stupefacenti in arrivo a Banff, dovremo essere a conoscenza del…». «No, niente affatto. Sono io a decidere cos’è che lei deve sapere o meno, sergente. E al momento, deve semplicemente farsi gli affari suoi. Stia lontano dalla mia indagine!». Silenzio. Logan controllò lo schermo della ricetrasmittente. L’ispettore capo McInnes aveva chiuso la comunicazione. Un lungo, lento sospiro gli sibilò tra i denti stretti. «Vaffanculo, signore». Agganciò la ricetrasmittente al giubbotto antiproiettile e si girò verso la cucina.
La Nicholson gli dava le spalle, visibile attraverso la finestra. Dietro di lei, una testa brizzolata si intravedeva appena sopra il davanzale. Doveva essere l’uomo, seduto al tavolo della cucina, intento a fornire le solite patetiche spiegazioni sull’intera faccenda. Ad Alex dispiaceva. Alex non voleva farlo. Alex non l’avrebbe fatto mai più. In realtà si amavano. E alla fine uno dei due sarebbe andato all’ospedale. O all’obitorio. Non era strano che tanti poliziotti finissero per diventare alcolizzati. Logan rientrò in casa dalla porta sul retro. Si appoggiò al pianale della cucina. «Allora?». Il pavimento era pieno di schegge di ceramica e stoviglie rovesciate. Macchie da test di Rorschach punteggiavano le pareti, a segnalare il punto di impatto di bottiglie e barattoli di vetro. I loro resti schiantati giacevano sul pavimento al di sotto. La Nicholson fece una smorfia. «La solita storia. Tutto è cominciato da una discussione su chi sarebbe uscito da The Voice stasera, e poi sono passati alle minacce di morte». La porta che dava sul corridoio si spalancò di scatto, e la Steel entrò a passo di marcia. Aggrottò la fronte e puntò l’indice contro la figura seduta e curva in avanti. «Ritieniti fortunato, tesoro. Sai cosa succederà se sarò costretta a tornare qui?». Sbatté il palmo sul pianale del tavolo. Lui sussultò, coprendosi il viso con le mani. «Mi dispiace così tanto…». «Questo è il tuo ultimo avvertimento». La Steel schioccò le dita. «E ora andiamocene». Nessuno si mosse. «Ora!». Logan e la Nicholson la seguirono in corridoio. La porta del salotto era ancora aperta. Si intravedevano un tavolino distrutto, una cornice staccata dalla parete e una figuretta minuta raggomitolata sul bordo del divano, che li guardava passare, con un occhio ormai gonfio e pesto. Logan uscì dalla porta d’ingresso e se la chiuse alle spalle. La Nicholson tirò su con il naso. «Che disastro. La prossima volta di sicuro arriveranno le ambulanze a sirene spiegate». «Non dirlo a me». La Steel stava già raggiungendo la macchina, fumando a tutto spiano la sua sigaretta elettronica, quando si fermò e agitò un pugno verso la casa. «Mi fa venire voglia di urlare». «Ma allora perché non abbiamo arrestato…». «Come diavolo è possibile che lei non voglia denunciarlo? Ma che cazzo ha nella testa, si può sapere?». Logan aggrottò la fronte. «Cosa?» «Ma è tutto okay, perché si amano. Be’, allora è tutto a posto, no?». La Steel decapitò con rabbia una rosa che cresceva lungo la siepe davanti alla casa. Un’esplosione di petali color sangue volò verso il marciapiede. «Non si può sopportare una cosa simile, okay? Non si può!». Logan si avvicinò di un passo, accigliandosi ancora di più. «Di cosa sta parlando?» «Quel bastardo l’ha colpita!». L’estremità della sigaretta elettronica lampeggiò, fredda e feroce. «Ma non preoccuparti, ho parlato a lungo con lei. Le ho detto che non deve farsi trattare così da nessuno. E ho aggiunto che se fossi stata al suo posto, avrei staccato le palle a quello stronzo con un cucchiaio arrugginito». Logan sgranò gli occhi. «Cosa ha fatto?». La Nicholson deglutì. «Oh, Dio…». La Steel decapitò un’altra rosa. «Come può un uomo di quell’età comportarsi così con una ragazzina?» «cosa?». Logan si girò verso la casa. «Le ha detto di tagliargli…? Oh, no, no, no, no, no!». La Nicholson stava già tornando indietro di corsa. Lo superò e afferrò la maniglia, strattonandola più volte. «È chiusa a chiave!». La Steel li fissò entrambi dal marciapiede. «Ma che diavolo state facendo? Ho sistemato tutto».
Logan tirò fuori il manganello estensibile. «Quell’uomo non è il colpevole… è lei il problema, razza di idiota. È stata dentro per aggressioni domestiche da quando ha sedici anni, e lei le ha suggerito di castrare il compagno!». Delle urla soffocate si udirono da dentro la casa. La Steel spalancò la bocca. La sigaretta elettronica le cadde dalle labbra, piombando sul marciapiede. «Non startene lì impalato, butta giù quella cavolo di porta!».
Capitolo 31
Le sirene soffocavano la voce dall’altra parte del telefono. Poi l’ambulanza si allontanò velocemente, sparendo dietro l’angolo. Logan girò le spalle al baccano. «Scusa, non ho sentito, Derek. Puoi ripetere?». Un sospiro. «Ho detto che non c’è traccia di lei. I controlli non rilevano che il suo passaporto sia stato scansionato per un viaggio all’estero. In teoria, potrebbe essere andata in qualche paese europeo usando la carta d’identità e poi essere partita da lì, ma l’Electronic Travel Authority non riporta un suo arrivo in Australia». Alex Williams lo fissò dal finestrino posteriore della Macchina Grande, con un occhio nero e le labbra imbronciate. Mi dispiace, non volevo, non succederà mai più. Noi due ci amiamo. «Quindi la madre di Kevin Spinney non è mai andata in Australia». «No, a meno che non ci sia andata con dei documenti falsi, ecco. Ora credo di aver ricambiato appieno il favore, che ne dici?» «Grazie, Derek». «Non parlarne in giro. Ti prego. Non dirlo a nessuno». E a quel punto attaccò. La Steel uscì borbottando dalla casa, al telefono con qualcuno. «No, in realtà… Non avrebbero dovuto farla uscire. Il team, qui, ha fatto tutto il possibile». La Steel alzò lo sguardo e controllò la strada. I vicini si erano assiepati dietro al nastro della polizia e guardavano con gli occhi sgranati la casa e i poliziotti che andavano e venivano. Poi sembrò notare Logan, perché gli rivolse un cenno e gli si avvicinò. «Sì, signore… ne sono certa… grazie, signore». Si fece scivolare il cellulare in una tasca interna della giacca. Fece una smorfia. Si fermò accanto a lui e abbassò la voce a un bisbiglio appena udibile. «Saremo fottuti, appena qualcuno lo scopre». Logan la fissò dall’alto in basso. «Che intende con saremo? Non siamo stati noi a dirle di tagliare le palle al compagno, è stata solo lei». Il bisbiglio divenne un ringhio. «Te lo ricordi chi è che ti ha fornito un alibi quando il Ninja Biondo voleva fotterti?». Lui accennò alla Macchina Grande e ad Alex Williams seduta sul retro. «Non sono io quello di cui si deve preoccupare, ma lei. Probabilmente è già convinta che è stata lei a persuaderla a farlo». «Be’… almeno…». La Steel si accigliò. «Il lato positivo è che…». Strusciò un piede sull’asfalto. Poi tirò fuori la sigaretta elettronica. «No, niente». Da dietro la porta di una delle celle, qualcuno cantava, facendo arrivare la voce fino in fondo al corridoio. Era una vecchia canzone di Elvis, in cui Mr Presley si incendiava l’anima, ma cantata con un pesante accento del nord-est, e il ritornello che recitava, cambiato: «Viva, Pee-ter-heed». L’agente della polizia penitenziaria tolse le manette ad Alex Williams, poi uscì dalla cella, mentre lei si massaggiava i polsi. L’uomo chiuse la porta con un solido tonfo sordo. Poi abbassò la tapparella della finestrella. Il blocco femminile era molto più tradizionale, rispetto al nuovo blocco maschile. Niente file di porte d’acciaio fantascientifico, lì. Soltanto il vecchio stile industriale e il vecchissimo colore blu scuro. Il secondino tirò fuori un pennarello e scrisse le parole “violenta, fare attenzione!” sul cartellino apposito. Poi bussò sulla porta. «Se ha bisogno di qualcosa prima che arrivi il suo avvocato, prema il pulsante del citofono accanto alla porta». Alex si avvicinò alla finestrella e sbirciò verso Logan, alle spalle del secondino. «Io lo amo, questo lo sa, vero?». Un piccolo sorriso. «Solo che a volte… lui mi infastidisce, ecco».
Logan allungò una mano e chiuse la tapparella. Si girò e puntò verso il cancello con le sbarre e l’ufficio della reception. «È completamente pazza». «Non lo dica a me». Il secondino chiuse il cancello con un tonfo metallico e lo bloccò. «È pieno di matti, qui dentro, dopo ieri sera. Durante il matrimonio si sono massacrati di botte, e ora cantano una canzone a testa, a turno. Sarà un lungo weekend». Dal blocco maschile, qualcuno attaccò: «Welcome to the Hotel Fraserburgh… such a lovely place…». Subito, una mezza dozzina di voci si unì al coro. Il secondino si strinse nelle spalle. «Almeno sono intonati. Ed è meglio delle solite imprecazioni e bestemmie». Logan lo seguì fino al bancone all’entrata, con i vari volantini, avvisi e fogli attaccati sopra. Si fermò, posando una mano sul pianale. «Quando Kevin McEwan e Colin Spinney erano qui, hanno detto niente sulla madre di Spinney?» «Gerbillo e Klingon?». Il secondino si grattò un braccio tatuato con il mazzo di chiavi che aveva in mano. «Hmm…». Un occhio si chiuse, e lui si grattò ancora di più. Poi si fermò. «Non era andata in Australia? Tipo a Sydney o a Perth?». No, neanche per sogno. «Grazie». «Posso chiedere, se vuole. Ho un amico che lavora come secondino a Craiginches». «Però mantieni un basso profilo. Se qualcuno scopre che mi sto interessando a questa faccenda, vorranno la mia testa». E, a proposito… «Scusami, ora. Devo fare una telefonata». Uscì dalla porta laterale, raggiungendo il parcheggio sul retro dell’edificio. C’erano due autopattuglie parcheggiate vicino alla porta. Un furgone Transit se ne stava un po’ più a destra, con una ruota anteriore a terra. E poi c’erano due grosse berline. Nessuno in vista. Logan prese il cellulare e chiamò la Nicholson. Aspettò che rispondesse. Poi la sua voce si udì dall’altra parte del telefono. «Sergente? Perché non ha usato la ricetrasmittente?». Perché almeno nessuno l’avrebbe potuto ascoltare o registrare. «Come sta?» «Ha perso molto sangue. Resterà sotto i ferri per almeno un altro paio d’ore». Logan inspirò profondamente. «Ascolta, se qualcuno ti chiede cosa è accaduto oggi…». «Io non ho sentito niente. Non finché qualcuno non si è messo a urlare, lì dentro». «Janet, l’ispettore capo Steel…». «Credo proprio che in quel momento stessi ascoltando qualcuno sulla ricetrasmittente, perché non l’ho sentita parlare». «Janet. Devi dire la verità: niente scuse, niente invenzioni. Un errore si può accettare… insabbiare una cosa del genere, no. Se i nostri rapporti non collimeranno alla perfezione, cominceranno i guai». Silenzio. «Janet, hai capito?» «Sì, sergente». «Bene». Attaccò. E tornò nel braccio di detenzione. Sentì la ricetrasmittente suonare. «Pattuglia Sette, potete parlare?». Neanche due minuti di tregua… Logan premette il pulsante e parlò contro la spalla. «Dimmi, Maggie». «Sergente McRae, temo che abbiamo un problema con il turno di stanotte. Il sergente Muir si è rotto una gamba».
Il coro delle celle di Fraserburgh doveva aver raggiunto un punto difficile della sua ultima canzone, perché le parole erano state sostituite da una serie di “la, la, la”, fino a tornare al ritornello. Logan chiuse gli occhi. «Che è successo?» «Un incontro poco piacevole con uno springer spaniel. È caduto dalla mountain bike». «Lasciami indovinare. L’ispettore McGregor vuole qualcuno che sostituisca Muir. E non c’è nessun altro libero?» «Mi dispiace». Ovviamente non c’era nessun altro libero. E tanti saluti all’idea di aiutare Helen a ridipingere il salotto, quella sera. Comunque, almeno era uno straordinario pagato. «Sì, okay. Ci penso io, segna il mio nome per sostituirlo». Logan fece girare la sedia a destra e a sinistra, più volte. Ogni movimento causava un cigolio acuto, come se il meccanismo fosse piazzato su un topo arrabbiato. «No, sono bloccato al lavoro. Volevo solo controllare che la nuova terapia antibiotica stesse funzionando». Dall’altro capo della linea, Louise della Sunny Glen Care Home mugugnò appena. «Ci vorrà qualche giorno, ma credo che finalmente siamo riusciti a tenere sotto controllo l’infezione alle vie respiratorie di Sam. E ho parlato con il consulente dell’Aberdeen Royal Infirmary. Il prossimo turno libero per un intervento chirurgico è tra tre mesi. Potresti farlo privatamente, ma ti costerebbe una fortuna, e sarebbero gli stessi chirurghi a effettuare l’operazione, quindi…». «Fa qualche differenza, per la sua ripresa, se la facciamo operare subito o più tardi?». La sedia continuò a squittire. L’ufficio dei sergenti di Fraserburgh era molto più moderno di quello della stazione di Banff. Niente architravi, porte a pannelli o cornici sui soffitti, lì. Era tutto soffitti piastrellati, pareti gialle, mobilia minimalista, computer datati e pavimenti scricchiolanti. E tutto era molto più grande: almeno il triplo delle dimensioni del suo ufficio, con scrivanie tutt’intorno alle pareti e un appendiabiti in un angolo, con giubbotti catarifrangenti e antiproiettile. «Pronto? Sei ancora lì?» «Logan, lo so che è difficile, ma ne abbiamo già parlato. Le speranze che Sam si riprenda sono…». Un sospiro. «Ascolta, procediamo un passo alla volta, che ne dici?». Il suo giubbotto antiproiettile era appeso all’appendiabiti come gli altri, ma a volte il suo peso sul petto non andava mai via. Come in quel momento. «Pensi che dovremmo procedere con l’intervento tra tre mesi, quindi». «Sì, infatti. Comunque, adesso devo andare». Fece una pausa. «Abbi cura di te, Logan». «Okay». Rimise il cellulare in tasca. Fissò l’enorme edificio vittoriano dall’altra parte della strada, ben visibile dalla finestra. Ne abbiamo già parlato. Già. Ma non rendeva le cose più semplici, in ogni caso. Sospirò profondamente, sentendosi svuotato. Meglio chiamare anche Helen. Doveva farle sapere che non sarebbe tornato a casa, quella sera. Rispose dopo due squilli, con il respiro affannoso e la voce di un quarto di ottava più alta del normale. «Sì, pronto?» «Helen, sono Logan. Ho…» «Oh, hanno i risultati delle analisi? È Natasha?» «Ci stanno ancora lavorando. Ascolta, purtroppo sono bloccato al lavoro, stasera. Il sergente che doveva fare il turno di notte si è rotto una gamba». «Oh… Ma avevo preso le bistecche per cena».
«Lo so. Mi dispiace». Passò un dito su un graffio sulla scrivania, infilando l’unghia sotto il rivestimento di formica. «Come va con il salotto?» «Avremmo mangiato patatine, funghi e cipolle fritte». «Stai parlando con qualcuno che si è cibato solo di zuppa di lenticchie per le ultime quattro settimane. Credimi: non sai quanto mi dispiaccia». La porta dell’ufficio si aprì, e la Steel entrò, accigliata, mettendo su l’espressione di un pesce moribondo. Poi si avvicinò e si lasciò cadere sulla sedia di fronte alla scrivania di Logan, in una valanga di sbuffi e mugugni. «Sono distrutta». La voce di Helen si fece allegra in modo quasi forzato. «Be’, niente paura: mangeremo le bistecche domani, per stasera mi inventerò qualcosa d’altro». La Steel si grattò un’ascella. «Hai mica delle patatine?». Logan fece girare la sedia, dandole le spalle. «Okay, d’accordo. Ci sentiamo dopo. Ciao». «Immagino che tornerò a dipingere i muri, allora…». Lui attaccò, rimettendo il telefono in tasca. La Steel tirò su con il naso. «Allora, con chi parlavi?» «Solo con… un testimone di un caso. Abbandono di rifiuti. Niente di serio». Logan rigirò la sedia verso di lei. «Come è andata?». Il pesce moribondo ci diede un taglio. «Che fortuna che Napier sia già qui, no? Almeno non sono dovuta tornare fino ad Aberdeen per farmi spellare viva». La Steel si afflosciò ancora di più sulla sedia, rovesciando indietro la testa e fissando le luci al neon. «Se avessi saputo che Alex era lei e non lui…». Il senno di poi. C’era davvero da amarlo. «Forse può farsi dare un passaggio a Banff da Deano. Io dovrò restare qui ancora per un po’». Logan si collegò al computer. «E, come se questo non bastasse: Susan non potrà venire qui fino a domani. È venuta a trovarla quell’impiastro di sua madre. Ti giuro, non appena mi allontano un attimo da casa, quella donna arriva come un dannato avvoltoio. E ficca il becco dove non dovrebbe». La Steel fece una smorfia rivolta al soffitto. Silenzio. «Sai cosa dovremmo fare, Laz? Dovremmo andarcene in città. Berci qualche pinta di birra, mangiarci un curry e poi innaffiarlo con qualche altra pinta. E al diavolo Napier, e Alex Williams, e l’orribile madre di Susan, e tutti gli altri». «Non posso: ho una divisione da gestire». Lei agitò una mano in aria. «Eri più divertente, una volta…». Poi fece una pernacchia. «A pensarci bene, no, sei sempre stato un noioso musone». «Si senta libera di togliersi dai piedi quando vuole». Logan prese il foglio dei turni del sabato sera e scrisse i nomi e le matricole degli agenti nel taccuino a4 dalla copertina rigida che aveva preso dallo scaffale della cancelleria, elencandoli in base all’area operativa di ognuno. Erano quasi le quattro e mezzo, quindi avrebbero iniziato il turno nelle varie stazioni nel giro di un quarto d’ora, pronti a cominciare un altro magnifico sabato sera pieno di ubriachi da arrestare, risse da placare, atti osceni da fermare. Già, la gente che vale è tutta nelle divisioni, giusto? La Steel tirò fuori la sua finta sigaretta e se la ficcò in bocca. «Hai sentito del detective “Cacarella” Dawson?». Logan si schiarì la gola e mantenne lo sguardo sul taccuino. «È ancora in ospedale, da quel che ho saputo». Avevano quattro agenti a Banff e altri due a Mintlaw. Ce ne sarebbero dovuti essere sei a Peterhead e quattro a Fraserburgh, ma lì andavano contati anche quelli che dovevano controllare le celle, perciò si riducevano effettivamente a quattro e due. Per un sabato sera.
Se qualcuno si fosse reso conto di quanto fosse esiguo il numero di agenti che avevano a disposizione per controllare tratti enormi della Scozia, si sarebbe scatenato il panico nelle strade. La Steel si grattò di nuovo l’ascella. «Pensa, se ne sta lì a farsi fare le spugnature da tutte quelle infermiere carine. Bastardo fortunato». «Che lei ci creda o no, essere ricoverati in ospedale non è piacevole come pensa». Quindi, avrebbe dovuto mandare due agenti di Banff a Fraserburgh? O uno a Fraserburgh e un altro a Peterhead? «I medici l’hanno controllato, quando hanno visto che non la smetteva più con la diarrea. E hanno trovato un nodulo». Forse avrebbe potuto mandare un agente di Mintlaw a Peterhead, e uno di Banff a Fraserburgh. Sarebbe stato un minimo più giusto. Tutti avrebbero avuto un agente in meno, in quel modo, e in fondo Mintlaw non era un covo di… Ehi, un momento. «Hanno trovato un nodulo?» «Già. Un tumore. E l’hanno scoperto appena in tempo per salvarlo». Annuì, prendendo un lungo tiro dalla sigaretta elettronica. «Te lo dico io, Laz, mai parlare male di un kebab avariato: può salvarti la vita». Silenzio. Lei strinse gli occhi, fissandolo. «Ti senti bene? Sembri uno a cui abbiano appena ficcato un Kinder Sorpresa su per il culo». Lui chiuse la bocca con uno scatto. Sbatté le palpebre. Poi sorrise. «Sì. Sto bene. Be’, è una buona notizia, no? Una dose di lassativi gli ha salvato la vita. Fantastico». Perlomeno, ora la Nicholson avrebbe potuto smettere di sentirsi in colpa. La Steel intrecciò le dita dietro la testa. «Okay, quindi ora che sai che potresti cavartela, come toglieresti di mezzo Napier il Cataclisma Biondo?». Logan tornò al taccuino. «Non aveva l’omicidio di una bambina da risolvere, lei?» «Io penso che userei un martello. Lo so, lo so: è un classico abusato, ma penso che mi darebbe più soddisfazione spaccargli la testa che accoltellarlo». «Non ha la minima idea di cosa fare per quell’omicidio, vero?» «Le coltellate sono per i ragazzini e i perdenti. Un bel martello, quella sì che è un’arma seria per una donna». La Steel sollevò un braccio sopra la testa e mimò il gesto di prendere a martellate in testa un immaginario Napier. «Bang, thunk, thud, crack, splinter, squish, squelch…». «Sa, Helen… Mrs Edwards probabilmente se ne sta da qualche parte a rosicchiarsi le unghie, angosciata, mentre lei è qui a dire sciocchezze». La Steel sospirò, per poi posare il suo martello invisibile sulla scrivania. «E cosa dovremmo fare?». Iniziò a contare sulle dita. «Non ci sono tracce, non c’è dna, non ci sono testimoni e non sappiamo neanche chi sia. Se riuscissimo a trovare almeno l’arma del delitto, potrebbero collegarla alle schegge di metallo trovate nella ferita alla testa della bambina, ma non serve a niente, se non sappiamo dove sia». «Ma…». «L’unico sospetto al momento è Neil Wood, ed è scomparso. Hai ragione, a parte cercare di interrogare di nuovo tutti i dannati pervertiti della zona, prendendoli a schiaffi finché qualcuno non parla, non ho la minima idea di cosa fare». Incrociò le braccia sul petto, sollevando le spalle. «Avanti, Sherlock Holmes, dimmi cosa faresti tu al mio posto». Silenzio. Logan si mordicchiò il labbro inferiore. Abbassò lo sguardo sulla penna che stringeva tra le dita. «Be’…». «Non è così semplice, vero?» «Un appello nazionale per…».
«Già fatto. E abbiamo scatenato un pandemonio di mitomani». La Steel sollevò il mento. «Qualche altro brillante consiglio?» «Avete pensato ai movimenti delle maree? Si potrebbe capire dove il corpo…». «Abbiamo già un gruppo di biologi marini di Aberdeen che ci sta lavorando. Altro?». Logan tamburellò con la penna contro il taccuino. Guardò fuori dalla finestra, poi abbassò gli occhi sulla moquette. «Qualcuno deve pur sapere dove è finito Neil Wood». «E rieccoci all’idea di interrogare i pervertiti». La Steel sbuffò. «Accettalo, non stiamo facendo che girare in cerchio, sperando di ottenere qualcosa di nuovo. Dio solo sa come e quando arriverà, quel qualcosa di nuovo, però». «A tutte le unità, segnalato il furto di un barboncino fuori dal Lidl di Peterhead. Risponde al nome di “Knitted Dough”». Lei controllò l’orologio. «Tutto questo non ottenere nulla mi sta facendo venire fame. Quando si cena?» «Ci deve pur essere qualcosa che possiamo fare». «Non appena ti viene in mente, fammelo sapere e me ne prenderò il merito».
Sabato, turno di notte
Un giovane amore
Capitolo 32
Qualcuno passò nel corridoio fuori dall’ufficio, facendo cigolare le assi del pavimento. Logan mise un segno accanto a ogni agente del turno di notte di Banff nel suo nuovo taccuino. Premette di nuovo il pulsante della ricetrasmittente. «Okay, grazie, Joe. Sarò in giro per gran parte della notte, ma fammi un fischio se dovesse servirti qualcosa». «Lo farò, sergente». Fine: avrebbero saputo cosa fare fino alle tre del mattino. Non c’era niente di meglio di gestire un team che non aveva bisogno di supervisione. Logan mise la malandata telecamera nel caricatore accanto al vecchio e lentissimo computer e mise a scaricare le registrazioni nel sistema. Poi prese il cellulare e chiamò Peterhead. «Stubby, sono Logan. Cosa farete tu e i tuoi scagnozzi stanotte?». Il sergente Jane Stubbs fece una pernacchia al telefono. «Non mi dire… Davvero sei tu il sergente di turno, stasera? Non ti è bastata l’ultima volta?» «Sono un masochista, lo sai. Ascolta, vi manderei qualcuno da Mintlaw per darvi una mano. Non fatelo a pezzi». «Non posso promettere niente. Abbiamo un paio di soliti controlli a qualche rivenditore di alcolici, e potrebbe esserci qualche discussione, a un certo punto. Di solito di sabato capita. E poi ci sono un paio di effrazioni da seguire, qualche violazione di arresti domiciliari, e un bastardo che vende pasticche nei night club. Dice che si tratta di Viagra, ma in realtà è una droga da stupro». Logan annotò tutto sul taccuino. «Qualcuno avrà uno shock, stanotte». «Voglio beccare quello stronzo prima che ammazzi qualcuno». «Bene. Fammi un favore, tenete gli occhi aperti per Neil Wood, okay? Oh, e a proposito di effrazioni, se qualcuno vede Tony Wishart in giro, arrestatelo e fatemelo sapere». «D’accordo. Buon proseguimento». E a quel punto, Stubby staccò. Prossimo compito: chiamare la stazione di Mintlaw per dare la bella notizia che uno dei loro sarebbe dovuto andare a Peterhead per la notte. Poi sarebbe sceso al piano di sotto per decidere le priorità da seguire con il sergente di Fraserburgh, che al momento stava facendo il babysitter al coro delle celle, come da regolamento. Almeno questo significava che Logan non si sarebbe dovuto preoccupare del Twitter ufficiale della polizia per il resto del turno. Se il sergente McCulloch doveva starsene seduto nella stazione per tutta la notte, avrebbe potuto gestirlo lui. E poi… Logan tamburellò con la biro sul blocco degli appunti. Doveva esserci qualche caso, lì fuori, che si poteva risolvere senza un team di trecento persone e l’accesso completo al programma holmes. Qualcosa che avrebbe potuto sistemare da solo, prendendosene il merito. Qualcosa per togliersi di dosso le attenzioni indesiderate di Napier. Qualcosa che non gli sfuggisse di mano esplodendogli in faccia. Logan prese un grosso morso del suo hamburger, masticando carne, lattuga, cipolla e formaggio, insieme al pane e alle salse. Vero cibo. Cibo che non si doveva mangiare con un cucchiaio. Sul sedile del passeggero della Macchina Grande, la Steel si era sistemata un tovagliolino nel colletto della camicia e aveva della salsa rosa agli angoli della bocca. «Non sapevo che Wimpy esistesse ancora». Dal loro piccolo spiazzo ghiaioso, sul ciglio della strada che da Fraserburgh conduceva a Sandhaven, il mare si mostrava come un muro blu frangiato di bianco dove si incontrava con la
linea della costa. Un’enorme colonna di cumulonembi si innalzava dall’orizzonte, accesa dal faro del sole al tramonto. Con i finestrini abbassati, il profumo iodato delle alghe e le strida rauche dei gabbiani riempivano l’aria tiepida. Logan si ficcò in bocca un paio di patatine, poi prese un sorso di Fanta. «Pensavo a quello che ha detto Jack Simpson riguardo all’uomo che ha rifornito Klingon e Gerbillo». La Steel si leccò via dal polso una goccia di salsa. «Chi?» «Jack Simpson: quello che abbiamo trovato mezzo morto nella soffitta di Klingon». «Non mi interessa». Lei si succhiò un dito. «Insomma, che razza di posto ha ancora un Wimpy? È roba degli anni ’80! Benvenuti a Fraserburgh, terra di orologi digitali, mullet e spalline». Un altro morso, masticando a bocca aperta. «Non che mi lamenti, bada. Non mangiavo uno di questi da anni». «Jack ha detto che si faceva chiamare il Candelaio, o l’Uomo delle Candele. E nonostante lo stessero massacrando di botte, e probabilmente era strafatto di eroina, in quel momento, potrebbe aver capito bene». «Sei ossessionato da questo tizio delle candele». «Pensi al Candelaio… Candlestick maker». Logan alzò le sopracciglia, guardandola. «Allora? Le viene in mente niente?» La ricetrasmittente pigolò. «A tutte le unità da Controllo. Attenzione a una Audi verde, ricercata per non essersi fermata dopo un incidente sulla a95 a nord di Cornhill…». «Non puoi abbassare il volume?» «Sono di turno, ricorda?». La Steel continuò a masticare senza tregua. «D’accordo. Ma se finisco le patatine prima che tu finisca le tue, mi ruberò anche quelle. È la regola». «Da quando?» «Da quando ti ho dovuto offrire la cena». D’accordo, era giusto. Se ne ficcò qualcuna in bocca prima che la regola potesse essere messa in pratica. «Avanti: chi potrebbe usare Candlestick Maker come alias, tra quelli che conosciamo?». Lei strappò un altro morso dal suo hamburger. «Mmmnnghmmmph». «Martyn Baker, ecco chi. Ovvero: Paul Butcher. Ricorda la filastrocca per bambini, Rub-a-dubdub? The butcher, the baker and the candlestick maker…». «Ah, sì. Erano quelli che se ne andavano in mare in una bella barca verde pisello?» «No, quella è Il gufo e la gattina». Logan pescò un’altra patatina dal mucchio e la agitò verso la vista fuori dal parabrezza. «Ci siamo fatti condurre fuori strada perché Jack Simpson ha detto che il fornitore di Klingon aveva un accento di Newcastle o di Liverpool, ma in realtà il nostro Candelaio non viene da lì. È di Birmingham: Simpson doveva essere troppo fatto di eroina e massacrato di botte per comprendere la differenza. Martyn Baker è il nostro uomo». La Steel si spazzolò via le ultime patatine. «Oh, ben fatto, Miss Marple. È un vero peccato che tu non possa farci un bel niente. La Porter e il suo team ci saranno arrivati al primo giorno di indagini. Sarà sotto sorveglianza finché non porterà qui il prossimo carico, e allora boom, gli caleranno addosso come il pugno di Dio». Tirò su con il naso. «Vuoi davvero metterti in mezzo a questa storia? Perché ti schiacceranno come un insetto, se ci proverai». Vero. «C’è qualcuno nelle vicinanze della King Edward? Abbiamo una segnalazione di violazione di domicilio…». Logan prese un altro morso del suo panino, ma l’hamburger non aveva più il buon sapore di pochi minuti prima. Sarebbe potuto essere a casa sua a mangiare una deliziosa bistecca… Comunque, era molto più buono del barattolo di zuppa di lenticchie che lo aspettava alla stazione. «Il fatto che
stiano tenendo sotto controllo Martyn Baker non lo rende meno complice del pestaggio di Jack Simpson». «Sì, certo, buona fortuna». La Steel allungò una mano e prese qualcuna delle patatine di Logan. «Laz, io e te siamo in una nave che sta affondando, alla deriva nel Mare della Merda. Se vogliamo procurarci una scialuppa di salvataggio grande abbastanza per entrambi, dovremo pensare a un caso diverso. Che altro hai per le mani?» «Senza contare la bambina assassinata della Tarlair Outdoor Swimming Pool? L’unico altro caso interessante è quello dei furti di registratori di cassa». «Hmm…». La Steel strinse gli occhi fissando l’orizzonte, masticando il resto del suo hamburger in silenzio, con una pausa necessaria a inghiottire un sorso di Diet Coke. «E se riuscissimo a far identificare tutti e tre a Jack Simpson dal database viper? So che abbiamo dei video di Klingon e Gerbillo. E deve esserci per forza anche un file per Martyn Baker». «Non essere stupido. Te l’ho già detto: non ti faranno avvicinare a Baker neanche da lontano». La Steel pescò qualche altra patatina di Logan, e lui le tese l’intero cartone. Lei ne divorò un paio. «Parlami di questi furti di registratori di cassa». «Secondo quello che siamo riusciti a capire, sembrerebbe una gang venuta dal sud». Logan si ficcò in bocca l’ultimo pezzetto di panino. «Si procurano un furgone o un minibus, e fanno il tour delle piccole cittadine, portandosi via le casse di negozi e piccoli supermercati. Poi si riportano il bottino a sud e aprono le casse lontano da…». Si pulì la bocca con un tovagliolino. Poi guardò le onde, fuori dal finestrino, accigliandosi di colpo. «Un momento, ma se stanno tenendo sotto sorveglianza Martyn Baker, perché le hanno permesso di distruggergli la macchina, questa mattina?» «Te l’ho già detto: era già così quando l’ho trovata». «Ma l’abbiamo perquisito. E se avesse avuto con sé della droga? Sarebbe stato arrestato…». «E ti avrebbero fatto il culo non appena fossi tornato alla stazione». Il traffico cominciava a intensificarsi. Non che l’ora di punta fosse poi così esagerata, a Sandhaven. Due auto in una direzione, un trattore nell’altra. «A tutte le unità, cancellate la richiesta di ricerca della Audi verde. È stata trovata schiantata contro un lampione sulla b9025». La Steel finì le ultime patatine, poi si pulì con la punta di un dito, eliminando le ultime tracce di salsa speciale. «Che tipo di negozi attaccano?» «Piccoli supermercati. Be’, tranne il posto che hanno assalito a Fraserburgh: Broch Braw Buys». «Interessante». Lei si leccò il dito e si pulì le mani sui pantaloni. Recuperò il cellulare, toccando lo schermo e lasciandovi impronte unte. «Aspetta un attimo. …Sì, Andy? Sono Roberta. Sì, sono ancora bloccata con la brigata degli agenti di campagna… Ah, davvero?». Rise, facendo ondeggiare la pelle floscia sul décolleté. «Ascolta, Andy, sei tu che stai seguendo il caso dei furti delle casse, vero? Qualcuno ha pensato già che potrebbe essere un’operazione interna? Magari si tratta dei fornitori dei registratori di cassa, o qualcosa del genere…». Un furgone di trasporti li superò sulla strada. “bloo toon traslochi – forti abbastanza per spostare le vostre cose!” era la scritta stampata sulla fiancata, con il disegno di un grosso pesce che trasportava uno scatolone. La Steel annuì. «Uh-huh. Sì, immaginavo. Non importa, valeva la pena fare un tentativo. Dai un bacio con la lingua e una palpata a Dawn da parte mia, okay?… Sì, anch’io, Andy». Poi chiuse la telefonata. Fissò il cellulare per un attimo, imbronciata. E infine picchiò Logan sul braccio. «Te l’avevo detto che era un’idea stupida». «Già, ma che diavolo mi sarà mai passato per la testa?». Lui finì la sua Fanta. «Pensa che continueranno a colpire i piccoli supermercati?»
«Immagino che potremmo piazzare un agente in ogni supermercato del nord-est. Questo risolverebbe il problema». «Ha idea di quanto siamo sotto organico già adesso? Dove pensa che riusciremmo a trovare tutti quegli agenti?» «E allora niente». Un minibus li superò, con i finestrini abbassati. Sul retro, tutti i passeggeri indossavano magliette da calcio a strisce bianche e nere, come se fossero arbitri usciti insieme a fare baldoria. Un coro di «Uno a zero! Uno a zero!» si fece sentire nell’aria, portato via dal vento della corsa, troppo pieno di entusiasmo da qualche birra di troppo e molto poco intonato. Logan sentì la ricetrasmittente mandare un trillo. Si pulì le dita su un tovagliolino. «Parlate pure». «Sergente? Sono Deano». «Che ci fai ancora lì? Il tuo turno è finito un’ora fa». «Sono dovuto entrare nella casa di una vecchia signora. La figlia era convinta che la donna fosse morta ai piedi delle scale». «E non lo era?» «Nah, era solo ubriaca come una scimmia. L’ho trovata nel bagno del pianterreno, coperta di vomito». Si sentì il tonfo di una porta che si chiudeva, soffocato dal ricevitore della radio. «Senta, a quanto pare il marito della vecchietta è finito dentro per sei anni per aver molestato delle bambine. Faceva il fotografo. Sa, no? Foto posate per bambini. “Oh, non si preoccupi, può lasciare Jeanie con me, e il servizio fotografico sarà finito in tempo per quando tornerà dal suo giro di shopping”. Quel genere di situazione». Logan schiacciò tra le dita la lattina di Fanta e la lasciò cadere nella busta in cui gli avevano consegnato l’hamburger. «E ci è ricascato?» «No, a meno che non lo faccia dall’aldilà. È morto l’anno scorso. Il suo negozio ha preso fuoco… con lui dentro». Almeno una buona notizia. «E quindi…?». Sul sedile del passeggero, la Steel si concesse la sigaretta elettronica del dopo-Wimpy, sbuffando anelli di fumo deformi verso il parabrezza. «E nessuno dà lavoro a un fotografo pedofilo, quindi quando è uscito di prigione ha cominciato a scattare foto per dei concorsi. Ne ho viste alcune nella casa della vecchia signora». «Deano, mi sta passando la voglia di vivere, qui». «Si è piazzato quinto al concorso fotografico dell’“Aberdeen Examiner” di quattro anni fa. Con un ritratto di Neil Wood che cuoce delle uova nel suo Bed & Breakfast. Due anni fa, ha ottenuto un terzo posto per una foto di Charles “Craggie” Anderson vicino alla sua barca ormeggiata. Una delle persone che stiamo cercando ha la sua foto sulla parete della casa di un pedofilo, sergente». E Neil Wood non era l’unico scomparso poco prima che il corpo della bambina venisse ritrovato.
Capitolo 33
Logan sistemò il taccuino razziato nella stazione di polizia di Fraserburgh contro il volante, osservando con un’espressione accigliata la breve lista degli agenti che avrebbero fatto il turno di notte a Banff quella sera. Big Paul, Penny, Kate e Joe. Di quei quattro, Joe aveva il numero di matricola più basso, quindi era in servizio da più tempo. Logan lo chiamò sulla ricetrasmittente. «Qui Pattuglia Sette. Sei lì, Joe?» «Sì, sergente. Parli pure». All’esterno, la Steel stava salendo le scale d’ingresso del suo hotel, con il cellulare incollato all’orecchio e la finta sigaretta agitata in giro come la bacchetta di un direttore d’orchestra. Il vento si stava alzando, facendo danzare i bordi della sua camicia mentre spariva all’interno dell’albergo. Logan premette di nuovo il pulsante. «Dove ti trovi?» «Su Castle Street. Io e Penny stiamo facendo una ronda». «Bene. E gli altri?» «Kate è a Fraserburgh per la notte e Big Paul è fuori per seguire il furto di un paio di trattori dalle parti di Portsoy». Normale amministrazione. Meglio così. «Fammi un favore. Torna all’ovile quando hai un attimo, e fai una ricerca sul sistema su una persona scomparsa: Charles “Craggie” Anderson. Trovi tutti i suoi dettagli sulle slide del briefing. Prova a fare una ricerca più approfondita. Voglio sapere se ci sono delle informazioni interessanti su di lui». Ci fu una pausa. «Devo cercare qualcosa in particolare?» «Sì, ma non voglio influenzarti nella ricerca». «D’accordo, vedrò cosa esce fuori». «Grazie, Joe». Riagganciò la ricetrasmittente al giubbotto antiproiettile e posò il taccuino sul sedile del passeggero. Secondo l’orologio sul cruscotto, erano le sei e dieci. Era ora di cominciare la pattuglia. «A tutte le unità, stiamo cercando un certo Mark Lee, con mandato d’arresto per aggressione». Logan entrò nella Macchina Grande e lanciò il berretto dell’uniforme sul sedile posteriore. L’anziana donna se ne stava sulla soglia della sua minuscola villetta, a guardarlo mentre si allontanava. Un braccio stretto intorno al corpo, l’altro sollevato a rivolgergli un vago e poco convinto saluto con la mano. C’erano dei buchi nel suo cardigan, e altri nelle vecchie pantofole che portava ai piedi. Lui prese la ricetrasmittente. «Riguardo a quel furto con scasso nel capanno sulla King Edward: a quanto pare, si sono portati via un tosaerba, un tagliabordi elettrico e una sega elettrica. La vittima non aveva idea di quando fosse successo: può essere accaduto in qualsiasi giorno nelle ultime tre settimane». «Ricevuto. Il capanno era chiuso a chiave?». No. Ma in quel caso, la compagnia di assicurazioni si sarebbe rifiutata di pagare per quello che era stato rubato. «Sì, i ladri hanno rotto un vetro. Adesso ci hanno messo delle assi di legno». «Okay. Grazie».
Prese le strade meno frequentate, oltrepassando campi e fattorie isolate, investite dall’oro e dall’ambra del tramonto. Un gregge di pecore scintillava come un gruppo di statue di bronzo contro un campo di smeraldi. Alberi e siepi sfilarono via fuori dai finestrini. «A chiunque sia vicino a Cruden Bay, abbiamo ricevuto segnalazioni di una rissa fuori dal Golf Club…». Con un po’ di fortuna, la rissa si sarebbe già risolta da sola, nel tempo che un’autopattuglia ci avrebbe messo ad arrivare lì da Peterhead. L’ultima cosa di cui avevano bisogno, quella notte, era di altra gente in cella, a occupare spazio fino alla riapertura dei tribunali lunedì mattina. La voce di Stubby si fece sentire dalle casse dell’autopattuglia. «Ricevuto, Controllo. Qui Show Sierra Due Uno, ci stiamo recando sul posto». Logan oltrepassò il grande cimitero poco fuori da Macduff, le file dei morti freddi sotto l’erba scaldata dal sole. E tanto spazio perché altri andassero a raggiungerli. Dio, che pensieri cupi. Logan staccò la ricetrasmittente dal gancio e immise il numero di Joe nel tastierino. «Joe, puoi parlare?». Silenzio. Poi: «Mi scusi, sergente, stiamo facendo una perquisizione». «Okay, sto tornando alla stazione. Volevo sapere se avevi scoperto qualcosa. Fammi un fischio quando sei libero». «Certamente». Il fiume Deveron era un foglio di rame martellato accanto alla strada, scintillante nel suo corso fino al Mare del Nord. Perché quel Broch Braw Buys era l’unico negozio diverso da un piccolo supermercato rapinato dalla gang delle casse automatiche? Non aveva niente di così particolare, era soltanto l’ennesimo piccolo negozio. Forse c’era un qualche collegamento personale? Una vendetta contro il proprietario? Non era stato il primo negozio a essere colpito, quindi non poteva essere considerato un primo tentativo di prova. O magari era semplicemente facile da rapinare? Poteva valere la pena di andare a dare un’occhiata il giorno dopo, quando fosse stato aperto, e fare due chiacchiere con il proprietario. Scoprire se magari aveva motivo di temere ritorsioni, o si era fatto qualche nemico negli ultimi mesi. Probabilmente era una perdita di tempo, ma non si poteva mai sapere… Superò la rotonda, il ponte e lo Spotty Bag Shop, raggiungendo Carmelite Street. Un gruppetto di donne in gonna corta e tacchi alti passeggiava ridacchiando sul marciapiede. Indossavano tutte degli Stetson rosa, tranne quella al centro, con un velo bianco e una stampa con la p di “Principiante” addosso. Applaudirono e salutarono mentre Logan le superava. Entro un paio d’ore, almeno una di loro sarebbe crollata nel bagno di un pub, o avrebbe vomitato anche l’anima sotto la pensilina di una fermata dell’autobus. «Pattuglia Sette, qui Controllo, rispondete». Lui premette il pulsante della ricetrasmittente. «Vi ricevo, Controllo, parlate pure». «Abbiamo un certo sergente Creegan per lei dalla stazione di Kirkwall». Ci fu uno scatto, poi una voce maschile si udì dall’altoparlante della ricetrasmittente. L’accento sembrava più di Inverness che delle Orcadi. «Pronto? Sì, è lei che ha richiesto la ricerca della Vagabonda? Perché l’abbiamo trovata». «Fantastico. Grazie. E il proprietario, Charles Anderson, è lì?». Logan superò il cimitero molto più piccolo e antico che si trovava di fronte al supermercato Tesco di Banff. Lapidi decrepite e coperte dai licheni, strette l’una all’altra. Niente più spazio per i morti. «Ah… Sì e no».
«Quindi non è lì?». Un gruppo di ragazzi tatuati in jeans stretti e T-shirt con un numero stampato sopra attraversò la strada, sorreggendo un tizio con un cappello a tesa larga. Stavano cantando tutti in coro Flower of Scotland, con la totale mancanza di intonazione e vergogna che si poteva ottenere solo con litri e litri di alcolici. Sembrava che avessero cominciato i festeggiamenti un po’ prima del solito: erano appena le otto e già barcollavano. «Abbiamo trovato la barca sugli scogli, a largo della costa di South Ronaldsay. C’è stato un incendio a bordo, probabilmente scoppiato venerdì notte. Non resta molto della cabina coperta, o di Mr Anderson». «Quindi è morto». «Decisamente. Sembra che una parte del tetto della cabina gli sia finita addosso». Almeno, ora che le scimmie della Steel se n’erano tornate ad Aberdeen, c’erano molti più parcheggi liberi davanti alla stazione. Logan si infilò in retromarcia in quello davanti all’ingresso. «Okay. Be’, grazie di avermelo fatto sapere». Non era quello che si poteva definire un gran risultato, ma almeno potevano smettere di cercarlo. Certo, ora che Anderson era morto, forse non sarebbero mai riusciti a scoprire cosa era successo alla bambina gettata in mare a Tarlair. I ragazzi ubriachi dovevano essere diretti allo Ship Inn, perché si trascinarono lungo la strada dall’altra parte del parcheggio pubblico. Oltrepassarono una donna che se ne stava da sola accanto al muro che separava la strada dalla baia. La loro versione di Flower of Scotland fu sostituita da un coro di fischi e lanci di baci mentre le passavano accanto. Lei si girò a guardarli e poi tornò a fissare la distesa del Mare del Nord. «Immagino che ne avesse avuto abbastanza della vita. A volte succede, quando si tratta di pescatori. Decidono di volersene andare alla maniera dei Vichinghi». Logan prese il berretto dell’uniforme e uscì dalla macchina. «Secondo lei, quindi, non è stato un incidente?» «L’ipotesi più accreditata è questa: due litri di whisky, due di benzina e un fiammifero. E non è rimasto altro che ossa e cenere. Un modo spettacolare per andarsene all’inferno». E forse l’inferno era il posto dove Charles Anderson meritava di stare. Logan controllò per l’ultima volta la sua richiesta di mandato. Cambiò un paio di parole e lo inviò all’ispettore McGregor. Okay, l’ispettore capo McInnes era stato molto chiaro sul fatto che lui dovesse stare alla larga dall’Operazione Troposfera, ma questo non significava che Klingon, Gerbillo e il loro nuovo amico Martyn Baker potessero farla franca dopo aver pestato quasi a morte Jack Simpson. E ora: altre scartoffie. L’entrata sul retro si aprì con un tonfo, seguito dal suono di passi pesanti lungo il corridoio. L’agente Penny Griffiths fece capolino nell’ufficio dei sergenti. Era una donna minuta, con i capelli rossi tirati indietro dal viso rotondo. Un gran sorriso. «Buonasera, sergente. Le va un tè? Joe lo sta preparando». «Sì, grazie. Come vanno le cose lì fuori?». Lei imbronciò per un attimo le labbra, sollevando le sopracciglia. «Be’, abbiamo dovuto ammonire un tizio con un ridicolo cappello a tesa larga in testa perché stava facendo pipì dal muro del porto, ma per il resto è tutto nella norma. Le solite cose». Bene. E con un pizzico di fortuna, sarebbero state “le solite cose” fino al termine del turno. Penny accennò alle proprie spalle verso l’ufficio principale, dove i giornali erano appesi sulla parete della postazione di Maggie. «Ha visto le ultime edizioni? Hanno arrestato un tizio che è accusato dell’omicidio di Stephen Bisset. Che follia, vero? Può immaginare cosa stiano passando quei poveretti dei figli?» «Già, lo so».
Lei si girò per andarsene. «Abbiamo anche delle ciambelle, se vuole». «Sei la migliore, Penny. E chiunque dica il contrario è un idiota». Non appena lei se ne andò, Logan raggiunse l’ufficio principale e prese una copia dell’«Aberdeen Examiner». Il titolo – “volontario pervertito arrestato per l’omicidio di bisset” – era posizionato sopra una foto di un uomo sorridente, calvo e con un paio di folti baffi e la mosca. Era in un bar con altre due persone, i cui lineamenti erano stati resi indistinti dal giornale, per proteggere la loro privacy. La didascalia recitava: «marlon brodie scriveva un blog sulle pratiche sessuali estreme». Non c’era l’indirizzo web, ma non ci volle molto per trovarlo su Google. Secondo la pagina iniziale, Brodie traeva ispirazione da un libro intitolato Enciclopedia delle pratiche sessuali inusuali, scritto da una certa Brenda Love. Nome in effetti piuttosto appropriato. Sembrava che Brodie parlasse di tali pratiche senza un ordine particolare, sistemando le sue avventure in categorie e accompagnandole a commenti e piani per il futuro. Logan aprì un paio di pagine. Fece una smorfia trovandosi davanti quella in cui Brodie si faceva inchiodare lo scroto al tavolo della cucina da una sua ex. Poi ridacchiò alla foto dove aveva provato l’anaclitismo: chiunque trovasse sensuale indossare un pannolino non aveva il diritto di postare le sue foto su Internet. Rise ancora quando lesse del tentativo fallito di organizzare una cosa a tre per spuntare il triolismo dalla lista. Un’altra smorfia accompagnò la scoperta del feticismo per le punture d’ape, con tanto di foto prima e dopo il trattamento che costrinsero Logan a incrociare le gambe con un brivido. E infine, una storia piuttosto squallida su Brodie che pagava una donna conosciuta a una festa per permettergli di fare sesso con la sua ascella. Ascillismo? Non ne aveva mai sentito parlare. Insomma, ce n’era per tutti i gusti. Logan trovò il pulsante per elencare i post di Marlon Brodie in ordine di data invece che per argomento. Ed eccola lì, in cima alla lista: pseudonecrofilia. Joe comparve sulla porta dell’ufficio, con una tazza in una mano e una bustina di carta marrone nell’altra. «Un tè al latte e una ciambella alla marmellata». Si era tolto il giubbotto antiproiettile, e sfoggiava una T-shirt della polizia tesa intorno a una circonferenza toracica notevole. Lo stesso taglio fai da te di Logan faceva bella mostra di sé su un volto largo e squadrato, con una cicatrice a dividere in due un folto sopracciglio. «Grazie». Logan prese la tazza. «Sei riuscito a trovare qualcosa su Charles Anderson?» «A parte il fatto che è morto?». Il tè era caldo e con un buon retrogusto di latte. «Be’, è un buon inizio». «Era un padre di famiglia. Ha allenato una squadra di calcetto under-12 a Macduff per un paio d’anni». «Si sa per caso se faceva qualcosa d’altro, a parte allenarli?» «No». «Ma…?». Logan infilò una mano nella busta di carta marrone, tirandone fuori un disco zuccheroso e morbido. Delizia pura. Joe si appoggiò alla scrivania, incrociando le braccia sul petto. «La moglie l’ha lasciato tre anni fa. Differenze inconciliabili che hanno condotto al divorzio». «Si sanno i dettagli di queste differenze?». Il primo morso di ciambella fu incredibilmente soffice e dolce, con un leggero tocco di marmellata di lamponi al centro. Carne macinata con il purè, un hamburger e anche una ciambella alla marmellata nello stesso giorno. Era come festeggiare il Natale a maggio. «Avevano un figlio, Andrew. È scomparso cinque anni fa. Si è pensato che stesse giocando sul ciglio della scogliera vicino alla loro casa e che sia caduto in mare. Gli agenti hanno trovato un paio di giocattoli nelle vicinanze, ma il corpo non è mai stato rinvenuto. Probabilmente se l’è portato via il mare. Aveva quattro anni».
Povero piccolo. Logan prese un sorso di tè caldo al latte per inghiottire meglio il boccone di ciambella. «Non ci sono indizi che possano far pensare a un coinvolgimento del padre nella scomparsa?». Joe scosse la testa. «Anzi, tutto il contrario. Lui era convinto che qualcuno avesse rapito il bambino. Continuava a ripeterlo a chiunque lo stesse a sentire. Ha chiamato i giornali, sparso volantini con la sua foto, ma…». Un’alzata di spalle. «Il piccolo Andrew non era poi così fotogenico, così alla fine tutti si sono dimenticati di quella storia». «Tranne Charles “Craggie” Anderson». «Ed ecco le inconciliabili differenze di cui mi chiedeva. La ex-moglie è nel Devon, adesso. Voleva andarsene da qui e ricominciare da un’altra parte. Ma lui non ne voleva sapere». Un altro morso di soffice ciambella. «Se fosse stato tuo figlio, tu saresti partito?». Un sorriso si allargò sul volto squadrato di Joe. Tutto denti e minacce. «Se qualcuno provasse a toccare uno dei miei figli, gli strapperei le gambe e gliele ficcherei nel culo come il bastoncino di un lecca lecca». Il sorriso svanì. «Vuole sapere la coincidenza inquietante? Andrew è morto cinque anni fa, appena ieri». Lo stesso giorno in cui Charles Anderson aveva dato fuoco alla Vagabonda, concedendosi un funerale vichingo. Questo rendeva più o meno probabile che fosse stato lui a uccidere la bambina ritrovata alla Tarlair Swimming Pool? Poteva essere stato sopraffatto dal dolore della perdita del figlio, oppure poteva essere stato il senso di colpa… Difficile dirlo. «Sergente?». Un battito di ciglia, poi Logan si succhiò via lo zucchero dalle dita. «Scusami, mi ero perso nei miei pensieri. Grazie, Joe». «Non c’è di che». Non appena si ritrovò da solo, Logan lesse il post del blog di Marlon Brodie in cui si parlava delle sue esperienze di sesso sadomaso. Tamburellò con le dita sul pianale della scrivania. Leggendo ancora un po’, accigliato. Poi imprecò e si collegò allo storm. Con un paio di clic fece comparire sullo schermo l’elenco delle persone che lavoravano nel Team Investigativo Primario incaricato di indagare sulla morte di Stephen Bisset. Controllò il nome dell’ispettore capo che gestiva l’indagine, digitò il suo numero sul telefono e aspettò. Non ci fu risposta. Del resto, erano quasi le nove di sabato sera. Avrebbe dovuto cercare qualcuno un po’ più in basso nella gerarchia, che poteva essere ancora al lavoro. Compose il numero del successivo sulla lista. Fortunatamente, l’ispettore che aveva chiamato sembrava avere un maggiore senso etico del suo capo. Rispose al quinto squillo. «Per l’amor del cielo, che altro c’è?» «Ispettore Jackson? Sono il sergente McRae, della Divisione b. Avrei bisogno di parlarle a proposito dell’uomo che avete arrestato per la morte di Stephen Bisset». Si sentì un fruscio di carte, dall’altra parte della linea. «McRae, McRae, McRae… Ah, ecco. È lei. Mi stavo domandando quando sarebbe venuto a ficcanasare». Una pausa. «Se ha chiamato per mettere un piede in questa indagine, se lo scordi: direi che ha già fatto abbastanza». «È importante. Ha…». «Il caso doveva essere una passeggiata, e lei l’ha fatto crollare. Ora, se non c’è altro, avrei da lavorare». Logan rivolse il dito medio al telefono. «No, non c’è problema. In bocca al lupo con il vostro aborto di giustizia». E a quel punto, buttò giù il ricevitore. Milleuno.
Milledue. Milletré. Il telefono sulla scrivania squillò. «Stazione di Banff». «Cosa intende per “aborto di giustizia”?»
Capitolo 34
All’altro capo del telefono, Jackson mugolò. Imprecò. Emise uno sbuffo che morì in un sospiro. «Ma abbiamo il suo dna…». «Sì, e scommetto che se chiedeste alla scientifica di fare dei controlli anche sugli altri pazienti in coma, trovereste tracce dello sperma di Marlon Brodie». Altre imprecazioni. «È tutto sul suo blog. Stava provando la pseudonecrofilia. Solo che non ha dovuto pagare nessuno perché si fingesse morto: aveva decine di pazienti bloccati in coma in ospedale, pronti per lui». «Be’…». Il leggero suono di un tamburellio leggero riempì il silenzio, come se l’ispettore Jackson stesse battendo il ritmo con le dita. «Forse ha deciso di andare oltre? Niente più “pseudo”, insomma. Ha soffocato Stephen Bisset con un cuscino in modo da avere un cadavere con cui fare sesso?» «Non c’è alcun riferimento all’omicidio, nel suo blog. Scrive di quello che ha fatto e di quello che gli piacerebbe fare. Credo che abbia trovato un’opportunità e ne abbia approfittato». «Ma abbiamo il suo dna e… dannazione. È tutto indiziario, vero?» «Ha spiegato perché l’ha fatto?» «Il suo avvocato gli ha detto di rispondere solo e unicamente “no comment”». Ancora quel tamburellio. «Potrebbe comunque essere lui. Gah… ma se non è lui, allora chi?» «Pensa di essere lei quello che ha un problema? La mia fidanzata è stata ricoverata in coma in quell’ospedale per quattro anni. Non ho idea di quante volte quell’uomo possa essere stato da solo in stanza con lei». La mascella di Logan si serrò di scatto. Okay, non potevano più accusare Marlon Brodie per l’omicidio di Bisset, ma potevano comunque trascinarlo in tribunale per sfruttamento sessuale di incapaci. E, con un po’ di fortuna, qualcuno in carcere gli avrebbe strappato l’uccello costringendolo a ingoiarlo. «No, volevo solo sapere come te la stavi cavando». Logan percorse di nuovo in macchina Rundle Avenue. Non c’era traccia di gente che entrasse o uscisse dalla tana di Frankie Ferris. Dall’altra parte della linea, Helen tossì. «Scusami, l’odore della vernice comincia a infastidirmi un po’». «E allora fermati. Sdraiati, rilassati e leggi qualcosa». Rallentò e svoltò a sinistra in un breve vicolo cieco. Fece un’inversione a tre tempi. «Novità?» «Ci stanno ancora lavorando». Logan spense il motore e restò lì, parcheggiato sotto un lampione, con una visuale perfetta dell’ingresso di Frankie Ferris. «Helen, quando sei andata a controllare altre scene del crimine, hanno mai provato a rintracciare il tuo ex marito? Hanno fatto qualche verifica sulle tasse, per esempio, o con l’ufficio del catasto, o attraverso le contribuzioni pensionistiche, o cose simili?» «Sì, e hanno controllato anche ogni obitorio, ospedale e cimitero possibile. Ma Brian è sparito». «Deve pur essere da qualche parte». Un vecchietto passò sul marciapiede di fronte, quasi trascinato da un cucciolo di Staffordshire Bull Terrier. «Com’è stata la tua cena?». Un sospiro. «Il Team Investigativo Primario non ha alcuna pista, vero?».
Già, neanche una. «L’indagine è ancora all’inizio». Silenzio. Il cucciolo si mosse intorno a un lampione, annusando in giro per un po’, mentre il suo compagno umano mandava un messaggio sul cellulare. «Helen?» «Il salotto è quasi finito. Ancora una mano sui battiscopa e sarà fatto». «Ce la faremo. Te lo prometto. Troveremo…». «No. Non dirlo». Aveva la voce roca, esitante, come se le si fosse piantato qualcosa in gola. «Non promettere qualcosa che non puoi mantenere. Ti prego. Ci sono passata troppe volte». La linea tacque di nuovo. Solo quando Logan controllò lo schermo del cellulare, capì che la telefonata era finita. Helen aveva attaccato. E aveva ragione. Lui non aveva alcun diritto di prometterle qualcosa, perché non c’era niente che potesse realmente fare. «…furto con scasso a New Pitsligo. Qualcuno può andarci?». Logan girò la chiave nella toppa. Era una serratura nuova e scintillante della Yale, inserita in una normalissima porta di pvc non plastificato, che si apriva sul porcile maleodorante che Colin “Klingon” Spinney chiamava casa. Superò la soglia, lasciandosi avvolgere dal fetore dell’immondizia lasciata a marcire, del sudore stantio e della sporcizia unta. Si richiuse la porta alle spalle e accese le luci. Il salotto era come l’avevano lasciato mercoledì dopo la perquisizione, ma in cucina qualcuno aveva staccato dal muro l’unità dei fornelli. Probabilmente il Team Investigativo Primario dell’ispettore capo McInnes, venuto a verificare il luogo. Avevano fatto la stessa cosa con il frigorifero, per poter controllare dietro all’elettrodomestico. Una porta in fondo al corridoio conduceva al garage. Uno spazio buio e polveroso, pieno di ragnatele e lattine di birra vuote. Mozziconi di sigaretta. Scarafaggi. Scaffali pieni di scatoloni, barattoli di vernice e attrezzi da giardino sporchi. Delle macchie marrone scuro coprivano la parte centrale del pavimento di cemento, sotto la luce al neon sul soffitto. Doveva essere lì che Jack Simpson veniva pestato, prima che lo rinchiudessero in soffitta per picchiarlo di nuovo il giorno dopo. Tornò in casa e salì le scale appiccicose e luride. La ricetrasmittente fece sentire i suoi quattro segnali quando raggiunse il pianerottolo. La sganciò dal giubbotto antiproiettile, entrando nella stanza da letto più piccola. «Prego, parlate pure». «McRae? Sono l’ispettore Jackson». Ecco, appunto. «Come è andata con Marlon Brodie?». Mucchi di vestiti, immondizia e sacchi della spazzatura. La vista dalla finestra sarebbe stata piacevole, di giorno – tetti digradanti fino al mare – ma la luna era coperta dalle nuvole e tutto era immerso nell’oscurità, oltre il piccolo cerchio di luce del lampione. Jackson sospirò. «Ha detto che Stephen Bisset era già morto, quando è arrivato lì». «E cosa è successo ai suoi “no comment”?». Logan tornò sul pianerottolo. «Brodie ha cambiato idea, quando gli abbiamo detto che avevamo letto il suo blog». «Ah sì?». Avrebbero dovuto farlo subito. Nella stanza da letto più grande, l’immondizia era ammucchiata in un solo angolo, e il materasso era appoggiato all’armadio. Il dipinto di Gesù era storto sulla parete. Logan andò alla finestra e aprì le tende. «Ha ammesso di essersi masturbato su diversi pazienti in coma, sia maschi che femmine. Ha detto che vederli giacere in quei letti, così immobili e freddi, quasi morti, era una delle cose più sensuali
che avesse mai visto. E afferma che non stava facendo del male a nessuno. Nega comunque di avere qualcosa a che fare con l’omicidio di Bisset». Il giardino era illuminato dalla finestra della cucina, dal garage e dalle case da entrambi i lati. Era coperto di erbacce. Ciuffi di romice ed epilobio innalzavano le loro lance al cielo buio. In un angolo si intravedeva un cespuglio di rovi. Non c’era un capanno, ma si vedeva sulla sinistra un filo per stendere i panni, attaccato a una struttura in acciaio tutta accartocciata, come un albero vittima di una tempesta. L’erba era cresciuta a ciuffi, gli steli secchi e rossastri dopo la recente ondata di caldo. «E lei gli crede?» «Penso di sì. L’abbiamo interrogato una dozzina di volte, e non ha mai cambiato la sua versione dei fatti. È entrato nella stanza, ha trovato Stephen Bisset morto e ha colto l’opportunità per masturbarsi su un vero cadavere, tanto per cambiare». «Lo incriminerete per questo?» «Ci proveremo». «Bene». Un ciuffo d’erba sembrava più fitto degli altri. Vicino alla recinzione sul retro, l’erba era più corta e di un verde più intenso. Come se qualcuno ne avesse presa una zolla da un altro giardino ben curato, e l’avesse trapiantata lì, in quel rettangolo di devastazione e incuria che apparteneva a Klingon e Gerbillo. «Ascolti, McRae, mi spiace per la sua fidanzata. Non sappiamo dire se… be’, lo sa. Ma mi assicurerò che venga rinchiuso in carcere quanto più a lungo possibile». Perché solo quella zolla? Perché lì l’erba non era mezza morta e secca come nel resto del giardino? «Il problema è che se sta dicendo la verità e non ha ucciso lui Stephen Bisset, allora chi è stato?». Era come se ci fosse qualcosa sottoterra, capace di dare nutrimento alle piante. E non riusciva proprio a immaginarsi Klingon e Gerbillo là fuori con il fertilizzante in mano. Insomma, non erano proprio i tipi da pollice verde. «McRae? È ancora lì?». Logan lasciò ricadere le tende e premette il pulsante della ricetrasmittente. «Mi scusi. Sì, ci sono. Ascolti, qualcuno ha già parlato con i figli di Bisset?» «Non di recente. Io ho parlato con la madre appena abbiamo arrestato Brodie. Lei sa che abbiamo arrestato qualcuno per l’omicidio del marito, ma non sa chi. Be’, sempre che fosse sobria abbastanza da capire quello che le stavo dicendo, ecco». Logan tornò sul pianerottolo e scese le scale. «No, quello che sto dicendo è che sulle registrazioni delle telecamere di sicurezza non si vede nessuno entrare nella stanza di Stephen Bisset tra i suoi figli e Marlon Brodie. Non so lei, ma io credo che si sarebbero dovuti accorgere del fatto che il padre era morto. Quindi se era vivo quando sono passati a trovarlo i figli ed era morto quando è arrivato Marlon Brodie…». «Ma perché diavolo avrebbero dovuto uccidere il loro stesso…». «Non sarebbe stato un omicidio, per loro, ma un’eutanasia, forse. O magari è successo perché si vergognavano delle perversioni del padre. O non potevano accettare che il padre restasse lì come un vegetale per il resto dei suoi giorni. Non ha molta importanza, no?». Il braccio destro della Steel, Becky, aveva ragione, dopotutto. Anche se era una lagna, una spina nel fianco e aveva la faccia da scimmia. Logan percorse il corridoio e tornò in cucina. La chiave era ancora nella toppa. La girò e uscì nel giardino posteriore. «Incredibile…». Un sospiro si udì nella ricetrasmittente. «Okay, mando qualcuno a prenderli».
L’aria fredda gli accarezzò il volto, portandogli alle narici l’odore di anice e benzina della vernice protettiva per il legno, e quello polveroso della vegetazione secca. Logan staccò la torcia a led dal gancio e la accese. L’erba era soffice sotto ai suoi stivali, come un vecchio materasso sfondato. «McRae? Grazie. Le sono debitore». Eccolo. L’unico tratto d’erba verde in tutta quella giungla morente. Decisamente più corta, come se fosse stata rasata, o fosse cresciuta da poco. Scintillante, verde e sana sotto il cono di luce bianca della torcia. «Mi faccia un favore, ci vada piano con loro. Sono già abbastanza distrutti». «Vedrò cosa posso fare». Poi l’ispettore Jackson chiuse la chiamata. Logan rimise al suo posto la ricetrasmittente. Il tratto erboso misurava circa un metro e mezzo per una sessantina di centimetri. Dimensioni perfette se ci si voleva liberare di un cadavere. Compose il numero di Syd Fraser nella ricetrasmittente. Nessuna risposta. Quindi prese il cellulare e provò a chiamarlo da lì. «Pronto?» «Ehi, Syd, sono Logan. Logan McRae di Banff. Ti disturbo?» «Non so, me ne stavo in casa a bere una tazza di tè mentre guardavo I pantaloni sbagliati». «Se non ricordo male, uno dei tuoi cani è addestrato a ritrovare i cadaveri, giusto?» «Un momento». Si sentì uno scricchiolio, poi un soffocato: «È una cosa di lavoro. Torno tra un minuto». Un tintinnio e un altro scricchiolio, e infine Syd tornò a parlare: «Lusso ha fatto un po’ di addestramento per la ricerca di cadaveri, prima che la prendessi con me. L’addestratore che la gestiva si è lanciato da un ponte dopo una bottiglia di vodka, dodici confezioni di paracetamolo e una lettera di addio». «Quel tizio aveva chiamato il cane Lusso? Le unità cinofile sono piene di amanti della Ferrari, eh?» «Nah, quell’idiota l’aveva chiamata “Goldie”. Non so quanto ricordi ancora dell’addestramento, però; l’ho usata per anni per ritrovare denaro ed esplosivi. Armi nascoste, cose del genere. In quello è molto brava». Be’, sempre meglio di niente. Logan fissò il tratto d’erba verde. Avrebbe potuto semplicemente scavare un po’ e scoprire cosa c’era lì sotto, ma gli alti papaveri erano già abbastanza infuriati con lui perché non seguiva le procedure. Non aveva senso dare loro un altro pretesto per massacrarlo. «Pensi di essere libero, domani? Mi trovo in un posto dove potrebbe essere stato occultato un cadavere». «È lì adesso?». Altri movimenti. Poi quel cigolio di prima, e un mormorio: «Penso che andrò a far sgranchire le zampe ai ragazzi prima della nanna. Non aspettarmi se faccio tardi». Un altro tintinnio e tornò al telefono. «Okay, dove devo andare?». «Sì, tentato suicidio. Non un granché come tentativo, in effetti: si è graffiato i polsi, tutto qui. Non è stato difficile fermare l’emorragia». Logan appoggiò i gomiti sul davanzale. «Okay, grazie, Penny. Non appena l’ambulanza se ne va, tu e Joe potete fare un altro controllo sui luoghi che vendono alcolici? Vorrei tenere tutto sotto controllo, stanotte». «L’albergo è pieno?» «Credo che abbiamo al massimo quattro celle libere a Fraserburgh. Dopodiché, dovremo aprire quelle di Banff, o iniziare a inviare la gente a Elgin. E sai come andrebbe a finire». «Farò del mio meglio, sergente». Un paio di fari risalì la strada. Poi il Transit della polizia di Syd parcheggiò fuori della casa della madre di Klingon.
Logan rimise a posto la ricetrasmittente prima di scendere le scale e aprire la porta d’ingresso. Un minuto più tardi, Syd risalì il vialetto, insieme a un grosso golden retriever. Si era cambiato, indossando l’equipaggiamento da addestratore dell’unità cinofila, con il giubbotto imbottito sopra la felpa nera, un paio di cargo neri e degli anfibi Dr. Martens. Oltre al solito berretto della polizia vecchio e malandato calcato in testa. «Buonasera». «Ma non eri di turno, stasera, o sbaglio?» «Ho avuto una dispensa speciale da mia moglie e dall’ispettore. In questo preciso ordine. Finché non chiedo gli straordinari, va tutto bene». «D’accordo». Logan tornò nel corridoio. «C’è un…». «No». Syd alzò una mano. «Non me lo dica. Non voglio influenzare Lusso. Se mi dice dove pensa che sia il cadavere, lei lo capirà dal mio linguaggio corporeo». «Okay. Allora provi pure a trovarlo». Syd entrò e si bloccò, arricciando il naso. «C’è una puzza tremenda, qui dentro». «Ci si abitua». Logan rimosse l’elastico che teneva chiuso il copriobiettivo della telecamera e la accese. «Sono le ventidue e quaranta di sabato ventiquattro maggio. Sono presenti il sergente Logan McRae e l’agente dell’unità cinofila Syd Fraser». Un cenno. «Puoi andare, Syd». Lui tolse il guinzaglio al cane. «Avanti, Lusso. Trova il cadavere». Il golden retriever si mosse su e giù per il corridoio un paio di volte, poi cominciò ad annusare in giro. Trottando lungo i bordi, con il muso basso e la coda sollevata in alto. «Quindi…». Logan intrecciò le mani dietro la schiena. «I pantaloni sbagliati?» «Che c’è di male? È carino». Lusso si infilò nel salotto, annusando i bordi della stanza. «Non ho detto niente, infatti». «È un film in cui un uomo e il suo cane fedele risolvono un crimine e arrestano il cattivo. A chi non piacerebbe una storia così?» «Tocca le corde profonde del tuo essere un addestratore di cani poliziotto, no?» «Assolutamente sì». Il golden retriever continuò ad annusare il pavimento. Girò intorno al malandato divano un paio di volte. «Chiunque non apprezzi Wallace e Gromit si meriterebbe un calcio nel sedere. E comunque non c’è niente, qui dentro». Syd arretrò in corridoio. «Forza, Lusso, diamo un’occhiata in cucina». La ricetrasmittente di Logan emise un trillo. Restò indietro, mentre Syd faceva entrare il suo Gromit personale nella cucina. «Parlate pure». «Sergente McRae? Sono l’ispettore Jackson. Abbiamo inviato un’autopattuglia a casa di Stephen Bisset. Non c’è traccia di David e Catherine. La madre dice che non li ha più visti da mercoledì sera». Ovvero poco prima che mettessero fine alle sofferenze del loro caro papà. «Non hanno portato nulla con sé. Niente spazzolino, né vestiti, trucco o altro. L’unica cosa che manca è l’orsacchiotto preferito di Catherine. Quindi non sembra che fosse un atto premeditato». «Sono spariti mercoledì sera, e la madre non ha pensato di avvertirci?» «Non credo che abbia visto altro che bottiglie di gin, da una settimana a questa parte. Mi sto procurando un mandato di arresto e sto facendo spargere la richiesta per le ricerche». Be’, con un pizzico di fortuna, qualcuno li avrebbe ritrovati prima che il senso di colpa e il dolore li portasse a compiere qualche stupidaggine. Come quella che aveva fatto il precedente proprietario di Lusso, per esempio. «Grazie per avermi avvertito, lo apprezzo molto. Se doveste trovarli…». «Sì, glielo farò sapere». E a quel punto Jackson chiuse la comunicazione. Syd uscì dalla cucina. «Ha puntato il secchio dell’immondizia, ma lì dentro non so cosa stia marcendo, quindi era ovvio che ci fosse odore di cadaverina. Ora proveremo nel garage». Logan rimise la ricetrasmittente al suo posto. «C’è del sangue secco sul pavimento».
«Okay». Seguì Syd e Lusso nella stanza polverosa. Si appoggiò alla parete, mentre il golden retriever annusava i bordi della stanza, per poi sedersi al centro del pavimento, sopra alla macchia di sangue. Ovviamente, c’era da aspettarselo. «Brava ragazza». Syd accennò alla porta. «Andiamo al piano di sopra, ora». «A tutte le unità, stiamo cercando due persone: David e Catherine Bisset. Il primo è un maschio bianco di diciassette anni, la seconda una femmina bianca di quattordici. Entrambi con capelli neri lunghi fino alle spalle. Siamo in attesa di un mandato d’arresto». Non era un lieto fine, di sicuro, ma almeno quel maledetto casino avrebbe visto la sua conclusione, molto presto. Seguì Syd sul pianerottolo, filmando Lusso che andava da una stanza all’altra. Probabilmente sarebbero riusciti a uscirne patteggiando. Nessun Procuratore si sarebbe mai sognato di sbattere in carcere due minorenni devastati dal dolore per l’omicidio del padre in coma. La stampa avrebbe causato un pandemonio, altrimenti. E tuttavia… Logan aggrottò la fronte di colpo. Graham Stirling: scomparso, con la cucina della sua abitazione piena di sedie schiantate e piatti rotti, con tracce di sangue sul pavimento e sul frigorifero. Non si ammazza di botte un padre in coma, giusto? No, lo si accompagna alla fine con gentilezza, soffocandolo con un cuscino. Ma l’uomo che l’ha mutilato, che l’ha rapito e ha infangato la sua memoria… lui sì, ci si prenderebbe tutto il tempo del mondo per spaccargli la testa a martellate. Quei due non avrebbero mai lasciato vivere Graham Stirling. Non dopo quello che aveva fatto al loro padre. E se avessero voluto finirlo in fretta, la polizia avrebbe ritrovato il suo cadavere lì nella cucina, massacrato e insanguinato. Qualunque cosa avessero in mente, sarebbe stata lenta e dolorosa. Bene. Ma questo non significava che dovessero farla franca. Logan prese la ricetrasmittente e richiamò l’ispettore Jackson. «Credo di sapere cosa stessero facendo David e Catherine Bisset venerdì notte». «Se sta per dire che rapivano Graham Stirling, è arrivato con cinque minuti di ritardo. Ho già chiesto al laboratorio di controllare se il loro dna è compatibile con le tracce trovate sulla scena del crimine». Oh. Okay. «Non voglio sembrarle scortese, sergente, ma ho una caccia all’uomo da organizzare. C’è altro?» «No, mi scusi. Pensavo fosse giusto dirglielo». Mise via la ricetrasmittente. Come non detto. Syd sbuffò gonfiando le guance, mentre Lusso usciva da quel ricettacolo di colera che doveva essere il bagno. «Sembra che non ci sia nessun cadavere, da queste parti». «Sì, be’, già che ci sei, penso che dovresti provare anche con il giardino». Logan cercò di mantenere un tono noncurante, per non dare indizi di sorta. Scesero al piano di sotto e uscirono dalla porta della cucina. Le fredde dita del vento pizzicarono le orecchie di Logan, mentre il golden retriever annusava la recinzione, superando come se nulla fosse il tratto di erba verde. Non si fermò neanche per un attimo. Dannazione. Logan si appoggiò alla porta. «Quando era un cane per la ricerca dei cadaveri, se la cavava bene?» «Non ne ho idea». Lusso attraversò il giardino, continuando ad annusare il terreno, e poi tornò indietro.
Ancora niente. Syd si tolse il berretto e si grattò la pelata al di sotto. «Niente straordinario, siamo nel cuore della notte e vaghiamo per il giardino di un tossico». Sorrise. «Dobbiamo proprio essere fuori di testa per fare un lavoro del genere». «Già». Logan si ficcò le mani in tasca. Accennò al cane. «Non sta funzionando, vero?» «No». «Mi spiace di averti trascinato fuori di casa per niente». «Be’, valeva comunque la pena di fare un tentativo». Sganciò il guinzaglio da dietro la schiena. «Avanti, Lusso, torniamo a casa». Ma il cane non obbedì. Era tornato vicino alla recinzione, e girava intorno al tratto di erba nuova. Poi vi si sedette proprio al centro. Bingo.
Capitolo 35
«Dio, Klingon e Gerbillo sono come la manna dal cielo, eh?». Quelle parole arrivarono piatte e nasali, come se l’ispettore del turno di notte avesse bisogno di sturarsi le vie aeree superiori con uno scovolino. Starnutì. Poi tirò su con il naso. «Sei sicuro che sia lei?» «Be’… non al cento per cento, ma sicuramente c’è un cadavere lì sotto, capo». Logan arretrò, mentre un gruppo di figure in tuta bianca della scientifica andavano e venivano dalla porta della cucina. «La scientifica è pronta a scavare». Fuori dalla finestra, un tendone blu schioccava e si muoveva al vento, tenendo lontano da occhi indiscreti il punto del ritrovamento. «Hanno ucciso la madre di Klingon, e l’hanno seppellita nel giardino sul retro della casa? Ma sono pazzi?» «Be’, Klingon e Gerbillo non sono mai stati delle cime, se vogliamo». «Perché non l’hanno buttata in mare? Oppure potevano scaricarla nel bel mezzo del nulla, lontano da qui. Come se non ci fossero posti perfetti per occultare un cadavere, dalle nostre parti». «Certa gente è troppo pigra per fare ragionamenti del genere». «Questo posto dovrebbe essere la Mecca della gente che vuole liberarsi dei non-più-cari estinti. Potremmo vendere vanghe e T-shirt ricordo». Ci fu un lieve bussare alla porta e l’agente Griffiths fece capolino nella cucina. Sopracciglia inarcate e angoli della bocca in giù. «Sergente, c’è uno dei capi qui fuori, e sta schiumando. Big Paul non vuole farlo entrare, perché è la scena di un crimine». Oh. Logan prese un rapido respiro tra i denti stretti. «Hai idea di chi possa essere?» «Un certo ispettore capo McInnes, credo». L’uomo a capo dell’Operazione Troposfera. Non sarebbe stato piacevole. «Okay, grazie, Penny». Tornò alla ricetrasmittente. «Mi scusi, capo, devo andare. Qualcuno vuole rimproverarmi per aver fatto il mio lavoro». «Sarò lì appena possibile». Logan riagganciò la ricetrasmittente, rimise l’elastico sulla telecamera malandata, sollevò il mento e uscì a passo di marcia dalla cucina, percorrendo il corridoio e raggiungendo l’esterno. Big Paul era sul primo gradino, a bloccare la porta d’ingresso. Torreggiava su una figura in giacca e cravatta con lo sguardo omicida. Quello doveva essere McInnes. Big Paul controllò la cartellina che teneva nella mano enorme. La sua voce era un coro di profonde note di basso che facevano vibrare ogni cosa nel raggio di venti metri. «Lo so, signore, ma questa è la scena di un crimine, e io non posso farla passare finché la scientifica non dirà che si può fare. Queste sono le regole». McInnes andò avanti e indietro lungo il vialetto, come una belva in gabbia. La luce dei lampioni si rifletteva sulla chierica che aveva in cima alla testa, facendola brillare ogni volta che si girava, come un faro in mezzo a un mare di corti capelli grigi e ricci. Il volto era sottile, con rughe profonde ai lati della bocca e altre tra le sopracciglia. Era di una trentina di centimetri più basso di Big Paul, ma non sembrava intimidito dalla sua mole, evidentemente troppo abituato a farsi obbedire. «Non costringermi a chiamare il tuo comandante di Divisione!». «Prego, faccia pure». Big Paul si piegò in avanti, con la voce che scendeva a un rombo vibrante e minaccioso. «E ora torni dietro a quel cordone, prima che…».
«Va tutto bene». Logan gli posò una mano sul braccio. Solidi muscoli tesi sotto alla maglia nera. «Grazie, Paul. Da ora in avanti ci penso io». Lui si girò e sorrise. «Sì, sergente». Poi si fece di lato, lasciando che Logan lo superasse, un po’ a fatica, raggiungendo il vialetto, e tornando subito dopo a bloccare l’entrata. Le braccia enormi si incrociarono su un petto altrettanto enorme. McInnes puntò l’indice contro Logan. «A che razza di gioco pensa di giocare?». Una zaffata di colonia da vecchio signore gli arrivò alle narici come vodka da quattro soldi. «Stiamo solo…». «Le avevo espressamente proibito di interferire con l’Operazione Troposfera, oppure no? Perché sono piuttosto certo di averle detto di tenere quel maledetto naso lontano dalla mia indagine!». «Signore, deve capire che…». «è questo che intendevo!». Ancora una volta l’uomo gli puntò il dito addosso, questa volta colpendolo sul petto, più volte. «mi riferivo esattamente a questo, dannazione!». «Signore, deve calmarsi. Urlare non servirà a nulla». «e non mi dica di calmarmi, maledizione!». «Si stanno già aprendo le tende lungo la strada. È sicuro di volersi rivedere su YouTube mentre sbraita, grazie a qualche vicino ficcanaso?». McInnes prese un paio di profondi respiri a denti stretti. «D’accordo». La voce gli si abbassò a un ringhio sibilante. «Mi ascolti, sergente, e mi ascolti bene. Questa non è una stupida indagine divisionale del cazzo, è un’operazione internazionale ad altissimo profilo che coinvolge più agenzie, e lei la sta compromettendo!». Logan raddrizzò le spalle. «Con tutto il dovuto rispetto…». «Stia zitto! Le ho dato più di una possibilità di capire, ma in qualche modo, per il fatto di aver avuto la fortuna di sequestrare quel carico all’inizio, ora pensa di avere il diritto di decidere come si gestisce un’operazione che coinvolge un centinaio di uomini?» «Io non ho…». «Pensa che non sappia che ha chiesto a qualcuno di fare domande a Kevin McEwan e a Colin Spinney a Craiginches? E ora la ritrovo qui a scavare sulla mia fottuta scena del crimine!». I cani nel Transit di Syd sembravano averne abbastanza, perché secchi latrati simili a colpi di fucile cominciarono a risuonare dai finestrini aperti. McInnes marciò lungo il vialetto, fino al nastro bianco e blu con la scritta “polizia”, per poi tornare indietro. «Lei deve stare lontano da Kevin “Gerbillo” McEwan e Colin “Klingon” Spinney. Lei deve stare lontano da questa casa. Lei deve stare lontano dai loro amici. E se vengo a sapere che si è anche solo avvicinato di nuovo all’Operazione Troposfera, mi assicurerò personalmente che la sua vita sia rovinata per sempre». Pescò dalla tasca uno smartphone. «E, tanto per essere chiari: adesso chiamerò il mio capo, e mi assicurerò che faccia piovere una tempesta di merda sul suo comandante d’area. Si goda le conseguenze, sergente. Questo è l’ultimo avvertimento». «No, capo, con tutto il dovuto rispetto…». «Non ci provare, sergente!». Il raffreddore dell’ispettore del turno di notte non sembrava essere migliorato, nel frattempo. «Questa non è una situazione da “tutto il dovuto rispetto”, ma da “sta’ zitto e fai quello che ti viene detto di fare”». «Capo, io…». «McInnes ha chiamato il suo capo. Il suo capo ha chiamato il sovrintendente capo, che ha aperto le dighe di un oceano di merda. Che adesso sta piovendo su tutta la Divisione b a cascata, e ti assicuro che non mi piace ritrovarmici sotto! Devi stare lontano da Klingon, Gerbillo e l’Operazione Troposfera, sono stato chiaro?» «Ma abbiamo trovato…».
«Non me ne frega niente se avete ritrovato Shergar il cavallo vincente rapito, l’Arca dei Covenant o l’armadio per entrare nella fottutissima Narnia: ora basta! È finita. E adesso torna lì fuori e fai il tuo lavoro». Logan serrò le mascelle fino a sentire i muscoli esplodere. Riuscì ad aprire i denti stretti solo quel tanto che bastava a sibilare a fatica: «Sì, capo». E a quel punto l’ispettore chiuse la chiamata. La ricetrasmittente scricchiolò nel pugno di Logan. Si costrinse a prendere lunghi e lenti respiri. Non spaccarla sul marciapiede. Non pensare di poterne poi raccogliere i pezzi e ficcarli in culo a McInnes. Quindici minuti. Erano bastati quelli, a far piovere la merda di quel bastardo giù fino a lui. Quindici minuti. Una mano gli si posò su una spalla. Syd. «Sembra sul punto di voler ammazzare qualcuno». «Non tentarmi». «Era solo per dire». Aprì il portello del Transit, ricevendo qualche latrato di benvenuto dai cani. Un paio di sedili abbassati e qualche cassa di plastica riempivano il vano del furgone, oltre a una parete con quattro porticine, ciascuna con un’etichetta incollata sopra. “enzo” e “lusso” su quelle di sotto, “dino” e “non usare!” su quelle di sopra. L’odore dei cani era quasi soffocante. Qualcosa che sapeva insieme di pelo, sudore e carne al tempo stesso. Syd prese una grossa tanica di plastica da una delle casse e versò dell’acqua in una ciotola di metallo. «Pensi al lato positivo, se non altro abbiamo trovato qualcosa. I grandi capi non hanno fatto che diminuire i fondi all’Unità Cinofila ed ecco qui: riusciamo ancora a produrre risultati». Già. Giusto in tempo perché McInnes si presentasse lì, facesse un casino e si prendesse tutto il merito. «A tutte le unità, stiamo cercando un Isuzu Trooper rosso. Sospetto coinvolgimento nella rapina della cassa del supermercato di Gardenstown. Visto l’ultima volta sulla strada per Dubford». Quindici minuti. Grazie, ispettore capo McInnes. Logan tamburellò con le dita contro il volante della Macchina Grande. «Abbiamo ricevuto una segnalazione di un’aggressione su Broad Street, a Fraserburgh, a duecento metri dal Crown Bar…». Rundle Avenue era tranquilla. Qualche chiazza di luce trapelava dalle tende di un soggiorno o di una stanza da letto qui e lì, ma per il resto, era tutto buio. Un gatto rosso scivolò lungo la strada, a due macchine di distanza da dove Logan era parcheggiato. Saltò su un muretto e si fermò lì per qualche secondo, prima di scendere e sparire dietro l’angolo della casa che Martyn Baker condivideva con la ragazza e la bambina. Stai lontano dall’Operazione Troposfera. Fai quello che ti viene detto. Sii un bravo poliziotto diligente che non si fa domande e non crea problemi. Logan strinse le dita intorno al volante fino a farsi tremare le braccia. «A chiunque sia nelle vicinanze di Crimond, abbiamo ricevuto segnalazioni di effrazioni multiple…». Avrebbe potuto costruire qualcosa per incastrare Baker. Non era esattamente una mossa etica, ma in fondo cosa comportava seguire l’etica fino in fondo? L’etica permetteva a gente come Graham Stirling di farla franca dopo aver torturato Stephen Bisset. L’etica permetteva ai criminali di girare a piede libero, anche quando sapevi che erano colpevoli. E Martyn Baker lo era.
«Pattuglia Sette, potete parlare?». Logan staccò le dita dal volante. Le nocche erano pallide e dolenti. «Parlate pure». «Sergente, sono Penny. Abbiamo un problema a Macduff, pensa di poterci dare una mano?». Certo, non poteva sperare che andasse tutto liscio, per una notte. Si afflosciò sul sedile, fissando il tetto della macchina. «Sergente? È ancora lì?» «Sì. Okay». Un lungo, profondo sospiro lo svuotò del tutto. «Dammi l’indirizzo». Market Street era un’altra collezione di casette scozzesi, per la maggior parte piccole e con un abbaino sopra a un singolo piano, muri esterni timpanati, camino e tegole grigie. Una fitta fila di auto parcheggiate si stringeva a un lato della strada, una linea gialla di divieto di parcheggio si estendeva sul lato opposto. La luce giallastra di un singolo lampione dava alla scena un’aria triste e malaticcia. Logan parcheggiò con due ruote sul marciapiede. Non bloccava la strada, ma di sicuro la stringeva parecchio. Un respiro profondo. Poi prese il berretto dell’uniforme dal sedile del passeggero e uscì dalla macchina. Il vento gli afferrò i pantaloni. Portava con sé un sentore di alghe e iodio dal mare in fondo alla strada. Fece rotolare sul marciapiede un pacchetto vuoto di patatine. Si sentiva un vago profumo di sale nell’aria. Penny uscì da una porta due case più in là e gli rivolse un cenno. «Grazie, sergente». Lui si avvicinò a lunghi passi, calcandosi il berretto in testa. «Non riesco ancora a capire perché non potevate cavarvela da soli». «Non vuole ascoltarci. Continua a ripetere che ha il letto pieno di ratti». Logan si fermò. Fissò il marciapiede pieno di crepe e striato di muschio. Serrò la mascella, al punto da dover scandire le parole tra i denti stretti. «Questo non è un caso di cui si deve occupare la polizia, ma gli assistenti sociali!». Quando rialzò lo sguardo, Penny aveva incrociato le braccia sul petto, gli angoli della bocca incurvati verso il basso. «Lo so, sergente». Un altro sospiro. Logan si strinse il setto nasale tra due dita. «Scusami. È stata una giornata lunga». Molto lunga e anche molto brutta. «Abbiamo provato con i servizi sociali, ma ci hanno detto che non possono mandare nessuno fino a lunedì. Mrs Ellis continua a vagare per la strada di notte, e lo sta facendo ininterrottamente da due settimane. In pigiama. E ha ottantadue anni». Il vento afferrò il berretto di Logan, strattonandolo. Ottantadue anni, e vagava per strada con quel freddo, al buio. Non sarebbe passato molto tempo prima che si prendesse una polmonite mortale, o finisse sotto una macchina. Afflosciò le spalle. «D’accordo, vediamo di sistemare questa faccenda». Alzò il mento e tentò un sorriso forzato. Non era colpa di Penny, né di quella vecchietta svitata. Era colpa dell’idiota che aveva pensato che abbandonare a se stessi gli individui vulnerabili fosse una buona idea. «Sì, sergente». Penny lo guidò in uno stretto corridoio pieno di mensole adornate di minuscole statuine di porcellana. Perlopiù cani e gatti, ma non mancava qualche vecchia e sdolcinata figuretta di bambino in pantaloni a sbuffo o in camicia da notte. Le pareti erano coperte di pannelli di legno scuro, e la luce era fornita da una lampada da scrivania a basso voltaggio. Penny accennò a una porta chiusa. «È lì dentro». Logan aprì la porta ed entrò in un piccolo soggiorno. Altro legno scuro. Altre mensole. Altre inquietanti statuine di porcellana, illuminate da una singola lampada. I loro occhi dipinti lo fissarono scintillanti dalle ombre pesanti.
Un orologio decorativo ticchettava in mezzo ad altre statuine sopra la cappa del camino, le sottili lancette d’ottone che segnavano l’ora sul quadrante. Big Paul era seduto su un divano a due posti, le ginocchia che arrivavano quasi al petto. Quando si alzò, dovette piegarsi per evitare di sbattere la testa contro il soffitto. Gli rivolse un cenno. «Sergente. Questa è la signora Ellis». L’altra occupante della stanza era una vecchietta minuta, magra come un chiodo. I capelli sottili, diradati e argentei le incorniciavano un viso segnato dal tempo, che sembrava aver visto molta più sofferenza di quanto sarebbe giusto provare in una singola esistenza. Era come se ciascuno dei suoi ottantadue anni le fosse stato inciso sul volto con una lama. Indossava un vecchio pigiama di flanella, il cui tessuto era talmente consumato da risultare quasi trasparente sulle ginocchia e sui gomiti. Una mano stringeva come un artiglio il bracciolo della poltrona. L’altra era serrata sul manico di un lungo coltello per affettare il pane. Okay. Logan si sfilò il berretto. «Sta preparando dei sandwich, signora Ellis?». Lei sbatté le palpebre sugli occhi infossati. «Avrei voluto prendere un coltellaccio da cucina, ma non ce l’ho. E comunque non sono topi, sono ratti». «Ratti». Lei ritirò le labbra su due file di denti ingialliti, perfettamente regolari, incuneati in gengive di plastica marroncina. «Ratti nelle pareti. E sotto le assi del pavimento». La signora Ellis strinse le ginocchia e dondolò avanti e indietro sulla poltrona. «Escono di notte e… mi entrano nel letto. Corrono sotto le lenzuola, con i loro artigli affilati e gli occhi scintillanti». L’orologio sulla cappa continuò a ticchettare, mentre le statuine di porcellana osservavano la scena dalle ombre più buie. Logan si infilò il berretto dell’uniforme sotto un braccio, tendendo una mano verso la donna. «Che ne dice di mettere giù quel coltello, intanto, signora Ellis?». Lei se lo strinse al petto. «Graffiano e mordono, e non mi lasciano dormire. Perché non mi lasciano dormire?» «Okay». Matta come un cavallo. Logan si girò verso Penny. «La stanza da letto?». L’agente indicò sopra di loro. «Grazie. Coraggio, signora Ellis, andiamo a vedere questi ratti». Le scale erano in fondo allo stretto corridoio. Scricchiolarono e cigolarono fino a un pianerottolo dal soffitto così basso che quasi non si riusciva a starci dritti in piedi. Una singola porta si dipartiva da quel punto. Logan entrò in una stanza claustrofobica con il soffitto digradante, un piccolo armadio e un letto matrimoniale che si sarebbe potuto definire “antico” a voler essere buoni, e “legna da ardere” a voler essere realistici. Il materasso non se la cavava molto meglio: affondava nel mezzo, trascinandosi dietro gli strati di ruvide coperte e i cuscini. Le assi del pavimento protestarono quando Logan si avvicinò al lato opposto del letto. La signora Ellis si fermò sul pianerottolo, nascondendosi dietro lo stipite della porta, il coltello stretto in entrambe le mani. «Visto? Che le avevo detto?». Logan accennò alle coperte. «I ratti sono lì, adesso?». Lei lo fissò sbattendo le palpebre. «Certo che ci sono! Non li vede?» «No, volevo dire: sono tutti lì? Nel letto. Non nelle pareti o sotto le assi del pavimento. Sono tutti lì nel letto?». La donna annuì. «Molto bene». Logan prese il manganello estensibile, facendolo scivolare fuori dal fodero, lo allungò completamente… e cominciò a colpire con violenza le coperte e i cuscini. Abbattendovi sopra la canna di metallo, più e più volte. Dannato McInnes e la sua dannata – thump – dannatissima – thump – Operazione – thump – Troposfera – thump, thump, slam, thump. Dannato Martyn Dannato Baker. Dannato Klingon.
Dannato Gerbillo. Dannato Napier. Slam, thump, thump, thump. Le coperte danzavano e saltavano sotto quella gragnuola di colpi. Dannati tutti quanti. Thump, slam, thump.
Capitolo 36
Logan abbassò il manganello e arretrò di un passo, con il respiro affannoso. L’aria gli bruciava in gola e nei polmoni. Le braccia facevano male. Un formicolio feroce gli risaliva dalla punta delle dita su fino ai gomiti. Si sentiva avvampare in viso, mentre un rivolo di sudore gli scendeva tra le scapole. Alzò lo sguardo, sbuffando e ansimando. «Co… cosa c’è?». La signora Ellis era immobile sulla soglia, con una mano premuta sulla bocca e gli occhi spalancati. Penny era sul pianerottolo dietro di lei, con un’espressione molto simile sul viso. «Sergente?». Ci volle un po’ di tempo, prima che il respiro gli tornasse più o meno alla normalità. Indicò il letto. «Ecco… ecco fatto. Niente… niente più… ratti». La vecchietta zoppicò in avanti, allungò una mano e tirò via le coperte. Poi alzò lo sguardo su Logan e un sorriso le si allargò sul volto. «Sono andati via!». Si mise a letto, tirandosi le coperte fin sotto il mento, chiuse gli occhi, e in cinque secondi netti il respiro le si fece lento e regolare. Okay… Logan uscì dalla stanza e spense la luce. Se ne andarono in silenzio. «…segnalazioni di una Volvo bianca con guidatore in stato di ebbrezza sulla a950 tra Longside e Mintlaw…». Logan osservò nello specchietto retrovisore l’autopattuglia di Penny e Big Paul che si allontanava dal marciapiede, sparendo per le strade di Macduff, pronta a portarli verso i controlli dei pochi rivenditori di alcolici ancora aperti all’una e mezzo della domenica mattina. La casa della signora Ellis era tranquilla e buia. Lì dentro ormai c’erano soltanto l’anziana donna e la sua collezione di porcellane inquietanti, adesso che i ratti erano morti. «C’è qualcuno che può occuparsi di un tentativo di aggressione a scopo di rapina su King Street a Peterhead?». Lui accese il motore della Macchina Grande e percorse Market Street, superando le file di piccole case e il Plough Inn. La strada era silenziosa. Altre piccole case. Il vento si stava facendo più forte, e le raffiche si abbattevano contro la carrozzeria della macchina. Superò la piccola pescheria e si ritrovò fuori dal centro abitato. L’acquario di Macduff era l’unica cosa che lo separava dalla massa nera e ondosa del Mare del Nord. Metà dei lampioni del parcheggio erano spenti, lasciandolo per gran parte immerso nell’oscurità. Il camper parcheggiato all’esterno della recinzione temporanea ondeggiava sotto le raffiche di vento. Le sue pareti di plastica bianca scintillavano per gli inserti color ambra. E una figura scheletrica e sporca con addosso una tuta ancora più sporca se ne stava seduta sul gradino del camper. Sammy Wilson. «Non di nuovo…». Logan si accostò al parcheggio e si fermò davanti al camper. Abbassò il finestrino. «Sammy?». L’uomo era seduto con la testa rovesciata indietro e il viso rivolto al cielo buio. Un braccio abbandonato in grembo e l’altro che gli pendeva lungo il fianco. Le gambe piegate e larghe. «Sammy? Tutto bene?». Niente.
E tanti saluti all’idea di restarsene al caldo e all’asciutto in macchina. Logan si mise il berretto in testa e uscì. L’umidità gli aggredì il volto. Non era pioggia, ma la schiuma nebulizzata del mare fin troppo vicino. Le onde mugghiavano e si abbattevano contro gli scogli, per poi ritirarsi sibilando sulla spiaggia sassosa. Il fetore di carne marcia e cipolle circondava Sammy Wilson come una coperta protettiva. Nessun movimento. Quell’idiota doveva essere andato di nuovo in overdose. Lo aspettava l’ennesima corsa in ospedale e una dose di Narcan per salvarlo. Sempre che non fosse già troppo tardi. «Sammy?». Logan allungò una mano e lo scosse leggermente. «Gaaaaaaah!». Le braccia di Sammy si allargarono di scatto, piedi e gambe che si scuotevano come le zampe di una rana moribonda contro l’asfalto del parcheggio. Occhi sgranati e bocca spalancata. La puzza che lo circondava sembrò intensificarsi di almeno il cinquanta per cento. boom – un’altra onda si abbatté contro gli scogli. Logan arretrò di un paio di passi. «Che diavolo ci fai qui fuori? Stai cercando di suicidarti?». Un ansito. Un sospiro. Un suono malato e sibilante. Poi si passò una mano ossuta sul viso sporco. «Pensavo che fosse…». Si schiarì la gola. «Sì. Certo. No». «Sembravi in overdose». Sammy espirò. Chiuse gli occhi e rovesciò di nuovo la testa indietro, premendo la nuca contro il camper. «Nah. Sa, mi stavo soltanto godendo l’aria della notte nella bella e soleggiata Macduff. È così piacevole». Sì, certo. Oppure, più probabilmente, si era trovato un posto tranquillo dove farsi di eroina. Eppure, dovevano esistere luoghi più asciutti e caldi del parcheggio dell’acquario. Logan gli picchiettò una gamba con lo stivale. «Ti avevo già detto di non venire a bivaccare qui». «Venire a bivaccare? No, certo che no. Non io. Sammy non sta bivaccando, è solo James Bond che attende il suo contatto, sì? Per scoprire qualcosa dell’Uomo Candelaio per venti sterline. Soldi in cambio di domande». boom. Un altro spruzzo di acqua marina vaporizzata colpì il caravan, raggiungendo un orecchio di Logan come un migliaio di punture di zanzara. «E non potevi trovare un posto più asciutto per farlo?» «Ce l’ha le altre dieci sterline? Dieci subito, dieci per le domande. Venti in tutto». Una mano lurida si tese verso di lui, con le dita tremanti. «Niente soldi, niente informazioni». «Avanti, allora: chi è? Come si chiama il fornitore di Klingon e Gerbillo?». La mano esitò per un attimo, poi tornò lentamente indietro, accompagnata da un sospiro. «Sto ancora domandando in giro». «E allora per adesso niente dieci sterline. E smettila di girare intorno all’acquario. Trovati un posto caldo per dormire, invece». Logan si voltò verso la macchina. «Non voglio più ripetertelo». Il vento scuoteva i lampioni, facendo danzare e tremare i cerchi di luce giallastra mentre la Macchina Grande scivolava per le strade vuote. Macduff dormiva. Niente auto, niente taxi; nient’altro che asfalto, pietra, vento e oscurità. Risalì la strada fino al monumento. Superò il campo da golf. Oltrepassò il centro cittadino. Poi controllò di nuovo l’acquario – Sammy Wilson era sparito – e raggiunse il porto. Dopodiché, Macduff sparì nello specchietto retrovisore. Superò il ponte e rientrò a Banff, seguendo le strade della città, percorrendo anche i vicoletti dove di solito si trovavano gli spacciatori. Ma nessuno di loro era abbastanza stupido da starsene fuori a quell’ora di notte e con quel vento. Tre giri di Rundle Avenue non lo portarono a niente. Oh, be’. C’era sempre domani.
Tornò indietro verso la stazione di polizia, tagliando lungo Strait Path, tra la Royal Bank e l’M&Co. Superò vetrine coperte di assi di legno e negozi in vendita, guidando in mezzo alla stretta corsia. «Bravo India a Controllo, segnalazione di un’auto in fiamme in un campo sulla a981 a nord di Strichen». La voce dell’ispettore del turno di notte gracchiò nella ricetrasmittente, rauca e nasale. «E perché dovrebbe interessarmi?» «Si tratta di un Isuzu Trooper rosso. Potrebbe trattarsi di quello che ha rapinato il supermercato a Strichen». «Gah… non potevano aspettare altri venti minuti? Il turno è quasi finito». Un sospiro. «D’accordo. Arrivo appena possibile». Logan scese fino in fondo alla strada e svoltò a sinistra. Non c’era anima viva in giro. Una goccia di pioggia lo raggiunse sulla guancia, dal finestrino aperto. Poi un’altra. Perfetto. Girò l’angolo e si immise su High Shore, con i suoi edifici antichi. Superò l’altro lato del vecchio cimitero… e si fermò. Ingranò la retromarcia e arretrò di un metro. Uno Stetson rosa sporgeva tra le vecchie lapidi, ondeggiando su e giù. Lui abbassò del tutto il finestrino, e fu a quel punto che gli arrivò un duetto di gemiti e mugolii, a ritmo con il movimento dello Stetson. Santo cielo, era quella l’ultima frontiera del romanticismo? Una sveltina in un cimitero nel bel mezzo della notte? Logan fece per premere il pulsante dei fari laterali. Poi ci ripensò: solo perché aveva avuto una giornata orribile e una notte ancora più orribile, non significava che dovesse rovinarla a qualcun altro. Anche se quel qualcun altro stava infrangendo la legge. Mugolii e grugniti si erano fatti più rapidi e forti. Poteva lasciare in pace quei due poveracci a godersi la loro sveltina. Dopotutto, chi poteva vederli alle tre meno un quarto del mattino? E poi, arrestarli avrebbe significato altro lavoro d’ufficio, altri moduli da riempire e un altro viaggio fino a Fraserburgh. Rientro garantito dopo le quattro, poco ma sicuro. Sollevò il vetro, richiudendo il finestrino. Sarebbe tornato alla stazione, si sarebbe occupato delle scartoffie del turno e poi sarebbe tornato a casa. Uno sbadiglio enorme gli scardinò la mandibola e lo lasciò afflosciato sulla sedia, mentre spegneva il computer. Tutto finito. Spinse indietro la sedia e si tirò in piedi a fatica. La stazione sembrava un obitorio. Vuota e silenziosa, ma con tutti gli odori strani che gli agenti del turno di notte si lasciavano dietro. Dio solo sapeva cosa avessero mangiato a pranzo, ma la puzza infestava ancora l’edificio. Logan chiuse nell’armadietto il taccuino, prese il giubbotto antiproiettile e il berretto dell’uniforme. «’Notte, Hector». Infine, uscì nell’oscurità. Il vento ululava nella baia, spingendo onde enormi contro la spiaggia. Almeno, la pioggia non si era intensificata, fermandosi a tratti. Si affrettò a superare il parcheggio, attraversò la strada e armeggiando con le chiavi aprì la porta di casa. Si fermò nell’ingresso buio. La casa era immersa nel silenzio, a parte qualche occasionale scricchiolio. Il che significava che probabilmente Cthulhu era in salotto, a dormire di nuovo con Helen. Piccola palla di pelo traditrice.
Logan aprì le chiusure di velcro del giubbotto antiproiettile e lo appese sullo schienale di una sedia in cucina. Aprì il frigo. C’erano due bistecche alte e succulente in un piatto, scintillanti e crude. Una delle birre della Steel era dietro a quelli che sembravano avanzi di maccheroni al formaggio. Giusto quello che si meritava, dopo una giornata di merda come quella. Uno scricchiolio. Logan spalancò di scatto gli occhi. Un raggio di sole sfiorava le fessure tra le tende, ma la radiosveglia segnava ancora le 04:40, i numeri digitali scintillanti nel buio. Un altro scricchiolio, appena fuori dalla stanza. Poi la porta si aprì. Un sussurro nell’oscurità. «Logan? Sei sveglio?». Lui si mise a sedere sul letto. «Hai bisogno di qualcosa?» «Non riuscivo più a restarmene lì sdraiata: l’odore di vernice mi stava uccidendo». La porta si richiuse. Il fruscio leggero, in avvicinamento, di piedi nudi sulle assi del pavimento. Poi Helen si infilò nel letto. «Non dire nulla, okay?». Gli avvolse un braccio intorno al petto e gli appoggiò la testa contro la spalla. «Non è niente di preoccupante. Voglio… voglio soltanto dormire». Lui si schiarì la gola. «Okay. Ma al momento sono nudo». Silenzio. «Helen?». Il respiro di lei era profondo e regolare. Si era già addormentata.
Capitolo 37
La radiosveglia si destò con una spiritata versione tutta fisarmoniche e violini di One Week dei Barenaked Ladies. Logan sospirò gonfiando le guance e con un grugnito di protesta allungò una mano a premere il pulsante per spegnerla. Altri cinque minuti. Si girò e sussultò. Il mondo era pieno di cavatappi biondo cenere. Un respiro li mosse dolcemente. «Gnnn…». Helen Edwards si girò sulla schiena. Lo guardò sbattendo le palpebre. «Che… ore sono?». Lui sussultò di nuovo. Quelle parole gli erano rotolate addosso lungo il cuscino insieme a una zaffata di quello che si sarebbe potuto definire soltanto come fetore di fogna. Spostò il viso, in caso anche il suo fiato avesse lo stesso problema. «Le nove». «Troppo presto». Lei gli passò di nuovo un braccio sul petto, agganciando la gamba alla sua. Chiuse gli occhi. «Sonno». Poi li riaprì e lo fissò. «Ma… che succede?». Logan si sentì avvampare le guance e le orecchie. Si scostò fino a raggiungere il bordo estremo del letto. «È… una normale erezione mattutina, okay? Sono… senti, te l’avevo detto che ero nudo nel letto!». «Logan…». «Non succederà niente, okay? È solo…». Allungò un braccio sul pavimento, alla ricerca dei boxer del giorno prima. «Tu sei una bella donna, e certe parti del corpo maschile ragionano per conto loro, e… per favore, puoi smetterla di fissarmi come se fossi un maniaco sessuale?». Indicò la parete di fronte. «Guarda da quella parte». Poi si infilò i boxer sotto le coperte. Uscì dal letto, rischiando di cadere sul pavimento e le voltò le spalle, in modo che lei non potesse vedere quell’imbarazzante rigonfiamento. Recuperò i jeans e li indossò a fatica. Helen sbirciò verso di lui, attraverso un sipario di ricci. «Cosa ti è successo? Sei pieno di cicatrici». Logan si passò una mano sulla mappa di segni intrecciati, poi si infilò una T-shirt. «Sono stato accoltellato. Sono morto per un po’. Ma poi mi sono ripreso. Niente di che». Prese un asciugamano dal comò. «Ascolta, ho bisogno di fare una doccia. Dormi pure un altro po’, se vuoi. Non c’è problema». «Sei tutto rosso». Lui arretrò, cercando di uscire dalla stanza. Sbatté contro lo stipite della porta e rischiò di cadere all’indietro. Calma, Logan. Rilassati…
Domenica, turno di giorno
Droghe per una principessa delle favole
Capitolo 38
«Ti sembra l’ora di presentarti?». L’ispettore capo Steel si afflosciò contro la parete dell’ufficio dei sergenti, con la sigaretta finta che le pendeva da un angolo della bocca. «Il turno di giorno comincia alle sette». Logan tornò allo storm, controllando le azioni e i rapporti del team. «Sono stato in servizio fino alle tre. Tecnicamente, ho diritto a undici ore di stacco tra un turno e l’altro, quindi non mi faccia la predica». Lei tirò su con il naso. «Nervosetti, stamattina, eh? E sai perché? Non fai abbastanza sesso. Ti rende irritabile». Si infilò una mano nello scollo della camicia e si grattò con soddisfazione. «Ecco perché io sono sempre così dolce e allegra tutto il tempo». Sembrava che per una volta Ciuffo avesse provveduto ad aggiornare tutti i suoi rapporti. In fondo, i miracoli potevano ancora accadere. «Pensavo le mancasse Susan». «Dico davvero, tutto quel seme accumulato finirà per metterti nei guai. Se non te ne liberi, a un certo punto scoppierai come un enorme brufolo di sperma». «Okay, può anche andarsene, dopo questa». Un paio di furti con scasso dovevano essere controllati. Poi c’erano delle deposizioni di testimoni per una rapina a Cornhill. Un furto d’auto a New Pitsligo. Il guardone era tornato a Macduff, e qualcuno aveva dato fuoco a un capanno a Gardenstown. Si sperava non fosse un idiota incapace di badare al barbecue, questa volta. «Non vogliamo che succeda, vero? Ingravideresti qualsiasi donna nel raggio di cento metri». Appuntò tutto nel taccuino. «È ancora qui?» «Susan sta caricando la macchina. Ha detto di aver preparato tutto il necessario per un picnic: pollo, barbabietole, salsicce, panini con le uova, e quell’assurda insalata di patate con i cetriolini che a te piace perché sei un mostro». «Il mostro è lei, non io». Logan prese la ricetrasmittente dalla scrivania. Inserì il numero di Janet. «Puoi parlare?» «Sergente: è sveglio! Si sente bene?» «No». Logan lanciò un’occhiataccia alla Steel. «Janet, ho bisogno di te e…». Il telefono sulla scrivania si mise a squillare. Sullo schermo c’era il numero dell’ispettore del turno di giorno. «Un attimo». Tirò su il ricevitore. «Capo?». La voce dell’ispettore McGregor avrebbe potuto far nevicare a luglio, tanto era gelida. «Sergente McRae. Nel mio ufficio. Subito!». «Non ti ho detto che potevi sederti». Già sul punto di sistemarsi sulla sedia di fronte alla scrivania, Logan si raddrizzò di scatto. Piedi alla stessa larghezza delle spalle, mani dietro la schiena. «Signora». L’ispettore si sfilò gli occhiali e sospirò. «Sai cosa mi è piovuto addosso quando sono arrivata al lavoro stamattina, sergente? Mi sono beccata una lavata di capo dal comandante d’area perché a quanto pare non sono in grado di controllare i miei sottoposti». «Capo, non sono…». «Ti ho forse detto che potevi parlare?». Logan chiuse la bocca. La McGregor si scostò dal viso una ciocca ribelle di capelli grigi. Poi afflosciò le spalle, mentre il gelo di poco prima svaniva dalla sua voce. «Avrei voluto distruggerti, credimi, ma a dire il vero
sono più delusa che arrabbiata». Scosse la testa. «Dove ho sbagliato, Logan? Cosa ho fatto per farti decidere che non ero adatta a essere il tuo ufficiale in comando?». Logan inghiottì un gemito. Lo soffocò giù in fondo alla gabbia toracica, dove poteva lasciarlo marinare nel senso di colpa che iniziava a riempirgli il petto. Oltre la finestra alle spalle della McGregor, il cielo era una cappa uniforme di granito, scheggiata di gabbiani in volo. Un cielo grigio, un mare grigio, una domenica grigia. L’unico rumore udibile era il ronzio della ventola del computer. Lei si indicò. «Hai problemi a prendere ordini da una donna, è questo? Pensavo che avessimo sviluppato un buon rapporto, Logan. Che avessi un minimo di rispetto per me». Il senso di colpa gli straripò fuori dalle costole inondandogli lo stomaco, risalendogli la gola. Facendogli bruciare le guance. Espirò. «No, capo. Voglio dire, sì. Voglio dire…». Dannazione, perché non poteva urlargli contro e farla finita? Un attacco diretto e furioso sarebbe stato più facile da accettare. E lei lo sapeva benissimo. «Non ho alcun problema a prendere ordini da una donna, e ho rispetto per lei». Silenzio. Logan si schiarì la gola. «Io volevo… Quando abbiamo parlato di fare qualcosa sottobanco, pensavo che questa potesse essere una di quelle cose». Dio solo sapeva di che colore fossero ormai le sue guance, ma le orecchie di sicuro stavano per prendere fuoco e andare in cenere per autocombustione. L’ispettore McGregor si afflosciò sulla sedia. «Logan, lo so che avevi ottime intenzioni, davvero, ma devi fermarti. Ci hanno dato l’ultimo avvertimento. L’ispettore capo McInnes dirige la scena del crimine a Fairholme Place, ora. Ha bloccato le ricerche e gli scavi fino a data da destinarsi». Conta fino a dieci. Non dire niente. Oh, al diavolo. «Capo, con tutto il rispetto per l’ispettore capo McInnes… quell’uomo è un idiota. La madre di Klingon non è mai andata in Australia. Non ha mai preso un aereo per lasciare il paese. È sepolta in quel giardino, e sono stati Klingon e Gerbillo a ucciderla». «Questa è un’ipotesi, ma finché McInnes non dirà il contrario, nessuno la tirerà fuori da quella fossa. E sì, credo anch’io che sia sbagliato. E penso che sia assurdo che non possiamo procedere contro quei due per le lesioni aggravate a carico di Jack Simpson. Ma non importa quello che penso io, perché noi non abbiamo voce in capitolo, in questo caso. È finita». Logan si sentì schiacciare le spalle da un peso insopportabile che le spingeva verso il basso. «Sì, signora». La moquette era blu e rovinata. La fissò per un po’. Mosse i piedi. «Potrebbe esserci un piccolo problema, però». Lei sospirò di nuovo. «Cosa hai fatto?» «Ho dato dieci sterline a Sammy Wilson per cercare informazioni sul Candelaio, ovvero Martyn Baker». L’ispettore scoppiò di colpo a ridere. Si appoggiò allo schienale della sedia e mostrò i denti in una lunga risata di pancia. Cosa diavolo era successo all’espressione delusa e al tono da “moriremo tutti”? Poi, quando l’attacco di risate le passò, la McGregor si asciugò gli occhi con il dorso di una mano. «Classico. Hai dato a Sammy “Puzzola” Wilson dieci sterline? Io non mi fiderei a dargli neanche un fazzoletto sporco. Un preservativo all’uncinetto sarebbe più affidabile di lui». Mosse la mano verso la porta. «Avanti, vai a prenderti dieci sterline dalla cassa comune, offro io. Te lo meriti per la risata che mi hai fatto fare». Logan tuffò una bustina di tè nella tazza e mise il bollitore sul fornello. Dai contenitori Tupperware sul tavolo della mensa, sembrava che qualcuno avesse portato dei dolci, quella mattina, ma ormai non ne restavano che briciole e zucchero a velo. Tipico. A lui non restavano che le briciole.
La detective tormentata dalla Steel, McKenzie, entrò nella mensa parlando al cellulare. «Sì… No, non credo, ma ci proveremo. Okay. Grazie». Attaccò e prese una tazza dallo scaffale. Poi accennò un saluto a Logan, facendo ondeggiare la coda di capelli ricci. «Sergente». La sua voce aveva tutto il calore del vomito del giorno prima, e la stessa percentuale di acido. Logan restituì il saluto. «È riuscita a prendere un dolce?». Le rughe in mezzo alle sopracciglia della donna si fecero più profonde. «Perché, c’erano dei dolci?» «Sì, neanche io sono riuscito ad assaggiarli». «Come mai nessuno mi ha detto che c’erano?». Lei posò la tazza accanto a quella di Logan. Lui tirò fuori l’enorme cartone di latte parzialmente scremato dal frigorifero. «Vuole un consiglio disinteressato?» «No». «Troppo tardi. L’ispettore capo Roberta Steel può rivelarsi una vera spina nel fianco. Lo so bene, perché per dieci anni è stato il mio fianco a sopportarla. Fai questo, fai quello, vai qui, vai lì…». «Prendi questo, porta quello». Un piccolo sorriso fece la sua comparsa sul viso della McKenzie. «E fai tutto il mio lavoro d’ufficio». «Già. Ma è anche…». «E tutte quelle imprecazioni, e le oscenità, e le allusioni, e i commenti volgari, e il sarcasmo, e quel modo che ha di grattarsi!». La detective allargò le braccia, piegando le dita ad artiglio. «Sì, ma…». «Sempre a grattarsi il seno. E poi il suo aspetto! È come se qualcuno fosse passato sopra al tenente Colombo con un tosaerba. Come diavolo si fa a provare rispetto per una così?» «Ha finito, ora?» Lei si strinse nelle spalle, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi. «Lo sa com’è». «Sì. E so anche che è incredibilmente leale. Se dovesse commettere un errore, la farebbe a pezzi in privato, ma distruggerebbe chiunque provasse a dirle qualcosa in pubblico. Lei guarda le spalle ai suoi sottoposti, e si fida di loro, al contrario di altri capi». Silenzio. Poi la McKenzie alzò il mento e lo fissò dall’alto in basso. «Forse si fida di lei. Il santissimo Logan McRae». La sua voce prese un tono gracchiante e rauco, non la migliore imitazione della Steel, ma neanche poi così male: «“Logan non farebbe così”, “Quando Logan era il mio detective tutto andava meglio”, “Logan è fantastico, Logan è perfetto, tu non ti ci avvicini neanche lontanamente, lui avrebbe fatto questa cosa alla grande…”». Il bollitore si mise a borbottare. «Davvero?» «Già. Lei è il bastone con cui mi colpisce ogni giorno». «Allora la deve ignorare. Quando trova un varco, ci si infila e continua a battere fino a fare tutto a pezzi o a sistemare le cose. Lei veda di sistemarle». La Nicholson si fece vedere sulla soglia della mensa. «Eccola qui, sergente. L’avevo chiamata». «Ho lasciato la ricetrasmittente in ufficio. Cosa posso fare per te, Janet?». Lei imbronciò le labbra come una rana triste. «Abbiamo avuto un’altra segnalazione anonima. Sembra che il nostro amico Frankie Ferris sia di nuovo in azione». E addio tazza di tè caldo. La Nicholson svoltò a destra su Rundle Avenue. Ancora una volta. «Sa, inizio a credere che qualcuno si stia prendendo gioco di noi». Logan si afflosciò sul sedile del passeggero, guardando fuori dal finestrino. «Ti domandi mai perché continuiamo a prendere tutto così sul serio, Janet?»
«Abbiamo ricevuto… quante, sei chiamate al giorno riguardo a Frankie che spaccia droga in casa? E noi ogni volta ci muoviamo, arriviamo qui e giriamo in tondo mille volte. Ma abbiamo mai preso qualcuno?». Le case dalla facciata bianca lasciarono il posto a quelle di assi che sembravano dei capanni da giardino. «Voglio dire, quello che stiamo facendo adesso… non è una perfetta metafora del nostro lavoro? Continuiamo a girare in cerchio, ma cosa otteniamo realmente?». Lei strinse gli occhi. «Sa cosa penso? Penso che qualcuno abbia capito che questo sia un modo molto, molto semplice per tenerci fuori dai piedi per un’ora». «Alla fine, la gente continua a farsi cose orribili, e noi cerchiamo di tenere insieme tutto con un po’ di spago e della gomma da masticare». «Sì, ho sentito che l’ispettore McGregor le ha fatto una lavata di testa, stamattina». La Nicholson serrò la presa sul volante. «Cosa le è capitato, le urla a pieni polmoni o il gioco dei sensi di colpa?» «Il secondo che hai detto». «Ah, odio quando lo fa. “Non sono arrabbiata con te, Janet, soltanto delusa”». La Nicholson fece una smorfia. «È perfino più brava di mia madre, e mi creda, non è facile. L’ultima volta che è successo, ho dovuto finire da sola un’intera confezione di gelato per cercare di sentirmi meglio, e alla fine mi sentivo comunque uno schifo». Si fermò vicino al marciapiede, di fronte alla casa di Frankie. Aggrottò la fronte, lanciando un’occhiata attraverso il parabrezza. «E se lui non spacciasse più da casa sua? Se fosse tutta una messa in scena per tenerci lontani dal luogo dove spaccia davvero?». Logan la guardò, accigliandosi. «Hai visto di nuovo la replica di The Sweeney?». «Quand’è stata l’ultima volta che abbiamo arrestato qualcuno che usciva dalla tana delle droghe pesanti di Frankie Ferris?». Vero. «Non che possiamo ignorare le segnalazioni, però. Se lo facessimo, succederebbe subito qualcosa di orribile: è la legge di Murphy. Okay, facciamo un altro giro e torniamocene alla stazione». Prese il cellulare dalla tasca e chiamò la Steel. «Si è saputo qualcosa dai laboratori?» «Cosa? No, non verrò in ufficio. Gliel’ho già detto, mia moglie è più importante di qualsiasi lavoro». Fantastico. Logan chiuse gli occhi e si massaggiò la fronte. «Susan è lì e sta ascoltando, vero?» «Lo faccia fare alla detective McKenzie. Io passerò del tempo con la mia famiglia, per una volta». «Sì o no? I laboratori hanno finito di analizzare il dna di Helen Edwards?» «Dannazione, signore, non so ancora fare miracoli. Queste cose richiedono tempo». «Santo cielo, doveva dare loro una svegliata e accelerare le cose! Devo fare tutto da solo?» «Grazie, signore. Ci vediamo quando tornerò alla stazione». Incredibile. Logan attaccò, sganciò la ricetrasmittente dal giubbotto antiproiettile e chiese al Controllo di metterlo in contatto con il laboratorio di Dundee, mentre la Nicholson li conduceva a fare un altro giro delle stradine sul retro della casa di Frankie. «Avanti, rispondete a quel diavolo di… Pronto? Devo parlare con chiunque stia lavorando ai campioni del caso di Tarlair. Può…?». Scostò la ricetrasmittente. «Sono stato messo in attesa». La Nicholson tamburellò con gli indici sul volante. «O forse è qualcuno a cui piace dare fastidio alla polizia? Ci chiama e se la ride guardandoci girare in tondo come idioti…». Aggrottò la fronte. «E se fosse Frankie a chiamare?» «Riguardo al suo stesso giro di droga? Nah…». Un sorrisetto sghembo si mostrò sul viso di Janet. «Già, ci pensi: ci chiama e ci offre queste segnalazioni false, sapendo che non c’è nessuno qui a comprare il suo prodotto. Se ci fa perdere abbastanza tempo e pazienza, finiremo per non prendere più sul serio le soffiate».
Un forte accento di Glasgow si fece sentire dalla ricetrasmittente. «Pronto?». Logan premette il pulsante per parlare. «Sono il sergente McRae, della Divisione b. Vorrei sapere a che punto siete con il confronto del dna della bambina con quello di Helen Edwards». «Ah…». Un suono sibilante, che faceva già intendere cattive notizie in arrivo. «Tra me e lei: dovremo aspettare fino a martedì o mercoledì. Non ce la faremo prima». «Avete già avuto quasi una settimana per lavorarci!». «Sì, be’, c’è un carico di lavoro incredibile, qui, al momento. Tutti gli altri laboratori stanno facendo aggiornamenti alle apparecchiature tranne noi, quindi ci ritroviamo con il lavoro di nove divisioni da smaltire. E il Renfrewshire e l’Inverclyde stanno impazzendo con tutti questi piedi mozzati e…». «No». Logan puntò l’indice contro il cruscotto. «Mi stia a sentire, non c’è niente di quello che avete per le mani al momento che sia più importante dell’identificazione di quella vittima. Qualcuno potrà dirvi che non è così, ma le assicuro che quel qualcuno non verrà a trovarla a casa alle quattro del mattino per prenderla a calci fino a spedirle i testicoli in gola. Siamo intesi?» «Ma i piedi mozzati…». «Preferisce avere a che fare con dei testicoli mozzati?». Un colpo di tosse. Una pausa di silenzio. «Senta, non sono io che decido, okay? Io devo fare quello che mi viene…». «E se lo immagina quanta gente si metterà in fila per prenderla a calci, quando si saprà che ve la siete presa comoda? Quando questa storia sarà su tutte le prime pagine dei giornali?». Logan scosse la testa. «Santo cielo, che storia ghiotta per la stampa! Noi stiamo cercando di prendere l’assassino di una bambina, qui, e voi perdete tempo con dei piedi? Crede che i suoi capi le guarderanno le spalle, se la notizia dovesse trapelare? O le metteranno una fila di salsicce intorno al collo e la getteranno in pasto agli squali?». Silenzio. «Si prenda del tempo per decidere». La voce dall’altra parte della linea si abbassò a un sussurro. «Okay. Okay. Metterò le sue analisi in cima alla lista. Ma… le ripeto che io sto solo facendo il mio lavoro, qui». «E allora lo faccia più velocemente. Voglio quei risultati sulla mia scrivania per la fine del turno». Logan chiuse la chiamata e riagganciò la ricetrasmittente al giubbotto antiproiettile. Alzò lo sguardo sulla Nicholson che lo guardava con un ghigno divertito sulle labbra. «Che c’è?» «Oh, sergente McRae: è così autoritario!».
Capitolo 39
La Nicholson fece scivolare l’autopattuglia lungo le stradine laterali, tenendo l’ago del tachimetro sotto ai trenta chilometri orari. «Che farà per pranzo?» «Un manicaretto da re: roastbeef poco cotto; pasticcio di verdure; patate arrosto croccanti rosolate in grasso d’oca; carote e piselli con salsa. A volontà». «Mi sembra delizioso. Cosa mangerà davvero?» «Zuppa di lenticchie». Un cartellone con la pubblicità di un’assicurazione sulla casa scivolò accanto a loro alla fine della strada. Un’allegra famigliola che sorrideva a un cane di plastilina. Qualcuno aveva disegnato un grosso pene viola su di loro con un frettoloso tratto di spray. La Nicholson lo indicò. «Sa, comincio ad avere l’impressione che il nostro piccolo marxista dei graffiti non sia così interessato alla politica, dopotutto. Credo che si diverta semplicemente a disegnare grossi uccelli dappertutto». «Credo che tu abbia ragione. E quindi immagino sia ora di fare una visitina al nostro compagno Geoffrey. C’è…». «Pattuglia Sette, potete parlare?». «Si ricomincia». Logan premette il pulsante. «Parlate pure». «Abbiamo una segnalazione di mucche sulla carreggiata della a947, tra Keilhill e il negozio di forniture agricole». La Nicholson si fermò, si piegò in avanti e sbatté la fronte contro il volante. «Oh, no… non di nuovo». «Ricevuto, ci andiamo noi». Logan si allungò a batterle una pacca sul braccio. «Avanti, Calamity Janet, è ora di giocare un po’ ai cowboy. Yee-haw, mettiamo in cerchio i carri, occhio agli indiani eccetera eccetera». «Sì, qui va benissimo». La Macchina Grande si fermò fuori dalla casa del sergente, e Logan aprì lo sportello. «Torni a casa o ti fermi alla stazione per una doccia?». La Nicholson gli lanciò un’occhiataccia dal lato del conducente. «Ce l’ho ovunque, dannazione». Il fango quasi secco le striava le guance di segni di guerra di un beige pallido, le si era raggrumato tra i capelli e le macchiava le maniche della maglietta nera della polizia e le braccia che ne sporgevano fuori. Ce n’era altro anche sui pantaloni e sul giubbotto antiproiettile. «Se ti preoccupi che Hector ti spii mentre sei sotto la doccia, torna a casa. Credo che possiamo concederti una mezz’ora in più per il pranzo, oggi, dopo i tuoi sforzi encomiabili per fermare la Grande Ribellione Bovina». «Oh, che simpatico». Logan uscì dalla macchina, nel pomeriggio uggioso. «Sarò qui tutta la settimana. Gli autografi in camerino». Chiuse lo sportello e accennò un saluto, mentre la Nicholson gli mostrava i denti e si allontanava dal marciapiede. Tornando verso la stazione di polizia per una doccia calda. Logan attraversò la strada, tirò fuori le chiavi ed entrò in casa. Non aveva senso portarsi dietro il pranzo quando la sua abitazione era a due passi. La porta del salotto era aperta, e mostrava quattro belle pareti color crema, con i battiscopa di un bianco immacolato. Non restava che pensare alla moquette. Logan si aprì il giubbotto antiproiettile e lo appese sopra la balaustra. «Helen?». Nessuna risposta. «Ehi… sono a casa».
Entrò in cucina. Non era lì. Oh. Cthulhu sbadigliò, appollaiata sul davanzale in mezzo ai vasetti di erbe aromatiche. Si stiracchiò, si girò a mostrare a Logan il posteriore e poi si acciambellò di nuovo per riaddormentarsi. Un benvenuto degno di nota, altroché. Controllò il frigo. Le bistecche erano ancora lì. Come anche i maccheroni al formaggio avanzati. Pranzo. Logan tirò fuori il contenitore con i maccheroni, bucherellò la pellicola da cucina che li copriva con una forchetta e li infilò nel forno a microonde. Mise su il bollitore. Si sentì un tonfo dal davanti della casa. «Logan?». Lui fece capolino in corridoio. «Come ti sembra un pranzo a base di maccheroni al formaggio riscaldati e pane tostato?». Helen posò sulle assi nude del pavimento le buste di plastica strapiene che stava portando e si asciugò il viso dalla pioggia, i capelli che le pendevano intorno al viso in ricci umidi più scuri del loro colore naturale. «Urgh… e meno male che è quasi estate». Ebbe un brivido. Poi indicò le buste. «Puoi darmi una mano?». Le svuotarono in cucina, mentre il forno a microonde ronzava in sottofondo. Insalata. Sottaceti. Filetti di salmone. Salsicce. Patate. Cipolle. Cioccolato. Vino. Logan si sentì avvampare le guance. «Non dovevi… e non devi farlo per forza, lo sai, vero?». Lei mise via una confezione di salsa per insalate. «Non devo fare cosa?» «Fare questo: comprare tutta questa roba. Cucinare per me». Lei inarcò le sopracciglia di un paio di centimetri, mentre gli angoli delle sue labbra si muovevano nella direzione opposta. Logan sollevò le mani. «No, aspetta… è fantastico, davvero, non mangiavo così bene da mesi, ma non voglio che pensi di essere obbligata a farlo. Non è…». Si schiarì la gola. «Non voglio approfittare di questa situazione». Lei posò sul bancone della cucina una confezione di senape. La guardò. «Vuoi che me ne vada». «No! No, non è così, sto soltanto…». Si strinse nelle spalle, indicando il mucchio di cibarie sul tavolo. «Tu stai facendo tutto questo per me, e io non sto facendo niente in cambio». «Non è vero». Helen gli si avvicinò così tanto da fargli sentire tutt’intorno un delicato profumo di albicocche, oltre al calore del suo corpo. «Tu stai cercando mia figlia». Allungò una mano, posandogliela sulle reni. Ding. Il forno a microonde si fermò. Logan deglutì. Le posò le mani sulle spalle. Helen sollevò lo sguardo, con le labbra dischiuse. Okay. Un respiro profondo. E… «laz?». Quella singola parola riecheggiò dal davanti della casa, con la delicatezza di un elefante in un negozio di porcellane. «ci sei?» «Gah…». Logan sussultò. Fissò la porta della cucina. Non adesso. Helen si scostò di un passo, mordendosi il labbro inferiore e arrossendo. Lui abbassò la voce a un sussurro. «Forse, se restiamo in silenzio, si arrenderà e se ne andrà…». La porta della cucina si spalancò di scatto, e un ciclone in maglietta rosa e jeans irruppe nella stanza, con i capelli biondo cenere che le ondeggiavano dietro le spalle. «Papà!». Si aggrappò alla vita di Logan per un rapido abbraccio e poi corse al davanzale. «Cthulhu!». Accarezzò la gattina, grattandole le orecchie e ricevendo in cambio un coro di fusa. Spodestato dal gatto. Come sempre. Helen incrociò le braccia sul petto, arretrando verso il pianale della cucina. «Sì. Giusto. Scusami».
«Dio, che giornata». Susan entrò nella stanza e posò una borsa termica sul tavolo. Si tirò indietro i capelli biondi, raccogliendoli in una coda, e quando sorrise, delle fossette le comparvero nelle guance rotonde. Una rete di rughe sottili le comparve intorno agli occhi. «Logan. Come stai? Non ti vedevamo da una vita. Jasmine è rimasta così delusa che tu non sia riuscito a vedere la sua gara di danza». Susan gli si avvicinò e lo baciò su una guancia. Poi si girò e batté le mani. «Avanti, scimmietta, lavati le mani, è ora di pranzo». «Ma maaa-mma…». «Niente ma. Di sopra a lavarti le mani. Non costringere il tuo papà ad arrestarti». Susan si tolse la giacca, mentre Jasmine usciva dalla cucina. Il ventre era un po’ arrotondato, ma non molto più del solito. «Davvero, le voglio un bene dell’anima, ma a volte, giuro su Dio…». Si girò verso Helen e roteò gli occhi. «Mi scusi, mi rendo conto dell’invasione improvvisa. Due ore in una macchina con la bambina di sei anni più rumorosa del pianeta». Le tese la mano. «Susan». Ci fu una pausa. «Helen». «Helen. Ha dei capelli meravigliosi, lo sa? I miei non fanno altro che pendere come spinaci. Con Jasmine, al terzo trimestre sembravo Tina Turner, quindi non so se succederà di nuovo, questa volta». Aprì la borsa termica. «Le piacciono il pollo arrosto e l’insalata di cocomero? Ne ho per un esercito». «Ecco… credo che forse dovrei…». Susan si girò e prese un respiro profondo. «roberta! non dimenticare le bevande!». La voce della Steel riecheggiò dal corridoio. «sono al telefono!». «Ovviamente». Susan tirò fuori dei contenitori dalla borsa. «Sei sempre al telefono». Il rumore dello scarico del bagno si fece sentire dal piano di sopra. Poi la Steel entrò nella stanza, con una grossa scatola di plastica. La sigaretta elettronica incollata all’angolo delle labbra e il telefono incastrato tra orecchio e spalla. «Non te lo ripeterò, Becky: fai muovere le chiappe a quegli scansafatiche e mandali a girare porta a porta con una foto di Neil Wood… Non mi interessa se piove, nevica o…». A quel punto si bloccò. Fissò Helen. Restò lì per un attimo, con la bocca spalancata. Poi riprese: «Insomma, sistema questa faccenda. Ora devo andare». Helen intrecciò nervosamente le dita. «È successo qualcosa? Hanno i risultati?». La Steel posò la scatola di plastica sul pavimento della cucina, rimettendo in tasca il cellulare. «Mrs Edwards?». Lanciò un’occhiata a Logan, con un sopracciglio sollevato. «Okay…». Poi tornò a Helen. «Mi dispiace, Mrs Edwards, ma ci vorrà un po’. Tutti guardano quelle stupide serie tv piene di detective e pensano che certi risultati si possano ottenere in una decina di minuti, ma purtroppo non è così semplice, nella vita reale». «Oh». Helen si fissò la punta dei piedi per un attimo. «Sì, naturalmente. Che stupida». «Non si preoccupi. Non sapevo che fosse qui». Susan si posò una mano sulla pancia, le dita allargate sulla leggera protuberanza della gravidanza. «Oh, mi scusi tanto. Pensavo fosse un’amica di Logan. E non ho fatto che dire sciocchezze». Sorrise, strizzando gli occhi. «Se vuole unirsi a noi per il pranzo, sarebbe…». «Perché non apparecchi la tavola, Susie?». La Steel indicò alle spalle di Helen. «Io devo portarmi via il sergente McRae per un minutino». Logan lanciò uno sguardo a Helen, poi seguì la Steel in corridoio, uscendo di casa, nel pomeriggio uggioso. Il mare, ridotto a una lastra di granito grigio, rifletteva le tonalità del cielo. «Avrebbe potuto chiamarmi, prima di piombarmi in casa!». «A che diavolo di gioco stai giocando?». La Steel gli mollò un pugno sul braccio. «Non riesco a credere che ti stai portando a letto la madre della nostra piccola vittima. Sei impazzito?» «Ahi!». Lui si massaggiò il punto colpito. «Non è successo niente tra noi, okay? E comunque, non che siano affari suoi». Chiuse la porta d’ingresso. «Sì, certo, e il mio sedere è la Regina di Saba. Ci stavate dando dentro, vero?»
«Lei non sarebbe costretta a stare da me, se lei si fosse organizzata per tempo e le avesse trovato un posto dove stare, tanto per cominciare». «Oh mio Dio, sei tu, quindi! L’“amico” da cui si sta facendo ospitare. Lo sapevo». «Pensa che sia sua figlia quella che teniamo nell’obitorio, okay? Vuole solo qualcuno con cui parlare». «Tu non ti saresti dovuto avvicinare a lei. Dovresti starle lontano». La Steel lo picchiò di nuovo. «Ma che diavolo hai in testa? Sei…». «Ah! La smetta, o…». «…e stai indagando su quel dannato caso! Non è etico». Logan si allontanò di un paio di passi, poi tornò indietro, gesticolando con forza come a sottolineare le sue parole. «Non è successo niente! E comunque non sto indagando sul caso, quasi non c’entro nulla, con tutta questa storia. Da dove mi trovo io, a malapena si vede!». La Steel incrociò le braccia sul petto, sollevando il seno. «Non è successo niente? Davvero?» «Non è successo niente!». Lei sbuffò sibilando. «Be’, ora non mi stupisce che avessi una faccia da scroto troppo gonfio, stamattina. Vedi, te lo dicevo. Questa si chiama frustrazione sessuale». Lui si passò una mano sulla faccia. «Stavamo solo pranzando. Tutto qui». «D’accordo». La Steel lo pungolò sul petto. «E assicurati di tenere le mani dove posso vederle». Ciuffo indicò a sinistra e annusò l’aria. «Perché sento odore di pollo?». La Macchina Grande tornò su Rundle Avenue, effettuando il terzo passaggio in quindici minuti. Non c’era traccia di nessuno che avesse anche solo una vaga somiglianza con la descrizione che Maggie aveva fornito. Logan si agitò sul sedile. La cintura con l’equipaggiamento gli si stava piantando nello stomaco pieno da scoppiare di pollo e involtini di salsiccia e insalata di patate. Ogni rutto bruciava nell’esofago. Avrebbe proprio dovuto allentarla. Ma se l’avesse fatto, quel dannato strumento di tortura gli sarebbe caduto, in caso di inseguimento. «Allora, avanti: cosa hai fatto?». La punta delle orecchie di Ciuffo si fece di un rosso feroce. «Forse… ecco, volevo imparare un po’ dal maestro?» «Cosa hai fatto?». Un velo di pioggia sottile copriva il parabrezza. I tergicristalli lo ripulivano cigolando, ma due secondi dopo era di nuovo lì. Le punte delle orecchie di Ciuffo avvamparono ancora di più. «Ebbene?». Il giovane agente si strinse nelle spalle. «Deano a volte brontola un po’, tutto qui». «Ciuffo!». «Ho solo detto che secondo Einstein quando la velocità di un oggetto si avvicina a quella della luce, la sua massa tende all’infinito, giusto? Ecco, e allora i fotoni? Quelli viaggiano alla velocità della luce, perché sono luce». «Lì», indicò Logan, «la donna in tuta». La donna in questione correva piano sotto la pioggia sottile, a testa bassa, con un berretto di lana tirato fin sotto le orecchie. Ciuffo scosse la testa. «Dovrebbe indossare una felpa verde con il cappuccio. Comunque: la luce è sia un’onda che una particella, giusto? E viaggia alla velocità della luce, quindi la parte che è particella dovrebbe avere una massa vicina a infinito, anche se non l’onda. E dunque forse è quella la materia oscura? Tutta quella massa in eccesso?» «Un momento, tu pensi che la materia oscura sia la luce?» «Be’, non è terra, o che so io, no? La mia ipotesi è logica…». «Janet ha ragione… avremmo dovuto sottoporti a un test d’intelligenza». Logan pescò il cellulare, trovò il numero di Helen in rubrica e le inviò un messaggio.
Mi spiace per il pranzo, non sapevo che stessero arrivando. A volte sono un po’ eccessive. Aggrottò la fronte, fissando lo schermo. Doveva dire qualcosa riguardo al bacio mancato, oppure no? E se invece lei non intendeva affatto baciarlo, in quel momento? Se fosse stato tutto un equivoco? Sarebbe sembrato un idiota. O un maniaco. O una totale testa di cazzo. Dio, gli sembrava di essere tornato ai tempi dell’adolescenza. Calmati, Logan. Giocatela bene. Se riuscissi a liberarmi presto, potremmo cenare insieme, che ne dici? Esitò con il pollice sul tasto di invio. Nah. Quell’ultima frase sembrava da disperati. La cancellò, e infine mandò il messaggio nel vuoto digitale. Simpatico, gentile e con nessun contenuto imbarazzante. Il telefono tornò nella tasca dei pantaloni. Fuori dai finestrini, l’asfalto bagnato scintillava. Ciuffo succhiò l’aria tra i denti per un attimo. Poi: «Pensa mai alle origini dell’universo, sergente?». Logan premette il pulsante della ricetrasmittente e parlò contro la spalla. «Maggie, altri avvistamenti?» «Sì, una donna bianca con stivali Ugg, tuta blu e canottiera arancione». Ciuffo schiacciò il pedale del freno, poi fece retromarcia giù per la collina. «L’ho vista». Poi girò a destra, su Ardanes Brae. E in effetti, la donna era lì. Camminava in fretta sul marciapiede, le spalle curve contro il vento, con una busta di plastica che le dondolava da una mano. «Okay, aspetta che arrivi all’altezza di quella Passat bianca… Vai». Ciuffo scivolò avanti, poi si fermò accanto al marciapiede. Prese il berretto dell’uniforme e uscì dalla macchina. Logan andò dalla parte opposta, aggirando il lato posteriore della Passat, per tagliare la ritirata alla donna. Lei alzò lo sguardo, giusto in tempo per evitare di urtare contro Ciuffo. Si fermò. Arretrò di un passo. Si voltò. Vide Logan e imprecò. Kirstin Rattray fece una smorfia che le trasformò il viso scarno in una collezione di rughe, poi afflosciò le spalle. Si leccò le labbra sottili e pallide. «Stavo… facendo un giro». «Buon pomeriggio, Kirstin». Nessuno si mosse. Lei si avvolse un braccio magro intorno al corpo, la mano scheletrica che stringeva l’altro braccio. «Sto andando a trovare Amy». Dondolò la busta di plastica. «Le ho preso qualche giocattolo e vestito. Perché… è il suo compleanno». Logan accennò oltre la spalla di lei. «Kirstin Rattray, ho motivo di credere che tu sia in possesso di sostanze illegali, quindi sei in arresto secondo la Sezione Ventitré dell’Articolo 1971 sull’abuso di droga, e procederò a perquisirti». Lei si raggomitolò su se stessa, piegando le ginocchia e proteggendosi la testa con le mani. «Nooo…». «Non possiamo perquisirti qui, perché non ho un’agente donna che possa farlo. Quindi dovremo portarti alla stazione di polizia finché qualcuno non sarà disponibile. Non sei tenuta a dire nulla, ma tutto quello che dirai…».
«No, vi prego…». La voce di Kirstin era soffocata e strozzata. «Vi prego, se mi mettono dentro non potrò mai più rivedere la mia bambina. Vi prego…». Ciuffo spostò il peso da un piede all’altro. «Sergente?» «Ha solo tre anni!». La stessa età che aveva la figlia di Helen quando era scomparsa. «Sergente, forse potremmo… non lo so. Fare qualcosa?». Kirstin restò dov’era, dondolando avanti e indietro, le spalle scosse dai singhiozzi. Logan alzò lo sguardo alla cappa grigia che incombeva sulla cittadina. La pioggia gli accarezzò il volto con dita fredde e umide. Tre anni. Ah, al diavolo. Non doveva sempre essere quello cattivo, dopotutto. «Kirstin». «Vi prego…». «Kirstin, forza, alzati. Non ti voglio arrestare». Lei lo guardò, esitante, con gli occhi arrossati. «La mia Amy ha solo…». «Lo so. Non voglio arrestarti. Alzati». Lei obbedì, tirando su con il naso e deglutendo rumorosamente. Si asciugò il muco dal labbro superiore con la mano ossuta. «Posso andare?» «Non ancora». Logan si infilò un singolo guanto di nitrile azzurro. «Cosa ti ha dato Frankie Ferris?». La mano scheletrica si sollevò agli occhi della donna, strofinandoli. «Io non ho…». «Sei stata vista, Kirstin. Cosa ti ha dato? Puoi darlo a me, oppure puoi venire con noi alla stazione di polizia e farti perquisire. E quando troveranno quello che hai addosso, ti arresteranno e lo confischeranno comunque. La scelta è tua». Lei annuì. Tirò di nuovo su con il naso. Poi affondò la mano nella tasca davanti dei pantaloni della tuta che indossava. Ne trasse una bustina di plastica con della polvere marrone dentro. La strofinò tra le dita, come il violino più piccolo del mondo. Si leccò di nuovo le labbra e si schiarì la gola. Logan tese la mano inguantata. «Kirstin?». Una berlina li oltrepassò, con il volume della musica così alto da farsi sentire anche attraverso i finestrini chiusi. «Avanti, Kirstin: cos’è più importante, farti di quella roba o continuare a vedere tua figlia?». La pioggia continuava a cadere. Ciuffo spostò di nuovo il peso da un piede all’altro. Finalmente, Kirstin lasciò cadere la bustina nel palmo di Logan. Le sue dita esitarono per un attimo, poi ritirò la mano, serrandola contro la gola. «È… talvolta è…». Distolse lo sguardo. «L’ho trovato». «Certo, ovvio. Frankie ha un grosso carico, in casa? Sarebbe utile fargli una visita?». Lei sollevò una spalla fino all’orecchio. «Io non ho visto niente. Stava… nel corridoio, non fa mai vedere niente». «Okay». Logan indicò. «Posso guardare dentro alla busta?». Lei gliela tese e l’aprì. All’interno c’era un vestitino rosa da principessa, delle ali rosa da fatina e una bacchetta magica rosa. Logan si scostò. «Grazie. Di’ ad Amy che un poliziotto buono la saluta e le fa gli auguri di buon compleanno, okay?». La donna annuì. Poi strusciò le suole degli stivali Ugg sull’asfalto. «Lei… è tutto ciò che ho». «E allora vai, forza. Va’ da lei». Kirstin si allontanò a passi rapidi, con la busta di plastica stretta al petto. Sempre più piccola, finché la collina e la pioggia non la inghiottirono. Ciuffo sorrise. «Arresto e rilascio immediato. Mi piace».
«D’accordo. Torniamo al lavoro». Mentre Ciuffo rientrava in auto e si metteva al volante, Logan chiuse il pugno intorno alla bustina di eroina e rovesciò il guanto intrappolandola all’interno. Poi la fece scivolare in una delle tasche con la chiusura lampo del giubbotto antiproiettile. Non poteva usarla come prova senza mettere in mezzo anche Kirstin, quindi avrebbe dovuto buttarla via in qualche luogo sicuro. La pioggia si intensificò, con le gocce che diventavano sempre più pesanti e fitte. Lui si infilò sul sedile del passeggero. Richiuse lo sportello. «D’accordo, ancora un paio di giri e poi ce ne andiamo a Gardenstown a controllare l’incendio di quel capanno». Staccò la ricetrasmittente dal giubbotto antiproiettile, mentre Ciuffo superava Tannery Street e faceva nuovamente il giro di Rundle Avenue. «Sergente?» «Vuoi parlare ancora di Einstein?». Logan inserì il numero dell’ispettore McGregor nella ricetrasmittente. «Bravo India, qui Pattuglia Sette, può parlare?» «Conosce il Big Bang?» «Parla pure, Logan». «Pensa che potrei ottenere un mandato di perquisizione per la casa di Frankie Ferris? Stiamo ricevendo moltissime segnalazioni di spaccio, oggi. Sembra che sia riuscito a farsi arrivare un nuovo carico di eroina». «Stai fermando e perquisendo le persone?» «Sì, ci stiamo dedicando a questo, al momento». «Bene. Voglio che perquisisci chiunque esca da quella casa. Se mi fai avere qualche prova o informazione seria, ti farò ottenere un mandato». Ci fu un fruscio dall’altra parte della linea, poi riprese: «Non ho agenti da utilizzare per una perquisizione, oggi. Dovremo farlo domani, o martedì». Per lunedì o martedì, quel carico di eroina poteva essere già sparito. Ma era comunque meglio di niente. «Grazie, capo». Ciuffo li riportò in fondo alla strada e girò su Golden Knowes Road. Era il punto più a ovest del centro abitato, senza case sul lato sinistro della strada. Da lì in poi c’erano solo campi e bestiame fino a Whitehills. «Se non avessimo lasciato andare Kirstin Rattray con un’ammonizione, adesso avrebbe il suo mandato». «E lei non avrebbe più rivisto sua figlia. Pensavo fossi a favore dell’arresto con rilascio immediato». «Sì, ma…». Ciuffo aggrottò la fronte, mordicchiandosi l’interno di una guancia. Poi il dilemma etico che sembrava agitarsi dentro a quella testolina bacata sembrò risolversi. «Comunque, sembrerebbe che l’universo abbia cominciato a esistere di colpo dal nulla: boom, in una minima frazione di secondo». Staccò le mani dal volante per mimare un’esplosione. «Chiunque si trovi nelle vicinanze di St Fergus, abbiamo ricevuto segnalazioni di un camper con targa tedesca intento a compiere manovre sospette. Va fermato a vista…». Ciuffo svoltò a destra su Windy Brae, facendo un altro lungo giro. «Quindi non c’è nulla, poi un’esplosione, un’espansione e c’è tutto, giusto?» «Sto iniziando a capire come deve essersi sentito Deano». Piccole case, villette terrazzate, la pioggia che oscurava ogni cosa. «A tutte le unità, siamo alla ricerca di una femmina ispanica sospettata di aver derubato un Big Issue a Peterhead, su Back Street…». «Quindi, in quel milionesimo di milionesimo di milionesimo di secondo, tutta questa schiuma primordiale quantica accelera più della velocità della luce…». «Che mi dici di quello?». Logan indicò attraverso il parabrezza un uomo in bomber con una felpa con il cappuccio al di sotto, che marciava sotto la pioggia.
«Dovrebbe avere dei cargo verdi, non dei jeans scoloriti. Ma non è la stessa cosa, no? Più ti avvicini alla velocità della luce, più grande è la tua massa, quindi se non fosse per quella minuscola frazione di secondo che ha accelerato tutto a velocità impensabili, non ci sarebbe massa, nell’universo. Quindi siamo fatti di velocità, non di materia». Logan lo fissò. «Che c’è?» «Giuro su Dio, Ciuffo, ero a tanto così dall’essere gentile con te, oggi». Logan sollevò una mano, con pollice e indice a un centimetro di distanza. Svoltarono a destra su Meavie Place, poi di nuovo a destra su Ardanes Brae. «Stavo solo cercando di portare avanti un dibattito interessante». Fino a Rundle Avenue, calò sulla macchina un silenzio delizioso. Be’, a parte il ritmico cigolio dei tergicristalli. Ciuffo esalò un profondo sospiro. «Deve essere strano vivere in una di quelle casette di legno. A me sembrerebbe come stare in un capanno da giardino di due piani». «Non so cosa sia peggio, se la tua cosmologia o i tuoi commenti sociali…». Logan si sporse sul sedile, sbirciando fuori dal parabrezza spruzzato di pioggia. «Lì, più avanti. Non è il nostro vecchio amico Martyn Baker?». E stava entrando nella tana della droga di Frankie Ferris, a quanto sembrava. Logan sogghignò e si strofinò le mani. «Bene, parcheggia dietro l’angolo. Non appena esce fuori, ci procuriamo il nostro mandato». E, soprattutto, aveva la negazione plausibile dalla sua parte. L’ispettore aveva dato l’ordine di fermare e perquisire chiunque uscisse dalla casa di Frankie. Chiunque. E ciò includeva Martyn Baker. Sì, l’ispettore capo McInnes si sarebbe fatto esplodere un embolo, ma che andasse al diavolo. Era ora che quei bastardi dei Team Investigativi Primari imparassero com’è fatto un vero poliziotto.
Capitolo 40
«Mr Baker, che sorpresa». Logan uscì da dietro un vecchio e ammuffito furgone Transit. La pioggia picchiettava sul bordo del berretto dell’uniforme, rimbalzandogli sulle spalle del giubbotto catarifrangente. Non era esattamente anonimo, ma Martyn con la y non si era ancora accorto di lui, fino a quel momento. L’uomo strinse gli occhi. Forse domandandosi se fosse il caso di scappare, ma a quel punto Ciuffo comparve sul marciapiede alle sue spalle. «Sergente?». Baker tirò fuori le mani dalle tasche e le serrò a pugno. I tendini sul collo si tesero, balzando fuori dalla pelle. La pioggia gli inzuppava il bomber che indossava, rendendo lucido il tessuto rosso di cui era fatto. «Cosa vuole?». Le sopracciglia folte fremettero come nuvole di tempesta. «Ho visto che ha visitato Frankie Ferris». «Non è illegale, mi pare, giusto? Andare a trovare qualcuno, dico». L’accento di Birmingham diventava più pesante a ogni parola. «Voi poliziotti state iniziando a darci fastidio». Logan gli sorrise. Sorrise ai capelli sollevati dal gel che iniziavano ad afflosciarsi sotto la pioggia. Sorrise alla centrale nucleare di brufoli pronti a esplodere lungo quella mascella. Poi tirò via l’elastico che chiudeva l’obiettivo della telecamera che portava addosso e la attivò. «Martyn Baker, ho motivo di credere che lei sia in possesso di sostanze stupefacenti…». «Non ci provi». Lui gli mostrò i denti. «Non ci provi neanche, dannazione». «…secondo la Sezione Ventitré dell’Articolo 1971 sull’abuso di droga…». «Vi siete già presi il mio telefono, non vi sembra abbastanza?» «…procedere a perquisirla…». L’aria uscì di colpo dai polmoni di Logan, quando un pugno lo colpì alla bocca nello stomaco, abbastanza forte da farlo scivolare indietro di qualche centimetro sul marciapiede. Sì, il giubbotto antiproiettile poteva essere un vero fastidio da portare tutto il giorno, ma se proteggeva da una pallottola o da un coltello da cucina, un pugno si rischiava di non sentirlo proprio. Logan sollevò una mano, allungandola di scatto con il palmo in avanti e le dita allargate, spostando il peso sull’anca. La base del palmo sbatté con violenza contro il mento di Baker. «Indietro!». La testa dell’uomo scattò in alto, mentre scivolava indietro con i piedi, perdendo l’equilibrio. Roteò le braccia con un gemito roco, e finì sul marciapiede di schiena, come un sacco di patate. Rimase lì steso, a fissare la pioggia sbattendo le palpebre. Ciuffo si lanciò in avanti, prendendo le manette e chiudendone una sul polso di Baker, per poi strattonarlo in avanti e chiudere anche l’altra. Alzò lo sguardo su Logan. «Tutto bene, sergente?» «Mai stato meglio, agente Quirrel. Mai stato meglio». Lo scortarono al centro della stanza di custodia cautelare e lo perquisirono. Il coro delle celle di Fraserburgh stava tentando una cover di Soft Kitty, mentre Ciuffo passava le mani lungo le membra di Martyn Baker e poi si occupava delle sue tasche. Il secondino gonfiò le guance e mescolò il tè. «Siete fortunati a non essere stati qui stamattina: abbiamo avuto il revival delle Spice Girls. Riuscite a immaginare di passare la luna di miele in cella, in attesa che i tribunali riaprano lunedì mattina? Cantando di voler fare zigazig-ah?». Logan si appoggiò alla scrivania della stanza e abbassò la voce a un sussurro. «Voglio che Baker sia interrogato subito, ma teniamo un basso profilo, okay?».
Il secondino incrociò le braccia robuste e tatuate. «Lo sta nascondendo da qualcuno in particolare?» «Non lo sto nascondendo, sto badando alla sua sicurezza. In caso qualcuno si faccia venire un attacco isterico». «E quindi…?» «E quindi voglio che sia tutto finito prima che qualcuno dell’Operazione Troposfera, o qualche stronzo di un Team Investigativo Primario venga a ficcanasare. Baker chiama il suo avvocato e lo portiamo in una sala degli interrogatori. E assicurati di avvertirmi appena sarà pronto. Lo facciamo parlare, festeggiamo e ci becchiamo tutti una medaglia». Ciuffo finì la perquisizione e tese la mano inguantata a Logan. Al centro del palmo era posata una busta di plastica piena di quella che sembrava erba secca. Non enorme, in realtà. E neanche grande abbastanza da poterlo accusare di possesso di stupefacenti ai fini di spaccio. Logan si avvicinò e prese la busta dalla mano dell’agente. «Tutto qui?». Lui si strinse nelle spalle. «Mi spiace, sergente». Logan si posizionò di fronte a Martyn Baker. «Ebbene, Mr Baker? Ha qualcosa d’altro addosso… o dentro… di cui dovrebbe parlarmi?». Martyn Baker serrò la mascella, digrignando i denti e facendo tendere i muscoli sotto la pelle. I foruncoli tremarono ancora una volta. Non riusciva a tenere fermi i piedi sul pavimento grigio, seguendo i passi di qualche ignota danza della colpa. Gli occhi puntavano da un lato all’altro, senza mai incontrare quelli di Logan. «Voglio il mio avvocato». «Non mi stupisce». Logan sciacquò la tazza vuota sotto il getto dell’acqua calda, sistemandola poi con le altre sullo scolapiatti. Una coppia di agenti se ne stava seduta davanti alla tv della mensa, discutendo animatamente della nuova serie del cartone animato Danger Mouse. La coscia di Logan vibrò, prima che la suoneria del suo cellulare annunciasse l’arrivo di un messaggio di testo. Prese il telefono per leggerlo. Scusa per il comportamento a pranzo. Non mi aspettavo tutta quella gente e non sono più abituata. Cmq ci sono le bistecche x cena se vuoi. Posso fare le patatine. Nessun gentiluomo degno di questo nome avrebbe potuto rifiutare un’offerta del genere. Premette il pulsante di risposta, poi si fermò. Mise via il cellulare e tornò indietro lungo il corridoio cigolante fino a raggiungere l’ufficio dei sergenti. Alzò il telefono interno. «Blocco delle celle». «Salve, sono il sergente McRae. Si sa qualcosa del nostro amico Martyn Baker?». «È ancora al telefono con l’avvocato. Ci vuole un po’ per ricordare di rispondere “no comment” a tutto. Ci vuole pratica». «Okay, d’accordo. Io esco per un po’. Fammi un fischio appena è pronto». Uscì dall’ufficio, scese le scale e si ritrovò nel parcheggio sul retro della stazione. Qualche minimo indizio di azzurro si intravedeva in mezzo al grigio uniforme del cielo. La pioggia aveva smesso di cadere, lasciando sui parabrezza e le carrozzerie delle autopattuglie e dei furgoni parcheggiati uno strato umido e lucido. Tirò fuori il cellulare, trovò il numero di Helen e… «Sergente?». Era Ciuffo. Logan si bloccò. «Martyn Baker ha detto qualcosa?» «Ecco… no. Il secondino ha detto che stava uscendo. Le serve aiuto? Vado a prendere la Macchina Grande?». Sì, certo, perché così sarebbe stato tanto più semplice chiamare Helen.
Doveva pensare subito a qualcosa. Un’autopattuglia passò ondeggiando sulla cunetta del parcheggio, entrandovi. Doveva esserci un caso, lì fuori, che aveva bisogno di essere controllato. Logan si girò a guardare l’agente in macchina che faceva un parcheggio orrendo. «A dire il vero, volevo andare a dare un’occhiata al Broch Braw Buys. Per capire se il proprietario ha idea del perché la gang dei registratori di cassa ha scelto proprio il suo negozio, invece di un altro piccolo supermercato della stessa catena degli altri». Ciuffo annuì. «Okay. Vado a prendere il berretto». «No, non c’è bisogno. Resta qui e…». Avanti… cosa poteva far fare a Ciuffo, a parte reggere il moccolo? «Fammi un favore. Helen Edwards. Se è davvero la madre della bambina ritrovata morta a Tarlair, voglio sapere qualcosa del padre. Vedi cosa riesci a scoprire sul suo conto». «Sì, sergente». «…possibili decessi per droga a Peterhead. L’ambulanza sta arrivando». Accanto alla stazione di polizia di Fraserburgh, le case erano sfarzose e di granito. Villette da un lato della strada, case a due piani con finestre a golfo dall’altro. Logan procedette lungo Finlayson Street, con il cellulare all’orecchio, mentre la ricetrasmittente continuava a borbottare crepitando. «Non lo so, in realtà. Non hanno ancora trovato un sostituto per il sergente Muir, quindi se non trovano un altro dovrò fare ancora gli straordinari. E ufficialmente dovrei rientrare per le due, forse le due e mezzo di domattina». La voce di Helen si abbassò un po’. «Che peccato». «Mi dispiace». Lui attraversò la strada. «Non so se riuscirò a tornare a casa per cena, ma farò del mio meglio. Dipende tutto da quello che succederà stasera. Se capita qualcosa oppure no». «Be’, posso comunque rimettere in frigo le bistecche e mangiare tutte le patatine da sola». Lui mugolò. «Non tentarmi con le patatine: sono la kryptonite di qualsiasi poliziotto». A sinistra, le case si diradarono fino a lasciare il posto al parcheggio esterno del Riteway. La facciata squadrata del negozio di bricolage era macchiato di grigio scuro. Un gruppetto di ragazzini andava avanti e indietro nel parcheggio con gli skateboard, tentando trucchetti di basso livello e finendo ogni volta sull’asfalto. «Helen, sei sicura di non aver più saputo nulla del tuo ex marito? Proprio niente del tutto?» «Ho ricevuto una sola cartolina. Era la Cattedrale di San Martino, a Ourense. È arrivata tre mesi dopo che l’aveva portata via». «E poi nient’altro?» «Nella cartolina diceva: “Non perdere tempo a cercarci. Hai avuto la tua occasione di metterla contro di me. Non la rivedrai mai più, stronza frigida e gelosa. Morirai da sola, perché nessuno potrebbe mai amare un’inutile vacca come te”». Un profondo sospiro. Poi una pausa. «Il timbro postale era di Ourense. Il mio investigatore privato ci ha trascorso due settimane, nel tentativo di trovarli». Logan si fermò all’incrocio tra Finlayson Street e Gallowhill Street. «Brian sembra proprio un tipo che ci sa fare, con le parole». Oltre che uno a cui serviva un pestaggio serio. «Ho messo degli annunci nei giornali locali, dalla a alla z, ma nessuno ha riconosciuto la foto di Brian o di Natasha. È come se fossero spariti…». Dall’altra parte della strada, il Broch Braw Buys se ne stava tra il negozio di scommesse e la friggitoria. Le assi inizialmente posizionate sulla vetrina distrutta erano sparite, sostituite da una nuova e scintillante lastra di vetro che già spariva sotto a decine di avvisi e annunci vari. «Mi dispiace». «So che questo mi rende una brutta persona, ma se riuscissi a mettergli le mani addosso, lo ucciderei. Non me ne importerebbe nulla di finire in prigione. Lo ucciderei».
Una Fiat Panda lo superò, seguita da una moto, da una vecchia Land Rover e da un Transit del municipio con le fiancate arrugginite. Già… probabilmente era meglio cambiare argomento. «Helen, riguardo a oggi, prima che la Steel, Susan e Jasmine…». «No, non preoccuparti, davvero. Non avrei dovuto…». Helen prese un profondo respiro. «Ma senti quanto parlo. Dovrei lasciarti tornare al lavoro». «Sì. Giusto. Be’, ci vediamo a cena. Se ce la faccio». Forzò un sorriso. «Sai, essendoci le patatine…». Niente. «Helen?». Aveva già riagganciato. Logan sospirò. Mise via il cellulare. Attese un varco nel traffico per attraversare. Due vecchietti se ne stavano davanti al Kenya Bar and Lounge, intenti a fumare sigarette fatte a mano e a lamentarsi del fatto di essere stati buttati fuori alle tre, come del resto ogni domenica. «A tutte le unità, stiamo cercando un certo Raymond Goldmann, maschio bianco, barba grigia e cranio rasato. Mandato di arresto per atti osceni in luogo pubblico». E, a proposito di mandati di arresto… Logan sganciò la ricetrasmittente dal giubbotto antiproiettile. «Qui Pattuglia Sette. Ci sono novità su David o Catherine Bisset?». I due vecchietti lo fissarono per un attimo, poi si allontanarono. «Ricevuto. Abbiamo avuto una dozzina di segnalazioni da Dundee a Oban, passando per Edimburgo e Klimarnoch. Gli agenti locali le stanno controllando. Vuole che la metta sulla lista delle persone da aggiornare?». Perché no? «Sì, grazie». Non si sarebbe pensato che fosse così facile uccidere due persone e poi sparire, ma a quanto sembrava lo era. Rimise a posto la ricetrasmittente e tornò a voltarsi verso il negozio. Il Broch Braw Buys era più profondo che largo, con scaffali di confezioni di cereali per la prima colazione appena visibili dietro a tutti i cartelli e gli annunci appesi. Quello che offriva cento sterline a chiunque avesse dato informazioni utili a identificare i rapinatori, in modo che il proprietario del negozio potesse gambizzarli era ancora lì, in posizione centrale, sopra ai Coco Pops. La porta tintinnò, mentre Logan entrava. File di scaffali, dappertutto, pieni di confezioni di cibo e simili. L’odore che aleggiava nell’aria era uno strano misto di muffa e polvere, con un retrogusto di vernice fresca e stucco. Grandi specchi circolari erano stati appesi alle pareti, probabilmente sistemati in modo che chiunque fosse dietro al bancone potesse vedere ogni più remoto angolo del negozio. Una telecamera a circuito chiuso si trovava in ogni angolo, non molto sotto al soffitto, con le luci rosse accese. «Posso aiutarla?». Un ometto con un gilet di tweed e occhi a fessura comparve accanto a Logan. Un ispido accenno di barba gli copriva il mento sporgente, i capelli tagliati a scodella intorno a una chierica lucida. Logan indicò il pavimento, dove quattro buchi segnavano i confini di un rettangolo più pulito rispetto al resto del vecchio linoleum. «Non hanno ancora messo una nuova cassa?» «Cosa gliene pare? Certo che non l’hanno ancora messa. La compagnia di assicurazioni sta complicando le cose. Oh, non siete coperti per questo, non siete coperti per quello, non avete letto le scritte in piccolo?». Si imbronciò. «Banda di ladri bastardi. Se dovesse esserci una rivoluzione, sarebbero i primi a finire al muro». L’ometto passò la punta di una scarpa da ginnastica lungo il rettangolo pulito. «Hanno accettato di cambiare almeno la vetrina soltanto ieri. Mi hanno rubato trentacinquemila sterline di onesti guadagni, ma a loro interessa qualcosa? Neanche per idea».
«Erano solo ventisettemila, la settimana scorsa». Lui si ficcò le mani nelle tasche. «Colpa dell’inflazione. E adesso mi dica cosa vuole. Non faccio sconti ai poliziotti, almeno finché non arresterete quei ladri maledetti che mi hanno rapinato». Logan alzò lo sguardo alla telecamera di sicurezza montata sopra l’ingresso. «Devo dare un’occhiata alla registrazione della rapina». La porta tintinnò di nuovo e una bambina con un paio di short in denim e una maglietta di Chainsaw Teddy entrò, sorridendo con le fossette nelle guance e scuotendo i codini, uno skateboard di Hello Kitty sotto a un braccio. «Tu! Esci subito di qui, sei bandita da questo negozio! Avanti!». L’ometto afferrò Logan per un braccio. «Vedi? Ho qui la polizia. Se non esci subito, ti farò arrestare!». La bambina mostrò loro il medio, sputò per terra, si girò e uscì di nuovo dal negozio. Non poteva avere più di cinque anni. Il negoziante mollò Logan e si piazzò la mano sul petto, con le dita che tremavano. «Sono come sciacalli». «E la telecamera?» «Entrano qui dentro in branchi, rubano, minacciano, rompono tutto e sputano per terra». «Ha questo benedetto video oppure no?». L’uomo tirò su con il naso. «No. Quello che avevamo se l’è portato via la polizia dopo la rapina». Il che significava che doveva essere rinchiuso nel magazzino delle prove di Queen Street, ad Aberdeen. E non c’era modo che Logan potesse anche solo avvicinarcisi. Comunque, era valsa la pena fare un tentativo. Si fermò a qualche passo dalla porta. «Perché proprio lei?» «Ovviamente ci provi a parlare con i genitori, ma pensa che facciano qualcosa? Certo che no. Tra me e lei, quella gente ha paura dei propri stessi figli». «Perché i rapinatori delle casse sono venuti qui? Tutti gli altri erano piccoli supermercati della stessa catena. Perché hanno scelto lei?». L’ometto raddrizzò una pila di confezioni di carta igienica. «Io sono un uomo onesto che paga le tasse e fa le cose per bene, e questa gente è la feccia della Terra. Se dovesse capitare una rivoluzione…». «Sì, l’ha già detto. Finirebbero al muro». Logan indicò il punto in cui si trovava la cassa rubata. «Perché hanno preso di mira lei? Qualcuno è venuto a minacciarla, o voleva dei soldi per la protezione? Cose del genere?» «I bambini. Lo fanno tutto il tempo. Rubano, minacciano, sputano. Dovrei prendermi una pistola per difendermi». «Non dica stupidaggini». Logan aprì la porta. «E tolga quello stupido cartello della ricompensa. Lei non gambizzerà proprio nessuno». «Bambini? Non sono bambini, quelli, sono mostri». La porta si richiuse, tintinnando, mentre Logan usciva all’esterno. Okay, dunque il Broch Braw Buys non aveva il video della rapina. Non c’era traccia di telecamere di sicurezza sulla friggitoria accanto, ma il Kenya Bar and Lounge aveva una di quelle piccole telecamere nere sopra l’ingresso che dava su Gallowhill Road. E ce n’era un’altra accanto all’insegna dipinta, e una terza sopra l’ingresso di Finlayson Street. Perfetto. Logan bussò sulla saracinesca chiusa. Nessuna risposta. C’era qualche annuncio, nella parte vuota dietro alla saracinesca sbarrata, ai due lati della porta d’ingresso del locale. Uno pubblicizzava la serata karaoke del martedì, l’altro parlava del nuovo e migliorato sistema di sicurezza. “tutte le telecamere di sicurezza di questo locale sono collegate
con la stazione di polizia di fraserburgh. le aggressioni ai membri dello staff o ad altri clienti non saranno tollerate”. Meglio che mai. Il coro delle celle di Fraserburgh si stava cimentando in The Ballad of Eskimo Nell da qualche parte sotto ai piedi di Logan, dando a ogni verso una vibrazione a piena gola di Whitney Houston. L’equipaggiamento per il controllo delle registrazioni era stato temporaneamente posizionato su una scrivania graffiata, in un angolo di un ufficio in disuso, la cui mobilia avrebbe avuto bisogno di una mano di vernice fresca che non era mai arrivata. «C’è altro?». Logan passò il telefono nell’altra mano e prese un sorso di tè. Sembrava che Big Paul stesse controllando le sue scartoffie. «Stiamo ancora cercando dei testimoni di quella rapina. Dobbiamo controllare un paio di furti con scasso. Qualcuno ha rotto delle finestre a Inverboyndie. E vorrei provare a dare un’occhiata a Newton Drive: a quanto pare il nostro vecchio amico Lumpy Patrick sta spacciando di nuovo. E vorrei rovinargli la piazza». «Molto bene». Logan controllò il taccuino. «Dovresti anche mandare di nuovo Kate a dare supporto a Fraserburgh. E vorrei che facessi un salto a Rundle Avenue, davanti alla casa di Frankie Ferris, ogni due ore. Rendiamogli difficile spacciare droga nei dintorni. A parte questo, auguro a te, Penny e Joe un buon turno. Ci vediamo quando ci vediamo». «D’accordo, sergente». Logan prese il nastro successivo e lo inserì nel lettore. Prese un sorso di tè, mentre il macchinario ronzava e borbottava. Poi Gallowhill Road riempì lo schermo. La telecamera era stata sistemata per poter controllare gli eventi all’esterno del Kenya Bar, perché quella parte dell’inquadratura era nitida e chiara, mentre il resto della strada era deformato dalla lente grandangolare. L’immagine si allungava e distorceva sempre di più man mano che si allontanava dalla zona centrale. Logan mandò avanti la registrazione. L’orario nell’angolo in basso a destra andò avanti trenta volte più velocemente del normale. Proprio in quel momento, un Mitsubishi Warrior verde scuro passò oltre il pub, frenò di scatto e si lanciò in retromarcia attraverso la vetrina del Broch Braw Buys. Tutto in un perfetto silenzio. Il retro del mezzo saltò verso l’alto mentre entrava nella vetrina, facendo volare pacchi e barattoli. Due uomini mascherati saltarono giù, uno dal lato del passeggero e l’altro dal sedile posteriore, ed entrarono dalla vetrina distrutta. Quarantacinque secondi dopo, il Warrior balzò in avanti, strappando la cassa dal pavimento e trascinandola in strada. Poi gli uomini la caricarono nel bagagliaio e fuggirono. Un minuto e cinquanta secondi in tutto. Più di quanto ci era voluto per razziare il supermercato di Portsoy, ma a quel punto dovevano essere diventati esperti. Logan si appoggiò allo schienale della sedia e tamburellò con le dita sulla scrivania. Un minuto e cinquanta secondi. Non era un atto di coraggio, era idiozia. Quel negozio distava forse tre minuti a piedi dalla stazione di polizia. Meno di un minuto in auto. Quegli uomini dovevano essere molto sicuri di loro stessi, per tentare un colpo così rischioso. Certo, a pensarci bene, ci sarebbe voluto probabilmente un minuto e mezzo per chiamare la polizia e spiegare quello che stava succedendo. E sarebbe stato realistico aggiungerci un minuto per riprendersi dallo shock. E poi altri cinque minuti perché una volante uscisse dalla stazione. E un altro minuto per arrivare sul posto. In tutto, quasi nove minuti. Quando la polizia fosse arrivata al Broch Braw Buys, la gang sarebbe già potuta essere a Rosehearty senza neanche infrangere i limiti di velocità. Comunque, era un grosso rischio.
O quella gente era molto, molto fortunata, o sapeva davvero quello che stava facendo. E, considerando il numero di casse che avevano strappato via dai piccoli supermercati fino a quel momento, non poteva essere fortuna. Logan rimandò indietro la registrazione. Non potevano aver scelto quel posto a caso. Dovevano averlo controllato, se non altro per sapere dove si trovasse la cassa al suo interno. Tornò a tamburellare con le dita sulla scrivania. Se si voleva mandare una quattro per quattro contro una vetrina, lo si sarebbe fatto senza pensarci, e al diavolo le conseguenze? Oppure si sarebbe scelto di passarci davanti prima, per assicurarsi che non ci fosse nessuno dietro alla vetrina? Magari avevano un palo che li avvertiva al momento giusto. E non avrebbero scelto di cambiare veicolo per i controlli, giusto? Non prima della rapina. Dopo, semmai. Ma meno si complicavano le cose prima, e meglio sarebbe stato. Il che significava che, prima o dopo, quella quattro per quattro rubata sarebbe comparsa davanti alla telecamera del pub, solo che gli uomini all’interno non avrebbero indossato delle maschere. Si sarebbero accostati e qualcuno sarebbe sceso, sarebbe entrato nel negozio e avrebbe scoperto quello che dovevano sapere. Il tutto registrato dalla telecamera. Tornò indietro fino all’inizio della registrazione, ma non c’era traccia del Mitsubishi Warrior. Logan ricontrollò le carte. Il furto del mezzo era stato denunciato solo dopo che la polizia si era presentata a casa del proprietario per arrestarlo. Quell’idiota non si era neanche accorto che l’auto mancava, finché non era stata ritrovata due giorni dopo la rapina, bruciata in un campo a nord di Woodhead. Forse avevano lasciato scendere il palo dietro l’angolo, facendolo avvicinare a piedi? Logan ricontrollò la registrazione, ma non vide nessuno che indugiava sulla strada con aria sospetta e parlando al cellulare. Okay, poteva controllare il giorno prima. Espulse la cassetta e inserì quella di domenica. Riprodusse il filmato, mentre inseriva il numero di Ciuffo nella ricetrasmittente. «Qui Pattuglia Sette, puoi parlare?» «Sono al verso quarantasei, sergente. Questa Eskimo Nell sembra…» «Che succede con Martyn Baker?» «Gli hanno assegnato un avvocato d’ufficio giù a Dundee». «Dundee? Sì, certo, molto utile. Arriva o no?» «Verso quarantasette. Be’, si penserebbe che questa tizia dopo un po’ si stanchi di…». «Ciuffo!». «Mi scusi. Non lo so, sergente. È ancora al telefono». «Okay, fammi sapere qualcosa appena attacca». Rimise a posto la ricetrasmittente e osservò lo schermo, accigliandosi. Nella registrazione, una piovosa domenica mattina a Fraserburgh andava silenziosamente avanti. Alcune persone superarono la telecamera, sole o in coppia, con le spalle curve contro il vento. Neanche una con l’ombrello. Non aveva senso cercare il Mitsubishi Warrior. Ricontrollò le carte. Secondo il proprietario, l’ultima volta che l’aveva usato era stato venerdì sera. Non potevano averlo rubato quel giorno: sarebbe stato troppo tempo prima della rapina. Non appena ne fosse stato denunciato il furto, la polizia sarebbe stata avvertita, gli agenti si sarebbero messi a cercarlo e tutte le telecamere automatiche per il controllo delle targhe l’avrebbero segnalato. Sarebbe bastata una di quelle per fregarli. Quindi dovevano aver usato un altro veicolo per controllare il luogo.
Controllò tutte le registrazioni della giornata a velocità 6x. Non vide macchine sospette. E gli unici due individui sospetti nelle vicinanze risultarono gli stessi vecchietti che aveva visto quel giorno fuori dal Kenya Bar. Certo, se i rapinatori non si vedevano su quella telecamera, non significava che non potessero essere sulle altre due del pub. Si allungò verso il pulsante di espulsione… e si bloccò. Premette il tasto di pausa, invece. E fissò lo schermo stringendo gli occhi. C’era un giovane con un giubbotto blu che stava uscendo dal Broch Braw Buys, con gli auricolari nelle orecchie e una busta di plastica in una mano. Premette il tasto di riproduzione. L’uomo avanzò verso la telecamera, i lineamenti sempre più nitidi a ogni passo, finché non fu perfettamente a fuoco. Logan bloccò di nuovo il video. Premette il pulsante per ingrandire l’immagine. Capelli neri e corti, un naso allungato, un pizzetto corto e ispido. «Bene, bene, bene». Stampò l’immagine. Il macchinario ronzò e ticchettò, poi produsse una stampa a colori dell’uomo sullo schermo. Tony Wishart. Fissato con la storia e topo d’appartamento. Logan premette di nuovo il pulsante di riproduzione. Wishart superò la telecamera e sparì dallo schermo. La cassetta fu espulsa. Logan inserì quella della telecamera successiva e la mandò avanti fino al momento che gli serviva. Tony Wishart entrò nell’inquadratura, sotto alla telecamera. Si fermò all’incrocio. Guardò a sinistra, poi a destra e poi di nuovo a sinistra. Attese che una Fiat Panda passasse e poi attraversò Finlayson Street. Girò a sinistra… e svanì dietro a un grosso furgone di trasporti con la scritta “magnus hogg e figlio: spostiamo famiglie dal 1965” sulla fiancata. Una Fiat rossa passò sulla strada. Poi una Audi blu. Ancora nessuna traccia di Tony Wishart. Un gruppetto di bambini passò sotto la telecamera, seguito dalle madri con i passeggini. Dove diavolo era finito? Erano già passati quattro minuti. O si era infilato nel furgone, oppure in una delle case dietro di esso. Logan provò con la terza telecamera, ma non trovò nulla di nuovo. Quindi… Wishart stava rapinando una casa, o si era nascosto? Fece un’altra stampata. C’era un solo modo per scoprirlo.
Capitolo 41
La Macchina Grande scivolò lungo Gallowhill Road, raggiungendo l’incrocio con Finlayson Street. Logan fece un cenno a Ciuffo. «Procedi pure». Lui annuì. «Sì, sergente». Seduti sul sedile posteriore, gli agenti King Kong McMahon e Dundee Bill si sporsero in avanti. Dundee era grosso, ma la testa di King Kong sfiorava il tettuccio della macchina. La sua grossa testa squadrata sfoggiava capelli cortissimi, lunghe basette, lineamenti pesanti e un sorriso raggiante. Dundee, d’altra parte, sembrava un appendiabiti infilato in un’uniforme da poliziotto. Orecchie a sventola, un lungo naso sottile e una quantità di rughe in faccia che avrebbe fatto vergognare una camicia di lino. Ciuffo lanciò uno sguardo nello specchietto retrovisore. «Tony Wishart. Maschio bianco, diciotto anni, ricercato per diciotto furti con scasso. Gli piace rubare oggetti storici, insieme ai soliti computer, cellulari e gioielli. Non sembra un violento, ma c’è sempre una prima volta». Un grosso indice picchiettò la spalla di Ciuffo. La voce di King Kong era molto più affettata di quanto non ci si sarebbe potuti aspettare. «Ci sono possibilità che ci troviamo davanti un cane? O un’arma da fuoco?» «Sergente?». Logan scosse la testa. «Niente cani e niente armi». «Bene. Odio ritrovarmi pezzi di Rottweiler su tutta l’uniforme. Poi ci vuole un secolo per ripulirla». Dundee Bill sogghignò. Nessuno dei suoi denti sembrava puntare nella stessa direzione di un altro. «Ti ricordi quella volta in cui eravamo in quella palazzina con Spooney Birch?». Dundee piantò una mano sull’altra spalla di Ciuffo. «Spooney è entrato per primo, a passo di carica, urlando “polizia, tutti faccia a terra!”». King Kong sospirò. «Avanti, non è stata colpa sua». «E all’improvviso si sente questa serie di latrati acuti, e Spooney urla. E intendo un urlo vero, di quelli a pieni polmoni. Allora entriamo tutti di corsa… ed eccolo lì, al centro del salotto a ballare la tarantella». «Si è beccato trentadue punti, non mi sembra molto divertente». «Solo che aveva un Jack Russell terrier attaccato alle palle. Che ringhiava e si scuoteva mentre lui cercava di staccarselo di dosso con il manganello. Billy Smith ha registrato tutto sul cellulare». Il ghigno si allargò. «Non avevo riso così tanto da quando Jimmy Deacon era caduto nel porto». «Non sei un amico gentile e fidato, tu, vero, Dundee?» «No». La fila di negozietti comparve sulla sinistra. Logan mostrò la stampata della telecamera del pub mentre si avvicinavano all’incrocio. Una fila di case di recente costruzione, pulite e scintillanti, se ne stava di fronte al Kenya Bar. Solo la più vicina doveva essere stata nascosta dal furgone di trasporti. Logan la indicò. «Ci siamo». «Luci e musica, sergente?» «Vai pure». Ciuffo premette il pulsante al centro del cruscotto e schiacciò il pedale dell’acceleratore. La Macchina Grande scattò in avanti, svoltò l’angolo sbandando e si fermò con un forte stridore di freni davanti al primo degli edifici nuovi. Uscirono dall’autopattuglia, sotto a un cielo ancora grigio,
Ciuffo e Dundee che superavano con un salto la recinzione del giardino posteriore, mentre Logan e King Kong percorrevano il breve vialetto che conduceva all’ingresso principale. King Kong piegò la testa da un lato e poi dall’altro, con un imponente schioccare di vertebre. «Vuole che la butti giù?» «Proviamo prima con i metodi normali, eh?». Logan allungò una mano e premette il campanello. Produsse un lieve ronzio. Non ci fu risposta. Le ginocchia di King Kong schioccarono, mentre l’agente si abbassava a sbirciare all’interno dalla buca delle lettere. Dal foro si udì un ritmo frenetico di batteria e chitarre. «Credo proprio che ci sia qualcuno all’interno». «È chiuso a chiave?». La maniglia si abbassò e la porta si aprì. Entrarono. Il corridoio era piacevole, forse un po’ triste con i suoi muri color magnolia, ma per il resto normale. Una vecchia Bibbia rilegata in pelle era sistemata su un tavolino all’ingresso, accanto al telefono, con gli angoli rovinati e il titolo in lettere dorate quasi cancellato. La musica veniva dal fondo del corridoio, le parole urlate e inframezzate da assoli di chitarra che sembravano uno strano miscuglio tra rock elettronico ed heavy metal. Il soggiorno era vuoto. Il salotto era vuoto. King Kong aprì una porta, trovandosi davanti un minuscolo bagno. Anche quello era vuoto. Restava solo la cucina. Logan si fermò sulla porta. Era aperta di qualche centimetro. Mobili nuovi, dall’aspetto più costoso di quelli che si era potuto permettere per arredare la cucina dell’abitazione dove viveva adesso. Piani neri, piastrelle lucide, pensili di quercia. Un impianto stereo portatile era sistemato al centro del bancone della colazione, con un lettore mp3 inserito sopra. Riuscì a intravedere per un attimo un lampo di maglietta viola e jeans neri attraverso lo spiraglio nella porta, prima che sparisse di nuovo. Sembrava che il tizio all’interno si stesse divertendo a cantare un po’ da solo. Ma non era un granché, a dire il vero. Le parole le conosceva, ma era stonato come una campana. Logan mise una mano sul battente e lo spinse. Si aprì di scatto. Un giovane era fermo vicino alla dispensa, dando le spalle alla porta, intento a versarsi quella che sembrava birra da un decanter di cristallo in un boccale. Canticchiava a tempo, stonato, con chiunque stesse cantando dalle casse dell’impianto stereo. C’era nell’aria l’odore speziato dell’anice stellato, misto a quello di coriandolo e pepe, presumibilmente proveniente dai tre contenitori termici lasciati sul bancone della colazione. Spaghetti orientali, qualcosa con dei gamberi e quelle che sembravano costine di maiale. Una confezione di nuvolette di gamberi era appoggiata lì accanto. Lo stomaco di Logan brontolò come un tasso inferocito. Chi aveva detto che il crimine non paga? Il tipo non si era ancora girato, quindi Logan scivolò in cucina e premette il pulsante di spegnimento sull’impianto stereo. Quella sottospecie di canto continuò per un paio di secondi, «Old School Hollywood…», poi si fermò. Il cantante si schiarì la gola. «C’è qualcuno, lì dietro, vero?». A quel punto si voltò. E sgranò gli occhi. «Merda». Logan sorrise. «Tony Wishart, suppongo. Che piacere. Dimmi, Tony: la Bibbia all’ingresso è quella che hai rubato a Pennan?». Lui posò il decanter sul pianale della cucina. Si leccò le labbra. «Non so di cosa parla».
«Questa è casa tua, Tony?». Wishart si spostò lievemente verso sinistra. «Io… la sto curando per una cara vecchia signora. La poveretta ha l’Alzheimer. È caduta e si è rotta l’anca, così mentre è in ospedale io… ecco, faccio la mia parte». «A me non sembra la casa di una vecchia signora». Logan indicò. «E lasciami indovinare, quello è il decanter della Cutty Sark?». Wishart strinse le labbra, serrando le mascelle. Si guardò intorno, prima a sinistra e poi a destra. Stava per tentare la fuga. Lo vide tendere le caviglie e i muscoli. Pronto a scattare. L’agente King Kong McMahon entrò in cucina, riempiendo la porta con la sua mole. «Oh, no. Non ci provare». «Oh, sì, invece!». E Wishart si lanciò nella direzione opposta, spalancando le ante della credenza, scattando oltre il mobile e fuggendo nel giardino sul retro. King Kong lo seguì correndo, con Logan alle calcagna. Dundee Bill comparve dal nulla, le braccia aperte come un portiere, e Wishart scartò di lato, superandolo e uscendo in giardino con Dundee e Ciuffo all’inseguimento. Poi superò l’alta recinzione di legno, usando un bidone di plastica del compost per aiutarsi. Ciuffo non si fermò in tempo e finì dritto contro la recinzione. Rimbalzò indietro e finì sulla schiena con un «Whoooof!». King Kong caricò dritto contro il bidone e superò la palizzata. Logan si fermò scivolando sull’erba bagnata e afferrò il legno, sbirciando oltre come un vecchio graffito di Kilroy. Wishart stava correndo giù lungo Mid Street con tutta la velocità che gli consentivano le gambe magre, mentre la mole scimmiesca di King Kong gli correva dietro, guadagnando lentamente terreno. Dundee Bill si fermò di scatto accanto a Logan, sogghignando. Portò le mani alla bocca a mo’ di megafono. «corri, forrest, corri!». Ma niente, Wishart era più veloce. Quel piccolo bastardo stava per riuscire a darsela a gambe… Poi una bicicletta sbucò tra due auto parcheggiate e… crash. Tutto finì in un mucchio scomposto di braccia, gambe, ruote e imprecazioni. Dundee fece una smorfia. «Non deve essere stato piacevole». Tony Wishart restò sdraiato sull’asfalto, un piede ancora incastrato nella struttura della bicicletta. Si rialzò in ginocchio, giusto in tempo per essere placcato da King Kong. «Ooh…». Dundee risucchiò un respiro tra i denti storti. «Ma questo ancora meno». «A tutte le unità, stiamo cercando una Vauxhall Astra rosso scuro, rubata dall’esterno della friggitoria di Gardenstown…». Tony Wishart era seduto al bancone della colazione, con una busta di mais surgelato premuta contro il lato sinistro del viso. «Mi sa che mi sono scheggiato un dente». La barbetta sul mento era macchiata di sangue rappreso, dove aveva sbattuto sull’asfalto. Logan gli si sedette di fronte e prese una nuvoletta di gamberi. Fredda, ma ancora buona. «Allora, cosa troverò quando andrò a perquisire questa casa, Tony? Una baionetta della prima guerra mondiale? Forse qualche quadro degli anni ’20?». Un’altra nuvoletta, masticando tra una parola e l’altra. «E tutta quella roba che è sparita dal museo dell’Aberdeen Heritage di Mintlaw?». Il giovane staccò la busta di mais surgelato dalla guancia. Si intravedeva già un bel livido, in quel punto. «Immagino non mi aiuterebbe dirvi che li ho trovati, vero?» «In effetti, no». «Pfff…». Wishart posò la confezione sul bancone. Si fece schioccare otto dita una per una, seguite dai pollici. «Come sapevate dove trovarmi? Qualcuno ha parlato, vero? È stato Baz? Scommetto che è stato lui, è sempre stato uno stronzo».
Logan tirò fuori le due stampe della telecamera del pub e le sollevò una alla volta. «Questo sei tu che esci dal Broch Braw Buys. E questo sei sempre tu che sparisci dietro a un furgone di trasporti. Non sei più tornato fuori, quindi ho pensato che fossi entrato nella casa che c’era dietro». Posò i fogli sul bancone. Poi aggrottò la fronte. C’era qualcosa… «Ero andato solo a prendere il tè». Wishart afflosciò le spalle. «Posso almeno mangiare il mio spuntino?» «Spiacente». Logan rimise i coperchi sulle confezioni termiche. «Ma possiamo fare un patto. Tu mi fai vedere tutto quello che hai rubato e nascosto qui dentro e mi dici dove si trova il resto, e io mi assicurerò di far sapere allo sceriffo che hai collaborato». Ciuffo fece scivolare l’ultimo scatolone dentro al bagagliaio della Macchina Grande. Un sestante d’ottone sporgeva dalla sommità, sistemato tra vecchi dischi per grammofono e mappe arrotolate. L’agente si scostò e richiuse lo sportello. «Finito». «Bene». Tony Wishart se ne stava schiacciato sul sedile posteriore, con la sua busta di mais congelato, stretto in mezzo a un mucchio di scatoloni pieni di oggetti storici. Dipinti, vasi, piatti, una valigetta da medico della guerra di Crimea, penne, pipe, fotografie, libri… Un busto di porcellana di un uomo in uniforme della Marina, morto da chissà quanto tempo, era appoggiato sul sedile del passeggero, tenuto fermo da una serie di strisce fluorescenti gialle di solito utilizzate per trattenere gente poco collaborativa. «È sicuro di voler andare a piedi, sergente?» «Sono solo due minuti di passeggiata. Vai pure». Ciuffo si mise al volante. Logan restò sul marciapiede mentre l’autopattuglia si allontanava. Okay, Tony Wishart non era esattamente un incrocio tra Hannibal Lecter e il professor Moriarty, ma almeno la brava gente di Pennan e di altri centri abitati a nord avrebbe riavuto le sue anticaglie storiche. King Kong chiuse la porta della casa e intascò le chiavi. «Questo metterà la parola fine ai furti con scasso irrisolti». «Come sta la gamba?». Lui abbassò lo sguardo al buco nei pantaloni, dove si intravedeva un ginocchio sbucciato. «Colpa mia, per averlo voluto placcare a tutti i costi». King Kong avanzò sul marciapiede. «Deve sostituire di nuovo Davey Muir?» «Sto espiando i miei peccati, a quanto pare». Logan prese la busta da dietro il cancello del giardino e si allontanarono lungo la strada, mani dietro la schiena e piedi che avanzavano con una regolarità da metronomo. Non stavano passeggiando, stavano marciando. Non avevano percorso neanche metà della strada quando Logan si fermò di scatto. Posò la busta su un muretto e tirò fuori le stampate della telecamera. «Sergente?». Le tese a King Kong. «Cos’è che non sto vedendo?». L’agente aggrottò la fronte, accigliandosi. Osservò le foto. «Non ne ho idea. Forse una persona scomparsa? Un’auto rubata? Ha riconosciuto una targa?» «No». Lui rimise i fogli in tasca e riprese la busta. «Ma c’è qualcosa». Logan si allontanò dalla zona della cucina e poi tornò indietro, con il cellulare premuto contro l’orecchio. «Che significa, “non è lì”?» «È tornato a casa». La mensa della stazione di Fraserburgh era deserta, a parte Logan, il televisore silenziato e il ronzio del forno a microonde. Inutile, stupido, pigro, bugiardo piccolo bastardo.
«Mi doveva far avere dei risultati su un’analisi entro la fine del turno!». «Che posso dire? È tornato a casa. Sarà qui domattina alle nove, quindi si senta libero di chiamare e urlargli contro. Io ho del lavoro da fare, adesso». Logan premette il pulsante di disconnessione della ricetrasmittente. Si alzò e fissò la tv con astio. Perché nessuno riusciva mai a fare il suo dannato lavoro? Fortunatamente, non aveva detto a Helen di aver fatto pressioni per accelerare l’arrivo dei risultati. Non ci avrebbe fatto una bella figura. Il ronzio del forno a microonde si fermò con un tintinnio, e Logan recuperò i contenitori di plastica, scottandosi i polpastrelli. «Ooh, brucia, brucia, brucia…». Li posò su un piatto, prese una forchetta e tornò al tavolo della mensa. «Pattuglia sette, potete parlare?». Niente, non gli concedevano neanche cinque minuti di pausa. Si afflosciò sulla sedia. «Parlate pure». «Ci aveva dato una segnalazione di persona scomparsa per un certo Charles “Craggie” Anderson. È stato visto mentre comprava una pomata per le emorroidi nella farmacia di Peterhead». «Sì, fantastico. Hanno trovato il suo cadavere domenica mattina nelle Orcadi. Quindi, a meno che non si tratti di un fantasma, probabilmente è qualcun altro». Logan aprì i contenitori termici, facendo uscire una zaffata di vapore orientale. «Potete cancellare la richiesta?» «D’accordo». Posò di nuovo la ricetrasmittente sul tavolo. Si leccò le labbra. Le costine erano quasi troppo roventi per toccarle: lucide, speziate, carnose e… Dio santo. «Sergente». Ciuffo si lasciò cadere sulla sedia davanti a lui. «Ooh, nuvolette di gamberi!». Ne prese una. Logan si succhiò la salsa dalle dita e lasciò cadere un osso spolpato sul piatto. «Non dovresti essere a casa? Il turno è finito venti minuti fa». L’altro continuò a masticare rumorosamente. «Volevo assicurarmi che sapesse tutto. Martyn Baker ha parlato con il suo avvocato e ora è seduto nella sala degli interrogatori numero due, in attesa di un interrogatorio a base di no comment». Qualche briciola di nuvole di gamberi si fermò sulla T-shirt nera del giovane agente. «Vuole che assista all’interrogatorio? Non c’è mai niente di interessante in tv, la domenica sera». E continuò a masticare. Un altro osso fu spolpato e scaricato sul piatto. «Okay, ma solo perché non ti voglio rimandare a casa con la Macchina Grande». Si succhiò di nuovo le dita e tirò fuori le stampate. Le posò sul tavolo, spingendole verso Ciuffo. «Riconosci qualcuno o qualcosa, qui?». Lui prese un’altra nuvoletta di gamberi. Aggrottò la fronte, masticando. «Forse questa?». Indicò una Kia blu che risaliva Mid Street, puntando verso il Kenya Bar. «Il numero di targa non si legge bene, ma potrebbe essere quella che è stata rubata a Peterhead? Era sulle slide del briefing di lunedì». «E tu riesci a ricordare un numero di targa visto lunedì?». Ciuffo continuò a masticare. «È facile: basta trasformarli in parole. Questo qui sembrava un po’ come leggere “Moontihum”. Vuole che controlli sul sistema?» «Sì, grazie». Ciuffo si appuntò il numero di targa della Kia, il modello e il colore. Poi fece una pausa. Alzò lo sguardo, le sopracciglia unite come se gli fosse improvvisamente venuto in mente qualcosa di fondamentale. «Sergente?» «Cosa?» «Posso avere una costina?».
Logan soffocò a stento un piccolo rutto, che gli riportò in gola il sapore di gamberi orientali con spaghetti fritti in salsa speciale e costine in agrodolce. Martyn Baker si agitò dall’altra parte del tavolo, nella stanza per gli interrogatori. «No comment». «Ti ho solo chiesto come descriveresti la tua voce, Martyn. Non sto cercando di incastrarti». «No comment». Logan fece un cenno a Ciuffo. Lui posò la bustina di erba sul tavolo, con un movimento aggraziato. «Sto mostrando a Mr Baker la busta di cannabis che gli ho trovato addosso quando l’ho perquisito nel pomeriggio». Logan la toccò appena. «Non è poi così tanta, vero, Martyn? Avrei immaginato che un grosso spacciatore del sud ne portasse di più addosso». «No comment». Sembrava che in cella si fosse dedicato ai suoi foruncoli. Due erano rossi e gonfi, e uno un cratere vuoto chiuso da una crosta rosso scuro. «Hai in mente di espanderti in tutto l’Aberdeenshire, o soltanto intorno a Banff?» «No comment». Martyn lo fissò con astio da sotto le sopracciglia folte. «E non sto espandendo niente da nessuna parte. Sono qui in vacanza con la mia donna e la mia bambina. Siamo qui da qualche settimana». «Come hai conosciuto Colin “Klingon” Spinney e Kevin “Gerbillo” McEwan?» «No comment». «Come hai conosciuto Francis “Frankie” Ferris?» «No comment». «Questa busta era un campione di qualcosa? Stai cercando di ampliare gli affari?» «No comment». Le dita di Martyn non stavano ferme un secondo, muovendosi avanti e indietro lungo il bordo del tavolo graffiato. «D’accordo». Logan infilò una mano nella busta di carta davanti a lui e ne trasse una scatolina di cartone. Il modulo stampato su di essa era riempito a penna blu. Vi si leggeva perché era stato requisito il cellulare, da chi, dove e quando. Maggie era riuscita di nuovo a sbagliare il suo cognome. Aprì la scatola e fece scivolare fuori il grosso Samsung. «Questo è il tuo cellulare. Ricordi? L’abbiamo confiscato perché lo stavi usando alla guida». Baker si leccò le labbra. Tenne gli occhi fissi sulle dita agitate. «No comment». «Quando lo manderemo ad analizzare, cosa credi che scopriremo? Tanti piccoli segreti, scommetto. Tanti…». Baker chinò il capo, mentre le spalle sussultavano. Una volta. Due volte. Tre. Poi si udì un singhiozzo. Seguito da un gemito. Qualche lacrima gli piovve sulle dita tremanti. Un tantino estremo. Ma forse aveva finalmente compreso che stava per essere accusato di un tentato omicidio. Logan batté le dita sul tavolo. «C’è qualcosa che vuoi dirci, Martyn? Lo sappiamo comunque, ma magari possiamo ascoltare la tua versione della storia». Martyn Baker sembrò farsi tre volte più piccolo, mentre incurvava la schiena e le spalle gli salivano fino alle orecchie arrossate, mentre stringeva i pugni al petto. «Non doveva succedere. Doveva essere solo un avvertimento…». «Mi pare sia stato un po’ esagerato, come avvertimento, non trovi?». Insomma, massacrare qualcuno con una mazza da baseball non era proprio un messaggio tra le righe. «Doveva essere un avvertimento. Stai fuori dal nostro territorio. Non volevo che… È stato un incidente». Un incidente. Con una mazza da baseball? «Mi stai prendendo in giro? Come si fa a dire che è stato un incidente…?» «Il proiettile deve aver… non lo so, rimbalzato da qualche parte. Io non miravo a lei, lo giuro». Alzò verso Logan gli occhi arrossati. «Lo giuro sulla vita di mia figlia, è stato un incidente».
Proiettile? Okay, non era esattamente quello che si aspettavano. Ciuffo fece per parlare, ma Logan lo colpì con un calcio sotto al tavolo. «Ahi!». Gli puntò contro un dito ammonitore. Ciuffo richiuse di scatto la bocca. Baker chinò di nuovo il capo. «Io non volevo spararle. A quel punto, ho dovuto per forza di cose cercarmi un posto lontano dalla civiltà dove tenere un basso profilo». Le spalle gli sussultavano a tempo con i singhiozzi. «Ho detto a Elsie di mettere qualcosa in borsa mentre andavo a prendere Mandy dalla nonna. Abbiamo caricato la macchina e ce ne siamo andati. Via, più lontano possibile da quel casino». Tirò su con il naso. «Poi in televisione hanno detto che era una poliziotta sotto copertura». Logan si lasciò sfuggire un lungo e lento respiro. «Hai sparato alla poliziotta sotto copertura di Liverpool, e sei scappato a Banff per nasconderti». «Io non volevo. Non volevo, davvero. È stato un incidente». Santo cielo benedetto. «Dov’è l’arma del delitto?» «Dovevano solo essere un paio di colpi in aria, per spaventarli». «Martyn, che ne hai fatto dell’arma? Noi…». Qualcuno bussò alla porta della stanza. Oh, ma che… Logan chinò il capo. Chiunque fosse, lì fuori, non avrebbe potuto avere un tempismo peggiore neanche a provarci. Strinse la mano a pugno, premendosela contro la coscia. Si costrinse a tenere bassa la voce. «Agente Quirrel, vada a vedere chi è». Ciuffo scostò la sedia e si avvicinò alla porta. Uno scatto. Uno scambio di parole a voce bassa. Poi tornò e si chinò a sussurrare all’orecchio di Logan. «Sergente, è l’ispettore capo McInnes e sembra incazzato come se qualcuno gli avesse legato le palle a un Rottweiler furioso». Logan mantenne lo sguardo su Martyn Baker. «Digli che sono occupato». «Sì… ma è piuttosto insistente. E molto, molto arrabbiato». «D’accordo. L’interrogatorio è sospeso alle diciotto. Il sergente McRae lascia la stanza». Si alzò, spingendo un taccuino vuoto lungo il tavolo graffiato. «Forse preferisci scriverlo, Martyn. Metti tutto per iscritto. Potrebbe farti sentire meglio». Poi uscì in corridoio, chiudendosi dietro la porta della stanza. McInnes prendeva tutto lo spazio che gli era possibile, con le braccia alzate e le mani chiuse ad artiglio. Le rughe che aveva ai lati della bocca sembravano incise a colpi di motosega, i lineamenti arrossati non lasciavano presagire nulla di buono, e i denti erano mostrati in un sorriso cattivo. La voce, tuttavia, era piuttosto calma. «Cosa crede di fare, esattamente, sergente?» «Sto interrogando il mio sospetto, quindi…». «Le avevo detto o non le avevo detto di stare lontano dall’Operazione Troposfera? Perché a me sembrava proprio di averlo fatto». Logan raddrizzò le spalle. «Ho fermato e perquisito il soggetto e l’ho trovato in possesso di sostanze stupefacenti. Stavo soltanto facendo il mio lavoro». «No, lei stava cercando di creare problemi a me e alla mia operazione». L’ispettore capo si fece più vicino. «Ha arrestato quell’uomo, l’ha trascinato fin qui da Banff e ha detto a tutti di non farmelo sapere. Pensava davvero che non l’avrei scoperto?». Il sorriso si fece ancora meno piacevole. «Non ha idea di quello che sta facendo, vero?» «Perché, solo perché ho arrestato il Candelaio prima di lei? A me sembra di sapere esattamente quello che sto facendo». L’altro sollevò un sopracciglio. «Candelaio? E cosa diavolo è un “Candelaio”?» «L’uomo che ha rifornito Kevin McEwan e Colin Spinney, magari».
McInnes scoppiò a ridere. Fu una risata sguaiata, di pancia, che lo lasciò senza fiato, ad asciugarsi gli occhi dalle lacrime. «Non Candelaio, idiota… Caramellaio. Il fornitore si fa chiamare Caramellaio. L’Uomo delle Caramelle. E non è lui». Oh… Logan alzò lo sguardo al soffitto. «Caramellaio». Quindi aveva passato l’ultimo giorno e mezzo a dare la caccia a un fantasma che neanche esisteva. Grazie tante, Jack Simpson. Idiota. «Pensava di mettersi in mezzo nell’Operazione Troposfera. Le avevo intimato di stare lontano da tutto e tutti coloro che avevano qualcosa a che vedere con la mia indagine, e lei è andato comunque ad arrestare Martyn Baker». Logan scosse la testa. «Lei ha appena detto che non ha niente a che fare con Klingon e Gerbillo, quindi…» «Sì, ma lei pensava il contrario». McInnes si fece avanti di un passo. Ora era abbastanza vicino da far sentire il suo respiro caldo sulla guancia di Logan. Sapeva di sigarette e mentine extraforti. «Pensava che avesse a che fare con loro e l’ha arrestato comunque, anche se sapeva che le avevo detto di smetterla. Ha fatto del suo meglio per rovinare me e la mia operazione». Le rughe ai lati della bocca di McInnes si fecero ancora più profonde. «Pensa davvero che la farà franca, sergente?». Ovviamente non sarebbe successo. «Non aveva nulla a che vedere con il suo caso». «Ma lei ha fatto casino comunque». L’ispettore capo lo pungolò sul petto con l’indice. «E sa cosa? Non l’avrei neanche scoperto, se lei non avesse cercato di tenermelo nascosto». Girò i tacchi, allontanandosi lungo il corridoio. «McRae, glielo avevo detto: le avevo dato un ultimo avvertimento. Quello che accadrà da ora in avanti sarà soltanto colpa sua». Fantastico.
Domenica, turno di notte
Bruciature
Capitolo 42
Logan si afflosciò sulla sedia e si portò una mano sugli occhi. Per qualche motivo, la stanza con l’apparecchiatura di osservazione era piena di un distinto odore di formaggio. Quel genere di odore che si sviluppa in una piccola auto lasciandoci dentro un pezzo di gorgonzola sotto al sole di agosto. «Be’, come potevo sapere che Jack Simpson avesse capito male?» Dall’altro capo della linea, l’ispettore del turno di notte sospirò. Sembrava ancora piuttosto intasato, come se gli avessero ficcato dei mattoni in ogni narice. «Era pieno di eroina e qualcuno lo stava pestando quasi a morte, quando ha sentito quel nome. Quanto ti ricorderesti tu?» Già, ma così non era certo d’aiuto. «Comunque, vediamo il lato positivo: abbiamo risolto l’omicidio di un poliziotto sotto copertura. Qualche punto l’hai ottenuto, da lì, Logan. Non so se basterà a evitare che McInnes ti rovini, però». Anche così non era molto d’aiuto. «Abbiamo ottenuto una confessione firmata e sta rivelando i nomi di due dei suoi complici, quindi…». Qualcuno bussò alla porta. «Sergente?». Quando Logan si tolse la mano dagli occhi, vide Ciuffo, con due tazze fumanti e una copia del «Sunday Post». Posò una tazza davanti a Logan e gli fece sapere, in labiale: «Sto cercando i biscotti». Si stava già ritirando quando Logan gli fece cenno di tornare indietro e posò la mano sul ricevitore del telefono. «Dai un’occhiata e vedi se riesci a notare qualcosa di strano». Si spostò con la sedia e indicò lo schermo. La visuale della telecamera numero tre del pub era stata messa in pausa, fissa sull’immagine della strada, con il furgone dei trasporti e i bambini che passavano. Logan tolse la mano dal ricevitore. «Mi scusi, ispettore, è entrato qualcuno». «Chiamerò la polizia del Merseyside. Probabilmente manderanno una macchina a prenderlo, ma sono piuttosto certo che il sovrintendente capo non lascerà andare Martyn Baker da nessuna parte finché non avremo fatto una conferenza stampa congiunta. Non permetteremo a quattro stronzi di Liverpool di prendersi tutto il merito dell’operazione». Si sentiva chiaramente che stava sorridendo. «Ci penso io». Ciuffo si accostò allo schermo e armeggiò con i controlli, mandando avanti la registrazione. «Il problema è che non sappiamo ancora chi sia stato a fornire il carico a Klingon e Gerbillo». «Sì, be’, sono certo che l’ispettore capo McInnes ce lo dirà, quando lo riterrà opportuno. E non un attimo prima. Nel frattempo, cosa pensate di fare tu e i miei cari sottoposti della Divisione b, stanotte?». Logan controllò la lista degli agenti di turno e i casi aperti, mente Ciuffo mandava indietro la registrazione e la ricontrollava per la quarta volta. Logan chiuse il taccuino. «Capo, non si sa ancora niente di quel mandato di perquisizione per la casa di Frankie Ferris, vero?» «Darò un’occhiata. Quando vorreste entrare?» «Domani. Se avrò gli agenti per farlo. Potrei provare con l’Unità di Supporto». «Okay, procedi pure. Ma intanto assicurati di far sapere ai secondini che Martyn Baker non si muoverà dalla sua cella e non parlerà con nessuno finché non lo decido io». «Sì, capo». «E, Logan? Ottimo lavoro». Santo cielo: una lode. Per una volta. «Però, ti prego, per l’amor di Dio, stai lontano dall’ispettore capo McInnes!».
Lui mise giù la cornetta del telefono. Ciuffo stava ancora controllando la registrazione. «Ti stai divertendo?» «Mi stavo chiedendo chi fosse a traslocare». Logan lo fissò. «Cosa?» «Chi è che trasloca? Quel furgone dei trasporti se ne sta lì tutto il tempo, fermo. Nessuno ci carica dentro mobili, nessuno tira fuori niente. Se ne sta semplicemente parcheggiato lì?». Logan sbatté le palpebre, fissando lo schermo. «Prova a controllare su un’altra cassetta». Ciuffo espulse quella all’interno e infilò nel lettore quella successiva. Armeggiò con i controlli e mandò avanti la registrazione. Niente. Niente. Niente. Poi quattro uomini in tuta risalirono Mid Street, portando con sé delle buste di carta marrone che sembravano venire dal Wimpy di Hanover Street. Salirono sul furgone e restarono lì a mangiare. Infine si allacciarono le cinture e se ne andarono. «Si erano solo parcheggiati per il pranzo». Ciuffo espulse la cassetta e la sostituì con quella precedente a quella che stavano guardando prima. «Cosa? Quattro ore di pausa pranzo? Sergente, mi sa tanto che abbiamo scelto il lavoro sbagliato». Mandò indietro il filmato, poi si chinò in avanti, con il naso a pochi centimetri dallo schermo. «Se fossi uno che vuole portarsi via un registratore di cassa, dovrei prima controllare il posto, giusto? Scoprire quando viene rifornito dalla banca, o quel che sia. Magari avrei bisogno di scoprire quand’è che arriva l’auto della sicurezza e si fa un giro nei dintorni, no?». Le persone camminavano all’indietro sullo schermo. Auto e biciclette si spostavano al contrario. Tutto, fuorché il furgone dei trasporti. Niente ci entrava, niente ne usciva. Poi i quattro uomini di prima attraversarono la strada all’indietro, risalirono sul furgone e uscirono di scena con il mezzo che scivolava via all’indietro. «…Sergente? Ehi, sergente?». Ciuffo si stava sbracciando verso di lui. «Sta bene?» «Prendi la registrazione della telecamera uno. Stesso periodo di tempo». L’agente si strinse nelle spalle, ma obbedì, facendo scivolare la nuova cassetta nel lettore, mandando indietro la registrazione fino al momento in cui si vide uno dei quattro uomini entrare all’indietro nel Broch Braw Buys. Era grosso, con lunghi capelli castani e una tuta verde. Tutto quel tempo, e l’unica cosa che avevano fatto era stato comprarsi degli hamburger e visitare il negozio che era stato rapinato il giorno dopo. Il furgone dei trasporti. Il furgone dei trasporti. No… Era quello. Quello era ciò che gli era sembrato familiare, non le persone o le auto. Un lento sorriso gli fiorì sulle labbra. «Ciuffo, non pensavo che l’avrei mai detto, ma sei un genio». «Davvero? Oh, forte». Il ragazzo gonfiò il petto. Poi aggrottò la fronte. «Ma cosa ho fatto? E mi merito una medaglia, per questo, o qualcosa del genere?». Logan prese il taccuino e girò le pagine fino alla mattina del giorno prima. Trovò il numero della manager del supermercato di Portsoy e lo digitò. Lasciò squillare il telefono a lungo, finché finalmente non ci fu uno scatto. «Salve, questa è la segreteria telefonica di…». Un altro scatto. «Pronto? Chi è?». «Salve, Stacey. Sono il sergente McRae, ci siamo conosciuti ieri mattina. Ricorda, dopo la rapina?» «Mi scusi, stavo facendo l’inventario della cella frigorifera. Non sa quante confezioni di patate al forno surgelate dobbiamo controllare». «Può farmi un favore? Può dare un’occhiata alle registrazioni delle telecamere di sicurezza e dirmi se ci trova un furgone di trasporti? Potrebbe dover tornare indietro di un paio di giorni». «Certo, se pensa che possa esserci d’aiuto…».
Con un po’ di fortuna, forse sì. La ricetrasmittente continuava a crepitare tra sé e sé. «A chiunque nelle vicinanze di Aberchirder, abbiamo ricevuto una segnalazione di mucche sulla a97 a sud di Castlebrae…». «Che te ne pare delle sette e mezzo… otto meno un quarto?». Logan incastrò il cellulare tra l’orecchio e la spalla e controllò il successivo scaffale. Perché nessuno rimetteva mai le cose a posto? Le cassette della telecamera di sicurezza della Macchina Grande sarebbero dovute essere ordinate cronologicamente, dalla più vecchia alla più recente, sul dannato scaffale sotto al monitor. C’era perfino una dannata etichetta sul dannato scaffale in questione che lo diceva. «Ricevuto, Controllo, Big Paul e la Temuta Penny stanno andando a sistemare la faccenda. Ci muoviamo». Erano le sette, e aveva tutta la stazione di Banff per sé. Niente male, per una volta. O meglio, lo sarebbe stato se fosse riuscito a trovare qualcosa. Dall’altra parte della linea arrivarono cigolii e altri rumori poco identificabili. Non aveva idea di cosa stesse facendo Helen, ma sembrava che stesse lavando un mucchio di topi robot. «Bistecca, funghi, cipolle e patate fritte?». Dopo il cibo cinese confiscato? Be’, a cena donata non si guarda in bocca. «Mi sembra fantastico». Finalmente! Eccole, due scaffali più giù, incastrate dietro un mucchio di buste per le prove. Idioti. Doveva essercene una per ogni giorno delle ultime due settimane. Se erano tutte mischiate, come si pensava che qualcuno potesse trovare quello che stava cercando? «Ho finito il corridoio. Il soffitto sopra le scale non è stato un lavoro facile, ma ora ha un aspetto molto più piacevole». Lui sistemò tutte e quattordici le cassette una sopra l’altra e le portò alla scrivania. «Sei riuscita a fare tutto questo in un solo giorno? Diavolo, dovresti aprire un’impresa». Ora, dove diavolo era finito il cavo per connettere il tutto al computer? «Presunta aggressione canina su Williams Crescent, a Fraserburgh. Qualcuno è nelle vicinanze?». Era nascosto sotto a un mucchio di batterie aaa, elastici e graffette nel cassetto più in basso. Lavorare in quel posto era come vivere con i dannati Rubacchiotti. E non poteva essere sempre colpa di Hector. «D’accordo. Finisco di lavare il rullo e i pennelli e poi sarà ora di cominciare a cucinare». «Non vedo l’ora». Logan attaccò, mise tutte le cassette in ordine, poi inserì il cavo in quella del giorno prima. Il computer ronzò e borbottò, facendo accendere sulla cassetta una piccola luce verde. Un ronzio, un paio di pigolii e poi la barra di caricamento comparve sullo schermo. Tanto valeva andarsi a prendere un tè; ci sarebbe voluto del tempo. Una copia dell’«Aberdeen Sunday Examiner» era ripiegata sul bordo della postazione di Maggie. “tragica fine per pescatore scomparso” era il titolo che si trovava sopra a una foto di Charles Anderson con una foto più piccola della sua barca. Logan prese il giornale e se lo portò nella mensa. Lo aprì sul tavolo e mise su il bollitore. Prese a canticchiare tra sé e sé, mentre l’acqua cominciava a bollire: «Bistecca per cena, bistecca per cena, la-la-la-la, bistecca per cena…». Secondo l’«Examiner», la vita di Charles “Craggie” Anderson era stata distrutta dalla perdita del figlio cinque anni prima. Non c’erano molte altre informazioni rispetto a quelle che Big Paul aveva trovato nei fascicoli ufficiali, ma il giornalista ci aveva messo più pepe possibile, dalla campagna di Anderson per trovare il pedofilo che secondo lui aveva rapito il bambino al crollo del suo matrimonio, dalla dipendenza dall’alcol alla sua violenta morte.
Era riuscito perfino a rintracciare la moglie di Anderson, che ora viveva nel Devon con il cognome da nubile. Con tanto di citazione virgolettata che parlava di possibilità gettate al vento, tragedia e dolore. Il bollitore fischiò. Non sembrava, dall’articolo, che Anderson fosse altro che un uomo spezzato destinato a un suicidio inevitabile. Non si insinuava che potesse in qualche modo essere responsabile della morte del figlio, o che fosse il tipo da rapire una bambina e abusare di lei, per poi spaccarle la testa con una tubatura di metallo. Logan si preparò una tazza di tè, controllò per assicurarsi che nessuno lo stesse guardando e rubò un biscotto dalla scorta dell’ispettore McGregor, in fondo alla credenza. Lei non sarebbe rientrata fino alla mattina dopo, quindi la colpa sarebbe ricaduta su qualcuno del turno di notte. Forse era solo una coincidenza che Anderson fosse scomparso nello stesso periodo di Neil Wood? Ed era una coincidenza anche che poco dopo il corpo di una bambina fosse stato spinto dal mare fino alla Tarlair Outdoor Swimming Pool. O forse Wood e Anderson erano complici. Non sarebbe stata la prima volta in cui un paio di bastardi si univano per abusare di bambini. «Pattuglia Sette, potete parlare?». Logan controllò lo schermo della ricetrasmittente. Era il numero dell’ispettore di turno. «Dica pure, capo». «C’è un ritardo sul mandato di perquisizione per la casa di Frankie Ferris. Qualcosa che riguarda pressioni operative. Hanno detto di riprovare domani. Nel frattempo, fammi sapere se ti serve una mano a chiedere qualche agente in più all’Unità di Supporto Operativo». «Grazie, capo». Logan portò il tè e il biscotto rubato nell’ufficio dei sergenti, appena in tempo per vedere la barra di caricamento toccare il 100%. Metà dello schermo si riempì della visuale statica del parcheggio fuori dalla stazione di polizia di Banff. L’altra metà era una lista di orari, ciascuno a rappresentare un blocco di dati quando la telecamera era stata attivata. Logan li scorse e cliccò su quello delle nove e mezzo della mattina precedente. Lo schermo passò a un’immagine di una strada in movimento, con alberi e cespugli ridotti a una macchia verde e sfocata mentre l’auto correva sulla strada e l’ululato della sirena si udiva dai piccoli e crepitanti altoparlanti del computer. Nell’angolo dell’immagine si leggeva la velocità della Nicholson, che toccava i centotrenta chilometri orari. Il cartello “benvenuti a portsoy” passò rapidamente e sparì. Case. Automobili. E poi l’immagine mostrò la strada principale. Bottiglie, cartoni e lattine coprivano la strada davanti alla vetrina distrutta del supermercato. L’auto si fermò con un forte stridio di freni. Un vago tintinnio, poi Logan comparve sullo schermo, mentre si calcava sulle orecchie il berretto dell’uniforme. «Da che parte sono andati? Che macchina hanno?». La giovane donna con il passeggino indicò, muovendo le labbra, ma era troppo lontana dal microfono della telecamera perché le parole si distinguessero. Logan tornò nell’inquadratura. Ci fu un tonfo, e poi: «Vai!». E a quel punto ripartirono a tutta velocità sulla strada, superando case, macchine e pedoni stupiti. «Pattuglia Sette a Controllo, i colpevoli hanno lasciato la scena. Un testimone ha detto che hanno preso la strada per Cullen. Li stiamo inseguendo». Qualunque cosa dicesse in risposta il Controllo, si ridusse a un borbottio inudibile. Poi di nuovo la sua voce: «Negativo». Un camper bloccava il lato sinistro della strada, ignorando i lampeggianti e le sirene. C’erano mezzi che provenivano dal lato opposto… Ecco.
Logan premette il pulsante di pausa. Tre macchine. Un autobus. Un furgone di trasporti. E un camion del latte. Tutti intenti a spostarsi di lato per farli passare. Il furgone era grosso e nero, con la scritta: “magnus hogg e figlio: spostiamo famiglie dal 1965” sulla fiancata, in lettere rosse arricciate. Era lo stesso che stava parcheggiato fuori dal Kenya Bar a Fraserburgh il giorno prima che il Broch Braw Buys fosse rapinato. Solo che questa volta il numero di targa era chiaramente visibile. Lo copiò sul taccuino e richiamò sul computer l’interfaccia del database della polizia. «Pattuglia Sette, potete parlare?». Logan prese la ricetrasmittente e controllò lo schermo. Non aveva idea di chi fosse quel numero, ma era basso, quindi significava che si trattava di qualcuno in alto. Premette il pulsante. «Parlate pure». «Ah, sergente McRae, sono l’ispettore capo McInnes». Oh, gioia. Ecco che arrivava la vendetta di McInnes. Logan inserì la targa nell’interfaccia con una sola mano. «Cosa posso fare per lei?» «Può raggiungermi al numero trentasei di Fairholme Place, ecco cosa può fare. Adesso sarebbe l’ideale». Fantastico. «Sì, signore». Lo schermo si riempì dei dettagli del proprietario del furgone di trasporti: una compagnia di Bristol. La pagina successiva mostrava i dettagli dell’assicurazione e a chi era intestata. Nessuno dei nomi sembrava familiare. Certo, non doveva esserci per forza qualcosa di losco in quel furgone. L’avevano notato nelle vicinanze di un paio di furti di casse, e allora? Le coincidenze potevano sempre accadere. Tuttavia… Ma non poteva occuparsene in quel momento. Non era saggio far infuriare McInnes più di quanto già non fosse. Prese il berretto dell’uniforme e le chiavi della macchina. Logan parcheggiò accanto al marciapiede dietro al polveroso Transit bianco della Scientifica. Qualcuno aveva scritto nella sporcizia che copriva i portelli posteriori “se tua madre fosse così zozza, non avrei bisogno del porno!”. Okay. Tanto valeva farla finita. Uscì sotto la pioggia leggera, sentendosi bruciare le orecchie per il freddo. E per fortuna che era maggio: in quel momento, sembrava più dicembre. Il telefono cominciò a squillare. Logan lo prese dalla tasca mentre si incamminava verso la casa della madre di Klingon. «Pronto?» «Sergente McRae? Sono Stacey, da Portsoy. Ho controllato le registrazioni come mi aveva chiesto». Lui passò sotto al nastro bianco e blu della polizia. «E…?» «Perché voleva che cercassi un furgone dei trasporti?» «Noi…». Bella domanda. «Be’, pensiamo che il conducente possa aver assistito al crimine, e lo stiamo cercando per ottenere la sua testimonianza». Okay, era una bugia, ma Stacey non doveva saperlo. Non c’erano agenti sulla porta, e Logan entrò. «Okay. Be’, ne ho trovato uno. Sono dovuta tornare indietro fino a mercoledì per trovarlo, ma in effetti ce n’è uno che è rimasto parcheggiato per un paio d’ore davanti al negozio, quella mattina». L’odore di buste della spazzatura piene e di rifiuti marci era come un muro all’ingresso. «Mi faccia indovinare: è blu, con la scritta Traslochi Duncan Smith sulla fiancata?» «Oh… No. È nero, con la scritta Magnus Hogg e Figlio». Bingo.
Si udì un tonfo, da qualche parte all’interno della casa, seguito dalla voce acuta di una donna. «no, non mi calmo affatto! guardi che roba!». Logan fece una pausa. «Mi sono dimenticato di chiederglielo in precedenza: quand’è che vengono a riempire la cassa, di solito?» «Il venerdì sera. Di solito. A volte di sabato, se c’è un problema con la banca o sono occupati». «guardi che roba!». «Okay, grazie. Le farò sapere se ci sono novità». Logan chiuse la telefonata. Prese un respiro profondo… e se ne pentì all’istante. L’aria puzzava di rifiuti. Tossì un paio di volte. Poi raggiunse il corridoio. Le urla provenivano dalla porta aperta della cucina. Lui si avvicinò e bussò sullo stipite. McInnes era appoggiato di schiena al piano di lavoro, con le braccia conserte sul petto, mentre un agente cercava di placare una donna che sembrava una portaerei in jeans stinti e giaccone Burberry. L’Ammiraglia Rabbia indicò con forza la finestra della cucina. «e cosa diavolo state combinando nel mio giardino?». McInnes voltò la testa verso Logan e accennò un sorriso gelido. «Ah, sergente, bene. Mi fa tanto piacere che sia potuto venire. Voi due vi siete già conosciuti?». Accennò alla corpulenta e infuriata signora. «La signora qui presente è Lesley Spinney. La madre di Colin Spinney». Ah… quindi forse non era morta e sepolta, dopotutto.
Capitolo 43
L’ispettore capo McInnes allargò le braccia. «Non le sembra in forma, per essere un cadavere?». La madre di Klingon lo fissò con quel considerevole cipiglio. «Che fa, cerca di fare il simpatico?» «Niente affatto, Lesley. Le dispiacerebbe spiegare al sergente McRae dove è stata negli ultimi quattro mesi?» «E cosa diavolo è successo alla mia casa? L’avevo appena fatta ridipingere, quando sono partita!». «La prego». McInnes le batté una pacca gentile sulla spalla. «Dica al sergente dove si trovava». «Ero a Perth, a badare a mio fratello Sydney. Cancro al pancreas. I funerali ci sono stati mercoledì scorso». Il sorriso di McInnes si allargò. «Non Perth in Australia, sergente, ma Perth in Scozia. A centotrenta miglia da qui, non novemila». Non c’era da stupirsi se Derek Stratman non aveva trovato tracce di un eventuale uso del passaporto da parte sua. Logan spostò il peso da un piede all’altro. «Capisco». Non era andata in Australia. E non era morta. Come era possibile? Dai registri che il compagno di Maggie aveva controllato per lui il giorno prima, risultava che la madre di Klingon non aveva pagato l’affitto per quasi un anno. Quale essere umano sano di mente avrebbe mai potuto lasciare in mano a Colin “Klingon” Spinney il pagamento regolare di un affitto senza temere uno sfratto entro breve tempo? «Ma…». Logan si schiarì la gola. «Perché ha cancellato il suo addebito bancario dell’affitto dieci mesi fa? Perché ha lasciato che se ne occupasse Colin?» «Non sono affari suoi, questi». La donna gli si avvicinò, fulminandolo con lo sguardo. «E ora voglio sapere cosa è successo alla mia maledetta casa». Logan raddrizzò le spalle. «Temo che sia diventata la scena di un crimine». «No, neanche per sogno». «Suo figlio e Kevin McEwan spacciavano droga e…». «Come osa! Questo non è possibile!». «…tentato omicidio di Jack Simpson…». «Il mio Colin è un bravo ragazzo! Come osa parlarne in questo modo?». Logan la fissò. «Abbiamo ritrovato e confiscato un carico di eroina del valore di centomila sterline nella sua soffitta, signora, oltre a un Jack Simpson quasi pestato a morte». Lei scosse la testa. «No, non è possibile. Queste sono tutte menzogne». «Signora, io ero qui quando è successo. Ho visto tutto. Sono stato io a trovare il carico!». «Ce l’ha messo lei allora! È un bugiardo, e mi lamenterò ufficialmente per questo». La madre di Klingon si raddrizzò in tutta la sua altezza. «Non la farà franca!». La giornata era andata troppo bene, fino a quel momento… «Be’… pensavo che lo fosse, d’accordo?». Logan si appoggiò alla recinzione del giardino. «A me non sembra morta. A lei sembra morta?». McInnes prese un pacchetto di sigarette dalla tasca della giacca, ne tirò fuori una e se l’accese. «Pensavo le avessero spiegato la differenza tra una persona viva e una morta, quando era in accademia. Per caso quel giorno era a letto con l’influenza?». La pioggia sottile continuava a scendere da un cielo color canna di fucile, fredda e umida.
«Dicevano tutti che era andata in Australia…». Si udì uno schianto improvviso, e la tenda della Scientifica ondeggiò di lato. Una figura con la tuta bianca uscì dalla costruzione di plastica blu, portando con sé un palo di metallo. Lo posò a terra con un tintinnio. Un suo collega si fece schioccare le dita ed entrò per prendere il suo palo. Il Jenga della Scientifica era cominciato. McInnes prese un lungo tiro dalla sigaretta, soffiando il fumo in faccia a Logan. «Vede, tutti verranno a batterle pacche sulle spalle. “Ben fatto, sergente McRae, ha preso il bastardo spacciatore che ha sparato all’agente Mary Ann Nasrallah”. Oh, la stampa le leccherà le chiappe per un po’, certo che sì. Ma io e lei sappiamo la verità». Un altro sbuffo di fumo. Almeno quello finì di lato. «Ha avuto un colpo di fortuna mentre tentava di crearmi problemi». Logan si strinse nelle spalle. «Si trattava di un legittimo…». «Non ci provi neanche». McInnes gli si avvicinò abbastanza da fargli sentire il calore della punta accesa della sigaretta contro la guancia. «Pensa di essere un dritto, vero, McRae? Ma non è altro che un perdente in un’uniforme ruvida, e con un pessimo taglio di capelli. Ed è proprio in cima alla mia lista». Silenzio. Un altro tonfo, poi il primo tecnico della Scientifica entrò a prendere il palo successivo. McInnes fece un passo indietro. «Oh, ora come ora non posso toccarla. Ma vedrà: non appena questo polverone tornerà a posarsi e tutti si saranno dimenticati dell’agente Nasrallah, io verrò a prenderla». Logan parcheggiò la Macchina Grande fuori da casa sua. Si afflosciò sul sedile e sbatté la fronte contro il volante per un paio di volte. Tipico. Sarebbe andato tutto bene, quel giorno, ma ovviamente non potevano permettergli di rilassarsi, giusto? No. Certo che no. Un passo avanti e tre indietro, dannazione. Come era possibile che quella donna non fosse morta? Il cane di Syd aveva trovato il suo cadavere, per la miseria! Sbuffò un lungo e lento sospiro. Magari lì sotto c’era sepolto un animale della famiglia, o una vecchia carcassa di pollo, no? O forse il golden retriever di Syd era stupido come tutti gli altri golden retriever del mondo. «Gah…». Avanti. Era ora di rimettersi al lavoro. Logan girò le pagine del taccuino e poi premette il pulsante della ricetrasmittente. «Qui Pattuglia Sette, ho bisogno che venga ricercato un furgone di trasporti nero…». Diede la descrizione e il numero di targa. «Sospetto coinvolgimento nella serie di furti di casse. In caso sia avvistato, va fermato e perquisito». «Ricevuto». E, con un po’ di fortuna, non avrebbe finito per sembrare un idiota anche in quel caso. Uscì dalla macchina, lasciandosi avvolgere dall’umidità della sera. Chiuse lo sportello e si affrettò ad attraversare la strada, entrando in casa. Il profumo denso e aromatico di funghi fritti lo accolse all’ingresso. «Ehilà?» «Sono qui». Logan seguì l’aroma fino in cucina. «Scusami, sono stato trattenuto al lavoro». «Nessun problema. Sei tornato assolutamente in tempo». Helen era davanti ai fornelli, con una spatola di legno in mano, mentre rigirava il contenuto di una padella. Poi accennò alle due bistecche sul loro piatto, ancora crude e di un rosso scuro. «Come ti piace la bistecca? Poco cotta, o cottura media? A me non piace ben cotta». Lui si sedette al tavolo della cucina. «Poco cotta. Grazie».
Lei si scostò una manciata di ricci dorati dal viso. Le borse che aveva sotto agli occhi erano meno evidenti del giorno prima e di quello prima ancora. «Le patate saranno pronte tra un attimo». Incurvò le spalle, versando i funghi in una scodella. Alzò la fiamma sotto la padella. «Senti, riguardo a ieri sera…». «È tutto okay. Davvero. Non c’è problema». Logan si schiarì la gola. «Mi dispiace per… ecco, sì, insomma. Lo sai. È stato…». Tossicchiò, sentendosi avvampare fino alle orecchie. «È passato un po’ di tempo dall’ultima volta che…». Sì, probabilmente non era il caso di parlare di erezioni imbarazzanti a tavola. Tirò su con il naso. «Comunque… bistecca e patatine, eh? Non vedevo l’ora di fare questa cena». «Solo… non volevo che pensassi che ci sto provando, e… davvero…». «No, non preoccuparti, sul serio». «È che mi sento tanto sola, sai? Il fatto di non sapere la verità mi fa impazzire». «Già». Le bistecche sibilarono e sfrigolarono nella padella. Lei piegò la testa di lato. «Lo so che è difficile. Con Samantha». Difficile. «Sono passati quattro anni da quando è finita in coma. Quattro anni e sette giorni. È più tempo di quello che avevamo passato insieme, prima. La conosco da più tempo come è ora che quando… Be’, è una cosa…». Un lungo, lento sospiro gli svuotò i polmoni, facendogli incurvare la schiena e afflosciare le spalle. «Sì. Difficile è la parola giusta per descriverlo». Helen non si girò. «E in tutto questo tempo, non hai mai…?». Lui fissò la sua nuca. «Sì. Un paio di volte. Una mia ex. Adesso è separata». «Capisco». Logan rivestì la voce di una punta d’acciaio. «Non ne vado fiero». Lei tolse le bistecche dalla padella. «Io non l’ho mai fatto. E non ne vado fiera neanche io». Un timer trillò, e lei si piegò ad aprire il forno, facendo uscire l’aroma invitante delle patate. Logan risistemò le posate. Lei mise sopra al pianale del forno la teglia. Logan allineò il sale, il pepe, la senape e l’aceto. Si guardò le mani. «Dovrò restare al lavoro fino a tardi anche stasera: probabilmente fino alle due e mezzo. Una cosa del genere». «Oh, okay. Leggerò un libro». «Bene. Ottimo». Le patatine finirono nei piatti tintinnando come ossicini. «A tutte le unità nelle vicinanze di Bunthlaw, abbiamo una segnalazione di aggressione a scopo di stupro presso il campo nomadi…». Logan abbassò il volume della ricetrasmittente. «Scusami». Le bistecche erano alte e al sangue. Succulente e ricche. Le mangiarono nel silenzio più totale. Erano le otto e mezzo e la pioggia era svanita nel nulla, lasciando le strade lucide e nere. Il sole aveva trovato una fessura tra il mare e le nuvole basse, spargendo il suo oro tra i campi e le case mentre scendeva verso l’America. Logan riportò la Macchina Grande su Rundle Avenue. Non si poteva mai sapere. «Pattuglia Sette, potete parlare?» «Parlate pure». «Sergente, aveva chiesto di essere aggiornato su David e Catherine Bisset, giusto? Ci è arrivata una segnalazione di avvistamento: sembra che siano saliti sul Megabus di Dundee diretto a Londra». «Qualcuno lo sta già andando a fermare?»
«Sì, sono già partiti». «Grazie». Non c’era traccia di vita su Rundle Avenue. I clienti di Frankie Ferris dovevano essere tutti chiusi in casa, a mangiare una cena riscaldata nel forno a microonde davanti alla tv. A lamentarsi del fatto che non ci fosse mai niente di interessante da vedere. Stava perdendo tempo, lì. Be’, a parte il fatto di agire da deterrente. Con un po’ di fortuna, i clienti di Frankie se ne sarebbero rimasti lontani per un po’. E quindi quel probabile carico di droga in casa sua sarebbe rimasto lì. E ci sarebbe stato ancora quando Logan avrebbe buttato giù la porta per perquisire la casa. A proposito: digitò il numero del sergente Mitchell sulla ricetrasmittente. «Pattuglia Sette, può parlare?». Ci fu un’interferenza. Una pausa. Poi la voce profonda di Mitchell riecheggiò dal ricevitore. «Sergente McRae. Ho sentito che dobbiamo ringraziare te per aver preso il bastardo che ha sparato a quell’agente sotto copertura. Ben fatto. L’Unità di Supporto Operativo ti saluta». «So che non ti sto dando molto preavviso, ma tu e il tuo gruppo di coristi siete liberi domani per un’altra perquisizione? Be’, sempre che riesca a convincere lo sceriffo a smettere di fare lo stronzo e a concedermi il mandato». «Mi piacerebbe molto, ma domani siamo prenotati. Si potrebbe fare dopodomani, però: saremo comunque dalle tue parti. Martedì mattina presto?» «Ci sto». «Pensi che si potrebbe riuscire a usare la motosega…?» «Be’, penso di sì, tutto sommato». «Allora non mancheremo!». E forse questa volta sarebbero riusciti a incastrare Frankie Ferris per qualcosa di più grave che possesso di stupefacenti. Logan fece inversione di marcia e tornò verso il centro cittadino. «A tutte le unità, stiamo cercando una Volvo grigia, conducente in possibile stato di ebbrezza, avvistata sulla a98 a est di Blakehouse…». Lui scivolò lungo le strade umide di pioggia, nel silenzio e nella quiete più totali, superando poi il ponte che portava a Macduff. Il porto era silenzioso, come del resto High Shore. Non c’era nessuno fuori dai pub, dagli hotel e dalla friggitoria. Forse era stata la pioggia a far rinchiudere tutti in casa, a sbarrare le finestre contro la tempesta, in quel piccolo scampolo di dicembre a maggio. Si fermò in cima alla collina, osservando la strada che si dipanava verso il basso, scivolando dove la Tarlair Outdoor Swimming Pool si incastonava alla base della scogliera. I nastri della polizia non c’erano più, il luogo era stato abbandonato ai fantasmi dei nuotatori passati, e di una bambina assassinata. Già… stava diventando un’immagine un po’ macabra. E se McInnes avesse voluto davvero creargli problemi, cosa avrebbe potuto fare? Quel piccolo bastardo calvo era solo chiacchiere e distintivo, ecco cosa. Non era stato lui a risolvere un omicidio commesso dall’altra parte del paese, giusto? No. Era stato Logan, e grazie tante. Anche se era successo per puro caso. Lunghe ombre blu scivolavano lungo l’acqua striata di alghe delle due piscine abbandonate, per poi inghiottirle completamente. Una bambina morta, con la testa spaccata da un pezzo di tubo metallico. Due uomini scomparsi.
«A tutte le unità: stiamo ricevendo segnalazioni di disordini su Fair Isle Crescent, a Peterhead. Si richiede risposta immediata». «Qui Sierra Due Quattro, ricevuto. Ci stiamo dirigendo sul posto». Non c’era traccia di Neil Wood. Probabilmente non era neanche più in zona. Doveva essere salito sul primo autobus che si allontanava da lì, per nascondersi a Edimburgo o a Dundee. In qualche posto grande abbastanza da farlo sparire. Doveva aver deciso di volare basso e restare anonimo. Era difficile non farsi notare, in piccole comunità come quelle lì intorno. E poi c’era Charles “Craggie” Anderson, bruciato sul ponte della sua stessa barca… Logan strinse gli occhi, offuscando la piscina sullo sfondo. Tamburellò le dita sul volante. E se quei due fossero stati complici? E se Neil Wood non era salito su un autobus, dopotutto? Se invece era salito sulla barca di Anderson? I due potevano essere fuggiti insieme. Poi avevano litigato una volta raggiunte le Orcadi, c’era stata una colluttazione e Neil Wood aveva vinto. Aveva ucciso Anderson e bruciato la barca per cancellare le prove. E poi era scomparso. Be’, se non era facile nascondersi nell’Aberdeenshire, nelle Orcadi sarebbe stato quasi impossibile… Logan fece un’inversione in tre tempi e tornò sulla strada principale. Se Wood e Anderson erano complici, dovevano esserci delle tracce a dimostrarlo, giusto? Qualcosa di tangibile a collegarli, e di più concreto di una fotografia sul muro di un pedofilo morto. La Steel e il suo team di sicuro erano stati nel Bed & Breakfast di Neil Wood, ma nessuno aveva controllato a fondo la casa di Charles Anderson, a parte accertarsi che fosse davvero scomparso e non fosse caduto e morto in bagno. Era ora di provare qualcosa di diverso. La casa di Anderson era tutta sviluppata su un piano, con un tetto di tegole grigie. C’erano due camini, uno a ogni lato del timpano, con la struttura piena di crepe e rametti che sporgevano dalle estremità, dove i corvi si erano fatti il nido. Una luce calda inondava le pareti della villetta, facendo scintillare l’intonaco bianco sotto le pesanti nuvole nere e bluastre. Come se il cielo fosse un unico, enorme livido. Lapazi e cardi avevano preso possesso del giardino. I semi di dente di leone si attaccavano quasi a ogni superficie presente, mentre sottili ragnatele infestavano l’erba alta e le siepi troppo cresciute. Logan chiuse a chiave la Macchina Grande e si avviò verso la porta, facendo scricchiolare la ghiaia sul vialetto. La casa era isolata, a metà strada tra Macduff e Gardenstown. Intorno c’erano solo campi di colza, a dividerla dagli edifici più vicini, e si trovava in fondo a una stradina sterrata, a una quindicina di metri dal bordo della scogliera. Niente occhi indiscreti a vedere se Anderson avesse fatto qualcosa di insolito. La porta d’ingresso era chiusa a chiave, perciò Logan provò ad aggirare la casa, procedendo in mezzo all’erba alta fino al ginocchio e riempiendosi i pantaloni ruvidi dell’uniforme di lappole. Anche la porta sul retro era chiusa a chiave. Il cellulare di Logan si esibì nella Marcia imperiale di Star Wars. Lui si fermò, imprecando, poi lo tirò fuori dalla tasca. «Che c’è?» «Laz, ti pare questo il modo di rivolgerti a un tuo ufficiale superiore? Un po’ di rispetto, eh?» «Sono occupato. Mi lasci in pace». Probabilmente c’era una copia delle chiavi di quella casa, in un qualche fascicolo alla stazione di polizia, ma non gli era d’aiuto, in quel momento. Provò sopra la porta sul retro. Niente. «Piccolo bastardo ingrato. Ti stavo chiamando per congratularmi con te per aver beccato il tizio che ha sparato all’agente Nasrallah, e cosa ricevo in cambio?»
«Sì, certo, era solo per quello che mi stava chiamando, vero?». Non c’era niente neanche sotto ai vasi ai lati della porta. «Be’, ora che me lo ricordi… forse potresti ricevere una telefonata da Susan, che sta organizzando un bel pranzo di famiglia per festeggiare i risultati positivi del test. E dovresti dirle che non può invitare sua madre. O la tua». «È sua moglie, glielo dica lei». C’era un garage, attaccato all’altro lato della casa. Un po’ cadente, fatto di assi inchiodate insieme. La vernice si stava sfaldando, esponendo il legno al di sotto. Le vespe ne avevano approfittato per farci il nido, lasciando la superficie ruvida e grigia. Niente finestre, ma probabilmente non sarebbe stato difficile sollevare un paio di assi e infilarsi dentro. Sarebbe stato più facile, tuttavia, rompere uno dei pannelli di vetro della porta sul retro. Si infilò un paio di guanti di nitrile azzurro. «Non voglio far arrabbiare Susan, che credi? Dille… che ne so, che tua madre ti sta facendo impazzire, ultimamente, e che se scopre che la madre di Susan c’era e lei no, si butterà da un ponte, o cose del genere». «Magari». Logan raccolse dal tratto erboso vicino alla porta un sasso grosso più o meno quanto un libro. «Comunque, non è il mio lavoro difenderla da sua suocera». La porta sul retro presentava nove piccoli pannelli di vetro sistemati nella parte superiore. La pietra distrusse quello più in basso a destra, facendo schiantare delle schegge sul pavimento della cucina. «Perché sento rumore di vetri rotti in sottofondo?» «Tiri fuori le palle e dica a Susan come si sente. La smetta di lamentarsi e faccia qualcosa». Logan sfilò dal fodero il manganello e lo infilò nel buco, passandolo con decisione sui bordi per eliminare ogni scheggia di vetro rimasta. «Laz, non stai facendo qualcosa che non dovresti fare, vero?» «Sono occupato, gliel’ho già detto». Infilò la mano inguantata nel buco e cercò intorno… Ecco la maniglia. Tastò più in basso. Okay, la chiave era ancora infilata nella toppa. Logan la girò e fece lo stesso con la maniglia. Aprì la porta ed entrò. «Ora devo andare». «Oh, no, niente affatto. Se speri che ti fornirò di nuovo un alibi, ti sbagli di grosso. Qualunque cosa tu stia facendo, smetti subito di farla». La cucina era fredda e umida, come se non ci avesse messo piede nessuno da anni. Una crosta di muschio cresceva agli angoli delle finestre. L’aria sapeva di muffa e polvere. Non era sporca, soltanto abbandonata. «Laz, ti avverto: hanno messo il gps nelle ricetrasmittenti. Funziona anche quando sono spente. Se stai combinando qualcosa, sapranno dove sei stato». Lui superò la cucina, infilandosi nel lungo e stretto corridoio. C’erano altre tre porte, una per lato. «Nessuno si lamenterà per quello che sto facendo, d’accordo? Il padrone di casa è morto. E qui non ci vive nessun altro». La porta numero uno si aprì su un soggiorno che doveva essere stato abbandonato anni prima. Carta da parati ormai rovinata, un divano malmesso, un tappeto consumato sulle cigolanti assi del pavimento. La voce della Steel si abbassò a un sussurro rabbioso: «Perché diavolo stai commettendo un’effrazione ai danni della casa di un morto?» «Non sto commettendo nessuna effrazione. Chi ha parlato di effrazione?». La porta numero due dava su un bagno: piastrelle bianche sulle pareti, una vasca di smalto bianco, un lavabo bianco. Tutto il calore di un frigorifero. «Laz, non fare l’idiota! Questo non è…».
«Passavo di qui e ho notato un pannello di vetro rotto nella porta sul retro. Sono entrato per assicurarmi che nessuno avesse rubato niente. Tutto secondo le regole». La porta numero tre gli mostrò una stanza da letto. Letto matrimoniale con un materasso afflosciato al centro, niente foto o quadri alle pareti. Le tende chiuse le davano un’aria da camera ardente. «Santo Dio… ma dove sei?». Logan provò ad aprire il cassetto del comodino più vicino alla porta. «Perché?». Calzini. Mutande. Fazzoletti. Robaccia assortita. «Perché sto per raggiungerti e prenderti a calci nel sedere!». Il contenuto dell’altro comodino non era molto diverso, a parte una piccola collezione di riviste porno parecchio usate nell’ultimo cassetto. «Qualcuno di noi ha del lavoro da portare avanti, okay?». Logan controllò le riviste con le dita inguantate. Niente di troppo estremo o strano, e comunque niente bambini. «Dovremmo essere una squadra! Io e te, i due moschettieri, ricordi?». I vestiti nell’armadio erano ingrigiti e vecchi, flosci sulle stampelle come se non avessero voglia di affrontare un nuovo giorno. Logan tornò in corridoio. «Sono a casa di Charles Anderson». La porta numero quattro si apriva sulla stanza da letto di un bambino. La carta da parati era blu, con disegni di palloni da calcio; sulle pareti c’erano poster di band musicali e attori del cinema; sul davanzale della finestra, una fila di libri illustrati prendeva polvere da chissà quanto tempo. Il copriletto sfoggiava una stampa di Bart Simpson. Un piccolo santuario dedicato a un bambino morto cinque anni prima. La sua foto era appoggiata sul comodino, in una grande cornice d’argento. Aveva i capelli rossi, fossette sulle guance, un gran sorriso e stringeva tra le braccia un vecchio orsacchiotto malandato. «Chi diavolo è Charles Anderson e quando è morto?». C’era un’altra porta, in fondo al corridoio, che dava sul garage di legno. Senza finestre, e l’unica luce era quella che filtrava dal corridoio alle spalle di Logan. Mobilia e scatoloni si ammucchiavano nell’oscurità. C’era qualcosa anche sulle pareti. L’interruttore era accanto alla porta. Logan lo premette, e una striscia di neon crepitò, lampeggiò e infine cominciò a svegliarsi, illuminando la scena. «Laz? Ehi? Sei ancora lì?». Un basso fischiò gli sfuggì tra le labbra. Gli oggetti alle pareti erano delle lavagne di sughero, come quelle nell’ufficio che la Steel aveva occupato nella stazione di Banff. E, come quelle della Steel, anche queste erano coperte di foto e di fogli fitti di scrittura, collegati da fili grigi e rossi. Un singolo foglio era attaccato al centro di quella ragnatela, con la scritta “mercato del bestiame?” in grosse lettere nere, sottolineata tre volte. Logan sbatté le palpebre. Il Mercato del Bestiame. Oh, che meraviglia… «Logan! Che diavolo sta succedendo?». Lui si avvicinò. Sfiorò con le dita una delle foto. Era Neil Wood, inquadrato con un teleobiettivo, nello stile dei paparazzi. Quella accanto era di Mark Brussels, con le cicatrici che aveva riportato nel periodo trascorso in carcere a Peterhead. E poi c’era il dottor William Gilcomston, con i capelli grigi e la fronte alta, fotografato al supermercato. E la signora Bartholomew, la proprietaria di quella grande casa vittoriana su Church Street, che portava fuori il bidone dell’immondizia. Ce n’erano anche altri. In tutto forse una ventina, tutti fotografati da lontano. Alcuni volti erano familiari, altri no. Tutti collegati tra loro da tratti di spago. Tutti collegati al Mercato del Bestiame.
«logan!». Lui sbatté le palpebre. «Sono tutti pedofili. Pedofili e colpevoli di reati sessuali». I fili rossi conducevano a foto ritagliate da giornali e riviste o stampate da Internet. Foto di bambini. Ognuna di esse era collegata almeno a un adulto. Una bambina addirittura a tre di loro. Ma un bambino era staccato da tutto: capelli rossi, su una spiaggia dei dintorni in pantaloncini e maglietta di Bart Simpson, intento a giocare con secchiello e paletta. Sorrideva, facendosi spuntare due fossette nelle guance. La foto era circondata da un giro di nastro nero. Era il bambino del piccolo santuario lì accanto. «Di chi stai parlando…? Hai bevuto, per caso?». Solo un’altra foto dei bambini gli risultava familiare. Una bambina di non più di sei anni. Era… diversa, da viva. Senza quell’incavo sulla fronte, dove qualcuno le aveva spaccato la testa con una tubatura di metallo. Senza il pallore della morte e dell’acqua sulla pelle. La foto non era un ritaglio di giornale, ma una di quelle scattate con il teleobiettivo, come quelle degli adulti. Era da qualche parte all’esterno, con delle foglie sullo sfondo e qualcosa di nero e sfocato alle sue spalle. Grosso e rettangolare. Una porta? O forse un furgone? E il filo rosso, nel suo caso, non conduceva a Neil Wood, ma al dottor William Gilcomston. «Charles Anderson stava indagando su un gruppo di pedofili». Perché li ricattava? O perché ne faceva parte? «D’accordo, ora basta. Sto prendendo la macchina. Non toccare niente!». La lavagna di sughero sulla parete di fronte era coperta di disegni infantili e piccoli gioielli. Orecchini, un braccialetto, un paio di orologi e qualche ciondolo. Tra quelli, una catenina con il ciondolo di un cardo. Scintillò nel palmo di Logan, quando si mise a osservarla più da vicino. Una catenina con un cardo… Tornò alla prima lavagna. Osservò i volti. Un uomo dai lineamenti duri, stempiato, con un sorriso pieno di denti e un paio di baffi da terzo mondo lo fissava da una foto con un paio d’occhi scintillanti. Doveva essere stata scattata in un pub, con le spine della birra ben visibili sullo sfondo. Era stato colto sul punto di alzarsi dalla sedia per festeggiare un goal. Indossava la stessa maglietta blu e rossa dei Caley Thistle e la catenina d’oro che si vedevano sulla sua foto nella sua scheda delle persone scomparse. Era Liam Barden, il padre di due figli per il quale la Nicholson sembrava aver sviluppato un’ossessione, e che continuava ad avvistare su Castle Street. Ma Barden non era sul registro dei pervertiti, altrimenti sarebbe venuto fuori, quando avevano aperto un fascicolo per la sua scomparsa. Quindi perché si trovava sulla lavagna di Charles Anderson? Logan si rigirò la catenina tra le dita. Il metallo era freddo, attraverso il nitrile dei guanti. All’interno del ciondolo, si riuscivano a notare dei punti color ruggine. Sangue rappreso. E ce n’era altro a sporcare l’incisione sul retro del ciondolo. «a liam, con amore – kathy. per sempre!!!”. Logan si schiarì la gola. «È ancora lì?». Dal ricevitore venne una serie di sbuffi e ansiti. «No». «Sì, neanch’io. Credo che sarebbe bene farci dare un mandato, tornare e scoprire tutto questo ufficialmente». Rimise al suo posto la catenina di Liam Barden, uscì dal garage e spense la luce. Se fosse stato tra i primi a entrare in quella casa, una volta ottenuto il mandato, nessuno si sarebbe chiesto come mai c’era il suo dna ovunque in quel luogo. Doveva fare tutto secondo le regole. Non ci sarebbe stata nessuna accusa di effrazione e di contaminazione di una scena del crimine, in questo caso, oh no, grazie tante.
Certo, c’era il pannello rotto nella porta sul retro, ma sarebbe stato facile dare la colpa ad altri. Napier non si sarebbe potuto lamentare di nulla‌ E tutto quello che doveva fare era‌
Capitolo 44
«Unngh…». Era come se qualcuno gli stesse trapanando il cranio con un martello pneumatico, cercando di separarglielo dalla spina dorsale. La fronte pulsava, il viso bruciava. Le orecchie ronzavano come nidi di vespe inferocite. Però faceva caldo. No, peggio… era come bruciare. Da un lato. Logan si costrinse a riaprire un occhio, sbirciando verso la danzante luce gialla che aveva davanti. La ghiaia gli scavava una guancia. Perché era sdraiato? Ma cosa…? Dovette sbattere le palpebre un paio di volte, per rimettere a fuoco il mondo. Era disteso su un fianco, accanto alla Macchina Grande, inondata dal riverbero delle fiamme che stavano divorando la casa di Charles “Craggie” Anderson. Fiamme che ruggivano riversandosi fuori dalle finestre aperte, crepitando e sollevandosi alla luce del sole morente. Le scintille volavano nell’aria come lucciole, roteando verso il cielo livido. Dio… Logan si rialzò in ginocchio e restò lì, con gli occhi chiusi e la fronte dolorante contro lo sportello della macchina. Non vomitare. Si sfiorò la nuca con una mano tremante e se la ritrovò umida e appiccicosa. Un’esplosione risuonò alle sue spalle. Alzati. Un respiro profondo. Si rialzò, afferrandosi al lato della macchina. Ondeggiò per qualche istante, poi si girò e si afflosciò contro la fiancata. Riaprì gli occhi. Metà del tetto era crollato, esponendo le travi come le costole dello scheletro di una nave. Il garage era avvolto dalle fiamme. E tanti saluti al mandato. Si passò di nuovo le dita sulla nuca. Fece una smorfia. Sì, doveva essere sangue. Fari in avvicinamento ondeggiavano sulla strada sterrata. Poi una mx-5 emerse dal buio, cigolando e protestando a ogni buca. La Steel uscì dal lato del guidatore e poi rimase immobile, sgranando gli occhi e spalancando la bocca. «Ma che diavolo hai combinato?». Il motore del camion dei pompieri si udì nella notte, mentre i lampeggianti lanciavano bagliori che si intrecciavano con quelli dell’ambulanza e dell’autopattuglia. «Ah!». Seduto sul retro dell’ambulanza, Logan fece una smorfia. «Piano!». «Non faccia il bambino». Il paramedico continuò a disinfettare la ferita, con la punta della lingua che sporgeva all’angolo delle labbra mentre lo torturava. «Quando ha fatto l’ultimo richiamo dell’antitetanica?». Aghi immersi nell’acido sembrarono farsi strada attraverso il cuoio capelluto di Logan. «Ahi!». «L’emorragia si è fermata, e non avrà neanche bisogno di punti». La donna prese un altro tampone di garza sterile da una confezione e glielo premette contro la nuca. «Allora, questa antitetanica?» «Un paio d’anni fa».
«Allora è tutto a posto». La donna sorrise. «Vuole un cerotto e un lecca lecca, o pensa di iniziare a comportarsi da adulto?». Logan tirò su con il naso. «Non le piace molto la gente, vero?» «Dio, no». Lei tentò di infilargli un dito dentro al cranio. «Ah!». «Se la caverà». Il paramedico si sfilò i guanti chirurgici e si rivolse alla Steel. «Okay, è tutto suo. Dovrà tenerlo d’occhio, c’è un sospetto trauma cranico. Lui dice di non essere svenuto, ma non è credibile». Si strinse nelle spalle. Poi tornò a guardare Logan. «Stia bene a sentire: un trauma cranico può condurre a un ematoma subdurale o a un’emorragia subaracnoidea, con sintomi come stordimento, nausea, confusione e… nel caso peggiore, la morte». Accennò con un pollice alla Steel. «Credo che dovrebbe passare la notte da sua madre. Così lei si potrebbe assicurare che non muoia nel sonno». A quel punto, lo scacciò dal pianale dell’ambulanza, richiuse gli sportelli, si arrampicò alla guida e sparì nella notte, mentre la Steel ancora boccheggiava. Grazie tante, Florence Nightingale. «Tua madre?». Non sorridere, peggiorerebbe solo le cose. «Lo so. Come ha potuto dire una cosa del genere?». La Steel allargò le braccia, sollevandole come se volesse strappare via le nuvole dal cielo. «Primo: non assomiglio affatto a quel manico di scopa sciatto e intrigante. Secondo: non sono certo così vecchia. E terzo: se fossi tua madre, tu non saresti così dannatamente brutto!». «Ha finito?» «Pensava che fossi tua madre! Ma come potrei mai esserlo? Insomma, guardami: sono giovanissima». Lui si tolse la garza dalla nuca e strinse gli occhi contro le luci lampeggianti dell’autopattuglia. Una sottile linea rossa, circondata da macchie arancione scuro. «Mi stai ascoltando?» «A dire il vero, no». Getti di schiuma bianca si inarcavano nell’aria, cancellando il fumo nero. «Pattuglia Sette, potete parlare?». La Steel afferrò la ricetrasmittente di Logan. «No, non può. E se riapre bocca, lo concio per le feste». «Okay… be’, gli dica che la polizia di Tayside ha fermato il Megabus, ma non erano David e Catherine Bisset i due a bordo. L’avvistamento era sbagliato». «Oh, che strano». Lei gli restituì la ricetrasmittente. «Come mai ricevi aggiornamenti sui Bisset?» «Così». Lui si sfiorò il bozzo sulla nuca, facendo una smorfia. «Sono fortunato a essere ancora vivo». La Steel succhiò un tiro dalla sigaretta elettronica, facendo uscire il vapore dal naso. Poi accennò alla casa bruciata. «Allora?». Logan tornò a premere delicatamente la garza sull’ematoma. «Probabilmente mi sono spaccato la testa». «Hai visto qualcuno? Ti hanno colpito o sei inciampato e hai battuto la testa come una vecchietta?» «Cosa? E poi mi sarei trascinato fuori e avrei dato fuoco alla casa?». Sfiorò di nuovo la nuca con la garza. «Ahi». Il fuoco ondeggiò, si fece più debole e infine si spense, facendo ripiombare i dintorni nell’oscurità. Be’, a parte i lampeggianti dei mezzi di emergenza. Quattro pompieri con le loro uniformi marroni con le strisce catarifrangenti continuavano a lottare con un paio di manichette, inondando quel che restava della casa di Anderson.
La Steel si sfilò dalle labbra la sigaretta elettronica e mostrò i denti. «E non hai idea di chi possa essere stato? Pensavo che avessi detto di non essere svenuto». «Bla, bla, bla. Ha sentito l’infermiera, no? Sto bene». Ancora dolorante, però. «Forse è stato qualcuno di quel gruppo di pedofili? Ha scoperto che sapevi di loro e ha deciso di intervenire?» «E come potevano sapere che ero lì?». Logan accartocciò la garza e se la infilò in tasca. «Anderson li aveva tutti collegati sulla sua lavagna di sughero. Una dozzina di nomi e di volti, tutti collegati al Mercato del Bestiame». La Steel lo fissò. Poi guardò il garage bruciato. E poi tornò a fissarlo. «Che cosa?». E a quel punto lo picchiò. «Ahi! La smetta». «Abbiamo seguito una pista sul Mercato del Bestiame per anni, e tu l’hai lasciata andare in fumo così? Ma che diavolo hai nella testa?». Un altro pugno. «La pianti!». Logan arretrò. «Mi hanno colpito in testa. Cosa avrei dovuto fare, svegliarmi e lanciarmi nel fuoco?». La Steel si allontanò di qualche passo furioso, e poi tornò indietro. «Cosa c’era su quella lavagna? Chi c’era? Come si collegavano?» «Non riesco a ricordarmelo. È…». «Perché non hai scattato una foto? Hai una fotocamera sul tuo dannato cellulare, usala!». Lui indicò con rabbia la casa distrutta. «Non sono un veggente. Come avrei potuto immaginare che qualcuno avrebbe dato fuoco alla casa? Ho rischiato di morirci, lì dentro». La Steel alzò lo sguardo verso le nuvole scure e oleose. «Dio, dammi la forza…». Un sospiro. Poi strinse le palpebre. «Riesci a ricordare almeno qualcosa di tutto questo?» «La bambina della piscina di Tarlair… era anche lei sulla lavagna, connessa al dottor Gilcomston». «A Gilcomston? Al Pedo-iatra?». La Steel inarcò un sopracciglio. «E perché?». Logan si avviò verso la Macchina Grande. «Non ne ho idea. Vediamo di scoprirlo». «No. Ve l’ho già detto in precedenza, e non mi piace ripetermi». Le sopracciglia di William Gilcomston si aggrottarono sui suoi inquietanti occhi azzurri. Il cardigan di quella sera era verde bottiglia, con una spilletta a forma di cuore sul colletto. Di quelle che danno ai donatori di sangue. «Ora, se non c’è altro…». La casa era isolata e silenziosa, circondata da giardini su ogni lato. La sua reputazione nella comunità doveva essere crollata, dopo il processo, ma la casa di famiglia restava solida sulle sue fondamenta. Tre piani di granito sporco, con vecchi alberi sul davanti, un vialetto coperto di ghiaia, un garage separato e un muretto che la divideva dalla strada. Una vecchia Jaguar era parcheggiata davanti alla casa, con i cerchioni che scintillavano sotto le luci di sicurezza sul muretto. La Steel piantò un piede tra lo stipite e il battente della porta, tenendola aperta. «Possiamo entrare, Billy, vecchio mio?». Lui irrigidì la schiena, raddrizzandosi in tutta la sua altezza e fulminando la Steel con lo sguardo. «Avete un mandato?» «Posso procurarmene uno». «Allora la risposta è no. E ora tolga quel piede dalla mia proprietà: non sono obbligato a sentire altre sciocchezze da parte sua». Il suono di un televisore acceso, un po’ troppo alto, si udiva dall’interno della casa. La voce seria di un giornalista da notiziario: «…la conferma di un arresto, nella cittadina scozzese di Banff, collegato all’omicidio della poliziotta sotto copertura Mary Ann Nasrallah…». Logan si fece avanti. «Dottor Gilcomston, conosce per caso un uomo di nome Charles Anderson? È noto anche con il soprannome “Craggie”».
«…in diretta dall’Aberdeenshire. Kim, la Polizia di Scozia ha già divulgato qualche dettaglio in merito all’individuo arrestato?». Gilcomston sporse le labbra. «Se non erro, è un pescatore che è stato ritrovato morto. C’era un articolo sul giornale che diceva che aveva dato fuoco alla sua barca». «Sì, ma lo conosceva, prima di questa storia? Prima che scomparisse?» «No. E ora, per favore, andatevene». «…Martyn Baker, ventunenne di Birmingham». La Steel ritrasse il piede. «Okay, fai pure il duro, se vuoi, Billy, ma torneremo presto». Gli rivolse un occhiolino. «Resta fuori dai guai, eh?». Poi si girò e tornò verso la sua piccola macchina sportiva, percorrendo il vialetto a passo di marcia. «…si dichiarerà colpevole o innocente, quando si presenterà davanti allo sceriffo alle nove di domani mattina». I tendini sul collo di Gilcomston si tesero per un attimo, poi l’uomo fissò Logan con i freddi occhi azzurri. «Sporgerò denuncia contro il suo superiore. Queste sono molestie». Logan ricambiò lo sguardo in silenzio. «Grazie, Kim. Ne riparleremo più tardi, quando avremo sentito la conferenza stampa della polizia». Un gabbiano lanciò il suo richiamo stridente da qualche parte nell’oscurità. «E con questo evento si conclude un’intera settimana di caccia all’uomo, per arrestare la persona che aveva ucciso Mary Ann Nasrallah…». Un’auto passò sulla strada. «…e torniamo a Liverpool, dove la famiglia dell’agente Nasrallah ha organizzato una veglia di preghiera…». Gilcomston si schiarì la gola. Distolse lo sguardo. «Non ho altro da dirle». «Charles Anderson pensava che lei fosse coinvolto nella morte della bambina che abbiamo trovato a Tarlair. Secondo lei, cosa gli ha messo in testa quest’idea?» «Mi scusi, ma ora devo andare». Gilcomston chiuse la porta. Poi si udì lo scatto della serratura dall’interno. Logan contò fino a dieci, poi si girò e raggiunse la Steel sul marciapiede. Lei era appoggiata alla mx-5, le braccia conserte sul petto e la sigaretta elettronica appesa a un angolo della bocca. «È un viscido bastardo». «Anderson deve averla vista. La foto sulla lavagna non veniva da un giornale o da Internet, era una vera fotografia, era stato lui stesso a scattarla. Quindi deve averla vista quando era ancora viva». «E probabilmente l’ha vista con il Pedo-iatra». La Steel si lasciò sfuggire una boccata di vapore, dirigendola verso le nuvole pesanti e basse. «Laz, non avresti potuto salvare le prove, invece di svenire come un’eroina vittoriana?» «Grazie tante. Ovviamente è stata colpa mia se qualcuno ha cercato di spaccarmi la testa. Che stupido sono stato a non pensarci». Logan si ficcò le mani nelle tasche. «Sarei potuto morire. Un po’ di comprensione non mi dispiacerebbe». «Oh, avanti. Non essere così melodrammatico. Se ti avessero voluto morto, ti avrebbero lasciato dentro quella casa, quando l’hanno incendiata».
Capitolo 45
Logan salì sul marciapiede con l’autopattuglia e la parcheggiò sulla mezzaluna di cemento di fronte al parcheggio di Threadneedle Street. Be’, era più semplice che mettersi a combattere con il cancello automatico che chiudeva la zona di carico dietro alla stazione di polizia di Peterhead. Erano quasi le undici e mezzo, e il luogo era deserto. Qualche auto passava sulla strada di tanto in tanto, a volte con della musica orrenda che filtrava dai finestrini, ma a parte quello, la zona era più tranquilla che mai. Logan bloccò lo sterzo e uscì. Le case terrazzate che circondavano la zona bloccavano il vento, riducendolo a un vago rumore di fondo e lasciando scendere la pioggia in umide ondate da un cielo color rame bruciato. Logan si infilò il taccuino sotto un braccio, si calcò il berretto in testa e… «Ah…». Fu come se lame di coltello e chiodi gli si piantassero nella nuca e gli attraversassero il cranio, irradiandosi dall’ematoma nuovo di zecca. «Dannazione». Si infilò anche il berretto sotto al braccio e si affrettò lungo la strada. La stazione di Peterhead, vista da davanti, sembrava una banca: la facciata era di granito, con finestre alte e strette, colonne imponenti e tanto di portico. Ma gli altri tre lati erano di ruvida arenaria rossastra, tenuta insieme da spesse linee di calce grigia. «A tutte le unità, stiamo cercando una Ford Ranger marrone, numero di targa sconosciuto, ma con un’ammaccatura sul retro. Ha appena schiantato la vetrina di un supermercato a Strichen, rubandone la cassa. È stata vista l’ultima volta mentre correva lungo la strada per New Deer». Logan tirò fuori le chiavi e aprì la porta blu laterale dell’edificio. Dava su un corridoio dalle pareti di un color magnolia sporco, con armadietti temporanei e lavori in corso su un lato. Attraverso le sbarre che separavano il blocco delle celle dal resto della struttura si sentivano provenire delle voci intente a cantare. Sembrava che tutti gli invitati intonati di quel dannato matrimonio fossero finiti nelle celle di Fraserburgh, lasciando lì soltanto le campane. Logan salì la breve rampa di scale, superando le tre file di armadietti per le ricetrasmittenti, e si fermò sul pianerottolo, alla base della successiva rampa. Alzò lo sguardo nell’oscurità. «ehi!». L’unica risposta fu l’eco. Ehi… ehi… ehi… Okay. Altre tre rampe di scale fino al primo piano. «C’è qualcuno nelle vicinanze di New Aberdour? Mrs Tobias è di nuovo andata in giro da sola di notte». Dove diavolo erano finiti tutti? La mensa aveva gli stessi pensili in formica graffiata ed economica e le stesse tazze sporche di qualsiasi altra stazione di polizia del nord-est. Era divisa in due parti da un piccolo arco al centro. In una metà della stanza si trovavano un distributore automatico e qualche tavolo con intorno le sedie. Alle pareti erano appesi poster con proclami vari di integrità, giustizia e rispetto. Uno che consigliava di chiamare il 101 se non era un’emergenza, e un altro che chiedeva di fare attenzione a eventuali colleghi con tendenze suicide. L’altra metà della stanza ospitava la cucina: un bancone, il frigo – coperto di biglietti e minacce di morte per chi osava rubare il cibo altrui – un tostapane, i fornelli; e non uno, ma ben due forni a microonde. Carino. Logan prese una bustina di tè e la mise in una tazza, riempiendola dallo speciale rubinetto sulla parete che erogava acqua bollente. Doveva essere stato il compleanno di qualcuno, perché le
ultime due fette di una torta al cioccolato se ne stavano in attesa sul tavolo della cucina. Se ne prese una. Poi sollevò la cornetta del telefono a muro e premette il pulsante del blocco delle celle. Attese che qualcuno rispondesse. «Pronto?» «Stubby? Sono Logan. Di chi è stato il compleanno?» «Be’, che io sia dannata: nientemeno che il nostro sergente di divisione! A cosa dobbiamo l’onore noi poveri e insignificanti agenti?» «Ehi, non fare così. Ero qui ieri notte, no?» «No». D’accordo. «È successo qualcosa di cui dovrei essere messo al corrente?» «Sì, Glen ha compiuto quarant’anni. Ma sembra che ancora porti i pannolini, non le pare?» «Mi hanno quasi spaccato la testa, quindi ho rubato una fetta della sua torta». «A parte questo, abbiamo ancora le celle piene dopo il matrimonio di venerdì sera. Non vedo l’ora che i tribunali riaprano, domattina, perché quaggiù inizia a esserci una puzza insopportabile». Lui prese un boccone di torta, rispondendo a bocca piena: «Qualche novità?» «Poco fa c’è stata una lite domestica: il marito passerà la notte nelle celle di Fraserburgh. La moglie è finita in ospedale. Abbiamo arrestato un tipo che stava facendo sesso, giuro, non sto scherzando, con un pony Shetland. Quel pazzo ha filmato tutto sul cellulare. E poi stiamo indagando su un paio di furti d’auto. Ne abbiamo ritrovata una davanti al Flaggie, qualche ora fa. A parte questo, tutto abbastanza normale». «Vorrei poter dire lo stesso». Logan inghiottì il boccone di torta con un sorso di tè. «Stubby, hai mai avuto a che fare con Neil Wood?» «Chi, il nostro pedofilo scomparso? Sì, un paio di volte quando ero nell’Unità Controllo Pregiudicati. Non era tra quelli di cui mi occupavo personalmente, ma alcune volte ho dovuto sostituire i colleghi. Un tipo viscido, strano, appiccicoso. Sa, quel genere di persona di cui la gente penserebbe subito che è un molestatore di bambini? Ecco». «Sei mai stata al suo Bed & Breakfast, da quando è scomparso?». L’ultimo boccone di torta sparì. «No, ho già abbastanza da fare. Perché?» «Sto cercando un collegamento tra lui e un certo Charles “Craggie” Anderson. Fai gli auguri a Glen da parte mia, okay?» «Si tratterrà qui per un po’?» «Dipende da quello che succede». Logan mise giù il telefono, prese l’ultima fetta di torta e si diresse verso l’ufficio dei sergenti. Non era così diverso da quello di Banff: soffitto alto, cornici e architravi coperte di muffa che veniva lentamente sepolta sotto strati di vernice bianca. Due scrivanie che si davano le spalle e computer così vecchi e lenti che davano l’impressione di essere alimentati dalla ruota di un criceto. Logan si sedette, sorseggiò il tè, mordicchiò la torta e si collegò al sistema. Non gli ci volle molto per controllare azioni e rapporti della giornata. Erano tutti aggiornati, perfino quelli di Ciuffo. Un vago dolore gli martellava costante nella testa, partendo dalla nuca e fermandosi proprio dietro agli occhi. L’effetto del paracetamolo che gli aveva dato il paramedico stava svanendo. Paracetamolo per un ematoma di quelle dimensioni. Come pensavano che potesse davvero essere d’aiuto? Che fine avevano fatto la codeina, il voltarol, il naproxen e l’ossicodone? Ah, i bei vecchi tempi. Frugò nei cassetti della scrivania fino a trovare una vecchia confezione di aspirine. Meglio di niente, anche se non era molto. Ingoiò due compresse con un sorso di tè ormai freddo.
La Steel, ovviamente, aveva ragione: se l’avessero voluto morto, l’avrebbero lasciato a bruciare dentro la casa. Tuttavia… Controllò l’ora sullo schermo del computer. Erano ormai le undici e mezzo. Troppo tardi per mettersi a chiamare dei civili. Ma… tirò comunque fuori il cellulare dalla tasca e digitò un numero. Squillò e squillò. Poi un accento di Aberdeen che cercava in tutti i modi di suonare affettato si fece sentire dall’altra parte della linea. «“Aberdeen Examiner”, come posso aiutarla?» «Posso parlare con Colin Miller? Gli dica che è un vecchio amico che lo cerca». «Un momento, glielo passo…». Ci fu uno scatto. Il Bolero di Ravel si fece sentire dal ricevitore, ma come se fosse suonata in un ascensore da una band di scimmie ubriache. Logan finì il tè. Ancora Bolero. Prese un foglio e vi disegnò al centro un rettangolo, scrivendoci dentro “mercato del bestiame”. Poi aggiunse i nomi: Gilcomston, Brussels, Wood, Barden… e come si chiamava quella donna? Quella che viveva nella grande casa vittoriana, indossava twin-set e perle e riceveva minacce di morte… Ah, sì: Mrs Bartholomew. Chi altro? Chi c’era sulla lavagna? Picchiettò con la penna sulla scrivania. La Steel aveva ragione: avrebbe dovuto scattare una foto di quella dannata lavagna. Sarebbe stato molto più semplice, ora, che procedere a memoria, e dopo una botta in testa. Chi altro era… Click. Un pesante accento di Glasgow si fece sentire al telefono. «Logie? Sei tu? Da quanto tempo non ci si sentiva, amico? E come procede la vita dalle tue parti? Hai saputo nulla di quel Martyn Baker?» «Sei ancora in ufficio, Colin? Non hai una moglie e tre figli da cui tornare?» «Alfie sta mettendo i denti, quindi ho preferito aggiornare la lista delle “cose che devono essere scritte per l’edizione di lunedì”. Più sto fuori casa, in questo periodo, e meglio è. Cosa cerchi?» «Sei stato tu a scrivere il pezzo su Charles Anderson nell’“Examiner”, oggi?» «Stai scherzando? Il giorno in cui userò così tanti avverbi in un articolo, avrai il permesso di spararmi. È stato quell’idiota di Finnegan». «Devo parlare con la ex moglie di Anderson. Pensi di potermi fornire i suoi contatti?». Ci fu una piccola pausa interessata. «C’è qualcosa di interessante sotto?» «Nah, solo le solite procedure di questo genere di casi». «Perché se c’è qualcosa non ti dimenticherai del tuo vecchio amico Colin, vero?» «Quando mai l’ho fatto?» «Sì, certo». In lontananza, le campane di una chiesa fecero sentire dodici sonori e solenni rintocchi, mentre il forno a microonde della mensa ronzava. Si udì il rumore di passi in avvicinamento. Poi qualcuno si schiarì la gola. «Sergente?». Bleeep. Logan si guardò alle spalle. «Ehi». Il ragazzo che gli si era rivolto non poteva avere molto più di vent’anni. Qualche brufolo sulla fronte, nascosto in parte sotto il ciuffo che gliela copriva. Un viso pieno, con guance paffute da ragazzino. Un rapido sguardo alle mostrine sulle spalle gli fece capire che si trattava di un novellino dell’ultimo anno. Che gli rivolse un’espressione a metà tra un sorriso e una smorfia. «Agente Matthews. Ted». «Sì, certo. Ted». Logan usò un canovaccio ripiegato come guanto da forno per tirare fuori la scodella di zuppa di lenticchie dal microonde. «Come va, Ted?». Il sorriso divenne sempre più una smorfia. «Sì… be’… tutto a posto. Grazie».
«Ottimo». Logan portò la zuppa verso uno dei tavoli della mensa e tornò indietro per prendere il pane tostato. «Qualcuno è libero? Abbiamo ricevuto lamentele riguardo a un uomo che sta urinando all’ingresso del negozio Iceland di Fraserburgh». «Sergente?» «Cosa posso fare per te, Ted?». L’agente Matthews si afflosciò sulla sedia di fronte a quella di Logan. «Come si… Se… Cioè…». Il volto gli avvampò di colpo, dalle guance fino alla punta delle orecchie. Di certo non era lì per fare due chiacchiere tranquille. Si schiarì la gola. «Ho trovato un cadavere, oggi. Un anziano. I vicini erano preoccupati perché non si faceva più vedere da una settimana». Logan posò il cucchiaio. «Succede molto più spesso di quanto non si immagini». «Si era impiccato sulle scale. Si è legato una cintura al collo e si è impiccato alla balaustra». Matthews gonfiò le guance. «Il posto era un casino. Voglio dire, davvero orribile. Tutto era appiccicoso e sporco e l’odore era indescrivibile». Logan prese un morso di pane tostato. «So che può sembrare insensibile, ma ti ci abituerai. Non migliora, ma ci si abitua». «Aveva il riscaldamento acceso al massimo ed era lì da sette giorni… il viso tutto nero e pieno di mosche…». Il ragazzo rabbrividì. «Aggiornamento sull’uomo che urinava all’ingresso dell’Iceland. A quanto pare c’è una donna con lui e sta urinando anche lei. Qualcuno può occuparsene?». Logan considerò che avrebbe dovuto dare un’occhiata in dispensa per vedere se qualcuno aveva della salsa piccante, da quelle parti. Ma non poteva farlo con Matthews lì presente. Non con tutti quegli avvisi minacciosi che intimavano di non rubare le provviste degli altri. «Sa cosa ho fatto per tutta la mattina, sergente? Mi sono preso sputi, insulti e urla. Uno mi ha vomitato sulle scarpe». Il giovane agente si afflosciò ancora di più all’interno del giubbotto antiproiettile, facendo sembrare che si fosse ridotto, come per un lavaggio sbagliato in lavatrice. «Non so se riuscirò ad andare avanti, così». Logan pensò che era ora di comprare qualcosa di diverso. Basta con la zuppa di lenticchie. Magari una vellutata di pomodori? Pff… Ma chi pensava di ingannare? Le cose buone costavano più di quanto il budget gli consentisse. Forse patate e porri? «Ed è sempre la stessa gente, giorno dopo giorno, turno dopo turno. Sempre gli stessi disgraziati con le loro case luride, i vestiti puzzolenti e la tossicodipendenza che li divora. O l’alcol. O entrambe le cose. Per non parlare dei pazzi…». Certo, la cosa migliore sarebbe stata comprare delle verdure e preparare una zuppa. Ma poi avrebbe dovuto metterla nel frigorifero della mensa, e tutti sapevano quanto fossero ladri i poliziotti quando si trattava di cibo. Si sarebbero potuti lasciare soldi, gioielli e cellulari in giro per settimane e nessuno li avrebbe toccati. Ma bastava lasciare incustodito un dolcetto alla crema per cinque secondi per vederlo sparire. «Mi sono arruolato in polizia per aiutare la gente, e mi ritrovo a fare il babysitter a canaglie che mi odiano». I barattoli avevano quello di buono, che si potevano nascondere. E non avevano bisogno di essere messi in frigo. «E la pensione ormai è uno scherzo, vero? Dovrò lavorare fino a sessant’anni per due spiccioli. Riesce a immaginarci, a sessant’anni suonati, a casa di qualche drogato a difenderci dal suo Rottweiler?». Il ragazzo si ridusse ancora di più. «Ho un amico che lavora su una piattaforma petrolifera…».
«Lo so». Logan intinse un pezzo di pane nella zuppa. «La paga fa schifo, i turni fanno schifo e pure la pensione. Questo lavoro ormai è totalmente rovinato». Si infilò in bocca il pezzo di pane e masticò in silenzio. «Ma noi possiamo fare la differenza nella vita della gente. Possiamo proteggere gli innocenti. E quando succede qualcosa di orribile, e le persone vengono ferite o uccise, possiamo fare giustizia. Prova a fare tutto questo su una piattaforma petrolifera». Matthews sollevò le sopracciglia. «Già…». Poi le riabbassò e arricciò il labbro superiore. «Immagino di sì». «E poi, lì fuori non c’è altro che tè caldo e riviste porno, per passare il tempo».
Capitolo 46
Logan entrò nell’ingresso della stazione di Banff. «Pff…». Joe uscì dalla mensa. «Sergente, come va la testa?» «Come una palla da bowling piena di topi inferociti, grazie». Lui annuì. «Vuole un caffè? Li sto preparando». «Sei il migliore». Big Paul e Penny erano nell’ufficio degli agenti, seduti alle rispettive scrivanie, con le spalle alla porta, intenti a digitare ciascuno sulla propria tastiera. Pronti a chiudere tutto e a scattare quando, alle due, sarebbe finito il turno. Non c’era traccia degli agenti del turno di notte. Logan attraversò l’ufficio per raggiungere la stanza dei sergenti. Si sfilò il giubbotto antiproiettile e lo scaricò dietro la scrivania, per poi togliersi anche la cintura con l’equipaggiamento. Sei chili di meno in due mosse. Si lasciò scivolare sulla sedia e fissò il soffitto per un po’. Poi sospirò, si raddrizzò, tirò verso di sé la tastiera e si collegò al sistema. Joe bussò e fece capolino all’interno. Una tazza in una mano, un pacchetto di biscotti nell’altro. «Ha preso il suo fax?». Logan aggrottò la fronte, prendendo la tazza di caffè. «Quale fax?» «Dovrebbe essere nella sua piccionaia. È arrivato intorno alle cinque». «Oh. No». «Noi stavamo considerando di scrivere tutto quello che dobbiamo e valutare alcuni obiettivi per la settimana prossima prima di staccare. Pensavamo di poterci occupare di qualche caso di comportamento antisociale e di qualche furto d’auto». Logan allungò una mano nel cassetto della scrivania e pescò una confezione di aspirina. «Fatemi un favore e mettete anche lo spaccio di droga sulla vostra lista. Gli ho ufficialmente dichiarato guerra». «D’accordo». Joe si allontanò e Logan ingoiò quattro compresse, con l’aiuto di un sorso di caffè bollente. Qualcuno aveva dotato i suoi topi inferociti di motoseghe, e quei piccoli bastardi si erano messi in testa di scavarsi un’uscita dal suo cranio con le maniere forti. «Fax». Si alzò dalla sedia e attraversò l’ufficio. Le piccionaie non erano vere piccionaie, ovviamente, ma schedari di plastica rossa incastrati quattro alla volta in un recesso del muro vicino alla porta che conduceva sul davanti dell’edificio. Quello di Logan era pieno di moduli di finanziamento, menu di ristoranti take-away, un paio di volantini di negozi locali e un ritaglio di giornale che parlava di un bastardo che si arrampicava sul tetto di un vicino per defecare nel suo comignolo. C’era perfino una foto. Ma in fondo a tutta quell’immondizia c’era una busta della posta interna. La aprì e tirò fuori tre fogli a4. risultati del dna dei resti rinvenuti a tarlair. Secondo l’orario stampato sul fax, i fogli erano arrivati alle 16:58. Il tipo dei laboratori era riuscito a consegnare i risultati prima della fine del turno di lavoro, dopotutto. Logan saltò i paragrafi introduttivi e procedurali, i grafici e i diagrammi della seconda pagina, e passò direttamente ai risultati in fondo. Gonfiò le guance.
Si appoggiò al muro e fissò il foglio. Non c’erano corrispondenze con il dna di Helen. Non era sua figlia. «’Notte, sergente. ’Notte, Hector». Penny gli rivolse un cenno. Poi seguì Joe e Big Paul fuori dalla stazione. Erano le due del mattino. La porta si richiuse, lasciando Logan solo con i suoi fantasmi. Una dozzina di nomi ora riempiva il foglio di carta che aveva cominciato a scrivere a Peterhead, cercando di ricostruire la bacheca dei pedofili di Charles Anderson. Alcuni avevano dei punti interrogativi accanto, altri erano sottolineati. Per esempio il dottor William Gilcomston, ovvero dottor Pedo-iatra, collegato con una linea di pennarello rosso a “bambina di tarlair”. Ma questo non li portava affatto più vicini ad arrestare l’assassino della piccola, giusto? Non quando Gilcomston poteva semplicemente negare tutto. Avevano bisogno di prove. Di informazioni. Di qualcosa che giustificasse l’emissione di un mandato dello sceriffo per perquisire quella casa. Ma quel lavoro avrebbe dovuto attendere il giorno dopo. Logan si scollegò dal sistema. Spinse via la tastiera. Sbadigliò. E infine si afflosciò sulla sedia. Non aveva senso restare lì senza fare nulla. Era ora di tornare a casa. Altri topi si erano uniti a quelli già presenti nella sua testa, e sembravano armati di martelli pneumatici. Gli stavano trapanando il cervello a ritmo con il battito cardiaco. Aveva bisogno di altre pillole. E di qualcosa di più forte dell’aspirina. Si passò le mani sul viso. Avanti. Casa. Letto. Già… ma se Helen fosse stata ancora lì? Nel suo letto? Doveva ricordarsi di tenersi addosso le mutande. Niente più protuberanze imbarazzanti di prima mattina. Non era un granché, come piano, ma era comunque meglio di niente. Uscì a passi lenti dalla stazione, lasciandola a Hector e all’oscurità. Attraversò il parcheggio. La luna era una falce pesante che brillava da un buco tra le nuvole, riflettendosi nell’acciaio agitato della superficie della baia. Le onde si muovevano e sibilavano contro la spiaggia. Qualche goccia di pioggia sottile scendeva dal cielo, e lo costrinse ad affrettarsi. Si richiuse alle spalle la porta di casa a chiave. Anche quella del soggiorno era chiusa. Dalle fessure intorno non filtrava alcuna lama di luce, e neanche dall’ampio spazio lasciato al di sotto del battente dall’assenza della moquette. Logan salì cauto le scale, restando all’esterno dei gradini per minimizzare il cigolio del legno. Helen aveva fatto un lavoro da professionista, nel dipingere il corridoio, migliore di quello che aveva fatto lui in cucina. Sembrava il momento giusto per rinnovare il pavimento. Forse avrebbe potuto prendere in prestito il furgone della polizia per un paio d’ore, per recuperare un po’ di materiali dal negozio di bricolage di Elgin? Sì, certo, Napier sarebbe stato felicissimo di scoprirlo. Avrebbe dovuto aspettare fino a mercoledì, quando quel periodo di doppi turni sarebbe finito. E avrebbe dovuto vedere quanto linoleum sarebbe entrato nella sua vecchia Clio. Salì fino al pianerottolo. La pioggia picchiettava sul lucernario. Si lavò velocemente i denti. Inghiottì due compresse di Nurofen. Poi raggiunse la camera da letto. Una vaga luce arancione filtrava dalla finestra, proveniente dal lampione in strada. Si rifletteva sulla figura sotto le coperte, al centro del letto. Scintillava sui riccioli a cavatappi. Lei si girò nel sonno, mormorò qualcosa, schioccò le labbra un paio di volte e restò di nuovo immobile. Okay. Puoi farcela.
Svegliala e spiegale cosa hanno rilevato i risultati delle analisi. Dille che quella bambina non è sua figlia. Il viso di Helen era morbido e liscio, le rughe intorno agli occhi e tra le sopracciglia quasi del tutto sparite. Almeno in quel momento, ovunque fosse nei suoi sogni, aveva trovato un attimo di pace. Perché rovinarlo? Perché svegliarla e riportarla alle solite preoccupazioni? La bambina avrebbe continuato a non essere sua figlia anche il giorno dopo. Lasciala sognare. Logan si spogliò e si infilò nel letto accanto a lei. Ma si tenne addosso i boxer.
Capitolo 47
«…dopo il notiziario. Ma ora, linea a Tim. Tim?» «Grazie, Bill. La polizia di Banff, nell’Aberdeenshire, ha annunciato ieri sera di aver arrestato un uomo di Birmingham per l’omicidio della poliziotta sotto copertura Mary Ann Nasrallah. L’uomo, Martyn Baker…». Logan premette il pulsante sopra la radiosveglia. Sbirciò oltre il cuscino. Helen si girò su in fianco. «Altri cinque minuti…». Lui si alzò, dirigendosi verso il bagno. Si bloccò in cima alle scale. Rumori, provenienti dal soggiorno. Era forse la tv? Tornò in camera. Si infilò in tutta fretta un paio di jeans e delle pantofole. Staccò il manganello dalla cintura con l’equipaggiamento appoggiata in un angolo. Poi scosse con delicatezza la spalla di Helen. Lei socchiuse gli occhi, e poi la bocca. «Shh…». Le posò una mano sulle labbra. Erano calde e umide contro il suo palmo. Logan abbassò la voce a un sussurro. «Devi rimanere qui. In silenzio. Okay?». Un battito di ciglia. Un altro. Poi un cenno d’assenso. «Okay». Logan tornò sul pianerottolo. Poi scese le scale, tenendosi all’esterno dei gradini. Era davvero la tv. «…un colpo magistrale, dritto sul green…». «Sta conducendo un’ottima partita». «Sì, davvero». Un’asse del pavimento cigolò dietro la porta del soggiorno. Poi un’altra. Chiunque fosse all’interno si stava muovendo. Logan cambiò la presa sul manganello. Tre. Due. Uno. Caricò oltre la porta, estendendo il manganello alla massima lunghezza. «faccia a terra, subito!». Cthulhu saltò giù dal tavolino e schizzò a nascondersi sotto il divano. La Steel non si mosse di un millimetro. Se ne restò lì seduta, infilandosi in bocca una cucchiaiata di cereali. Bofonchiando subito dopo: «Sì, molto impressionante. Ricordami di svenire». «Ooh, e Michelle non sarà felice di questo colpo. Dritto nel bunker». Lui abbassò il manganello. «Cosa diavolo ci fa qui?» «Stavo guardando il golf». Indicò lo schermo con il cucchiaio. «A proposito, i tuoi cereali fanno schifo». Sullo schermo, una donna dai capelli rossi, con tutte le curve al posto giusto e un bikini minimale scese in un bunker. «Cos’è, un porno?». La donna allineò il colpo e sparò la pallina sul green. Con un grande ondeggiamento di curve. «È come mangiare pezzi di cartone. Che fine hanno fatto i vecchi cereali croccanti?» «Ooh, che incredibile rimonta». «Non posso permettermeli. Perché sta guardando un film porno sul mio divano?»
«E siamo a un colpo sotto il par…». Una bionda con addosso un bikini blu ancora più ridotto allineò la mazza alla pallina. La telecamera zoomò in primo piano, finché due natiche rotonde e abbronzate non riempirono lo schermo, ondeggiando a destra e a sinistra. «Non è un porno, è Golf in Bikini». Altri cereali economici le sparirono in bocca. «Adoro Channel Five». Dio santo. «Io vado a farmi una doccia». «Non dimenticare di lavarti dietro le orecchie». Lui tornò in cima alle scale. Helen era sul pianerottolo e sbirciava di sotto. Sulla sua maglietta c’era un ippopotamo, e i pantaloncini le lasciavano scoperte le gambe, su cui si intravedeva una corta peluria bionda. Bisbigliò, muovendo appena le labbra: «Sono i ladri?» «No, è solo una pervertita». Logan scese le scale, vestito da capo a piedi dell’uniforme nera della Polizia di Scozia. Si fermò fuori dalla porta del soggiorno, posando una mano sulla maniglia. La voce di Helen si udì dall’altra parte del battente. «Non capisco. Perché indossano i bikini?». Già. Forse entrare lì dentro non era proprio un’idea geniale. Si agganciò le mostrine sulle spalle della maglia. «Ma non è un po’… ecco, sessista?» «Nah, i Bikini Golf Masters sono aperti a tutti: maschi, femmine e transgender. Non importa, purché indossino un bikini». «Uomini in bikini?» «Già. Te lo immagini Colin Montgomery che si abbassa a controllare il green, con addosso un bikini a pois? Con uno dei suoi amichetti pelosi che gli pende da un lato?». Risero entrambe. Oh, che gioia. Stavano legando. Logan si preparò una tazza di tè e una fetta di pane tostato, e consumò la colazione in piedi davanti al bancone della cucina. Poi non poté procrastinare oltre, ed entrò in soggiorno. Le due donne erano sul divano, con Cthulhu acciambellata sulle ginocchia di Helen e intenta a fare le fusa. «…la numero quattro in classifica. E ora è Svenga a tirare per prima». Svenga era una brunetta statuaria con un seno prorompente che sfidava la forza di gravità e veniva contenuto a stento da due triangoli di tessuto floreale e una cordicella. Logan si schiarì la gola. «Helen, posso parlarti un secondo?». Lei alzò lo sguardo. «È per il pranzo?» «No, vorrei parlarti in privato». La Steel imbronciò le labbra, stringendo gli occhi. «Sai cosa? Credo che Helen stia benissimo dove sta. Non è vero, Helen?». Logan sospirò e si accosciò di fronte a lei, posandole una mano sul ginocchio. «Abbiamo ricevuto i risultati delle analisi. La bambina ritrovata alla Tarlair Swimming Pool non è Natasha». «Ooh, un tiro potente, giù dritto verso il green». Cthulhu si stiracchiò, allungando una zampina. «È difficile dire come faranno le altre concorrenti a cavarsela, adesso». Una spalla si sollevò, ed Helen fissò la gatta che aveva in braccio. «Oh…». «Tutto a posto?». Le rughe in mezzo ai suoi occhi si fecero più profonde. «Non lo so. Ogni volta mi ripeto che sarebbe meglio saperlo. Che se sapessi che è morta, potrei piangerla e andare avanti. Ma…». L’altra spalla imitò la prima. «Potrebbe essere ancora viva».
La Steel le batté una pacca sulla spalla. «Sono certa che lo è». Poi si alzò. «D’accordo, sarà meglio che ora scorti il sergente McRae alla stazione. Deve aiutarmi con le mie indagini». Attese che Logan infilasse in una busta di plastica un barattolo di zuppa di lenticchie e due fette di pane in cassetta, e lo accompagnò fuori. Il vento staccava fiocchi di spuma dalle onde, gettandoli contro i frangiflutti e trasformandoli in freddi chiodi salati. Il sole era nascosto dietro pesanti nuvole grigie e minacciose. La Steel si chiuse la porta alle spalle, poi lo colpì su un braccio. Forte. «Ah!». «Era una potenziale testimone, e tu te la porti a letto!». Un altro pugno. «La smetta di colpirmi!». Logan si ritrasse. «Non è successo niente tra noi». «Ah, davvero? Condividete il letto e non è successo niente?» «Non stiamo condividendo…». «Invece sì, dannazione. Sono un commissario capo, che credi?» «Non è successo niente, ho detto. Va bene?». Logan puntò verso la stazione, con la Steel alle calcagna. «E non succederà niente. La bambina uccisa non è sua figlia. Difficilmente resterà qui ancora a lungo, no?» «Hai idea di quello che combinerà Napier, quando lo saprà? Come puoi essere stato così stupido? Ti avevo detto di tenertelo nei pantaloni, ma tu non mi ascolti mai, ve…». «basta!». Lui si girò di scatto, allargando le braccia, esasperato. «Basta così! Io non sono la sua banca dello sperma personale, siamo intesi? Posso uscire con chi mi pare, e non sono né saranno mai affari suoi». «Non provare a…». «No! Non intendo parlarne oltre». Logan entrò a passo di marcia nella stazione e le sbatté la porta in faccia. Chi diavolo credeva di essere, per potergli dire cosa doveva o non doveva fare? E poi, non stava facendo niente. Magari avesse fatto qualcosa, almeno. «Sergente? Tutto bene?». La Nicholson si bloccò in mezzo al corridoio, fuori dalla porta della mensa, con due tazze in mano. «Sembra sul punto di uccidere qualcuno». «In realtà, avrei una lunga lista di gente da uccidere». «Oh… d’accordo. Comunque…». Arretrò di un passo. «Ora sarà meglio che io…». E a quel punto sparì. Lui entrò furioso nell’ufficio principale. Dannata Steel. Sarebbe dovuto tornare lì fuori per ficcarle il… «Sergente McRae?». Maggie alzò lo sguardo dalla tastiera. «L’ispettore McGregor ha detto che voleva vederla nel suo ufficio appena fosse arrivato». Lui abbassò le spalle. «Ha forse detto…?» «La aspetta nel suo ufficio». Ovviamente.
LunedĂŹ, turno di mattina
L’altra scarpa
Capitolo 48
L’ispettore stava facendo dondolare la sedia girevole da una parte all’altra. Dietro di lei, il Mare del Nord si muoveva furioso sotto un cielo di metallo. Gocce di pioggia sempre più fitte andavano a suicidarsi contro il vetro della finestra. «Non so se congratularmi con te o massacrarti come non ha fatto mai nessuno nella tua intera carriera di poliziotto». Logan non provò neanche a sfiorare una delle sedie davanti alla scrivania. «Capo?» «Hanno controllato il cellulare di Martyn Baker. Se anche ritrattasse quello che ha confessato, ci sono abbastanza messaggi per incastrarlo una volta per tutte. Ci sono messaggi in cui qualcuno gli dice di andare sul luogo e spaventare l’altra gang. E altri in cui gli viene intimato di andarsene da lì, subito dopo, e far perdere le sue tracce nel bel mezzo del nulla. E un paio in cui quel qualcuno si fa prendere dal panico perché ha scoperto che la donna uccisa era una poliziotta sotto copertura». «Bene. Questo significa che si può collegare all’omicidio anche chiunque gli abbia mandato quei messaggi?». La sedia continuò a girare a destra e a sinistra. A destra e a sinistra. «Il sovrintendente capo mi ha chiamato, congratulandosi con la Divisione b per aver arrestato l’assassino di Mary Ann Nasrallah. Ed eccoci qui, una piccola stazione di polizia del nord-est della Scozia che ha risolto il crimine più importante del momento. La Polizia di Scozia salva la situazione». Okay, per essere un rimprovero, sembrava sorprendentemente blando. «Ci sarà una lettera di elogio nel tuo fascicolo, e forse perfino un riconoscimento ufficiale. Che te ne pare?». Logan sorrise. «Mi sembra…». La donna sbatté una mano sulla scrivania, facendo vibrare la tastiera. «E allora, cosa diavolo ti è passato per la testa?». Non poi così blando, a pensarci bene. «Be’, ecco…». «Ti avevo ordinato espressamente di stare lontano dall’Operazione Troposfera, e tu hai fatto di testa tua e hai arrestato Martyn Baker. E non venirmi a dire che non c’entrava niente con quella storia, perché tu pensavi che fosse collegato e l’hai comunque arrestato!». Logan serrò le labbra e non rispose. «Santo cielo, sergente, non ero stata abbastanza chiara?». Gli puntò contro un indice. «Se uno entra in un nightclub e vende alle persone delle Smarties dicendo che sono pasticche di Ecstasy, comunque lo arrestiamo per spaccio di Ecstasy. Sono le intenzioni che contano. E tu pensavi che quell’uomo fosse il Candelaio!». Lo fissò con rabbia per un po’. «Allora?» «Mi spiace». «Se tu per primo non obbedisci agli ordini, come pensi che lo farà il resto del team? Sei il loro sergente, e ti comporti come un novellino in prova. No, anzi, sai cosa? Definirti così è ingiusto per i novellini in prova. Ciuffo ha più professionalità di quanta ne abbia dimostrata tu!». La pioggia prese a martellare contro il vetro dietro di lei. L’ispettore tamburellò con le dita contro il pianale della scrivania. «Sergente McRae, questo ruolo ti sta troppo stretto? Ti sentiresti meglio se ti trasferissi altrove?» «No, capo. Non intendevo…». Prese un respiro profondo. «Mi dispiace».
«E lo credo bene, che ti dispiace». La donna lo fissò ancora. Poi si appoggiò allo schienale della sedia e incrociò le braccia sul petto, girandola per rivolgersi verso la finestra. «Ci sarà un brindisi di festeggiamento, dopo la fine del turno, stasera. Il sovrintendente capo in persona ha messo i soldi in cassa. Sarebbe carino se riuscissi a starmi lontano fino a quel momento». Logan uscì dall’ufficio. I suoi passi risuonarono come campane a morto, giù lungo le scale, riecheggiandogli dietro. Si sarebbe potuto pensare che arrestare l’assassino di un poliziotto portasse con sé solo congratulazioni e champagne. Non minacce di declassamento e trasferimento. Che magnifica giornata si stava prospettando, di nuovo. Logan si fermò in fondo alle scale. Raddrizzò le spalle e sollevò il mento. Sibilò un sospiro tra i denti. Avanti, sempre avanti. O forse sempre più in basso. Aprì la porta e attraversò l’ufficio principale. Un rapido sguardo ai giornali, una tazza di caffè, un controllo alle azioni sul computer e poi fuori di lì, prima che qualcos’altro potesse andare storto. Una copia dell’«Aberdeen Examiner» era appesa sulla parete della postazione di Maggie. “continua la caccia ai figli di bisset” era il titolo principale, con una foto dei due scattata fuori dal tribunale. I volti magri, gli stessi capelli neri lunghi fino alle spalle. La stessa espressione di dolore, perdita e shock sul viso. L’articolo sotto la foto era un riassunto di quelli pubblicati negli ultimi due giorni, in cui si faceva sapere che non c’erano dettagli salienti, al momento, e che le indagini proseguivano e i due erano stati avvistati in ogni angolo del paese. In più, c’era un virgolettato assolutamente inutile di uno dei passeggeri del Megabus dove David e Catherine non erano mai stati. Lo «Scottish Sun», d’altro canto, apriva con “altri piedi mozzati trovati a clyde. «non è un serial killer», dice la polizia”. Sì, certo. Tanti auguri. Maggie rientrò nell’ufficio dal corridoio, con uno scatolone di cartone tra le braccia. «Sergente McRae?» «Sono sull’orlo di una crisi di nervi, qui, Maggie. Sono buone notizie?» «C’è una donna che la aspetta al bancone della reception». Quindi probabilmente non erano buone notizie. Logan alzò il mento e raddrizzò le spalle. Scivolò oltre la parete con appunti e volantini e raggiunse il bancone. Un’anziana signora era seduta su una delle sedie di plastica nell’ingresso, dall’altra parte del bancone. Il suo cappotto lungo e pesante scintillava di pioggia, e dall’orlo della gonna di tweed sporgevano due gambe esili infilate in un paio di galosce che le arrivavano al polpaccio. Teneva in grembo quello che sembrava un contenitore Tupperware. Fantastico. Come minimo, lì dentro c’era qualcosa di morto. Di morto e molto puzzolente. Meraviglioso. Logan afflosciò un po’ le spalle. «Posso aiutarla?». La vecchietta alzò lo sguardo e sorrise, mettendo in mostra la dentiera. «Volevo ringraziarla». Con un po’ di difficoltà, si alzò in piedi e si avvicinò al bancone, facendo scricchiolare gli stivaletti di gomma sulle piastrelle umide del pavimento. «Li ha uccisi tutti. È meraviglioso». Lui arretrò appena. «Davvero?» «Sì, tutti i ratti. Li ha uccisi con il manganello e non sono mai più tornati». Okay… Ma almeno adesso aveva capito chi era quella donna. «Signora Ellis. È stato un piacere». «Ho dormito benissimo, queste ultime due notti, e volevo ringraziarla». Gli tese il contenitore stretto tra le mani tremanti. «Questo è per lei». Doveva esserci un ratto morto, lì dentro, vero? Un grosso e puzzolente ratto morto.
Logan tentò un sorriso. «Grazie a lei. Non avrebbe dovuto». Già. Proprio no. «Sciocchezze! Ho vinto dei premi, con questa ricetta: è quella segreta di mia madre». La vecchia signora ammiccò, in un’espressione che le riallineò le rughe sul viso. Un ratto croccante. Fantastico. Cerca di sembrare contento. «Grazie». «Se lo merita». La Macchina Grande svoltò l’angolo e tornò su Rundle Avenue, con i tergicristalli che cigolavano lungo il parabrezza. La Nicholson tirò su con il naso. «Niente di niente». «Probabilmente è troppo presto». Logan scosse la testa. «Ma il fatto è questo: quel contenitore non era pieno di ratti morti, ma di scones al formaggio. Riesci a crederci?» «Be’…». La Nicholson aggrottò la fronte. «Una volta ho arrestato l’uomo che aveva aggredito la madre di tre bambini, e lei mi ha preparato una torta». «A volte, la gente è meravigliosa». «A tutte le unità, stiamo cercando una certa Julian Martin, femmina bianca, trentadue anni. C’è un mandato di arresto a suo carico per aver disegnato immagini indecenti di un bambino». Non tutta la gente, poco ma sicuro. Svoltarono a sinistra, tornando su Tannery Street. «È sicuro di stare bene, sergente? La sua nuca sembra una melanzana pelosa». Logan sollevò una mano e si passò le dita sull’ematoma. Una serie di croste segnalava il punto d’impatto dell’oggetto con cui era stato colpito. Bruciava ancora come le punture di mille minuscole vespe. «Sì, sto bene». «Oh, avanti: se fosse successo a me o a Ciuffo, non ci avrebbe permesso di tornare al lavoro per una settimana». Lui si strinse nelle spalle. «Sì, be’, forse il vostro ufficiale comandante è più gentile del mio». La Nicholson si piegò sul volante, sbirciando a destra e a sinistra. «La pioggia non aiuta, eh? Neanche i tossici hanno voglia di uscire, con questo tempo». «Probabilmente è così. D’accordo, facciamola finita. Ci riproveremo più tardi». Lei fece inversione e tornò su Rundle Avenue, risalendo tutta la strada. Le luci erano spente nella casa in cui si era sistemato Martyn Baker. Le tende erano chiuse. La sua ragazza sarebbe rimasta ancora un po’, o sarebbe tornata subito a Birmingham con la bambina? Sempre che la gang rivale non si vendicasse su di lei per quello che aveva fatto Baker. Era quello il guaio, con le guerre di droga: a nessuno di coloro che le combattevano importava mai nulla dei danni collaterali. Tornarono su Golden Knowes Road. La Nicholson frenò di colpo. «No, non di nuovo!». C’era un cartellone in mezzo a un campo, dall’altra parte della staccionata: “banff heights – sviluppo esclusivo di ville di lusso – prossima apertura dei cantieri”. Una famiglia felice osservava il progetto di un villino disegnato da un architetto. Peccato che qualcuno aveva disegnato un pene viola sopra all’immagine. Logan si allungò e premette il pulsante delle sirene, accendendole. «Premi sull’acceleratore, Janet, abbiamo un criminale professionista con cui fare due chiacchiere». Lasciarono accesi i lampeggianti della Macchina Grande, che proiettavano luci blu e accusatrici sulla facciata della casa dei Lovejoy. Le tende dei vicini avevano cominciato subito a fremere e scostarsi furtivamente. La pioggia batteva sulla finestra del soggiorno, con le gocce che si raccoglievano e scorrevano sul vetro come lacrime. All’interno, il caminetto finto era caldo abbastanza da tostarci sopra il pane. Il
soggiorno era pieno di centrini e pizzi, clown di porcellana e vasi di vetro con fiori di seta all’interno. E piatti decorati con orsacchiotti dipinti alle pareti. Roba di classe. «Ebbene?». Logan incrociò le braccia sul petto e tirò fuori il suo cipiglio più severo. «È questo che vuoi, Geoffrey? Perché sarà quello che succederà». Il ragazzino era seduto al centro del divano, con le ginocchia strette e le dita intrecciate ai lacci della felpa che indossava. A capo chino, con le spalle curve. Singhiozzava, mordendosi il labbro inferiore, con le lacrime che gli rigavano le guance piene di lentiggini. Un piede chiuso in una scarpa da ginnastica si muoveva nervosamente sul tappeto persiano. Adesso non parlava più di lotta di classe o dei lavoratori che dovevano controllare i mezzi di produzione. A quanto sembrava, poteva fare il marxista solo quando sua madre guardava da un’altra parte. Ancora quel cipiglio severo. «Allora? È… questo… ciò… che vuoi?». Geoffrey scosse la testa, facendo ondeggiare la massa di capelli ricci e rossi. Borbottò qualcosa che gli rimase strozzato in gola, ma se c’erano delle parole, non si capirono. La madre lo colpì con uno scappellotto sulla nuca. «Non startene lì seduto a frignare: rispondi all’agente!». «Mi… mi… di… dispiace», singhiozzò Geoffrey. Un’ultima occhiataccia. «Allora basta con i disegni osceni, o torneremo qui e ti porteremo in prigione». «Pe… per favore… non… vi prego, mi… dispiace…». «D’accordo». Logan accennò alla Nicholson con il pollice. «Noi due ce ne andiamo, ma ricordati che ti teniamo d’occhio». La madre di Geoffrey lo colpì di nuovo. «Ringrazia questo gentile agente per non averti spedito in prigione». «Gra… grazie…». La Nicholson si fermò e sbirciò verso la casa. «Sa? Se i miei mi avessero chiamato “Geoffrey Lovejoy”, probabilmente anch’io non farei altro che riempire la città di disegni osceni». «Potresti piuttosto usare quel dito e sbloccare gli sportelli? Sta diluviando». Entrarono nell’autopattuglia e chiusero le portiere. La pioggia batteva sul tetto, rimbalzando sul cofano. Lei avviò il motore. «Sergente, questi…». «Pattuglia Sette, potete parlare?». Logan premette il pulsante sulla ricetrasmittente. «Parlate pure». «Qui Tango Bravo Uno Due, indovinate cosa abbiamo trovato?». La Nicholson indicò la ricetrasmittente, inarcando un sopracciglio. «Chi sono?» «Quelli del traffico di Mintlaw». Logan premette di nuovo il pulsante. «Allora, cosa avete?» «Un grosso furgone nero di trasporti, con la scritta “Magnus Hogg e Figlio, spostiamo famiglie dal 1965” sulla fiancata. È parcheggiato sulla High Street di New Aberdour». La pioggia si fece ancora più fitta, picchiando forte sul tetto e coprendo il parabrezza, mentre rimbalzava furiosa sull’asfalto. Un vecchietto si affrettò lungo la strada, lottando con un ombrello ribelle. Logan contò fino a dieci, poi rispose: «Avete intenzione di dirmelo, o devo anche diventare un veggente, adesso?» «Un veggente?». Santo cielo… «Cosa è successo quando l’avete perquisito?» «Non l’abbiamo perquisito. È ancora parcheggiato lì. Stiamo aspettando che il conducente torni. Quindi, se si muove…».
Un sogghigno si allargò sul viso di Logan. «Grazie». Batté una pacca sulla spalla della Nicholson. «Coraggio, riaccendiamo le sirene… e premi su quell’acceleratore. Stiamo andando a New Aberdour».
Capitolo 49
Alberi e siepi sfilavano fuori dai finestrini della Macchina Grande in una macchia verde e sfocata, mentre la Nicholson sfrecciava lungo la strada costiera. I tergicristalli si spostavano veloci lungo il parabrezza. «A tutte le unità, stiamo cercando un furgone Ford Transit con una roulotte a rimorchio nella zona di Peterhead, si ritiene che contenga un Labrador rubato…». Logan si afferrò alla maniglia sopra lo sportello, mentre l’autopattuglia superava una cunetta e per un attimo si sollevava in aria. Poi sbatté di nuovo contro l’asfalto. «Ehi, non è mica una puntata di Hazzard!». La Nicholson non distolse lo sguardo dalla strada. «Vuole arrivare lì in tempo oppure no?» «Calamity Janet colpisce ancora». Un piccolo segnale sonoro si udì dall’interno del giubbotto antiproiettile di Logan, seguito da una vibrazione all’altezza delle costole. Doveva essere un messaggio in arrivo. Tirò fuori il cellulare e controllò lo schermo. Ho un indirizzo per te. Alison Hay – era Alison Anderson – Rooks Crescent 19, Tiverton, Devon Ti invio a seguire il numero del cellulare. Mi devi un favore, ok? Si poteva dire qualunque cosa di Colin Miller; poteva essere un tappo ciccione di Glasgow, ma sapeva il fatto suo, quando si trattava di trovare delle informazioni. Logan digitò il numero dell’autopattuglia del traffico di Mintlaw nella ricetrasmittente. «Tango Bravo Uno Due, qui Pattuglia Sette». Qualunque fosse la risposta, non riuscì a sentirla per l’ululato delle sirene. Premette il pulsante per spegnerle, lasciando accesi i lampeggianti. «Potete ripetere?» «Ho detto che può parlare». «Il furgone è ancora vuoto?». Saltarono di nuovo, e lo stomaco di Logan gli salì in mezzo alle costole per poi ripiombare giù. «Non si è visto ancora nessuno, ma tre uomini sono entrati nel panettiere qui di fronte, un minuto fa, e ce n’è un quarto fuori, con un grosso ombrello nero, che parla al telefono e fuma una sigaretta». Sembrava che ci fosse tutta la gang. «Avete un’auto in borghese?» «Assolutamente in borghese. Ci mimetizziamo benissimo con l’ambiente». «Perfetto. Con un po’ di fortuna, resteranno lì fino al nostro arrivo. Chi altri avete nell’area?». La Nicholson schiacciò il pedale del freno, scalando le marce per superare una forra e poi un tornante piuttosto stretto, accelerando non appena ne fu fuori. «Sierra Uno Uno sta arrivando da Sandhaven. Tango Bravo Uno Quattro da Strichen». Il che non lasciava molte speranze alla gang di filarsela. «Okay, fammi un fischio se dovesse succedere qualcosa. Arriveremo tra… dieci minuti, credo». Un trillo e una vibrazione annunciarono l’arrivo del secondo messaggio di Colin. Conteneva il numero di cellulare promesso. Logan lo selezionò e chiamò.
Una vocina gli abbaiò nell’orecchio: «Pronto? Sì? Pronto? Sì?» «Pronto, posso parlare con la mamma?» «Io ho un camion dei pompieri!». «Fantastico, io ho una macchina della polizia». La Nicholson si lanciò oltre un altro tornante, schiacciando Logan contro lo sportello. «Io ho un camion dei pompieri, e anche una tigre, e la fatina dei dentini mi ha dato una sterlina per…». «D’accordo, tesoro, adesso fammi parlare». Ci fu un crepitio, probabilmente il cellulare che veniva confiscato. «Pronto? Posso aiutarla?» «Salve, parlo con Alison Hay, ex Anderson?». Si udì un sospiro. «Non rilascerò altre interviste, mi dispiace, quindi la prego, mi lasci in pace…». «Sono il sergente Logan McRae, della Polizia di Scozia. Stavamo investigando sulla scomparsa del suo ex marito». La Macchina Grande sbandò sul lato opposto della carreggiata per superare un autobus, puntando dritta contro un enorme trattore che procedeva nella direzione contraria. La mano di Logan si strinse sulla maniglia, mentre lui sgranava gli occhi, sentendosi chiudere la gola. La Nicholson sterzò con decisione e si ritrovarono sulla corsia giusta appena prima che il trattore li trasformasse in pasticcio di poliziotto. Oh, Dio… Il mezzo si allontanò, lasciandosi dietro una nuvola d’acqua e spruzzi. Il mondo divenne opaco per un attimo, poi i tergicristalli risolsero il problema. «Craggie non è scomparso, è morto. E, a dire la verità, è morto anni fa. Noi vogliamo andare avanti». Forse era meglio chiudere gli occhi. «Lo capisco, signora, e mi dispiace infastidirla, ma ho bisogno di farle qualche domanda su quello che è successo cinque anni fa. È molto importante». Ci fu una pausa. Poi un altro sospiro. Un rumore scricchiolante rese quasi inudibile la voce della donna. «Tesoro, per favore, vai a giocare di là per un po’. La mamma deve parlare al telefono». Poi riprese. «Andrew…». Si schiarì la gola. «Mi scusi, è passato molto tempo da quando ho pronunciato per l’ultima volta questo nome». «Non c’è problema». «Correva nel giardino senza mai stancarsi. Gli avevamo regalato una spada di plastica e uno scudo, e diventava Spartacus, oppure Bilbo, o chiunque fosse il suo eroe quella settimana. Combatteva contro draghi e scheletri. Gli ripetevamo sempre di stare lontano dal campo dietro casa, per via della scogliera, ma…». Silenzio. «Mi sono distratta solo per cinque minuti. Stavo preparando le patate e la zuppa di porri per cena e…». Un sibilo lieve sfuggì dal ricevitore. «Abbiamo ritrovato la spada e lo scudo. L’abbiamo cercato per ore, e quei due oggetti erano lì, appoggiati contro il muretto, in fondo al campo». «Mi dispiace». «Hanno chiamato la Guardia Costiera, che ha controllato gli scogli e le rocce, ma non ha trovato nulla. Andrew… Ci hanno detto che era stato portato via dal mare». Logan si sentì di nuovo schiacciare lo stomaco contro i polmoni, mentre la Nicholson faceva saltare la macchina oltre una cunetta. «Charles ha detto qualcosa?» «Se ha detto qualcosa?». La donna si lasciò sfuggire una breve risata amara. «Non parlava d’altro. Di come nulla gli sembrasse giusto. Del fatto che Andrew non poteva essere morto, ma che era scomparso. Non avevano trovato il corpo, quindi come poteva essere morto? Qualcuno doveva averlo rapito». «Ma non c’erano prove a favore della sua ipotesi, giusto?»
«Era ossessionato da quella faccenda. Ha sparso volantini ovunque, ha pubblicato messaggi nei giornali, ha consegnato foto alle partite di calcio e nei supermercati, finché non gli hanno detto che doveva andare avanti. Per due anni ho provato a resistere, ci ho convissuto perché stava male e soffriva. Ma sa cosa? Anche io stavo soffrendo». Logan si guardò intorno. Campi e alberi sfrecciavano ai lati della macchina, mentre la Nicholson schiacciava l’acceleratore per superare il furgone di un idraulico. Lui chiuse di nuovo gli occhi. «Ha mai trovato qualcosa? Ha mai collegato qualcuno alla scomparsa di Andrew?». Non ci fu risposta. «Signora Hay?» «Mi sono risposata. Abbiamo avuto una bambina. Andrew è morto, e io non ne voglio mai più parlare». Uno scatto. La donna aveva chiuso la telefonata. La voce della Nicholson si fece sentire sopra il ruggito del motore. «Può riaprire gli occhi, sergente. Siamo arrivati». Il segnale con il limite di velocità sfrecciò accanto alla macchina e lei schiacciò i freni, accontentandolo e procedendo in modo decisamente più rispettabile. Poi premette il pulsante che spegneva i lampeggianti blu. Superarono a sinistra un cimitero con parecchio spazio vuoto. La pioggia picchiava sull’autopattuglia, come un milione di minuscoli martelli. La Nicholson accostò davanti alla chiesa. «Allora, qual è il piano?». Logan tornò a premere il pulsante della ricetrasmittente. «Pattuglia Sette a Tango Bravo Uno Due. Potete parlare?» «Ce l’avete fatta?» «Abbiamo corso parecchio. Novità sui sospetti?» «Sono ancora dal fornaio. Sono lì dentro da dieci minuti». «E quello al telefono?» «Sta fumando la sua terza sigaretta, va avanti e indietro sul marciapiede e gesticola mentre parla. Sembra che sia piuttosto furioso con qualcuno… Oh, ecco. Un momento. Ha attaccato e ha tirato fuori delle chiavi. Sta puntando verso il furgone… Avanti, bello, fallo per zio Ed…». La Nicholson ondeggiò un paio di volte su e giù sul sedile del guidatore. «È entrato. Ripeto, il tipo si è messo al volante del furgone». Logan allungò una mano e fece tornare seduta la Nicholson. «E gli altri tre?» «Sono ancora nel… No, eccoli che escono. Con molte buste di carta e tazze di plastica in mano». La Nicholson avviò il motore dell’autopattuglia. «Andiamo…». «Verso dove punta il muso del furgone, sud o nord?» «Si stanno muovendo adesso, puntano verso la strada per Strichen». «Okay, non faranno un’inversione in tre tempi con un furgone del genere. Hai detto che hai un’auto in borghese, giusto? Quando si allontanano, ti voglio davanti a loro. Li faremo procedere per mezzo miglio e poi tu li bloccherai davanti, e noi dietro». «Ha avviato il motore. Okay, stiamo andando anche noi… Lenti e tranquilli. Ci segue». «Fatemi sapere appena raggiungete i confini del centro abitato». «Sono in quattro. E se fossero armati?» «Volete che andiamo noi per primi?» «Sta dicendo che quelli del traffico non sono abbastanza coraggiosi?… Okay, siamo fuori dal centro abitato, sulla strada per Strichen. Il furgone è proprio dietro di noi». Logan annuì alla Nicholson. «Con calma e senza fretta». Lei portò la Macchina Grande su High Street.
Piccole case grigie, tutte in fila, scivolarono accanto ai finestrini, tristi e cupe sotto la pioggia battente. In fondo alla strada svoltarono a sinistra, seguendo l’indicazione per Strichen. Ancora un paio di case, poi svoltarono e si ritrovarono in aperta campagna. La strada si allungava davanti a loro, con la massa scura del furgone che spiccava come un mucchio di carbone tra i campi dorati e ondeggianti. Logan premette il pulsante della ricetrasmittente. «Tango Bravo Uno Due, abbiamo lasciato anche noi il centro abitato. Vediamo il furgone. Ci stiamo avvicinando, ora». «Ricevuto. Noi rallentiamo fino a fermarci… Ecco, stiamo bloccando la strada. Il furgone è fermo». La Nicholson accelerò, portandoli dietro al furgone, e poi frenò di colpo. Logan premette il pulsante delle sirene, scatenando il loro ululato, mentre toglieva l’elastico che copriva l’obiettivo della telecamera che portava addosso. «Avanti, facciamolo». Uscirono sotto la pioggia. Logan si piantò il berretto dell’uniforme sulle orecchie, bloccandosi per un attimo e facendo una smorfia quando il bordo del cappello colse l’ematoma sulla nuca, poi afferrò il giubbotto catarifrangente dal sedile posteriore e lo indossò, mentre la pioggia gli scorreva sul collo. La Nicholson uscì dall’altro lato della macchina, infilandosi a sua volta il giubbotto, mentre correvano nelle pozzanghere ai due lati del furgone, fino a raggiungere i finestrini dell’abitacolo. L’uomo alla guida non si mosse. Mantenne le mani immobili sul volante. I tre seduti accanto a lui fecero del loro meglio per sembrare tranquilli e rilassati. Non c’è niente da vedere, qui. Procedete pure. I due della pattuglia Tango Bravo Uno Due comparvero, indossando anche loro dei giubbotti catarifrangenti. Quattro contro quattro. Logan si allungò e bussò al finestrino del guidatore. Ci fu una pausa. La pioggia picchiettava sul berretto dell’uniforme di Logan, scivolando lungo le spalle di un giallo fluorescente. Poi il finestrino si abbassò con un ronzio. Un sorriso fece sollevare le guance dell’uomo, trasformandole in mele rosate. «Salve, agente. Come posso aiutarla?». Non era un accento locale, ma comunque era scozzese. Forse di Dundee? Non abbastanza cantilenante per essere di Fife. Era un tipo grosso, con la testa che quasi sfiorava il soffitto dell’abitacolo. Lunghi capelli castani. Una tuta verde. «Questo veicolo è suo, signore?» «No, io lo guido e basta. Sa come va con queste ditte di trasporti, no? Noi ci limitiamo a guidare e a portare la roba dal punto a al punto b». «E lei è…?» «E poi sembra sempre che traslochino tutti all’ultimo piano, vero, ragazzi? Più sono pesanti i mobili, e più rampe di scale ci sono per portarli a destinazione». I compagni annuirono, facendo versi di condiscendenza che non erano vere e proprie parole. Indossavano tutti le stesse tute verdi, e tutti erano grossi abbastanza da poter affrontare l’agente King Kong McMahon, probabilmente anche mettendolo in difficoltà. I tre marmittoni. «Le ho chiesto le sue generalità, signore». «Sì, certamente. Mi chiamo Russell. Russell McNee. Stavo andando troppo veloce o cosa?» «La prego di consegnarmi le chiavi e di scendere dal veicolo, adesso, signore». «Oh, avanti, non avevo superato il limite. Ne sono sicuro. Questo è…». «Le chiavi. Per favore». Logan tese la mano. Nessuno si mosse. Pioggia.
«A tutte le unità, stiamo cercando Terrence e Jon McAuley. Entrambi hanno un mandato di arresto per un’aggressione aggravata risalente a sabato notte». Altra pioggia. Ora basta. Avrebbero obbedito con le buone o… Il terzo marmittone, quello più lontano da Logan, cedette. Si slacciò la cintura di sicurezza e aprì di scatto lo sportello del passeggero, facendolo finire addosso alla Nicholson e mandandola contro una siepe di rovi. E poi scattò, superando la siepe con un salto e correndo nel campo di grano. Ci vollero meno di due secondi perché la Nicholson si rialzasse imprecando e gli corresse dietro, con il berretto dell’uniforme che rotolava via alle sue spalle. Più vicina… più vicina… più vicina… e poi thump, gli finì addosso, e piombarono a terra in un groviglio di gambe e braccia che sparì sotto le spighe di grano. McNee sbirciò verso Logan. Sospirò. Poi staccò le chiavi dal quadro e gliele consegnò. «È sempre stato un idiota». Uno degli agenti della pattuglia Tango Bravo Uno Due superò la recinzione e si avventurò nel campo di grano. Aveva percorso forse un metro e mezzo quando la Nicholson riemerse dalle spighe, sollevando davanti a sé l’uomo che aveva fermato, con le mani ammanettate dietro la schiena. Mai mettersi contro Calamity Janet. Logan accennò con il mento al retro del grosso furgone nero. «Vuole mostrarmi cosa state trasportando?» «In verità no». Ma McNee scese comunque dall’abitacolo, raggiunse i portelloni posteriori e sbloccò il lucchetto, togliendolo dalla serratura. Lo sportello si aprì, rivelando il retro di una Ford Ranger marrone. Grosse indentature rovinavano la carrozzeria, e il parafango era ammaccato e quasi staccato. Quattro sollevatori idraulici erano attaccati alla parete del furgone. Quattro denti di arresto bloccavano la quattro per quattro malandata a morse sul pavimento. Logan inarcò un sopracciglio. «Bene, bene, bene». Non c’era da sorprendersi che la polizia non riuscisse mai a trovare le auto che effettuavano le rapine. McNee si leccò le labbra. Poi abbassò la voce a un sussurro: «Senta: io sono solo quello che guida il furgone. Faccio quello che mi viene detto. Sono gli altri a capo delle operazioni». «Sì, certo. E dove si trova la cassa che avete strappato al supermercato di Strichen, ieri notte? È nel furgone anche lei?». L’uomo si passò una mano sul viso, deformandolo. «Lo sapevo che sarebbe stata una brutta giornata, quando mi sono svegliato stamattina».
Capitolo 50
Un agente in uniforme attraversò di corsa il parcheggio dietro la stazione di Fraserburgh, con la busta di un corriere espresso in mano e l’altra che si calcava sulla testa il berretto. La pioggia gli rimbalzava sulle spalle del giubbotto catarifrangente, scivolando giù come una piccola cascata personale. Rivolse un cenno di saluto alla Macchina Grande mentre passava e sparì all’interno della stazione entrando dalla porta sul retro. Dietro al volante, la Nicholson sollevò un sopracciglio, le labbra contorte in quello che era per metà un sorriso e per metà una smorfia. Sottili linee rosse le segnavano i lati delle guance, con minuscoli punti di sangue rappreso che somigliavano ai grani di un rosario. «I rapinatori delle casse e il bastardo che ha sparato a Mary Ann Nasrallah. Mica male, per un vecchietto». Un sogghigno sfiorò il viso di Logan. «Sta’ zitta e guida». Poi inserì il numero dell’ispettore nella ricetrasmittente. «Bravo India, qui Pattuglia Sette, può parlare?» «Prego, sergente». Ah, dunque era ancora “sergente”? Era ora di cambiare qualcosa. «Abbiamo arrestato i rapinatori delle casse». Niente. La Nicholson si allontanò dalla stazione di Fraserburgh, infilandosi nel traffico fitto dell’ora di pranzo. «È ancora lì, capo?» «Li hai arrestati?» «E abbiamo già svolto i primi interrogatori. Tre della gang non parlano, ma l’uomo alla guida del furgone dei trasporti li ha incastrati. E credo che quegli altri gli faranno presto lo stesso servizio, appena capiranno che li ha venduti». «Quando è successo?» «Tre ore fa, a circa un miglio a sud di New Aberdour. Siamo stati aiutati da quelli del traffico di Mintlaw». Le case si diradarono e poi sparirono nello specchietto retrovisore. «E sei assolutamente certo che si tratti di loro?» «Facevano il colpo con una macchina rubata, fuggivano nel punto in cui il grosso furgone dei trasporti li aspettava, in qualche stradina isolata di campagna, caricavano la macchina sul retro del furgone con delle rampe di metallo, la legavano all’interno, richiudevano i portelloni e via, rifacendo la strada al contrario. E qualsiasi volante della polizia all’inseguimento li superava senza sapere nulla, a sirene spiegate». Qualche scampolo di azzurro si iniziava a intravedere in mezzo alle nuvole grigie. Un arcobaleno annunciava la morte della pioggia caduta. «Logan, un lavoro eccellente. Davvero, eccellente». Ah, ecco. Ora era di nuovo “Logan”. «Non avrei potuto ottenere questo risultato senza l’aiuto degli agenti Nicholson, Scott e Quirrel. Un fantastico lavoro di squadra». Dietro al volante, la Nicholson sorrise, raggiante. «Allora festeggeremo con un brindisi, stasera. Potrei perfino portare delle patatine». «Grazie, capo». «Dove sei, ora?» «Stiamo tornando a Banff. Pranzeremo velocemente e torneremo a pattugliare le strade».
Una lama di luce riuscì a superare il grigio delle nuvole, facendo scintillare i campi. La Nicholson gli lanciò un’occhiata. «Sono riusciti a trovare qualcuno che sostituisca il sergente Muir, alla fine?» «Non ne ho idea». «Be’, come farà a godersi il brindisi e le patatine, se deve fare gli straordinari?». Ottima osservazione. Logan premette di nuovo il pulsante. «Capo, è ancora lì? C’è qualcuno che può coprire il turno di Davey Muir, stasera?» «Dannazione». Ci fu una pausa. «No, non ancora. Lascia che faccia un controllo. Deve pur esserci qualcuno che ha bisogno di uno straordinario». «Grazie, capo». Birra e patatine… Il sorriso gli morì sul volto. Ed Helen? Sempre che fosse ancora a casa, al suo ritorno. La bambina uccisa non era sua figlia. Perché restare ancora in un paesino della costa nord dell’Aberdeenshire? No, sarebbe tornata a casa e avrebbe cercato nuove scene del crimine da controllare. Alla ricerca di una speranza. Addio, Banff. Addio, Logan. Non avrebbe certo potuto biasimarla. Ma era stato bello avere accanto qualcuno, tanto per cambiare. Anche se era stato solo per… La Nicholson lo pungolò su un braccio. «Sergente, tutto okay?». Indicò la ricetrasmittente che aveva in mano. «Pronto? Logan? Sei ancora lì?» «Mi scusi, capo, mi era parso di vedere qualcosa». «Logan, dopo pranzo mi servi alla stazione. Hai un appuntamento». «Ah, sì? Okay». Questa era una novità. «Con chi, se posso saperlo?» «Il sovrintendente capo Napier». Di nuovo? Tipico: non poteva godersi neanche mezz’ora di successo senza che quel rompiscatole biondo gli rovinasse tutto. «Ha già detto di cosa si tratta?» «Dell’Operazione Troposfera». Fantastico. Semplicemente fantastico. La Nicholson si fermò davanti alla casa di Logan. Si schiarì la gola, tenendo lo sguardo dritto davanti a sé. «Sergente, è vero che… be’, che lei e la madre della bambina uccisa avete…?» «No. E ora vai a mangiare qualcosa. Ci rivediamo alla stazione alle due meno un quarto». Lei sospirò. «Sì, sergente». Logan scese dalla macchina, lasciandosi inondare da un raggio di sole. Poi si sporse all’interno dell’autopattuglia. «E fatti disinfettare quei graffi». Poi richiuse lo sportello e la guardò allontanarsi. Tirò fuori il cellulare e selezionò il numero della Steel dai contatti. Sopra di lui, le nuvole si inseguivano in un cielo grigio scuro, con il vento che appiattiva l’erba cresciuta nelle grondaie della casa. Avrebbe dovuto liberarle. Una busta di plastica rotolò sul marciapiede, spinta dal vento. E poi: «Pronto, qui Steel. Non posso rispondere in questo momento, ma potete bla, bla, bla, le solite cose». E poi il segnale acustico della segreteria telefonica. «Sono Logan. Senta, Napier è tornato alla stazione di Banff e vuole farmi di nuovo a pezzi sull’Operazione Troposfera. Mi richiami, okay?». Mise via il cellulare ed entrò in casa. «Helen? Ci sei?». Silenzio. Ovviamente non c’era. Di sicuro era già sulla strada per Edimburgo, alla ricerca di una nuova pista da seguire riguardo alla figlia scomparsa. Abbassò le spalle.
Poi sentì il tonfo leggero dei passi di Cthulhu che scendeva le scale. La gatta gli si strusciò contro le caviglie, ronfando e miagolando. «Ci siamo ancora io e te, giusto?». Logan si piegò sulle ginocchia e la prese in braccio, rigirandola e accarezzandole la pancia, mentre la gatta si stiracchiava, le fusa che si sentivano sempre più forti. «Chi è la gattina di papà?». Se la portò in cucina, percorrendo il corridoio. «Sei tu. Sei proprio tu, sì. La mia bella piccolina». Aprì la porta e si fermò. Helen era seduta al tavolo della cucina, con davanti una tazza di quello che doveva essere stato tè e una bottiglia di brandy da supermercato. Quando alzò lo sguardo, aveva gli occhi e il naso rossi. Singhiozzò, per poi passarsi il dorso della mano sul viso. «Scusami». «Cosa è successo?» «Lei… non è morta». Logan posò delicatamente Cthulhu sul tavolo. «Pensavo fosse una buona notizia, stamattina…». La gatta restò immobile per un istante, poi premette la testolina contro la spalla di Helen e saltò giù dal tavolo. Si allontanò con la coda in aria e il sedere in mostra. «Sì, lo è. Ma anche no». Versò un po’ di brandy nella tazza e ne prese un sorso. «È come essere presa a pugni, ogni volta». Lui le si sedette di fronte. «Mi dispiace che non sia lei. Ma sono anche lieto che non sia morta». «Non ho neanche preparato nulla per il pranzo». «Non importa. C’è ancora della carne con le patate, no? Posso riscaldarla. Oppure potremmo metterci dei fagioli e trasformarla in chili con carne, che ne dici? Sarebbe come tornare indietro agli anni ’70…». Lei appoggiò le unghie rosicchiate contro la bottiglia di brandy. «Logan…». «Lo so». Si alzò in piedi, togliendosi a fatica il giubbotto antiproiettile. «Devi andare». Tirò fuori dal frigo il contenitore con gli avanzi e vi aggiunse il contenuto di un barattolo di fagioli di marca sconosciuta. Vi aggiunse del peperoncino in polvere e mescolò tutto con cura. Mantenne gli occhi sul composto piccante, senza osare guardarla. «Ma non devi andare subito, vero? Puoi restare quanto vuoi». Mise il contenitore nel forno a microonde, avviandolo alla massima potenza. «Perché non resti finché non troverai la prossima pista da seguire? È… bello averti qui». Il forno a microonde cominciò a ronzare, facendo piroettare lentamente il contenitore all’interno. Alle sue spalle, Logan sentì la sedia spostarsi all’indietro sul pavimento. E poi le braccia di Helen intorno al suo petto, a stringerlo forte. Posò una mano sulle sue. Lei gli baciò la nuca. «Povera la tua testa, tutta livida». «Helen, io…». «Shh… non c’è bisogno di dire nulla». Quando il forno a microonde tintinnò, fermandosi, erano già al piano di sopra. La Nicholson lo guardò aggrottando la fronte. «Cosa è successo?» «Niente». Logan buttò via la bustina di tè usata. «Sorrido sempre così, non lo sai?» «Invece no. E ha le guance rosse». «Ho avuto un pranzo soddisfacente». Versò il latte nella tazza, mescolando il tè e lasciando cadere il cucchiaino nel lavello d’acciaio inossidabile. «Hai visto Ciuffo? Sono passato allo Spotty Bag Shop e gli ho preso un distintivo». «È fuori di pattuglia con Deano». Logan tirò fuori dalla tasca una busta di carta con il distintivo di cartoncino all’interno. Lo tese alla Nicholson. Lei sbirciò la scritta sul distintivo. «Oh. Ecco…». Aggrottò la fronte e si morse il labbro inferiore per un attimo. «Non per essere scortese, sergente, ma “genio” non si scrive così». «Lo so. Secondo te quanto ci metterà ad accorgersene?»
«Scommetto cinque sterline che non se ne renderà conto prima di mercoledì». «Io scommetto che venerdì sera ce l’avrà ancora appuntato sul petto». Logan prese un sorso di tè e lanciò uno sguardo al soffitto. Due piani più in alto, Napier lo stava aspettando. Ah, be’… «D’accordo, ora devo andare. Ho una riunione. Prendi la Macchina Grande e fatti un giro sulla Rundle, poi vai a Macduff e vedi se riesci a beccare il guardone. Controlla magari se ha delle abitudini fisse, dei giorni in particolare in cui si fa vedere, o degli orari». «D’accordo, sergente». Logan si portò il tè nell’ufficio dei sergenti. Qualcuno aveva lasciato sulla sua scrivania uno scatolone di nani da giardino rubati, e lui lo spostò dall’altra parte. Poi si alzò e guardò fuori dalla finestra. La Steel era lì fuori, intenta a marciare avanti e indietro nel cortile dietro l’edificio, con il cellulare premuto contro l’orecchio. «Sergente McRae?». Logan si girò. Maggie era sulla soglia, con un mucchietto di post-it in mano. «Ha qualche messaggio». «Fammi indovinare: ho vinto alla lotteria?» «No, spiacente». La donna sbirciò il primo foglietto. «Una certa Lesley Spinney è venuta qui tre volte, chiedendo quando potrà riprendere possesso della sua casa. È la madre di Klingon?» «Non ne ho idea. Dovrà parlare con l’ispettore capo McInnes. Io non sono autorizzato a interferire con quell’operazione». Un punto che Napier senza dubbio avrebbe segnato con quel suo dannato piedino di fata. Post-it numero due. «Abbiamo ricevuto una segnalazione di un… ehm… uomo “eccitato” che ballava nudo su Harbour Road a Gardenstown». «Di’ a Deano e Ciuffo di andare a dare un’occhiata e di chiedere se qualcuno abbia riconosciuto questo onorevole membro della comunità». Post-it numero tre. «Ha chiamato Sean MacLauchlan, che gestisce l’indagine riguardante l’incendio di ieri notte. Dice che è sicuramente doloso. A quanto pare, qualcosa riguardo al modo in cui è bruciata la casa fa capire che il posto era stato inondato di benzina prima di darlo alle fiamme». Non era una gran sorpresa, ma almeno stavano facendo qualcosa. «Grazie, Maggie». Logan si portò il tè nell’ufficio principale. Deano comparve sulla porta, a capo chino, con le spalle curve e l’espressione di un Rottweiler che aveva appena ingoiato un boccone di ortiche. Attraversò l’ufficio a passo di carica. Trenta secondi più tardi, Ciuffo lo seguì, sbuffando sotto il peso di una grossa cassa di plastica. Logan indicò Deano. «Che hai combinato, stavolta, Ciuffo?» «Non è stata colpa mia, sergente». Il giovane agente entrò nella stanza e posò la cassa su una scrivania vuota. «Dio, pesa una tonnellata». «Avanti, parla: sembrava sul punto di ammazzare qualcuno». Ciuffo infilò una mano nella cassa e tirò fuori un nano da giardino. «Li abbiamo trovati nel cimitero, sistemati come se stessero facendo un’orgia». Ne tirò fuori un altro e li fece baciare. «Oh, sì, sei così sexy, Nanetto Pescatore. E io ti amo tanto, Nanetto Scavatore». Sporse le labbra e le schioccò, imitando dei baci sdolcinati. Poi alzò lo sguardo. «Che c’è?» «Niente, ho capito cosa hai fatto». I nani da giardino tornarono nella cassa. «Ho fatto delle ricerche, sergente, come mi aveva chiesto». Ciuffo tirò fuori il taccuino. «L’ex marito di Helen Edwards si chiama Brian Menendez Edwards: trentotto anni, ispanico, nato a Kilmarnock. Ha studiato all’Università di Stirling…». «Passa ai dettagli importanti mentre ancora siamo abbastanza giovani per capirli, avanti».
«Oh. Certo». Ciuffo girò un paio di pagine. «Ecco qui: Brian Edwards è scomparso dallo studio contabile per cui lavorava poco prima che venisse fuori una grossa truffa. La compagnia ha dichiarato che è scappato con duecentocinquantamila sterline. È uscito per la pausa pranzo, è andato a prendere la figlia a scuola, portandola via nel bel mezzo di una lezione di educazione fisica, e ha preso il primo volo per la Spagna dall’aeroporto di Edimburgo». «Ha fatto le valigie, prima di scappare?» «Sì. Ha comprato anche i biglietti in anticipo. A quanto pare, aveva pianificato ogni cosa da settimane. Da quello che hanno detto le autorità locali, all’aeroporto è venuto a prenderlo un cugino di Vilar». Ciuffo gesticolò con una mano. «Un posto nella regione occidentale della Spagna, non molto turistico. La famiglia della madre ha una fattoria sulle colline lì vicino». «Estradizione?» «Niente da fare. Sembra che l’indagine sia stata condotta malissimo, comunque. Ho controllato le liste di nascite, matrimoni e decessi online, ma non c’è traccia di Brian Edwards. Quindi ho provato con il cognome della famiglia della madre, Guerra, in caso l’avesse adottato anche lui, sa, per mimetizzarsi meglio. E ho scoperto che un Brian Menendez Guerra si è sposato nella Cattedrale di San Martin, a Ourense». Ciuffo tirò fuori un buffo accento spagnolo, per pronunciare quei nomi. «Questo è accaduto tre mesi dopo che Brian Menendez Edwards scendesse da quell’aereo con la figlia rapita. Quindi, tecnicamente era ancora sposato con Helen Edwards, al tempo». Tre mesi dopo aver portato via la figlia, e proprio quando aveva mandato quella cartolina da Ourense, dicendo a Helen che era un’inutile e brutta vacca che nessuno avrebbe mai amato. L’aveva inviata prima o dopo il matrimonio? Sì, Brian Edwards diventava sempre più simpatico. Già. Logan annuì. «Grazie, Ciuffo». Il ringraziamento gli fruttò un sorriso raggiante. «Sono stato bravo?» «Molto bravo. E ora vai a cercare questo Brian Menendez Guerra. Voglio sapere se è mai tornato nel Regno Unito. E dove si trova adesso, e se ci sono foto di lui su Facebook… questo genere di cose». «Certo, sergente». Ciuffo rimise tutti i nani da giardino nella cassa e corse verso l’ufficio degli agenti. Logan controllò l’orologio. Napier lo stava aspettando. E sicuramente stava affilando i coltelli. Ma prima doveva fare un’altra cosa. La Steel stava ancora camminando avanti e indietro nel cortile dietro la stazione, quindi Logan superò la porta vicino alla reception, percorse il corridoio, oltrepassò le scale, girò a sinistra davanti alle stanze degli interrogatori e infine uscì dalla porta del vecchio blocco di detenzione. L’edificio bloccava il vento su tre lati, con le sue pareti di pietra e le finestre chiuse. Delle fessure correvano lungo il cemento del cortile, creando l’impressione di una scacchiera, e il muschio sembrava aver vinto la sua battaglia contro l’uomo, da quelle parti. Il tutto era ingentilito da un raggio di sole. La Steel arrivò all’estremità del cortile, si girò e tornò indietro verso Logan. «…Non ne ho idea, Susan, davvero. Sì… lo so. Ci ho provato, ma dice che non ce la fa davvero a sopportare tua madre. E dice che se viene a cena, lui non ci sarà. Sì… lo so, è un totale…». Alzò lo sguardò. Sbatté le palpebre un paio di volte. «Scusami. Ti richiamo». Infilò il cellulare in una tasca. «Ma guarda un po’ chi c’è. Mister Brontolone». «Ha ricevuto il mio messaggio?». Lei accorciò le distanze e gli rubò la tazza di tè dalle mani. «Sì». Prese un sorso di bevanda calda. «Che fine ha fatto lo zucchero?» «Non è il suo tè, dannazione».
«Be’, ora lo è». La finta sigaretta fece la sua comparsa e le finì all’angolo della bocca. «Hai qualche biscotto?» «Napier è al piano di sopra e mi aspetta». «Di nuovo? Devi proprio piacergli in modo morboso». «Vuole farmi a pezzi per aver interferito con l’Operazione Troposfera». «Ben ti sta». La Steel prese un paio di tiri dalla sigaretta elettronica e sbuffò il vapore dal naso. «Sai dove ho passato gran parte della mattinata? A Peterhead, a perquisire il Bed & Breakfast di Neil Wood. Tre ore della mia vita che non torneranno più. E il suo gusto per la tappezzeria è spaventoso. Peggio di quello di tua madre». «È difficile da credere». Logan fissò il cemento spaccato intorno ai suoi piedi. «Senta, se vuole interrompere di nuovo la riunione e portarmi via, mi farebbe piacere. Non so, magari potremmo andare a torchiare di nuovo tutti quei pervertiti, che ne dice?». Un altro sorso di tè, poi la Steel si girò e indicò un vecchio blocco di granito sopra la finestra dell’ufficio degli agenti. Tutti i mattoni erano grigio scuro, ma quello aveva un colore più antico, e si trovava vicino a uno stemma sopra l’architrave. Le parole incise nello stemma erano ancora perfettamente leggibili: non dire di me più di quanto io abbia detto di te «Non ti sembra una cosa strana da mettere sulla parete di una stazione di polizia?» «Questo posto non è sempre stato una stazione di polizia. Era una banca. E prima ancora qualcosa d’altro. Forse la casa di un mercante. Di fatto, afferma di non dire falsa testimonianza». «No, niente affatto. Dice: “A nessuno piacciono gli spioni”». «E, a proposito: Napier». «Non posso. Ho una conference call con Finnie alle due. Dovrai prenderti la medicina come un bravo bambino…». A quel punto, la Steel strinse gli occhi e piegò la testa di lato. «Hai combinato qualcosa, vero? Sei tutto rosso in faccia e raggiante». «Non si può dire lo stesso di lei». Logan incrociò le braccia sul petto. «Non ho combinato un bel niente. E ora, se vuole scusarmi…». «E invece sì. Che è successo? Che hai fatto, eh?». Non sussultare. Non permetterle di sapere di Helen. «Ho beccato i rapinatori delle casse. Un intero Team Investigativo Primario è stato dietro a quel caso per due settimane, e chi l’ha risolto? Io». «Oh, ben fatto, ispettore Morse». La Steel si tolse la sigaretta elettronica dalla bocca. «Non è che la tua materia grigia ha intuito qualcosa di utile sulla nostra bambina uccisa, già che c’era?» «La materia grigia era di Poirot, non di Morse». Logan prese da una tasca il foglio con i nomi dei pedofili e i collegamenti che aveva fatto. Lo aprì e lo offrì alla Steel. «Questo è tutto ciò che sono riuscito a ricordare della bacheca nel garage di Charles Anderson. I nomi con i punti interrogativi sono quelli di cui non sono sicuro». Lei tirò su con il naso. «Meglio di niente, immagino». Logan si girò e tornò dentro la stazione. Si fermò sulla porta. «È sicura di non riuscire a interrompere Napier?» «Vuoi qualche consiglio per cavartela con il Ninja Biondo?» «Se può aiutarmi». La Steel sogghignò. «Dagli una pacca sul sedere quando è distratto. Gli fa venire i brividi».
La pioggia batteva contro la finestra della grande sala riunioni. A un’estremità del tavolo, Napier unì le dita davanti a sé, come al solito. «E ne è assolutamente sicuro?» «Sì». L’occhio della telecamera fissava Logan, con la piccola luce rossa che brillava come una brace. Lì accanto, l’ispettore Gibb prese nota sul taccuino. «Dunque, per essere perfettamente chiari, lei è categoricamente certo, e lo mette agli atti, che non ha visto Graham Stirling prima del crollo del processo». «No. Non l’ho mai visto prima di martedì mattina. Prima che il processo fosse interrotto». Il sorriso di Napier si allargò. «Lo stiamo ancora cercando, tra l’altro. Ci metteremo un po’, ma lo troveremo». La telecamera ronzò nel silenzio. Logan strinse gli occhi. «Pensavo che volesse parlarmi dell’Operazione Troposfera: di Klingon, Gerbillo e della madre di Klingon». «Oh, non si preoccupi, ne parleremo. Nel frattempo: quando troveremo Graham Stirling, quanto scommette che sarà in qualche discarica a faccia in giù? O forse vuole scommettere sul fatto che lo tireremo fuori da una fossa poco profonda, sergente McRae?» «Credo che la domanda più importante sia: “Dove si trovano al momento David e Catherine Bisset?”» «Le indagini stanno andando avanti». Napier si chinò, appoggiando i gomiti sul tavolo e posando il mento sulla punta delle dita. «Lei sa per caso dove siano, sergente?» «No». «Ne è sicuro? Perché un uomo più cinico del sottoscritto potrebbe arrivare alla conclusione che se lei non era in grado di portare avanti la sua vendetta mascherata da giustizia, chi sarebbe stato più semplice da convincere a farlo al suo posto, se non i figli dell’uomo che non è riuscito a salvare?» «Non so dove siano». «Graham Stirling è tornato libero, perché lei ha pensato bene che non valesse la pena di rispettare la procedura. Sappiamo che lei non si sente obbligato a rispettare le regole a cui siamo sottoposti noi comuni mortali. Che sarà mai una piccola cospirazione tra amici per commettere un omicidio?». Logan lo fissò in silenzio. Napier sorrise. «Vede, abbiamo ricevuto i risultati del dna giusto questa mattina. Sappiamo che David e Catherine Bisset erano nella cucina di Stirling. È stato lei a mandarli lì? È stato lei a convincerli che avrebbero potuto uccidere Graham Stirling e farla franca?». L’ispettore Gibb sollevò lo sguardo, con gli occhi che scintillavano. La penna pronta a scrivere. Quindi la sua ipotesi si era rivelata fondata: i due ragazzi avevano messo fine alle sofferenze del padre e poi erano entrati in casa di Stirling e l’avevano ucciso. Ora dovevano solo aspettare di ritrovare il corpo dell’uomo, e David e Catherine Bisset sarebbero stati condannati a una pena che poteva andare da dodici anni di carcere all’ergastolo. Logan tenne la bocca chiusa. Lasciò che il silenzio si protraesse. «Ebbene, sergente? Avrebbe la cortesia di…». A quel punto, la ricetrasmittente di Logan emise quattro squilli. «Pattuglia Sette, potete parlare?». Lui guardò lo schermo. Non riconobbe il numero, ma era basso, quindi poteva trattarsi di uno dei capi. Napier alzò un indice. «Non ci provi neanche». E poi allungò la mano. «Se non le dispiace…». «E se invece mi dispiacesse?».
Le spalle di Napier si sollevarono, per poi riabbassarsi. «Be’, tanto per cominciare, sono un sovrintendente capo, e lei soltanto un sergente, quindi mi pare che io sia… quanto? Quattro gradini più in alto di lei sulla scala della gerarchia? Se non possiede la buona educazione di spegnere la ricetrasmittente prima di iniziare una riunione, lo farò io al suo posto. E adesso me la consegni, per favore». Non aveva senso obiettare. Non avrebbe certo potuto vincere, in una discussione del genere. Logan sganciò la ricetrasmittente e la passò a Napier. «Grazie». Napier sbirciò lo schermo mentre faceva per spegnere l’apparecchio. Ma poi si bloccò, con un dito a mezz’aria. «Ah…». Sporse le labbra. «Credo che dovrebbe rispondere, a ripensarci». Si alzò, si mise alle spalle di Logan spostandosi su quei piccoli piedi silenziosi, e gli lasciò la ricetrasmittente sul tavolo. «È il capo». Logan sentì i polmoni svuotarsi di botto, facendogli finire il cuore in fondo allo stomaco. Fantastico… stava diventando uno stupro di gruppo, quella riunione. Premette il pulsante. «Pattuglia Sette, prego, parlate pure». Napier tornò a sedersi, con quel sorriso da film di Romero che gli fremeva agli angoli delle labbra. La penna dell’ispettore Gibb restò a mezz’aria sopra il foglio del taccuino. Poi la voce del sovrintendente capo riecheggiò nella stanza. «Sergente McRae… Logan… sono John». «Signore». Ecco che cominciava… «Volevo chiamarti comunque per congratularmi con te per aver arrestato l’uomo che ha sparato all’agente Mary Ann Nasrallah. Ottimo risultato, soprattutto considerando che aveva una priorità nazionale. È stato un lavoro eccellente. Ha dimostrato le reali possibilità della polizia divisionale». Logan sbatté le palpebre un paio di volte, fissando la ricetrasmittente. Okay… «Grazie, signore». E adesso di sicuro sarebbe arrivato il colpo basso. Probabilmente dritto all’inguine. «E adesso mi dicono che sei stato fondamentale nell’arresto dei rapinatori delle casse». Logan si sentì avvampare le guance. «Grazie, signore, ma è stato un lavoro di squadra». «Questo è ciò che mi piace sentire, Logan: affrontare da soli la responsabilità quando le cose vanno male e condividere il merito quando vanno bene. Questo è il genere di leadership di cui ha bisogno la Polizia di Scozia». Logan inarcò un sopracciglio, fissando Napier. «Mi fa piacere sentirglielo dire, signore». «L’ufficio stampa sta scrivendo un comunicato, e, credimi, otterrai il tuo momento di gloria. Ben fatto, davvero. Potremmo fare miracoli, con qualche Logan McRae in più lì fuori, sergente». «Grazie, signore». Ma il capo aveva già chiuso la comunicazione. Logan posò di nuovo la ricetrasmittente sul tavolo. Rivolse a Napier il suo sorriso più smagliante. «Ora, se non ricordo male stava insinuando che io potessi essere coinvolto con l’omicidio di Graham Stirling da parte di David e Catherine Bisset, o mi sbaglio?». Napier tirò indietro il mento e si morse il labbro superiore. Poi chiuse gli occhi e si lasciò sfuggire un breve sospiro. «Ispettore Gibb, spenga la telecamera. Questa riunione è conclusa. Sono certo che il sergente McRae ha parecchie cose importanti a cui pensare». E… via. Di corsa.
Capitolo 51
«Interrogatorio concluso alle ore sedici». Logan raccolse le carte che aveva davanti e si alzò. L’uomo dall’altra parte del tavolo lo fissò assottigliando lo sguardo. La tuta verde non c’era più, sostituita da una di carta bianca con degli stivaletti ai piedi. La pelle sulla guancia sinistra era coperta da un livido che sfoggiava tutte le tonalità del blu e del viola, con qualche tocco di giallo. Ecco quello che succedeva quando si cercava di darsela a gambe con la Nicholson nelle vicinanze. L’uomo tirò su con il naso, strofinandoselo con le mani ammanettate. «È sicuro che sarà McNee a prendersi la colpa, vero? Noialtri stavamo solo facendo quello che lui ci ordinava di fare». L’avvocato d’ufficio lucidò un paio di occhialetti rotondi. «Albert, non c’è alcun bisogno di continuare a parlare. L’interrogatorio è finito». L’uomo tirò su una spalla fin quasi a toccarsi un orecchio. «Volevo solo essere sicuro, tutto qui». Logan osservò le unghie sporche di Albert, le mani grandi e le manette che le bloccavano. «Perché avete rapinato anche il Broch Braw Buys?» «Cosa?». L’avvocato sospirò. «Sergente McRae, l’interrogatorio è finito». «Sono curioso, tutto qui». «È stata un’idea di McNee». Albert grattò via una crosta di sporco dal retro di un pollice. «McNee è entrato nel negozio per comprare il giornale. Ha detto che c’era anche una bambinetta bionda, e il negoziante aveva cominciato a urlare e imprecare e l’aveva cacciata via. Una bimbetta tutta vestita di rosa, con lo skateboard. Che non avrebbe fatto male a una mosca». Un altro sospiro. «Albert, la avviso: non dovrebbe continuare a parlare». «E allora McNee è tornato e ha detto: “Sarà quel vecchio bastardo il prossimo a pagare”. E ha aggiunto che era quello che si meritava per essere crudele con i bambini». E così, anche quel mistero era stato risolto. Logan passò la ricetrasmittente da una mano all’altra e prese un sorso di tè. «Pensavo che potesse pensarci Billy». «Non può. È stato chiamato a Tulliallan per spiegare quella faccenda della sparatoria di due settimane fa». L’ispettore McGregor sembrava parlare da una galleria del vento. «Mi dispiace». Dall’esterno dell’ufficio dei sergenti si sentiva tutta una serie di cigolii e mugugni, come se qualcuno stesse infestando i vecchi corridoi della stazione di Fraserburgh. «Ah…». Logan si sporse in avanti e posò la fronte contro la tastiera. «Dovevamo festeggiare tutti insieme, stasera». E poi gli sarebbe piaciuto tornare a casa e festeggiare un altro po’ con Helen. Magari due volte. «Solo per stasera, Logan. Billy tornerà domani sera, possiamo aspettare un giorno per festeggiare». «Birra e patatine». «Non te lo chiederei, ma ci serve un sergente di turno». Logan sbuffò. Si lasciò sfuggire un’imprecazione. Poi premette il pulsante. «Okay, farò un altro straordinario». «E ci serve qualcuno che sostituisca anche Big Paul. Non può fare il turno di notte, perché domani mattina presto dovrà andare in tribunale, per il processo di quel tentato omicidio di tre mesi fa a Peterhead». «Parlerò con il team».
«Bene. Ora, a che punto siamo?» «Ho concluso l’ultimo interrogatorio mezz’ora fa. Appena gli altri tre hanno saputo che il guidatore del furgone aveva dato tutta la colpa a loro, hanno cominciato a parlare. Hanno dichiarato che invece è lui la mente dietro le rapine. E ora è diventata una gara a chi lo accusa di più. Sto finendo di scrivere il rapporto». «Quindi si dichiarano colpevoli?» «A quanto pare, sì». «Eccellente. Che altro?». Qualcuno bussò alla porta e la Nicholson fece capolino all’interno della stanza. «Le va un tè, prima che usciamo, sergente? È quasi ora di staccare». «Ne ho già uno, grazie». Logan girò un paio di pagine del taccuino. Poi premette di nuovo il pulsante della ricetrasmittente. «Bene, abbiamo fermato due guidatori in stato di ebbrezza e uno con la patente sospesa, poi ci sono state segnalate una rapina al cinema di Peterhead e un’aggressione aggravata a Gardenstown. È stata denunciata la scomparsa di una donna con tre figli ad Aberchirder. Gli amici hanno detto che non era mai successo prima, ma a quanto pare ha un amante a Cullen. Ho chiesto alla polizia locale di cercarla». «Mi sembra tutto piuttosto tranquillo, per essere un lunedì». «Non lo dica troppo forte». «E festeggeremo con birra e patatine domani sera. Promesso». Sempre che nulla andasse storto fino a quel momento. E, con la sua fortuna… Logan finì di scrivere il rapporto sugli interrogatori e si diresse alla mensa. La Nicholson era seduta su una delle poltroncine viola davanti alla tv, con Syd Fraser sull’altra. I due si bloccarono di colpo, con le mani in una scatola di snack al cioccolato. Poi la Nicholson sorrise. «Sergente, ci ha fatto prendere un colpo». Rubò un altro snack e se lo infilò in bocca, prendendo subito il successivo mentre ancora masticava. «Pensavo che fossero suoi». Syd raccolse una manciata di palline di cioccolata. «La scatola era nascosta in fondo alla dispensa. Assaggi, prima che chiunque sia il proprietario se ne accorga». Logan non si fece pregare. Le palline di cioccolata erano appiccicose e croccanti. «Hai saputo che la madre di Klingon è ancora viva?». Lui si strinse nelle spalle, masticando altri snack. «In tutta onestà, gliel’avevo detto che Lusso non cercava cadaveri da anni. Perdono l’abilità, se non fanno pratica». «Già». Logan masticò i suoi snack e si succhiò le dita. «Ma sarebbe stata una bella scoperta, nel caso». Syd si passò una mano sul cranio pelato. Si accigliò. «Okay, quindi la madre di Klingon non è sepolta nel giardino sul retro della casa. Ma allora cosa c’è lì sotto? Potrebbe comunque esserci un cadavere. Per caso c’è qualche tossico disperso, nella vostra lista?». La Nicholson prese altre due palline di cioccolato. «Ce ne sono sempre. E nessuno ci dice mai se poi vengono ritrovati». Syd recuperò un’altra manciata di snack, svuotando quasi del tutto la confezione. «Voi due siete dei veri avvoltoi». Logan infilò la mano nella scatola e raccolse le ultime palline prima che lo facesse qualcun altro. «Comunque, non possiamo farci niente. L’ispettore capo McInnes non ci permetterebbe mai neanche di avvicinarci alla casa di Klingon». Syd schiacciò la confezione vuota, appiattendola. Poi la piegò in due e la gettò nel bidone dell’immondizia, coprendola con le cartacce del giorno prima, così da nascondere le prove. «Che peccato. Altrimenti saremmo potuti andare lì con un paio di pale e divertirci a fare i profanatori di tombe. Non penso che la madre di Klingon potrà rientrare in quella casa molto presto, comunque».
Anche questo era vero. Logan accennò con il pollice alla Nicholson. «Avanti, Calamity, è ora di riportarti a Banff». Syd sollevò una mano sporca di cioccolato in un gesto di saluto. «Ci faccia un fischio, se ha voglia di giocare agli allegri profanatori di tombe». La Nicholson seguì Logan nel corridoio. «Calamity?» «Calamity Janet colpisce ancora. Eri tu quella che voleva un soprannome». Scesero le scale. «Sì, ma…». «Niente ma. Hai detto che sceglierselo da soli è da perdenti. Quindi, da ora in poi sarai Calamity». «A tutte le unità, abbiamo ricevuto segnalazione di un incidente mortale sulla a90 tra Boddam e l’uscita per la Cruden Bay. C’è qualcuno che può occuparsene?». Uscirono nel parcheggio sul retro della stazione. La pioggia sottile scuriva i blocchi di cemento e l’asfalto, coprendo di un velo i parabrezza delle auto parcheggiate. Due agenti del cid erano appoggiati a un’autopattuglia, intenti a fumare e bere caffè. Alzarono lo sguardo quando la Nicholson sbloccò gli sportelli della Macchina Grande. Uno dei due pareva pensare che una permanente alla Kevin Keegan fosse una buona idea, l’altro sembrava aver ricevuto una visita dalla Fatina della Bruttezza, che però non se n’era mai più andata. Keegan alzò il mento. «Sei McRae?» «Sì. E tu?» «Brogan, del Team Investigativo Primario. Hai beccato tu i rapinatori delle casse?» «Un furgone dei trasporti, una quattro per quattro, una cassa rubata e quattro uomini in tuta». Il Brutto lanciò il mozzicone di sigaretta sull’asfalto, a spegnersi sotto la pioggia. «Sì, da questo momento in poi ce ne occuperemo noi». «Prego, fate pure». Logan indicò la porta del blocco di detenzione. «Comunque, non c’è molto da fare. Abbiamo anche ottenuto quattro confessioni. Il lavoro è concluso». Si infilò in macchina, dal lato del passeggero. «In ogni caso, divertitevi». La Nicholson accese il motore, cancellando la risposta di Brogan. Si mordicchiò l’interno di una guancia, mentre si immetteva sulla strada. «Il ricciolino non sembrava molto contento». «Quel poveraccio probabilmente sperava di poter arrivare all’ultimo secondo e prendersi tutto il merito del caso. Ma purtroppo per lui, ha scoperto che gli agenti in uniforme sono arrivati prima di lui. Oh, poverino, nessuno gli vuole bene… eccetera eccetera». «Mi sanguina il cuore per lui». La Nicholson superò le fabbriche di lavorazione del pesce, rallentando per sbirciare nei parcheggi. «Mi faccia un fischio, se vede una bmw z4. Il guidatore gira con la patente sospesa». Nei parcheggi si vedevano delle berline grigie e qualche monovolume. Tutte ordinate in fila, in attesa che i loro proprietari uscissero dalle fabbriche alle cinque in punto e se ne tornassero a casa. Niente bmw. Logan si sistemò la cintura dell’equipaggiamento, in modo che il manganello non gli premesse contro la coscia. «Ti andrebbe di fare uno straordinario notturno? Big Paul deve andare in tribunale, domattina». «Pensavo che ce ne andassimo al pub a festeggiare con birra e patatine». «Non posso. Devo sostituire Davey Muir anche stanotte». «Be’, le mie coinquiline se ne vanno a Ellon a vedere quel nuovo film di Johnny Depp dove tutti sono zombi tranne lui e Bill Bailey. Se non andiamo a festeggiare, credo che andrò con loro». Allora avrebbe dovuto chiederlo a Deano.
Logan indicò il cielo cupo oltre il parabrezza. «A casa, Calamity, e sfianca i cavalli».
LunedĂŹ, turno serale
Ossa rotte
Capitolo 52
«…assolutamente finire». Logan premette il pulsante per parlare. «Be’, non stateci troppo, allora, Joe. Non voglio che tu e Penny vi becchiate una polmonite». Le ondate di calore del riscaldamento soffiavano attraverso l’ufficio dei sergenti, creando ragnatele di vapore sulla finestra, in mezzo alle colonnine divisorie. La pioggia che picchiava contro il vetro le faceva tremare. «Certamente. Concludiamo l’ultimo interrogatorio e torniamo in tempo per le otto. Penny ha dei biscotti al cioccolato». Logan ripose la ricetrasmittente sulla scrivania e inserì dei commenti su due o tre azioni che dovevano essere ancora aggiornate. Stranamente, nessuna apparteneva a Ciuffo. E, a proposito dell’agente Quirrel… Il suo viso magro fece capolino dalla porta. Le guance rosse almeno quanto il naso e le orecchie. «Ooh, si muore lì fuori. Le va una tazza di tè?». Logan sollevò la sua. «Ci sono novità?» «L’ospedale ha detto che non era tragico come sembrava. Una gamba fratturata e un paio di costole scheggiate. Niente male, per qualcuno che è stato preso in pieno da un autobus». Si tolse il berretto dell’uniforme, facendo gocciolare un rivolo d’acqua sulla moquette. Logan pescò la busta di carta dalla tasca dove l’aveva infilata. La posò sulla scrivania. «Prima che mi dimentichi… questa è per te». «Sono bottiglie di Coca Cola?». Ciuffo prese la busta e sbirciò dentro. «Oh, è un distintivo». «Per il tuo aiuto, ieri, con le registrazioni delle telecamere di sicurezza». Un sorriso. «Coraggio, indossalo». Ciuffo slacciò il giubbotto catarifrangente e si attaccò il distintivo a quello antiproiettile. Era rosso e rotondo, con la parola “gienio” scritta sopra in piccole lettere bianche. L’agente sorrise, raggiante. «Grazie, sergente». «Ti pare? Te lo sei meritato». «A proposito, c’è una persona che la aspetta fuori». «Con questo tempo?». Logan recuperò il giubbotto catarifrangente. «Non si dovrebbero lasciare dei civili fuori sotto la pioggia, agente. È una pubblicità negativa, per noi». «Sì… ma non volevo che entrasse nell’edificio. Non dopo quello che ha combinato nella Macchina Grande. Insomma, si tratta di Puzzola Wilson, e, a giudicare dall’odore che emana, credo sia venuto a denunciare la sua morte». «Ho cambiato idea, sei un idiota». Logan si infilò il giubbotto, la giacca e riagganciò la cintura con l’equipaggiamento in vita, puntando già verso l’uscita laterale. Sei chili di più addosso, all’istante. «Vai a preparare il tè: Penny e Joe saranno qui per le otto». «Sì, sergente». Logan uscì dall’ufficio, infilandosi il berretto dell’uniforme e sollevando il colletto del giubbotto catarifrangente. Joe e Ciuffo avevano ragione, era una serata terribile. Erano quasi le otto e non sembrava che il sole avrebbe più avuto il coraggio di splendere. Il cielo era una lastra di marmo grigio venato di nero, e rovesciava aghi di ghiaccio sulle case, l’asfalto e le macchine, creando pozze buie sul marciapiede che si allargavano lungo la strada, straripando dalle grondaie.
Una raffica di vento costrinse Logan a fare un passo indietro. Sì, quella era una sera da passare al chiuso a lavorare alle scartoffie. Nessun criminale con mezzo cervello avrebbe mai pensato di uscire con quel tempo. Logan strinse gli occhi contro la pioggia e vide Sammy Wilson, curvo sotto il portico davanti alla porta principale della stazione. Non che lo proteggesse un granché dalla pioggia a vento. La sua solita tuta lurida gli pendeva addosso, lucida e gocciolante, completamente zuppa. Ma, in un lampo di ispirazione, Sammy si era creato un passamontagna con una busta di plastica, legandosi i manici sotto al mento. Ciuffo aveva ragione anche sulla puzza. Perfino da dove si trovava adesso, Logan riusciva a sentire un fetore di cipolle marce e carne putrefatta così forte da chiudere la gola in un nodo. Logan sbatté le palpebre, lottando per ricacciare indietro le lacrime, naturale reazione a quell’odore. «Sammy?». L’uomo alzò lo sguardo infossato come due pozzi neri nei lineamenti ossuti del viso. La scritta luminosa “polizia”, bianca e blu sopra di lui, dava alla sua pelle un pallore malaticcio, facendolo sembrare morto almeno quanto suggeriva il fetore. «Sergente, sergente, sì, certo, salve». Intrecciò le dita sporche e ossute davanti al petto. «Ho fatto qualche domanda, sa? Ho fatto come James Bond, in giro. Proprio come mi aveva chiesto». «Non importa, puoi smettere di farlo». Lui tossì e poi tirò su con il naso. «Ma ha le mie dieci sterline, vero? Dieci sterline per Samuel Ewan Wilson, metà ora e metà prima, perché io ho fatto le domande in giro. Domande, domande. Chi è il Candelaio?» «Sammy, è finita. Non mi occupo più del caso». E poi, l’ispettore capo McInnes era già abbastanza infuriato. Sarebbe esploso come una centrale termonucleare fusa, se avesse scoperto che Sammy Wilson faceva domande in giro sull’Operazione Troposfera per conto di Logan. E a quel punto non avrebbe più avuto alcuna importanza che il sovrintendente capo l’avesse chiamato personalmente per complimentarsi con lui: l’esplosione sarebbe stata orrenda, e le conseguenze sarebbero durate per anni. «Ho fatto domande in alto e in basso, e nessuno ha mai sospettato che io fossi James Bond: sono stati tutti degli stupidi e io più furbo di una scimmia, sì. Domande. Allora ce le ha le mie dieci sterline?». Staccò le dita di una mano dall’altra e le tese verso Logan, con il palmo in su e gli occhi scintillanti. «Dieci sterline per una tazza di tè?» «Tieni». Logan pescò cinque monete da una sterlina e un po’ di spiccioli dal fondo di una tasca. «È tutto ciò che ho». Riversò le monete nel palmo di Sammy, che le strinse e riportò il pugno contro la tuta fradicia e sporca. «Avevamo detto dieci, dieci sterline per le domande, giusto? Dieci, non…». Mosse le labbra mentre contava. «Sei sterline e ventitré». «Non ho altro. È tutto qui. Sono al verde sino alla fine del mese. E ora basta. Non fare più domande, okay? L’indagine è finita». Lui sollevò le sopracciglia. «Niente più James Bond? Ho fatto tante domande per dieci sterline, e ora me ne mancano tre e settantasette. Non posso ritirare le domande già fatte, quindi devo ricevere quello che mi spetta. Niente sconti». «Lascia perdere, Sammy. Grazie per l’aiuto, e ti farò avere le tre sterline appena mi arriveranno». «Tre e settantasette». Un altro accesso di tosse, più profondo e cavernoso, gli scosse la schiena. Si chinò sulle ginocchia fin quando non fu quasi piegato in due. Continuò a tossire, fino a rantolare e fermarsi. Poi, con un ansito, si raddrizzò. «Sammy sta morendo…». Una macchina passò lungo la strada, davanti al frangiflutti, sollevando spruzzi d’acqua. Il vento fece tremare i vetri della stazione.
Logan si schiarì la gola. «Hai un posto dove stare, stanotte? Un letto al rifugio per i senzatetto, il divano di un amico?». Samuel Ewan Wilson gli si avvicinò abbastanza da far sentire a Logan il calore del suo corpo. «Se scoprirò quel nome, avrò le mie tre sterline e settantasette, vero?» «No!». La pioggia gocciolò dal bordo del berretto di Logan. «È finita, hai capito, Sammy? Finita. Devi starne lontano e non ti devi immischiare. Vai a comprarti delle patatine con quei soldi. O un kebab. Non voglio che tu faccia più neanche una domanda». Il viso scheletrico dell’uomo si piegò a sinistra, con le sopracciglia aggrottate. Il respiro che puzzava come una busta dell’immondizia rotta. «Non vuole sapere chi è? Perché non lo vuole sapere? La polizia vuole sempre sapere tutto, no? Perché lei non lo vuole sapere?» «Lascia perdere. E trovati un posto caldo e all’asciutto dove dormire. Non passare la notte sotto questo temporale, o ti prenderai una polmonite». «Avrò comunque le mie tre sterline e settantasette, vero? Dieci sterline per le domande. Avevamo un accordo, e l’accordo era di dieci sterline». «Sergente?». Quella parola sembrò uscire dalla pioggia alle spalle di Logan. Lui si girò e vide Penny e Joe. «Tutto bene, sergente?» «Sì, tutto a posto. Ci vediamo dentro». Una pausa. Poi i due annuirono ed entrarono dalla porta laterale. Quando Logan tornò a voltarsi, Sammy Wilson si stava già allontanando nell’oscurità, con la pioggia che picchiava sul suo passamontagna di plastica. «A tutte le unità, abbiamo ricevuto segnalazione di un furgone in fiamme sulla b9093, tra New Pitsligo e Strichen…». Ciuffo tamburellò con le dita sul volante. «Sa cos’è che non capisco?». Logan controllò i messaggi sul cellulare. «Ecco che ricomincia». Fuori dalla macchina, il giorno si era arreso. Il vento faceva ondeggiare i lampioni e la pioggia creava aloni dorati intorno alle loro lampade al sodio. I tergicristalli andavano avanti e indietro sul vetro, il motore faceva sentire qualche ticchettio, ormai spento. Avevano parcheggiato davanti alla strada per Macduff, accanto a un cassonetto pieno di giornali vecchi e buste di plastica. Da un lato sporgeva un ombrello rotto, con il tessuto nero che faceva pensare a una specie di pipistrello gigante che tentava di liberarsi dall’interno. «No. Senta, tutti i nordeuropei hanno un po’ di dna neandertaliano, giusto? Perché all’alba dei tempi, i nostri antenati hanno pensato bene di mischiarsi con quegli altri cavernicoli. Quindi non possono essere una specie diversa dalla nostra, no? Insomma, il punto fondamentale, quando si tratta di specie diverse, è che non possono incrociarsi tra loro». «Hai finito?» «Be’, è una cosa che fa pensare, no?» «No». Logan si sistemò meglio sul sedile. Ciuffo si strinse nelle spalle. Poi cominciò a fischiettare la sigla di Bonanza. «Ciuffo!». «Scusi». E allora ricominciò a tamburellare con le dita sul volante. «Non riesco a credere di aver perso tutto quel tempo a cercare informazioni su Brian Menendez Guerra». «Chi?» «Brian Menendez Guerra, l’ex marito di Helen Edwards. Quello che ha rapito la figlia, ricorda? Ci ho passato dei secoli sopra». Logan ricontrollò il cellulare. Niente messaggi. «Perché dici di aver perso tempo?» «Be’, ormai non importa più a nessuno, giusto? La bambina che abbiamo trovato a Tarlair non è Natasha Edwards, quindi a nessuno importa che suo padre sia morto». «Brian Edwards è morto?»
«In una rapina a Middlesbrough due anni fa». Be’, considerato quanto fosse un bastardo, non c’era molto di cui dispiacersi. Certo, faceva anche capire quanto facesse schifo l’investigatore privato di Helen. Ciuffo aveva scoperto che Edwards era morto in un paio d’ore, mentre quel pallido imitatore di Magnum p.i. non aveva saputo tirare fuori altro che una “scomparsa”. Sì, certo, se li era proprio guadagnati i soldi che Helen gli aveva dato per tutti quegli anni. Idiota. «E la figlia?» «Non se ne sa nulla. Probabilmente è ancora a casa con la ex moglie numero due, in Spagna. L’ha lasciato perché picchiava lei e i figli». Ma perché diavolo Helen aveva sposato un uomo così? «Fammi un favore, Ciuffo, mandami l’indirizzo che hai trovato per la casa della famiglia in Spagna. Potrebbe valere la pena fare un controllo». «Pattuglia Sette, potete parlare?». Logan chinò il capo verso la spalla. «Dite pure». «Abbiamo ricevuto altre tre segnalazioni di avvistamento per David e Catherine Bisset: a Inverness, a Carlisle e a Ellon. La polizia locale sta investigando». «Grazie». Logan lasciò andare il pulsante. Ciuffo lo stava fissando. «Che c’è?» «Se fosse stato suo padre, se lei fosse stato David Bisset, cosa avrebbe fatto? Avrebbe ammazzato Graham Stirling?» «Non era mio padre e io non sono David Bisset, quindi non l’avrei fatto». Ciuffo annuì. «Io non so se sarei capace di uccidere qualcuno, perfino se avesse fatto cose orribili a mio padre. Be’, forse sì. Insomma, se avesse fatto cose orribili a mia madre, di certo lo farei. Lo aprirei in due come un pistacchio». «In teoria, sei un poliziotto, agente Quirrel. Noi non “apriamo le persone in due”, le arrestiamo e le portiamo davanti a un tribunale». «Sì, ma se fosse sua madre…». Un Transit rugginoso li superò, imboccando la strada per Macduff, sollevando una nuvola di gas di scarico nero e oleoso. Il conducente teneva il gomito sul bordo del finestrino, con il cellulare premuto contro l’orecchio. E non indossava neanche la cintura di sicurezza. Logan lo indicò. «Andiamo». Ciuffo accese i fari e si immise sulla strada. «Pattuglia Sette, potete parlare?» «Stiamo inseguendo un furgone, al momento». L’ago del tachimetro aveva appena sfiorato i cinquanta e già si stavano avvicinando alla nuvola di gas di scarico del Transit. «Be’… inseguimento per modo di dire, ecco». «Abbiamo una vittima di un’aggressione al pronto soccorso di Elgin. Aveva il suo biglietto da visita in tasca». «Elgin? Avete un nome?». Logan allungò una mano e premette il pulsante dei lampeggianti, mettendoli in azione. «Sì, si chiama Kirstin Rattray. Femmina bianca, ventiquattro anni ma ne dimostra quarantacinque. Be’, ha l’aspetto di chi è finito sotto un trattore, ma… sa cosa intendo, giusto?». Kirstin Rattray? Il conducente del Transit non stava guardando di sicuro nello specchietto retrovisore. Logan premette il pulsante delle sirene. L’ululato si udì al di sopra del temporale. Ma il Transit continuò a procedere, superando il ponte sul fiume Deveron.
Già: Kirstin Rattray. Taccheggiatrice straordinaria e tossicodipendente. La donna che li aveva fatti arrivare a Klingon e Gerbillo. «Qualcuno l’ha aggredita?» «Secondo il medico, hanno usato un piede di porco. Le hanno rotto la mandibola, uno zigomo e il naso. Ha un trauma cranico e una gamba ed entrambe le braccia fratturate. Sette costole rotte, tre vertebre scheggiate e la rotula destra distrutta. Sta aspettando di sapere se le hanno distrutto anche la milza». Logan aspirò l’aria tra i denti stretti. «Oooh…». Non sembrava affatto un’aggressione, quanto un tentato omicidio. Fece un cenno a Ciuffo. «Pensi di far fermare questo tizio, prima o poi, o dobbiamo seguirlo fino a Fraserburgh?» «Scusi, sergente». Ciuffo uscì dalla corsia e superò il Transit. Rallentò, poi, davanti al furgone, con i lampeggianti accesi e le sirene in funzione. Logan tornò alla ricetrasmittente. «È cosciente?» «No. Secondo i medici, è fortunata a essere ancora viva». Finalmente, il guidatore del Transit sembrò capire che qualcosa non andava. Accostò al ciglio della strada, portandosi dietro la sua scia di fumo rancido. Logan osservò il furgone dallo specchietto laterale. Il conducente non aveva ancora smesso di parlare al cellulare, e non aveva neanche lontanamente pensato di allacciarsi la cintura. C’era da ammirarla, una stupidità così esagerata. «Come mai è finita a Elgin?» «Perché? Cosa c’è di strano nel fatto che sia a Elgin?» «Vive a Banff, perché è finita in un ospedale distante trentacinque miglia da casa sua? Non credo che ci sia arrivata camminando, con una gamba rotta e una rotula a pezzi». Si premette la ricetrasmittente contro il petto e pungolò di nuovo Ciuffo. «Agente, te ne stai lì seduto per qualche motivo in particolare?». Ciuffo arricciò il labbro superiore. «Ma lì fuori diluvia…». Logan lo spinse di nuovo. «Non ti squaglierai come un omino di zucchero, stai tranquillo. E adesso scendi da questa macchina e vedi quante infrazioni ha commesso quel tipo. E se torni con meno di tre, ti rimanderò indietro a riprovarci». Ciuffo afflosciò le spalle, con un’espressione triste sul viso. «Sì, sergente». Si calcò in testa il berretto dell’uniforme, recuperò il giubbotto catarifrangente e uscì sotto la pioggia. «È ancora lì?» «Dovevo motivare il mio agente». Logan prese il taccuino e scrisse il nome di Kirstin, la data e l’ora. «Come è arrivata in ospedale?» «In ambulanza. Due tizi con un camper l’hanno trovata in una piazzola di sosta, a est di Fochabers. Hanno pensato che fosse stata aggredita e hanno chiamato l’ambulanza». Logan picchiettò il taccuino con il retro della penna per qualche secondo. «Okay, grazie per avermi informato. Se succede qualcosa… se dovesse svegliarsi, o cose del genere, fatemelo sapere, d’accordo?» «Senz’altro». Logan riappese la ricetrasmittente al suo posto e osservò accigliato il parabrezza, mentre i tergicristalli si trascinavano lamentandosi sul vetro. Okay, Kirstin era una tossica, e a volte i tossici facevano scelte sbagliate e si ritrovavano con troppi nemici. Tuttavia… Era stata lei a fare i nomi di Klingon e Gerbillo. E questo era costato al loro fornitore qualcosa come centomila sterline di eroina. E se il Caramellaio l’aveva scoperto? Forse Jack Simpson non era l’unico a cui aveva deciso di dare una lezione per spaventare gli altri. Il che significava che era tutta colpa sua, se ora Kirstin era in ospedale.
Fantastico. Non che avesse scelta, giusto? Non avrebbe mai potuto chiudere un occhio, sapendo di un carico di droga, solo perché qualcuno poteva farsi male. Si lasciò sfuggire un lungo, profondo sospiro tra i denti, afflosciando le spalle. Povera Kirstin. Probabilmente avrebbe dovuto far sapere la cosa a quelli dell’Operazione Troposfera. Sempre che già non ne fossero venuti a conoscenza. Ma se non fosse stato il Caramellaio? Se invece era stato qualcun altro a decidere di farla a pezzi con un piede di porco? Non avrebbe fatto del male a nessuno, a fare qualche domanda, prima. Per capire se qualcuno ne sapeva qualcosa. Lo sportello del guidatore si aprì e Ciuffo rientrò in tutta fretta, mettendosi dietro al volante e gocciolando sulla tappezzeria. «Santo cielo, se piove e fa freddo…». Accese il riscaldamento al massimo e lasciò il berretto fradicio sul sedile posteriore. Poi tese a Logan il taccuino. «Guida senza cintura di sicurezza. Uso del cellulare alla guida. Uso di un veicolo con fari non funzionanti. E che è in condizioni pericolose. E ha due gomme lisce, contravvenendo la Sezione Ventisette del Codice della Strada, Regolamento del 1986. Oh, e il bollo è scaduto da tre settimane». «E…?» «Dice che si stava recando a un’autorimessa per far sistemare tutto e che non sapeva del bollo scaduto. Quindi gli ho comminato una contravvenzione e due settimane per recarsi a una stazione di polizia e dimostrare che è tutto sistemato, altrimenti gli confischeremo il veicolo e lo arresteremo». «Ottimo». Logan indicò il vetro battuto dalla pioggia. «E ora muoviti, abbiamo dei tossici da torchiare». «E non hai niente addosso di cui dovrei essere a conoscenza?». Ciuffo si infilò un paio di guanti di nitrile azzurro. «Niente coltelli, aghi o lame?». La goccia sulla punta del naso di Lumpy Patrick tornò su con una netta inspirazione. «Nah, io… lo sapete, sono pulito…». Aveva braccia come stecchi legati insieme da una corda. Le mani scheletriche, con spesse croste nere sotto le unghie. Le guance scavate e gli occhi arrossati. Era in piedi sotto il cono di luce di un lampione di Low Street, riparato dal vento e dalla pioggia dal portico triangolare di un condominio. Lumpy si mise in posizione e Ciuffo gli passò le mani lungo l’esterno della felpa sporca. «Ho sentito che hai ricominciato a spacciare». «Nah, non io, no di certo, io non spaccio. Non più. Nah, qualcuno ha detto una bugia». Logan si ficcò le mani più in profondità nelle tasche, a difenderle dal freddo. «Hai sentito di Kirstin Rattray, Lumpy?». L’uomo piegò la testa di lato, sbattendo le palpebre sugli occhi iniettati di sangue. Aveva perso un paio di denti, dall’ultima volta che l’avevano visto. «Che c’è, è di nuovo incinta?» «No, qualcuno l’ha picchiata quasi a morte, lasciandola in una piazzola di sosta». Lumpy inarcò un sopracciglio. «Oh. Ecco. No». Si passò la lingua pallida sulle gengive grigiastre. «No. Non lo sapevo. No». «Ne sei sicuro?» «Nah». Una pausa. «Sì». Ciuffo finì la prima parte della perquisizione. «Okay. Passo alle tasche». E vi infilò dentro le mani. Lumpy tirò su un’altra goccia dal naso. «Ogni tanto, però, sento delle cose. Sì, tutti pensano che io non capisca niente, ma non è così». «Quali cose?».
Lui sogghignò. «Per esempio Sammy “Puzzola” Wilson dice in giro che lei gli ha dato cinquanta sterline per cercare qualcuno che si fa chiamare il Candelaio. Non ci si può fidare di Sammy Wilson, ma di me sì. Davvero. Per cinquanta sterline potrei essere i suoi occhi e le sue orecchie. Molto meglio di Sammy Wilson; quel tipo è un idiota e un bugiardo». Non c’era onore tra i tossici. E che diavolo era venuto in mente a Sammy di dire a tutti che lui stava cercando il Candelaio? Quell’idiota si stava lasciando dietro una pista luminosa che conduceva dritta a Logan. E non ci sarebbe voluto molto, prima che McInnes la notasse. E allora boom, con tanto di inverno nucleare al seguito. «Lascia perdere il Candelaio. Non esiste nessun Candelaio. Ma se scopri chi ha massacrato di botte Kirstin Rattray, ne possiamo parlare». E a quel punto, Logan lasciò un biglietto da visita nella mano di Lumpy. «Braccia larghe, Bill, conosci la procedura». Un sospiro, poi le braccia dell’uomo si sollevarono, facendo aumentare la puzza nauseante di formaggio stagionato e calzini sporchi. La felpa rossa di Bill era macchiata sul davanti, e gli pendeva sul torso scheletrico come un sudario scarlatto. Il vento mugolava tra i rami degli alberi, facendo arruffare le foglie fuori dalla Chiesa Episcopale di St Andrew. La pioggia picchiava contro le vetrate e la facciata gotica, scurendone il granito. Facendolo scintillare alla luce della strada. Ciuffo passò le mani inguantate lungo le braccia di Bill. Logan si spostò contro la porta della chiesa, ma non si ritrovò più all’asciutto. «Allora, Bill, hai sentito di Kirstin Rattray?». Lui si strinse nelle spalle. «Me ne viene qualcosa? Sammy Wilson ha detto di aver avuto ottanta sterline in cambio di informazioni sul tizio che rifornisce Klingon e Gerbillo». Ottanta? Di questo passo, avrebbe avuto più guai di lui. «Ha detto che era una faccenda top secret. Ma credo l’abbia detto a tutti». Perché Sammy Wilson era un idiota. «Ne sai qualcosa oppure no?» «Si faccia un favore: io sono più abbordabile di Sammy. Chiudiamo l’accordo a sessanta sterline?». La pioggia sferzava la Macchina Grande, mentre Ciuffo la conduceva oltre il ponte, raggiungendo Macduff. «Ho l’impressione che stiamo pisciando controvento, sergente». «Probabilmente è vero». «Sette tossici, e l’unica cosa che sappiamo con certezza è che Puzzola Wilson è un inutile idiota bugiardo. Cosa che avremmo dovuto sospettare sin dall’inizio, temo». Quello, e il fatto che qualcuno aveva deciso di picchiare a morte Kirstin Rattray. In lontananza, il Mare del Nord attaccava la baia con i suoi artigli ricurvi e bianchi. D’accordo, aveva fatto i nomi di Klingon e Gerbillo, ma questo non significava per forza che chi l’aveva aggredita dovesse avere a che fare con l’Operazione Troposfera. Metà dei negozianti di Banff e Macduff probabilmente sarebbero stati felici di picchiarla. Ma forse non con un piede di porco. Comunque, non stavano facendo molti progressi. E, considerando come erano andate le cose negli ultimi giorni, non sarebbe stato un male pararsi il posteriore, tanto per cambiare. Logan staccò la ricetrasmittente dal gancio, passando il pollice sui pulsanti. Poi inserì un numero nel tastierino e premette il pulsante per parlare. «Pattuglia Sette a ispettore Porter, può parlare?». Ciuffo aggrottò la fronte. «Chi è l’ispettore Porter?» «Quello che gestisce l’indagine di Klingon e Gerbillo per quella dannata…».
«Pronto?». La voce della Porter si fece sentire dal ricevitore. «Chi è?». Ecco, era il momento. «Sono il sergente McRae di Banff». «Spero che sia importante, sergente, perché sono occupata, al momento». Una coppia di ubriachi zigzagava sul marciapiede, sostenendosi con le braccia intorno alle spalle e ignorando il vento forte e la pioggia battente. «So che devo stare lontano dall’Operazione Troposfera, ma prima che mi aizzi contro il suo capo, c’è una cosa che deve sapere». «Sergente McRae, credo che l’ispettore capo McInnes sia stato molto chiaro in proposito». «Non sto interferendo, devo solo passarvi un’informazione che potrebbe essere importante. Kirstin Rattray, la donna che ci ha fatto sapere di Colin Spinney e Kevin McEwan, è finita al pronto soccorso di Elgin. Qualcuno l’ha picchiata quasi a morte». «E lei pensa che il nostro Caramellaio abbia scoperto che la Rattray aveva fatto la spia e abbia deciso di zittirla». «Potrebbe essere così. Oppure potrebbe non essere un fatto connesso alla vostra indagine. In ogni caso, ho pensato fosse meglio che ne foste a conoscenza». «Grazie, sergente. Le farò sapere se ho bisogno di altre informazioni». Logan lanciò uno sguardo allo schermo della ricetrasmittente. La Porter si era già scollegata. «Prego, stronza». Ciuffo succhiò l’aria tra i denti. «Quindi… questo significa che non dobbiamo torchiare altri tossici?» «Tu che ne dici?».
Capitolo 53
«Avanti, non ho fatto nulla». Quelle parole uscirono da una bocca che sembrava non vedere uno spazzolino da denti dai tempi dell’adolescenza. «Queste sono molestie». Si era scostata i capelli dal viso con un paio di elastici, così tirati da deformarle gli occhi. Una mano si allungò a grattare sotto una natica, che sporgeva dal bordo di una minigonna nera incredibilmente corta. Niente calze, solo la pelle color panna, piena di puntini rossi e sporcata dal bluastro delle vene varicose. Il top che indossava mostrava una buona porzione di scollo ossuto. Almeno, lì erano relativamente al riparo, in un vicoletto lungo un lato dell’ufficio postale, di fronte al parcheggio in cui l’avevano trovata. Logan si appoggiò al ruvido muro di pietra. «Va tutto bene, Abby, volevamo solo farti un paio di domande, tutto qui». Lei sbirciò verso Ciuffo come si guarderebbe un serpente mezzo morto. «Non mi volete perquisire?» «Perché, ti piacerebbe?». Lei sollevò una spalla. «Che domande volete farmi?» «Hai sentito qualcosa riguardo a Kirstin Rattray?» «Quella puttana? Se prendesse fuoco, non mi sprecherei neanche a pisciarle addosso per aiutarla». «Sì, ma magari proveresti a spegnere le fiamme con un piede di porco?». Abby serrò di scatto le labbra e distolse lo sguardo. «Non intendevo dire niente del genere. Era solo…». Si guardò le unghie, tormentandole. «Non sto dicendo che non se lo meriterebbe, ecco. Visto quello che ha fatto». Logan le lanciò uno sguardo severo. «E cosa avrebbe fatto?» «Oh, avanti, lo sanno tutti che si porta a letto il marito di Judy Webster». Abby incrociò le braccia sul petto ossuto. «Non si scopa l’uomo di un’altra. Non si fa e basta. È contro la sorellanza, no?». Logan continuò a fissarla. Le guance pallide della donna si colorirono di colpo. «Non è lo stesso. Quello è lavoro». «Vattene a casa. Nessuno dovrebbe battere il marciapiede con questo tempo, comunque». Abby alzò il naso in aria e si allontanò sui tacchi troppo alti, ondeggiando e dondolando mentre usciva dal vicolo, tornando a farsi flagellare dal vento. Ciuffo sospirò. «Ho ricevuto qualche punto per l’imbarazzo provato?». Logan scosse la testa. «Direi che per questa sera possiamo anche chiudere così. O nessuno ha davvero idea di chi abbia attaccato Kirstin, oppure sono tutti troppo spaventati per parlare. Probabilmente dovremo aspettare che lei si svegli, per scoprirlo». Sempre che si svegliasse. Tornarono alla Macchina Grande, dove il vento cercò di strappare lo sportello dalla mano di Logan. Lui entrò e lo richiuse con forza. Non era colpa sua. Davvero. Kirstin Rattray aveva frequentato persone pericolose per anni, e prima o dopo era ovvio che le sarebbe potuto accadere qualcosa di orribile. Era così che funzionava il mondo della droga. Logan non c’entrava nulla. E allora perché si sentiva come se qualcosa di affilato e freddo gli stesse scavando dentro fino all’anima, riempendogli lo stomaco di schegge di pietra e vetro? Forse l’ispettore Porter avrebbe avuto più fortuna di lui e avrebbe scoperto qualcosa. Lo sperava, almeno.
Ciuffo tornò al volante e controllò l’orologio. «Le dieci e un quarto. Vogliamo tornare alla stazione per la fine del turno?» «Prima facciamo un giro a Rundle Avenue. Teniamo sulle corde i clienti di Frankie Ferris, così continueranno a essere troppo spaventati per comprare da lui. Poi torneremo alla stazione». Il vento scosse l’autopattuglia, mentre Ciuffo li portava giù per la collina, oltre un paio di case dalle finestre sbarrate, per poi raggiungere il fronte del porto. Qualche peschereccio ondeggiava sui moli, con le luci accese. Altre luci si intravedevano in lontananza, probabilmente mercantili che salpavano incontro alla tempesta. «Pattuglia Sette, potete parlare?» «Prego, parlate pure». «Abbiamo ricevuto una segnalazione di un’effrazione ai danni di uno dei magazzini del porto di Macduff. Non siete lontani da lì, vero?». E tanti saluti alla pausa. «Okay, ci pensiamo noi». «Vedi qualcosa?». Ciuffo rallentò a passo d’uomo, mentre ripercorrevano il perimetro del porto. Non ospitava di sicuro una flotta enorme. Dieci grossi pescherecci erano legati ai moli, per la gran parte striati di ruggine lungo le fiancate, dove le reti venivano tirate su. Alcuni erano quasi nuovi, altri sembravano reduci della Guerra Fredda. Tutti erano illuminati dalle luci giallastre del porto. Logan premette il pulsante dei fari laterali, e un faro dalla fiancata andò a illuminare lo spazio tra due magazzini e una pila di casse gialle. «Stiamo perdendo tempo, vero, sergente?» «A quanto pare, sì. Altri cinque minuti e ce ne torniamo alla stazione». Un altro magazzino, fatto di blocchi di cemento e metallo corrugato dipinto di un arancione polveroso. Il faro si rifletté sulle finestre del pianterreno e scintillò contro i vetri di quelle al piano superiore. Ciuffo svoltò a destra, raggiungendo il cortile accanto, con i suoi container, i bancali e i mucchi di tubature metalliche, oltre ai grossi macchinari nelle loro gabbie di fil di ferro. L’agente premette il pulsante dell’altro faro laterale, che andò a lampeggiare tra i bancali, creando ombre scheletriche sulla parete del magazzino. «Sa, se accendiamo i lampeggianti, con i fari rossi posteriori e quelli laterali, sarà come guidare un albero di Natale. Oppure potremmo fare la discoteca ambulante». «Vuoi che mi riprenda il distintivo che ti ho regalato?». L’autopattuglia si fermò davanti a un piccolo prefabbricato che sorgeva accanto al magazzino arancione. La porta era aperta. «Oh-oh. Forse non è stata una perdita di tempo, dopotutto». Ciuffo tirò il freno a mano. «Che ne pensa?». Uscirono dalla macchina. Il vento si stava alzando di nuovo, facendo tremare il metallo corrugato sul tetto del magazzino e gemendo attraverso la recinzione di rete. E pensare che sarebbero potuti essere al pub a bere birra e divorare patatine, festeggiando, invece di ritrovarsi lì… Logan prese la torcia a led e la accese. Mosse il cono di luce sul davanti dell’ufficio prefabbricato. «Potrebbe ancora essere lì dentro». «Giusto». Ciuffo staccò dalla cintura il manganello e lo estese alla massima lunghezza. Poi se lo appoggiò alla spalla, con la torcia nell’altra mano. «Vuole che entri per primo?» «Che senso avrebbe portarsi dietro un cane, se poi fossi io ad abbaiare?». Logan tirò fuori il manganello, estendendolo con un colpetto secco del polso. «Ricorda: non colpire nessuno se non te lo dico io». «È successo solo una volta, e non sono stato così violento, dopotutto». Ciuffo aprì la porta e scivolò all’interno.
Il raggio di luce della sua torcia ondeggiò dall’altra parte della finestra. Logan lo seguì. All’interno trovarono un ufficio affollato di mobili, con lavagne magnetiche e di sughero coperte di note. Una mezza dozzina di scrivanie con vecchi computer beige. Una fila di schedari. Una macchina del caffè. E uno scaffale pieno di cartelle e faldoni. Ciuffo si mosse lungo la stanza, controllando sotto le scrivanie. Poi si raddrizzò e scosse la testa. Indicò la porta sulla parete di fronte, accanto agli schedari. «Vai». Lui arricciò il naso in una smorfia. Poi sussurrò: «Non dovremmo procedere furtivamente?» «Siamo arrivati qui con una grossa autopattuglia con la scritta “Polizia” sulla fiancata e i fari accesi. Non mi sembra molto furtivo, ti pare?» «Oh, okay». Ciuffo si girò e aprì la porta che dava sul magazzino. Entrò, con Logan che lo seguiva da presso. I loro passi riecheggiarono sul soffitto alto e sulle pareti metalliche del luogo. Scaffali enormi e mucchi di materiale erano immersi nell’oscurità. Ciuffo puntò la torcia contro il ripiano più vicino. Oggetti di metallo, oggetti di plastica, e oggetti di entrambi i materiali insieme. Il luogo era enorme. Più di quanto non sembrasse dall’esterno, con gli scaffali che si estendevano in lunghe file, a mo’ di supermercato. Il magazzino di un fornitore marittimo? Forse sì. Gli oggetti sui ripiani sembravano avere a che fare con la nautica. Ciuffo si spostò nei corridoi tra gli scaffali, tenendo bassa la torcia. Ma sì, al diavolo. Vicino alla porta che conduceva all’ufficio mobile c’erano gli interruttori. Logan allungò una mano e accese tutte le luci. Clunk. I tubi al neon sopra di loro lampeggiarono e ticchettarono, riscaldandosi. Ciuffo si bloccò a metà di un passo furtivo. Poi si raddrizzò e si schiarì la gola. «Okay. Potevamo fare anche così, immagino». Qualcosa tintinnò sul pavimento, da qualche parte nel magazzino, il suono seguito immediatamente dall’inevitabile eco. Logan spense la torcia. «Polizia! Sappiamo che sei qui dentro!». Qui dentro… qui dentro… qui dentro… L’eco svanì nel nulla. «Non fare l’idiota, è finita». Finita… finita… finita… Ancora niente. Okay, se era così che voleva che andasse… Indicò a Ciuffo l’angolo più lontano del magazzino. Lui annuì e si allontanò tra gli scaffali. «Stai solo peggiorando le cose, in questo modo». Logan entrò nel corridoio tra due alte scaffalature metalliche. Guardò a sinistra: nessuno. Guardò a destra: nessuno. «Sono certo che possiamo risolvere le cose pacificamente». Passò al successivo corridoio. Nessuno. Era vuoto anche quello subito dopo. «Avanti, non fare lo stupido. Questa storia può finire in un solo modo». E in realtà non era vero: lo spazio tra gli scaffali era tanto, e bastava che il tizio avesse il giusto tempismo per allontanarsi da lì senza farsi vedere, mentre lui e Ciuffo perquisivano il luogo. Un altro tonfo. Logan si bloccò. Poi, da sinistra, si udì un rumore metallico. «Sergente! Lì!». «Dove?». Logan si voltò di scatto.
Qualcuno corse giù lungo il corridoio vicino alla parete in fondo al magazzino. «Torna qui!». Ciuffo comparve e poi scomparve di nuovo dietro a un altro scaffale. Forza, muoviti. Logan tornò indietro, stringendo il manganello in una mano e tenendosi il berretto in testa con l’altra. Superò file di metri e indicatori, di casse non meglio identificabili e di tubature di plastica. Un tonfo riecheggiò dalla parte frontale dell’edificio: una porta. Logan svoltò di scatto a destra, le suole delle scarpe che sbattevano risuonando contro il pavimento di cemento. Gomiti e ginocchia che pompavano come pistoni e l’equipaggiamento che gli colpiva ritmico i fianchi. Avanti, avanti, avanti… Lì: c’era una porta aperta, che dava sul porto all’esterno. Logan la superò e si bloccò sull’asfalto. Si guardò intorno. Non c’era nessuno. «Ciuffo?». Silenzio. «Agente Quirrel!». Niente. Logan digitò il numero di Ciuffo sulla ricetrasmittente. «Dove diavolo sei?». La sua stessa voce riecheggiò nell’oscurità, da qualche parte a destra. «Dove diavolo sei?» «Ciuffo?». Logan spostò la presa sul manganello e riaccese la torcia. Un furgone arrugginito era parcheggiato accanto al marciapiede, con il nome della compagnia ormai quasi illeggibile sulla carrozzeria ammaccata. Logan avanzò a passi lenti, il manganello contro la spalla, pronto a colpire. Premette di nuovo il pulsante. «Stai bene?» «Stai bene?». Veniva da dietro il furgone. Logan scattò oltre l’angolo del mezzo. «polizia! nessuno…». Ciuffo era disteso a faccia in giù sull’asfalto, un braccio piegato e l’altro che dondolava giù dal marciapiede.
Capitolo 54
«Qui Pattuglia Sette, ho bisogno di rinforzi al porto di Banff. Subito. Agente a terra». Si inginocchiò accanto al corpo di Ciuffo. La sua nuca scintillava di rosso scuro, tra i capelli biondi. Logan lo prese per una spalla e lo scosse. «Ciuffo? Stai bene?». Fa’ che non sia morto. Fa’ che non sia… «Unngh…». Ciuffo sollevò la fronte dal marciapiede. «Ah…». La voce di Joe riecheggiò dalla ricetrasmittente, affannata e gracchiante, come se stesse correndo. «Ricevuto, Pattuglia Sette, io e Penny stiamo arrivando. Sta bene?» «Cosa è successo?» «La mia testa…». «È ancora al suo posto. Per fortuna sei tutto cranio e niente cervello. Riesci ad alzarti?» «Pattuglia Sette, qui Controllo. Avete bisogno di un’ambulanza?» «Sì, al più presto. Abbiamo un agente con una ferita alla testa». «Ahi…». Logan lo aiutò a rimettersi in ginocchio. Ciuffo ondeggiò e si appoggiò all’indietro contro il furgone arrugginito, sedendosi sul marciapiede e sfiorandosi con una mano la nuca dolorante. Quando ritirò le dita, erano rosse di sangue. «Ah…». «Da che parte è andato?» «Le sente? Sono sirene?». Il metallo corrugato del magazzino era scosso dal vento. La pioggia picchiettava contro il furgone. Non c’era alcun suono di sirene. Ma presto si sarebbero sentite, senza dubbio. «Sei stato colpito in testa, ma te la caverai. Allora, da che parte è andato?». Ciuffo si sfiorò di nuovo la nuca. Fece una smorfia. «È uscito…». Aggrottò le sopracciglia. «Da lì?». Un dito insanguinato puntò incerto nella direzione del magazzino dei Cantieri Navali di Macduff, dove si trovavano i bacini di carenaggio, nella zona più interna del porto, quella più lontana dall’accesso al mare. E al momento le luci di sicurezza erano accese lungo il lato più vicino del magazzino. Beccato. «Resta qui». Logan attraversò di corsa la strada, superando il parcheggio. Il berretto dell’uniforme fu catturato dal vento e volò via. Al diavolo. L’avrebbe recuperato più tardi. L’odore di gasolio e metallo cresceva a ogni passo, portandosi dietro il fetore acido del pesce marcio. Superò il magazzino del cantiere navale… E ora? «Pattuglia Sette, l’ambulanza sta arrivando». Due grossi pescherecci erano agganciati nei bacini di carenaggio, le chiglie ricurve prive di vernice, a mostrare il metallo nudo al di sotto. Torreggiavano ai due lati della rampa che conduceva all’acqua scura più in fondo. Dove diavolo era finito? Eccolo: dall’altra parte della rampa. Non stava correndo verso la città, ma fuori, lungo il muro del porto. «torna qui!». Come se poi quelle parole funzionassero.
Logan corse lungo il bordo del bacino di carenaggio, scendendo le scale incassate nel muro di cemento. L’acqua arrivava a metà della rampa. Vi passò in mezzo, facendo attenzione a non scivolare sulla superficie resa scivolosa dalle alghe. L’acqua gelida gli entrò negli stivali. Risalì la scala dall’altra parte. Il porto si incurvava lungo i bordi del centro abitato, una stretta striscia d’acqua che in alcuni punti era ampia meno di una sessantina di metri, con i pescherecci che si affollavano su entrambi i lati dandosi le spalle. Da qualche parte dietro di lui, l’ululato di una sirena si fece sentire al di sopra di quello del vento. Doveva continuare ad andare avanti. Riprese a correre, con i calzini zuppi d’acqua dentro gli stivali. Il Mare del Nord si abbatteva contro il frangiflutti, sollevando in aria spruzzi di schiuma e vapore che sapevano di sale e alghe. Le onde si schiantavano contro il braccio esterno del porto, facendo scintillare il cemento alla luce dei lampioni ondeggianti al vento. Il vapore acqueo colpì Logan in faccia e sul giubbotto catarifrangente, inzuppandogli i pantaloni. Se fosse saltato direttamente in acqua, era probabile che sarebbe rimasto più asciutto. Più avanti, le luci di un peschereccio si accesero, sul bordo del molo. Quel piccolo bastardo non sarebbe scappato così. Una figura tornò sul molo, accanto alla barca, delineata dalle luci. Si piegò a sciogliere le cime dalla bitta che teneva fermo il peschereccio. Poi tornò sul ponte. Più vicino. Avanti. Mancavano solo due barche… Un ruggito gorgogliante, e il peschereccio si staccò dal molo. Oh, no, non lo farai. Logan prese velocità, con i piedi che colpivano ritmicamente il cemento bagnato. Salta. Non sarà più di un metro e mezzo. Due metri. Tre. Perfino con le onde che sbattevano contro il frangiflutti dal lato del mare, l’acqua da quella parte era immobile e nera. Il peschereccio si lanciò in avanti, con il motore che gorgogliava, lasciandosi dietro una scia di schiuma bianca. Quattro metri. Al diavolo. Logan si fermò sul bordo del molo, con le braccia che roteavano. «tu! riporta subito indietro quel peschereccio!». La figura al timone si girò e lo fissò. Un volto che sembrava scolpito nel cuoio, contorto in una smorfia e circondato da capelli brizzolati che gli pendevano umidi davanti alla fronte. Santo cielo: era Charles “Craggie” Anderson. «tu dovevi essere morto!». Il motore cambiò tonalità, che divenne più alta e feroce. Si fermò, invece di andare avanti e prendere il largo. Sulla poppa, in grandi lettere rosse, c’era il nome della barca, “peerie wullie’s rant”, sopra a una larga striscia bianca che correva lungo tutta la chiglia. Charles Anderson aprì la finestra dell’abitacolo, prese una ricetrasmittente, tendendone il filo, e premette un pulsante. La sua voce si fece sentire dagli altoparlanti della barca. «Io sono morto». Logan portò le mani ai lati della bocca a mo’ di megafono. «chi era allora nella barca, alle orcadi? non sei tu che sei bruciato con il peschereccio!». «Uno che meritava di morire. Gli piaceva giocare con i bambini». «e sei stato tu a ucciderlo». «Voi l’avete fatto uscire. Avreste dovuto tenerlo dietro le sbarre per sempre, ma l’avete lasciato andare. Uno stupratore di bambini, e l’avete lasciato libero!». «non è vero, stai…». La barca non era più ferma, adesso; avanzava verso la successiva sezione del porto. Verso lo sbocco sul mare. «torna indietro e ne possiamo parlare».
Non ci fu risposta. Un mucchio di vecchie nasse si trovava ai piedi di una rampa di scale che conduceva in cima al frangiflutti. Logan prese un biglietto da visita e vi segnò dietro il suo numero di cellulare. Lo ficcò nelle maglie di una nassa, poi prese la rincorsa e la gettò dall’altra parte del frangiflutti. La nassa roteò in aria, superando sei metri di acqua color dell’inchiostro, piombando dritta sul ponte del peschereccio. Scivolò lungo l’abitacolo coperto e si fermò contro la fiancata. «c’è il mio numero, lì. chiamami, e troveremo il modo di sistemare tutto!». Ma Charles Anderson restò al timone. «Neil Wood girava dalle parti del Centro Sociale. Seguiva i ragazzini negli spogliatoi e offriva loro dei soldi per farsi toccare. E non parlo di anni fa: sto parlando di due settimane fa». Logan continuò a muoversi sul muro, seguendo il peschereccio. «perché non l’hai detto a nessuno? avremmo potuto fare qualcosa!». «Non lo sapevo, l’ho scoperto solo poco prima che morisse. A volte ci vuole un po’ di tempo, prima di ottenere la verità da gente come lui». La barca scivolò verso il collo di bottiglia vicino all’edificio del vecchio mercato del pesce. Da lì, il porto si apriva, girando verso destra, prima di stringersi un’ultima volta. Poi si apriva dritto verso il mare. Ma Anderson mantenne la Peerie Wullie’s Rant a sei metri dal muro del porto, dove si trovava Logan. Abbastanza vicino da sentirlo parlare, ma non abbastanza per permettergli di saltare a bordo. «non farlo. torna indietro e potremo parlarne. non…». «Mi ha detto del Mercato del bestiame. Mi ha detto cosa stavano facendo. Lui e quegli altri bastardi del suo maledetto circolo. Mi ha detto della bambina che avevano comprato per condividerla». La bambina. Quella che avevano trovato a faccia in giù nell’acqua della Tarlair Outdoor Swimming Pool. La bambina che si trovava sulla lavagna di sughero nel garage di Charles Anderson, collegata al dottor Gilcomston con un filo rosso. «Era il “turno” di Neil Wood». La parola turno suonò come se sapesse di vomito. «Neanche gli piacevano le bambine, lui voleva i maschi. Ho cercato di salvarla. Non ci sono riuscito. Ci ho provato, ma era troppo tardi». Dall’altra parte del porto, un’ambulanza correva lungo Shore Street, a sirene spiegate. Sparì dietro il peschereccio per un attimo, poi lo superò e corse avanti. L’urlo delle sirene deformato dalla distanza. «se hai delle prove, posso…». «William Gilcomston, Neil Wood, Mark Brussels e Liam Barden hanno comprato una bambina da condividere al Mercato del Bestiame. Io lo so, perché Liam Barden ha urlato tutti i loro nomi, prima di morire. Pensi che ti faranno avere un mandato, sulla base di questo?». La ricetrasmittente di Logan fece udire i suoi quattro squilli. «Pattuglia Sette, l’ambulanza è sulla scena». «possiamo arrestarli. possiamo perquisire le loro case e trovare qualcosa che li colleghi alla bambina: dna, fibre…». «Non sono così stupidi. La legge non è giustizia. È solo la legge. Puoi rinchiuderli in carcere, ma poi tanto torneranno a piede libero, e non cambieranno mai». La barca accelerò, puntando verso la zona più stretta del porto. Lì Logan sarebbe riuscito a saltare a bordo, volendo. Tra il muro e il ponte del peschereccio non potevano esserci meno di due metri. Ma la barca avrebbe attraversato quel punto favorevole ben prima che Logan ci arrivasse. Dannazione. Anderson uscì dalla timoniera e raccolse la nassa. Se la rigirò tra le mani, mentre la barca puntava verso il mare aperto.
«chiamami!». L’uomo tornò nell’abitacolo e richiuse la porta. Un’altra onda sbatté contro il frangiflutti, inondando Logan di uno spruzzo di vapore salato e gelido. «non puoi allontanarti così, il mare è troppo agitato!». «Non avete mai arrestato Liam Barden. Ha agito indisturbato per anni. Bambini, bambine: per lui faceva lo stesso». La barca scivolò oltre il punto più stretto. «Sa cos’altro mi ha detto, prima di morire? Mi ha raccontato di Andrew. Mi ha detto come lui e Neil Wood si siano divisi mio figlio». Logan si fermò. Ormai non c’era più niente tra Charles Anderson e il mare infuriato. La prua del peschereccio dondolò tra le onde, mentre puntava verso l’uscita del porto. Era la sua ultima possibilità di saltare a bordo e arrestarlo. Okay. Poteva farcela. Un po’ di rincorsa… «Non fare lo stupido: non ce la farai. Finirai schiacciato tra il muro del porto e la chiglia, o affogherai». Trascinato in fondo da sei chili di giubbotto antiproiettile ed equipaggiamento vario. «fermati. chiamerò la guardia costiera, che ti arresterà e ti riporterà comunque indietro». «Non succederà. L’hai detto tu stesso, il mare è troppo agitato». «e allora non fare l’idiota, dannazione!». «Ho una missione da compiere». Dio santo. Il vento lo colpì come un pugno gigantesco, e Logan fu costretto a spostarsi di un passo a sinistra. «ti prego, chiama quel numero!». Ma il motore del peschereccio cambiò tono di nuovo, passando a un ruggito profondo, e la Peerie Willie’s Rant si lanciò verso l’abbraccio mortale del Mare del Nord. La prua ondeggiò avanti e indietro come un tappo di sughero, mentre i motori spingevano la barca verso le onde. Altre sirene. Logan si voltò. Un’autopattuglia correva lungo Shore Street, i lampeggianti che si riflettevano brevemente sulle facciate di alberghi e negozi mentre sfrecciava avanti. Almeno, Ciuffo sarebbe stato… Logan sentì il cellulare squillare dalla tasca. Lo tirò fuori. «Pronto?». Era Charles Anderson. «Sei l’unico che sa che sono ancora vivo». «Riporta indietro quel peschereccio. Torna qui». «Se mi cercheranno, non potrò fare quello che devo fare». «Quello che devi fare è tornare indietro prima di ammazzarti». «Così mi sbatterete in carcere per il resto della mia vita? Non penso proprio». Logan salì una rampa di scale, raggiungendo il parapetto che correva in cima al frangiflutti. La Peerie Willie’s Rant era sempre più piccola, dondolando sulle onde, superandole e piombando nel baratro tra l’una e l’altra, tra schizzi di schiuma. «Hai ucciso Neil Wood e Liam Barden». «È per questo che ti sei arruolato in polizia? Per lasciare liberi dei dannati pedofili?» «Certo che no. Io…». «Assassini di bambini innocenti?» «Charles… Craggie, non possiamo giocare a fare Dio, lo capisci? Ci sono leggi e regole da rispettare e…». «Certa gente non merita le leggi. Ne trovo uno, e mi assicuro che mi dica tutto quello che devo sapere. E poi passo al successivo». «Questa non è giustizia, è una caccia alle streghe. Devi tornare indietro». Un’onda si abbatté contro il frangiflutti, schiantandosi in una deflagrazione di schizzi salati.
Logan incurvò le spalle, girando il viso dall’altra parte mentre gli esplodeva intorno. «Il tuo amico sta bene? Mi dispiace di averlo colpito. Davvero». Logan si asciugò gli occhi dagli schizzi salmastri. «Devi fermarti. Non puoi continuare così». «Mi dispiace di aver colpito anche te. Non mi hai lasciato altra scelta, del resto. Non posso fare quello che devo fare da una cella, dannazione». «Non avresti dovuto bruciare la tua casa». «Sono morto, non ho bisogno di una casa. Sono morto molto tempo fa». La Peerie Willie’s Rant si allontanò sempre di più, il ruggito dei motori portato via dal vento. La sua piccola sagoma inghiottita dal buio della notte. «Hanno rapito Andrew perché era lì in quel momento. Non era una cosa pianificata. Liam Barden l’ha visto giocare nel prato vicino alla scogliera e ha detto a Neil Wood di fermare la macchina. Sono scesi e l’hanno rapito». Gli spruzzi freddi esplosero di nuovo contro il muro, facendo ondeggiare all’indietro Logan. «Mi dispiace». L’unico segno della presenza del peschereccio, ormai, erano le sue luci, sempre più fioche nella tempesta. «L’hanno usato per due giorni e poi l’hanno strangolato, perché non parlasse con nessuno. Aveva quattro anni. Il bambino più dolce e intelligente che si potesse immaginare, e l’hanno ucciso perché nessuno potesse sapere quello che avevano fatto». «Non puoi andartene in giro a uccidere pedofili. Occhio per occhio? Non funziona così». «Se non sono io a farlo, chi lo farà? Voi non potete neanche interrogarli senza un avvocato accanto a loro a consigliarli meglio su come mentire. Il sistema è fatto in modo che i colpevoli abbiano più possibilità di quante non ne abbiano mai avute le loro vittime». Logan non si sentiva certo di obiettare. Non dopo quello che aveva visto accadere con Graham Stirling. Logan sospirò. «Come si chiamava? La bambina che avevano comprato?» «Wood non lo sapeva, e neanche Barden. Hanno detto che Gilcomston la chiamava “Cherry”, ma non so se fosse un sss…ppprrnn… me. Forse sar… meglio se… nnn… mai». «Pronto?» «…se dirai… non… troppo import…nntt… ffff… sshhhhhhh…». Poi soltanto interferenze. E infine silenzio. La barca era troppo lontana per permettere al cellulare di funzionare. Ora Logan non riusciva più a vedere neanche le sue luci. Non c’era altro che oscurità e onde. Logan voltò le spalle e scese le scale. Asciugò il cellulare contro una gamba dei pantaloni e lo rimise in tasca. La voce di Penny si fece sentire dalla ricetrasmittente. «Pattuglia Sette? Sergente? Abbiamo trovato l’agente Quirrel. Dove si trova lei?» «Come sta Ciuffo?» «Potrebbe aver subito un lieve trauma cranico, ma per il resto sta bene. Lo stanno portando all’ospedale per le radiografie e i controlli del caso, comunque». «Bene. Io sono vicino all’uscita del porto e sono fradicio. Fammi un favore, vieni a prendermi».
Capitolo 55
Logan gocciolava sulla moquette dell’ispettore. Le gocce producevano un picchiettio leggero, nel cadere una dopo l’altra. «Secondo le radiografie fatte in ospedale, sembrerebbe che alla fine in quella testa ci sia un cervello, dopotutto». «Hmm…». L’ispettore Fettes fece dondolare la sedia girevole per un po’, facendo ondeggiare la massa di capelli biondi come una parrucca fissata male. Aveva messo sulla scrivania la foto incorniciata di un cocker spaniel. A parte quello, era tale e quale a come l’aveva lasciata l’ispettore McGregor quando aveva finito il turno di giorno. Be’, sì, fatta eccezione per l’odore acuto di mentolo che emanava da Fettes ogni volta che apriva bocca. Le parole sembravano faticare a uscire dal suo naso arrossato. «E abbiamo idea di chi sia stato?». Ecco… Logan fissò la macchia umida ai suoi piedi. Cosa avrebbe dovuto fare, a questo punto, lasciare che Charles Anderson se la cavasse dopo aver ucciso due persone, assalito due poliziotti e probabilmente anche rubato una barca? Lasciarlo fuggire per continuare a punire i pedofili in giro per il paese, ottenendo giustizia quando un tribunale li lasciava liberi nonostante tutto? In tutti quegli anni, Liam Barden aveva fatto cose orribili a chissà quanti bambini, e la polizia non ne aveva mai saputo nulla. E se non fosse stato per Charles Anderson, avrebbe continuato a farle. «Logan?». Lui sbatté le palpebre. «Mi scusi, capo. Era molto buio. Chiunque sia stato, ha colpito Ciuffo alle spalle ed è scappato. L’ho inseguito, ma…». Non era troppo tardi per rimediare. Doveva smetterla. Non poteva coprire Anderson, o avrebbe interferito con la giustizia, e sarebbe diventato complice di qualsiasi successivo omicidio da lui commesso. Pensava forse che fosse una buona idea? Certo che no. Si strinse nelle spalle, gocciolando ancora di più. «Be’, era Charles Anderson». L’ispettore aggrottò la fronte. «Ma è morto». «Non proprio. Credo che il cadavere che è stato trovato nel suo peschereccio fosse quello di Neil Wood». «Fantastico». Un sospiro. «Almeno potremo smettere di cercarlo. Dubito che sia rimasto abbastanza del suo corpo per tentare l’identificazione per mezzo del dna, ma possiamo provarci. E vediamo se riusciamo a trovare qualche impronta digitale nel magazzino». «Manderò una richiesta per la ricerca della barca su cui è scappato». «Potremmo avere un po’ di fortuna, sì. Comunque…». La ricetrasmittente di Logan emise quattro squilli. «Pattuglia Sette, potete parlare?». Logan la indicò. «Posso…?». L’ispettore agitò una mano. «Nessun problema». Logan premette il pulsante e parlò contro la spalla. «Prego, parlate pure». «Voleva essere avvertito quando Kirstin Rattray si fosse svegliata. L’ha appena fatto». «Ha detto nulla sull’aggressione?» «Nah. Ho visto lapidi più comunicative di lei. Vuole provarci lei?». Lui lasciò il pulsante. «Capo?» «Provaci. Non abbiamo altro da fare, al momento».
Logan lasciò la Macchina Grande in uno dei parcheggi riservati dell’ospedale e corse sotto la pioggia verso l’entrata del pronto soccorso. Quarantacinque minuti: niente male, da Banff a Elgin. E aveva dovuto usare i lampeggianti solo due volte. Le luci del centro abitato si riflettevano contro una pesante coltre di nuvole basse, estendendo una luminescenza arancione sulla facciata grigia dell’ospedale. Un gruppetto di fumatori si affollava all’entrata del pronto soccorso, cercando di non farsi bagnare dalla pioggia. Piedi che si muovevano e dita nervose, le punte delle sigarette che scintillavano sotto le luci al neon. Logan li superò, immergendosi nella deprimente atmosfera asettica e grigia della sala d’aspetto. Un infermiere passò oltre, trascinando sul pavimento un paio di Crocs rosa e stringendosi al petto una cartellina, quasi fosse l’unica cosa che gli permetteva di andare avanti. Logan gli si fermò di fronte. «Sto cercando Kirstin Rattray». L’infermiere lo fissò, sbattendo le palpebre. Gli occhi incavati erano cerchiati di occhiaie violacee. Sbadigliò sonoramente, afflosciandosi contro la cartellina. «Mi scusi. È stato un turno lungo e faticoso. Chi sta cercando?» «Kirstin Rattray, ricoverata qualche ora fa per aggressione. Trauma cranico, costole, braccia e gamba rotta…». «Ah, sì. Certo. Controlliamo sul computer». L’infermiere si fermò nel corridoio, stringendosi ancora una volta la cartellina al petto. «Posso concederle solo un paio di minuti. È molto grave». «Non ci metterò molto». Logan spinse la porta che dava sul reparto. La stanza era illuminata soltanto da una piccola lampada da lettura in un angolo. Otto letti, quattro per parete, ma solo tre erano occupati. Uno da un’adolescente obesa, distesa sulla schiena e profondamente addormentata. Uno da una vecchietta, che stava leggendo quello che sembrava un giallo economico alla luce della lampada nell’angolo. E infine c’era Kirstin Rattray. Il viso era coperto da una mappa geografica di cerotti e garze. Aveva un braccio in trazione, ingessato dalle dita all’ascella, e l’altro, sempre ingessato, appeso al collo. Un altro gesso formava una protuberanza ingombrante sotto le coperte, lì dove si sarebbe dovuto trovare il suo ginocchio destro. Alcuni tubicini la raggiungevano dalle flebo accanto al letto, altri sparivano nelle sacche al di sotto. Logan risucchiò aria tra i denti. Sapeva di disinfettante, dolore e disperazione. «È…». L’infermiere abbassò la voce a un sussurro. «Non riuscirebbe a credere a quanta morfina le abbiano dato, quasi senza alcun effetto. Ma nessuno vuole far finire un paziente in overdose per sbaglio». Logan prese una sedia e attivò la telecamera che aveva addosso. «Kirstin? Riesci a sentirmi?». Le dita che uscivano dal gesso che le bloccava completamente un braccio tremarono. Poi girò appena la testa. Un occhio chiuso, l’altro iniettato di sangue. La sua pelle era un caos di lividi ed ematomi. «F… fa male». Riuscì appena a muovere le labbra. «Lo so. Mi spiace». «Vvv… io Am… meee». Vvv… io Am… meee? Poi Logan capì. «Vuoi Amy? Tua figlia? Credo che aspetteranno che tu stia un po’ meglio, prima di portartela». Logan tentò un sorriso. «Non vorrai mica spaventarla, giusto?». Lei scosse piano la testa. Poi una smorfia. «Nnnnn far… mela port… portare via». «Sai chi è stato?» «F… fa male». Non lo stupiva.
Logan portò una mano a una delle tasche del giubbotto antiproiettile. Quella dove si trovava la bustina di plastica che le aveva confiscato. Una singola dose di eroina, nascosta da un guanto di nitrile azzurro. Almeno, quella l’avrebbe fatta sentire meglio. Certo, avrebbe anche potuto interferire con gli altri medicinali che le stavano dando, e allora non avrebbe più avuto problemi con il dolore. Perché sarebbe morta. Che idea stupida. Logan lasciò il guanto dov’era. «Farò sapere ai tuoi che sei qui. Così potranno portarti Amy, appena possibile». L’occhio iniettato di sangue si chiuse, facendo scivolare sul viso massacrato della ragazza un paio di lacrime. Arricciò le labbra, ma non c’erano denti da mostrare, soltanto gengive gonfie piene di punti. «Mi dispiace tanto». Logan posò una mano sulla spalla di Kirstin. «Chi è stato a farti questo?». Le Crocs dell’infermiere cigolarono sul pavimento della corsia. «Senta, credo che sia abbastanza. La paziente è stanca e deve…». «Frreenkee Frrrs». Logan aggrottò la fronte. «Chi?» «Senta, mi vedo costretto a insistere». Il viso di Kirstin si contrasse per lo sforzo. «Frrrnnkeee Frrrrrs!». Logan prese il taccuino e… dannato Hector. Si girò verso l’infermiere. «Può prestarmi una penna?» «Questo non è…». «Senta, questa donna vuole denunciare la persona che ha cercato di ucciderla con un piede di porco, va bene? Adesso mi dia quella dannata penna». Una pausa, poi l’infermiere gli tese una biro blu mangiucchiata. Logan la passò a Kirstin, e lei la prese con le dita dell’altra mano, quella che sporgeva dal gesso del braccio appeso al collo. La serrò contro la striscia di fiberglass che aveva sul palmo. Poi scrisse il nome in stampatello, tracciando grandi lettere tremolanti: “frankie ferris” e lo sottolineò due volte, prima di lasciarsi ricadere contro il cuscino, affannata ed esausta. Logan sollevò il taccuino in modo che la telecamera potesse riprendere il nome. «Stai dicendo che è stato Frankie Ferris ad aggredirti?». Lei annuì. Prese un respiro faticoso. «E sei certa che fosse lui?». Una pausa. Poi la donna annuì di nuovo. Il che significava che Frankie Ferris stava per ritrovarsi con la porta di casa sfondata. E se avesse deciso di resistere all’arresto e fosse caduto dalle scale un paio di volte, be’… a nessuno sarebbe dispiaciuto. I campi immersi nell’oscurità sfilavano ai lati dei finestrini dell’autopattuglia, colti per un attimo nel lampo delle sirene per poi sparire di nuovo nella notte. Logan cambiò marcia e tenne il piede schiacciato sull’acceleratore. I lampioni proiettavano strisce di luce scintillante sull’asfalto bagnato, e i tergicristalli gemevano muovendosi avanti e indietro sul parabrezza. Logan premette il pulsante per parlare sul volante. «Sono a quindici minuti di distanza. Che nessuno si muova finché non sarò lì, siamo intesi?». La voce di Penny crepitò dagli altoparlanti dell’auto. «Sì, signore. Abbiamo bloccato gli accessi alla strada e la stiamo aspettando. Abbiamo un mandato?» «È la prossima cosa sulla mia lista». La Macchina Grande scivolò intorno a un’ampia curva, con il motore che ruggiva. Logan premette di nuovo il pulsante. «Pattuglia Sette a Bravo India, può rispondere?»
«Prego». L’ispettore Fettes si zittì e starnutì. «Urgh… scusami. Come sta Kirstin Rattray?» «È fortunata a essere ancora viva. Ha identificato il suo assalitore: si tratta di Frankie Ferris. Sto tornando a Banff, adesso. Ieri ho chiesto un mandato per perquisire casa sua. Pensa di poter mettere un po’ di fretta allo sceriffo Harding? Sta procrastinando e ho bisogno di…». «Ah. A dire il vero…». Un colpo di tosse. «Logan, c’è un motivo per cui Harding non ti ha concesso il mandato. L’ha già consegnato all’ispettore Porter». «Porter?» «Quelli dell’Operazione Troposfera hanno fatto irruzione in casa di Frankie Ferris mezz’ora fa». «Mi sta prendendo per i fondelli?» «Hanno trovato circa ottantamila sterline di eroina, e altri sessantamila di cocaina. Tre mattoni di hashish, una grossa scatola di temazepam e circa trentamila sterline in contanti». «Quello era il mio sospetto! L’ho tenuto d’occhio per mesi!». «Be’, sì, ma guarda il lato positivo: tutta quella droga non arriverà mai in strada. Dovresti essere contento». «Mesi, cazzo!». Fantastico. Grazie tante, ispettore Porter, ispettore capo McInnes e Operazione Fottuta Troposfera. Stronzi del Team Investigativo Primario. Frankie Ferris era suo. Era un suo problema. Il suo spacciatore. E McInnes glielo aveva portato via, proprio sotto il naso. Senza neanche un grazie. Quello era anche il suo caso, tra l’altro. Logan premette il pulsante dei lampeggianti sul cruscotto, facendoli spegnere. Non aveva più senso affrettarsi. Rundle Avenue era bloccata. Tre autopattuglie, due auto in borghese del cid, il furgone dei cani di Syd Fraser e un Transit dell’Unità di Supporto con le griglie antisommossa sollevate e il portello laterale ancora aperto. Logan parcheggiò davanti al cordone bianco e blu della polizia. La sua indagine. Il suo arresto. Il suo dannato sospetto. Metà delle case sulla strada avevano le luci accese. Probabilmente gli inquilini erano tutti alle finestre a riprendere la scena con il cellulare per caricarla poi su YouTube per i posteri. Logan prese il berretto dell’uniforme e se lo calcò in testa, uscendo sotto la pioggia. Il sergente Mitchell lo salutò dallo sportello aperto del furgone dell’Unità di Supporto. Poi gli tese un termos. «Santo cielo, per caso gli agenti da qualche parte vengono forniti anche di radar per il tè? Non l’ho neanche aperto». Logan restò fuori, con la pioggia che gli picchiettava sulle spalle del giubbotto catarifrangente e sul berretto dell’uniforme. «Era questo che dovevi fare stasera, vero? Era per questo che non potevi». «È stato un ottimo risultato. Abbiamo trovato non si sa quanta roba nascosta sotto le assi del pavimento nella camera da letto. Era come la grotta di Alì Babà dei tossici». Aprì il tappo del termos e versò il contenuto in una tazza con la scritta “miglior abbattitore di porte del mondo”. «Un vero peccato che te lo sia perso». Sogghignò. «Ci hanno lasciato usare la motosega». «Sono felice che almeno qualcuno se la passi bene, stanotte». Logan gli voltò le spalle e si incamminò verso la porta della casa di Frankie Ferris. Un agente in uniforme era fermo sulla soglia, cercando di proteggersi dalla pioggia battente. Quando vide Logan, raddrizzò di scatto la schiena. «Sergente». Non era di Banff, e neanche della Divisione b. Probabilmente veniva da Aberdeen. Orecchie a sventola, fronte bassa e capelli folti e ricci. La porta lo incorniciava come una foto particolarmente brutta, gli stipiti di pvc non plastificato rovinati dove la motosega aveva fatto il suo dovere. Logan gli rivolse un cenno. «Il tuo capo è da queste parti?»
«L’ispettore Porter? Sì». Non si mosse. Poi sembrò capire. «Oh, giusto. La chiamo subito». L’agente si girò, senza spostarsi dall’entrata, e gridò verso l’interno della casa. «Capo? C’è un sergente che vuole vederla. Posso farlo entrare?». La pioggia entrò nel colletto del giubbotto catarifrangente di Logan. L’agente Brutto fece una smorfia. «Forse è nel buco che hanno aperto in camera da letto». Poi si sentirono dei passi giù per le scale, e una donna bassa in completo grigio si fece vedere all’ingresso. Aveva un taglio di capelli corto e curato e stivali lucidissimi. L’agente Brutto si scostò senza che gli fosse neanche chiesto, e la Porter prese il suo posto. Guardò Logan da capo a piedi. «Be’, a quanto pare mi ha risparmiato una telefonata. È venuto a confessare qualcosa?». Logan strinse i pugni. «Lei ha arrestato Frankie Ferris». «È venuto fino a qui sotto la pioggia a dirmi cose che già so? O forse, mi faccia indovinare, vuole ficcare il naso nella mia indagine?» «Ha aggredito Kirstin Rattray, qualche ora fa, cercando di ucciderla con un piede di porco, e l’ha lasciata per morta in una piazzola». «Lo so. Mi ha telefonato per farmelo sapere, ricorda?». La Porter inarcò un sopracciglio. «E questa Kirstin Rattray lo ha identificato?». Logan indicò la telecamera. «Sì, è tutto registrato qui sopra». «Molto bene, ce ne occuperemo». La pioggia continuò a cadere. «Ora, sergente, è sordo o soltanto stupido? Le è stato detto più e più volte di stare lontano dall’Operazione Troposfera. Ma lei proprio non ce la fa, vero?» «Sono rimasto ben lontano dall’Operazione Troposfera, mi creda». «Davvero? E allora mi dica, sergente McRae, perché quando sono entrata in casa di Frankie Ferris, ho trovato questo?». Poi si girò e fece un cenno all’agente Brutto. «Porta qui il tizio puzzolente». Il tizio puzzolente? L’agente Brutto ricomparve con una figura scheletrica e arruffata con addosso una tuta logora e sporca. Aveva le mani ammanettate davanti a sé. Sammy “Puzzola” Wilson. Oh, Dio… Sammy tirò su con il naso, pulendoselo su una manica lurida. «Visto? Gliel’avevo detto, io. Gliel’avevo detto. Sono uno che lavora per la polizia. È tutto ufficiale». Il sorriso della Porter non sembrava molto sincero. «Allora, sergente? Vuole spiegarci come fa a dire che “ne sta fuori”, quando sta usando dei tossici per ficcare il naso nella mia indagine?» «Io gli ho detto di non farlo! Gli ho spiegato che era finita da un pezzo. Sammy, spiegaglielo… ti ho detto di smetterla». Sammy scosse la testa, facendo ondeggiare i capelli unti. «Sono qui sotto copertura, sì? Sto facendo la mia parte. Faccio domande per dieci sterline, domande, domande, domande». Tirò di nuovo su con il naso. Poi fissò Logan. «Ce le ha le mie tre sterline e settantasette, sì? Ho trovato… ho scoperto chi è il Candelaio». «non esiste nessun candelaio!». Logan arretrò di due passi, poi tornò indietro. Fissò l’ispettore Porter, ma puntò l’indice contro Sammy Wilson. «Gli ho detto di smetterla! Era fuori dalla stazione di polizia e gli ho detto di stare fuori da questa storia!». «Eppure, eccoci qui». La donna incrociò le braccia sul petto. «C’è altro?». Lui si morse l’interno di una guancia. Doveva calmarsi. Riaprì le mani. «Sa se il suo team ha finito in casa di Klingon?» «Mi lasci indovinare: sua madre si è lamentata perché non può ancora rientrare in casa?» «Una cosa del genere». La donna si strinse nelle spalle. «Può riprendersela quando vuole. Non è più la scena di un crimine. Ora ci stiamo concentrando su Rundle Avenue». «Molto bene». Logan si voltò per andarsene.
«Sergente?». Logan si fermò. Cosa voleva? Umiliarlo ancora? La voce dell’ispettore Porter si addolcì. «Abbiamo accusato Colin Spinney e Kevin McEwan del tentato omicidio di Jack Simpson. Non la passeranno liscia su nulla. Pensavo che le facesse piacere saperlo». Probabilmente non avrebbe fatto alcuna differenza sulla sentenza di quei due, ma era comunque qualcosa. E dire che quella giornata era cominciata tanto bene…
Capitolo 56
«Mi hai svegliato per dirmi questo?». Un colpo di tosse fece gracchiare il telefono. «Urgh…». Logan uscì sotto la pioggia e si chiuse alle spalle la porta della stazione di polizia. «Pensavo che fosse ancora sveglia a guardare film porno». La luce dei lampioni creava sfere di un giallo infetto sotto l’acquazzone, mentre lui si affrettava ad attraversare la strada. «Cosa vuoi che faccia, che ti accarezzi la testa e dica: “Oh, povero piccolo Logan. La zia Roberta ti dà un bacino e passa tutto”?». Logan scese i gradini che portavano al parcheggio, scegliendo la via più breve per tornare a casa. «Era il mio caso». «Laz, non hai sei anni. Santo Dio, cresci. Pensi che se batterai i piedi e ti infurierai ogni volta che un Team Investigativo Primario arriva e si prende un tuo caso, a qualcuno importerà qualcosa? È così che funziona, adesso». Lui inspirò profondamente, per poi buttare fuori il fiato con forza. Affrettando il passo e zigzagando tra le pozzanghere. «Ho lavorato per mesi nel tentativo di inchiodare Frankie Ferris». «Sì, e adesso penso che tornerò a dormire». «Grazie per la comprensione». «Laz, se non ti sta bene che i Team Investigativi Primari si prendano i tuoi casi, torna indietro e lavora per me. Invece di vederteli fregare, sarai tu a fregarli agli altri. In ogni caso, piantala di lamentarti». «Non mi sto lamentando, mi stanno fottendo in ogni modo possibile. Questo è “lamentarsi”, secondo lei?». Silenzio. «Pronto?». La Steel gli aveva attaccato in faccia. Che amore. Dall’altra parte della strada, Logan girò l’angolo. L’acqua aveva riempito la grondaia intasata dall’erba, e ora stava scendendo a cascata dal tetto. Un’altra cosa che doveva ricordarsi di sistemare. Entrò in casa. Era tutto buio. Non si sentiva alcun rumore, né quello della televisione, né qualche cigolio di assi sul pavimento. Non era strano, alle due meno un quarto di martedì. Helen doveva essersi addormentata. Però sarebbe stato bello trovarla sveglia, invece. Due occhi gialli scintillarono in cima alle scale, poi, con una serie di tonfi leggeri, Cthulhu gli venne incontro. Gli si strusciò contro le caviglie, facendo le fusa. Lui si piegò a prenderla in braccio. Soffice, calda e pelosa. «Papà ha avuto una giornata da dimenticare». La riportò al piano di sopra, posandola sul pianerottolo. Aprì la porta della camera da letto. «Helen?». Il lampione sulla strada proiettava una lama di luce arancione sporco sul letto. Le tende erano aperte e il letto vuoto, rifatto. Forse quella sera voleva dormire da sola? Aveva fatto qualcosa di sbagliato?
Logan tornò di sotto. Bussò lievemente alla porta del soggiorno. «Helen?». Che idiota. Che senso aveva sussurrare? Bussò di nuovo. Più forte. «Helen, sei sveglia?». Silenzio. Forse aveva bevuto di nuovo e si era addormentata sul divano? Aprì la porta, ma la stanza era vuota. Andò in cucina. Vuota. C’era una busta al centro del tavolo, grande più o meno quanto una cartolina di auguri, con la scritta “logan” sul davanti. La aprì. Non era una cartolina di auguri, ma di ringraziamento. C’era una foto con un gattino con una felpa addosso e degli occhialetti tondi da John Lennon. All’interno, un messaggio scritto con una grafia precisa e ordinata, in inchiostro blu: Caro Logan, hanno arrestato una famiglia di nomadi a Gwent, e hanno trovato una bambina, che è stata affidata a una casa famiglia. Hanno tutti i capelli scuri, tranne lei che è bionda. Ha sei anni. Potrebbe essere Natasha. Grazie mille per avermi ospitato. Era tanto tempo che non lasciavo avvicinare qualcuno così tanto. E scusami se sono andata via così di fretta. Ti voglio bene, Helen Fantastico. Semplicemente fantastico, dannazione. Logan prese il cellulare. Fissò con astio la cartolina. Neanche un misero addio. Aprì la rubrica. Trovò il suo numero… No. Passò invece al numero di Syd Fraser. Premette il pulsante di chiamata.
MartedĂŹ, turno di mattina
Un respiro
Capitolo 57
Syd Fraser si asciugò il sudore dalla fronte e si appoggiò alla pala. «Sa, quando ho proposto di fare i profanatori di tombe, non intendevo letteralmente». «Allora non avresti dovuto dirlo». Logan infilò nel terreno la punta della pala e la sollevò. Le radici dell’erba si strapparono crepitando, levando nell’aria l’odore ricco del terriccio al di sotto. «Era più un’espressione di supporto morale». «Mi sentirei più supportato moralmente se potessi scavare un po’ di più, grazie». Il sole dell’alba marezzava i giardini posteriori di Fairholme Place, asciugando la pioggia del giorno prima. «A tutte le unità, non dobbiamo più cercare Ronnie Bronowski. È stato trovato sano e salvo con il padre». Syd tirò su un’altra badilata di terriccio. «Sarebbe più semplice, se non dovessimo sempre essere vestiti di nero». Avevano iniziato a scavare gli angoli del rettangolo di erba lussureggiante sul retro del giardino di Klingon. «Ti avevo detto che se volevi potevi metterti una tuta della Scientifica. Quelle sono bianche». «Sì, e sono delle saune portatili. No, grazie». Un altro mucchio di terriccio si unì al resto. «Oh, quanto ti lamenti». Almeno stavano facendo qualcosa, adesso. «Pattuglia Sette, potete parlare?». Logan sollevò l’ultimo pezzo di terriccio erboso dal rettangolo. Premette il pulsante. «Dimmi, Calamity». «Io e Deano siamo stati a Portsoy. I furti con scasso sembrano essere stati effettuati tutti da una sola persona. E ci sono anche delle impronte digitali». «Bene. Mandatele al laboratorio e vedete se riuscite a sentire chi sta controllando Mark Brussels e William Gilcomston. Sono stati condannati entrambi per reati sessuali». «Vuole sapere qualcosa in particolare?» «Tutto il possibile». «Sì, sergente». Syd tirò su una badilata di suolo scuro e grasso. «Lo sa, vero, che potrebbe essere una totale perdita di tempo?» «Non cominciare. È stato già abbastanza difficile convincere l’ispettore a darci questa possibilità». Scava. Scava. Scava. «Guardi il lato positivo, sergente. Al peggio, la madre di Klingon avrà il terreno pronto per piantarci le patate». Lavorarono in silenzio per un po’, a parte qualche sospiro, sibilo e grugnito di fatica. Erano scesi di quasi trenta centimetri, ormai. Syd entrò nella fossa. «Se è davvero un cadavere, chi pensa che possa essere?» «Non saprei. Toby Neish, magari? È scomparso cinque mesi fa». Scava. Scava. Scava. «Come va la testa di Ciuffo?» «Vuota come ieri. Ho ricevuto due lamentele dall’ospedale perché ha detto alle infermiere che poteva mostrare loro il suo “manganello estensibile”». Un’altra badilata di terriccio sul mucchio.
Nel terreno cominciavano a comparire schegge di pietrisco. Come se qualcuno ci avesse versato un sacco di ghiaia. Scava. Scava. Scava. «Ci saremmo dovuti portare qualche lattina di Coca Cola… Sto morendo di sete». Scava. Scava. Thunk. Syd sollevò un sopracciglio. «Ehi, ehi. Pare che abbiamo trovato qualcosa». Conficcò di nuovo la pala nel terreno. Thunk. Poi la spostò leggermente. Thunk. Sorrise, raggiante. «Glielo dicevo io: sono i cani migliori di tutto il paese». Grattarono via il terriccio. Era una cassa di legno, non proprio grande quanto una bara. Ma in fondo non aveva molta importanza, se non si doveva pensare alla dignità e alla comodità di un caro estinto, giusto? «Che ne pensa, sergente? La apriamo e rischiamo di contaminare tutto, o la lasciamo lì e chiamiamo i rinforzi?» «Non ha l’odore di un cadavere». «Ma potrebbe comunque esserlo, se è abbastanza vecchio. Si sarebbe decomposto del tutto». «E allora come avrebbe fatto Lusso ad annusarlo?». Logan batté la pala sul coperchio un paio di volte. «Apriamola». Uscì dalla fossa e cercò qualcosa dalla sacca nel portabagagli della Macchina Grande. Infine ne trasse un piede di porco. «Questo andrà bene». Infilò la parte ricurva della sbarra di metallo nel legno, dove il coperchio si congiungeva al resto della cassa. Vi appoggiò tutto il peso. Niente. Okay, doveva provare a smuoverlo un po’. E poi di nuovo, altra pressione… Prima un piccolo schiocco, poi si sentì uno schianto e infine il coperchio si aprì in un angolo. Non li raggiunse un improvviso tanfo di carne in decomposizione. E non ci volle molto perché il piede di porco facesse il suo lavoro lungo il bordo, sollevando i chiodi che tenevano chiusa la cassa. «Bene, vediamo cosa abbiamo scoperto». Tirarono via il coperchio, appoggiandolo contro la recinzione. Syd sporse le labbra, risucchiando un respiro tra i denti. Poi fischiò. Logan annuì. «A quanto pare, Lusso non è il miglior cane per la ricerca di cadaveri del mondo». Ma comunque era fantastico se si trattava di trovare armi da fuoco ed esplosivi. La cassa conteneva una dozzina di fucili da caccia, quattro fucili a canne mozze, scatole di munizioni e tre pistole semiautomatiche. «Pensi che volessero cominciare una guerra?». «Sì, be’…». L’ispettore Porter piegò la testa di lato, scostandosi i capelli dagli occhi nel gesto, e mostrando le borse che li gonfiavano. Una mano era risalita a grattarsi un neo sulla guancia. «Forse, a ripensarci con il senno di poi, siamo stati un po’ frettolosi nel dichiarare che quella non era più la scena di un crimine». Logan inarcò un sopracciglio. «Ma non mi dica». Si appoggiò alla carta da parati macchiata della cucina di Klingon, osservando le figure anonime in tuta bianca che catalogavano il contenuto della cassa di armi. «Da quel che mi sembra di capire, avrebbero voluto dare vita a un cartello della droga simile a quelli sudamericani qui a Banff. Avrebbero portato la roba via mare e avrebbero sparato a chiunque si mettesse contro di loro. Testimoni, spacciatori rivali e poliziotti». «Che coppia di idioti». «Già». L’ispettore Porter staccò lo sguardo dalla finestra della cucina e occhieggiò in direzione di Logan. «L’ispettore capo McInnes la ringrazia per l’aiuto». «Sì, ne sono certo». Lei arrossì fino alla punta delle orecchie. «Non esageri, sergente. Sto ancora cercando di dissuaderlo dal crearle problemi di carriera. Quella storia di Sammy Wilson è stata…». La donna prese un respiro profondo. «Ma che diavolo le era passato per la mente?»
«Gliel’ho già detto, in tutta sincerità: gli avevo ordinato di smetterla. Sul serio». «Tutta questa faccenda è stata un casino, fin dal principio». La Porter sospirò. «D’accordo, da qui in avanti ci pensiamo noi». Logan si girò e puntò verso la porta della cucina. «E… sergente?». Logan si fermò sulla soglia. «Sì, signora?» «Cerchi di stare lontano da McInnes, per un po’. Tre o quattro anni potrebbero bastare». Syd era appoggiato alla fiancata del furgone dell’Unità Cinofila, a godersi un raggio di sole dorato. Il cielo era attraversato da grandi nuvole violacee, sormontate da pennacchi di nembi grigi, ma al momento il sole splendeva sulla casa di Klingon. Syd abbassò il viso, sollevando una mano a schermarsi gli occhi dalla luce. «Tutto bene?» «Difficile dirlo». Logan aprì lo sportello del passeggero ed entrò nel furgone, accolto da una muraglia solida di puzza di Labrador bagnato. «Torniamo alla stazione, giovanotto, e godiamoci i festeggiamenti a base di tè e biscotti. Se riesco a trovarne qualcuno ben nascosto nella dispensa, s’intende». Si allacciò la cintura e tirò fuori la ricetrasmittente. «Pattuglia Sette, potete parlare?». La voce della Nicholson si fece sentire dal ricevitore. «Prego, sergente». «Qui da Klingon abbiamo finito. Voi come ve la state cavando con quei nomi?». Syd si allontanò dal marciapiede, fece una rapida inversione in tre tempi e tornò verso il centro cittadino. «Mark Brussels. Reati sessuali in serie, ha molestato almeno ventitré bambini, maschi e femmine, nel giro di dieci anni, nessuno sopra agli otto anni. Ha passato sedici anni in diverse prigioni in tutto il paese. Continuavano a minacciarlo di morte, quindi l’hanno trasferito più volte. Qualcuno a Shotts gli ha inciso i nomi di tutte le sue vittime sulla pelle con un cucchiaio affilato. Ci sono volute tre ore, a quanto pare. Brussels è quasi morto per lo shock e l’emorragia». «Chi lo sta controllando?» «Resterà sul registro a vita, ma ha ottenuto punteggi molto bassi per un paio di anni, quindi hanno iniziato a controllarlo di meno». «Non ci sono tracce di possibili reati recenti?» «L’agente che lo segue dice che non avrebbero allentato la supervisione, se ce ne fossero state». Giustamente. «E Gilcomston?» «Dottor William Harris Gilcomston, radiato dall’albo dei medici. Non può stare a meno di trecento metri da una scuola. È stato otto anni nel carcere di Peterhead per aver molestato delle bambine nel suo studio medico. Praticava esami molto dettagliati e del tutto inutili. La più piccola aveva quattro anni, la più grande nove. Quest’ultima si è suicidata gettandosi dall’Union Terrace Bridge quando aveva quasi dieci anni. L’aveva molestata già per cinque anni, a quel punto». Le case sfilavano lungo i finestrini del furgone. Un arcobaleno si staccava dal ponte sul Deveron, superando Macduff e svanendo tra le nuvole livide. «Pronto? Calamity, sei ancora lì?» «Mi scusi, sergente. È solo che… queste persone, come Gilcomston e Brussels, sa…». «Parlami dei controlli su di lui». «Lo controllano ogni settimana. Ancora nega di aver fatto qualcosa di male, e non si prende la responsabilità delle sue azioni. È ostile con gli agenti che lo seguono e continua a ripetere di essere lui la vittima». «Verrebbe da pensare che ormai dovrebbe conoscere le regole del gioco, no? E invece…». «Certa gente si crede intoccabile». E poi arrivava Charles Anderson a farli ricredere. «Okay, grazie». Rimise al suo posto la ricetrasmittente.
Ovviamente, se fossero stati ancora i bei vecchi tempi, avrebbero potuto arrestare Gilcomston e Brussels. Sbatterli in cella e torchiarli per un po’. Scoprire chi avrebbe ceduto per primo. Ma ormai non era più legale comportarsi così. Ed era diventato dannatamente difficile far cedere qualcuno con un avvocato lì accanto che continuava a ripetere di non dire nulla. Né avevano le prove necessarie a un arresto. Sì, Vostro Onore, ci servirebbe un mandato. Perché? Be’, un tizio che credevamo morto mi ha detto che l’accusato aveva fatto una colletta con altri due pedofili per comprare una bambina e dividersela. Solo che quegli altri due ora sono morti. Cosa? Sta chiamando la sicurezza? Sono sospeso? Oh, santo cielo… «…lì tutto il giorno?» «Eh?». Logan si accigliò. Syd lo stava guardando come se si aspettasse una risposta. «Ehm… in che senso?» «In che senso cosa? Siamo arrivati. Vuole scendere o no?». Ah, giusto. «Stasera festeggeremo l’arresto della gang dei rapinatori delle casse e dell’uomo che ha sparato all’agente Nasrallah. Se vuoi venire, sei il benvenuto. Aggiungeremo la scoperta del carico di armi di Klingon e Gerbillo alla lista dei successi della Divisione b». Scese dal furgone. «L’ispettore McGregor offrirà le patatine a tutti». «Non mancherei per niente al mondo. Be’, ora sarà meglio che torni al lavoro. Ho dei boschi da controllare, alla ricerca di un ragazzino di otto anni scomparso. Può finire solo in due modi». Logan chiuse lo sportello e il furgone svoltò a destra, oltre il parcheggio, e di nuovo a destra, puntando verso Macduff. Anche se minacciava pioggia, una coppia passeggiava con il cane sulla sabbia della baia, lanciando bastoncini all’animale, che abbaiava allegro. Un giovane lo superò, con la sigaretta all’angolo della bocca e le braccia piene di tatuaggi, spingendo un passeggino con un bimbetto urlante. Una giovane donna magra se ne stava appoggiata al frangiflutti, dove di solito si sistemava Helen. Solo che lei aveva i capelli neri, lunghi fino alle spalle, invece dei riccioli biondo cenere di Helen. Probabilmente non li avrebbe rivisti mai più. Logan tirò fuori il cellulare, con le dita a mezz’aria sopra la lista dei contatti. Poi lo rimise via ed entrò nella stazione. Non l’avrebbe chiamata lui per primo. La stazione di polizia di Banff era tranquilla e silenziosa, per una volta. Si udiva soltanto il ronzio della fotocopiatrice. Maggie alzò lo sguardo, colta nell’atto di infilare un altro foglio nella macchina. «Sergente McRae, ho preso quelle penne che aveva chiesto. E c’è qualcuno che la aspetta in ufficio». Logan restò dov’era. Abbassò la voce a un sussurro. «Chi è?». La voce rauca e graffiante dell’ispettore capo Steel riempì la stanza. «E chi diavolo pensi che possa essere? La tua dannata fata madrina venuta a esaudire tre desideri?» «Maggie, ci serve un segnale concordato. Appendi un calzino alla finestra, se c’è qualcuno di orribile nel mio ufficio, così vedrò di stare alla larga». «Guarda che ti ho sentito!». «E infatti volevo che sentisse». Logan entrò nell’ufficio dei sergenti e si sfilò il giubbotto antiproiettile. «Cosa vuole?» «Oggi pomeriggio Finnie verrà a trovarmi. A quanto pare, non sto facendo abbastanza progressi sul caso di Tarlair». «Oh». Lui si sedette alla scrivania. Aggrottò la fronte. «Che ne dice di Mark Brussels e del dottor Gilcomston? Li ha già arrestati?». Lei si afflosciò sulla sedia di fronte alla scrivania. «E perché, solo perché tu pensi di aver visto qualcosa in una casa che è andata in fumo? Non essere…».
«Per quello che ha detto Charles Anderson ieri notte. È tutto nel rapporto». «Quale rapporto?» «Quello che le ho mandato. Santo cielo, non sa neanche…». «E da quando ti risulta che io legga i rapporti? Se vuoi farmi sapere qualcosa, vieni a dirmelo in faccia, no?». Logan alzò lo sguardo al soffitto, per qualche istante. «Ogni stramaledetta volta…». Poi tornò a guardare la Steel. «Charles Anderson dice che Gilcomston e Brussels facevano parte di un gruppo di pedofili che ha comprato la bambina. E poi l’hanno uccisa». «Tutto qui? È tutto quello che hai? Le convinzioni di un morto?» «Sempre meglio di quello che ha in mano lei». Seguì con un dito un graffio sul pianale della scrivania, grattando l’impiallacciatura fino al compensato al di sotto. «Dovremmo controllarli di nuovo. Loro, Liam Barden e Neil Wood». La Steel si coprì il viso con le mani. «Neil Wood è il mio incubo peggiore. Secondo soltanto a te». «E allora diamo un’occhiata più approfondita, coraggio. Parliamo con amici e vicini. Almeno, sembrerà che stia facendo qualcosa, quando Finnie arriverà». Logan spense il motore e scese dalla macchina su Firth Place. Aveva smesso di piovere, e l’asfalto era umido e scintillante. Piccole pozzanghere si estendevano vicino al rigagnolo. Sopra di loro, il cielo era grigio come un sudario. La Steel sbatté lo sportello della macchina. «Secondo me è comunque una perdita di tempo». Logan premette il pulsante della chiusura centralizzata e attraversò la strada per raggiungere la casa di Mark Brussels. Si attaccò al campanello. «Sempre meglio che starsene seduti a non fare nulla». La casa di Brussels era avvolta nel silenzio. Le tende erano chiuse. Logan riprovò a suonare, aspettando. «Te l’avevo detto. Non è neanche in casa». «Deve proprio lamentarsi di tutto?». Logan bussò tre volte, sempre più forte. Nessuna risposta. Sollevò il battente della buca delle lettere. «mr brussels? c’è nessuno?» «Non vedo cosa vorresti ottenere a giocare al postino con Mark Brussels. Senza un mandato, poi». «Vuole che torniamo alla stazione e ci giriamo i pollici fino all’arrivo di Finnie, oppure vuole fare qualcosa in merito?». Ancora un tentativo: «mr brussels?». Logan si raddrizzò. «Proviamo a vedere sul retro». Superarono un cancello sul lato della casa, e percorsero il vialetto del giardino sul retro: un rettangolo di erba alta circondato da cardi e cespugli di ribes. Una malandata porta di legno era socchiusa di qualche centimetro, rivelando una stanzetta vuota. «Mr Brussels?». Logan si infilò un paio di guanti di nitrile azzurro e spinse la porta, aprendola del tutto. «È lì?». L’odore di candeggina e detersivi si sparse nel giardino. Una pozza d’acqua si allargava sul linoleum raggiungendo la porta sul retro. «Mr Brussels? È la polizia». «Oh, piantala di esitare. Non abbiamo tutto il giorno». La Steel lo superò, entrando nella stanza e poi nella cucina poco oltre. «Forza! Esci fuori! Esci fuori, ovunque tu sia!». Lui la seguì in una cucina dall’aspetto antiquato, con i pensili dipinti e i fornelli elettrici. «Il gioco è finito, tana libera tutti». Logan uscì sul corridoio. L’odore di candeggina era più forte, lì, e una parte di moquette alla base delle scale era di un colore diverso, rispetto al resto: pallido e ingiallito. Lui aprì la porta del soggiorno.
Era identico a come l’avevano lasciato la settimana prima. L’orologio sulla cappa, il televisore acceso con il volume a zero. Il piccolo terrier sdraiato sul cuscino a scacchi in un angolo. L’unica differenza era che questa volta non russava e non scalciava nel sonno, ma giaceva perfettamente immobile. Nessun rumore. Non sembrava respirare. La Steel entrò nella stanza, con le mani in tasca. «Be’, sembra che Marky non sia in casa». «Il cane è morto». «No…». La Steel fece una smorfia dispiaciuta. «Povera bestiola. Passa tutta la sua esistenza con Brussels, senza avere la minima idea di che razza di pervertito sia il suo padrone. E poi muore. Che vita di merda, eh?». Tirò su con il naso. «Forse è uscito per comprare una piccola bara al cane?» «Sì, forse». O forse Charles Anderson gli aveva fatto visita, coprendo le sue tracce con la candeggina, subito dopo. «Può darmi un minuto? Vorrei chiamare Ciuffo. Assicurarmi che stia bene, dopo il colpo in testa di ieri». «Prego, esci pure». La Steel si sedette sulla poltrona di Brussels, davanti alla tv, e raccolse il telecomando. Poi premette i pulsanti finché una donna in bikini non comparve sullo schermo, pronta a colpire la pallina con la sua mazza da golf. Logan uscì nel giardino sul retro. Tirò fuori il cellulare e recuperò le ultime chiamate. Il numero che stava cercando era proprio lì: una chiamata in arrivo, alle undici e trentacinque della notte precedente. Premette il pulsante di chiamata e lasciò che squillasse. Si guardò alle spalle per controllare che la Steel non lo stesse guardando dalla finestra della cucina. Avanti, avanti… «Pronto?» «Dove sei?». Logan tenne la voce bassa. «Chi è?» «Abbiamo parlato ieri notte, ricordi? Tu eri su una barca e io sul muro del porto, a farmi inzuppare dalle onde». «Se stai cercando di rintracciare la chiamata, sei…». «Non lo sto facendo». «Non appena attaccherò, distruggerò la sim di questo cellulare». «Sto cercando Mark Brussels». «Ah… non può rispondere, in questo momento. Vuoi lasciargli un messaggio?». Logan si allontanò dalla casa, attraversando il giardino. «Qualunque cosa tu stia facendo, smettila. Okay? Fermati. Basta». «È quello che ho detto io a lui. E vuoi sapere cosa mi ha detto lui?». Silenzio. «Cosa?» «Mi ha raccontato del Mercato del Bestiame. Mi ha detto di essersi recato in un fienile, nel bel mezzo della notte, e di aver preso una bambina in vendita. Mi ha detto tante cose interessanti che a voi non avrebbe mai detto». Logan ricontrollò la finestra della cucina. Niente Steel. «E allora dimmele tu. Dimmi dove si trova questo posto, chi lo gestisce, e io farò in modo che spariscano per tanto, tantissimo tempo». L’uomo rise. «Pensi davvero che potrei fidarmi di te?» «Certo che dovresti, maledizione!». Silenzio. Un’auto passò sulla strada, fuori dal giardino. Una pioggerellina sottile prese ad accarezzare il viso di Logan con le sue dita umide. «Pronto?»
«Non so dove si trova. Si spostano di continuo. Occupano i fienili in giro per le campagne. A volte sono fienili di gente come loro, altre volte li affittano anonimamente. Se sei del giro, ti mandano un messaggio per sapere dove andare e quando. Si paga solo in contanti». «E quando ci sarà la prossima vendita?» «Brussels non lo sa, ma probabilmente passeranno almeno un paio di mesi. E non sa neanche chi è che la gestisce. Cambia ogni volta». Be’, questo non era di grande aiuto. Logan iniziò a passeggiare avanti e indietro lungo la recinzione. «Chi l’ha uccisa?». Niente. «Avanti, Charles, uno di loro deve pur saperlo». Un sospiro si udì dall’altra parte della linea. «Ognuno di loro punta il dito contro gli altri. Be’, finché hanno ancora dita da puntare, se non altro. Ma non importa. Sono tutti colpevoli. E tutti devono essere puniti». Logan si fermò. Fissò l’erba umida ai suoi piedi. «Non deve andare per forza così, Charles». «Invece sì». La linea si zittì. Charles Anderson aveva attaccato. Logan si appoggiò alla porta. «È pronta?» «Un momento, Britney sta tentando di andare in buca». La Steel si piegò in avanti sulla poltrona, con i gomiti sulle ginocchia e le dita intrecciate insieme. «Avanti, Britney, controlla il green per zia Roberta… Oh, sì…». Lui si guardò le unghie. «Se fosse per lei, lascerebbe uscire i pedofili di prigione? O li rinchiuderebbe per sempre?» «Se fosse per me? Oh, li castrerei, quei bastardi. E gli farei indossare il pisello tagliato intorno al collo in una bella provetta, così tutti saprebbero quello che hanno fatto. Fammi conoscere un agente di polizia che la pensa diversamente e ti dimostrerò che non ha figli o sta cercando di ottenere una promozione». La Steel si strinse nelle spalle. «O magari è un coglione. O forse tutte e tre le cose insieme». «È ora di andare». Logan prese il telecomando e spense la tv. «Andiamo a vedere se il dottor Gilcomston è in casa». La Steel accennò al cuscino a scacchi. «E che ne facciamo del migliore amico dell’uomo?». Un moscone si posò sul piccolo corpo bianco e marrone. «Non andrà da nessuna parte». Dopotutto, era difficile che Mark Brussels potesse tornare a casa molto presto. Probabilmente non sarebbe tornato mai più.
Capitolo 58
«Be’, questo sì che è divertente». La Steel spostò indietro il sedile del passeggero e piazzò i piedi sul cruscotto. «Dovremmo farlo più spesso». Dall’altro lato della strada, la grande casa di granito di Gilcomston si intravedeva dietro il sipario parziale di alberi e cespugli. «Non doveva venire per forza». La voce della Steel si alzò di un’ottava. «Ooh, guardatemi tutti, mi chiamo Logan, credo proprio che dovremmo starcene seduti fuori della casa del Pedo-iatra per mezz’ora come due idioti». «Quella dovrebbe essere una mia imitazione? E comunque siamo qui soltanto da dieci minuti». Lei gli rivolse una pernacchia. «Mi sto annoiando». «Davvero? Perché non si direbbe affatto». Il vento scosse gli alberi di sicomoro, spedendo una cascata di gocce giù dalle loro foglie. Sopra di loro, il cielo sembrava sempre più scuro e minaccioso. «Pattuglia Sette, potete parlare». «Dimmi, Maggie». «Hanno avvistato di nuovo Catherine e David Bisset: al Waverley Centre. La polizia di Edimburgo sta investigando in merito». Probabilmente era l’ennesima perdita di tempo, ma valeva la pena fare un tentativo. «C’è altro?» «Sì. L’agente Quirrel si è presentato al lavoro. Lo devo far entrare o lo rimando a casa?» «Ti sembra che stia bene?». Lei abbassò la voce. «Indossa un distintivo con la scritta “genio”, sopra, solo che è scritto “gienio”». «Se l’ispettore McGregor non ha obiezioni, lascialo entrare. Ma assicurati che resti incollato a Deano per tutto il giorno. Non voglio che se ne vada in giro da solo». «D’accordo». Logan rimise a posto la ricetrasmittente. La Steel lo stava fissando. Poi strinse gli occhi. «Che c’è?» «Pensavo che prima gli avessi telefonato, quando eravamo a casa di Mark Brussels». «Mi fido più di Maggie che di lui. Se lei dice che sta bene, vuol dire che sta bene». La Steel incrociò le braccia sul petto e rovesciò indietro la testa. «Non potrei essere più annoiata neanche se ci provassi». «Guardi che lo stiamo facendo per lei! È il suo caso, ricorda?» «E allora buttiamo giù la porta e saccheggiamo quella casa!». Una taccola attraversò il vialetto saltellando. «Non abbiamo un mandato». «E allora non ha alcun senso starcene qui ad aspettare. Difficilmente uscirà e ci inviterà a pranzo e a guardare la sua collezione di foto porno di bambini, ti pare?». La Steel tolse i piedi dal cruscotto. «Sai cosa? Basta così. Torniamo all’ovile». Logan aprì lo sportello e uscì in strada. «Ehi! Ho appena detto che torniamo all’ovile».
Lui richiuse lo sportello e attraversò la strada. Si fermò all’imbocco del vialetto di Gilcomston. Avanzò di qualche passo, osservando la casa. Nessun segno di vita. Provò dall’altra parte del vialetto. Si fermò sul bordo del marciapiede. Da lì, appena fuori dall’angolo a sinistra della proprietà, poteva vedere chiaramente, attraverso le foglie di un cespuglio di rododendri, un garage distaccato dalla casa, con una doppia porta nera. Era difficile dirlo con certezza, senza la fotografia di riferimento, ma sembrava il punto da cui Charles Anderson aveva scattato la foto della bambina uccisa, prima che ricomparisse a faccia in giù nella piscina di Tarlair. Logan sganciò la ricetrasmittente dal giubbotto antiproiettile. La Steel aveva ragione, serviva un mandato. Ovviamente, Charles Anderson non ne aveva bisogno. Non doveva seguire le procedure indiziarie, lui. Non aveva a che fare con viscidi avvocati pronti a mandare a monte interi processi sulla base di un cavillo. Lui non avrebbe permesso a gente come Graham Stirling di tornare a piede libero. Non doveva preoccuparsi di… Un potente breeeeeeeeeeeeep risuonò dalla Macchina Grande. Santo cielo, era come fare il babysitter a una bambina ubriaca. Logan fece per tornare indietro, poi si fermò. Fissò la strada. Una vecchia Jaguar verde stava risalendo la collina verso di lui, con il dottor Gilcomston al volante. La macchina non rallentò, svoltando sul vialetto, e fece scricchiolare la ghiaia sotto le ruote. Logan la seguì a passo di marcia. Lo sportello del guidatore si aprì con un cigolio, e Gilcomston ne uscì. Spalle dritte, mento alto, con un’espressione sussiegosa sul volto. «Queste sono molestie. Ho già sporto denuncia contro di lei e quella donna. E adesso se ne vada dalla mia proprietà. Non ho nient’altro da dirle». Il cardigan di quel giorno era viola. L’uomo aggirò la Jaguar e ne aprì il portabagagli. Recuperò delle buste di plastica del supermercato e lo richiuse. «Lo sappiamo». Gilcomston raccolse le buste e si avviò verso la porta, facendo scricchiolare la ghiaia del vialetto sotto le scarpe. Un soffio di vento gli arruffò i capelli grigi. «Sappiamo di lei, e di Mark Brussels, e di Neil Wood, e di Liam Barden. Sappiamo della bambina che avevate comprato». Gilcomston si fermò, con un piede sul primo gradino della soglia. «Non so di cosa stia parlando». «Aveva sei anni. Lei la chiamava “Cherry”. L’ha scelta lei, o l’avete messa ai voti?» «Chiunque le abbia detto una cosa del genere sta mentendo. Non ho niente a che fare con questa storia». «E non siamo gli unici a saperlo. C’è una persona che prende di mira la gente come lei. E ormai lei è l’ultimo rimasto del gruppo». Lo sguardo dell’uomo scattò verso il garage e le porte nere. «La prego di andarsene subito dalla mia proprietà». «Neil Wood è morto. Liam Barden è morto. Mark Brussels è scomparso, e probabilmente farà presto la loro stessa fine. È rimasto solo lei». Gilcomston posò le buste sulla soglia e prese le chiavi. «Quanto tempo pensa che passerà, prima che arrivi anche a lei?». L’uomo aprì la porta. «Sono forse agli arresti?» «Potrebbe scegliere di venire con noi e confessare tutto. E noi potremmo garantirle protezione». «Se non sono in arresto, se ne può andare». Entrò in casa e chiuse la porta con un tonfo. Certa gente si crede intoccabile.
Certa gente aveva bisogno di una lezione, a volte. Logan premette il pulsante sulla ricetrasmittente. «Pattuglia Sette a Bravo India, può parlare?». La voce dell’ispettore McGregor si fece sentire dall’altoparlante. «Che succede?» «Ci serve un’operazione di sorveglianza: dottor William Harris Gilcomston, vive al numero diciotto di Firth Place, a Macduff. Mi serve una pattuglia che lo controlli ventiquattro ore su ventiquattro per una settimana. Una settimana e mezzo. A partire da ora». «Stai scherzando, vero? Mi stai parlando di qualcosa come un minimo di duecentocinquanta oreuomo. Hai idea di quanto costerebbe?» «Potrebbe essere la nostra unica possibilità di arrestare Charles Anderson». Un sospiro. «Se fosse per me ti direi di farlo, ma non ho personale a sufficienza, Logan. Posso provare a parlarne al comandante d’area, ma ci vorrà un po’ di tempo per far approvare un’operazione di questa portata. Due o tre giorni, come minimo». E a quel punto, con tutta probabilità Gilcomston sarebbe già morto. Forse era meglio così. Charles Anderson sarebbe arrivato e si sarebbe portato via Gilcomston per fare due dolorose chiacchiere con lui. E poi avrebbe gettato in mare quello che rimaneva di quel viscido, malvagio individuo. Non sarebbe stata una grande perdita per l’umanità… Eppure… Logan gonfiò le guance e si lasciò sfuggire un lento sospiro. Esisteva un modo per salvare la vita a quel bastardo arrogante. Non era molto etico, forse, ma comunque poteva funzionare. «Okay, grazie, capo. Mi faccia sapere come va a finire». Riagganciò la ricetrasmittente alla spalla. «Hai finito di perdere tempo?». Logan si girò e vide la Steel, con la solita sigaretta elettronica in bocca. Lui accennò alla casa. «Ispettore capo, è stata la mia immaginazione, o è parso anche a lei che il dottor Gilcomston fosse un po’ incerto sulle gambe, quando è uscito dalla macchina?» «Cosa?». Lei rialzò la testa. «Perché parli così? Sembra quasi che ti sia ingoiato il taccuino». «Temo che possa aver guidato sotto l’influenza di alcol o droghe». Logan premette il campanello. Poi bussò tre volte, da bravo agente di polizia. Si fece indietro e attivò la telecamera che indossava. «Sei impazzito, Laz?». La porta si aprì di scatto, e Gilcomston si fermò sulla soglia, fulminandoli con lo sguardo. «Credevo di essere stato perfettamente chiaro, sergente. Voglio che lasci subito la mia proprietà». Logan si avvicinò alla Jaguar, tenendo le mani infilate nelle tasche del giubbotto antiproiettile. «Questo veicolo è suo, signore?» «Certo che sì. E bollo e assicurazione sono a posto». «Capisco». Logan gli sorrise. «Per caso ha bevuto, signore? Perché mi sembra un po’ malfermo sulle gambe». «Non ho bevuto. Come osa venire qui ad accusarmi?». Gilcomston avanzò sul vialetto e puntò l’indice contro Logan. «Voglio il suo distintivo! O qualunque cosa vi portiate dietro voi infimi fascisti!». «Signore, ho motivo di sospettare che lei stesse guidando sotto l’influenza di alcol o droghe, in contravvenzione alla Sezione Due del Codice della Strada 1988. È sicuro di non aver bevuto?» «gliel’ho appena detto!». Gilcomston avvampò in volto, serrando i pugni contro i fianchi, con le braccia che tremavano. La Steel inarcò un sopracciglio. «Ohi, ohi, qualcuno qui non ha preso le sue pillole della felicità, ultimamente». «Se non ha bevuto, signore, posso soltanto concludere che potrebbe aver assunto, ed essere in possesso di sostanze stupefacenti».
«Non ho alcuna intenzione di starmene qui a sentire certe sciocchezze!». «Signore, la devo trattenere secondo la Sezione Ventitré dell’Articolo 1971 sull’abuso di droga, e procederò a perquisirla. Ha qualcosa in tasca di cui dovrei essere a conoscenza? Coltelli, aghi, lamette?» «Lei non mi perquisirà affatto! Voglio parlare subito con un suo superiore». La Steel gli rivolse un sogghigno. «Che sarei io. Giovane Logan, procedi pure alla perquisizione. Sperando che il signor Pedo-iatra, qui, non protesti troppo». Ammiccò. «Sono meglio di Shakespeare, quando mi ci metto. Non trovi?» «La prego di allargare le braccia, signore». Logan si infilò un paio di guanti di nitrile azzurro. «Mi assicurerò personalmente che voi due non lavoriate mai più. Mi avete sentito?» «Sì, signore. E adesso, la prego di allargare le braccia». Logan passò le mani lungo le maniche del cardigan di Gilcomston, poi lungo i pantaloni di velluto. Controllò i risvolti. Poi le tasche del cardigan. La sinistra conteneva una pipa e una confezione di tabacco. La destra una scatola di fiammiferi. «Bene, bene, bene. Potrebbe spiegarci cos’è questa, signore?». Logan sollevò una bustina di plastica con della polvere marrone all’interno. Molto simile a quella che aveva confiscato a Kirstin Rattray quando stava andando al compleanno della figlia per portarle il costume da principessa delle fate. Identica, in effetti. «Io… io non ho mai…». Il volto di Gilcomston si oscurò di nuovo. «sei stato tu a mettermela in tasca!». E a quel punto si lanciò verso Logan, sollevando un pugno. Logan lo afferrò per il braccio sollevato, gli bloccò il polso e lo sbatté di petto contro lo sportello della Jaguar. «lasciami! ti ammazzo!». «Possesso di droghe pesanti, resistenza all’arresto, minacce di morte». Logan lo ammanettò. «William Gilcomston, lei è in arresto secondo la Sezione Quattordici della Procedura Penale di Scozia, Atto 1995, perché sospetto che abbia commesso un reato punibile con l’incarcerazione…». Il vento mandò uno spruzzo di pioggia contro la finestra dell’ufficio dei sergenti. All’esterno, Fraserburgh era assediata da un cielo pieno di nuvole nere. Logan incastrò il telefono tra l’orecchio e la spalla e passò il pollice lungo la carta stagnola intorno ai due pezzi di KitKat. «Abbiamo fatto un primo controllo e si tratta sicuramente di eroina». L’agente dall’altra parte della linea sospirò. «Non pensavo potesse fare uso di droghe, ma immagino ci sia una prima volta per tutto». Aveva una voce calda, morbida e gentile. Quel genere di voce che sarebbe stato bene con cioccolata calda e marshmallows. Uno scatto, e i due pezzi di snack si separarono. «Mi stavo chiedendo: questa è forse una violazione del suo regime di controllo?» «Non esplicitamente. Ma considerando quanto è sempre stato ostile, non è un buon segno. Ha ammesso il possesso?» «Perché, ha mai riconosciuto qualcuna delle sue responsabilità?». Logan prese un morso di KitKat, succhiando il cioccolato dal wafer. «Non che io sappia. Lo si potrebbe sorprendere a farti pipì in una scarpa e ti direbbe che è stato qualcun altro». La sedia girevole dondolò a sinistra, poi a destra, poi di nuovo a sinistra. «Mi puoi fare un favore? Puoi ottenere un mandato di perquisizione per la sua casa? Se ha cominciato a fare uso di stupefacenti, magari potrebbe aver fatto anche altro». Ci fu una pausa. Logan masticò il resto del pezzo e passò al secondo. «Sai forse qualcosa che io non so?» «Be’… diciamo che potrebbe valere la pena di dare un’occhiata, prima che esca e faccia sparire qualsiasi cosa possa nascondere lì dentro».
«Vedrò cosa posso fare». La porta si aprì e la Steel entrò nella stanza, sistemandosi la cintura. «Ti stai facendo dare un mandato?». Lui posò una mano sporca di cioccolato sul ricevitore. «L’Unità Controllo Pregiudicati se ne sta occupando. Potremmo andare con loro, se le va». Qualche piccola ruga comparve tra le sopracciglia della Steel. «Come mai non lo stai facendo tu?» «È stato condannato per reati sessuali. Pensavo avesse più senso lasciare la faccenda nelle loro mani». E non era un male lasciare che ci fosse un bel po’ di distanza tra lui e quel mandato di perquisizione. «Oh, no. Non puoi farlo. Sono io che devo decidere». Lui tornò al telefono. «Puoi avvertire l’ispettore capo Steel quando sarete pronti a perquisire la casa? Lei lo sta tenendo d’occhio per altri motivi. Le piacerebbe partecipare». «Certamente». Logan rimise giù la cornetta. Accartocciò la confezione di stagnola e la lanciò nel cestino della carta straccia. «È pronta a tornare all’ovile? L’avvocato di Gilcomston non si presenterà prima delle tre». La Steel si appoggiò al bordo della scrivania. «Non pensi che sia un po’ troppo una coincidenza? Ti sembra che sia malfermo sulle gambe, lo perquisisci e alleluia, lode al Signore, trovi una bustina di eroina». Logan non la guardò, raccogliendo le sue cose. «A volte serve un pizzico di fortuna». Okay, non era stata una mossa molto etica. E se qualcuno lo avesse scoperto, sarebbe stato licenziato e querelato. Ma probabilmente aveva appena salvato la vita a William Gilcomston. Lei lo stava ancora fissando. «Che c’è?». La Steel tirò fuori la sigaretta elettronica e la accese. Prese un tiro. «Niente». Logan entrò nella stazione di Banff dalla porta laterale. «No. La foto è stata scattata fuori dalla casa di Gilcomston. Questo significa che la bambina era lì. Dovrebbe esserci qualche traccia. dna. Magari delle foto». La Steel lo seguì nella mensa. «Sarà difficile accusarlo dell’omicidio. Anche se troviamo qualcosa nella casa, di sicuro incolperà qualcuno degli altri». Logan prese un paio di tazze dalla credenza. «Possiamo sempre accusarlo di aver abusato di lei. Magari potremmo ottenere un concorso in omicidio». «Be’, non ci servirebbe a molto, non trovi? Io voglio inchiodare qualcuno per l’omicidio di quella bambina, non limitarmi a un’accusa di pedofilia». «Non posso tirare fuori un testimone dal cappello, mi spiace». Logan prese le bustine del tè. «E invece ci riesci con una bustina di eroina? No, perché…». Il cellulare di Logan squillò, dalla tasca. Ci era mancato un pelo. «McRae». Sentì qualcosa come una canzone in sottofondo, poi una voce: «Logan? Sono Helen. Helen Edwards…». «Un secondo». Posò la mano sul ricevitore. «Devo rispondere». La Steel incrociò le braccia. «Certo, fai pure». «In privato». «Non mi muovo da qui». «D’accordo. Allora ci pensi lei al tè». Logan si girò e uscì dalla mensa. «Scusa. Avevo gente intorno». «No, scusami tu per essere scappata via in quel modo. Non volevo andarmene senza parlarti, ma non c’era più tempo e dovevo prendere l’autobus, altrimenti avrei perso il treno. Ti ho aspettato fino all’ultimo momento utile».
«Avresti potuto chiamarmi!». «Lo so. Ci ho provato, ma… Mi dispiace. Davvero, mi dispiace tanto». Logan si sentì piombare sulle spalle un peso enorme, che le fece abbassare verso terra. «Sì. Dispiace anche a me». Un gruppo di gabbiani passò stridendo sulla baia, le ali che scintillavano come diamanti quando venivano sfiorate da un raggio di sole, per poi tornare grigie subito dopo. Lui si schiarì la gola. «Quindi… Sei andata a Gwent, in Galles». «Mi ci è voluta tutta la notte e un’intera mattina per arrivarci. Ora sono alla stazione di polizia locale». «Be’… assicurati che stavolta ti diano una stanza in un Bed & Breakfast. Non aspettare che un bravo poliziotto ti ospiti a casa sua». «Logan, ti giuro che mi dispiace». Una o due macchine passarono lungo la strada. Un uomo brutto attraversò, tenendo per mano un bambino ancora più brutto. Quel silenzio imbarazzato si protrasse. «Va tutto bene. Sapevamo che sarebbe successo, prima o dopo. Ma speravo che avremmo avuto un po’ più di tempo per noi, prima che accadesse». «E non hai più posto per me in casa tua del resto, no? Ora che hai degli ospiti, non c’è bisogno che io ti stia tra i piedi». «Tra i piedi? Helen, tu non hai mai…». Logan si accigliò. «Scusami… io avrei degli ospiti?» «Certo che sì». «Non stai parlando della Steel, vero? Perché se parli di lei, credimi, può baciarmi il…» «No, parlo dei cugini di Samantha. Sono venuti ieri, mentre ti aspettavo». Helen fece un suono sibilante, come se stesse succhiando aria tra i denti. «È stato un po’ strano, e imbarazzante, a dire il vero. Hanno fatto domande su di lei, su come stava e se la casa di cura era valida, e io non riuscivo a pensare ad altro se non “Ho dormito con il suo fidanzato”». I cugini di Samantha? «Samantha non ha cugini. Sua madre era figlia unica e anche suo padre. Sei sicura che abbiano detto…». «Certo che sì. Un ragazzo e una ragazza. Lui potrebbe avere… forse sui sedici anni. E lei quattordici. Sembravano entrambi molto affamati, così ho fritto dei bastoncini di pesce e ho preparato fagioli e patatine. Avrei lavato anche i piatti, ma non ho fatto in tempo e…». «Helen, è molto importante. Sapresti descrivermeli?» «Be’, erano molto magri. Avevano i capelli neri, con lo stesso taglio, lunghi fino alle spalle e lisci. Entrambi avevano un accento… penso di Aberdeen». No. No. No. No. La giovane donna che aveva visto appoggiata al frangiflutti quella notte. Magra. Con i capelli neri lunghi fino alle spalle. E Samantha non aveva cugini. Alzò lo sguardo. La ragazza era ancora lì, appoggiata al muretto di cemento. Aveva addosso un giubbotto in denim, un paio di jeans neri, grandi scarpe da ginnastica bianche. Il viso pallido e immobile. Catherine Bisset. La figlia di Stephen Bisset. La giovane donna che aveva aiutato il fratello a uccidere suo padre. E che probabilmente lo aveva incitato mentre lui uccideva Graham Stirling. O forse si era unita al massacro? Logan si sentì stringere la gola in un nodo. Era entrata in casa sua, aveva fatto domande su Samantha. Uscì in strada.
Capitolo 59
Il sole inondava le case dall’altra parte della baia, facendole scintillare contro la collina. Poi le nuvole si chiusero, facendole piombare di nuovo nella penombra. Logan si fermò davanti a Catherine. «Non si avvicini oltre». Lei sollevò un cellulare. «C’è David, dall’altra parte». Aveva le guance e il naso arrossati. Era più magra dell’ultima volta in cui l’aveva vista, fuori dal tribunale, prima della chiusura del procedimento contro Graham Stirling. Prima che a tutta quella storia si aggiungessero due cadaveri. Lui fece per prendere le manette attaccate alla cintura. «Cosa avete fatto?» «Com’è che funziona? Ha una fidanzata in coma e un’altra in casa con lei. Non ha mai sentito parlare di fedeltà?» «Catherine. Cosa… avete… fatto?» «Abbiamo chiacchierato a lungo con Helen, ieri. Abbiamo scoperto parecchie cose interessanti». «Catherine Bisset, sei in arresto secondo la Sezione Quattordici della Procedura Penale di Scozia…». «No, non ci pensi neppure». Scosse appena il cellulare. «David, ricorda? Non vuole sapere dov’è?». Logan si sentì riempire la bocca di sabbia. «Dov’è?» «Ha mentito su nostro padre, vero? Ha mentito e lo ha fatto sotto giuramento». «Io ho cercato di salvarlo. Lui…». «ha detto a tutti che era un pervertito!». La saliva spruzzò fuori dalle labbra sottili della ragazza. Poi si riprese con un paio di profondi respiri. «David ha ragione: lei ha mentito». I gabbiani si lasciavano trasportare dal vento sopra di loro, gridando nell’ultimo raggio di sole che ancora non era stato inghiottito dalle nuvole. Sulla sabbia, giù nella baia, la coppia con il cane allegro si girò e tornò verso casa. «Si trova nella casa di cura, vero?». Logan tirò fuori il cellulare e aprì la rubrica. Premette il contatto denominato “sunny glen” e aspettò che squillasse. «Questa non è una serie tv, non potete…». «Casa di cura Sunny Glen, come posso aiutarla?». Catherine aggrottò le sopracciglia, sporgendo il labbro inferiore come se stesse per piangere. «Louise, sono Logan McRae. Qualcuno è venuto a trovare Samantha, oggi?». Il labbro inferiore di Catherine prese a tremare. Bene. «Sì, in effetti. Suo cugino David è venuto qui da Edimburgo. È riuscito a prendersi un po’ di tempo dal college per venire a trovarla». «Ed è ancora lì?». La mano di Catherine si sollevò a coprirle la bocca. «Penso di sì. Ci vuoi parlare?» «Sì, grazie. E, Louise? Per favore, portati dietro qualcuno della sicurezza». «Ehm… okay…». Un rumore di passi e porte aperte e richiuse si udì dalla sua parte. «Ho una buona notizia, tra l’altro: è stato cancellato un intervento all’Aberdeen Royal Infirmary. Quindi Samantha potrebbe essere operata entro tre settimane. Se non ti dà fastidio che ci siano degli studenti a osservare l’intervento, ecco. Comunque sarebbe tutto a distanza, non entrerebbero neanche nella sala operatoria».
Catherine tirò su con il naso. Aveva gli occhi lucidi e le sussultavano le spalle. Sì, piangi pure. Vedi quanto può esserti utile. Tre colpi alla porta. «Samantha? Sono Louise». Il rumore di una porta che si apriva. «È lì?» «Oh… No. Un momento». Ci fu uno scatto. Poi il suono dei tasti di un telefono digitale che venivano premuti in sottofondo. La voce di Louise si udì riecheggiare dagli altoparlanti della casa di cura. «Buongiorno a tutti. Il cugino di Samantha Mackie può per cortesia rispondere al primo telefono a muro? Grazie». Poi un soffocato: «Hugh, vai a controllare in terrazza. Vedi se per caso miss Mackie è lì». «Louise?» «Devono essere andati a prendersi un caffè». E Catherine Bisset non riuscì più a trattenersi. Scoppiò in una sonora risata. «Non siamo stupidi». «Louise, dove diavolo è Samantha?» «Non c’è motivo di preoccuparsi, sono sicura che è tutto a posto». La risata si spezzò, e il viso di Catherine tornò serio. «Mi piaceva Helen. Ci ha raccontato di sua figlia, e di come lei pensasse che si trattava della bambina trovata morta alla piscina di Tarlair». Lui si avvicinò di un passo. «Cosa volete?» «Un povero corpicino immobile che galleggiava a faccia in giù nell’acqua, con la testa spaccata in quel modo. Deve essere stato orribile». Lo guardò aggrottando la fronte. «Ma per Samantha è ancora più orribile, vero? Io e David sappiamo cosa significa avere qualcuno che ami bloccato in un letto d’ospedale. Incapace di muoversi, parlare o fare altro. Con qualcuno che deve nutrirlo e pulirgli il sedere. Non sono davvero vivi, non è così?». Logan abbassò la voce. «Catherine, ti giuro su Dio…». «Logan? Mi dispiace, ma temo ci sia un piccolo problema. Abbiamo un po’ di difficoltà a trovare Samantha, al momento, ma probabilmente si trova in una delle stanze della tv. Ti richiamo appena possibile, okay? Non…». Logan attaccò. Mise via il cellulare. Poi sganciò dalla cintura la bomboletta di gas lacrimogeno. «Cosa avete fatto a Samantha?» «È stato lei a ridurre mio padre in quelle condizioni. Avrebbe potuto trovarlo in tempo, ma non l’ha fatto». «Dove… si… trova?» «Ha lasciato che qualcuno lo facesse a pezzi, lo torturasse e ce lo portasse via. Restituendoci soltanto un guscio vuoto fatto di pelle, ossa, sangue e vergogna». Lui liberò la sicura dello spray. «No. Non lo faccia. Se fa una cosa del genere…». La ragazza sollevò il telefono. «Cosa pensa che succederà a Samantha?». I gabbiani stridettero, volando in cerchio. Gocce di pioggia scurirono il muro di cemento. Catherine scosse la testa. «Ci pensi. Ci pensi bene». Lui rimise al suo posto lo spray. «Cosa vuoi?» «Rivoglio indietro mio padre». «Allora non avresti dovuto ucciderlo». Lei sollevò una spalla. «Era già morto da tanto tempo. Noi l’abbiamo salvato. Abbiamo dovuto farlo noi, perché lei non ci è riuscito». Catherine indicò una piccola Nissan Micra con la vernice verde scrostata fino al metallo dal lato del passeggero. «Vuole vedere Samantha? Posso darle un passaggio». «Hai quattordici anni. E posso guidare da solo». Lei fece ondeggiare di nuovo il cellulare. «No, non può».
Sotto la coperta a scacchi, tutto puzzava di polvere e di cane. La lana gli faceva pizzicare le guance e rendeva la luce di fuori una penombra multicolore. Il gancio della cintura di sicurezza gli premeva contro le reni, mentre la macchina svoltava a destra. «Dove stiamo andando?». La voce di Catherine gli arrivò soffocata dalla coperta. «Non posso dirglielo. David dice che le rovinerebbe la sorpresa». Sdraiato su un fianco sul sedile posteriore, Logan serrò le mani a pugno. Avrebbe dovuto premere il pulsante di trasmissione prima di consegnare la ricetrasmittente. Stupido. E non avrebbe dovuto darle il cellulare. Ancora più stupido. Ma cosa avrebbe dovuto fare? Salire sul piedistallo e dirle che potevano anche uccidere Samantha? Resta sul sedile. Resta sotto la coperta. Prega Dio che non abbiano una pistola. O un coltello. Perché si era tolto il giubbotto antiproiettile? Idiota. Ci fu una brusca svolta a sinistra, e il gancio della cintura lo pungolò di nuovo. «David non ragiona lucidamente, adesso. È sconvolto dal dolore. Lo siete entrambi». «Lei non l’ha visto in quel letto d’ospedale. Distrutto com’era. Abbiamo fatto la cosa giusta». «Lo so. L’avete fatto perché vostro padre stava soffrendo. Ma è comunque sbagliato». «Abbiamo pianto tantissimo, ma lui non ha neanche lottato e…». Catherine tirò su con il naso. Poi esalò un profondo, tremulo sospiro. «Basta parlare». Uno scatto, e la radio prese vita. «…per il notiziario e il meteo. Torneremo alle nove e mezzo, ma prima: i Water’s Edge, con Love Fill Me Up…». Un altro insulso pezzo da boy band uscì dagli altoparlanti, denso e dolciastro come melassa. Quattro secondi più tardi, Catherine si mise a canticchiare. «I was empty as a picture of a bucket on the wall…». Non era ancora troppo tardi. «Empty since she left me, I’m the loneliest of all…». Gli sarebbe bastato scattare seduto, passarle un braccio intorno alla gola e premere forte. Il cellulare era sul sedile del passeggero, non sarebbe mai riuscita a prenderlo… avrebbe soltanto tentato di staccarsi quel braccio dal collo. Una pressione adeguata, e non sarebbe riuscita neanche a squittire. «Hollowed out and broken, and battered, and so cold…». E, anche se ci fosse riuscita, cosa sarebbe cambiato, a quel punto? David Bisset avrebbe avuto Samantha in ostaggio e Logan avrebbe avuto Catherine. Stallo alla messicana. «Then in my mind, I think I find, the price for all the lies she told…». Solo che tutti sapevano che Logan non sarebbe mai riuscito a uccidere nessuno. E David aveva già dimostrato di esserne capace. Due volte. «Doooo doo, dooo-deee-doo la-dooo, as something taking hold…». L’accelerazione spinse di nuovo Logan contro il gancio della cintura. O la ragazza stava accelerando troppo, o avevano superato il confine del centro abitato. «Love fill me up, to the top of my heart…». Stavano risalendo un leggero pendio. Non abbastanza ripido per essere la strada per Fraserburgh. Non c’erano abbastanza curve per essere una strada diretta a sud. «Overflow, let it go, right off the chart…». Dovevano essere passati sul ponte che conduceva a Macduff. Era l’unica opzione rimasta. «Cause loving you’s easy, and loving you’s smart…». Stavano andando alla piscina all’aperto di Tarlair. «Love fill me up to the top of my heart…».
La macchina svoltò bruscamente a destra, poi scese giù lungo un pendio ripido, mentre Catherine sembrava non ricordare le parole della canzone, tornando al doo-dee-doo di prima. La strada tornò piatta, poi la Micra cominciò a ondeggiare e saltellare sulle buche. E si fermò. «Ci siamo». Catherine spense il motore, e la musica morì con lui. «Ora può uscire da lì sotto. Nessuno può vederla». Logan si tolse la coperta di dosso e si rimise a sedere. Lei tentò di sorridere, ma non le riuscì un granché. «Gliel’avevo detto che non ci avremmo messo molto». Catherine uscì dalla macchina. La pioggia picchiettava sul parabrezza con il suono di tante zampette di granchio. Okay. Non doveva farsi prendere dal panico. Erano solo due ragazzini. Logan smontò dall’auto. Si voltò a guardare la strada che risaliva la collina. «C’è un grosso cartello che dice “strada chiusa”, lassù. Non verrà nessuno». Catherine raccolse la cintura con l’equipaggiamento di Logan dal sedile posteriore e se la allacciò in vita. Era troppo grande per lei, e dovette tenerla con una mano. «Ci stanno aspettando». Il Mare del Nord si sollevava scuro e pesante contro la spiaggetta sassosa. Lei si avviò, infilandosi nel buco tra gli scogli in fondo al parcheggio. Erano solo due ragazzini.
Capitolo 60
Logan la seguì sulla vecchia strada asfaltata, superando le rocce e un’altra spiaggetta sassosa coperta di vecchie alghe contorte, e poi il cartello che avvertiva del fatto che la piscina di Tarlair fosse chiusa e pericolosa. Superarono il muro di cemento in rovina. E poi finirono sull’anfiteatro di cemento bagnato di pioggia che conduceva alle due piscine abbandonate. Gli edifici squadrati e art deco della piscina si innalzavano come lapidi lungo il bordo dell’anfiteatro. Catherine continuò ad avanzare. Giù, lungo i gradini che conducevano all’acqua. Entrambe le piscine erano quasi piene, sia quella più vicina agli spogliatoi abbandonati che quella più vicina al mare. Probabilmente erano state riempite dalla tempesta del giorno precedente. Tre figure si trovavano sulla passerella tra le piscine. Una era in piedi, un’altra in ginocchio, e la terza su una sedia a rotelle. Catherine si girò a guardarlo. «Le piace qui? A me piace. È tutto rotto e andato in rovina… Un posto morto, dove vengono i morti. Come tutti noi». «Non deve andare per forza così, Catherine. Possiamo sistemare le cose». «Davvero?». Le sue scarpe da ginnastica sguazzavano in mezzo alle grandi pozzanghere dalla superficie agitata dalla pioggia. «Sì, se lo vuoi». Erano quasi arrivati al passaggio di cemento che separava la piscina interna da quella esterna. L’acqua, in entrambe, era quasi nera, e rifletteva le nuvole scure e le colline circostanti. Ci fu un boato, e uno spruzzo di schiuma salmastra si sollevò al di sopra del frangiflutti, per poi sibilare giù verso l’acqua nera. Avevano condotto Samantha al centro del passaggio e l’avevano sistemata con il viso verso il mare. Aveva le braccia giunte contro il petto, le ginocchia piegate e strette insieme. La testa china da un lato, come se stesse cercando di mettere a fuoco qualcosa. Accanto a lei c’era un uomo in ginocchio, con le braccia legate dietro la schiena e la federa di un cuscino sulla testa. Catherine si passò il palmo della mano contro il giubbotto, come se stesse cercando di pulirlo da una macchia. «David dice che alla fine tutti muoiono. Solo che quelli sfortunati continuano a respirare anche dopo che sono morti». Si fermò sul bordo di una delle piscine. «Nostro padre è stato sfortunato. Guardarlo lì in quel letto, spezzato e distrutto, e morto, eppure ancora vivo…». La ragazza scosse la testa. «Non è giusto far soffrire così le persone. Se fosse stato un cane, non l’avremmo lasciato patire, l’avremmo soppresso per mettere fine alle sue sofferenze». «Catherine!». Logan la prese per un braccio. «Pensavo che tu fossi la persona sensibile, tra voi due. Quella che avrebbe impedito a David di fare qualcosa di stupido. Non è ancora troppo tardi per rimediare». «Non ha mai pensato la stessa cosa della sua fidanzata? Che sarebbe stato meglio mettere fine alle sue sofferenze?». Lui la fissò. «Ti prego. Non deve per forza…». «Non abbiamo altra scelta». La ragazza avanzò sulla passerella. Logan salì sulla striscia di cemento. Doveva essere larga circa un metro e mezzo, ma avevano sistemato Samantha con le ruote davanti della sedia a rotelle proprio sul bordo dell’acqua. David Bisset era in piedi dietro di lei, appoggiato allo schienale.
Catherine lo raggiunse e si fermò. «Hai visto? Te l’ho portato». «Sei stata bravissima». «E ho anche questa». Si slacciò la cintura dell’equipaggiamento e la tese al fratello. Poi tirò fuori un coltello da cucina da sotto il giubbotto di denim. Lo strinse nel pugno serrato. «Pensa che stiamo facendo una stupidaggine». Logan allargò le braccia, con le mani a palmo in su. «Lo penso davvero, ma non dovete continuare per forza. Possiamo sistemare questa faccenda». Un ispido accenno di barba adolescenziale formava delle ombre grigiastre sul mento di David. Aveva gli occhi infossati, e gli stessi zigomi spigolosi della sorella. Lo fissò per un attimo, poi si allacciò la cintura in vita. E indicò la figura inginocchiata. «Questo le sembra stupido?». David afferrò l’estremità della federa e la strattonò via. Graham Stirling sbatté le palpebre contro la luce. Aveva il viso coperto di lividi giallastri e violacei, una narice incrostata di sangue rappreso. Una palla di tessuto gli sporgeva dalla bocca, tenuta ferma dal bavaglio legato intorno alla testa. «Mmmnnnnngh! Mnnngghhnnnghnnnphhhh!». «Dice di non aver mai toccato nostro padre. Dice che è stato lei a incastrarlo. È vero?» «No. È un pervertito ed è pericoloso, e dovrebbe essere rinchiuso in carcere per il resto della vita». «Ma invece è libero, giusto? Lo hanno lasciato andare e le hanno permesso di dire che nostro padre era un pervertito». David tolse il bavaglio a Stirling, che sputò il fazzoletto. Ebbe un conato di vomito. Poi afflosciò le spalle. La sua voce cigolava come un cardine poco lubrificato. «Io non ho… non ho mai toccato… vostro padre. Lo giuro… non l’ho mai toccato». «Visto? Sta dicendo che lei è un bugiardo, sergente McRae». «Non ho mai mentito. Ho visto quello che ha fatto: è stato lui a portarmi in quella capanna nel bosco! È stato lui. Ma deve andare in prigione. Tutto questo non ha senso». «Io non ho… sono tutte… tutte bugie». David portò la mano sinistra al manganello, con il pollice che giocherellava con la chiusura che lo teneva fermo nel suo fodero. Con uno schiocco, lo liberò. E poi la richiuse. E ancora pop e poi click. «Lui… lui mi ha incastrato». «Questo non aiuta nessuno, David». Logan si avvicinò con cautela, tenendo ancora le mani sollevate. «Sappiamo che avete ucciso vostro padre, ma l’avete fatto per risparmiargli le sofferenze. Stava male. È stato un atto d’amore. Nessuna giuria potrebbe negarlo». Pop. Click. Pop. Click. «Fermatevi ora, prima che sia troppo tardi». Pop. Click. Pop. Click. «Ti prego… non… non mi uccidere. Io non ho…». «Dice che non è stato lui, McRae». Pop. Click. Pop. Click. «Sta mentendo perché ha paura. Avanti, adesso vediamo di…». «Okay». Pop. David liberò il manganello dal fodero, con un gesto secco che lo estese all’istante. Lo sollevò sopra la testa, tendendo il braccio indietro, con i denti scoperti in una smorfia ferina. Stirling sobbalzò, sollevando le spalle, come se questo potesse salvarlo. «Ti prego! Non sono stato io! Non sono stato io!». Oh, Cristo, David stava per ucciderlo. «no!». Logan scattò avanti, per poi fermarsi di colpo quando Catherine appoggiò la punta del coltello contro la testa di Samantha, dove le mancava l’osso. La ragazza lo fissò. «Fermo».
«Ti prego, non farlo. È malato, d’accordo? Spezzato, perso. Deve essere rinchiuso a vita, ma non merita di morire». David abbassò il manganello. «Non merita di morire? Dopo quello che ha fatto a mio padre, non merita di morire?» «David, ti prego, so che sei arrabbiato, ma…». «lui merita di morire!». La pelle pallida del viso del ragazzo avvampò, il bianco degli occhi ben visibile intorno alle iridi. «merita di essere fatto a pezzi! dovrei scuoiarlo vivo!». «David, non sei tu che devi decidere chi vive o chi…». «dovrei castrarlo! bucargli il petto! strappargli via le budella da dietro!». Le braccia e le gambe di David tremavano, mentre si colpiva ritmicamente la coscia con il manganello. I tendini del collo tesi come cordoni di metallo. I denti che scintillavano di saliva nella penombra del luogo. Catherine tese l’altra mano e gli tirò la manica. «Va tutto bene. Fai esattamente come abbiamo fatto nelle prove». Un paio di respiri profondi. Poi il ragazzo annuì. «Ma non posso fare queste cose, perché non sono un pervertito come lui. Quindi gli spaccherò la testa. Lui è colpevole. E se lo merita». Il manganello si sollevò di nuovo in aria. «Fermati! Okay, hai ragione!». Logan tese di nuovo le braccia. Fissò Graham Stirling, inginocchiato con gli occhi chiusi e i denti scoperti, in attesa del colpo. In attesa di morire. Logan si schiarì la gola. «Stavo mentendo. Non ha fatto quelle cose a tuo padre. L’ho incastrato, perché non sapevo chi fosse il vero colpevole. Ora metti giù il manganello». Nessuno si mosse. David lo fissò. Poi abbassò il braccio. Ogni traccia di colore gli lasciò il viso, che tornò pallido come quello di un fantasma. «Avevi ragione». Stirling alzò lo sguardo e sorrise. «Che ti avevo detto? Il sergente McRae ha mentito». Si rialzò in piedi a fatica. «Ha sempre mentito sul mio conto». Allargò le mani. Non era legato. La corda gli era stata solo avvolta intorno ai polsi. Era stata tutta una farsa. «Un bastardo schifoso bugiardo». Logan arretrò. «Avevi orchestrato tutto?» «Ho soltanto aiutato David e Catherine a scoprire le tue bugie, McRae. Sono venuti da me, erano furiosi e disperati, e io li ho aiutati». «L’ho detto soltanto perché stavano per ucciderti!». «Visto? Ve l’avevo detto. Mente e inganna, e avrebbe potuto salvare vostro padre, ma era troppo impegnato a incastrare me per preoccuparsene». David alzò lo sguardo alle nuvole basse. Boom – un’altra onda colpì il frangiflutti, mandando schizzi di schiuma in aria come se fossero fuochi d’artificio. E poi giù di nuovo. Il ragazzo guardò la sorella. «Come abbiamo provato». Lei prese i manici della sedia a rotelle e la spinse avanti, sollevando le ruote posteriori e facendola rovesciare nella piscina, con Samantha legata sopra.
Capitolo 61
«no!». Samantha finì nell’acqua, e il peso della sedia a rotelle la fece affondare all’istante. Logan corse verso il bordo della piscina, e David gli si lanciò addosso, placcandolo e facendo finire entrambi sulla passerella. Un grugnito, e il dolore si estese tra le costole di Logan, quando il manganello le colpì con violenza. Sollevò un braccio, coprendosi la testa e scalciò, mancando il ragazzo. Ma David non fallì. Il manganello lo colpì sul bicipite. Il braccio gli si intorpidì, dopo essere stato percorso da una cascata di schegge acuminate, dalla spalla alla punta delle dita. Si ritrovò disteso sulla schiena, con una gamba nell’acqua. David gli salì a cavalcioni, rialzando il manganello. Logan sollevò un ginocchio e lo ferì, ma non servì a niente. Il manganello scese a tutta velocità, colpendolo contro una tempia e riecheggiandogli nel cranio in ondate brucianti. Logan sollevò il pugno e colpì. Colse David sul lato del naso, rompendoglielo di netto. Uno schizzo di sangue caldo gli arrivò addosso. «aaaaaaaaaaaagh!». David scattò indietro, con una mano sul naso rotto e gocce di un rosso scarlatto che gli filtravano tra le dita. Logan si costrinse a sollevarsi sul braccio intorpidito e centrò con il gomito destro il volto di David, schiacciandogli le dita ossute contro denti e ossa. Poi lo afferrò per i lunghi capelli scuri e lo strattonò in avanti. Rigirandolo e mettendoci tutto il peso sopra. La testa di David rimbalzò sul cemento con un tonfo sordo. Una, due volte e poi una terza. Catherine urlò. Logan spinse via il corpo esanime del ragazzo e si lanciò in acqua. Era gelida e gli fece contrarre i muscoli, svuotandogli i polmoni. La sedia a rotelle era a una sessantina di centimetri dalla superficie dell’acqua, rovesciata sul davanti, bloccando Samantha sul fondo roccioso della piscina. Lei non si muoveva. Non stava cercando di salvarsi. Era seduta lì, a faccia avanti, legata alla sedia, immobile come un morto. Lui avvolse le braccia intorno allo schienale della sedia e la sollevò, tirandola fuori dall’acqua. Sam ondeggiò sulla seduta, dondolando la testa in avanti, la pelle pallida come l’avorio, le labbra grigie come il granito. L’acqua le scendeva dalla bocca aperta. Un tuono brontolò dal cielo, riverberando lungo le colline. La pioggia cominciò a cadere più forte, increspando la superficie della piscina e rimbalzando sulla passerella di cemento. Lui afferrò le strisce di velcro che la tenevano bloccata sulla sedia. Le sganciò e la sollevò dalla seduta, raggiungendo, un po’ nuotando e un po’ camminando sul fondo della piscina, la rampa che conduceva all’anfiteatro di cemento. «Avanti…». La trascinò sulla passerella tenendola per il colletto, per poi inginocchiarsi accanto a lei, cercando un battito. Niente. «No, no, no, no, no». Logan le spostò la testa di lato e la scosse, finché l’acqua non smise di scorrerle fuori dalla bocca e dal naso. Poi cominciò il massaggio cardiaco. Mille e uno. Mille e due. Mille e tre. Delle mani gli afferrarono le spalle.
Catherine, con gli occhi sgranati e arrossati, il viso flagellato dalla pioggia e i capelli incollati al viso. «ti ammazzo!». Mille e uno. Mille e due. Mille e tre. Un palmo gli colpì un lato della testa. Mille e uno. Mille e due. Mille e tre. Unghie come chiodi gli si piantarono nel collo. Lui scattò indietro con un gomito. La colpì sulla bocca. La ragazza indietreggiò di colpo, gemendo e sputacchiando. Un rivolo scarlatto le macchiò le labbra e il mento, gocciolandole sul giubbotto in denim e allargandosi sul tessuto umido come papaveri in fiore. Poi una scarpa da ginnastica bianca inciampò in una buca e lei cadde all’indietro, allargando le braccia. Il tonfo sordo della sua nuca sul cemento fu come una fucilata lontana. Logan intrecciò le dita e spinse di nuovo contro il petto di Samantha. «Avanti!». Mille e uno. Mille e due. Mille e tre. Tirò indietro la testa di Sam, le chiuse il naso e le insufflò aria nei polmoni. E poi ancora. Ancora il massaggio cardiaco: mille e uno. Mille e due. Mille e tre. Qualcosa di solido gli si schiantò contro la testa, forte abbastanza da mandarlo lungo disteso, mentre campane e sirene gli riecheggiavano nel cranio. Agh… Le nuvole sopra di lui si riempirono di punti neri e gialli, che cavalcavano l’ondata di calore pronta a spingergli gli occhi fuori dalle orbite. Poi tutto si fece grigio, nascondendo la piscina, le colline e gli edifici. Era come essere avvolti in un sudario che soffocava il suono della pioggia e del battito cardiaco nelle orecchie. … Alzati. Nient’altro che grigio. … Poi il mondo tornò in Technicolor. Graham Stirling era sopra di lui, con il manganello stretto in entrambe le mani come una mazza da baseball. «Bene, bene, bene. A quanto pare siamo di nuovo io e te da soli…». «Gnnn». «Mi piacerebbe tanto fare con calma, ma questa storia è diventata un casino, vero?». Il manganello colpì Logan su una coscia. Schegge di vetro e filo spinato gli si piantarono nel muscolo. Alzati. Devi alzarti. «Hai rovinato tutto». Poi lo colpì sul petto. Lame e aghi contro le costole. alzati! «Li avevo convinti e addestrati così bene. Ma ovviamente tu non potevi…». Stirling si zittì di colpo, voltandosi a guardare verso l’entrata della piscina all’aperto. Il ronzio nelle orecchie di Logan cambiò tono, alzandosi e abbassandosi a ritmo, in un suono regolare ed elettronico. E non era più nella sua testa. Stirling sollevò le mani, e il manganello rotolò sul cemento mentre due autopattuglie si fermavano vicino agli edifici della piscina. «La tua parola contro la mia, di nuovo. David e Catherine hanno cercato di ucciderti. Io ho provato a fermarli, ma ero troppo debole, dopo che mi avevano aggredito». Gli sportelli della Macchina Grande si spalancarono, e la Nicholson e la Steel uscirono di corsa sotto la pioggia, correndo verso il bordo dell’acqua. Ciuffo e Deano uscirono dall’altra macchina. Oh, grazie a Dio. «Nessuna giuria crederà a qualsiasi altra versione della faccenda».
Logan si girò su un fianco, si costrinse a sollevarsi in ginocchio e si trascinò verso Samantha. Mille e uno. Mille e due. Mille e tre. Respira… Mille e uno. Mille e due. Mille e tre. Respira. «Hai mentito, riguardo a me, l’ultima volta, perché mai dovrebbero crederti, questa volta?». Mille e uno. Mille e due. Mille e tre. respira, dannazione! Il petto di Samantha sussultò, e uno spruzzo d’acqua fetida le esplose fuori dalla bocca. Tossì e sputacchiò. Poi prese a respirare profondamente, con gli occhi spalancati che fissavano il cielo uggioso. Stringendosi le mani al petto. Lui la strinse tra le braccia: era fredda e bagnata, ma cominciava a riscaldarsi. La voce della Steel si udì attraverso l’acquazzone. «Tu? Dove diavolo pensi di andare?». Graham Stirling finse un paio di singhiozzi. «Hanno cercato di uccidermi! Mi hanno assalito in casa mia e mi hanno picchiato! Ero così terrorizzato!». «Porta qui le chiappe, subito!». «Samantha». Logan le scostò i capelli dal viso, e lei sbatté le palpebre. Aggrottò la fronte. «Lo…». Si leccò le labbra. «Logan?». Dio santissimo. Lui rischiò di farla cadere. Poi la strinse più forte di prima, mentre qualcosa di caldo, di rovente, gli esplodeva al centro del petto. «Ehi, tesoro». «Dove diavolo… Perché sono tutta bagnata?». Samantha cercò di prendergli una mano, ma le sue non funzionarono, e le dita rimasero piegate e contorte. «Ma cosa…». «Non ti muovi da quattro anni. Ma andrà tutto bene. Te lo prometto». Poi si sporse avanti e la baciò.
Capitolo 62
La mano rattrappita di Samantha gli sfiorò la guancia. Grigio… … Freddo… Logan tentò di aprire gli occhi. Era disteso su un fianco, mentre qualcuno lo trascinava lungo la passerella di cemento per una gamba. «Gnnnph…». La testa gli pulsava come se ci fosse dentro qualcosa di vivo che tentava di scavarsi la strada per uscire attraverso il suo cervello. «Oh, sei sveglio?». Graham Stirling gli strattonò di nuovo la gamba. «Bene. Mi sarebbe dispiaciuto se ti fossi perso il gran finale. Un uomo non dovrebbe mai arrivare tardi al suo funerale». Ma… Dove diavolo erano le autopattuglie? E la Steel, e Deano, la Nicholson e Ciuffo? Samantha. Dove diavolo era Samantha? Muoviti. Alzati. Ma le gambe e le braccia di Logan sembravano fatte di gomma. «Nnngh…». «Mi sa che ti ho colpito un po’ troppo forte, lì». Avevano raggiunto il centro della passerella tra le due piscine, dove David Bisset era disteso immobile, come morto. La pioggia gli rimbalzava sul corpo, sfumando il rosso del sangue che gli colava dal naso e dalla bocca in un rosa delicato. Stirling lasciò andare la gamba di Logan, che piombò contro la passerella. «Devo ammetterlo, mi sarei aspettato qualcosa di più da loro. Ma sono solo dei ragazzini, cosa ci vuoi fare?». Si inginocchiò e frugò nella cintura dell’equipaggiamento ancora allacciata alla vita di David. «Vediamo, corde e manette. Si impara parecchio su questo genere di aggeggi, quando si finisce sotto processo». Svolse entrambe le corde di un giallo fluorescente. Poi strinse insieme le ginocchia di Logan e le legò strette. Fece lo stesso con le sue caviglie. «Quattro mesi in una cella puzzolente con un tossico. Pensi che sia stato divertente?». Stirling sganciò le manette dalla cintura. «Se ne andava a dormire, la notte, parlando di tutte le cose che mi avrebbe fatto se non gli avessi trovato dei soldi, o le sigarette, o le droghe che voleva». muoviti. Logan si costrinse a girarsi su un fianco. Samantha era distesa sul cemento dell’anfiteatro, braccia e gambe distese e larghe. Catherine non era molto lontana da lei, stesa sulla schiena con le braccia spalancate. Che fine avevano fatto la Nicholson e la Steel? Dov’era la cavalleria? «Nnnng…». «Dove credi di andare?» «Ti… ammazzo». Ogni parola faceva male, riecheggiandogli nella testa dolente. «No, no. Direzione sbagliata». Stirling gli piantò un piede contro la spalla e lo spinse di nuovo sulla schiena. «Quei due sono entrati in casa mia nel cuore della notte. Quei due ragazzini, David e Catherine Bisset, tutti arrabbiati e furiosi e pronti alla vendetta». La pioggia gli colpì il viso. Un respiro profondo. E muoviti.
Stirling afferrò il polso sinistro di Logan e gli chiuse intorno una manetta, stringendola fino a fargli male. avanti, dannazione, muoviti! La mano destra di Logan si mise a tremare. La sollevò dal cemento e cercò di arrivare al viso di Stirling. Con tutta l’intenzione di cavargli gli occhi da quel maledetto volto pieno di lividi. Ma Stirling tirò indietro la testa e cercò di afferrargli la mano. La mancò. Cercò di afferrarla. «È ora… che tu… sparisca». Non permetterglielo. Non farlo. Click, la manetta gli si chiuse sull’altro polso. Stirling si accigliò. «Mi aspettavano in cucina. Mi hanno assalito in casa mia, riesci a crederci? Pensavo che David mi avrebbe ammazzato». Un brivido. «Ma mi sono attenuto alla mia parte: ho detto loro esattamente quello che volevano sentirsi dire. Ed erano tutte menzogne, ovviamente. Che tu mi avevi incastrato. Che il loro padre non era un pervertito. E alla fine, hanno smesso di prendermi a calci e colpirmi e picchiarmi e si sono raggomitolati contro il frigorifero e hanno iniziato a piangere». Stirling si scostò di un passo. Afferrò la corda che bloccava le caviglie di Logan e lo trascinò verso la fine della passerella. «È stata davvero una scena deliziosa. Sono così suggestionabili, a quell’età, vero? Non ci è voluto molto per convincerli a scatenare tutta la loro rabbia contro te e la ragazza in coma». Stirling si pulì le mani sul davanti della maglia. «Non avevo mai lavorato in squadra, prima d’ora. Devo assolutamente riprovarci». Logan fece uno sforzo sovrumano per tirare fuori le parole. Ognuna sembrava una boccata di sassi. «Ti… troveranno… ti… fermeranno». «Non dire sciocchezze». Si accosciò, battendo un buffetto sulla guancia di Logan. «Ora tu finirai nell’acqua e affonderai, e poi morirai. E tutti crederanno che la colpa sia di David e Catherine. Un’altra tragedia di vendetta, nel nord-est della Scozia». L’uomo sogghignò. «Dovresti vedere il tuo…». Logan scattò con entrambi i polsi in avanti, sbattendo il centro delle manette contro il volto di Stirling. L’uomo cadde all’indietro nell’acqua. muoviti! Si girò di nuovo su un fianco e si raggomitolò in posizione fetale, cercando con le dita la chiusura di velcro in fondo alla corda che gli bloccava le caviglie. Ne afferrò l’estremità e tirò forte. La fascia di velcro si aprì, liberandolo. Poi le ginocchia. Doveva raggiungere l’orlo e… Graham Stirling uscì dall’acqua, con una grossa ferita sul labbro superiore che gli riversava fiotti di sangue sul volto. «aaaagh!». Afferrò Logan e lo trascinò all’indietro dentro la piscina. L’acqua gelida lo avvolse nelle sue braccia di ghiaccio. Gli piantò artigli di brina nella nuca, mentre Stirling gli saliva addosso, tenendolo sotto. Logan aprì la bocca. L’acqua salata gli bruciò nel naso. Un ultimo strattone e la corda intorno alle ginocchia venne via. Lui scalciò, spinse, e finalmente sollevò la testa sopra la superficie dell’acqua. Prese un respiro profondo. Sirene. Vere, questa volta, e sempre più vicine. Graham Stirling si tirò indietro. «È la tua parola contro la mia. Quei due mi hanno rapito e tu hai cercato di uccid… Ulk…». Logan afferrò Stirling per il colletto e lo sollevò in aria, girandosi e ficcandogli la testa sott’acqua. Con il viso verso l’alto e il taglio sul labbro che ancora sanguinava. Braccia e gambe che si agitavano. «non puoi sperare di cavartela dopo aver fatto del male a samantha!». Le unghie di Stirling gli graffiarono i polsi. Afferrarono la barra al centro delle manette.
Gli occhi dell’uomo sembravano sul punto di schizzargli fuori dalle orbite. «mi hai sentito?». Logan lo scosse, spingendolo ancora più sotto, con le braccia bloccate, spingendolo fin quando non si trovò con il mento a pochi millimetri dall’acqua. E lo tenne giù. «mai più!». Le mani di Stirling si sollevarono, come se cercassero la luce. Le sirene si stavano avvicinando. Ci stava mettendo troppo. Da un momento all’altro avrebbero superato il crinale della collina e sarebbe tutto finito. Graham Stirling avrebbe mentito e si sarebbe salvato da un’altra accusa di tentato omicidio. E Samantha non sarebbe mai stata al sicuro. No. Charles Anderson aveva ragione. Certa gente non meritava la protezione della legge. Scosse ancora una volta il colletto dell’uomo. «annega, maledetto!». «Logan». Una mano sul suo braccio. «Logan, fermati». Lui sbatté le palpebre. Si guardò intorno. Samantha era in piedi accanto a lui, con l’acqua che le arrivava al petto. Scosse la testa. «Questo non sei tu, Logan. Questo è lui». «Ma…». Si girò. Samantha era sdraiata sull’asfalto, immobile, lì dove lui l’aveva lasciata. «Sei…?». Un nodo gli chiuse la gola, quasi troppo grosso per inghiottirlo. «Sei morta?» «Lascialo andare. Ti prego». La mano di Sam era fredda contro la sua guancia. «Fallo per me». Un’onda sbatté contro il frangiflutti, mandando in aria un’esplosione di schiuma. Lei era sdraiata sul cemento. Ed era al suo fianco. «Lo sai che non è giusto, così. Lascialo andare». Le dita di Stirling si strinsero nell’aria, come se potesse afferrare una manciata d’ossigeno e portarselo ai polmoni, sott’acqua. Logan lo lasciò andare. «Mi manchi». «Lo so». Lei sorrise, e fu come una lama al centro del petto. «Grazie». Graham Stirling si agitò violentemente, tornando in superficie, tossendo e sputacchiando, con il viso di un colore tendente al violaceo. «Aaaaaaagh!». «Di cosa?» «Di tutto». Si chinò a baciarlo su una guancia. «Di essere ancora tu». Stirling avanzò verso la passerella di cemento, stringendosi al bordo, tossendo e tremando, mentre un’autopattuglia compariva all’entrata della piscina. I lampeggianti accesi proiettavano zaffiri e diamanti nella pioggia battente. Gli sportelli si aprirono, e Deano, Ciuffo e la Nicholson uscirono di corsa. Un’ambulanza si fermò accanto alla macchina, con la sirena ancora accesa. Logan voltò loro le spalle. «Samantha, io…». Ma lei non c’era più.
Capitolo 63
«Ecco, tieni». La Steel gli tese un bicchiere di plastica del distributore del corridoio. L’odore di caffè bruciato e di latte a lunga conservazione si sparse nell’aria come il pus da una ferita infetta. «Grazie». Allungò una mano a prenderlo. Una striscia di lividi rosso scuro gli circondava il polso, dove le manette erano state strette fin troppo. Un’infermiera li oltrepassò, facendo scricchiolare le scarpe da ginnastica sul pavimento di piastrelle verdi. La Steel si lasciò cadere sulla sedia di plastica accanto a quella di Logan. «Sarei arrivata anche prima, ma stavamo perquisendo la casa del Pedo-iatra. Abbiamo trovato una telecamera in garage, con tanto di foto della bambina uccisa. Ovviamente mentre era ancora viva. Per non parlare della scorta di fenobarbital. Lo stesso che le avevamo trovato nel sangue». «Bene». Il caffè aveva un sapore che si accoppiava bene al suo odore. Ovvero pessimo. «Ovviamente, lui continua a negare ogni cosa. Come se per lui fosse uno shock». La Steel fissò gli abiti di Logan, accigliandosi. «Dovresti tornare a casa a cambiarti». «Ormai sono quasi asciutto». «Non succederà niente, se la lascerai sola per mezz’ora. Vattene a casa, cambiati, metti qualcosa sotto ai denti». Gli posò una mano sulla spalla, calda e ferma. «Io resterò qui e mi assicurerò che sia tutto sotto controllo». Un’anziana signora zoppicò oltre i due, portandosi dietro una flebo e borbottando tra sé e sé. «Non deve interrogare Gilcomston?». La Steel si lasciò sfuggire una risatina malefica. «Sua altezza Darth Finnie ha deciso che se ne occuperà lui. Pensa che un ufficiale di grado più elevato riuscirà a farlo cedere prima. Insomma, mi ha tolto il caso». Logan sollevò verso di lei il bicchiere di pessimo caffè. «Benvenuta nel mio mondo». Restarono seduti in silenzio per un po’, mentre medici e pazienti passavano davanti a loro, come una scena di un film di zombi. «Logan…». La Steel lanciò un’occhiata nel corridoio. «Quella bustina di eroina… sei stato tu a mettergliela in tasca, vero?» «Io?». Logan fece scivolare verso il basso gli angoli della bocca. «Nah… non è da me». Lei abbassò la voce. «Se non l’avessi trovata, non avremmo potuto arrestarlo. Sarebbe ancora al sicuro a casa sua, e non avremmo potuto dimostrare che aveva qualcosa a che fare con quella bambina». Un volontario li oltrepassò, spingendo davanti a sé un carrello pieno di tazze di tè e un grosso vaso metallico. La Steel attese che sparisse in fondo al corridoio. «E soprattutto, Gilcomston non potrà uscire su cauzione: resterà in carcere fino al processo. E se Charles Anderson è davvero convinto di essere in missione per conto di Dio per togliere di mezzo i pedofili di questo paese, e ne ha già uccisi tre dello stesso gruppo, credo proprio che tu abbia salvato la vita al Pedo-iatra». Logan fissò i moti browniani sulla superficie del bicchiere di plastica. «Un gran giorno per l’umanità». «Già». Lei si stiracchiò sulla sedia. L’orologio sul muro spostò la lancetta di un altro minuto, scandendo altri sessanta secondi delle loro vite.
La Steel si grattò il ferretto del reggiseno. «A proposito, già che ci siamo: vuoi spiegarmi cosa è successo con Graham Stirling?». Lui si strinse nelle spalle. Prese un altro sorso di caffè orribile. «Sono stato colpito sulla testa un paio di volte. Non ricordo bene». Alzò una mano e si sfiorò i due strati di garza che gli avevano sistemato sulle ferite. «Ha cercato di affogarmi e mi sono difeso». «Quindi tutto quello che sta dicendo sul fatto che l’hai tenuto sott’acqua…». Logan sollevò di nuovo le spalle. «Come ho detto, mi sono difeso». «Non stare a preoccuparti. Lo sappiamo tutti che è uno schifoso bugiardo». La Steel chiuse un occhio e si grattò con forza il seno, come un Labrador con le pulci. «Pffff… Bene, Catherine Bisset è sotto osservazione per un trauma cranico, suo fratello David è stato trasportato d’urgenza ad Aberdeen per una seria commozione cerebrale e pressione endocranica. Ora è in coma indotto. Non potremo portarlo davanti a un giudice finché… be’… se ne uscirà». «Pattuglia sette, potete parlare?». Logan fece una smorfia. Poi prese la ricetrasmittente dalla tasca della felpa. «Dimmi, Maggie». «Pensavo volesse saperlo: la casa di cura ha registrato David Bisset che rapiva Samantha sulle telecamere di sicurezza. E c’è un fax per l’ispettore capo Steel. I risultati di un’analisi degli isotopi stabili su una sezione femorale?». Logan le tese la ricetrasmittente. «È per lei». La Steel se la premette contro un orecchio. Si alzò e marciò avanti e indietro nel corridoio. «Cosa dice?… Uh-huh… Sì… Quanto a lungo?… Okay…». Un infermiere robusto avanzò facendo cigolare le scarpe sulle piastrelle verdi del pavimento e si fermò proprio davanti a Logan. Controllò la cartellina. «È lei il sergente McRae?». Come se Logan potesse essere qualcun altro, seduto lì con addosso un’uniforme fradicia della polizia con tanto di mostrine da sergente sulle spalle. «Sta bene?». L’infermiere si strinse la cartellina al petto. «Dunque: abbiamo stabilizzato miss Mackie, ma ovviamente c’era molta acqua nei suoi polmoni. Ha sviluppato una polmonite dal lato sinistro. Ed era anche acqua molto sporca, purtroppo. Poiché ha già avuto un’infezione polmonare, temiamo che questa situazione possa aggravarla. La stiamo trattando con antibiotici per via endovenosa, ma deve sapere che è una cosa piuttosto grave, per una persona nelle sue condizioni». «Posso vederla?». L’infermiere mostrò i denti in un sorriso dispiaciuto. «Mi dispiace, ma non è una buona idea, al momento. Probabilmente sarà meglio provarci tra tre o quattro ore». Logan si afflosciò sulla sedia, rovesciando la testa contro il muro alle sue spalle. E sussultando quando lo colpì con la testa fasciata. Sbatté le palpebre. Imprecò e fece una smorfia. «Tutto bene?» «In realtà, non molto. Lei…?» «Stiamo facendo tutto il possibile, mi creda. Non potrebbe essere curata meglio di come lo è adesso». La Steel tornò indietro e si lasciò cadere sulla sedia accanto a quella di Logan. «Cosa mi sono persa?». L’infermiere gli si accosciò di fronte. «Dovrebbe tornare a casa e riposare un po’. Ha qualcuno che può prendersi cura di lei, vero? Ha ricevuto due seri colpi in testa: devo assicurarmi che non resti da solo, in caso abbia un trauma cranico». Il giovane sorrise, amichevole. Poi batté una pacca sul ginocchio della Steel. «Magari sua madre la farà stare a casa sua per un po’». Logan posò le chiavi e il cellulare sul tavolino e si lasciò scivolare sul divano. Sbadigliò. Sospirò. La pioggia picchiava contro la finestra del soggiorno, le gocce che prendevano un colore ambrato a causa del lampione all’esterno, brillanti sotto il cielo di un nero corvino. E tanti saluti ai festeggiamenti.
Quell’uscita avrebbe finito per caricarsi di silenzi imbarazzati, finta allegria e assicurazioni bonarie sul fatto che Samantha sarebbe stata bene. Come se affogare qualcuno che già era di suo quasi completamente privo di coscienza potesse fargli del bene. Tutti muoiono, alla fine. Ma gli sfortunati continuano a respirare anche dopo. E Samantha non era più in grado di fare neanche quello. Un leggero rutto gli risalì in gola, seguito da un’ondata di fuoco che gli si irradiò su per l’esofago. E il pesce fritto con le patatine che aveva mangiato non era neanche buono. La pioggia continuava a cadere. Si sarebbe dovuto alzare per chiudere le tende. Sì, tra un attimo. Cthulhu entrò nella stanza in silenzio, camminando come se avesse trampoli pelosi al posto delle zampe. Gli saltò in braccio e gli premette la fronte contro il petto. «Almeno ho ancora te». Le grattò un orecchio e la gatta gli si spinse contro, con gli occhi chiusi e un canino affilato che le sporgeva dalla bocca. «E il resto del mondo può andare a farsi fottere». Graham Stirling era nella stazione di Fraserburgh, a passare una notte in cella prima che i tribunali riaprissero, la mattina dopo. E lì avrebbe mentito e si sarebbe liberato, viscido come al solito, dalle maglie della legge. Avrebbe dovuto affogare quel bastardo quando ne aveva la possibilità. Avrebbe dovuto tenerlo sott’acqua fino a vederlo smettere di dibattersi, con la faccia blu. Avrebbe dovuto lasciarlo morto sul fondo della piscina, insieme alle pietre e al limo, a fissare per sempre a occhi spalancati qualsiasi inferno in cui fosse finito. Charles Anderson aveva ragione, certa gente non meritava la legge. Logan prese il telefono, controllando il registro delle chiamate fino a ritrovare il numero di Anderson. Premette il pulsante di chiamata. La segreteria telefonica si attivò senza neanche uno squillo. Probabilmente non aveva senso lasciargli un messaggio, se Anderson aveva distrutto la sim come gli aveva detto. «Sì, sono Craggie, non posso rispondere, ma se lasciate un nome e il vostro numero di telefono vi richiamerò appena possibile». Logan attaccò. Fissò lo schermo. Cthulhu saltò giù e si avvicinò alle ciotole in un angolo, masticando croccantini con la coda in aria. Il numero di Helen era proprio lì. Logan posò il pollice sul tasto di chiamata. Ma che diavolo, sì. Lo sentì squillare tre volte, poi la voce di Helen gli sfiorò l’orecchio. «Logan?». Lui si schiarì la gola. «Volevo solo assicurarmi che ti fossi trovata un posto dove stare». «Stai bene? Mi sembri… non so». Lei tirò su con il naso. Le parole erano tese, rauche, come se le avesse dovute recuperare da chissà quali profondità oscure. «Scusami. È stata una lunga giornata». «Conosco la sensazione». «La bambina a Gwent non era Natasha». Qualcosa si spezzò nella sua voce, e poi la sentì singhiozzare. «Hanno fatto un’analisi del sangue, e non è del gruppo giusto. Sono così stupida. Ci avevo sperato, pensavo fosse lei, e invece è stato un nuovo buco nell’acqua». Tutta quella strada per niente. Sarebbe potuta rimanere con lui a Banff, dopotutto. Ma non era così che andava il mondo. Logan afflosciò le spalle di qualche altro centimetro. «Abbiamo scoperto chi era la bambina ritrovata nella piscina. Hanno fatto un’analisi degli isotopi stabili nelle sue ossa e hanno scoperto che viveva a Carlisle. Era scomparsa quattro anni fa. I suoi genitori verranno a identificarla domani».
«Oh… credo sia un bene». Un sospiro fece crepitare il ricevitore, seguito da un altro singhiozzo. «Sono così felice per loro. Almeno potranno dirle addio». «Erano così… grati…». Logan prese un respiro profondo. «Però si sbagliano. Qualcuno ha cercato di uccidere Samantha, oggi. L’hanno affogata, ma i paramedici sono riusciti a far ripartire il suo cuore». «Mi dispiace». «Pensavo che fosse morta. Per quindici minuti ho pensato che fosse morta. La speranza fa male, è come un coltello piantato nelle viscere, a volte. Ma è meglio di quella sensazione». Cthulhu finì di masticare i croccantini e saltò sul tavolino. Si sedette sulle chiavi di Logan e si leccò le zampine. Lui emise un sospiro. Si passò una mano sugli occhi. «Comunque. Sì. Ho chiesto a Ciuffo di fare qualche indagine. Non devi preoccuparti del fatto che vorresti uccidere il tuo ex marito. Brian Edwards è morto due anni fa a Middlesbrough. In una rapina». «Capisco…». Il silenzio tra loro si allungò a dismisura. «Helen?». Lei soffocò quella che sembrava una risata. «Lo so che questo mi rende una persona orribile, ma sono felice. Sono felice che sia morto. E spero che abbia sofferto». «Aveva cambiato cognome, si era risposato, aveva avuto un paio di figli con una donna spagnola. E la picchiava, così lei l’ha cacciato di casa. E ha ottenuto la custodia unilaterale dei figli». Un sospiro, poi finalmente qualcosa sembrò scattare in lei. «E Natasha? È lì? Sta bene?» «Non lo so, ma ho un indirizzo in Spagna che posso mandarti anche subito». «Oh, Dio, ma è una notizia magnifica! Grazie!». E la speranza tornò nella sua voce, brillante come un raggio di sole. «Chiamerò subito il mio investigatore privato. Oh, Logan, e se fosse lì? E se stesse bene? Se la mia bambina non fosse morta, alla fine? Non è fantastico?». Almeno qualcuno poteva sperare di avere un lieto fine. Dio solo sapeva quanto fosse ora che accadesse. Eppure… Logan si afflosciò contro lo schienale del divano. «Helen, forse faresti meglio a trovarti un nuovo investigatore. Quello che hai pagato finora non era neanche riuscito a scoprire che Brian era morto. Dubito che sarebbe in grado di trovarsi le chiappe in un kilt, figuriamoci Natasha». «Oh». Silenzio. «Senti, mi spiace. Fai finta che non abbia detto nulla». Lasciò scivolare indietro la testa e fissò il soffitto candido. «È stata una brutta giornata, tutto qui. Andrà tutto bene, ne sono sicuro». Il silenzio si protrasse. «Helen? Sei ancora lì?» «Logan? Vorresti…». Lei deglutì. «Ti andrebbe di venire in Spagna con me?».
Senza di loro
Come sempre, ho ricevuto moltissimo aiuto da tante persone, mentre scrivevo questo libro, e vorrei perciò ringraziare: Ishbel Gall, la professoressa Lorna Dawson, il professor Dave Barclay, il dottor James Grieve e la professoressa Sue Black, per la loro conoscenza della medicina forense; il vicecomandante di divisione Mark Cooper, il sergente Bruce Crawford, gli eccellenti agenti e lo staff di supporto della Divisione b, tutti i membri della Mintlaw Road Policing Unit, Alison Cowie, Lisa Shand, e tutti gli istruttori ost; Fiona, Magnus e Alan; Sarah Hodgson, Jane Johnson, Julia Wisdom, Louise Swannell, Oliver Malcolm, Sarah Collett, Roger Cazalet, Kate Elton, Sarah Benton, Damon Greeney, Kate Stepheson, Lucy Dauman, Anne O’Brien, Marie Goldie, la dc Bishopbriggs Wild Brigade e tutti i fantastici membri della HarperCollins (siete meravigliosi); inoltre, ringrazio Phil Patterson e il team di Marjacq Scripts, per avermi aiutato per tutti questi anni. E ancora, vorrei ringraziare Alex, Nadine, Dave, Maureen, Al, Donna, Zoë, Mark, Peter, Russel, Chris, Christopher, Scott e Catherine. E anche Russell (che mi ha ispirato per il Bikini Golf). Molte persone hanno aiutato a raccogliere fondi per opere di beneficienza partecipando a un’asta per avere un personaggio con il loro nome in questo romanzo: Dean Scott, Syd Fraser e Denise Wishart (la mamma di Tony). E, ovviamente, come vuole la tradizione, lascio i più importanti per ultimi: Fiona e Grendel. Mi sono preso qualche libertà con i nomi delle strade e la geografia del nord-est, per quelle che, come spero si capisca, sono ovvie ragioni. Ma sono stato quanto mai preciso nello specificare quanto siano meravigliosi quei luoghi. Del resto, non dovete prendermi in parola: andate a vederli con i vostri occhi. Sono stupendi.
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