quando le statue sognano sussurri, racconti, visioni, risvegli, tra antico e contemporaneo: il museo salinas e altre storie
Accademia di Belle Arti di Roma a.a. 2019/2020 Dipartimento di Progettazione e Arti Applicate Scuola di Progettazione Artistica per l’Impresa Corso di diploma accademico di secondo livello in Grafica e Fotografia Tesi di Laurea QUANDO LE STATUE SOGNANO Sussurri, racconti, visioni, risvegli, tra antico e contemporaneo: il Museo Salinas e altre storie Relatrice Prof.ssa Helga Marsala Candidata Simona Rita Domenica Sanfilippo matricola n. 11345
quando le statue sognano sussurri, racconti, visioni, risvegli, tra antico e contemporaneo: il museo salinas e altre storie
Indice
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Premessa
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Introduzione
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L’antichità come futuro (All Art has been Contemporary)
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- Un’altra idea di Classico Gli Artisti Contemporanei e l’Archeologia
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- Riappropriazioni e Reinvenzioni
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- L’Arte Contemporanea nel Sito Archeologico
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Storie di Musei, tra Antico e Contemporaneo Due casi italiani
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- Il MANN - Museo Archeologico Nazionale di Napoli Storia e Collezioni
31
- Il MANN e il Contemporaneo
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- Il Museo Egizio di Torino Storia e Collezioni
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- L’Egizio e il Contemporaneo
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Il Museo Archeologico Regionale Antonino Salinas
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- Origine e Formazione
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- La Wunderkammer della Sicilia Intera
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- Il Complesso Architettonico
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- Da Casa Conventuale a Museo
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- La Collezione
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- Dalla Corporate Identity a porte chiuse alla Programmazione Culturale
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- Verso il Nuovo Allestimento
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- L’apertura al Contemporaneo
Indice
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Quando le statue sognano Frammenti da un museo in transito
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- La Mostra
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- Spazi e Temi
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- Artisti e Opere
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- Interludi Frammenti da un museo in transito
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- La Campagna di Comunicazione
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LE INTERVISTE
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- PAROLA A MIMMO RUBINO Art Director e autore della campagna di comunicazione della mostra
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- PAROLA AGLI ARTISTI Alessandro Roma, Guido Bisagni (108), Fabio Sandri
105
Conclusione
108
Sitografia
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Appendice QLLS - Il Magazine (by Mimmo Rubino)
Statua Neoattica di Athena Prรณmachos, sec. II d. C. - depositi Museo Salinas, Palermo, novembre 2019
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Premessa 1.
N. Himmelmann, Utopia del passato. Archeologia e cultura moderna, tr. it. di Fabrizio Cambi, Introduzione di Salvatore Settis, Società Editrice cooperativa s.r.l., Bari, 1981, p. 127.
« In una sera d’estate rischiarata da temporali, gli cadde improvvisamente il velo dagli occhi e si rese conto che un’antica statua di marmo, davanti alla quale era passato prima molte altre volte senza farvi attenzione, era in realtà molto bella. Quando comunicò agli amici questa scoperta, risultò che tutti già lo sapevano ma avevano atteso pazientemente finché non fosse divenuto maturo da solo per l’esperienza estetica. Tutti attendevano il suo risveglio e lui esclamò: “Non ho mai saputo che una fronte umana fosse così bella!».1 Con le parole di Nikolaus Himmelmann, in riferimento al racconto “Nachsommer“ (L’estate di San Martino), scritto da Adalbert Stifter nel 1858, si apre una personale riflessione attorno all’affascinante dialogo tra contemporaneità e mondo antico, nello specifico tra contesti archeologici e linguaggi artistici contemporanei. Spunto di questo viaggio, che ha accostato ricostruzione storica e analisi critica, è stata la partecipazione alla realizzazione della mostra “Quando le statue sognano - Frammenti da un museo in transito”, inaugurata il 28 novembre 2019 al Museo Archeologico Antonino Salinas di Palermo. Un progetto di Helga Marsala, critica d’arte e curatrice, curato insieme a Caterina Greco, direttrice del Museo Salinas. Nel racconto di Stifter la conoscenza del bello artistico rappresenta una tappa essenziale della formazione umana: per il narratore una vera e propria iniziazione. La mia personale ‘iniziazione’ è avvenuta tra le mura del Museo Archeologico di Palermo una sera piovosa di settembre: qui, tra depositi, sale chiuse, corridoi silenziosi immersi in una surreale quiete, una statua - forse un simulacro della Dea Athena - mi si mostrò sotto una luce diversa. L’avevo già vista, passandovi accanto più volte; eppure, quella notte, fui investita da un’apparizione: tutta la poesia e la bellezza dell’antico mi si pararono davanti, innescando un circuito virtuoso di pensieri e di sguardi. Il Museo Archeologico, di lì a poco, avrebbe accolto le opere di alcuni artisti contemporanei, poste in dialogo con i suoi reperti secolari. Fino a quella sera non avevo colto veramente il nesso. Poi ho capito. Di più, sono entrate in gioco la passione e la seduzione. “Quando le statue sognano” è un progetto artistico e curatoriale partito dall’unicità del contesto, vera location d’eccezione: le sale del Museo più antico della Sicilia, chiuse al pubblico per via dei lunghi lavori di restauro, diventavano per l’occasione delle scenografie sognate, in cui reperti archeologici dormienti sperimentavano un dialogano intrigante con opere site-specific, pensate e realizzate per il ‘Salinas’ al fine di svelarne e raccontarne le fasi di transito e gli ambienti in evoluzione. Sale e depositi diventavano serbatoi per produzioni contemporanee, mentre l’archeologia si faceva fonte di ispirazione per riflessioni e formalizzazioni artistiche attuali: non un rassicurante ritorno del passato, dunque, quanto il recupero di uno sguardo sognante, giunto da spazi e tempi remoti e rimesso in scena in un luogo sospeso, fortemente caratterizzato. Il museo, nuovo teatro onirico, accoglieva linguaggi diversi lungo epoche lontane, mescolando e contaminando gli elementi per generare una realtà altra, attuale e insieme remota, fra estetica, tecnologia e finezze artigianali. Una realtà nutrita da risonanze, memorie, narrazioni inattese.
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Erano l’energia sospesa e la forza visionaria dei reperti a costruire l’aggancio con il contemporaneo, capace di riflettere suggestioni, temi, e - in questo caso - sogni venuti da lontano. Un’operazione audace, pensata per trasformare in nuovo contenuto l’attesa della riapertura di due piani, avvicinando il pubblico alla storia del Museo, ai suoi reperti, ai suoi spazi in trasformazione. Quest’esperienza intensa, che ho avuto la fortuna di seguire in prima persona, lavorando a stretto contatto con la curatrice, gli artisti, il personale del Museo, è servita da stimolo per approfondire le modalità e le tipicità della relazione tra mondo antico e arte contemporanea, tema che negli ultimi anni ha assunto un valore assai rilevante.
Erma di Dioniso detto Sardanapalo, sec. II d. C. - depositi Museo Salinas, Palermo, novembre 2019
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Introduzione
Negli ultimi decenni una quantità crescente di progetti espositivi e di ricerca ha visto l’arte contemporanea abitare musei e parchi archeologici, al fine di coltivare nel pubblico una frequentazione partecipata e consapevole di luoghi consacrati all’antico, così svecchiati, rinnovati, problematizzati, e al contempo di promuovere in modo nuovo l’arte contemporanea stessa, grazie a una prolifica e stimolante collaborazione tra Soprintendenze, funzionari, archeologi, storici dell’arte, curatori e artisti. Iniziative del genere sono espressione della volontà di stabilire una connessione con il territorio, di trovare nuovi punti di contatto, di favorire una diversa concezione del bene culturale e di conquistare, infine, anche target di pubblico non specializzato. Del resto, il confronto con l’eredità del passato e con l’antico ha rappresentato da sempre uno degli stimoli più vivificanti per l’evoluzione creativa e intellettuale degli artisti: dal lontano Rinascimento fino ai nostri giorni, nei modi più vari e nelle forme più innovative, si è attinto costantemente da quell’immenso deposito che è la Storia, offrendo nuove riflessioni, rielaborando e risignificando segni, icone, miti e modelli. Molti e diversi sono stati i modi in cui l’antico è stato letto, interpretato e utilizzato, in un susseguirsi di flussi e riflussi verso il passato: il primo capitolo di questo testo offre, in tal senso, alcune suggestioni. Per approfondire questo vasto e affascinante tema, vengono qui presi ad esempio tre casi italiani. I primi, tema del secondo capitolo, sono rappresentati da due storici Musei archeologici italiani: il MANN - Museo Archeologico Nazionale di Napoli, che dal 2015 porta avanti un’audace programma di mostre, rassegne ed eventi focalizzati sull’arte contemporanea, e il Museo Egizio di Torino, che ha di recente aperto le sue porte al contemporaneo, in previsione di quella che diventerà una costante dell’offerta espositiva del Museo. Il terzo caso, argomento principale della ricerca, è quello del Museo Archeologico Regionale Antonino Salinas di Palermo, cui è dedicato un ampio focus nel terzo capitolo: partendo dall’origine del Museo e delle sue principali collezioni, con la figura dello storico Direttore Antonino Salinas, si passa all’originario complesso architettonico (l’ex Casa conventuale dei Gesuiti) e al lungo periodo di chiusura dovuto al restauro dell’edificio, per concludere con la corporate identity del Museo a porte chiuse e con l’attesa apertura definitiva degli spazi. Un Museo unico, il Salinas, nel contesto territoriale siciliano, per età, prestigio, estensione degli spazi e delle collezioni; un Museo che, essendo oggi parzialmente attivo, ha deciso di affidare proprio ad alcuni artisti contemporanei il disvelamento in anteprima di una alcune aree restaurate, in attesa di essere riallestite: la mostra Quando le statue sognano (2019), di cui è attesa una seconda parte nel corso del 2020, ha dischiuso, ripensato, attualizzato e restituito frammenti del muse tra opere e spazi - sperimentando incastri e contaminazioni. 11
Il commento e la memoria della mostra chiudono la riflessione imbastita in queste pagine: i temi, gli artisti, le opere e la campagna pubblicitaria sono i protagonisti della parte finale del testo, insieme a una piccola sezione di interviste, realizzate insieme alla curatrice Helga Marsala e rivolte agli artisti che, per l’occasione, si sono relazionati col Museo. La loro prospettiva e il loro commento risultano fondamentali per comprendere meglio l’esperienza di chi, dalla parte del contemporaneo, si è misurato con testimonianze materiali e immateriali di un passato millenario, sperimentando l’esperienza del dialogo con l’antico.
2.
3.
N. Himmelmann, Op. cit., p. 31.
Ivi. p. 225.
4.
E. H. Gombrich, Arte e illusione. Studio sulla psicologia della rappresentazione pittorica, tr. it. di Renzo Federici, Einaudi editore, Torino, 1965, p. 63.
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Se, come afferma Aby Warburg, Dio è nel particolare. Ma per scorgerlo è necessaria una prospettiva il più possibile ‘universale’ nell’occhio di chi osserva 2, occuparsi dell’antico non può prescindere dall’adottare una visuale ampia, uno sguardo proiettato anche su ciò che è distante, non sottraendosi alla sfida e al rischio di una messa in discussione autentica, fra ritorni, riusi, tradimenti, capovolgimenti, intersezioni. E il rischio è già, in larga parte, nel gap che spesso il pubblico avverte misurandosi con ciò che è noto, passato, facilmente decodificabile (in apparenza) e ciò che appare invece ermetico, ostico, faticoso: se l’antico rassicura, il contemporaneo sconta l’antico pregiudizio della comprensibilità come garanzia di piacevolezza o di valore. Che si tratti di una tela monocroma, di una scultura astratta, di un video, di un dipinto figurativo, della statua di una dea o di un eroe, non è tanto (o non dovrebbe essere) la riconoscibilità formale a fare da discrimine rispetto alla forza dell’opera, quanto la sussistenza di un certo livello di complessità, di potenza, di ingegno, di spessore, nell’efficace corrispondenza tra superficie e contenuto, tra segno e concetto. Davanti a un’opera d’arte contemporanea, però, ci si trova spesso disarmati: per scarsa alfabetizzazione; per mancanza di riferimenti iconografici o fonti precedenti che aiutino a decifrare e riconoscere l’oggetto; per quell’orizzonte estetico, emerso fin dagli albori del ‘900, che nel nome del concetto, del simbolo o della pura espressività sacrifica il piano della narrazione, della figurazione e della mimesi, erroneamente considerati veicolo per una piena comprensione dell’opera. Se si volesse elaborare una specifica metafora, l’arte contemporanea potrebbe essere paragonata a un gioco che viene giocato prima che ne siano formulate le regole.3 Come fa notare bene Gombrich, Ogni volta che ci troviamo di fronte a un tipo di trasposizione che non ci è familiare c’è un breve momento di shock, seguito da un periodo di adattamento.4 Diffidenze residue, quelle verso il contemporaneo, smentite dalla natura complessa di tutti i linguaggi e le evoluzioni dell’arte, non dimenticando che ogni opera è stata contemporanea, figlia del proprio tempo, frutto di una ricerca presente e viva, la cui lettura richiede livelli di conoscenza profondi, articolati, progressivi.
Mautizio Nannucci, All Art Has Been Contemporary, 1999/2000, Staatliches Museum Ägyptischer Kunst (SMÄK)
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L’Antichità come futuro (All Art has been Contemporary)
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L’antico riveste ancora oggi un ruolo significativo nell’immaginario collettivo, con un potere emozionale raramente eguagliato. Qualcuno lo pescherà, di tanto in tanto, dalla periferia dei propri ricordi, per qualcun altro affiorerà costantemente dal deposito della memoria, essendo frequentazione abituale. Il confronto con l’eredità e le tracce di una storia millenaria, ha rappresentato e ancora rappresenta uno degli stimoli più vivificanti per l’evoluzione artistica e intellettuale degli artisti. Dai giganti del Cinquecento, come Michelangelo e Raffaello, fino a una lunga serie di maestri contemporanei, da Paolini a Pistoletto, molti e diversi sono stati i modi in cui l’antico è stato letto, interpretato e utilizzato, in un susseguirsi di flussi e riflussi verso il passato. Da quel deposito, nel corso dei secoli, hanno attinto generazioni di artisti, con motivazioni, atteggiamenti e obiettivi sempre differenti, offrendo riflessioni inedite, rielaborando modelli e risignificando icone, tra sguardo contemporaneo e patrimonio storico, in un’alternanza di trasgressione, provocazione, celebrazione, strappo radicale o estremo rifugio. La fame di antico non è certo nuova nella storia dell’arte, basti citare il Rinascimento e il Neoclassicismo, con le teorie di Winckelmann soprattutto, le quali segnarono il passo, il gusto e l’attitudine della modernità in Occidente. La sua Storia dell’arte nell’antichit (1763) può essere a buon diritto considerata una metafisica del bello5, espresso idealmente nel modello dell’antichità classica e in una serie di valori senza tempo, universalmente validi: la contemplazione estetica, il raccoglimento meditativo, la partecipazione sentimentale a un’idea di bellezza considerata pura, genuina, vera. Sotto l’impulso di tali teorie, si svilupparono nel XIX secolo gli studi archeologici moderni, mentre le università europee vennero allestite con raccolte di calchi in gesso di sculture classiche, per introdurre gli studenti all’essenza dell’arte attraverso la conoscenza di quei canoni. Tendenza che persiste ancora oggi: basti fare un giro tra le aule e i corridoi delle nostre Accademie di Belle Arti, disseminate di calchi di opere classiche.
5.
L. Venturi, Storia della critica d’arte, Einaudi editore, Torino, 1965, p. 185.
Sebbene sia innegabile che la tradizione culturale greco-romana eserciti tuttora nel mondo occidentale un’influenza profonda, quando si parla di antico non va trascurata l’attrazione per epoche, estetiche e linguaggi che nulla o poco hanno a che fare con la classicità. Eredi e continuatori della lezione neoclassica, volta a ritrovare nelle manifestazioni artistiche del passato la perduta bellezza del mondo, i romantici assunsero il Medioevo come loro modello ideale, un seducente serbatoio di valori e iconografie a cui ispirarsi, considerato da John Ruskin e dai Preraffaelliti linfa pura e genuina espressione di una vita moralmente sana ed esteticamente avvincente. Scrive con efficacia Rosario Assunto, nel celebre saggio che dà il titolo a questo paragrafo: Per noi che viviamo in un tempo del quale la storia, e l’arte, e l’esteticità stessa in quanto categoria vengono messe in questione, non l’arte greca soltanto, o l’arte del Medioevo, del Rinascimento, valgono come norme o modelli inarrivabili:è
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6.
R. Assunto, L’antichità come futuro. Studio sull’estetica del neoclassicismo europeo, Ugo Mursia Editore, Milano, 1973.
tutta quanta la storia, con tutta l’arte, e con la categoria estetica nella inesausta ricchezza delle sue determinazioni, che sta dinanzi a noi come quel futuro che l’Antichità fu per i neoclassicisti, il Medioevo per il romantici: la Terra Promessa in cui rimpatriare, dopo le peregrinazioni nel deserto e il passaggio del Mar Rosso.6 Come il Medioevo per i romantici e la classicità greca per i neoclassicisti, il passato è stato quindi continuamente ripreso e proiettato in avanti da artisti e letterati, divenendo modello a cui ispirarsi, fonte di turbamenti creativi e di fervori intellettuali: si pensi all’arte primitiva e all’arte africana per i Cubisti o per artisti quali Modigliani e Matisse, ma anche al fascino che i mosaici bizantini esercitarono su Klimt, rimasto estasiato dagli ori di Ravenna durante il suo viaggio in Italia nel 1903.
Un’altra idea di Classico Gli Artisti Contemporanei e l’Archeologia
7. S. Settis, Futuro del classico, Einaudi editore, Torino, 2004.
Se nel pensiero comune le due categorie di antico e di classico tendono a sovrapporsi, non è quindi esclusivamente sulla seconda che ci si vuole qui soffermare. Mentre il termine antico mantiene un valore quasi neutro, e può esser riferito a differenti culture del passato, il termine classico è al contrario assai connotato, avendo a che fare con un oggetto preciso: la tradizione culturale greco-romana, per la quale la cultura moderna occidentale mostra ancora un profondo interesse. E però, come afferma Salvatore Settis, Ogni epoca, per trovare identità e forza, ha inventato un’idea diversa di ‘classico’. Cosí il ‘classico’ riguarda sempre non solo il passato ma il presente e una visione del futuro. Per dar forma al mondo di domani è necessario ripensare le nostre molteplici radici. 7 La costruzione del domani, il disegno di un orizzonte prossimo, non si svincola dalla necessità di definire una qualche forma di classicità. Vi è dunque una tendenza naturale a riflettere sul passato, che connota largamente la cultura moderna occidentale: che si tratti di opere d’arte, oppure di testimonianze remote della civiltà o di reperti della storia di un popolo, le rovine e i reperti posseggono un valore ideale, estetico, emozionale, persino concettuale. La patina del tempo, il frammento, la maestria artigianale e le meraviglie dell’ingegno artistico e letterario evocano l’idea di un’umanità degli albori, riconnettendoci in qualche modo al silenzio sacro delle origini, all’ineluttabilità della Storia e al brusio di antiche società, straordinariamente evolute. Quando il poeta Stazio nelle sue Silvae descrive la visita all’esperto d’arte Novio Vindice, racconta di rimanere colpito da un piccolo Eracle bronzeo dello scultore Lisippo; la vista dell’opera genera in Stazio visioni mitologiche, nonostante il piccolo formato egli vede davanti a sé il dominatore di leoni, l’eroe beato che gusta il nettare fra gli abitanti dell’Olimpo. Eracle si manifesta all’artista in una visione, in tal modo nel-
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la piccola figura si concretizza qualcosa di portentoso. Il poeta resta profondamente colpito dalla vista della scultura: non se ne può saziare.8 E così l’ archeologia classica, scrive il noto storico della filosofia Mario Vegetti, ha a che fare con un oggetto che si trova nel passato e ha un carattere ideale assunto come modello, archivio delle forme belle, infanzia felice dell’umanità, archeologia implicante una teleologia, territorio della nostalgia per l’intellettuale europeo […] scavo rigoroso di valori esemplari per la moderna epoca […]. 9 Ancora, l’artista francese Auguste Rodin, maestro assoluto della scultura ottocentesca, nonché appassionato collezionista di statue antiche, si rifaceva nelle sue opere dense di vitalismo plastico all’iconografia del mito classico, affermando a riguardo di aver capito il segreto degli scultori greci, equiparabile al loro amore di vivere. E così aggiungeva: I miei lavori migliori sono quelli che ho strappato per intero alla natura. Sono stato spesso rimproverato per il fatto che il mio marciatore non avesse testa. C’è forse bisogno di una testa per camminare? 10 Fenomeni che caratterizzano il rapporto moderno con l’antichità si verificano i molti campi e su vari livelli. È stato osservato da Salvatore Settis che il Classico muore per rinascere ogni volta uguale a se stesso e ogni volta diverso: un modello ciclico che ha attraversato tutta la storia dell’arte europea del Novecento fino ai nostri giorni. 11
8.
N. Himmelmann, Op. cit., p. 86.
9. M. Vegetti, Nuove antichità: metafore dell’immaginario, produzione di saperi, figure del sacro, in “Aut aut”, n. 184/185, Milano, 1981, p. 1.
10.
N. Himmelmann, Op. cit., p. 222.
11.
S. Settis, Op. cit.
L’attitudine contemplativa di fronte all’opera d’arte, propugnata felicemente da Winckelmann, fu del tutto ribaltata da quegli artisti che, in bilico tra rispetto e trasgressione, hanno negato quella stessa tradizione, avvertita come un fardello da scrollarsi di dosso. I manifesti delle Avanguardie storiche, all’inizio del ‘900, sono in tal senso esemplari: quello futurista del 1909 e quello dadaista nel 1918. In quest’ultimo si legge dada = abolizione dell’archeologia, una provocazione, all’epoca assai radicale, attraverso cui scoraggiare nel pubblico ogni forma di contemplazione assorta, ritenuta ormai un fatto puramente convenzionale, tra sguardo passivo e rassegnazione al cliché. Una maniera, infine, per elevare ironicamente - al pari del Laocoonte o del Torso del Belvedere - oggetti assolutamente comuni: ready-made usati come purganti contro una società borghese e contro un presente completamente fasullo, posticcio, per il quale Duchamp trovò una degna espressione nella celebre Gioconda con i baffi, arrivando a gettare le basi per una irreversibile rivoluzione estetica e culturale, con il suo catalogo di cose comuni, trasportate nella cornice del sistema dell’arte: dall’orinatoio allo scolabottiglie, passando per la ruota di bicicletta (se vogliamo, una sorta di archeologièa minima del presente, condotta scavando la superficie del quotidiano). L’azione compiuta dai dadaisti segnò una rottura: l’idolatria per l’oggetto concreto, condotto sul piano dell’opera d’arte, portò all’emancipazione dei linguaggi creativi dai canoni tradizionali - figuratività, proporzioni, armonia -, aprendo così la strada all’arte concettuale. 17
Giulio Paolini, Mimesi (Mimesis), 1975, Walker Art Center, Minneapolis (USA)
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Riappropriazioni e Reinvenzioni Anche l’archeologo - seppur con scopi ben diversi - apparecchia, fra teche e vetrine dei musei, oggetti comuni: utensili, cibi essiccati, bicchieri, elmi, gioielli, ecc. Così ne fa opere d’arte da contemplare, costruendovi attorno un’aura. In tal senso sono evidenti gli influssi reciproci tra la figura dell’artista, con le sue esplorazioni di natura estetica, e quella dell’archeologo, in quanto ricercatore ma anche creatore di contesti per i ritrovamenti da esporre in ambito museale. Si pensi ad esempio alle pitture di sabbia di Antoni Tàpies, che mostrano una sorprendente somiglianza con gli allestimenti (tavole di legno cosparse di sabbia, terra, cenere ecc.) che da generazioni accolgono nei musei archeologici i reperti, disposti secondo la loro stratigrafia.12 Su questa similitudine si concentrerà, dagli anni Sessanta in poi, il lavoro di alcuni artisti, indirizzati sempre più verso la pratica del recupero e dello studio dell’antico, verso cui maturava un approccio nuovo. Come afferma Vegetti, gli specialisti si trovarono di fronte ad un oggetto in un certo senso nuovo e anche eccitante e cominciavano a guardarsi attorno, c’entrava probabilmente l’accelerata circolazione di idee, delle scelte, delle domande tipica della seconda metà degli anni 60’, cambiò soprattutto lo sguardo, che tendeva ad avvicinarsi a quello dell’antropologo e dell’archeologo. Cambiarono i parametri d’interesse, si rinnovò in parallelo il dominio contiguo e poco frequentato del medioevo, da cui venivano nuovi stimoli di ricerca. L’attenzione verso il territorio dell’antico (non solo il classico) non si era mai del tutto spenta”.13
12.
N. Himmelmann, Op. cit., p. 238.
13.
M. Vegetti, Op. cit., p. 3.
Il confronto con l’antico si espresse in un nuovo interesse verso la concretezza del reperto, il frammento, l’incompiutezza, la decadenza: i resti del passato esercitano sugli artisti contemporanei una potente fascinazione e offrono un terreno fertile per inediti scenari narrativi. Dai maestri dell’Arte Povera come Jannis Kounellis, Michelangelo Pistoletto, Giulio Paolini, a quelli della Transavanguardia, come Mimmo Paladino o Sandro Chia, fino a fotografi del calibro Mimmo Jodice: artisti con sensibilità differenti, ben lontani dal mero recupero anacronistico, che hanno intrattenuto con l’antico uno scambio continuo, fondato su riappropriazioni e reinvenzioni spesso audaci. L’antico, serbatoio di icone e categorie senza tempo, diviene patrimonio da attraversare, evocare, riscrivere e rimodulare. Talvolta con disinvoltura e ironia, talaltra con inquietudine, in un continuo oscillare tra celebrazione e profanazione, ripresa e contraddizione. Con l’Arte Povera gli artisti saccheggiano con determinazione l’anima più profonda di ciò che l’antichità ha tramandato: resti, rovine, teste, colonne, parti anatomiche, frammenti di cose e di corpi, brani di architettura , echi di storie mitologiche, cogliendo la potenza dell’invisibile che intorno al
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14.
Antico/contemporaneo: sguardi, prospettive, riflessioni interdisciplinari alla fine della modernità, a cura di F. Gallo e M. C. Storini, Sapienza Università Editrice, Roma, 2018.
15.
F. Poli et al. Contemporanea. Arte dal 1950 a oggi, Mondadori Electa, Milano, 2008.
frammento si rapprende.14 Kounellis, grande artista greco naturalizzato italiano, recupera ad esempio forme e temi dall’antichità, come a voler costruire un legame ininterrotto con il suo passato e la sua cultura d’origine. L’oggetto classico, con l’eco resistente dell’antichità, non viene emulato ma citato, campionato, rivisitato. Citazione, duplicazione e frammentazione sono alla base del lavoro di Giulio Paolini. I calchi in gesso di statue antiche, protagonisti di diverse installazioni, rappresentano l’espressione più alta di opera d’arte, nell’impossibilità dell’artista contemporaneo di raggiungere quella medesima compiutezza ideale. Con l’opera Mimesi (Mimesis) del 1975 Paolini entra nel vivo di questo concetto: si tratta di due statue speculari, copie di opere greche. Un’opera ermetica, concettuale, dedicata al rapporto tra originale e copia: il calco - copia della copia di innumerevoli repliche - rimette in scena un’immagine tratta dalla storia dell’arte antica, per accedere a un ambiguo macrocosmo senza tempo. 15 C’è poi chi si è misurato con gli archetipi del mondo classico, come Yves Klein in Venus blue (1962), celebrazione della dea, in quanto icona di bellezza emersa dagli abissi del mito. È il busto mutilo dell’Afrodite di Cnido a essere interamente ricoperto di quel blu - anch’esso entrato nel mito - brevettato dall’artista e battezzato col suo nome. Un uso sempre più radicale viene fatto anche del motivo del reperto, nella sua limitatezza, accidentalità e incompiutezza: il fascino per il frammento è testimoniato ad esempio dall’opera di Pino Pascali Torso di negra al bagno (Nascita di Venere) del 1964, dove la dea è irriconoscibile, presentata come fosse una sorta di ombra, una silhouette acefala, senza braccia né gambe.
16.
Ivi. p. 450.
Del 1967 è la celebre opera Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto, uno dei principali esponenti dell’Arte Povera, con un lavoro programmaticamente vario e contraddittorio. La Venere svestita mostra la schiena al visitatore, posta di fronte a un cumulo di stracci colorati: se non ci fosse la statua, anche quegli scampoli di tessuto non avrebbero ragione d’esistere. È la dea a conferire loro un ordine.16 Eccola, soggetto classico per eccellenza: col suo biancore e il suo rigore granitico, dialoga con la massa multicolore ed effimera di oggetti d’uso quotidiano, per contrasto e per dissacrazione. La bellezza classica, incarnata da una divinità statuaria, è tutt’uno con la bellezza contemporanea, mobile, fluida, eccentrica, informe.
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Dagli anni Sessanta in poi l’archeologia diviene territorio di ricerca e sperimentazione per gli artisti. Rovine e reperti - gli oggetti con cui ha a che fare l’archeologo - si differenziano dagli altri manufatti perché segnati profondamente dalla storia e dal tempo: la stratificazione, la patina sedimentata, i cambiamenti organici di colore, le corrosioni, le incrostazioni, il decadimento, vengono assunti dall’arte contemporanea come mezzi espressivi, forme del divenire e del mutamento a
Robert Mapplethorpe, Robert Mapplethorpe. Coreografia per una mostra, 2018, veduta della mostra al Madre, museo d’arte contemporanea Donnaregina, Napoli
cui riferirsi per nuove riflessioni e formalizzazioni. Anche metodologie e pratiche dell’archeologo - scavi, planimetrie, compilazione di inventari, stratigrafie - diventano oggetto di interesse e di ricerca per artisti come Christian Boltanski, Nikolaus Lang, Tony Cragg: i musei e le esposizioni d’arte contemporanea incontrano, sempre più spesso, oggetti del quotidiano, persino insignificanti, corredati da riferimenti biografici, indicazioni di misure, numerazioni, registrazioni d’inventario. Un’anomala attività archeologica e scientifica, ambiguamente fittizia, puramente simbolica. Christian Boltanski, nel corso di una lunga e articolata ricerca, conduce una profonda riflessione sui concetti di tempo, memoria, ricordo. Nell’opera Vitrine de références, realizzata tra il 1970 e il 1973, l’artista classifica ed espone in teche di vetro - alla stregua dei musei etnografici - testimonianze di un passato intimo, offrendo in consultazione al pubblico la propria stessa vita: vetrine zeppe di documenti personali, lettere d’amore, fotografie corredate da didascalie e riferimenti precisi, compongono un’autobiografia per frammenti, esposta allo sguardo dello spettatore e alla sua arbitraria attività di ricostruzione. In ambito fotografico è l’artista americano Robert Mapplethorpe a trasportare nel cuore della classici-
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tà una ricerca fortemente contemporanea, coltivata nella temperie newyorchesi degli anni Settanta del secolo scorso, tra ossessioni erotiche, rivendicazioni omosessuali, indagini identitarie, riflessioni esistenziali e avventure creative condivise da comunità di sperimentatori coraggiosi, totalmente liberi: il riferimento costante alla statuaria greco-romana, al rigore formale del classico, al candore del marmo e alla purezza delle forme, convive - in una sintesi altissima - con l’ostentazione di una sessualità organica, di una fisicità muscolare, di una carnalità preponderante, spesso protesa verso il terreno della perversione. Una sublimazione di rara potenza iconografica e concettuale. Tony Cragg invece, nei suoi celebri Stack, risalenti alla seconda metà degli anni Settanta, raccoglie meticolosamente in un solido squadrato, forte e severo, le scorie della nostra civiltà, come fossero stratificazioni geologiche: feltro, polistirolo, materiali prelevati da cantieri edili o recuperati nelle discariche.
Mark Dion, Tate Thames Dig, 1999, Tate Britain, Londra
Un ammonimento e una riflessione intorno all’impatto del genere umano sull’ambiente circostante accomuna il lavoro di Cragg a quello di Mark Dion, entrambi soffermatisi sul modo in cui il tempo modifica la materialità delle cose, trasformandole in spazzatura. A partire da Tate Thames Dig (1999), Dion stabilisce una delle relazioni più significative tra arte contemporanea e pratica archeologica. L’opera fu eseguita a Londra, nei pressi della Tate Modern, come in un moderno scavo: l’artista e la sua squadra effettuarono una ricognizione lungo la riva del Tamigi, perlustrando e raccogliendo ogni sorta di oggetto depositato nel corso delle maree del fiume. Accumularono una gran quantità di materiali, poi classificati e collocati all’interno di un’elegante vetrina della Tate. Tate Thames Dig rappresenta, sul piano del metodo, una perfetta operazione a metà tra arte e archeologia.
L’Arte Contemporanea nel Sito Archeologico Per offrire un’ulteriore suggestione sul rapporto fra archeologia, antichità e cultura contemporanea, è utile soffermarsi anche sugli interventi realizzati da maestri, ma anche su quelli di artisti delle nuove generazioni, nei siti archeologici di grandi città o in piccoli centri, dove le rovine e le vestigia del passato glorioso diventano terreno fertile per nuovi scenari narrativi. Su tutti l’intervento di Christo sulle Mura Aureliane di Porta Pinciana The Wall - Wrapped Roman Wall (1974): qui l’artista si misura concretamente e in modo eclatante con l’archeologia, nell’intento di restituirla alla fruizione quotidiana favorendone una rinnovata percezione, in un contesto - quello della modernità - ormai alterato e imbruttito. Altrettanto incisivo il pionieristico lavoro della coppia di artisti francesi Anne e Patrick Poirier, autori di un corpus di opere a indirizzo archeologico potente e suggestivo: Modello di Ostia è la monumentale operazione di calco di un sito archeologico, avviata negli anni Settanta, ragionando intorno a un’idea di rovina come contenitore di memorie emozionali da portare alla luce. Numerosi sono gli artisti che nel corso degli ultimi decenni hanno inglobato i resti della cultura materiale del passato nelle loro opere, e sempre maggiori le iniziative volte a stimolare e promuovere invasioni di campo del contemporaneo all’interno dei siti archeologici. A Roma l’area dei Mercati di Traiano, ad esempio, a partire dai restauri negli anni Ottanta è diventata sede espositiva privilegiata per l’arte contemporanea: dal 1999 e fino al 2010 la manifestazione i Giganti ha proposto, nelle sue diverse edizioni, interventi di grandi artisti europei, da Joseph Kosuth a Marina Abramovic, da Alfredo Pirri a Mario Merz, con lavori prevalentemente site-specific realizzati in luoghi monumentali altrimenti non accessibili. Sempre a Roma, tra le rovine della sinagoga del Parco archeologico di Ostia Antica, una tra le più remote testimonianze 23
archeologiche dell’ebraismo della Diaspora. Sempre a Roma, tra le rovine della sinagoga del Parco archeologico di Ostia Antica, una tra le più remote testimonianze archeologiche dell’ebraismo della Diaspora, viene ospitata la Biennale di arte contemporanea Arteinmemoria, inaugurata nel 2002 e oggi giunta alla sua decima edizione, primo embrione del progetto di un possibile, futuro museo d’arte contemporanea in un sito archeologico. Qui si sono avvicendati artisti di fama mondiale: da Jannis Kounellis a Richard Serra, da Giuseppe Penone a Carl Andre, passando per Georg Baselitz e molti altri. Nel 2005 è la volta di Intersezioni, rassegna d’arte contemporanea nel Parco Archeologico di Scolacium, in Calabria, che ha ospitato opere di Tony Cragg, Mimmo Paladino e Jan Fabre. Pensata con l’obiettivo di gettare nuova luce su un sito che rischiava di essere dimenticato, Intersezioni ha di fatto stimolato la nascita nel 2008 del Museo di Arte Contemporanea di Catanzaro. Iniziative di questo tipo mirano alla valorizzazione del sito archeologico che diviene museo a cielo aperto, dove, tra le antiche rovine, si insinuano opere e interventi spesso site-specific, come nel caso della manifestazione annuale Land Art Campi Flegrei (2006). Il 2016 è l’anno della grande mostra Par tibi, Roma, nihil (Niente come te, Roma), con artisti di fama internazionale coinvolti nella suggestiva area archeologica del Colle Palatino, nel cuore di Roma. Un progetto a cura di Raffaella Frascarelli (Nomas Foundation), da un’idea di Monique Veaute (RomaEuropa Festival). Riaperti al pubblico per l’occasione, la Domus Severiana, lo Stadio Palatino e la Domus Augustana ospitano - in un dialogo continuo tra passato e presente - sculture, installazioni, performance e opere site-specific di artisti contemporanei. Dalle enormi bandiere di Daniel Buren, che svettano sulla terrazza della Domus Severiana, alla fontana di 30 metri di Sislej Xhafa tra l’Arco di Costantino e il Colosseo, nella sede della ormai scomparsa Meta Sudans, imponente fontana di epoca flavia.
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Nel 2018, all’interno del programma di Palermo Capitale Italiana della Cultura 2018, l’artista fiammingo Jan Fabre celebra la Sicilia con la grande mostra diffusa tra il Duomo di Monreale e la Valle dei Templi di Agrigento: Ecstasy & Oracles mette in dialogo alcune delle sue opere più note con i preziosi mosaici del Duomo, le chiese medioevali e i templi la Valle agrigentina. In quest’ultima suggestiva cornice sono disseminate celebri sculture dell’artista, come L’uomo che dirige le stelle (2015) e L’uomo che dà il fuoco (2002), mentre nei pressi del Tempio della Concordia, presentata su 5 grandi schermi, dà scandalo una performance i cui suoni riecheggiano nei vasti spazi aperti: evocando le feroci baccanti e la violenza orgiastica del culto di Dioniso, il mito della profetessa Cassandra e l’oracolo della Pizia, la performer/sacerdotessa Stella Höttler si muove convulsamente fra tartarughe di terra, in una sorta di estasi mistica.
Per concludere questo breve excursus di invasioni di campo da parte del contemporaneo nei luoghi archeologici, è doveroso citare l’opera visionaria del giovane artista italiano Edoardo Tresoldi, all’interno di un programma di valorizzazione territoriale promosso dal Segretariato regionale del ministero per i Beni e le attività culturali e dalla Soprintendenza archeologica della Puglia, battezzato Dove l’arte ricostruisce il tempo. Tresoldi per l’occasione dà vita alla stupefacente installazione ambientale in rete metallica che ricostruisce la Basilica paleocristiana all’interno del Parco archeologico di Santa Maria di Siponto, a Manfredonia (Foggia). Nessun muro, nessuna struttura invasiva, solo un leggerissimo ricamo di rete zincata elettrosaldata, alta 14 metri, a ripercorrere i volumi della maestosa Basilica, restituita agli sguardi del pubblico quasi fosse un enorme ologramma, traccia fantasma di una costruzione di cui restano oggi esclusivamente i mosaici e la pianta.
Edoardo Tresoldi, Basilica di Siponto, installazione permanente, 2016, Parco Archeologico di Siponto, Manfredonia (FG)
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Storie di Musei, tra Antico e Contemporaneo Due casi italiani
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Che i musei archeologici siano esclusivamente luoghi della conservazione e della memoria, contenitori di un passato immobile, è un pregiudizio ampiamente smentito. Il museo è soprattutto luogo di identità e di possibilità. Di crescita e di pensiero. L’eredità culturale custodita tra gli spazi di un museo ha come suo primo valore la formazione individuale e collettiva, su un piano morale, etico ed estetico. È dunque auspicabile che il museo si ponga oggi come collante della comunità, riferimento culturale, contenitore di patrimoni condivisi e veicolo di produzione intellettuale, nonché occasione di incontro e di scambio per la cittadinanza. In una parola, che sia radice attiva del nostro tempo, là dove la memoria non funzioni come mera citazione ma come elemento vivo nella costruzione del futuro. Come afferma Ranuccio Bianchi Bandinelli, nella raccolta di scritti Archeologia e cultura, è necessario che il museo - in primis un museo archeologico - si confronti con il proprio tempo, dando spazio a un’intelligenza del presente che porti ad ampliare l’offerta espositiva e la ricerca, includendo temi propri della contemporaneità: dall’arte al cinema, passando per la poesia e per i grandi temi dell’attualità. Una maniera, insomma, di esercitare una viva curiosità intellettuale.17
17.
R. Bianchi Bandinelli, Archeologia e cultura, Editori Riuniti, Roma, 1979, p. 119.
È nel solco di questa impostazione che, negli ultimi decenni, sono in continua crescita progetti e iniziative in cui l’arte contemporanea abita, con progressiva naturalezza, contesti archeologici e collezioni di opere antiche, dislocate tra sale e depositi, per mezzo di una prolifica e stimolante collaborazione tra dirigenti, funzionari, archeologi, storici dell’arte, curatori e artisti. Iniziative di questa natura sono espressione della volontà di stabilire una connessione forte con il territorio, nel segno del radicamento e della prossimità, cercando nuovi punti di contatto, favorendo una nuova concezione del bene culturale, puntando a sensibilità figlie del presente e stimolando riflessioni attuali. Si punta così a intercettare un pubblico sempre più folto, anche fra target non di settore, favorendo una frequentazione partecipata e consapevole dei contesti storico-artistici e archeologici: luoghi d’eccezione che diventano teatro dell’opera contemporanea, secondo scambi complessi, a volte rischiosi, spesso capaci di sorprendere. Solo per citare qualche esempio, compulsando l’infinita letteratura artistica e museologica: nel 2012 il Museo Archeologico di Amelia (TR) ha ospitato la mostra Convivenze. Un percorso tra archeologia e arte contemporanea, uno scambio tra i molteplici linguaggi dell’arte astratta e figurativa; dipinti, disegni, sculture e fotografie di artisti contemporanei convivono con i reperti archeologici della storia amerina, raccolti negli scavi della città e nei suoi dintorni. Il Museo Archeologico di Angera (VA) inaugura nel 2016 la mostra d’arte contemporanea La presenza nascosta, per indagare il senso del divino nell’arte, attraverso il parallelo tra opere antiche e artisti contemporanei: È sempre interessante e
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avvincente notare come la nostra tradizione figurativa e mitologica, primitiva e ancestrale, non smetta mai di riemergere in ogni epoca, rivelando continue connessioni possibili, spiega la curatrice del Museo, Cristina Miedico. Nel 2017 il Museo Archeologico Nazionale di Pontecagnano (Sa) inaugura un ciclo di incontri e dialoghi dal titolo L’archeologia come fonte di ispirazione per l’arte contemporanea, concepiti come una sorta di appendice della mostra Hoc opus fecit… Pietro Lista, con l’obiettivo di avvicinare i visitatori del Museo alla conoscenza del contemporaneo, stimolando riflessioni e curiosità tra l’impulso innovativo delle esperienze artistiche odierne e l’attualizzazione dell’arte antica. Anche il Museo Archeologico Nazionale di Canosa di Puglia (Bt) ha aperto le sue porte al contemporaneo, esponendo nel 2019 al suo ingresso la scultura in bronzo Gli Archeologi (1968) di Giorgio de Chirico, con la quale è stata inaugurata la serie di contaminazioni tra arte contemporanea e archeologia. Più di recente, tra ottobre 2019 e gennaio 2020, la grande mostra Pompei e Santorini: l’eternità in un giorno, ospitata presso le Scuderie del Quiranle, costruiva un racconto affascinante intorno a due casi straordinari, tra il lustro di civiltà millenarie e l’ombra della catastrofe naturale, nel segno del reperto e della testimonianza materiale: l’insediamento minoico di Akrotiri a Santorini, distrutto da una spaventosa eruzione a metà del II millennio avanti Cristo e scoperto nel 1967, e il centro urbano di Pompei, ritrovato nel 1748 e raso al suolo quasi 1700 anni prima da una pioggia di cenere e lapilli, provocata dall’eruzione del Vesuvio. La mostra imbastiva un inedito confronto fra i due siti antichi, in un sorprendente percorso a ritroso scandito da bellezza e terrore, buio e luce, storia,natura e cultura. Nella moltitudine di reperti archeologici si inserivano anche molte opere d’arte moderna e contemporanea: da Turner a Damien Hirst, da Valenciennes a Warhol, da Burri e Giuseppe Penone, grandi nomi che negli ultimi due secoli hanno declinato secondo estetiche nuove il tema delle catastrofi naturali, l’immagine del vulcano e la stessa vicenda pompeiana. Per approfondire questo vasto e affascinante tema vengono qui prese ad esempio due storiche realtà archeologiche italiane: il MANN - Museo Archeologico Nazionale di Napoli, che dal 2015 porta avanti Contemporaneo al MANN, audace programma di mostre, rassegne e incontri, che hanno come fulcro il rapporto tra linguaggi artistici contemporanei e antichità; e il Museo Egizio di Torino, che di recente ha aperto le sue porte al contemporaneo in previsione di quella che sarà una costante della futura offerta espositiva.
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IL MANN - MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI NAPOLI Storia e Collezioni Il Museo archeologico nazionale di Napoli (MANN) rappresenta una delle più importanti e antiche realtà museali del panorama italiano. Custode di un patrimonio vasto, unico e prezioso, vanta tra le sue principali raccolte la Collezione Farnese, tra i più completi e importanti fondi di antichità rinascimentali italiane, la Collezione Egizia e la Collezione Pompeiana. L’origine e la formazione di queste tre principali nuclei è connessa alla figura di Carlo III di Borbone, Re del Regno di Napoli dal 1734. Sovrano dalla politica culturale illuminata, Carlo III promosse e incentivò fortemente l’esplorazione delle città vesuviane sepolte dall’eruzione del 79 d.C., dando vita al Museo Ercolanese all’interno della Reggia di Portici. Trasferì, inoltre, parte della ricca collezione della madre, Elisabetta Farnese, dalle sedi di Roma e Parma a Napoli, creando il Museo Farnesiano. I due principali nuclei, il Museo Ercolanese e quello Farnesiano, furono riuniti nel 1787 da Ferdinando IV, erede di Carlo III, dando così vita al Museo Archeologico nell’attuale edificio, sede dell’Università degli Studi. L’imponente edificio, sorto nel 1585 come Regia Cavalleria, fu sottoposto a una fase di lavori di ristrutturazione e ampliamento per essere adeguato a finalità museali. Nel 1816 assunse la denominazione di Real Museo Borbonico: fu in questa occasione che Antonio Canova realizzò la scultura dedicata a Ferdinando IV, ora Ferdinando I Re delle Due Sicilie, posta sullo scalone monumentale del museo. Divenuto Museo Nazionale nel 1860, con il progressivo aumentare dei reperti e dei materiali e con l’arricchirsi delle collezioni, per ovviare alla carenza di spazio vide trasferire le Istituzioni e i laboratori ospitati al suo interno: le Accademie (Scienza, Lettere e Belle Arti), la Biblioteca e la Pinacoteca. Da ciò deriva l’attuale configurazione del Museo Archeologico, oggi suddiviso in cinque livelli: al piano interrato troviamo le aree espositive della Sezione Epigrafica ed Egizia, inaugurata nel 2016, seconda in Italia solo a quella del Museo Egizio di Torino e composta in gran parte da collezioni private e da reperti rinvenuti a Pompei, Ercolano e Pozzuoli. Nelle sale e le gallerie del piano terra troviamo la Collezione Farnese, riaperta agli inizi del 2017 dopo un lungo e laborioso allestimento. Avviata da Alessandro Farnese - poi Papa Paolo III - la Collezione si è andata arricchendo con opere provenienti da illustri uomini del tempo, tra cui i Medici e gli Orsini, per giungere a Napoli grazie a Elisabetta, ultima dei Farnese, madre di Carlo III, che la ereditò. Fiori all’occhiello del MANN, tra le opere più maestose di questa collezione, sonoil Toro, l’Ercole, l’Atlante e la Pomona
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provenienti dalle Terme di Caracalla, poi il gruppo dei Tirannicidi e l’Afrodite Callipigia. Al piano ammezzato troviamo il Gabinetto Segreto, la Numismatica e la sezione dei Mosaici, questi ultimi prevalentemente rinvenuti durante gli scavi databili tra il II sec. a.C. e il 79 d.C., fatti eseguire dai Borbone nelle città vesuviane. Al primo piano trova posto la Sezione degli Affreschi, che, insieme ai numerosi reperti non esposti, rappresenta una delle più preziose e vaste testimonianze esistenti di pittura d’epoca romana a noi pervenuta. Flora, Saffo, il Ritratto di Terentius Neo e la moglie sono ormai vere e proprie icone del bagaglio culturale nazionale e internazionale. Sullo stesso piano si trova la Villa dei Papiri, sezione che ospita le straordinarie sculture in bronzo e in marmo rinvenute tra il 1750 e il 1761 nell’aristocratica villa di Ercolano, denominata dei Papiri per via del ritrovamento all’interno della biblioteca di circa 2.000 rotoli di papiro, prevalentemente testi filosofici e greci che forniscono, insieme all’arredo recuperato, uno dei più rappresentativi esempi di ville d’otium, d’epoca romana. Seguono la Sezione della Preistoria e Protostoria, e dal 2019, riaperta al pubblico dopo oltre vent’anni, la Sezione Magna Grecia, che con i suoi circa 400 reperti rappresenta un unicum per ricchezza e antichità. Adiacente a questa sezione vi è il Salone della Meridiana, un
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magnifico spazio che deve il suo nome alla meridiana solare inserita nel pavimento sul finire del Settecento. Una vasta parte dell’edificio è occupata dai depositi del Museo, silenziosi custodi di decine di migliaia di pezzi, in larga parte provenienti da Pompei ed Ercolano, che attendono di essere restaurati ed esposti. All’esterno del Museo, ma ad esso collegata, è la Stazione Neapolis, inaugurata nel 2005 con i reperti rinvenuti durante gli scavi per la realizzazione della sottostante stazione Museo della linea metropolitana.
Il MANN e il Contemporaneo Il Museo rappresenta una straordinaria occasione, per gli uomini di oggi, di contemplare le vette e condannare le miserie del passato, per cercare di essere cittadini migliori nella contemporaneità.18 Con queste parole il Direttore del MANN, Paolo Giulierini introduce la missione del Museo: accanto all’obiettivo primario di custodire e valorizzare le eccezionali collezioni, espressione della grandezza del territorio campano e della politica illuminata dei suoi sovrani, si impone la consapevolezza dell’importante ruolo che riveste il Museo in quanto luogo di stimolo e si formazione della coscienza civica. Per adempiere a questo obiettivo, il MANN si propone al suo pubblico anche come protagonista del contemporaneo, ponendo al centro del suo interesse non soltanto il bene culturale, ma anche l’uomo che con esso dialoga. Perchè il Museo sia un luogo vivo, occorre che si configuri progressivamente come spazio di incontri, stimolatore di dibattiti, scambi e riflessioni, dove il confronto con la storia possa essere strumento utile e attivo per la società. Se è vero che ogni arte, anche quella antica, fu contemporanea al suo tempo, è plausibile pensare che proprio l’artista di oggi sia l’attore ideale per operare il recupero del passato artistico e connetterlo al presente continua il Giulierini - per questo non solo è opportuno, ma direi doveroso per un museo archeologico riflettere di continuo su questo tema.19
18.
Intervento di Paolo Giulierini Direttore del MANN alla trasmissione Linea Notte di Rai 3 andata in onda il 7/5/2019 https://youtu.be/Cts9aZbjHzw
19.
Intervento di Paolo Giulierini Il museo del futuro, nell’ambito della rassegna Incontri di Archeologia al MANN, sul canale youtube PositanonewsTV 17/10/2018 https://youtu.be/mLRCgHOp1Qo
Premiato dalla nota testata d’arte e cultura contemporanea Artribune come Miglior Museo italiano nel 2017, il MANN vede l’anno successivo Paolo Giulierini incoronato Miglior Direttore di Museo: alla guida dell’Istituzione dal 2014, è stimato artefice di un programma di valorizzazione e modernizzazione che ha fatto del Museo un tempio all’avanguardia della cultura artistica e archeologica, in linea con i migliori standard europei. I risultati ottenuti in termini di affluenza, come emerso dai dati del report annuale presentato dal Museo nel 2018, danno prova di quanto si sia rivelata lungimirante ed efficace la governace di Giulierini. Al Direttore in carica, oltre al merito di aver reso innovativa e fruibile la collezione archeologica, va anche quello di aver introdotto il contemporaneo con un articolato e coraggioso
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programma, facendone una costante dell’offerta espositiva (come dimostra già la sezione dedicata, presente sul sito del Museo). Così nasce Fuoriclassico, la contemporaneità ambigua dell’antico, punta di diamante della programmazione culturale del MANN: un ciclo di incontri dedicati al ruolo del corpo nel contemporaneo e nell’antico. Un tema ampio e intrigante, intorno a cui imbastire continue suggestioni; del resto, proprio il Museo, con i suoi marmi e le sue sculture, si configura come un gigantesco custode di corpi: corpi classici che offrono spunti di riflessione coniugati al presente, come è stato nel 2019 per la IV edizione di Fuoriclassico, dove in occasione delle due grandi esposizioni realizzate a Napoli in quello stesso anno - la retrospettiva Robert Mapplethorpe. Coreografia per una mostra al Museo d’Arte Contemporanea Donnaregina (MADRE) e Canova e l’Antico, frutto della collaborazione tra l’Ermitage di San Pietroburgo e il MANN -, si sono costruiti eventi e dibattiti, innescando connessioni tra due artisti così lontani per epoca, ma posti in dialogo proprio a partire dal tema dei corpi e della corporeità. Alle lusinghe del contemporaneo, a dirla tutta, il Museo Archeologico Nazionale di Napoli non è certo nuovo. Nel 1994, dietro input del Servizio Educativo della Soprintendenza per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei, il MANN ha iniziato a ospitare tra le sue sale diversi artisti contemporanei, virando verso un’attività espositiva - con Giulierini divenita programmatica - volta a favorire l’incontro fra i linguaggi artistici attuali e antichità, proponendo al pubblico nuovi e ulteriori messaggi, stimolando ragionamenti all’interno di un luogo d’eccezione: il Museo stesso diveniva parte dell’opera e componente irrinunciabile dei progetti artistici, con un’espansione e diversificazione del suo valore culturale e della sua funzione. Proprio nel 1994 l’artista tedesco Gerd Rohling, con Plastiche metamorfosi, invadeva le sale del MANN con frammenti e materiali plastici raccolti lungo i litorali flegrei, poi esposti in bella mostra al pari dei più pregiati manufatti d’arte greco-romana allestiti tra le vetrine.
20.
Antico/contemporaneo: sguardi, prospettive, riflessioni interdisciplinari alla fine della modernità, a cura di F. Gallo e M. Cristina Storini, Sapienza Università Editrice, Roma, 2018, p. 74.
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È bello accogliere nel Museo ricerche già pronte, ma lo è ancor più accompagnare la nascita di nuovi progetti sollecitati da un nostro esplicito invito e dalla disponibilità del MANN a offrirsi come dinamico laboratorio di sperimentazioni […], spiega Marco De Gemmis, Responsabile del Servizio Educativo.20 Un’attività che, in qualche modo, ha radici antiche: le raccolte vesuviane e farnesiane del MANN, progressivamente divenute stimolo per gli artisti, sono state per secoli risorsa formativa ed eccezionale serbatoio a disposizione non solo dei visitatori, ma dei tanti studiosi alle prese con progetti di ricerca, e di intere generazioni di studenti dell’Accademia di Belle Arti, avvezzi a frequentare il Museo per studio e per esercizi di disegno dal vero. Nel 2001, con la mostra Physis, è Nino Longobardi, tra gli artisti che gravitarono intorno alla Transavanguardia, a misurarsi con gli spazi e le opere del MANN, stabilendo un dialogo con
Mimmo Jodice, Atleti, Villa dei Papiri di Ercolano, MANN - Museo Archeologico Nazionale di Napoli 1990-1995
la Collezione Farnese. Ma il nudo nella classicità, e con esso anche l’erotismo del corpo, è un tema su cui molti artisti si sono soffermati, sedotti dalla carnale sensualità emanata dai marmi del MANN: da Fiorenzo Niccoli, con la mostra fotografica L’ombra dell’eros (2000), al maestro Mimmo Jodice, che alle collezioni del Museo Archeologico ha dedicato alcuni dei suoi scatti più ispirati e celebri. Il linguaggio fotografico, del resto, è sempre stato incline a frequentare la scultura. Negli anni, il Museo Archeologico ha visto una cospicua presenza di artisti impegnati in letture fotografiche dei suoi reperti, tra le sale espositive e gli spazi dei depositi. Altro esempio di ispirazione archeologica, mediata dalla fotografia, è nel lavoro di Luigi Spina, autore di Buchner boxes (2014), omaggio all’archeologo Giorgio Buchner, che dal 1952 scavò per quarant’anni nell’isola di Ischia, portando alla luce moltissimi reperti conservati in piccole scatole costruite artigianalmente, oggi custodite all’interno dei depositi del MANN. Spina fotografa quelle scatole, innescando una riflessione sul tempo: la terra, con i suoi ritmi antichi, il tempo delle cose e il tempo dell’archeologo, riassemblati e uniti attraverso il tempo del fotografo.
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Ancora l’enigma della temporalità è al centro della riflessione di un altro artista, il più classico dei concettuali italiani: Giulio Paolini, che per il maestoso Salone della Meridiana del MANN realizza nel 2010 l’installazione L’Ora X (Né prima né dopo). Qui l’artista organizza la sua scena, ponendo al centro della sala, sulla linea della meridiana, gli strumenti del mestiere: cavalletti, carta, matita, calchi in gesso, come un rebus o un esercizio mentale sul concetto del tempo nel cuore della classicità. Sul tema della memoria e del tempo torna a riflettere poi Christian Leperino con Landscapes of Memory (2012), installazione suggestiva in dialogo con il celebre Toro Farnese.
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Non solo la classicità greco-romana ha sedotto e ispirato gli artisti a lavoro tra i tesori del MANN, ma anche epoche lontanissime da quella cultura, come la Preistoria, sono diventate spunto per produzioni contemporanee. Così è per la mostra pseudo-documentaria del collettivo Brigataes, Il più grande artista del mondo (2015), ambientata di nuovo nel Salone della Meridiana. Come lo stesso titolo suggerisce, ogni cosa nell’installazione risulta paradossale, spinta oltremisura.
La narrazione fittizia - con tanto di “finte prove”, tra cui un filmato dell’Istituto Luce - ruota intorno allo scheletro gigante di un artista di 40.000 anni fa e della roccia da lui dipinta, conservati per anni nei depositi del Museo e per l’occasione finalmente svelati al pubblico. Un gioco tutto basato sulla dicotomia vero-falso, rigore scientifico e fantasia sfrenata. Nel 2017 il Giardino delle Fontane del Museo si popola di opere in acciaio, alluminio e resina, assemblate in modo da simulare scheletri animali e fossili dalle forme fantastiche, nell’installazione site-specific Ooparts/out of place artifacts/ Reperti impossibili di Michele Iodice. Continua così, inarrestabile, la sperimentazione propria dei linguaggi contemporanei, portata avanti nel quadro di un progetto che si è sempre più distinto per regolarità e varietà delle proposte: come afferma Giulierini, scardinando l’idea del vecchio museo all’italiana che sa solo conservare e autocontemplarsi.21 Un Museo archeologico inclusivo, il MANN, che si apre a culture diverse come quella orientale, celebrandone gli antichi tesori nella mostra Mortali Immortali (2018) e valorizzando prospettive contemporanee con l’opera dell’artista cinese di fama internazionale Cai Guo Qiang, In the Volcano. Cai GuoQiang and Pompei (2019) e con la rassegna Il contemporaneo per l’archeologia. Artisti cinesi al MANN (2020): più di settanta opere contemporanee in dialogo con le collezioni, tra sculture di carta e metallo, teste sfogliabili e impronte di fossili.22
21.
Intervista a Paolo Giulierini, nuovo Direttore del MANN di Napoli Aprirò il Museo ai giovani su canale youtube della pagina Fanpage.it del 25/10/2015 https:// youtu.be/dhz0eAEppXg
22.
wwmuseoarcheologiconapoli.it/it/ category/mostre/contemporaneo/
Brigates, Il più grande artista del mondo - veduta dell’installazione presso il MANN - Museo Archeologico Nazionale di Napoli, 2015
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IL MUSEO EGIZIO DI TORINO Storia e Collezioni L’Egizio di Torino, il più antico museo dedicato alla civiltà faraonica, vanta la seconda collezione più importante al mondo per ricchezza e varietà di antichità egizie, dopo quella del Museo del Cairo. Annoverato dal quotidiano britannico The Times tra i 50 musei migliori al mondo, inizia la sua storia quando i primi reperti egizi approdarono a Torino per volere dei sovrani di Casa Savoia, con l’acquisto della raccolta messa insieme da Vitaliano Donati durante i suoi scavi in Egitto nel 1759. Nel 1824 Re Carlo Felice decise di ampliare la sua collezione, acquistando la vasta raccolta di Bernardino Drovetti, collezionista d’arte piemontese, archeologo e console generale di Francia durante le spedizioni lungo il Nilo delle truppe francesi. L’ambizioso fondo, composto da circa 8.000 pezzi tra statue, sarcofagi, mummie, papiri, amuleti e monili vari, fornisce testimonianza di quella che nel fu chiamata Egittomania, ovvero la smania di collezionare e possedere antichità provenienti dal mondo egizio, sviluppatasi in tutta Europa sull’onda delle campagne napoleoniche, verso la fine del XVIII secolo. Le due raccolte Donati e Drovetti formarono il primo importante nucleo del Regio Museo di Torino, fondato nel 1832 all’interno dello storico Palazzo dell’Accademia delle Scienze, edificato nel 1679 su progetto di Guarino Guarini. Quello stesso anno fu istituita la Galleria Sabauda per volontà di Carlo Alberto, destinata ad accogliere la quadreria dei Savoia, incrementata con acquisti e donazioni lungo il corso dell’Ottocento, che nel 1865 trovò collocazione all’interno del Palazzo dell’Accademia delle Scienze. Tra il 1903 e il 1937 gli scavi archeologici condotti in Egitto da Ernesto Schiaparelli, Direttore del Museo, e poi da Giulio Farina, portarono a Torino circa 30.000 reperti, i quali si aggiunsero alla collezione: l’intero, ampissimo corpus è in grado adesso di testimoniare ogni aspetto dell’Antico Egitto, dagli sfarzi regali fino agli oggetti d’uso quotidiano. L’aumento dei reperti e l’ampliarsi della collezione comportò negli anni due grandi risistemazioni delle sale del Museo, volte a sopperire alla mancanza di spazio: una nel 1924 e un’altra nel 1980. Per ricavare nuovi spazi espositivi fu necessario modificare il percorso di visita, realizzando degli ambienti sotterranei.
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Dal 2004 la gestione del Museo è affidata a un’apposita fondazione, la Fondazione museo delle antichità egizie, di cui fanno parte la Regione Piemonte, la Provincia di Torino, il comune di Torino, la Compagnia di San Paolo e la Fondazione Cassa Risparmio. Dal 2014 il Direttore della Fondazione Museo è Christian Greco, affermato egittologo e artefice - a un anno dalla sua nomina - dello straordinario lavoro di rinnovamento che
ha portato l’Istituzione ad aprire le porte al pubblico dopo tre anni e mezzo di lavori, nell’Aprile 2015. Nuovo marchio, nuovi spazi e nuovi percorsi espositivi, per il progetto Nuovo Museo Egizio: un’imponente opera di rifunzionalizzazione degli ambienti, con un significativo ampliamento del percorso espositivo, che ha raddoppiato la sua estensione guadagnando i metri quadri della Galleria Sabauda, nel 2014 spostata nell’attuale sede a Palazzo Reale. Un Nuovo Egizio, per usare le parole del suo Direttore, la cui natura è quella di essere un luogo vivo, in continuo divenire, che muta e si evolve in virtù dei risultati della ricerca e del suo essere parte attiva della comunità.23
23.
Intervento di Christian Greco Direttore del Museo Egizio per TEDx Talks Vicenza: Nuove connessioni e contestualizzazione archeologica 8/9/2015 https://youtu. be/PxOtmFqXX28
Nel 2019 è stato presentato l’allestimento delle sale sotterranee, dette Sale Storiche, con cui i visitatori iniziano il percorso al piano ipogeo, partendo dalla scoperta dell’Antico Egitto, attraverso un racconto sulle origini e sulla storia del Museo, approfondendo le figure dei protagonisti degli anni pionieristici per l’egittologia in Italia. Il percorso di visita si snoda attraverso tre piani, che accolgono i circa 37.000 reperti della collezione permanente, presentati con il nuovo progetto scientifico del 2015, con l’intento di fornire al visitatore un panorama completo sulla storia dei reperti, mediante la ricostruzione dei contesti archeologici da cui provengono.
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Dante Ferretti, Riflessi di pietra, Galleria dei Re - veduta dell’installazione al Museo Egizio di Torino, 2006
L’itinerario consente un viaggio nel tempo che attraversa più di 4000 anni di storia, iniziando dal piano terra, dove si trova un tempio completo - il Tempio di Ellesiya - donato all’Italia nel 1966, a seguito della partecipazione del Paese alla missione internazionale UNESCO volta al recupero dei Templi Nubiani minacciati dalla sommersione del lago Nasser. Di grande rilievo fu l’opera di ricomposizione del Tempietto Rupestre, diviso in 66 blocchi per essere trasferito al Museo.
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Nel 2014 è stata riaperta una delle sale più suggestive, la Galleria dei Re, che ospita la statuaria egizia, valorizzata da un suggestivo percorso denominato Riflessi di pietra: lo ha realizzato lo scenografo Dante Ferretti in occasione delle Olimpiadi Invernali di Torino 2006. Immerse nell’installazione teatrale, con un forte intervento di illuminotecnica, tra specchi e luci soffuse, le sculture più imponenti delle collezioni si mostrano in tutta la loro potenza, tra alte sfingi e poderosi sarcofagi. Si incontrano qui, tra le altre, la Statua di Ramesse II, capolavoro assoluto del Nuovo Regno, Tutankhamon, Amon, Iside e infine Sethi II, statua colossale alta più di 5 metri. Fra i tesori del primo piano troviamo il villaggio operaio di Deir el-Medina, con reperti che testimoniano il lavoro quotidiano
degli operai addetti alla costruzione e alla decorazione delle tombe dei faraoni; e ancora la Tomba di Kha, corredo funerario dell’architetto Kha e di sua moglie Merit, trovato intatto e riportato alla luce da Ernesto Schiaparelli nel 1906. Una novità dell’allestimento del 2015 è la Galleria dei Sarcofagi, in cui sono ospitati alcuni fra i più bei sarcofagi dell’Epoca Tarda (1100 - 600 a.C.). Allo stesso piano si trovano le Sale dedicate alle epoche Tolemaica, Romana e Tardoantica, oltre all’Area Restauro i cui interni sono visibili al pubblico. Lungo il secondo piano si incontrando reperti di inestimabile valore, come la Mummia Predinastica (V millennio a.C.), una delle mummie più antiche in assoluto, esposta in posizione fetale insieme al suo corredo, la Tomba degli Ignoti rinvenuta intatta a Gebelein, e la Tomba di Ifi e Neferu, nota per le grandi pitture parietali ben conservate, oggi esposte lungo i corridoi. L’ultimo piano ospita lo spazio riservato alle mostre temporanee, inaugurato ad Aprile 2015 con la sala dedicata a Khaled al-Asaad, archeologo siriano barbaramente giustiziato nell’agosto 2015 dall’Isis, nel tentativo di difendere il sito archeologico di Palmira di cui era direttore da oltre 30 anni.
L’ Egizio e il Contemporaneo Consapevole dal suo ruolo sociale e della sua mission culturale preziosa, il Museo Egizio, nei decenni, si è fatto spazio condiviso al servizio della conoscenza della comunità intera, puntando al superamento di distanze e barriere, per aprire a un pubblico il più possibile ampio e diversificato. Custode di una cultura materiale e di un’identità straordinaria, il Museo Egizio vuole essere ponte al centro del Mediterraneo, tra l’Italia e il Nord Africa.24 Un Museo che resta in prima linea per la questione dell’inclusione sociale, con progetti specifici quali Musei e migranti. Gli strumenti per l’incontro, serie di giornate di formazione e scambio fra operatori museali, culturali e sociali, lanciata in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato; o ancora l’iniziativa Io sono benvenuto, un programma di attività creative all’interno del Museo, fruibili gratuitamente; al centro di un acceso dibattito è stata la campagna Fortunato chi parla arabo, con visite guidate gratuite in arabo e altre occasioni di mediazione culturale: un progetto di integrazione e di comunicazione, nato con l’obiettivo di raccontare le collezioni museali alle comunità torinesi di lingua araba, e dunque agli immigrati del Medio Oriente che proprio nella storia di quei reperti dovrebbero potersi rispecchiare e ritrovare, sul piano dell’identità e della memoria. Perché un Museo sia vivo deve avere nuovi contenuti da trasmettere afferma Greco - deve cercare di narrare la biografia degli oggetti e di connettere questi oggetti ad un loro contesto, sia esso quello di provenienza, un contesto archeologico, sia il contesto in cui adesso opera, quindi il contesto sociale in cui il museo inserito.25
24.
Intervento di Christian Greco Direttore del Museo Egizio per TEDx Talks Torino: Dalla collezione a Museo: la ricerca di una nuova identità, 7/3/2017 https://youtu. be/7QNslHKrMXY
25.
TEDx Talks Vicenza: Nuove connessioni e contestualizzazione archeologica, 8/9/2015 https://youtu.be/PxOtmFqXX28
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Sharon Ritossa, #EnjoyEternity - veduta dell’installazione al Museo Egizio di Torino, 2018, courtesy dell’artista
Ecco dunque che l’apertura all’arte contemporanea diviene mezzo per offrire nuovi spunti e temi di riflessione, in un continuo rimando tra reperti e artisti che vivificano il messaggio delle opere antiche e lo declinano al presente, dandogli nuovi significati.
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Con questo obiettivo il 31 gennaio 2018 il Museo Egizio inaugura insieme a CAMERA - Centro Italiano per la Fotografia di Torino - la mostra #EnjoyEternity, progetto fotografico della giovane artista triestina Sharon Ritossa. Un’esposizione che mette in relazione due luoghi: CAMERA, centro contemporaneo per la fotografia, che accoglie l’esposizione nella sua Project Room (uno spazio dedicato ai giovani talenti), e lo stesso Museo Egizio, antico custode di reperti millenari. Un modo per tornare sul tema del dialogo tra presente e passato. #EnjoyEternity chiama in causa una nuova idea di conoscenza e una nuova modalità del guardare, entrambe mediate oggi dallo schermo di uno smartphone, piccolo oggetto retroilluminato che domina la nostra quotidianità, ipnotico al pari di antichi totem. Nell’era dell’iper-tecnologia la storia si trasforma in un mosaico di scatti e di frammenti, così che le grandiose sfingi del Nuovo Regno si scompongono e ricompongano in centinaia di immagini scattate con un cellulare,
a testimoniare il bisogno del visitatore di immortalare i reperti, ossessivamente, e di conservarne i dettagli, quasi a renderli eterni. Così, passato e presente si mescolano: il nostro dispositivo portatile diventa la chiave di accesso per uno spazio/tempo eterno, che rappresenta tutto quello che non è qui e ora, eppure fa parte del nostro costante presente, spiega l’artista.26 E poi il colore, altro tema dell’opera, virato nella scala RGB (Red, Green, Blue) dello schermo, filtro contemporaneo che riporta il passato alle cromie degli antichi manufatti artistici. Piccoli oggetti della cultura egizia, come scarabei, occhi e amuleti, sono ritratti come still-life dai colori accesi, mentre le forme - in un’ottica contemporanea - richiamano quelle di cose comuni, a noi familiari: un porta-pennello da trucco di 4000 anni fa, ad esempio, assomiglia a un moderno porta cellulare. Ciò che è stato diventa improvvisamente altro, nell’infinita catena delle possibilità, delle interpretazioni, delle attualizzazioni. Esposte, come in un moderno papiro, su lunghi rotoli di carta stampata, le sgargianti fotografie dei reperti in RGB diventano infine set per i selfie dei visitatori del Museo. Voluta fortemente dal Direttore Greco come installazione permanente, #EnjoyEternity accoglie il pubblico nell’ampia sala d’entrata, invitando a godere di quel senso d’eternità custodito tra le sale, tramite un punto di vista e uno sguardo tutti contemporanei. Nuovi significati vestono, ancora una volta, la cultura materiale e immateriale di una straordinaria civiltà del passato.
Sharon Ritossa, #EnjoyEternity, 2018, Museo Egizio di Torino
26.
#EnjoyEternity. Museo Egizio e Camera uniti da uno smartphone, articolo di Paolo Morelli per Torinoggi, sezione Cultura e Spettacoli, 31/1/2018 https://www. torinoggi.it/2018/01/31/leggi-notizia/ argomenti/cultura-4/articolo/enjoyeternity-museo-egizio-e-camera-uniti-da-uno-smartphone.html
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Nel 2018, Anno Europeo del Patrimonio, il Museo Egizio decide di offrire al pubblico un’altra incursione nel contemporaneo. Nel mesi di marzo viene inaugurato il progetto espositivo Anche le statue muoiono, in collaborazione con quattro importanti istituzioni torinesi: il Museo Egizio, la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, i Musei Reali e il CRAST (Centro Ricerche Archeologiche e Scavi di Torino per il Medio Oriente e l’Asia). Il titolo della mostra, mutuato dal film di Chris Marker e Alain Resnais Les Statues meurent aussi (1953), racchiude il senso della fragilità e della vulnerabilità del patrimonio culturale, mentre il sottotitolo - Conflitto e patrimonio tra antico e contemporaneo - pone l’accento sul dialogo tra reperti del passato e opere attuali, attorno al complesso tema della tutela e della protezione del patrimonio artistico, minacciato dalla violenza bellica e dalla minaccia distruzione nelle aree di conflitto del Medio Oriente. Così, l’opera emblematica di Kader Attia Arab Spring (2014), una grande installazione in mostra alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo - tra i maggiori centri di produzione d’arte contemporanea in Italia - instaura un dialogo con le opere dello stesso artista esposte al Museo Egizio: Untitled (Sacred) e Untitled (Violence) del 2016. L’attenzione è posta sul frammento: resti di una vetrata o forse parti di un vaso, disposti su una superficie retroilluminata, fanno vibrare i colori e mettono in risalto in modo ancor più evidente i vuoti creati dalle fratture.
Kader Attia, Untitled (Violence), 2016
Mimmo Jodice, Anamnesi, 2014
Il percorso al Museo Egizio continua con la suggestiva opera di Mimmo Jodice: nove ritratti fotografici dalla serie Anamnesi (2014). L’inquadratura ravvicinata, il bianco e nero e l’effetto mosso enfatizzano le espressioni delle statue trasformandole in maschere teatrali, presenze silenziose dagli occhi sbarrati. Un dialogo tra sguardi: quello di Jodice sulle antiche civiltà del Mediterraneo e quelli, posti frontalmente, delle statue dei governatori di Qau el-Kebir del Medio Regno, ridotte in pezzi. E ancora, una riflessione sull’appropriazione del passato e sulle logiche di mercato che da sempre regolano i rapporti tra i beni culturali e le grandi collezioni dei più noti musei, è affrontata nell’opera Fragments II (2016) dell’artista libanese Ali Cherri. Un’installazione che mostra dei manufatti archeologici acquistati dall’artista durante un anno di frequentazione delle case d’asta d’Europa, simbolo di un patrimonio culturale su cui si avventa un rapace, proiezione simbolica del potere economico e politico occidentale. Un potere espresso anche nelle quaranta fotografie di Simon Wachsmuth Signatures (2007-2012), in cui sono immortalate le firme incise sulle mura di Persepoli tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, da parte di archeologi, studiosi e viaggiatori che ne sfregiarono la superficie. Insieme alle opere contemporanee anche i reperti antichi esposti narrano storie di cancellazioni, scomparse, nuovi utilizzi e identità perdute, come nella Stele di Amenhotep (XV-XIV secolo a.C.) in cui il volto e il nome del committente furono cancellati a colpi di scalpello, o come nella Statua di Upuautemhat (XX-XIX secolo a.C.) i cui occhi, realizzati in materiali preziosi, furono strappati via dai saccheggiatori. La mostra affronta anche una riflessione sul ruolo del museo, in una posizione liminale tra l’essere predatore e contenitore di trofei coloniali e il divenire custode della memoria, e quindi fragile bersaglio qualora la si volesse annientare. L’arte contemporanea tenta qui di sciogliere i dubbi: se è vero che anche le statue muoiono, è anche lecito pensare che siano proprio i musei a permettere loro di non morire, o per lo meno, afferma Greco, di sopravvivere come simboli di ciò che è stato.27
27.
Intervista a Christian Greco Direttore del Museo Egizio di Torino, in occasione della mostra Anche le statue muoiono. Conflitto e patrimonio tra antico e contemporaneo, sul canale youtube del Museo Egizio, 26/4/2018 https://youtu.be/h7Vx0aQN9rs
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Ali Cherri, Fragments II, 2016 - veduta della mostra Anche le statue muoiono, 2018, Museo Egizio di Torino
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Museo Archeologico Regionale Antonino Salinas di Palermo, novembre 2019, fotografia di Giuseppe Ippolito
Il Museo Archeologico Regionale Antonino Salinas
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Origine e Formazione
Il Museo Archeologico di Palermo, che porta il nome del suo primo, grande Direttore, Antonino Salinas, è la più antica e importante Istituzione Museale della Sicilia: un prestigioso punto di incontro tra la storia del collezionismo e della cultura siciliana degli ultimi due secoli e la ricerca archeologica sul campo. Formatosi nel 1814 come Museo dell’Università degli studi di Palermo, in esso confluirono alcune delle principali collezioni archeologiche e storico-artistiche dell’Isola: gruppi di opere di diversa natura e provenienza, risultato del collezionismo storico del XVIII secolo. L’esigenza di costituire un Museo dell’Università fu testimonianza dell’urgente necessità di raccogliere e tutelare le antichità locali; era infatti interesse dell’amministrazione borbonica ridurre la dispersione del patrimonio siciliano, auspicando che venissero raccolte nel Museo tutte le lapidi, statue, vasi, monete ed altri oggetti antichi sparsi in tutta l’Isola.28 Decisivo in tal senso fu il caso dei due architetti inglesi Samuel Angell e William Harris, che nel corso del loro tour in Sicilia, nel 1823, si imbatterono nei frammenti delle metope del tempio arcaico di Selinunte, oggi chiamato Tempio C, tentando invano di spedire in Inghilterra i reperti, bloccati dalle autorità borboniche.
28.
G. Lo Iacono, Alle origini del Museo di Palermo, in Quaderni del Museo Archeologico A. Salinas, vol.1,1995, pp. 29-36.
Nel 1827 il Museo si arricchì di nuovi capolavori provenienti dagli scavi e dalle ricerche intraprese dalla Commissione di Antichità e Belle Arti per la Sicilia nei principali siti archeologici siciliani: Segesta, Agrigento, Siracusa, Taormina e infine Selinunte, dove la Commissione, con a capo il Presidente Domenico Lo Faso di Pietrasanta, Duca di Serradifalco, portò alla luce le metope del Tempio E insieme a numerosi altri elementi architettonici. La vasta raccolta donata da Giuseppe Emanuele Ventimiglia, Principe di Belmonte, costituì il primo nucleo della Pinacoteca dell’Università e comprendeva un’ampia collezione di quadri, disegni e stampe; a questo corpus si aggiunsero via via altre importanti collezioni private, acquisizioni, preziosi doni di sovrani e nobili del luogo. Tra queste di particolare pregio furono le donazioni borboniche: Francesco I cedette al Museo terrecotte e bronzi pregiati, tra cui il gruppo bronzeo di Ercole e la cerva da Pompei, mentre Francesco II donò il Satiro versante da Torre del Greco, gli ori di Tindari, vasi di bronzo e altri ricchi materiali. L’Università di Palermo acquistò la collezione del console inglese Robert Fagan, comprendente sculture greche provenienti dall’Attica e in particolare un fregio del Partenone. Il Regio Museo dell’Università, divenuto il più importante della Sicilia, fu catalizzatore e bacino di raccolta di opere molto diverse tra loro per tipologia e provenienza, specchio della profonda stratificazione e complessità della storia isolana, soprattutto a partire dal 1860, quando si staccò dall’Università divenendo Museo Nazionale sotto le dirette dipendenze della
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Commissione di Antichità e Belle Arti per la Sicilia. Uno dei più importanti acquisti, portato a termine grazie all’intervento dell’abate Gregorio Ugdulena, filologo, numismatico e docente di lingua ebraica presso l’Università di Palermo, nonché Ministro della Pubblica Istruzione dal 1864, fu quello della eterogenea collezione di provenienza romana di Antonino Astuto, Barone di Fargione, ricca di opere d’arte, manoscritti e pregevoli opere a stampa.
29.
Dal nome del Padre Ignazio Salnitro che lo fondò nel 1730.
30.
C. A. Di Stefano, Jole Bovio Marconi, in memoriam, in Quaderni del Museo Archeologico Regionale A. Salinas, vol.2, 1996, pp. 12-15.
50
La collezione del Museo continuò ad arricchirsi con doni di disinteressati amatori, acquisti e campagne di scavo; si aggiunsero così: le urne etrusche del conte Pietro Bonci Casuccini di Chiusi, la collezione del Duca di Verdura, ma soprattutto dal 1866 le collezioni antiquarie appartenute ad importanti ordini ecclesiastici, incluse quella del Museo Salnitriano dei Padri Gesuiti di Palermo29 e quella dei Benedettini di S.Martino delle Scale, caratterizzate da materiali provenienti dall’Italia centrale, acquistati attraverso il mercato antiquario. La Legge n. 3036 del 7 Luglio 1866 determinò la soppressione delle corporazioni religiose con relativa confisca dei beni, consentendo così al Museo Nazionale il trasferimento nell’attuale edificio, allora Casa Conventuale dei Padri Filippini. La cinquecentesca Casa, facente parte del complesso architettonico di S. Ignazio all’Olivella, fu sottoposta tra il 1867 e il 1873 a lunghi lavori di adattamento e ristrutturazione, per trasformarla da edificio sacro a sede museale. Fu una trasformazione radicale, che ne mutò profondamente la volumetria, come si evince dalle numerose relazioni dei direttori del Museo: Giovanni D’Ondes Reggio e il Cav. Giovanni Fraccia, succeduto a quest’ultimo. Dal 1873, anno del compimento dei poderosi lavori di restauro, il Direttore del Museo sarà Antonino Salinas, il quale porterà avanti il mandato fino al 1914, anno della sua morte. Allo storico Direttore, tra i tanti meriti, si deve anche quello di aver compiuto per primo il riordinamento del Museo, raccogliendo attorno a sé nuovo materiale di ogni genere: bibliografico, artistico, storico, antiquario, salvandolo da una sicura dispersione. Un’altra importante figura, strettamente legata alla storia del Museo, è quella di Jole Bovio Marconi, Direttore dal 1939 e Soprintendente alle Antichità di Palermo e Trapani. Con lei furono avviate le misure di protezione antiaerea per gli edifici d’arte e i Musei durante gli anni del secondo conflitto mondiale. La Bovio Marconi si occupò di individuare i rifugi ritenuti più sicuri per le opere d’arte, curando e coordinando in prima persona lo smontaggio, l’imballaggio e il trasferimento all’Abbazia di San Martino delle Scale delle opere ritenute più a rischio: trasferimento assai pernicioso, condotto in condizioni drammatiche mentre si intensificavano le incursioni aeree sulla città.30 Fu allora che si procedette al trasferimento definitivo della sezione medievale e moderna a Palazzo Abatellis e si iniziò così il nuovo riordinamento del Museo, divenuto esclusivamente archeologico. Nel 1987, con il passaggio delle competenze sui Beni Culturali dallo Stato alla Regione Siciliana, il Museo Archeologico divenne Regionale, con tanto di direzione autonoma.
Antonino Salinas con l’imperatore Guglielmo II di Germania, 1904
La Wunderkammer della Sicilia Intera
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È doveroso a questo punto tracciare qui brevemente il profilo dell’uomo che più di ogni altro ha contribuito allo sviluppo di questa vicenda: Antonino Salinas, la cui vita è stata intrecciata per oltre quarant’anni a quella del Museo che oggi porta il suo nome. Studioso illuminato, dotato di grande curiosità, educato fin dall’infanzia alla bellezza e allo studio della numismatica, dotato di un pensiero straordinariamente moderno, Salinas entrò in contatto con i più grandi intellettuali del mondo accademico, italiani e stranieri. Un peso determinante ebbe l’amicizia con l’islamista e storico del medioevo Michele Amari, straordinario intellettuale e Ministro della Pubblica Istruzione del nuovo Stato unitario italiano. Amari favorì i soggiorni all’estero per la formazione del giovane Salinas nelle più importanti scuole di archeologia europee: Germania, Francia, Inghilterra. Nel 1865 istituì per lui la cattedra di Archeologia presso l’Università degli Studi di Palermo.
Proprio tra le sale universitarie Salinas espone il suo programma attraverso discorsi metodici nelle note Prolusioni, insistendo sulla necessità di considerare l’archeologia una scienza ordinata, basata su criteri di verità e utilità, sulla scia filologica della grande scuola tedesca.31 Nel 1873, divenuto da poco Direttore del Museo di Palermo, inaugurerà l’anno universitario parlando del Museo e del suo avvenire, delineando con una sorta di manifesto la propria idea di museo fondata sulla missione educativa e sociale dell’Istituzione e sul concetto di appartenenza pubblica del patrimonio culturale. Il Museo di Palermo, unico istituto Nazionale nell’Isola, doveva rappresentare le arti di tutta la Sicilia.32 Si trattò di una vera e propria dichiarazione di intenti: arricchire in maniera considerevole il Museo di opere e materiali di ogni tipo, attraverso le ricerche archeologiche condotte nell’Isola e grazie agli acquisti, con la volontà di accostarsi a tutte le tipologie di manufatti e affermando che belli o brutti i monumenti di un periodo, poco importa; ma niuno negherà che essi c’insegnino quali fossero le condizioni della cultura nelle epoche a noi precedenti. Ecco l’ufficio del museo […].33 Se proviamo a entrare nelle sale del Museo di Palermo, seguendo la Breve guida 34 pubblicata dal Salinas a soli due anni dal suo incarico di Direttore, ci troviamo dinanzi a un corpus di opere davvero eterogeneo e ricco, specchio fedele della curiosità e delle intuizioni del suo Direttore. Un Museo che esibiva non solo ricchezze locali, ma anche antichità egizie, fenicie, puniche, etrusche. All’indomani dell’Unità d’Italia Palermo mostrava la specificità della Sicilia con un Museo prestigioso, rafforzando l’idea di cultura nazionale e sottolineandone le particolarità locali. Un Museo-enciclopedia, che aveva il suo cuore storico nelle metope selinuntine e nella classica greca e romana, ma che al tempo stesso esprimeva la profonda diversità ed eterogeneità del panorama artistico siciliano. Accanto all’aggraziato Satiro di Torre del Greco e al raffinato Ariete siracusano, solo per citare alcuni dei pezzi di maggior pregio, si trovavano vetrine con utensili in bronzo, oggetti della vita quotidiana e curiosità etnografiche, mostrati non solo come oggetti da vedere, ma come tasselli di una storia da ricostruire e conoscere. E poi: sculture medievali, pitture moderne, codici miniati e arazzi medievali, urne etrusche, iscrizioni arabe, vedute di Palermo, numismatica, glittica e oreficeria.35 Il Museo diventava luogo in cui esporre e raccontare l’unicità di un patrimonio siciliano ricco di commistioni, da cui non si poteva escludere il determinante contributo degli Arabi, artefici in Sicilia di una fase assai felice e unica nel territorio Italiano. E fu un’attività instancabile quella del Salinas: una vocazione, una missione portata avanti con abnegazione per quarant’anni, perseguendo la costruzione della collezione di un popolo, la Wunderkammer della Sicilia intera: il ‘suo’ Museo.36 E proprio al suo Museo - significativamente - lascerà nel 1914, anno della morte, i suoi tesori più cari, che andranno a comporre una delle collezioni più ricche e corpose: la Collezione Salinas.
31.
A. Salinas, Dello stato attuale degli studi archeologici in Italia e del loro avvenire, Prolusione letta addì 12 dicembre 1865 nella R.Università di Palermo, in Rivista Nazionale, I (Scritti scelti, I, 27- 45).
32.
A. Salinas, Del Museo Nazionale di Palermo e del suo avvenire, Prolusione 1873 letta nella R.Università di Palermo, (Scritti scelti, I, 46- 65).
33.
A. Salinas, Del Museo Nazionale di Palermo e del suo avvenire, Prolusione 1873, Op. cit.
34.
A. Salinas, Breve guida del Museo nazionale di Palermo. Parte prima. Antichità classiche ed oggetti moderni,1875, Palermo.
35.
S. de Vido, Mostrare la storia. Palermo e il suo museo, in MEFRIM, Mélanges de l’École Française de Rome. Italie et Méditerranée, Roma, 2001, pp. 739 - 758.
36.
F. Frisone, Un garibaldino al Museo, testo scritto in occasione della mostra Del Museo di Palermo e del suo avvenire. Il Salinas ricorda Salinas 1914-2014, Palermo, 2014.
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Il Complesso Architettonico Il Museo Archeologico di Palermo occupa dal 1866 il grandioso edificio che fu la Casa dei Padri della Congregazione di S. Filippo Neri, facente parte dell’antico complesso monumentale dell’Olivella insieme alla Chiesa di Sant’Ignazio e all’Oratorio di San Filippo Neri eretto nel 1769. Stabilitasi nel quartiere dell’Olivella nel 1595, la Congregazione dei Padri Filippini diede vita a un lungo cantiere, durato oltre trent’anni, che portò all’erezione della Chiesa di Sant’Ignazio Martire nel 1624. L’anno successivo i sacerdoti, che fino a quel momento avevano vissuto in alloggi casuali, avviarono la costruzione della Casa religiosa, continuando ad aggiungere terreni alle loro proprietà e a investire ingenti risorse economiche per l’acquisto e l’abbattimento delle case attorno all’isolato.
37.
C. D’Arpa, Architettura e Arte Religiosa a Palermo: Il Complesso degli Oratoriani all’Olivella, Introduzione, Edizioni Caracol, Palermo 2012, p. 12.
38.
Ivi. p. 110.
54
La costruzione della grandiosa architettura si protrarrà per oltre un secolo, dando vita a uno tra i più prestigiosi edifici congregazionali della città. Gli Oratoriali, del resto, potevano contare sull’omaggio della ricca aristocrazia cittadina e sulla nobiltà di nascita che caratterizzava molti dei suoi appartenenti: ai sacerdoti e ai fratelli laici della Congregazione non veniva richiesto di professare il voto di povertà, circostanza che favorì l’affiliazione di soggetti di estrazione sociale medio-alta che poterono così continuare ad amministrare i loro patrimoni personali, spesso ingenti.37 Annoverata fra le più sontuose Case Conventuali del tempo, la Casa Oratoriana, con la sua imponente volumetria, fu espressione della piena fioritura dell’edilizia sacra palermitana, sulla scia del fervore controriformistico che proprio in quegli anni segnò, sotto la sigla barocca, gran parte degli spazi della capitale siciliana. Costruito seguendo i modelli architettonici già realizzati dall’Ordine nelle varie città italiane, sull’esempio della Chiesa di Santa Maria in Vallicella a Roma, l’edificio si sviluppa lungo un asse longitudinale orientato in direzione est-ovest e presenta al suo interno due Chiostri: il Chiostro Minore, all’ingresso, è più piccolo rispetto al secondo, detto per l’appunto Maggiore e caratterizzato da un sontuoso giardino, ma è architettonicamente più ricco, con decorazioni piuttosto marcate che seguono il gusto manieristico trionfante a Palermo tra Cinquecento e Seicento. Con la sua monumentalità il Chiostro Minore richiama in modo suggestivo l’antica destinazione conventuale dell’edificio: al suo centro troviamo una fontana con la Cinquecentesca statua di Tritone, proveniente dal Palazzo Reale.38 Nelle due piccole sale in fondo al Chiostro vi sono due portali cinquecenteschi provenienti dal Palazzo Sclafani. Rispetto al gusto decorativo sovrabbondante della Chiesa di S.Ignazio, la Casa Conventuale rimane nel complesso più austera, data la sua funzione abitativa, ma presenta finissimi ornamenti. L’ambiente della Casa rispecchia i gusti mondani dell’epoca
e nella scelta tipologica, più che un convento, richiama il palazzo di famiglia dove ogni sacerdote possedeva al piano superiore un appartamento fabbricato a proprie spese, in linea con i principi dell’Ordine di libertà individuale e di vita comunitaria.39 La Casa Conventuale divenne il punto di incontro della nobiltà palermitana del tempo, nonché luogo in cui svolgere attività ludiche, come la musica e il canto, al di là delle semplici pratiche religiose; accoglieva inoltre al suo interno una delle più accreditate farmacie della città e anche una biblioteca aperta alla pubblica fruizione. Gli ambienti a piano terra erano destinati ai servizi comuni, mentre al piano superiore si trovavano gli ambienti dei religiosi, espressione dei gusti mondani dell’epoca, come testimonia il prezioso soffitto ligneo con decorazioni policrome barocche, oggi finalmente di nuovo visibile, riportato alla luce durante i lavori di ristrutturazione del 2009. Nella stessa sede sono state riscoperte anche tre nicchie dorate risalenti allo stesso periodo, mentre altri soffitti lignei dipinti, ma di epoca successiva, sono stati ritrovati in altre sale della Casa Conventuale. Sempre al primo piano si trova la preziosa Cappella rocaille40, dove venivano celebrate le funzioni liturgiche, testimonianza del gusto rocaille palermitano: completata nel 1741 grazie al consistente lascito testamentario di padre Schettini, il piccolo e sontuoso ambiente è finemente arredato, oggi in discreto stato di conservazione sarà oggetto di un prossimo restauro.
39.
Ivi. p. 113.
40.
Termine che deriva da roccia, usato ad indicare un tipo di architettura e decorazione ispirata al mondo naturale dalle linee asimmetriche e curve, che si sviluppa in Francia e nel resto d’Europa a partire dal XVII secolo.
55
Da Casa Conventuale a Museo
41.
S. Biondo, Dall’adattamento a Museo alla nuova sistemazione museografica, in Quaderni del Museo Archelogico Regionale A. Salinas, vol.3, 1997, p.9.
42.
A. Carrubba, Fra sacro e profano: la vita dell’ordine Filippino nella casa all’Olivella, in Quaderni del Museo Archelogico Regionale A. Salinas, vol.7, 2001, p.6.
43.
S. Biondo, Dal convento al museo: prime considerazioni sulle vicende costruttive e museografiche dell’ex casa dei PP.Filippini di Palermo, in Quaderni del Museo Archeologico Regionale A. Salinas, vol.1, 1995, pp. 19-28.
Quando nel 1866 per effetto della Legge 7 luglio n. 3036, la Casa fu confiscata all’Ordine, venne scelta per divenire la nuova sede della Pinacoteca e del Museo Nazionale e sottoposta così, dal 1868 al 1873, a un lungo cantiere che modificò profondamente l’edificio sulla base delle nuove esigenze museografiche, come dimostra il progetto di ristrutturazione Fabbricato dell’Olivella da adattarsi ad uso Museo Nazionale in Palermo.41 L’opera non fu affatto semplice e comportò strenui sforzi cui la struttura originaria dell’edificio sembrava intimamente ribellarsi, come testimoniano le rassegnate parole del Cavalier Giovanni Fraccia, Direttore in carica durante la prima e più radicale ristrutturazione.42 Per ragione di carichi furono collocati al piano terra la scultura e gli elementi architettonici più pesanti, mentre al primo piano, suddivisi per epoca, furono collocati: i Bronzi, la Ceramica, la Numismatica, l’Oreficeria e l’Epigrafia; al secondo piano venne realizzato un grande salone con lucernario per la Pinacoteca, le Belle Arti e le Stampe. Il terzo e ultimo piano fu adibito a uffici e all’abitazione del Direttore. La Biblioteca fu smembrata e trasferita, insieme alle preziose librerie lignee, presso la Biblioteca Comunale.43 Nonostante l’estesa rimodulazione degli spazi, qualcosa sembra sopravvivere dell’antico Convento, nell’assorta spazialità dei Chiostri, un tempo centro della vita e dell’attività dei
Museo Archeologico Regionale Antonino Salinas, Palermo - Sala Menade (ex Direzione) soffitto ligneo seicentesco e nicchie dorate
sacerdoti44, che con la Direzione Salinas (1873-1914) diventeranno gloriosi giardini eclettici adornati di fontane, sarcofagi antichi e piante dal sapore tropicale come palme, papiri e gelsomini. Gli anni a cavallo della seconda guerra mondiale rappresentarono un periodo decisivo nella storia del Museo. Significativa a tal proposito sarà l’apertura della via Roma (1929/1930) che portò l’allora Direttore Pirro Marconi ad attuare una delle modifiche museografiche più estreme: il ribaltamento dell’ingresso, per motivi di rappresentanza, dalla piazza dell’Olivella alla nuova via Roma con il conseguente rovesciamento dell’itinerario di visita.
44.
A. Carrubba, Op. cit.
Nel 1943 la Chiesa di S. Ignazio subì un pesante bombardamento che ne danneggiò la cupola e che causò il crollo del lato meridionale del cortile maggiore del Museo. Il progetto del recupero architettonico, affidato all’architetto G. De Angelis D’Ossat, puntò sul restauro dell’ala meridionale, colpita dai bombardamenti, mantenendo gli elementi originari della facciata accantonando così la possibilità dell’ingresso su via Roma. Malgrado il dichiarato intento di riordinare cronologicamente i materiali del Museo, le caratteristiche dell’edificio non si prestavano ad una rigorosa sistemazione scientifica e quindi paradossalmente la sezione preistorica, costituita da piccoli e leggeri reperti, che avrebbe dovuto iniziare l’itinerario di visita, fu allestita al piano più alto, mantenendo al piano terra, come nell’Ottocento i carichi maggiori (elementi architettonici, sculture, epigrafi […] Al primo piano rimase la Plastica, le sale di scultura greca e romana, i bronzi e la raccolta numismatica; al secondo piano, nell’ex salone della Pinacoteca furono trasferiti i mosaici ritenendo ideale per questi reperti la luce zenitale proveniente dal lucernario.45 Nel 2009 fu avviato un graduale restauro dell’edificio, chiuso definitivamente nel 2011 per via delle condizioni piuttosto precarie in cui versava, dovute a preoccupanti dissesti statici della struttura. Una parziale riapertura avvenne nel 2016 con un nuovo allestimento museografico, anticipazione della definitiva apertura, prevista per il 2021, quanto l’intera area espositiva sarà ripristinata con la restituzione al pubblico delle straordinarie collezioni nella loro interezza. Al marzo 2018 risale l’inaugurazione della splendida Agorà: il nuovo, luminoso spazio polifunzionale ricavato nella terza corte del convento (un tempo parcheggio per le carrozze), con una suggestiva copertura in vetro e acciaio. Cuore pulsante del Museo, piazza coperta con funzione di ritrovo, area di dibattito e scambio culturale, l’Agorà ospita convegni, esposizioni temporanee, performance artistiche e concerti, oltre a essere punto espositivo permanente con la collezione delle poderose gronde leonine, elementi architettonici in pietra e terracotta provenienti dal Tempio di Himera (una di queste conserva ancora tracce di colore della pittura originaria). L’Agorà ospita inoltre la ricomposizione, ricavata dai disegni del 1926 dell’archeologo Ettore Gabrici, del maestoso frontone con Gorgone del Tempio C di Selinunte (il più grande gorgonèion dell’architettura greca esistente).
45.
S. Biondo, Dall’adattamento a Museo alla nuova sistemazione museografica, cit., p. 14.
57
L’ Agorà del Museo Archeologico Regionale A. Salinas e le gronde leonine provenienti dal Tempio di Himera, sullo sfondo la ricostruzione del frontone con Gorgone del Tempio C di Selinunte, ricavata dai disegni di Ettore Gabrici
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La Collezione La prima raccolta, nucleo originario del Museo, fu quella donata da Giuseppe Emanuele Ventimiglia, Principe di Belmonte, con la quale si costituì la Pinacoteca annessa all’Università di Palermo, posta sotto la direzione del Cav. Lazzaro di Giovanni. Nel 1820 fu acquistata dal Museo la preziosa collezione numismatica del termitano Francesco Gandolfo, nota anche come Medagliere Gandolfo, insieme alla collezione del console inglese Robert Fagan, comprendente sculture greche provenienti dall’Attica e in particolare un fregio del Partenone.46 A questo nucleo, nel 1823, si aggiunsero le metope del Tempio C di Selinunte, recuperate in frammenti dai due giovani architetti inglesi Guglielmo Harris e Samuel Angell, e le metope del Tempio E insieme a vari elementi architettonici rinvenuti durante gli scavi intrapresi in varie zone archeologiche dalla Commissione di Antichità e Belle Arti per la Sicilia. Le donazioni da parte dei sovrani borbonici arricchirono ulteriormente la collezione con ricchi materiali e sculture
46.
C. A. Di Stefano, Il Museo Archeologico di Palermo, Regione Siciliana, Assessorato dei Beni culturali ed ambientali e della Pubblica Istruzione, 2011.
59
romane ritrovati a Tindari, frammenti architettonici da Solunto, bronzi e terrecotte pregiati provenienti dalla Sicilia e dalla Campania, come il raffinato gruppo bronzeo di Ercole e la cerva (fine I sec. a. C. - I sec. s. C.) e l’elegante Satiro versante da Torre del Greco, una delle più note e raffinate copie del celebre originale eseguito da Prassitele intorno al 360 a.C. Queste raccolte costituiscono il nucleo originario del Museo, arricchitosi presto con doni di disinteressati amatori, acquisti, pezzi rinvenuti fortuitamente e risultati di campagne di scavo.
47.
S. Moscati, C. A. Di Stefano, Museo Archeologico Regionale, Novecento, Palermo, 1991.
Nel 1860 il Museo si staccò dall’Università e fu posto sotto la direzione della Commissione. Uno dei più importanti acquisti fatti in quest’epoca fu quello dell’eterogenea collezione di Antonino Astuto, Barone di Fargione, che alla fine del XVIII sec. aveva costituito a Noto un Museo di Antichità, un Gabinetto di Storia naturale e una Biblioteca ricca di manoscritti e pregevoli opere a stampa. La maggior parte dei materiali della collezione era stata acquistata a Roma nel mercato antiquario, talvolta con scarsa cautela, causa della presenza nell’eterogenea collezione di pezzi dalla dubbia autenticità e provenienza.47 Nel 1865 si aggiunse la corposa collezione etrusca del conte Pietro Bonci Casuccini, proveniente da Chiusi, la più ampia e significativa raccolta di antichità chiusine oggi esistente al di fuori della Toscana, costituita da sarcofagi, cippi, statue-cinerarie, urne, ceramiche attiche a figure rosse e nere, bronzi e interi corredi funebri. L’abolizione delle corporazioni religiose nel 1866, fece confluire nella già ricca collezione del Regio Museo le collezioni antiquarie di proprietà ecclesiastica formatesi sotto l’impulso della ricerca erudita del XVIII sec. Le più importanti furono la collezione del Museo dei Padri Gesuiti di Palermo, detto Salnitriano dal nome del Padre Ignazio Salnitro che lo fondò nel 1730, e la collezione proveniente dal Museo di S. Martino delle Scale, costituitosi nell’omonima Abbazia benedettina a partire dal 1744, dotato di opere assai ricche ed eterogenee, provenienti dall’Italia centrale. Tra queste ultime spicca, per la mirabile bellezza e l’intensità espressiva, il ritratto marmoreo di Cesare (fine I sec. a.C.), tra i più bei ritratti dell’Imperatore sopravvissuti alla damnatio memoriae che colpì la vasta iconografia cesariana. Sotto la quarantennale direzione di Antonino Salinas, la collezione del Museo crebbe considerevolmente attraverso le ricerche archeologiche condotte per tutta l’isola, grazie ad acquisti di opere e materiali salvati alla dispersione e di materiale di ogni genere (bibliografico, artistico, storico, antiquario).
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Oggi, tra le collezioni storiche del Museo, si annovera anche quella del suo storico Direttore - la più numerosa, con i suoi 6641 pezzi - composta da libri, manoscritti, stampe, fotografie e da un’ampia raccolta numismatica (circa 6000 monete), oltre che da oggetti personali, come i ritratti di famiglia eseguiti da Michele Panebianco.
Dalla Corporate Identity a porte chiuse alla Programmazione Culturale Chiuso dal 2011 per il lungo restauro del complesso architettonico che lo ospita, il Museo Archeologico Antonino Salinas di Palermo decide di aprirsi al pubblico con un mix strategico di comunicazione e attività culturali, volte a creare una connessione con il territorio e la sua community, sia reale che virtuale. A tale scopo rilancia la sua immagine con uno slogan: Chiusi per restauro, Aperti per vocazione, frutto di una precisa strategia comunicativa orientata all’eliminazione del concetto stesso di ‘chiusura’. Nel 2016 - anno della riapertura – viene sacrificata la prima parte: Aperti per vocazione resterà la frase chiave del Museo, in questa complessa fase di transito verso il definitivo assetto. Viene così messo in campo un accurato progetto di valorizzazione culturale per un Museo a porte chiuse che riesce a trasformare in contenuto - tra suspense e nuovi appuntamenti culturali - l’attesa della prossima apertura. In risposta alla necessità di raccontare nei termini di apertura e accoglienza un luogo ancora in larga parte inaccessibile, il Salinas adotta una strategia comunicatava studiata dal social media e content manager del Museo Sandro Garrubbo, basata sul dietro le quinte con lo scopo di (ri)conquistare il pubblico e rilanciare l’immagine dell’Istituzione. Due sono gli aspetti che è importante tenere presenti - spiega Garrubbo - il primo è che la cultura non è un valore in sé ma, oggi più
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48.
E. Bonacini, Il Museo Salinas: un ‘case study’ di ‘social museum’ a porte chiuse, in Il Capitale culturale, Studies on the Value of Cultural Heritage, vol.13, 2016.
che mai, è un valore relazionale; il secondo aspetto è che i nuovi mezzi di comunicazione sono efficaci solo se utilizzano linguaggi connessi alla contemporaneità. In un certo senso il lavoro finora intrapreso è la prova provata della potenza dei social anche in condizioni di massimo svantaggio […]. 48 Allo svantaggio di una prolungata chiusura, dovuta a un lento cantiere di restauro che ha sottratto il Museo alla fruizione e al rapporto stesso con la città, subentra l’efficacia di una comunicazione gestita attraverso i social media per incuriosire, coinvolgere e attirare daccapo l’utenza, costruendo una nuova narrazione e ribaltando una effettiva condizione di disagio. Il Museo ha inteso così ripensare sé stesso e il suo ruolo all’interno della comunità, portando avanti anche una serie di eventi e attività - sia al suo interno che outdoor -, per far vivere la straordinaria bellezza delle sue collezioni e insieme condurre riflessioni e approfondimenti intorno a temi di archeologia, storia, antropologia. Lo dimostrano, tra le molte iniziative, le due grandi mostre inaugurate a Palermo, Gli Etruschi a Palermo (2012), presso il Real Albergo dei Poveri, e Il Salinas in vetrina (2014), allestita a Palazzo Branciforte.
49.
A. Salinas, Del Museo Nazionale di Palermo e del suo avvenire, Prolusione 1873, cit.
50.
E. Bonacini, Art. cit.
51.
F. Spatafora e Lucina Gandolfo, Del Museo di Palermo e del suo avvenire: il Salinas ricorda Salinas 1914-2014, Palermo, 2014, p. 9.
52.
A. D’Amore, Tecniche di comunicazione per la cultura on line: storytelling e content management, in #svegliamuseo. Comunicare la cultura on line: una guida pratica per i musei. Progettazione di siti web, content management, social media e analisi dei risultati, a cura di F. De Gottardo, A. D’Amore, V. Gasparotti, A. Raimondi Cominesi, pp. 47-65, http://www. svegliamuseo.com/wp-content/uploads/ Ebook/Comunicare-la-culturaonline_Svegliamuseo.pdf, 08.08.2014
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Nel 2014 il Salinas dedica un tributo al suo grande Direttore, in occasione del centenario dalla morte dell’archeologo, con la mostra Del Museo di Palermo e del suo avvenire. Il Salinas ricorda Salinas, 1914-2014. Un titolo scelto ad hoc per riprendere simbolicamente le fila del discorso della nota Prolusione 49 del Direttore e offrire al pubblico un’importante anteprima sul futuro del Museo. Restaurato e inaugurato per l’occasione, dopo anni di chiusura, viene aperto al pubblico lo splendido Chiostro Minore con le sue sale, sede della mostra. I risultati sono inaspettati: quasi 25.000 visitatori in soli sette mesi di apertura, un esito sorprendente per un Museo di fatto aperto solo per un terzo. Insieme all’affluenza registrata per le due mostre sopracitate, realizzate in altri spazi cittadini, il Salinas ottiene tra il 2014 e il 2015 un totale di quasi 40.000 visitatori, superando realtà locali ampiamente affermate.50 Sulla scia di questi successi nel 2015 il Museo presenta il suo nuovo brand e il payoff: Le storie di tutti noi, sintesi di una mission che si delinea chiaramente: fare del Museo un organismo vivo, un luogo di produzione culturale, un punto di riferimento per la città in cui le testimonianze del passato servano a leggere e comprendere la storia e la vita dell’uomo e a fornire radici tenaci per il futuro.51 Le storie di tutti noi diventa l’hashtag fisso della comunicazione social, alla base di una narrazione improntata a uno stile diretto, colloquiale, lontano dal tecnicismo linguistico tipico di molta comunicazione museale di ambito storico-archeologico. Se un museo vuole significare qualcosa per le persone, se vuole essere rilevante per il suo pubblico, deve raccontare storie. Storie che non siano avulse dalla realtà circostante o dall’epoca presente, storie che parlino di persone comuni, storie attraverso cui gli ascoltatori possano identificarsi e partecipare alla creazione di significato, per se stessi e per la comunità.52 Questa la copy strategy messa a punto da Garrubbo, da cui
muove il concept del nuovo marchio, caratterizzato da un preciso segno distintivo, sintetico, contemporaneo, ma che al tempo stesso rimanda alle forme e i simboli dell’antico. Il marchio è incentrato sulla S di Salinas e di Storie, un pittogramma composto da due elementi: il profilo di un’anfora greca e un altro elemento grafico, leggermente ruotato, che evoca l’idea di un piano (lo scavo) da cui l’anfora viene estratta. L’inclinazione, oltre a dare profondità, conferisce anche una maggiore leggibilità alla S, delineata come vuoto tra i due elementi. Il colore è il rosso, ricco di valori simbolici, strettamente legato alle più antiche manifestazioni artistiche dell’uomo, qui proposto in una versione contemporanea dal sapore più freddo, in cui predomina il magenta. Il lettering è invece affidato a un moderno font bastone 53 - il Lato - estremamente leggibile, pulito, arioso: è usato nelle varianti Bold per la scritta Salinas e Light per la denominazione Museo Archeologico Regionale Palermo.
Una nuova veste grafica, dunque, per un Museo che intende ripensarsi e ripensare il suo ruolo all’interno della comunità, anche puntando su una programmazione culturale trasversale, composita, capace di creare network e di fidelizzare target di pubblico sempre più ampi: si inizia così a puntare, con progressivo slancio, su eventi, progetti didattici, attività di taglio sociale, conferenze, concerti, spettacoli, incontri e dibattiti, utili a rinsaldare il rapporto dell’Istituzione con il suo territorio. È a tale scopo, ad esempio, che nasce il progetto Mettiamo insieme i cocci, realizzato dal Salinas in collaborazione con l’Istituto penale dei minori di Palermo Malaspina: ragazzi trovatisi a restaurare alcuni vasi ridotti in frammenti della Palermo punica, risalenti a circa 2.500 anni fa, dopo una formazione praticata attraverso incontri didattici e laboratori tenuti - per la prima volta in Italia - all’interno dello stesso carcere minorile. I risultati del progetto sono confluiti in una mostra, inaugurata al Salinas il 14 marzo 2018. Tantissimi, poi, gli appuntamenti ospitati tra i chiostri e l’Agorà, sotto la direzione di Francesca Spatafora (2016-2019) e poi di Caterina Greco (da luglio 2019, attualmente in carica), dal Festival delle Filosofie al Festival delle Letterature Migranti, solo per citare alcune eccellenze di una ricca gamma di iniziative, articolate tra molteplici campi del sapere e della creatività: dall’arte pubblica alla didattica per i più giovani, dalle ultime frontiere delle arti visive all’editoria contemporanea, passando per il teatro o per approfondimenti sulla cultura classica,
53.
In tipografia un carattere senza grazie o sans serif è privo dei tratti terminali, chiamate grazie.
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sul mito, sulla politica, sulla condizione femminile. E a proposito di teatro-danza, è ancora la luminosa Agorà ad accogliere nel 2019 la performance dal titolo Extra Moenia, curata dalla nota regista teatrale e drammaturga Emma Dante: in scena i giovani talenti della Scuola dei Mestieri e dello Spettacolo del Teatro Biondo, diretta dalla stessa Dante. Una coreografia potente, contemporanea, un rito condiviso di affermazione e di liberazione, per spogliarsi dalle maschere che la società impone, cinicamente.
Verso il Nuovo Allestimento Il 27 Luglio 2016 il Museo Salinas riapre ufficialmente, dopo i poderosi lavori di restauro. In attesa del completamento del nuovo allestimento, viene restituito al pubblico il pianoterra, parte rilevante del museo, con oltre 2000 opere restaurate ed esposte, alcune delle quali mai allestite prima.
54.
F. Frisone, Luce sul nuovo Museo Salinas di Palermo, 22/8/2016 https://www.archeostorie.it/luce-sul-museo-salinas/
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L’attesa della prima, parziale riapertura è stata sapientemente stimolata da un’incisiva attività web e da un fitto calendario di eventi, mostre, seminari e convegni, che hanno donato al Museo una moderna identità comunicativa.54 Il nuovo progetto allestitivo è stato formulato per rivelare le molte anime della collezione, attraverso una strategia espositiva che ha voluto conferire unitarietà ai diversi contesti, superando l’impostazione di stampo tipologico attribuita alle collezioni negli anni del dopoguerra. Al Piano terra la nuova esposizione si sviluppa attorno ai due splendidi chiostri; lungo il portico del Chiostro Maggiore ritornano all’antica collocazione, ma con rinnovato splendore dopo i restauri, opere ben note come il Torso dello Stagnone di Marsala (VI sec. a. C.), i Sarcofagi fenici della Cannita (V sec. a.C.) e le grandi statue romane, fra cui quella colossale di Zeus da Solunto (II secolo a. C.), mentre le celle della corsia settentrionale, dalle quali si sono ricavati ulteriori spazi espositivi, ospitano oltre ai preziosi reperti fenici quelli provenienti dagli scavi da Centuripe, Randazzo e Tindari, promossi nell’Ottocento dalla Commissione di Antichità e Belle Arti, alcuni dei quali mai esposti prima. Straordinario momento dell’esposizione è la sezione selinuntina, con le famose metope, che da oltre un secolo dominano la grande sala, un tempo refettorio dei Padri Filippini. Il nuovo allestimento non poteva non rispettare l’originaria collocazione storica, arricchita però con nuovi frammenti scultorei, restituiti ai loro contesti archeologici che oggi ci mostrano la vita, i culti e la storia della più occidentale delle città greche di Sicilia: Selinunte. Moltissimi sono, in questo settore, i reperti esposti per la prima volta, tra cui alcuni materiali votivi dal Santuario di Demetra Malophoros (VI secolo a.C.). Le otto sale selinuntine si dispongono lungo il terzo cortile del Museo, l’Agorà, luogo d’incontro e raduno, dove sono esposte le 17 gronde leonine del Tempio di Himera e la grande Gorgonèion. Attualmente chiuse, le sale del primo piano - la cui apertura è
Satiro versante, copia in marmo da un originale di Prassitele del 360 a. C., da Torre del Greco. Fotografia di Iole Carrolo, 2016
attesa entro il 2021 - sono destinate ad accogliere le collezioni che costituirono il nucleo principale del Museo nell’Ottocento, esposte secondo la loro originaria composizione, variegata ed eterogenea. Il percorso si articolerà quindi attraverso le raccolte del Museo Salnitriano, del Museo San Martino, della Collezione Astuto e della Collezione Casuccini. Nella splendida Sala Ipostila, con le sue robuste colonne, realizzata nell’Ottocento per riadattare gli spazi conventuali alla nuova funzione museale, troveranno posto i materiali e le opere delle donazioni borboniche, ricomposte nei loro originari raggruppamenti: Casa di Sallustio di Pompei e Villa di Torre del Greco, nonché il noto Ariete bronzeo (III sec. a. C.) destinato al Museo di Palermo da Vittorio Emanuele di Savoia. Una sezione infine sarà interamente dedicata alle oreficerie e al ricco Medagliere. Gli spazi del secondo piano saranno destinati all’esposizione di una ricca serie di materiali provenienti da regolari scavi archeologici effettuati in diverse città della Sicilia centro-occidentale. Si delinea così un quadro piuttosto completo dell’intera storia dell’isola, dai più antichi periodi preistorici e protostorici alla colonizzazione fenicia, dal periodo romano e bizantino fino all’età medievale. Nell’ampio salone, ex sala della Pinacoteca, rimarranno i mosaici, sia quelli rinvenuti nel 1868 a Palermo nel complesso edilizio romano di Piazza della Vittoria, su tutti il celebre, possente mosaico del III sec. d.C., raffigurante Orfeo tra gli animali. Il secondo piano accoglierà anche le pregevoli decorazioni parietali provenienti da Solunto. Una sala sarà dedicata alla collezione del grande Direttore Salinas e nel loggiato, chiuso adesso con una moderna vetrata, troverà posto la sezione subacquea.
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L’apertura al Contemporaneo Fra strategie di comunicazione mirate, progetti didattici e un folto programma di eventi culturali - mostre, rassegne cinematografiche, spettacoli teatrali, presentazioni editoriali, promossi anche grazie al lavoro sinergico svolto con Coopculture, dal 2018 gestore dei servizi aggiuntivi del Museo con il suo Culture Concept Store (caffetteria, bookshop, welcome point, spazio eventi) - il nuovo Salinas consolida la sua vocazione di apertura verso linguaggi orientati al presente. È così che il Museo si apre all’arte contemporanea, per la prima volta nel 2017, accogliendo nei suoi spazi le opere inedite di sei artisti: Marianna Christofides, Gabriella Ciancimino, Malak Helmy, Andrew Mania, Pietro Ruffo e Luca Trevisani, in occasione della mostra Mappe e miti del Mediterraneo, settima edizione di Viaggio in Sicilia, progetto annuale promosso dall’azienda vinicola Planeta, a cura di Valentina Bruschi. La mostra è il risultato delle suggestioni nate dalla residen-
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Evgeny Antufiev, When Art became part of the Landscape. Chapter I, Museo Archeologico Regionale Antonino Salinas, Palermo 2018
Andrea Mastrovito, Nysferatu, 2017, film d’animazione
za itinerante degli artisti in viaggio attraverso il territorio siciliano, fra terre, colori, miti e leggende che hanno ispirato la produzione di opere - sculture, disegni, video e fotografie - pensate e create appositamente per il Museo Salinas, in dialogo con i suoi reperti. Il 2018 è un anno denso di eventi per il Museo e per l’intera città di Palermo, insignita del titolo di Capitale Italiana della Cultura e scelta come sede della dodicesima edizione di Manifesta - Biennale europea d’arte contemporanea. Il 31 maggio il Salinas, in collaborazione con la Fondazione Merz di Torino, installa l’opera di Mario Merz, tra i maestri dell’Arte Povera: Pittore in Africa (1984) è ancora oggi un segno luminoso sospeso lungo la parete ovest dell’Agorà, la piazza interna del Museo inaugurata a marzo dello stesso anno. E proprio in occasione di Manifesta, a partire da metà giugno 2018, il pianoterra del Salinas ospita una serie di sculture del russo Evgeny Antufiev (classe 1986), dislocate tra l’Agorà, il Chiostro Maggiore, il giardino e la sale espositive: interessante esponente delle nuove generazioni di artisti europei, vincitore a soli 23 anni del Kandinsky Prize per la categoria The young artist. Project of the Year, Antufiev arriva per la prima volta in Sicilia, misurandosi con gli spazi imponenti e le atmosfere incantate del Museo. In un gioco di mimesi e insieme di rottura tra i reperti archeologici e le sue sculture lignee, le fusioni o le terrecotte dalle superfici scabre, ossidate e invecchiate, l’artista ridesta un immaginario mitico, popolato di presenze misteriose, ibridi sinistri, simboli pagani, figure arcaiche e iconografie funerarie. Il progetto nasce da una sinergia tra l’istituzione siciliana e Collezione Maramotti di Reggio Emilia.
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Il 12 luglio dello stesso anno arriva al Castello a Mare - area archeologica di pertinenza del Museo Salinas, nei pressi dell’antico porto di Palermo - il film di animazione concepito, scritto e montato dall’artista Andrea Mastrovito, composto da oltre 30.000 disegni realizzati a mano. Nysferatu (2017) è un progetto che fonde arte, cinema, letteratura, attualità socio-politica (dal tema dei migranti ai contesti urbani contemporanei), pratica del disegno, scienza del montaggio cinematografico e immaginario poetico-filosofico. L’ispirazione arriva dal film Nosferatu di Friedrich Wilhelm Murnau, capolavoro del cinema espressionista, uscito nel 1922 e a sua volta modellato sul Dracula letterario di Bram Stoker. Terza tappa di un tour estivo - condiviso con la Gamec - Galleria d’Arte Contemporanea di Bergamo e il Museo Novecento di Firenze, a cura di Lorenzo Giusti, Sergio Risaliti e Helga Marsala - la data palermitana, incorniciata nella notte dalle rovine del Castello d’epoca normanna, è impreziosita da una speciale sonorizzazione live, con partiture originali: al pianoforte Simone Giuliani (Firenze, 1973; vive a Los Angeles), musicista, compositore, producer e direttore d’orchestra, autore dei brani originali; ai microfoni Bisan Toron (nata in Siria nel 1974, vive tra Parigi, New York e Richmond), vocalist sperimentale, compositrice e maestra di canto.
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I testi in corsivo sono tratti dai comunicati stampa diffusi in occasione del lancio della mostra.
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Il 31 luglio è la volta della mostra personale di Moira Ricci, tra le artiste più interessanti della giovane scena italiana: Da buio a buio, progetto simbolo della sua ricerca, esposto anche al Palazzo delle Esposizioni di Roma in occasione della Quadriennale del 2016, è accostato alla piccola mostra sui Pupazzi di Mastressa, gruppo di cento sculture false, rinvenute a metà ‘800 da un contadino nei pressi di Taormina (in località Mastressa), e vendute - spacciandole per vere - a diverse istituzioni museali internazionali, in parte finite nei magazzini nel Salinas e dimenticate lì per circa 150 anni. Entrambe le mostre erano parte del ciclo di esposizioni, dibattiti e incontri dal titolo Il Sospetto. Visioni e narrazioni nell’era della post-verità, curato da Helga Marsala, co-ideatrice insieme a Sergio Alessandro (dal 2018 Dirigente generale dei Beni culturali della Regione siciliana). E a proposito del rapporto controverso tra verità e finzione, Da buio a buio cuce insieme un corpus di immagini video, documenti, fotografie, testi, ritagli di giornale, direttamente connessi al passato dell’artista, ai luoghi natii nel cuore della Maremma e a quelle storie popolari fiorite nelle campagne toscane, che avevano nutrito il suo immaginario di bambina. Un lavoro raffinato e affascinante, introdotto così dalla curatrice: La bambina cinghiale *, L’uomo sasso, I gemellini e Il lupo mannaro si offrono allo sguardo nella complessa installazione di frammenti, come dinanzi a chi ne intende rubare l’intimità e il segreto: un’architettura ordinata e aperta, nutrita di cronaca e di esprit letterario. E c’è un sentimento che scorre, mentre ci si aggira tra questi minimi reperti del reale scovati dentro archivi e vecchi cassetti: è il sinistro, il perturbante, l’incrocio tra il quotidiano e l’alieno, il luminoso e il sotterraneo, che nel freak si fa piccola ossessione. Lungo la linea del sospetto si srotola così la narrazione silenziosa.
Moira Ricci, Da buio a buio, Museo Archeologico Regionale Antonino Salinas, Palermo, 2018
Ancora nel 2018, da metà novembre, l’arte contemporanea è di scena al Salinas con la personale dell’artista greca Venia Dimitrakopoulou, dal titolo Futuro Primordiale - Materia, a cura di Matteo Pacini e Afrodite Oikonomidou, prima tappa dell’itinerante Trilogia Italia, un percorso espositivo che - tra sculture, carte e installazioni - affronta il tema del dialogo tra passato e presente attraverso una triplice scansione concettuale. Tre mostre, con tre sottotioli diversi: a Palermo Materia, a Torino Logos e a Trieste Suono. Con il primo capitolo del progetto Quando le statue sognano l’arte contemporanea abbraccia con rinnovato spessore e in maniera ancor più strutturale gli spazi e la programmazione del Museo Salinas, diventando occasione di commento, di reinvenzione e di disvelamento di quella parte di museo - tra opere e ambienti - ancora non accessibile, durante l’ultima fase del riallestimento. Un’attitudine che - in attesa della seconda parte del progetto - ha trovato nuova energia e interessanti spunti nella personale di Sharon Ritossa, ancora a cura di Helga Marsala, ospitata presso la grande sala del primo piano, destinata ad accogliere la Collezione Casuccini d’arte etrusca. Foibe, inaugurata il 10 febbraio 2020, per la Giornata internazionale del Ricordo, mette insieme storia, memoria, paesaggio, estetica e politica, in una rigorosa e raffinata scrittura visiva intorno all’eccidio dei dissidenti politici da parte delle truppe di Tito, in area istriana, sull’Altipiano Carsico: un intenso progetto fotografico ed editoriale, dominato dalla dialettica tra bianco e nero, nato durante un periodo di residenza presso Fabrica, il centro per la Comunicazione di Benetton Group. Le foibe - spiega la curatrice - nelle immagini di Ritossa non sono spunto di una contesa ideologica, né argomento di una narrazione retorica, facilmente emotiva, tra cronaca e romanzo. Si tratta piuttosto del gesto di una studiosa, condotto tra fotografia concettuale, ricerche d’archivio e riflessioni di natura estetica intor-
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no allo sguardo, ai processi della visione, alla tensione tra visibile e invisibile, alla percezione del vuoto. Sempre indagando la natura del paesaggio e il ruolo del territorio nelle dinamiche socio-culturali. Tra i sarcofagi del Salinas, direttamente dalle memorie piÚ dolorose del Nordest, questa storia ha preso nuovamente forma, arrivando a Sud, valorizzata anche da una nuova produzione audio-video e da un originale allestimento site-specific costruito intorno al libro d’artista, ai testi e alle fotografie riconvertite nell’inchiostro denso di stampe serigrafiche o nella luce di delicati lightbox.
Sharon Ritossa, Foibe, Museo Archeologico Regionale Antonino Salinas, Palermo, 2020, fotografia di Andrea Cattano
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Quando le statue sognano Frammenti da un museo in transito
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La Mostra Inaugurata il 28 novembre 2019 al Museo Archeologico Antonino Salinas, Quando le statue sognano è un progetto di Helga Marsala, critica d’arte e curatrice, che ha curato l’esposizione insieme a Caterina Greco, Direttrice del Museo Salinas. Come il titolo suggerisce, quella offerta dalla mostra è una suggestione poetica, al centro della quale vi è il sonno in cui le statue antiche scivolano, immerse nel silenzio e nella quiete degli spazi del Museo ancora chiusi al pubblico: interpreti mute ma non inerti, cieche e perciò veggenti: sprofondate in un magma di rimembranze, ombre, allucinazioni in attesa di essere scoperte e interrogate.* Quello delle statue dormienti è un sonno carico di sogni che si materializzano e si contaminano, assumendo una forma contemporanea. Tra accostamenti, memorie, cortocircuiti temporali, miti evocati, visioni e desideri del passato, prende vita una suggestione estetica e concettuale che si nutre dello scambio tra le opere antiche e quelle dei quattro artisti contemporanei chiamati a dialogare con esse: Ferdinando Scianna, Alessandro Roma, Guido Bisagni e Fabio Sandri. E allora come in una fantasmagoria lo spazio silenzioso del museo si trasforma in una aristocratica dimora, eccentrica, eclettica, occupata da oggetti, ombre, figure senza tempo. Mentre il Museo continua a evolversi, sono loro - le statue - a sognare, a sognarsi, a sognarci.
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I testi in corsivo sono tratti dagli scritti creati per la mostra da Helga Marsala, ideatrice del progetto e curatrice dell’esposizione.
Spazi e Temi Corridoi silenziosi, depositi affollati, sale vuote in attesa di essere allestite: gli spazi nascosti del Museo in transito, come suggerisce il sottotitolo della mostra, sono trasportati nella cornice lirica di un grande sogno collettivo, in cui si delinea una suggestione visionaria, un teatro segreto abitato da reperti archeologici, evocati o reali, accostati a opere contemporanee. Come una wunderkammer sospesa nel tempo, l’ala est del primo piano del Museo Archeologico si contamina di linguaggi e medium diversi: sculture bronzee, pitture a parete, libri d’artista, reperti, teste e statue marmoree, tessuti dipinti, affreschi, ceramiche informi, suoni elettronici, bisbigli, fotografie evanescenti.
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Anche le opere antiche, frutto di un’accurata selezione da parte dei curatori in sintonia con gli artisti, sono esposte con un taglio fortemente contemporaneo, come a generare un’unica, grande installazione percorribile, attraversabile. La selezione archeologica si concentra sull’antica Roma e sull’eredità della cultura greca, che proprio tra le sale di quest’ala del Museo troveranno futura collocazione, insieme a reperti e opere d’epoca borbonica.
A inaugurare il primo capitolo di Quando le statue sognano è dunque l’apertura straordinaria della Sala Ipostila - o Sala delle Colonne - e degli spazi ad essa contigui, un tempo adibiti a uffici, che per l’occasione si presentano al pubblico dopo un lungo restauro. Vengono qui date offerte significative anteprime del futuro allestimento: nel prolungamento della Sala Ipostila trova la sua definitiva collocazione il maestoso Ariete bronzeo da Siracusa, donazione del Re Vittorio Emanuele II, mentre nella grande stanza del Mosaico (o ex Direzione) è collocata la straordinaria Menade Farnese, valorizzata da un allestimento dal forte impatto visivo, enfatizzato dai preziosi elementi architettonici e decorativi della Casa Conventuale dei Padri Filippini, rinvenuti grazie al restauro. Un’operazione di disvelamento, quella del Museo in transito che avanza verso la sua nuova forma e che intanto si reinventa, restituendo al pubblico spazi da tempo chiusi, opere a riposo e alcuni pezzi mai esposti prima: il percorso si snoda lungo un tempo fluido, circolare, scandito dal susseguirsi di echi e rimandi. Dal passato al presente tornano tre grandi topoi inesauribili: l’Uomo, la Natura, il Sacro. Molte le suggestioni rintracciate a partire da questi temi: il ritratto ufficiale privato o con funzione religiosa; il tempo, elemento di dissoluzione o conservazione; il teatro, la ritualità e l’incanto musicale; l’eros e la sensualità; la vertigine del paesaggio; e infine il mito, altro grande tema evocato e risignificato attraverso le gesta degli eroi della mitologia classica.
Artisti e Opere Il percorso della mostra si apre, significativamente, con un verso di Jorge Luis Borges: Vivo tra forme luminose e vaghe / che ancora non son tenebra, tratto dal suo Elogio dell’ombra (1969), accompagnato da una serie di preziosi ritratti del poeta argentino, realizzati da Ferdinando Scianna proprio al Museo Salinas nel 1984. Una mostra dedicata al sogno, del resto, non poteva trovare una corrispondenza migliore. Le toccanti fotografie del maestro siciliano ritraggono Borges, ormai cieco, mentre sfiora - per vederle con le mani - alcune statue della collezione del Museo, due delle quali presenti in mostra: il ritratto di Cesare (I sec. a. C.) e il gruppo bronzeo di Eracle e la Cerva (I sec. a.C.). Ed è come assistere ad un intimo scambio, una muta conversazione tra le statue e il poeta, autore de Il libro dei sogni (1976): una sorta di silenziosa magia, la cui intensità poetica si riverbera negli scatti di Scianna. Inizia così il percorso espositivo lungo la Sala Ipostila, dove si alternano le opere di Alessandro Roma, 108/Guido Bisagni e Fabio Sandri, in dialogo con i reperti delle collezioni archeologiche. Quattro tracce sonore di 108/Guido Bisagni: Raijin (I Signori della pioggia), Silvano notturno, Silvano serale, Inno alla notte (2019) sono concepite come vere e proprie opere diffuse
nell’ambiente. La pasta sonora mescola brusii, cinguettii, versi selvatici, echi di ruscelli, suoni arcaici e timbri noise, a scandire il passaggio da un ambiente all’altro: attraverso il suono si materializza così un paesaggio suggestivo, sovrapposto e fuso a quello evocato durante la passeggiata tra le sale, amplificandone la sensazione. Sono suoni che ci riportano ai rituali dionisiaci di baccanti e sileni, tra danze primordiali ed evasioni magiche nella natura, suoni ripetitivi, elaborati elettronicamente e mescolati a field recordings (registrazioni sul campo) realizzati da 108 in giro per il mondo, principalmente in ambienti naturali notturni: il rumore della pioggia di Kyoto, il suono dei torrenti sugli Appennini, insetti e animali nel bosco di una riserva indiana a New York e infine un tributo a Orfeo tra note distorte, sussurri e bisbigli. Piccole lucerne di terracotta di epoca romana (I-V sec d. C.), alcune delle quali decorate con scene dionisiache, richiamano simbolicamente l’elemento chiave che conduce all’opera di Fabio Sandri, ovvero la luce, senza la quale non si attiverebbe il dispositivo fotografico, né quello visivo. Una luce sopravvissuta nella penombra, simbolicamente associata ai sogni, al risveglio, al dormiveglia. La ricerca concettuale di Sandri passa per il dispositivo fotografico, giocando con l’interazione tra linguaggio analogico e digitale. Per il Museo Salinas realizza una serie di ritratti: Incarnato (Satiro Versante), Incarnato (Pan), Incarnato (Cesare), Incarnato (Ritratto di Partinico) e Incarnato (Accumulo) (2019), frutto dell’incrocio tra processo digitale (la videoproiezione) e processo analogico (la fotoimpressione). Come vere e proprie scritture di luce, i ritratti, ottenuti senza l’ausilio della macchina fotografica, sono immagini/impronte generate direttamente dall’azione della luce per mezzo della videoproiezione di fotografie d’archivio del museo su carta
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emulsionata. Un’impressione analogica, a cui si somma la trama dei pixel del mezzo digitale: l’immagine risultante, però, non viene fissata. Esposte nello spazio, in stato di continua impressione, le immagini/impronte si consumeranno così nel tempo per effetto della luce, continuando a mutare. I ritratti di grande formato determinano un coinvolgimento ambientale con il visitatore: sono statue d’epoca romana scelte tra le collezioni a riposo del Museo, che con l’allestimento definitivo troveranno posto lungo la Sala Ipostila e che in mostra vengono evocate come anteprime degli originali marmorei, copie imperfette, simulacri evanescenti in cui la leggerezza dell’immagine, visione instabile di un tempo indecifrabile, è contrapposta alla solidità della scultura, con il suo tempo imperituro e immobile. Il tempo della statua, eterno, è contrapposto a quello labile e fugace della sua impronta (il suo sogno? il suo ricordo?). Sotto l’azione della luce-tempo le impronte scuriranno, saturandosi fino a tramutarsi in monocromi bruni per via
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dell’ossidazione chimica, frutto dell’impressione continua. Stratificazione di istanti, immagini che diventeranno scarti, detriti, accumuli, testimoni tangibili dello scorrere del tempo. L’archeologia stessa, del resto, ha a che fare con la materia del tempo, sedimentata nei luoghi, nelle cose, nei dettagli. Con lo stesso procedimento l’artista realizza Trasporto (Polydeukion), ritratto del giovane discepolo favorito di Erode Attico. In questo caso a essere proiettato su carta fotosensibile è un video. Inquadratura frontale per 15 minuti, posa statica: la testa del giovinetto è tenuta tra le braccia da una figura acefala. All’immobilità della ripresa non corrisponde - inevitabilmente - quella del soggetto, che essendo un corpo vivo, a differenza della statua, si muove. Nella video-impronta fissata su carta emulsionata si sommano tutti i fotogrammi del film, dando vita ad un’unica immagine-impronta, un negativo da cui l’artista ottiene la stampa fotografica positiva, che nell’effetto lievemente mosso e sfocato conserva la sua origine filmica.
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In dialogo con l’opera di Sandri, posto frontalmente come su un palcoscenico, è il potente coro delle teste votive in terracotta di Cales - mai esposte prima - databili tra IV e il II secolo a. C.: altri ritratti, ma in questo caso ex voto con finalità religiosa, incorniciati dai grandi tessuti dipinti di Alessandro Roma. Quella di Roma è una pittura che acquista spazialità e diviene materia, scultura, ceramica, tessuto. La serie di pitture su stoffa Drawing I, II, III (2018) diventa qui un’installazione di fondali pittorici, a commento della terza fatica di Eracle, evocata dal gruppo scultoreo di Eracle e la Cerva (I sec. a.C.), posto poco più in là. Quinte teatrali di uno spazio onirico e allucinato, le stoffe sono quasi il piano d’emersione dei ricordi della statua: il semidio, intento tra i boschi a catturare l’animale sacro dalle corna d’oro, ripensa sé stesso in mezzo a frammenti di natura implosa, tra i decori pittorici vagamente naturalistici, tendenti all’astrazione, e le ceramiche dalle cromie vibranti e sfaccettate, segni plastici sensuali che Roma ha posizionato qui e in altri punti dello spazio. Tra queste ultime anche My Head Inside the Nature (2019), posta in relazione con il piccolo Satiro marmoreo (II sec. d.C.) della Collezione Astuto. Osservata dall’alto, la statua riporta alla mente scampoli di paesaggi silvani, distese di verde a tratti cupo, a tratti brillante, come quello che la scultura lascia intravedere al suo interno. Tutte suggestioni che riportano al tema del sacro: dagli ex voto religiosi al sentimento panico della natura, evocata plasticamente e pittoricamente, fino al culto di Dioniso praticato dai Satiri e rappresentato nelle scene del Candelabro neoattico (II sec. d. C.) e nei dipinti parietali di Solunto (I sec. a.C.), tra festoni, maschere teatrali e oggetti tipici usati nel culto dionisiaco, incluso un piccolo tamburo che risuona sinesteticamente con le tracce audio di Guido Bisagni diffuse nell’ambiente, amplificandone la dimensione magico-ipnotica. Memoria antica e forma contemporanea, linguaggi che si fondono e si mescolano, tornano nel percorso che dalla Sala Ipostila conduce al Giardino delle Esperidi, scenario dell’undicesima fatica di Eracle, ricreato da due lavori di Alessandro Roma: l’arazzo policromo Forms in transition (2018) e The Lost Garden (2019), grande wall painting realizzato dall’artista su una parete del Museo. Il mitologico giardino, sede del melo dai frutti dorati custodito dalle Esperidi e dal Drago Ladone, dialoga con la statua marmorea di Eracle con i tre pomi (II sec. d. C.), posta di fronte: la proiezione allucinata di un ricordo, o forse di un sogno, tra luci e ombre giunte dall’inconscio di Eracle.
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Da qui si giunge alla sala che ospita il regale Ariete bronzeo (III sec. a. C.), arredata per l’occasione con l’originario mobilio ligneo del vecchio Museo Nazionale, e concepita come uno studiolo ottocentesco, tra immagini d’epoca, carte, libri, leggii. Qui si trovano due lavori che bene esprimono il multiforme linguaggio di Guido Bisagni/108, tra studi antropologici e atmosfere underground, sperimentazioni musicali e una forma d’astrazione - tipica dei suoi grandi murales
metropolitani - che richiama le avanguardie artistiche del Novecento. Al centro della sua ricerca c’è l’equilibrio tra opposti, la tensione dialettica, il tema doppio, tutti spunti che idealmente rimandano alla scultura con cui la sua opera dialoga: l’Ariete bronzeo, separato per sempre dal suo gemello andato distrutto. Nella stessa sala, in relazione alle opere di 108, si trova il libro Voyage Pittoresque, raccolta di gouache realizzata da Jean-Pierre Houël durante il suo viaggio in Italia tra il 1782 ed 1787, aperto proprio sulla pagina che mostra l’originaria coppia di Arieti, posti fino al ‘500 ai lati del Castello Maniace di Siracusa. È questa l’unica testimonianza a noi pervenuta dell’esistenza dell’altro Ariete, colpito dai cannoni durante i moti del ‘48. Nella gouache di Houël i due Arieti sono ritratti nella medesima posizione, ma in senso opposto, uno con il vello chiaro, esposto alla luce, l’altro - l’Ariete superstite - in ombra. Un doppio uguale e contrario. Per il Salinas 108 realizza il suo primo libro d’artista in copia unica, Gli Arieti (2019), posto in relazione con il Voyage di Houël. Si tratta di una sorta di scrigno di legno che racchiude 60 lavori a inchiostro su carta. Una progressione di forme nere, pesanti, scandiscono l’evoluzione dell’Ariete in forma astratta e simbolica: la massa cambia forma, pagina dopo pagina, come in una litania magica. Predomina il nero, ma il bianco persiste nelle pieghe dei fogli e nella trama della carta, suo opposto, traccia della matrice su cui l’artista è poi intervenuto: il gioco delle persistenze e delle sparizioni prosegue, sulla traccia di quel capolavoro perduto, che nel libro
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esiste unicamente come fantasma e doppio invisibile, oltre che nel titolo dell’opera. La forma dell’animale diviene pura astrazione anche nelle due masse di colore scuro del dittico su carta di 108: Meccanica Intangibile I/II (2019). I due fogli, inseriti in un’elegante cartella porta-disegni in pelle, presa in prestito dal mobilio storico del Museo, sono posti di fronte al libro di Houël. Il tema è ancora l’Ariete col suo doppio, due pesi concreti e contrapposti, tesi verso la ricerca di equilibrio su un piano ideale e per questo intangibile. Un video, nella sala dell’Ariete, lascia scorrere una carrellata di fotografie d’archivio del Museo Salinas, per riscoprirne la storia, i cambiamenti, gli anni della guerra, l’antico allestimento delle sale e gli spazi di una volta. Un viaggio nella memoria (quella del Museo), in una successione che non segue un filo cronologico ma estetico ed emozionale. A completare il corpus dei lavori di 108 sono tre brevi video realizzati dall’artista: Snowstorm and the number 8 (2010), Sant’Alosio (2010), È giusto estinguersi (2009). Pensati come appunti, schizzi a bassa definizione, divagazioni, percorsi e solitarie passeggiate immerse nella natura, si inseriscono nel Giardino delle Esperidi, anch’esso un paesaggio, questa volta pittorico e astratto. Le opere di 108 e Alessandro Roma ci accompagnano nell’ultima tappa della mostra all’interno di quella che un tempo fu sede della Direzione del Museo Salinas e che adesso accoglie l’imponente statua di età imperiale della Menade Farnese (I-III sec. d.C.). Musa tra le fronde erbose del parco della Favorita ultimo luogo a cui è appartenuta fino agli anni 50’ – la figura trionfale rievoca memorie silvane, frenesie ed estasi di rituali consumati tra i boschi da creature notturne. Una notte suonata, sussurrata e distorta, come quella celebrata nell’ultima traccia sonora composta per il Salinas da 108: Inno alla notte. E mentre la natura, gonfia d’ebbrezza, prende la forma di un sogno allucinato, il grande pavimento musivo di Piazza della Vittoria di Palermo (II - III sec. d.C.) diviene giardino metafisico popolato da altre ceramiche di Alessandro Roma in dialogo con la Menade, con le nicchie dorate lungo le pareti e con le pitture floreali che decorano il seicentesco soffitto ligneo. Le sculture di Roma progettate per questo spazio, My Head inside the Landscape e tre versioni dal ciclo My Head inside the Nature (2019), sono teste - come evoca il titolo - simili a elementi vegetali in mutazione, piante carnivore, bulbi, infiorescenze, oggetti ornamentali misteriosamente degenerati o vasi eccentrici dai colori sfavillanti. Reperti di un’archeologia fantastica, emersi dal passato dellla Menade come proiezioni del suo inconscio, reminiscenze astratte di quel tempo mitico trascorso tra i boschi a celebrare il furore della vita.
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E ancora, alla monumentale baccante è ispirato il lavoro di Fabio Sandri dal titolo Menade (2019). Due immagini della statua - una positiva e una negativa - convivono su uno sfondo che nasce dalla combinazione di quattro immagini storiche, corrispondenti alle quattro tappe principali del lungo cammino che l’ha condotta da Roma fino a Palermo (dagli scavi nelle Terme di Carcalla a Palazzo Farnese, dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli al Parco della Favorita di Palermo). I luoghi della Menade e del suo viaggio si sovrappongono come flashback confusi, replicando i meccanismi dei sogni o dei ricordi. Anche qui, al pari delle altre opere create per il Salinas, Sandri mescola procedimento analogico e digitale. La versione negativa (incarnato) del dittico è frutto della videoproiezione su carta fotosensibile delle quattro immagini d’archivio scelte per elaborare l’apparizione onirica. La seconda immagine deriva dalla scansione digitale della prima e dalla sua conversione in positivo.
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Per tutte le immagini: Quando le statue sognano, novembre 2019 - marzo 2020, veduta della mostra - Museo Archeologico Regionale Antonino Salinas, Palermo
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Interludi Frammenti da un museo in transito Inaugurata insieme alla mostra Quando le statue sognano, la rassegna Interludi prevede un programma di eventi pensati per raccontare il passaggio tra il Museo di oggi e quello di domani, tra le collezioni nascoste e la loro veste futura, tra uno spazio-tempo silenzioso e una nuova messa in scena. Mistero, svelamento e anticipazione sono concetti alla base del macro progetto racchiuso nel sottotitolo comune alle due esposizioni: Frammenti da un museo in transito, volto a trasformare l’attesa in nuovo contenuto attraverso un percorso di avvicinamento al Museo, alla sua storia, alle sue collezioni e ai suoi spazi, momentaneamente chiusi ma prossimi all’apertura definitiva. La piccola Project Room - un tempo sala dei sarcofagi, affacciata sul Chiostro Minore - nel corso della rassegna accoglie produzioni artistiche contemporanee in dialogo con temi e spunti che provengono dal mondo antico, in una serie di echi e corrispondenze tra linguaggi contemporanei e reperti del museo in transito, custoditi fra i depositi e appositamente tirati fuori. Per il primo appuntamento lo spazio della Project Room ha accolto un mini solo show della giovane fotografa Roselena Ramistella, dal titolo Ritratto di famiglia: un progetto fotografico ideato e curato da Helga Marsala. Il visitatore è subito accolto dal bel Ritratto di Polydeukion (prima metà II sec. d.C.), non il ritratto ufficiale di un personaggio noto, ma il volto di un giovane comune, il discepolo favorito di Erode Attico, celebrato con una scultura che restituisce la bellezza e la finezza dei suoi lineamenti, qui posta in dialogo con i ritratti fotografici di Roselena Ramistella, autrice vicina al mondo del fotogiornalismo e della fotografia documentaria, con una particolare vocazione per la pratica del ritratto. Ritratto di famiglia è un tributo alla comunità operosa del Museo Salinas. Ancora un’opera di svelamento, dunque, ma in questo caso è la famiglia dei lavoratori del Museo - solitamente nascosta agli occhi dei visitatori - a essere mostrata e omaggiata: custodi, archeologi, bibliotecari, restauratori, addetti alle pulizie, archivisti, funzionari. A lavoro tra uffici, sale da allestire, corrodi silenziosi e reperti da restaurare, sono loro il cuore pulsante del Museo, i protagonisti del transito verso la riapertura. Ritratto di famiglia è un ritratto corale di donne e uomini che dentro l’Istituzione portano avanti un lavoro fisico e intellettuale, tutti colti in pose che rimandano alla compostezza classica della ritrattistica ufficiale. Figure straniate, in dialogo con misteriosi still life, tra opere e reperti dormienti, spesso ancora avvolti nel proprio imballo, pronti a ridestarsi. Come un luogo incantato, il Museo e le sue presenze, immerse in un’atmosfera onirica, creano un continuum con le suggestioni dalla mostra Quando le statue sognano, ospitata al primo piano, introducendola e invitando il pubblico a scoprirne i segreti.
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La Campagna di Comunicazione
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Dall’inglese to tease: stuzzicare, intrigare.
È un progetto di comunicazione al confine tra graphic design e arte pubblica, quello realizzato per Quando le statue sognano da Mimmo Rubino (Rub Kandy), artista noto soprattutto nel campo dell’arte urbana e del post-graffitismo, autore di vari interventi dislocati tra spazi pubblici e periferie metropolitane, tra Roma, New York, Berlino, Parigi. Per l’occasione Rubino veste i panni di Art Director della mostra e realizza per il Salinas un esperimento di comunicazione visiva in cui scatti fotografici, manifesti, immagine coordinata e pubblicazioni editoriali divengono momenti di un’opera d’arte in progress. La campagna segue la logica di un teaser55: tipica strategia di comunicazione non convenzionale, tesa a creare suspense attraverso un messaggio creativo allusivo e intrigante. Le immagini scelte, particolarmente suggestive, puntano sul senso d’attesa, evocando il concetto di svelamento con un’iconografia autorevole e al contempo accattivante. Per trasmettere l’essenza misteriosa e sognante della mostra Rubino realizza un visual d’impatto: il colore del fondo, saturo e luminoso, assomiglia a quel giallo usato per attrarre l’attenzione (i taxi newyorkesi, la segnaletica stradale), ma ha anche un accento popolare (le pagine gialle, le classiche matite) e insieme misterioso (i thriller gialli Mondadori). Una nuance che si sta sempre più affermando, anche nella comunicazione istituzionale, per il tono vivace che la caratterizza: se abbinata a un corretto lettering mantiene autorevolezza e buca il contesto pubblico e del web facendosi guardare. In primo piano, centrato, spicca il Ritratto di Partinico di età antoniniana, una tra le più belle teste d’epoca romana rinvenute in Sicilia, posseduto nella collezione del Museo Salinas: fotografato da Rubino, il volto marmoreo ha gli occhi coperti da eleganti mani di donna, su cui spicca uno smalto rosso acceso: in un contrasto efficace con la luce forte del fondo, il buio in cui lo sguardo sprofonda riporta ancora una volta al tema del sogno, della memoria, dell’immaginazione. La gestualità misteriosa e delicata della mano femminile, in contatto con il raffinato manufatto, viene ripresa anche nella seconda immagine della campagna di comunicazione, in cui la stessa mano sfiora gentilmente la guancia dell’austero Cesare (I sec. a. C.), anticipando i mirabili scatti di Ferdinando Scianna che aprono il percorso espositivo, con Jorge Luis Borges, già cieco, in visita al Salinas insieme la moglie Maria Kodama, intento a sfiorare le statue della collezione per poterle vedere in punta di dita. Alla base del concept della campagna pubblicitaria di Rubino, dunque, c’è un’armonia tra gesti intimi e misteriose connessioni simboliche, tra pelle e pietra, oscurità e luce, sogno e realtà.
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Il font scelto per il lettering è lo Swift, un carattere tradizionale moderno, graziato, creato per essere utilizzato nella stampa e nei quotidiani, data l’eleganza e l’ottima leggibilità. Austero e conciso, seppur originale, classico e contemporaneo a un tempo, è utilizzato qui nella sua versione Bold per i titoli e in versione Regular per i testi. Un linguaggio diverso, caratterizzato da una grafica pop, è invece alla base del visual di Interludi, dove il mirabile giardino tropicale del Chiostro Maggiore diviene elemento grafico per un pattern dai toni brillanti verde-blu.
Mimmo Rubino, Quando le statue sognano, 2019, Immagine dalla campagna di comunicazione della mostra
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INTERVISTE
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PAROLA A MIMMO RUBINO Art Director e autore della campagna di comunicazione della mostra Come hai sviluppato il tuo progetto di comunicazione per la mostra “Quando le statue sognano”? Quali temi hai evidenziato e che ragionamento c’è alla base del concept, delle soluzioni grafiche, dei format scelti? Il titolo della mostra, “Quando le statue sognano”, pone l’accento sull’umanizzazione delle statue, sul loro essere, prima che manufatti preziosi, pietrificazione di figure viventi, reali o immaginarie. Si tratta di un’immagine familiare: una statua che è in grado di sognare, di sentire, di avere una qualche memoria, oltre a quella di forma conservata nella materia; e così un’anima che può diventare pietra e, viceversa, una pietra che può animarsi. Suggestioni che ritornano fra miti, religioni, filosofie più o meno scientifiche, non per ultimo nello studio delle arti, dove l’opportunità che l’arte debba imitare o no la realtà è argomento discusso e, fortunatamente, mai risolto. Se pochi hanno dubbi sull’importanza dell’archeologia e della conservazione dell’antico, molti hanno difficoltà a superare il preconcetto che lega l’antico e l’archeologico allo studio tedioso di un mondo statico. Forse perché il tempo cancella il colore dai palazzi e toglie la carne ai corpi, siamo viziati da una visione del mondo classico come luogo della bianca perfezione, degli scheletri. Ma il passato è il mondo delle passioni viscerali, del tatto, dell’uomo che conquista la cultura, la tecnologia, degli inventori, delle spade, del sangue, dell’erotismo e delle feste. In passato siamo stati felici, abbiamo mangiato, ballato, cantato, scopato. Abbiamo letto, ci siamo drogati, siamo andati a teatro, abbiamo pregato, pianto. Tutto sommato eravamo noi, è il nostro passato. Lo studio dell’antico si basa su un’analisi rigorosa, faticosa, ma tale fatica è la porta che ci permette di accedere a un mondo tutt’altro che noioso. Non è un caso che, quando un divulgatore televisivo riesce a tenere assieme rigore scientifico e storytelling (che dio mi fulmini!), magari aiutato da effetti speciali più o meno di gusto, l’antico torna in vita. Ecco, venendo alla tua domanda, l’immagine visiva di “Quando le statue sognano”, in accordo col brief ricevuto, tiene assieme tutti questi elementi: le statue, il tentativo di animarle (non è forse il sogno di ogni scultore classico?), il desiderio di insospettire il pubblico sulla possibilità di una storia, e poi di raccontare la materialità fisica tramite il tatto, la sensualità. E ancora, raccontare la cura severa e materna che un’istituzione autorevole e amorevole come il Museo Salinas ha per la propria collezione. Certo, una cosa sono le parole, altra cosa sono le immagini; dunque, stabiliti certi punti, bisognava dare degli appigli allo spettatore, permettergli di visualizzarli. Come sempre faccio (e come fanno molti colleghi) mi sono dato dei vincoli: volevamo che una campagna di affissioni e web fosse un’occasione per portare virtualmente uno o più pezzi del museo all’esterno; volevamo che le “statue” (a cui faceva riferimento il titolo della mostra) fossero visibili, ma volevamo aggiungere la cura, la sensualità, l’inconscio, la vitalità, l’idea che il classico non è algido ma ha i colori delle terre, del sole, del sangue (che poi sono quelli della Regione Siciliana). Volevamo raccontare un mondo antico, classico, dalla connotazione mediterranea, latina, lussureggiante, popolare, non come un fregio in un museo, ma come il teatro di Siracusa, come un vigneto. In ultimo, e non per importanza, l’esigenza di proporre un’esposizione di artisti contemporanei in dialogo con gli spazi e i reperti antichi del museo. Come avrebbero trattato l’antico gli artisti contemporanei? Ne sarebbero rimasti schiacciati? L’avrebbero invece remixato e reinterpretato con un sano cambio di punto di vista? L’avrebbero toccato? Avrebbero potuto farlo? Come puoi immaginare è difficile trasferire tutto in un contenuto; inoltre, se dicessi che ho seguito un percorso così lineare come questo che scrivo ora a posteriori, mentirei. Ho optato per una creatività a maggioranza fotografica. Nell’immagine, sfacciatamente simmetrica e centrale, si vede in primo piano il volto di una statua (Ritratto di Partinico), i cui occhi sono coperti dalle mani reali di una donna, esili, vive, con le unghie decorate da un vistoso smalto rosso (il rosso
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del marchio del Museo Salinas? della Regione Siciliana? o semplicemente il colore del sangue, di tutto ciò che è vivo?). Su quel gesto familiare, drammatico e amorevole, forse leggero e malizioso (nascondere, proteggere, giocare), e nel rapporto ambiguo tra incarnato del vivente e statua, c’è il tentativo di sintetizzare il rapporto tra contemporaneo e passato, tra oggetto e uomo, tra vivo e morto, tra realtà e immaginazione (il sogno? il visibile e l’invisibile che tanta fatica ha dato ai filosofi?). Sul titolo, secco, semplice, posizionato al centro dell’immagine - come le copertine dei vecchi libri “gialli” “- su uno sfondo giallo (la luce contrapposta agli occhi chiusi? il sole del mediterraneo? l’oro bizantino?), si basa tutta la composizione. Nel tono, la voglia di tenere assieme aulico, popolare, emotivo, qualcosa di retrò e di nobile, come certi palazzi del centro storico di Palermo. Si è trattato di un progetto al confine tra comunicazione, graphic design e arte pubblica. È la prima volta che lavori in questo modo? Come hai intersecato, o come intersechi di solito questi ambiti? No, non è la prima volta, ma vorrei che fosse l’ultima :-), nel senso che mi succede sempre e può essere faticoso, al punto da portarmi a crisi di identità oltre che ad errori. Ho un profilo creativo trasversale, tra storia dell’arte, arte contemporanea e comunicazione. Quando sono in forma è un vantaggio, altre volte escono fuori le personalità sbagliate al momento sbagliato. Qui per fortuna ero nel posto giusto al momento giusto e ho potuto interfacciarmi con Helga Marsala (Curatrice del Progetto) e con Caterina Greco (Direttrice del Museo Salinas), due figure competenti e sensibili con le quali è stato piacevole e produttivo creare. Tornando alla tua domanda, beh, a volte non va così bene, le strutture aziendali, se pure a volte garantiscono efficienza e velocità che noi topi da museo un po’ invidiamo, sono molto settorializzate, esigenti, frettolose, e costringono a processi di lavoro più rodati e lineari. È la solita questione “arte pura” vs “arti applicate”: difficile venirne a capo. Simili ma molto diverse. Può succedere di fare confusione, è un rischio e non sempre mi basta la RAM per passare da una parte all’altra :-). Nel caso dell’arte antica, e dell’archeologia in particolare, come possono l’arte contemporanea e le nuove forme di comunicazione spingere verso uno svecchiamento generale delle istituzioni museali, per avvicinare il pubblico e attualizzare temi, narrazioni classiche, iconografie? Dove sono le difficoltà e quali le strategie utili? Domanda da un milione di dollari. Davvero ogni risposta potrebbe essere giusta. Una potrebbe essere che in realtà, forse per via della sua frammentarietà e dell’apparente incompiutezza con cui l’arte antica è giunta fino a noi, dispersa nei musei, l’antico ha tante apparenti similitudini formali col contemporaneo, per cui, volendo rimanere su un piano di leggerezza e di “arredamento”, le possibilità di convivenza sono tante e belle. Un’altra possibile risposta, ugualmente valida, potrebbe essere contenuta nella domanda: “cosa intendiamo per svecchiare”? E dunque, siamo sicuri che sia un dovere rendere giovane qualcosa di antico? Dobbiamo per forza arrivare a tutti, accettando di togliere all’antico quell’aura di mistero e di erudizione così squisitamente snob? (e fortunatamente all’archeologia l’aura non gliela si ruba)… La terza risposta, quella più democristiana, potrebbe essere: sì, ben venga ogni forma di contemporaneo, di reinterpretazione, via libera al coraggio. Ma facciamo attenzione a non ricorrere a mediocri spettacolarizzazioni che tanto vanno di moda, perché è bello essere popolari, rendere fruibile, associare uno storytelling fantasioso al rigore. Ma non si abbia la pretesa di rendere elementare ciò che è complesso, perché non va bene neanche per i bambini delle scuole elementari: se il museo antico prende Disneyland come botteghino di riferimento, perdiamo il museo e comunque il parco giochi vincerà sempre sul museo stesso. Dunque i musei si arricchiscano di figure provenienti dal marketing, di marchingegni tecnologici, si interfaccino con mille aziende e con mille creativi per far sì che il museo sia un luogo aperto fisicamente e simbolicamente, ma continuino a guardare sempre con un po’ di sospetto certi contesti aziendali, perché il museo non sia vittima del ricatto di chi vorrebbe farne un centro commerciale. E non lo dico per partito preso politico, ma proprio per stile.
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PAROLA AGLI ARTISTI Alessandro Roma, Guido Bisagni (108), Fabio Sandri Trovare un buon equilibrio e la giusta forza, nel dialogo tra arte contemporanea e opere antiche, è sempre un fatto complesso. Una sfida non da poco. È stata per te un’esperienza suggestiva? Quali difficoltà hai incontrato? Ritieni sia, per un artista contemporaneo, un percorso utile, stimolante? Alessandro Roma Le difficoltà sono iniziate subito. Posizionarsi di fianco alla storia, a forme e simboli che sono resistiti a innumerevoli cambiamenti nel corso degli anni o dei secoli, è complesso e forse fallimentare già in partenza. Una certa inconsapevolezza, una forte fascinazione e forse un pizzico di arroganza hanno aiutato a prendere parte al progetto. Ritengo che per chiunque sia stimolante passeggiare in musei come il Salinas, anche se non so se sia sempre necessario per un artista oggi dover trovare stimoli in luoghi come questi. Guido Bisagni Trovo non sia una cosa molto complessa, ma bisogna avere una chiara idea di ciò che ciascuno vede in un’opera antica, di ciò che realmente lo colpisce. E ovviamente bisogna trovare un collegamento personale. Per me l’arte è un fatto soggettivo e quindi la parte difficile è rintracciare quel collegamento, che dev’essere il più possibile naturale. Io ci metto giorni, magari mesi, per togliermi tutte quelle sovrastrutture, quei pensieri aggiuntivi che la razionalità mi porta ad avere. Purtroppo in molti casi il committente richiede spiegazioni, una riduzione del processo creativo sul piano razionale; e allora diciamo che la parte difficile sta proprio nel dovermi barcamenare tra ciò che per me è il miglior lavoro possibile e tutti quei livelli superflui attraverso cui bisogna passare. In una situazione come quella della mostra al Salinas, ad esempio, nel caso specifico del lavoro sull’Ariete bronzeo, non è stato facile distogliere l’attenzione dall’aspetto prettamente artigianale del manufatto (che è effettivamente straordinario), subito evidente nel lavoro di chi ha realizzato la scultura più di 2000 anni fa, ma anche in quello dell’incisore, Jean-Pierre Houel, che lo ha raffigurato nel suo prezioso libro. Ho voluto però concentrarmi su un livello più intimo, profondo, che per me rappresenta l’anima dell’opera e del suo autore, ma anche l’essenza del discorso magico-mitologico, ancora così presente in noi. Per un artista come me, che lavora da sempre con la mitologia, con la magia, con l’arte antica e preistorica, confrontarmi con opere di questo genere, in un museo incredibile come il Salinas, non è solo stimolante, ma assolutamente eccezionale. Fabio Sandri La difficoltà è stata proprio nel confronto tra forze diverse: la forza dell’arte antica, in questo caso la statuaria greco-romana, e quella del linguaggio contemporaneo. Si tratta certamente di un confronto perso in partenza: hai a che fare con opere di una bellezza straordinaria, sempre enigmatica, con il loro spessore storico, ma anche con una vitalità sempre palpabile. Si è aggiunto poi l’intervento delle fotografie di Scianna su Borges, altro confronto da brividi. Lavorare in un museo archeologico è stata certo un’occasione stimolante, soprattutto per via di tutte quelle riflessioni intorno all’origine e alla genesi dell’immagine, alla sua sussistenza come corpo, al di là delle iconografie, e a quello scarto enigmatico che scaturisce sempre dalla presenza fisica della statuaria antica. Trovarsi in mezzo a materiali con dinamiche e direzioni temporali molto distanti, avere a che fare con un tempo antichissimo e insieme con il tempo presente, e infine ragionare sull’evolversi dell’immagine stessa e sul suo destino: tutto ciò implica una serie di questioni connesse in modo inscindibile all’identità del materiale fotografico, di cui mi servo fondamentalmente.
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Che tipo di relazione hai stabilito con gli spazi del Museo e in particolare con la nuova ala che ha accolto le opere? Alessandro Roma Come sempre avviene, ho prima di tutto preso familiarità con il luogo, con le persone che lavorano e abitano tutti i giorni gli spazi museali. In un secondo tempo ho iniziato a posizionare i lavori, provando a osare senza farmi schiacciare dalla grande importanza di ogni angolo delle stanze. Guido Bisagni Per quanto riguarda gli spazi del museo - parlo delle sale che abbiamo usato per l’esposizione temporanea - ho avvertito subito l’eco della parte più antica dell’edificio, molto presente nonostante i consistenti interventi di restauro. Per questo, ad esempio, ho deciso di dare al mio libro - composto da 60 carte realizzate a mano - uno stile antico-modernista, tra linee semplici e geometriche, ma evidentemente artigianale, con piccole imperfezioni e con una cover in legno che pare quasi un elemento del passato, già sottoposto a restauro. Potrebbe sembrare un fatto puramente estetico, ma è come uno schermo attraverso cui osservare il volume. Realizzare quella copertina è stato per me importantissimo: ho seguito i processi tipici dei miei lavori su carta. Amo le imperfezioni e i segni del tempo, come ti dicevo. Una volta imboccata la strada per affrontare il lavoro, è stato poi molto naturale trovare la giusta formalizzazione. Amo tantissimo i musei archeologici, in particolare quelli piccoli e antichi, in cui generalmente sono conservati reperti preistorici locali, minuti, magari in apparenza meno rilevanti per il grande pubblico. Amo quei musei perché conservano la nostra storia più profonda e nascosta, migliaia di frammenti impolverati, ed è come andare a scavare il nostro inconscio, la nostra parte più sommersa. Fabio Sandri La nuova ala del museo l’ho conosciuta prima indirettamente, tramite la documentazione inviatami da Helga Marsala e attraverso le sue parole, che mi esponevano l’idea germinale della mostra: “Le statue dormienti, abbandonate tra casse, scatole, fogli di veline e di cellofan, corridoi silenziosi e grandi stanze nude, mi hanno suggerito l’idea: trasformare in spunto tematico e in set questi luoghi e i vari reperti lì custoditi, raccontando il museo che non si vede, sospeso in un tempo immobile, ma allo stesso tempo in transito, a lavoro per riorganizzarsi.” * Devo dire che all’inizio, durante la preparazione in studio del mio lavoro, immaginavo un altro tipo di situazione espositiva, più semplicemente “museale”, con aree ancora vuote e una nuova ala del museo incompleta. Invece, l’allestimento della curatrice ha assunto il carattere di un ambiente connotato, compiuto, concepito come un’abitazione: il fruitore era portato ad abitare il luogo, quasi trovandosi dentro una casa, coinvolto in uno spazio organico le cui molte e diverse opere rivelavano uno stretto legame reciproco, dando vita a un corpo unico, una scena articolata attraverso quattro stanze. Molto di più che passare in rassegna, tradizionalmente, una serie di reperti e di opere d’arte. Una scelta difficile e rischiosa, credo. Avrebbe potuto prevalere la scenografia sulla specificità dei vari reperti museali, sulla chiarezza della lettura o sull’efficacia degli interventi contemporanei. Posso dire, però, che la sfida è stata certamente vinta: ne è venuta fuori una mostra dinamica, originale, stimolante. Raccontami il progetto che hai sviluppato per la mostra: il linguaggio che hai scelto, i temi su cui ti sei soffermato, gli spunti che hai trovato tra i reperti delle collezioni. Alessandro Roma Posso dirti che tutto si è evoluto e modificato sul luogo. Racconti, aneddoti, spunti trovati tra la collezione o in biblioteca sono stati di aiuto per la costruzione dell’installazione. Una modalità che caratterizza il mio modo di lavorare: accogliere la storia dello spazio in cui mostro il lavoro. Guido Bisagni Forse in parte ho già risposto in precedenza, almeno per quanto riguarda la parte visiva, ossia il libro e le due carte. La mia ricerca si è sviluppata negli anni e continua a svilupparsi di volta in volta, secondo
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un percorso più o meno lineare: dallo studio sulle forme all’uso colore nero, passando per le texture organiche. Mi sono soffermato sul concetto di doppio, di ripetizione, e su come una parte influenzi sempre l’altra complementare. Per il libro ho usato una tecnica a cui spesso ricorro: dei fogli piegati con diversi sistemi lineari, che poi uso per dare una texture alle forme quando la vernice non è ancora secca. In questo modo ogni forma è singola e differente dalle altre, ma conserva la memoria delle matrici iniziali. Per quanto riguarda la parte sonora, è stata importante quanto quella visiva e forse anche più impegnativa. Fin dalla prima visita al museo mi sono soffermato su statue, mosaici e altri reperti legati al culto di Dioniso e di Orfeo, due temi importantissimi per me, non solo dal punto di vista artistico. Ho voluto così concentrarmi su questo aspetto: la presenza delle baccanti, il rapporto magico con la natura e i suoi spiriti, la metempsicosi. Una vera e propria folgorazione è stato l’incontro - tra le sale del Museo ancora non fruibili - con il grande mosaico di Orfeo. Mi sono trovato di fronte a qualcosa di sacro. Un fatto importante, dal momento che realizzare le mie opere è diventata, via via, una forma di rituale. I sottofondi musicali concepiti per la mostra e diffusi nello spazio espositivo si basano su registrazioni fatte in giro per il mondo, principalmente di ambienti naturali notturni, raccolte nel corso degli ultimi anni: mi sono sembrate perfette per questa occasione. Su di esse ho creato dei suoni ripetitivi, simili a quelli che uso di solito per generare uno stato “meditativo”. In una delle quattro tracce ho letto personalmente un inno alla notte, tratto dai tradizionali inni orfici, e l’ho poi processato con degli effetti per renderlo meno comprensibile. Volevo che tutto avesse un’atmosfera notturna e magica. Per quanto riguarda i video, li abbiamo scelti con Helga: si tratta di lavori più vecchi, quindi non realizzati per l’occasione, ma perfettamente in tema con atmosfere e suggestioni alla base del progetto. Fabio Sandri Con la curatrice, Helga Marsala, ci siamo scambiati delle idee, ci siamo riconosciuti subito in un’intenzione comune. Così mi scriveva via e-mail, nei primi giorni di dialogo: “… restituire in termini di levità, di indefinitezza e di trasparenza la fisicità di alcune statue, che non saranno visibili, ma che potranno essere evocate in forma di traccia luminosa. La domanda è: come lavorare sul tempo immobile e sulla materia imperitura delle statue e dei reperti archeologici (che i processi di musealizzazione tendono a eternizzare e a strappare al tempo, come fa la fotografia)? È davvero immobile il tempo delle statue? E se la fotografia, in particolare quella che abbandona l’ausilio della macchina, riducendosi a esercizio di scrittura luminosa pura, potesse al contrario riportarle in vita, sottraendole alla presenza volumetrica definita, persino all’identità storica, per tramutarle in figure in transito, quasi astratte? Che tipo di temporalità vivono le statue? E la loro rappresentazione?”. * Il lavoro si è incentrato sul senso di stratificazione e di precarietà, volevo che fossero elementi concreti percepiti fisicamente dallo sguardo, sfidandone la stabilità. Si trattava di lavorare tra sparizione e ritrovamento dell’immagine, di ricondurre l’attenzione alla vita delle immagini e delle stesse sculture antiche, la loro vita contingente. Far sentire dunque la questione del tempo dell’immagine, rendere percepibile una sua dinamica concreta e psicologica, ricondurre l’attenzione alla nostra presenza, al nostro sguardo, a una sorta di frustrazione e instabilità della forma, tra la sua sparizione e il suo ritrovamento, tra contingenza e memoria, contatto e lontananza. Tutte dimensioni insite nella materia fotografica, qui incarnatasi nella scultura antica. Sono partito da immagini d’archivio fornitemi dal museo: ho realizzato una serie di impronte di queste fotografie (e poi di un filmato), tramite videoproiezione su carta fotosensibile. I soggetti erano statue antiche della collezione del Salinas (tre teste e la figura intera del “Satiro versante”), custodite tra i depositi e non ancora visibili al pubblico. Le impronte, che io chiamo Incarnati, nascono dall’incrocio-somma di una videoproiezione (digitale) su carta fotosensibile analogica, un procedimento da cui si ottengono particolari immagini, la cui struttura materica somma la trama dei pixel digitali all’impressione dell’emulsione fotosensibile analogica. Per questa mostra abbiamo scelto di non fissare le immagini, così che accumulassero continuamente l’impressione della luce del luogo in cui erano esposte. Mutavano dunque lentamente e senza sosta, scurendosi e tendendo a scomparire, saturando i contrasti e virando verso un monocromo color ossido-ocra-bruno-incarnato. Immagini dunque non fissate e lasciate al loro destino.
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Per la serie delle Teste (Pan, Ritratto di Partinico, Cesare), sono state prodotte diverse impronte per ognuno dei tre soggetti, accumulate a parete l’una sull’altra in tre collocazioni distinte, ma allineate in una serie. Le immagini in superficie, col passare dei giorni, si saturavano di luce-tempo, diventando monocrome: il processo avveniva con tempi variabili - da un minimo di due giorni a circa una settimana - a seconda della temperatura e della quantità di luce presente sul luogo. Una volta raggiunta la sparizione del soggetto venivano rimosse e stratificate in un’ulteriore opera in forma di accumulazione a parete. L’impronta fotografica la vedevamo evolversi durante le giornate di impressione e contemporaneamente vedevamo la variazione dell’accumulo dei giorni trascorsi. Così, l’esperienza contingente della visione era direttamente collegata allo spessore (potenzialmente infinito) dell’accumulo stesso. Il formato delle immagini-impronta delle teste era di cm 200 di altezza e 127 di larghezza. Volevo che la loro misura non si rapportasse tanto alle dimensioni reali delle statue raffigurate, ma che generasse un coinvolgimento ambientale nello spettatore. L’idea era che l’immagine fotografica si comportasse come un corpo vivo e materico, suscettibile al trascorrere del tempo e a un’idea di stratificazione sensibile, fisica e psicologica: un processo in divenire, tra memoria e proiezione, una dinamica insita in maniera evidente nel processo fotosensibile, ma che riguarda anche i tempi più lunghi e apparentemente immutabili della scultura antica. In un altro lavoro, “Trasporto (Polideuce)”, ho chiesto alla curatrice di compiere un’azione performativa, ossia la produzione di un filmato in cui lei stessa teneva tra le braccia la testa di una statua antica per almeno 15 minuti: una posa statica, un’inquadratura frontale, cercando di rimanere immobile. Immobilità impossibile per un corpo vivo, impossibilità che veniva trasferita di conseguenza anche alla statua. Ne derivava come l’immagine centripeta di un tempo lungo. Ho quindi proiettato il video su un foglio di carta fotografica vergine per i 15 minuti esatti della sua durata. L’insistere della proiezione sull’emulsione fotosensibile ha prodotto un’impronta che è l’accumulo di tutti i fotogrammi del film in un’unica immagine. Un’immagine/impronta, un negativo che si genera da solo sotto e durante la proiezione. Da questo ho infine ottenuto una stampa fotografica positiva, un’immagine risultante.
* Dalla corrispondenza mail tra artista e curatrice, settembre 2019
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Conclusione
Molti sono gli interventi su cui ancora varrebbe la pena soffermarsi, per offrire un quadro completo dell’incessante ritorno all’antico nello scenario artistico contemporaneo e dell’interesse che l’archeologia, i suoi metodi e i suoi contesti hanno suscitato negli artisti degli ultimi decenni. Per descrivere tale rapporto si sono spesso usate parole come eredità, memoria, seduzione, riappropriazione, scambio, rimando, relazione, nell’intento di porre l’attenzione non solo sulla prolifera utilità della compenetrazione tra linguaggi - anche cronologicamente distanti -, ma soprattutto sulla tipologia di suggestioni che i luoghi dell’antico offrono all’arte del presente e sui multiformi modi di reinterpretare e rielaborare tali spunti, in un dialogo particolarmente stimolante, soprattutto quando espresso attraverso produzioni site-specific, in grado di trasformare con forza il patrimonio con cui si relazionano, con esiti sorprendenti e nuovi. Tale operazione ha un doppio valore: se da un lato favorisce la promozione e la diffusione dell’arte contemporanea in contesti d’eccezione quali quelli archeologici, dall’altro permette che siano questi stessi contesti a riceverne vantaggio, facendone luoghi vivi e aperti al dialogo con il presente. Alla base c’è un’idea di un antico che non resti circoscritto a un tempo lontano e immobile, ma che continui a mutare, a esistere, a raccontare, a dischiudere significati molteplici, essendo occasione dialettica, modello vitale, campo mobile da cui attingere e sul quale proiettare i grandi temi con cui il presente fa i conti. E non può essere osservato, l’antico, se non con occhi contemporanei, di volta in volta pronti a coglierne forme, simboli, livelli, trasformandoli, sperimentandovi intorno, traducendoli nel linguaggio di un tempo attuale. Alla base di queste riflessioni vi è di certo l’idea che la storia vada vissuta come un flusso continuo di eventi che si compenetrano, si mescolano, in un presente multiforme nutrito di migrazioni, integrazioni, scambi e confronti. The time is out of joint, per citare i versi dell’Amleto di Shakespeare, presi in prestito dal titolo della grande mostra inaugurata nel 2016 presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma; mostra in cui, con la neo Direzione di Cristiana Collu, veniva sancito il definitivo abbandono di qualsiasi linearità storica, a favore di una visione tesa a dispiegare le opere - interconnesse lungo sentieri complessi - su un piano sincronico, come sedimenti della lunga e complessa vita del museo. C’è una catena sostanzialmente ininterrotta di fenomeni artistici che si svolge lungo la storia, a dimostrarne la continuità, come ricorda la nota installazione luminosa di Maurizio Nannucci All art has been contemporary (Tutta l’arte è stata contemporanea), ridimensionando l’importanza della distanza tra un momento storico e l’altro e avvicinando teoricamente
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fra loro le esperienze del passato a quelle presenti. Un invito a prendere in considerazione le opere d’arte - di tutti i periodi - nella loro affascinante complessità e nel loro intrinseco legame col proprio presente; figlie, in ogni epoca, di una ricerca inevitabilmente contemporanea. 56.
U. Eco, Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee, Bompiani, Milano, 1986.
55.
Il concetto confuso di classico e di moderno, Corso universitario tenuto da Philippe Daverio, al politecnico di Milano 2012/2013 sul canale youtube Officina Daverio https://youtu.be/CRytpdOwWtM
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Le opere d’arte - aperte per definizione, come ha brillantemente insegnato Umberto Eco 56 - sono immobili solo in apparenza. Il loro aspetto muta continuamente, a ogni sguardo e a ogni lettura, così come muta la nostra relazione con loro. È così che i reperti antichi vengono continuamente spostati, riallestiti, ridimensionati, celebrati, connessi a opere diverse per generare, a nuove suggestioni, a nuovi messaggi, sviscerando e intercettando gli echi, i miti, le storie del passato. Narrazioni non solo da custodire, ma da guardare e interpretare con gli occhi del presente, così che a questo stesso presente possano appartenere, come erano appartenute al loro spazio-tempo d’origine e a tutte le epoche a venire, ciascuna secondo la propria cultura. Questo dialogo con il nostro background rende la vicenda dell’arte incredibilmente interessante. La nostra dimensione creativa, estetica, intellettuale, è il frutto della sedimentazione di infinite storie accumulate. La conclusione può essere affidata a una metafora, presa in prestito dal noto storico dell’arte Philippe Daverio: proprio come sulla cresta di un’onda, è l’energia propulsiva che sta alle nostre spalle (il passato) a spingerci avanti e a dar forma al nostro futuro.57
Quando le statue sognano, backstage, settembre 2019 - Museo Archeologico Regionale Antonino Salinas, Palermo
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Sitografia
www.archeostorie.it/luce-sul-museo-salinas/ www.artribune.com/arti-visive/2020/02/mostra-statue-museo-salinas-palermo/ www.artribune.com/mostre-evento-arte/jan-fabre-ecstasy-oracles/ www.artribune.com/mostre-evento-arte/la-presenza-nascosta/ www.camera.to/mostre/enjoyeternity/ www.canosaweb.it/notizie/l-arte-contemporanea-dialoga-con-l-archeologia/ www.editricesapienza.it/node/7790 www.edoardotresoldi.com/works/basilica-di-siponto/ www.exibart.com/altrecitta/intersezioni www.exibart.com/evento-arte/convivenze-un-percorso-tra-archeologia-e-arte-contemporanea/ www.landartcampiflegrei.com www.mercatiditraiano.it/it/didattica/amici-il-contemporaneo-nell-antico-le-mostre-nei-mercati-di-traiano-0 www.museoarcheologiconapoli.it www.museoarcheologiconapoli.it/it/category/mostre/contemporaneo/ www.museoarcheologiconapoli.it/it/tag/il-contemporaneo-per-larcheologia/ www.museoegizio.it www.museoegizio.it/esplora/mostre/anche-le-statue-muoiono/ www.persee.fr/doc/mefr_1123-9891_2001_ num_113_2_9828
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www.regione.sicilia.it/salinas www.riviste.unimc.it/index.php/cap-cult/article/view/1225 www.ostiaantica.beniculturali.it/it/mostre/arteinmemoria www.torinoggi.it/2018/01/31/leggi-notizia/argomenti/cultura-4/articolo/enjoyeternity-museo-egizio-e-camera-uniti-da-uno-smartphone.html www.wikipedia.org/wiki/Museo_archeologico_regionale_Antonino_Salinas www.youtu.be/dhz0eAEppXg www.youtu.be/CRytpdOwWtM www.youtu.be/Cts9aZbjHzw www.youtu.be/mLRCgHOp1Qo www.youtu.be/PxOtmFqXX28 www.youtu.be/7QNslHKrMXY www.youtu.be/h7Vx0aQN9rs
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Appendice
QLLS - Il Magazine (by Mimmo Rubino)
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quando le statue sognano
frammenti da un museo in transito
Quando le statue sognano Museo Archeologico Antonino Salinas novembre 2019 / marzo 2020
108/Guido Bisagni Alessandro Roma Fabio Sandri con la partecipazione di
Ferdinando Scianna a cura di Caterina Greco e Helga Marsala Progetto espositivo in due capitoli, “Quando le statue sognano” è la rappresentazione di un teatro segreto: i corridoi silenziosi, le sale vuote e i depositi affollati del Museo Salinas diventano set o serbatoi di spunti per produzioni contemporanee, mentre alcuni spazi in attesa di essere inaugurati vengono momentaneamente dischiusi. Al centro della prima mostra c’è l’apertura di ambienti fino a oggi non accessibili, destinati - secondo l’allestimento in via di completamento - ad accogliere opere e manufatti di diverse donazioni, prevalentemente d’epoca borbonica. Un’anticipazione significativa, che restituisce al pubblico una nuova area espositiva, un tempo adibita a uffici. Gli spazi non presentano qui, dunque, il loro assetto definitivo. Una forma provvisoria, piuttosto, in cui prende vita un breve racconto visionario, intessuto tra immagini fotografiche, sound art, pittura, scultura. Non mancano due importanti anteprime del futuro allestimento. Nel prolungamento della Sala delle Colonne trova la sua ultima collocazione il maestoso Ariete bronzeo, donazione regia di Vittorio Emanuele II, mentre viene sistemata nella stanza del Mosaico (o ex Direzione) la straordinaria Menade Farnese, andata in prestito per un’esposizione ai Mercati di Traiano di Roma durante i lavori di restauro dell’edificio, quindi esposta nuovamente per una recente mostra al “Salinas”. La statua viene oggi valorizzata da una collocazione dal forte impatto visivo, elaborata in quest’occasione. Felice debutto, invece, per le teste votive di Cales, da un’affascinante serie di ex voto in terracotta (IV-II secolo a.C): acquisite a metà Ottocento dal Museo della Regia Università di Palermo, non erano mai state esposte tra le sale del Museo Salinas. La sintetica selezione archeologica - effettuata dai curatori in sintonia con gli artisti, tra le collezioni non ancora allestite - si concentra sull’antica Roma e sull’eredità della cultura greca, in un susseguirsi di corsi e ricorsi, temi, opere, mutamenti e assonanze, che riflettono il complesso e articolato processo di formazione del moderno Museo.
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Ci ha subito coinvolti la suggestione affascinante di Helga Marsala di leggere la condizione di temporanea sospensione del tempo vitale del Museo Salinas come l’attesa di un da un lungo e immobile letargo, durante il quale le opere - allineate nelle stanze e nei lunghi corridoi dei piani superiori, tuttora negati ai visitatori - si attardano a sognare la loro vita passata e a immaginare quella futura. Suggestione potente e prepotentemente evocativa: del senso profondo della memoria storica come generatrice di significati sempre nuovi; e della funzione ultima del “museo”, che è luogo di incontro di storie che si presente. L’intreccio dei temi suggeriti dai reperti archeologici che abbiamo selezionato, in un dialogo costante fatto di scoperte e di scarti, ci è venuto incontro con tutta la naturalezza e l’urgenza di una voce che risuona in uno spazio buio, chiedendo attenzione e luce. E abbiamo offerto agli artisti, che si sono cimentati in questa esplorazione carica di possibilità e di rischi, la libertà di sperimentare il proprio punto di vista. Di più: di trovare una risposta a domande ancora non formulate. Ne è scaturito uno sguardo limpido e originale, che squarcia il velo dell’apparenza e della consuetudine. inventando un’ e polimaterica, dove la luce e l’ombra si alternano per costruire o annullare forme, in un gioco di rimandi e dissolvenze. Accanto alla scelta delle opere, anche quella degli spazi segue lo stesso percorso concettuale. Aprire per la prima volta al grande pubblico un’ala del Salinas, ritornata alla sua originaria destinazione espositiva dopo decenni di oblio, grazie alle importanti riscoperte rese possibili dall’accurata opera di restauro, vuole essere, di nuovo, il disvelamento di una memoria sopita ma mai del tutto smarrita. E così come attraverso la grande lunetta della sala del mosaico di Palermo l’imponente Menade Farnese può instaurare un dialogo muto con le metope di Selinunte, che dominano il grande salone del piano terra del museo, così la ritrovata circolarità degli spazi restituisce alla fruizione un’anticipazione del futuro allestimento, il barlume di un respiro più profondo, l’eco di un dormiveglia operoso. Ancora in attesa. Caterina Greco
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Mettere in scena sogni, racconti, occasioni per vedere al di là: all’indietro, ripercorrendo la trama complessa della storia, e in avanti, nel solco della sperimentazione. Una mostra come un compendio di reperti, documenti, forme visionarie e molteplici, incastrati tra loro secondo logiche non conformi. Tutto ciò che su questo palcoscenico appare ha a che fare con un’idea di narrazione interiore, tra cortocircuiti temporali, contaminazioni e accostamenti, immaginati lungo una linea sensibile, concettuale ed estetica, non didascalica né cronologica. Dal passato al presente tornano temi e archetipi inesauribili, oltre il discorso meramente storiografico e verso territori profondi, nel cuore dell’immagine e della sua ontologia. Tre grandi topoi – l’Uomo, la Natura, il Sacro – scandiscono il percorso archelogico, restituiti nelle forme diverse e complementari del ritratto ufficiale, privato o con funzione di ex voto, e poi nella pratica nobile della decorazione, in certi oggetti d’uso quotidiano o nella statuaria d’ispirazione mitologica. Da qui, come in uno specchio imperfetto, le opere contemporanee acquistano nuovo senso, nella sfida di una relazione – quella con l’arte antica – non facile, né confortevole. Opere che oscillano tra il ricordo e la sparizione, il farsi e il disfarsi della materia, la persistenza della forma e il suo venire meno, la compiutezza della natura e la sua traduzione in suoni, segni, ombre, miraggi, residui in mutazione. Ed è forse una fantasmagoria ad animare le sale di un luogo ripensato come un’aristocratica dimora, eccentrica, eclettica, occupata da oggetti e figure senza tempo. Arazzi, ceramiche astratte, volti, trame evanescenti, fotografie, corpi in dissolvenza: niente esiste davvero, se non nell’immaginazione degli stessi simulacri, vecchi un paio di millenni. Sono loro, le statue, a sognare, a sognarsi, a sognarci. Dormienti e mute, fra luoghi sigillati, sembrano abitare un tempo del desiderio e della pazienza, laddove il tempo dell’icona continuamente si riafferma, si smentisce, si rigenera, si mette in discussione, si lascia interpretare. Occorre dunque abituarsi all’ascolto, sulle tracce di significati possibili: condivisi, collettivi, culturali, per certi versi umani, universalmente. Un esercizio della sensibilità, interrogando un esercito di immagini che sono incarnazioni celesti o terrestri, perenni, immutate, austere. E insieme sospese e fragili, scolpite nell’enigma. Così, perdute in un audace multiverso, mentre il Museo continua a evolversi nei secoli, le opache creature di marmo, bronzo, terracotta, non fanno che coltivare desideri, malinconie, allucinazioni, e in silenzio restituiscono indizi di vite trascorse, di stanze abitate, di riti officiati, di storie sedimentate e sguardi incrociati. Un viaggio che prosegue, tra sussurri di pagine antiche e nuove, lungo un tempo circolare: “quando le statue sognano” il museo si desta. E la realtà ritorna, sovverte, risuona. Helga Marsala
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Nuovi spazi e opere dai depositi del Museo Salinas. Artisti in dialogo Opere e artisti contemporanei: testi critici di Helga Marsala Opere e reperti archeologici: schede di Alessandra Ruvituso
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“Ricordo che Borges era molto contento di andare in Sicilia. Per lui era una sorta di viaggio iniziatico alla scoperta di Palermo, la città da cui si origina il nome del suo barrio natale, e dell’ Isola di Omero e dei filosofi greci a lui tanto familiari, fin da bambino”. Così Maria Kodama, vedova di Jorge Luis Borges, raccontava del loro tour palermitano tra opere d’arte, piazze e palazzi storici, musei, giardini: era il marzo del 1984 quando lo scrittore argentino raggiungeva il capoluogo siciliano per ricevere il premio “Rosa d’oro”, istituito dalla casa editrice Novecento. A immortalare l’essenza del viaggio c’era Ferdinando Scianna (Bagheria, 1943; vive a Milano), tra i maggiori fotografi italiani affermatisi sulla scena internazionale nella seconda metà del secolo scorso. E con tutta la delicatezza, l’intensità e l’arguzia del suo sguardo, Scianna rubò e inventò frammenti di quell’avventura, facendone un pezzo autorevole di letteratura. Tra i luoghi visitati c’era anche il Salinas, che allora possedeva ancora la denominazione di Museo Nazionale. Borges passeggiava tra le sale e i chiostri con la moglie, mentre Scianna metteva insieme una dozzina di ispiratissimi scatti in bianco e nero. 6
scopre veggente, visionario. L’occhio segreto dell’uomo genera immagini interiori, radicali e nuove; e così il sonno, descritto da Borges come la “modesta eternità che possediamo ogni notte”, è metafora del buio fertile in cui i sogni germinano e le cose ritornano, trasfigurate all’infinito. Di ogni sogno essendo noi sostanza molteplice, dal ritratto di Cesare. Vederli, altrove e in altro momento che, come scriveva il maestro nel suo prologo a Il libro dei sogni, “l’anima umamodo, con l’ausilio delle mani. na, quando si sbarazza del corpo e sogna, Il noto ciclo fotografico rappresenta un è al tempo stesso teatro, attori e pubblico. balzo nel passato del Museo “in transito”, che nel tempo continua a cambiare forma, Potremmo aggiungere che è anche autore della favola che sta vedendo”. spazi, allestimenti. E suggerisce un’intrigante interpretazione dei concetti di oscuSi toccano, l’uomo e la statua, nella mite rità e di sogno, temi che a Borges furono strategia poetica di una quasi primavera straordinariamente cari: il contatto fisico palermitana. S’incontrano dentro un mue mentale tra uomo e simulacro, la realtà che arretra in favore dell’immaginazione, seo e in mezzo a un cumulo di memorie. L’uno e l’altra arresi all’incantesimo, fra la la conoscenza che passa per l’invisibilità, traccia luminosa del reale e la sua notturtra le palpebre chiuse e le sinapsi accese. Un’ipotesi di verità si affaccia nella foschia, na reinvenzione. incerta e audace come i contorni di un ricordo o di un’allucinazione. Camminava nell’ombra, il poeta; anzi, nel buio. La sua antica cecità progressiva aveva consumato ogni residuo di luce. Sfiorava opere e reperti, contemplandoli a fior di pelle: il raffinato gruppo scultoreo di Eracle e la Cerva, il severo canopo etrusco, l’Efebo di Selinunte (poi trasferito
Sprofondate nel loro silenzio millenario, abituatesi a sognare ed ascoltare, le statue del Museo sembrano rispondere alle carezze di chi, non vedendo, in qualche modo si Ferdinando Scianna
Ferdinando FerdinandoScianna Scianna
SULLE SULLE TRACCE TRACCE DI BORGES DI BORGES AL AL “SALINAS”. “SALINAS”. DIALOGHI DIALOGHI NELL’OMBRA NELL’OMBRA
Ferdinando Scianna
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Opere e reperti archeologici
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RITRATTO DI CESARE I sec. d. C. Collezione del Museo dell’Abbazia di San Martino delle Scale
PARETI DIPINTE CON FESTONI E MASCHERE DIONISIACHE IN II STILE POMPEIANO Solunto,“Casa delle Maschere” Prima metà I sec. a. C.
Il ritratto rappresenta Cesare nel pieno del suo vigore. I lineamenti decisi, resi con aderente realismo, e l’espressione altera e amara a un tempo, rivelano la personalità del potente condottiero. L’opera, di cui non si conosce la provenienza, faceva parte delle collezioni del Museo dei Padri Benedettini dell’Abbazia di San Martino delle Scale, acquisite dal Museo postunitario dopo la confisca dei beni ecclesiastici avvenuta nel 1866. Si tratta di una copia di età tiberiana di un originale eseguito intorno alla metà del I sec. a. C.
Le pitture decoravano la parete di fondo della sala da pranzo (triclinio) di una delle sontuose abitazioni di Solunto. La casa, denominata “delle Maschere” per i soggetti rappresentati sulle pareti, fu scavata tra il 1868 e il 1869 da Giuseppe Patricolo. Sulla parte superiore della grande parete erano dipinti festoni di rami e foglie, intrecciati a frutti e spighe di grano, maschere teatrali, come quella del melas neaniskos - un personaggio della commedia greca con la carnagione rossa tipica delle figure virili, l’accentuato naso aquilino e la chioma fluente -, oltre a oggetti e simboli allusivi al culto di Dioniso: tra questi il tamburello, uno degli strumenti musicali che con crotali e cembali allietava il festoso corteo dei seguaci del dio. Il ciclo di affreschi della “Casa delle Maschere” rappresenta il migliore esempio di pittura parietale di età repubblicana rinvenuto sino ad ora in Sicilia e trova confronto in alcune case della stessa epoca a Pompei (Villa di Obellius Firmus) e a Boscoreale (Villa di P.Fannius Synistor).
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ERACLE E LA CERVA CERINITE
KANTHAROI DI BUCCHERO ETRUSCO
Pompei, “Casa di Sallustio” - Scavi del 1805 Fine I sec. a. C. - I sec. d. C
Selinunte- Scavi Cavallari- 1866 – 1872 Fine VII – prima metà VI sec. a. C.
Le due coppe dalla superficie nera e lucente, plasmate nella tipica argilla grigia che contraddistingue i manufatti prodotti in Etruria, venivano usate nei simposi, ma anche nei rituali funerari e religiosi. durante i quali si offrivano le libagioni agli dei: tra essi, per primo, Dioniso, inventore dell’inebriante bevanda che libera le menti e le coscienze, sovente rappresentato nella pittura vascolare mentre regge la caratteristica coppa dalle anse alte e sinuose, diventata uno dei simboli del suo culto. I due buccheri furono rinvenuti da Francesco Saverio Cavallari, primo a esplorare tra il 1866 e il 1872 le necropoli della colonia greca, che dopo la scoperta delle metope dei monumentali templi dorici, nel 1823, divenne meta di studiosi e amanti delle antichità, giunti da tutta Europa, ed eccezionale luogo di indagine per gli archeologi di tutti i tempi.
Il bel gruppo scultoreo in bronzo raffigura Eracle che cattura la Cerva dalle corna d’oro che viveva in Arcadia, sulla Rupe di Cerinea. Proviene dalla “Casa di Sallustio”, a Pompei, dove era parte di una fontana installata nell’atrio della dimora signorile. La scultura stava su una base di marmo bianco, dalla bocca della cerva fuoriusciva il getto d’acqua che si raccoglieva in una vasca in marmo. L’intero apparato, costituito dal gruppo bronzeo e dalla vasca col suo sostegno, fu donata al Museo dell’Università di Palermo da Ferdinando II di Borbone nel 1831, insieme ad altri pregevoli reperti ritrovati negli scavi di Pompei ed Ercolano .
tentativo di resistere all’eroe. Per la qualità dell’esecuzione e il soggetto rappresentato alcuni studiosi hanno riferito ad artisti della cerchia di Lisippo l’originale a cui si ispira la riformulazione pompeiana (IV sec. a. C.). Recenti studi sulla scultura e il suo contesto di ritrovamento propongono di attribuirla a un’officina campana attiva dalla fine del I sec. a. C. fino alla fine del I sec. a. C.
Eracle è rappresentato con la possente muscolatura tesa nello sforzo di impedire alla cerva caduta di risollevarsi mentre con le mani impugna saldamente le corna d’oro dell’animale sacro ad Artemide. Di grande realismo anche la rappresentazione dell’animale atterrato su un fianco, le zampe sollevate scompostamente nel vano Opere e reperti archeologici
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108/Guido Bisagni GLI ARIETI E ALTRE STORIE SCRITTUR E NOTTUR NE TRA LA FORMA E IL SUONO
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Cupo, spinto fino al grado zero, declinato in una chiave eclettica e radicale.
dell’Europa antica”, racconta l’artista, “con le corna che si legano a Dioniso e a Pan, quindi alla spiritualità più istintiva e misteriosa. Ai Misteri orfici, ad esempio. Nella mia ricerca la storia antica, la mitologia e l’antropologia culturale hanno un posto che probabilmente supera persino quello della storia dell’arte. Motivo per cui l’arte è per me indivisibile dallo spirito e dai suoi rituali. Realizzare una serie di pitture come quelle conservate nel libro per il Salinas è per me qualcosa che si avvicina molto a un rituale misterico”. Il linguaggio di 108 si nutre di astrazioLa successione di forme nere, dense, ni, suggestioni noise e dark, ispirazioni massicce, è allora una reinvenzione grafica 108 lavora sul concetto di doppio, sofpost-industrial. Sono imbevuti di atmosfedella maestosa scultura, ricondotta a segno re metropolitane e underground i suoi mu- fermandosi sulle due masse bronzee in elementare. Un processo ipnotico di astrarales, le carte e le tele. Ma si portano dietro reciproco equilibrio, sprofondate nel loro zione e di morfogenesi, una litania magica, anche l’impronta di un’originaria passione peso specifico e insieme proiettate in una per le avanguardie storiche: dall’astrazione dimensione ideale, intangibile. Il processo un loop pittorico. L’Ariete, pagina dopo creativo si nutre così della tensione tra op- pagina, diventa ombra, memoria notturarmonica di Kandinskij, tra suono, linea e colore, al Suprematismo di Malevi ; dall’ar- posti, spingendo la forma dell’animale ver- na, molecola pesante in trasformazione, te dei rumori del futurista Luigi Russolo al so un piano di astrazione pura: cromatica, immagine distorta nel mezzo di un plastica, timbrica, geometrica, concettuale, sogno oscuro. Surrealismo organico di Hans Arp. “Affiancato a questo c’era un tempo un secondo spirituale. Tra musica e pittura, reminiCon questo bagaglio 108, al secolo Guido Ariete”, prosegue, “che nell’unica rappresentascenze pagane, matematica e filosofia. Bisagni, ha conquistato un posto d’onore zione a nostra disposizione appare speculare ed sulla scena internazionale del muralismo esposto al sole, uguale e contrario. E arriviamo a Stesso tema e stessa ispirazione per il post-graffiti, dipingendo in particolare fra un altro elemento fondamentale nel mio lavoro: suo primo libro d’artista in copia unica, aree industriali abbandonate: è stato uno il contrasto, il conflitto, la ricerca di un equilibrio dei primi ad aver portato nello spazio pub- interamente realizzato a mano e posto in blico la pittura non figurativa, con l’intento dialogo con la straordinaria opera editoria- tra gli opposti”. le di Houël, esposta a fianco: pensato come L’altro Ariete esiste nel libro unicamente di creare “caos visivo”. come fantasma, doppio invisibile, ipotesi uno scrigno ligneo, il volume raccoglie 60 Elementi costitutivi di questo caos sono le senza peso. La sequenza ossessiva procede lavori a inchiostro su carta. grandi macchie nere spalmate in superper singoli monoliti scuri, escludendo la “L’Ariete è simbolo divino del Mediterraneo e ficie, che appaiono come segni di una scrittura primordiale, reperti di un’archeologia del linguaggio e dell’immagine. E assomigliano a massi, forme organiche, monoliti pesanti, concentrazioni plumbee, ma anche a qualcosa d’immateriale: ombre, specchi d’acqua nera, porzioni di cielo notturno, il lato oscuro delle Idee e il timbro cavernoso della natura. I due lavori su carta concepiti per il “Salinas” si ispirano al regale Ariete bronzeo, uno dei pezzi più pregiati del Museo, oggi ricollocato in fondo alla Sala Ipostila, secondo il nuovo assetto delle collezioni. Lo spazio ha qui l’aspetto di un surreale cabinet ottocentesco, un curioso studiolo in cui si concentrano carte, libri, schizzi, immagini d’epoca. Il dittico è esposto all’interno di un’elegante cartella portadisegni, selezionata – come i tavoli, i leggii e altri oggetti d’arredo – dall’originario mobilio del vecchio Museo Nazionale. 14
Fino al ‘500 posta ai lati del portale d’ingresso del Castello di Maniace, a Siracusa, la scultura era accostata a un Ariete gemello, anch’esso accovacciato, col corpo orientato dinamicamente in direzione contraria. Del secondo animale – oggi scomparso - si trova testimonianza nella gouache di Jean-Pierre Houël, contenuta nel suo libro Voyage Pittoresque: il vello, esposto alla luce, appare più chiaro di quello dell’Ariete superstite, che è invece accarezzato dall’ombra.
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presenza fisica di un secondo elemento, mentre il ricordo di quel vello più chiaro sopravvive come residuo minimo: solo attraverso le pieghe dei fogli e la texture cromatica, che la complessa lavorazione tecnica ha lasciato in evidenza, il bianco di fondo emerge, resiste, indicando un necessario contrappeso. L’altrove, irrinunciabile. Parallela all’attività pittorica, condotta tra i muri, i musei e le gallerie di molte città internazionali, c’è la sua produzione musicale: più intima, legata a un ambito underground, è raccolta in decine di preziose edizioni d’artista, serigrafate o confezionate a mano. In occasione della mostra al “Salinas” Bisagni ha ideato un lavoro sonoro dedicato a spazi, temi e collezioni del Museo, attraversando anche le aree in fase di allestimento. L’opera è scomposta in quattro tracce e spazializzata lungo il percorso espositivo. Muovendosi tra le sale, lo spettatore mescolerà i brani in modo autonomo, incerto e mutevole: la pasta sonora percepita sarà sempre diversa e discontinua. Un’audiocassetta in edizione limitata, pensata come reperto di archeologia del suono, contiene la registrazione dei brani. Riconoscibili sono i field recordings (‘registrazioni sul campo’) catturati in contesti naturali in giro per il mondo e rielaborati in studio: insetti e animali selvatici incrociati a settembre 2019 nel bosco del Minnewaska State Park, una riserva indiana sulla spettacolare Shawangunk Mountain (New York); il rumore della pioggia a Kyoto; la voce dei ruscelli sugli Appennini. Una carrellata di paesaggi serali o notturni, materializzati tra gli spazi chiusi e immaginati a partire dalle sollecitazioni uditive. Un tappeto di suoni distorti, sussurri e bisbigli corrisponde invece alla lettura degli Inni Orfici, come in una litania tragica. Il tutto è stato processato elettronicamente, a evocare il lato arcaico della natura, lo stesso che emerge tra i racconti mitologici, i fantasmi di Satiri, Menadi, Sileni, le gesta (spesso feroci) di divinità ed eroi classici, i riti estatici e le liturgie occulte praticati tra le foreste, nel nome di Pan, Orfeo, Dioniso. Quella di 108 è la colonna sonora di uno spazio-tempo sospeso, dilatato, tra fase ipnagocica (dormiveglia) e fase REM (il sonno dei sogni e dei ricordi). Le statue “dormienti” ne sono interpreti mute ma non inerti, cieche e perciò veggenti: sprofondate in un magma di rimembranze, ombre, allucinazioni.
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Opere e reperti archeologici
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JEAN-PIERRE HOUËL, “VOYAGE PITTORESQUE”
ARIETE DI BRONZO Siracusa - Castello Maniace Inizi III sec. a.C. Fine I - fine II sec. d.C.
Imprimerie de Monsieur, Parigi, 1782-1787 4 volumi illustrati Nel 1776 l’incisore, pittore e architetto – Parigi, 14 novembre 1813) compie sotto Tour tra la Sicilia, Lipari e Malta. Qui si mette sulle tracce di opere e reperti d’arte antica, paesaggi e fenomeni naturali, usi e costumi delle comunità locali, non smettendo di produrre appunti, disegni, guache e acquerelli. Il materiale venne raccolto in una corposa opera editoriale, intitolata “Voyage pittoresque” e suddivisa in 4 volumi. Una delle poche copie prodotte, date alle stampe tra il 1782 e il 1787, è custodita dal Museo Salinas. Diverse opere poi entrate nelle collezioni del Museo erano state incontrate da Houël nel suo viaggio e documentate nel libro: tra queste il maestoso Ariete bronzeo, nell’unica immagine esistente che lo ritrae insieme al gemello perduto, e l’alto candelabro marmoreo del II sec d.C., proveniente dalla raccolta del Barone Astuto, qui esposto all’interno della Sala Ipostila.
Il grande Ariete e il suo compagno, distrutto nel 1848, originariamente erano posti ai lati della porta di ingresso della fortezza di età bizantina fatta edificare dal comandante della Guardia Imperiale Giorgio Maniace nell’isola di Ortigia, a Siracusa. Non sappiamo se, quando furono collocati a guardia del castello, i due bronzi si trovassero già da prima in quel luogo, né se siano stati realizzati nella stessa città o altrove. Le statue rimasero nel Castello Maniace fino al 1448, allorché Alfonso d’Aragona ne fece dono a Giovanni Ventimiglia che le portò nella sua dimora a Castelbuono. Dopo qualche tempo, caduti in disgrazia i Ventimiglia, gli arieti, confiscati con il patrimonio della famiglia, furono trasportati qualche tempo dopo a Palermo e dopo vari spostamenti nelle sedi viceregie le due sculture furono inviate a Napoli, da dove presto ritornarono, per le proteste dei Palermitani che ne reclamarono il rientro, trovando collocazione in una sala del Palazzo Reale. Durante le sommosse antiborboniche del 1848 uno dei due bronzi fu distrutto dalle cannonate degli insorti e la statua 18
superstite dopo l’ unificazione dell’Italia fu donata al museo dal Re Vittorio Emanuele II. L’opera, per le sue caratteristiche stilistiche e per la qualità dell’esecuzione, è una rara ed elevatissima testimonianza della scultura antica in bronzo, ed è stata attribuita a un’officina di scultori siracusani attiva agli inizi del III sec. a. C., legata alla cerchia dello scultore greco Lisippo. Recenti studi, fondati sui risultati dei restauri, di analisi di laboratorio e di nuove letture dell’opera, propongono di datare la scultura in età romana imperiale, tra la fine del I e la fine II sec d. C.
Opere e reperti archeologici
ERACLE NEL GIARDINO DELLE ESPERIDI II sec. d. C. Museo dell’Università - Collezione Astuto
La statua rappresenta l’eroe in posizione di riposo, appoggiato ad un albero, coperto solo dalla pelle del leone Nemeo, mentre regge nel palmo della mano destra protesa i tre pomi d’oro di Hera, sottratti nel giardino delle Esperidi, le ninfe del tramonto.
nella bottega antiquaria dello scultore ed esperto di antichità Bartolomeo Cavaceppi, a cui si devono anche i restauri e le consistenti integrazioni delle parti perdute, soprattutto le braccia e le gambe, che sono interamente di restauro.
La scultura, che è una rielaborazione databile in epoca antonina (II sec. d. C.) di più noti tipi iconografici di età ellenistica, fu acquistata dal Barone Astuto a Roma, Opere e reperti archeologici
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Alessandro Roma
Alessandro Roma FRAMMENTI DI UN’ARCHEOLOGIA FANTASTICA
Alessandro Roma
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“Mi intriga la superficie, quella pelle che si muove”*. Dalla ricerca pittorica, declinata in forma di collage, grafica, dipinti su muro, tela o tessuto, Alessandro Roma arriva alla scultura, prediligendo il linguaggio della ceramica, con tutta la sua sensualità, lo sfavillio cromatico, la processualità artigianale tramutata in strumento di esplorazione poetica e intellettuale. Il segno, come il colore, cerca così una via nuova, spinge verso la terza dimensione, si fa teso, plastico, vibrante. E trova un proprio peso. Le ceramiche di Roma sono, evidentemente, pittura. In una veste tattile. Un gruppo di opere trova posto nella sala che ospitava un tempo la Direzione del Museo Salinas, oggi nuova zona espositiva. Le sculture, in gran parte progettate per questo spazio, stabiliscono una relazione forte con i preziosi elementi architettonici e decorativi, rinvenuti grazie ai restauri e riferibili all’ex casa conventuale dei Padri Filippini, un tempo ospitata dall’edificio. Si tratta di reperti emersi da un’archeologia fantastica, simili a corpi vegetali in mutazione, metamorfosi di teste o vasi alieni, infiorescenze, piante carnivore, frutti impossibili: utopie di natura giunte dal grembo della terra lungo traiettorie festose, caotiche, perturbanti. Come in un’eclettica wunderkammer, questi oggetti ornamentali eccentrici, misteriosamente degenerati, dialogano con i decori floreali dell’antico soffitto ligneo e con il pavimento musivo d’epoca romana (III-II sec. d.C.), i cui pattern geometrici sono elaborazioni astratte di forme naturalistiche (quadrifogli e foglie lanceolate). Ma guardano soprattutto alla monumentale Menade, protagonista assoluta della sala. Seguaci di Dioniso, le Menadi celebravano il furore dell’esistenza durante rituali consumati tra i boschi, stabilendo con la natura stessa una relazione ancestrale, violenta, gonfia d’ebbrezza e intitolata alla rottura di ogni norma sociale. Quel ventre profondo - in cui convivono eros e thanatos, l’istinto bestiale e il sentimento del sacro, la follia notturna e la luce aurorale, l’anarchia dei corpi e l’equilibrio delle stagioni – sembra echeggiare anche 22
Alessandro Roma
nelle informi sculture di Alessandro Roma, testimonianze di un’origine mitica, di cui la Menade fu vestale e poi simulacro. Dall’inconscio febbrile di lei, quasi fosse creatura viva, vengono oggi questi strani manufatti, sospesi tra il sogno, il mito, il rito e una certa energia uterina. Dalla pittura alla scultura. E ritorno. È uno sfondamento dello spazio reale quello che Alessandro Roma compie sui suoi scampoli di cotone, intervenendo per cancellazione (candeggina) e per scrittura (colore, segno). Le sue pitture su stoffa sono finestre spalancate sul sogno, vessilli, quinte teatrali, arazzi, porte magiche, soglie irreali. In esse si ritrovano forme e timbri rubati al magma caldo della natura, ma anche rimandi alla tradizionale pittura di paesaggio e all’antica arte della decorazione. Come in una seduta di scrittura pittorica automatica, Alessandro Roma si muove fra estetica del frammento, riferimenti alla figurazione e lenta smaterializzazione. Pur rimanendo riconoscibili, le immagini scivolano verso l’astrazione, si assottigliano, si dissolvono, non più ancorate all’urgenza della rappresentazione e alla certezza del ricordo. Illuminazioni notturne, dissoltesi in un lampo, senza possibilità di fissarne i contorni e controllarne i destini. Da qui viene la relazione con il gruppo scultoreo di Eracle e la Cerva, raffigurante una delle fatiche dell’eroe divinizzato, tra le figure più celebri della mitologia classica. Protagonista è quel bosco che fu cornice della lotta con l’animale dalle corna d’oro e le zampe d’argento e bronzo. E tutto affiora oggi dai ricordi della statua, come durante un’allucinazione cromatica: i fondali pittorici sono la trasfigurazione onirica di quei luoghi incantati in cui Eracle compì, in un tempo mitico, una delle sue gesta leggendarie. Allo stesso modo sembra stabilirsi un dialogo tra la natura evocata plasticamente o pittoricamente e altre opere del Museo: nel segno di suggestioni e iconografie dionisia-
che, torna il tema del sacro, che si dà come spazio scenico e sentimento panico. Così è per l’alto Candelabro marmoreo d’epoca adrianea (II sec. d. C.), decorato con zampe e corna d’ariete, foglie d’acanto e immagini di Satiri a rilievo, o per i meravigliosi Affreschi decorativi di Solunto (I sec. a.C.), risolti tra campiture piatte di colore, ghirlande di frutti, pigne, spighe, maschere teatrali e i classici paraphernalia usati nei culti dionisiaci: tra questi il piccolo tamburo, che in mostra stabilisce anche una connessione ideale con i suoni di Guido Bisagni e con la dimensione magica, ipnotica e rituale della musica, per gli antichi Greci inscindibile dal teatro. A evocare un elemento vegetale è ancora una scultura in ceramica, risolta nella
tensione tra opaco e lucido, tra l’esterno chiaro, leggibile, sinuoso, e l’interno cupo, magmatico. Il corpo della pianta e quello di un minuto Satiro marmoreo sono posti in relazione, lungo la direttrice obliqua dello sguardo: osservandola dall’alto, tra memorie silvane dei suoi luoghi perduti, la statua sprofonda nella voragine verde bosco, specchiandosi, perdendo le coordinate e lasciandosi rapire. E a proposito di linguaggi che avanzano l’uno verso l’altro, innestandosi, contaminandosi, Alessandro Roma ricostruisce infine lungo il percorso espositivo un ambiente naturalistico d’ispirazione mitologica. Ancora una volta emerge la sua necessità di spazializzare il linguaggio della pittura in chiave installativa, fra quinte scenografiche e trame di colore. Siamo nel Giardino delle Esperidi, dono di nonché teatro dell’undicesima fatica di Eracle: l’eroe greco dovette scoprirne la misteriosa ubicazione, per poi cogliere i frutti dorati del prezioso melo che le Esperidi - creature vespertine, descritte da Esiodo come “Figlie della Notte”- custodivano insieme al Drago Ladone. Per farlo riuscì a sfruttare con arguzia l’aiuto del titano Atlante. Qui la vicenda torna a galla, grazie a una statua in marmo raffigurante Eracle con i tre pomi in mano: il ricordo di quelle gesta si tramuta nella materializzazione fantastica del giardino, così come la statua stessa continua a ricordarlo, a elaborarlo, a custodirlo tra i sogni e la memoria. E rivive, il giardino delle Esperidi, nell’arazzo policromo di Roma e nello scorcio dipinto a parete: due finestre simboliche, in cui la bellezza radiosa della natura e la sua voce oscura si fanno immagine in superficie, a voler incorniciare l’eroe. In dialogo con il suo inconscio, con la sua ombra, con le storie che qualcuno narrò, facendone catalogo di archetipi e materia letteraria. *Alessandro Roma, da un’intervista su Artribune, a cura di Irene Biolchini - 30 aprile 2019
Alessandro Roma
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Opere e reperti archeologici
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nella pagina precedente
EX VOTO DI TERRACOTTA DA CALES
MENADE FARNESE Basalto grigio e marmo bianco Età imperiale Seconda metà I - inizi III sec. d.C.
IV - II sec. a. C. Museo dell’Università Le teste di terracotta - insieme ad altri manufatti di evidente carattere votivo, rappresentanti arti, organi, figure umane intere, di dimensioni pari o di poco inferiori al vero - furono acquistate nel 1842 dal Governo Borbonico per accrescere il patrimonio di antichità del Museo dell’Università. Gli ex voto erano stati trafugati da scavatori clandestini che avevano iniziato a saccheggiare il luogo ancor prima che ne iniziasse, anni dopo, l’esplorazione sistematica con criteri scientifici. L’acquisizione attraverso il mercato antiquario impedì a lungo di risalire all’esatto luogo di rinvenimento dei votivi; soltanto a metà degli anni ‘60 del secolo scorso confronti stilistici e tecnici con raccolte di terrecotte analoghe provenienti dalla stipe del Santuario di Ponte delle Monache, nell’antica cittadina di Cales in Campania, conservate nei musei di Napoli e di Madrid - hanno reso possibile l’attribuzione delle sculture del museo di Palermo allo stesso contesto votivo che era stato disperso in antico. Gli esemplari, eseguiti a stampo, in molti casi sono direttamente ispirati ai modelli dei grandi maestri di età classica ed ellenistica rielaborati secondo il gusto e la tradizione figurativa medio italica, e attestano la capillare diffusione del culto delle divinità salutari, alcune delle quali, dopo la conquista romana del territorio, furono assimilate alla dea Fortuna.
La scultura, che si data tra la seconda metà del I sec. e gli inizi del III sec. d. C. fu rinvenuta a Roma tra il 1545 e il 1546, durante gli scavi nelle Terme di Caracalla (212-216 d, C. ), promossi da Papa Paolo III, al secolo Alessandro Farnese, grande appassionato e collezionista di Antichità. Nel 1827 la statua, che in quel tempo si trovava al museo di Napoli, fu scelta dal Re Francesco I di Borbone per completare l’arredo della Reale tenuta di caccia “La Favorita” a Palermo. Raggiunta la sua nuova sede la Menade dei Farnese fu collocata nel boschetto del Parco, e vi rimase fino agli anni “50 del XX secolo, prima di essere esposta al Museo Archeologico Nazionale.
Pan, insieme a satiri e ninfe, partecipa al thyasos, il corteo sacro di Dioniso. All’epoca del suo ritrovamento era invece ritenuta Pomona, la dea romana dei campi. In anni più recenti, in seguito al riconoscimento di un frammento custodito nei depositi del Museo delle Terme di Caracalla a Roma, è stato rimosso il restauro cinquecentesco, che aveva integrato la figura con un braccio destro di riporto. Con un nuovo intervento è stato quindi ricomposto il frammento di spalla originale.
L’ accurato studio dell’iconografia ha restituito alla scultura la sua identità di Menade, baccante divina che, danzando freneticamente al suono della siringa di 26
Opere e reperti archeologici
PAVIMENTO MUSIVO DA PIAZZA DELLA VITTORIA, PALERMO
CANDELABRO NEOATTICO SATIRO DI ETÀ ADRIANEA Prima metà II sec. d. C. Collezione Astuto - Museo dell’Università
II sec. d. C. Collezione Astuto - Museo dell’Università
Mosaico geometrico in bianco e nero “opus tessellatum” Fine II - inizi III sec. d. C.
Il mosaico proviene da una delle abitazioni di epoca romana scoperte da Francesco Saverio Cavallari nel 1868 a Piazza della Vittoria, a Palermo, e ornava il pavimento di una delle stanze di una ricca domus del III sec. d. C.
La scultura apparteneva alla collezione di antichità del Museo del Barone Astuto e come gran parte del materiale lapideo della raccolta fu acquistata a Roma, presso la bottega antiquaria del Cavaceppi. I Satiri, abitanti dei boschi dalle fattezze semi ferine, con orecchie, zoccoli e code di capra, partecipavano al thyasos, il festoso corteo dei seguaci del dio del vino e dell’ebbrezza, intonando cori e inni in onore di Dioniso: dal loro banchetto rituale derivarono il dramma satiresco e la tragedia, dal greco (“tragos àdo”, canto del capro), che da essi trassero il nome.
Esplorazioni condotte nel 1903 da Antonino Salinas riportarono alla luce altri ambienti della lussuosa abitazione, che restituirono i due grandi mosaici policromi con rappresentazioni del mito di Orfeo e delle Stagioni datati ad età severiana (III sec. d. C.). I mosaici furono distaccati ed esposti al Museo, dove si trovano tuttora. L’antico pavimento a decorazione geometrica in bianco e nero fu collocato nella Sala dove un tempo era esposta la collezione di reperti in bronzo, divenuta poi la stanza della Direzione.
L’elegante oggetto di arredo è decorato sullo stelo da bassorilievi con tralci di Nel corso dell’ultimo intervento di restauro foglie, ghirlande di fiori, maschere di sono stati riportati in vista il soffitto fauno e teste di toro scolpite a tutto tondo; ligneo e le nicchie per l’alloggiamento di sulla base si individuano figure di giovani immagini o oggetti riferiti alle pratiche satiri che recano offerte per il banchetto in religiose dei Padri Filippini, che nella sede onore di Dioniso. attuale del Museo Archeologico ebbero la loro casa conventuale, annessa alla chiesa Nello stile dei rilievi e nella scelta del tema di Sant’Ignazio e all’Oratorio di San Filippo dionisiaco si coglie il riflesso della corrente Neri, fondatore del loro ordine religioso. artistica neoattica, che si diffuse in tutte le regioni dell’Impero al tempo di Adriano.
La statua del satiro che mesce il vino dall’ otre fu realizzata nel II sec. d. C. da un artista ispirato da più famosi esemplari della grande scultura di epoca ellenistica. Per il suo formato e il soggetto rappresentato trova confronti in numerosi contesti coevi e con ogni probabilità costituiva l’arredo di una dimora privata.
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LUCERNE DI TERRACOTTA DI ETÀ IMPERIALE E TARDO-ANTICA I-V sec. d. C.
Il candelabro apparteneva alla collezione archeologica del Barone Astuto (1861). Nel Museo che il Collezionista aveva realizzato nel suo palazzo di Noto, oltre alla collezione di antichità, si potevano ammirare un gabinetto di storia naturale, una raccolta numismatica e una biblioteca di libri, stampe e manoscritti rari.
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Le lucerne di terracotta sono i principali utensili per l’illuminazione dell’antichità; si rinvengono nei santuari, nelle abitazioni, nelle necropoli e costituiscono un’importante testimonianza delle pratiche rituali, delle consuetudini domestiche, delle dinamiche produttive e delle relazioni commerciali delle società antiche. In età romana, dalla metà del I sec. a. C., accanto ai semplici e funzionali modelli della tradizione realizzati al tornio, si diffondono esemplari fabbricati a stampo e decorati nella parte superiore del serbatoio da figure e scene che riflettono il gusto e la cultura dell’epoca. 27
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Opereeereperti reperti archeologici archeologici Opere
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rate con scene dionisiache: richiamando simbolicamente l’elemento chiave della luce, grazie a cui si attiva il dispositivo fotografico di Sandri, i piccoli oggetti evocano insieme la dimensione del buio, del sogno, delle apparizioni notturne. Lo stesso meccanismo di lenta dissoluzione, utilizzato per gli altri tre ritratti, viene applicato al “Satiro Versante”, pregevole copia romana (I sec. d. C.) di un capolavoro giovanile di Prassitele, rinvenuta nel-
L’occhio che guarda, la realtà che si lascia guardare. L’uno dando forma all’altra. E viceversa. Fabio Sandri porta avanti un’analisi raffinata del linguaggio video e fotografico, attraverso l’elaborazione di dispositivi concettuali per la visione e la registrazione del reale. Il concetto di rappresentazione viene superato, in favore di una immediata accumulazione e rifondazione delle cose sul piano dell’immagine: una nuova realtà generata dalla luce. Per il Museo Salinas si è concentrato su alcune statue di epoca romana, scelte tra le collezioni ‘a riposo’, destinate alla nuova ala. Sono tre volti, di diverse tipologie, che dal tardo ellenismo giungono all’epoca adrianea, passando per la Repubblica: - Il cosiddetto “Ritratto di Partinico” (140 d.C.), tra i maggiori esempi di ritrattistica privata romana, eccellente prova di realismo e intensità espressiva, forse dedicato al proprietario di un’antica villa patrizia, se pur nell’assonanza stilistica con la diffusa iconografia di Publio Elio Adriano, primo Imperatore barbuto. - Un austero Cesare (copia di età tiberiana di un originale di età repubblicana, 44 a. C. circa), ritratto ufficiale dalla raffinata sintesi volumetrica, simbolo del potere come armonia, autorevolezza e vocazione espansionistica, nell’unione tra carisma personale e dimensione civica. - Una raffigurazione di Pan, divinità satiresca, incarnazione della Natura selvatica: copia romana (I sec. a. C.) dell’originale scolpito dal greco Heliodoros, è un classico soggetto mitologico restituito con drammaticità plastica, nella torsione del busto e nella tensione informe delle masse, da cui giunge la profonda energia della terra. Sandri ha trasformato questi oggetti in ‘spectra’, apparizioni evanescenti, instabili come ricordi, cangianti come tutto ciò che è vivente, mortale: il loro tempo non è, banalmente, quello immobile di opere d’arte, icone, simulacri. Ma qual è il tempo di una statua? Possiamo considerarla una creatura viva? Possiamo superarne l’immobilità? La serie è il frutto dell’incrocio tra un’immagine digitale (videoproiezione di fotografie su carta fotosensibile) e un’impronta analogica (fotoimpressione), sommando la trama dei pixel alla grana creata dall’emulsione. Rarefatte, simili a corpi disincarnati o a riflessi imperfetti, le immagini - generate grazie all’azione diretta della luce
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ingentilito, esempio di bellezza quieta e di gestualità composta, costruito secondo un elegante schema di equilibri ritmici e plastici: dell’originaria natura animalesca conserva giusto le piccole orecchie a punta. L’opera, volutamente non esposta, secondo l’allestimento definitivo del Museo sarà collocata proprio tra le donazioni borboniche della Sala Ipostila (o Sala delle Colonne), oggi teatro temporaneo della mostra. Un doppio onirico prende oggi il suo posto: simulacri di simulacri, consumate dalla sul foglio, senza l’ausilio di una macchina fotografica - non sono fissate: la luce stessa continuerà a mutarle e sbiadirle, fino a giungere alla sparizione totale. I blocchi di ‘foto’ integre sono simili a depositi: ogni foglio è lasciato al suo destino, esposto all’intensità luminosa e allo stesso occhio che - mentre guarda – inevitabilmente lo consuma; poi, viene sostituito dalla copia sottostante, così che il processo possa ripartire. Fotografia come performance, ma anche fotografia del reperto, con le superfici bruciate destinate ad accumularsi su una parete, in un gioco tra pieno e vuoto, presenza e assenza, visibile e invisibile. Il progetto dialoga altresì con le Teste di Cales - ex voto in terracotta, databili tra il IV e il II secolo a. C., messi in scena su un ideale spazio sacro o palco teatrale - attraverso cui si declina ulteriormente il tema del ritratto, in relazione al sentimento religioso. Infine, un rapporto si stabilisce con le lucerne d’epoca romana, in certi casi deco-
luce e intitolate all’effimero, le immagini di Fabio Sandri sono fantasmi riemersi da stanze sigillate, dall’inconscio del museo e dalla memoria delle statue, ma sono anche anticipazioni in forma di spettri: non fisicamente in dialogo con gli originali marmorei, li restituiscono allo sguardo per pura evocazione. Dalle collezioni non ancora esposte del Museo Salinas proviene anche una pregevole testa di giovinetto, un ritratto privato Fabio Sandri
Fabio Sandri
INCARNATI, EPIFANIE. IL TEMPO MOBILE DELLE STATUE
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Fabio Sandri
di età adrianea (II sec. d.C.) identificato con la figura di Polydeukion, discepolo favorito di Erode Attico. Realizzata in marmo bianco a cristalli fini, la scultura preserva un’intensità espressiva e una dolcezza dei tratti non compromessi dalle abrasioni diffuse e dall’evidente scalfittura del naso. Sandri riprende con un video l’opera, tenuta fra le braccia da una figura anonima: un’azione enigmatica, che è insieme di accudimento e di possesso, di contatto intimo e di contrasto. Un portare a sé, con sé, misteriosamente. Inquadratura centrale, nessun movimento di camera, nessun montaggio, taglio classico e immagine acefala: l’obiettivo si pone in modo neutro, impersonale, lasciando scorrere 15 minuti di documentazione continua. Nel rapporto tra la pelle e la pietra, tra la presenza viva del corpo e quella inerte dell’oggetto, tra il volto in primo piano della statua e quello umano sacrificato, a venire registrato è il gesto puro. Alla fissità della scena corrisponde, però, l’impossibilità di ottenere una stasi piena. Il respiro, gli spostamenti minimi, la stessa temporalità pulsante del medium elettronico, sopravvivono in una forma definitiva: proiettando il video su un foglio di carta fotosensibile emulsionata, per effetto della luce e senza bisogno di sviluppo, si è generata un’immagine-impronta, accumulazione di tutti i fotogrammi del film. La stampa ottenuta, dopo un ultimo processo di scansione e digitalizzazione, esprime una doppia dimensione filosofica: la conservazione e la durata, l’apparente immobilità delle cose e la loro necessaria, infinita, inevitabile progressione. Infine, la regale Menade Farnerse, protagonista dell’ultima sala. Sandri si confronta anche con la possente scultura di età imperiale, mettendole di fronte un’opera che funziona da schermo della memoria, in cui la statua stessa si specchia e si ritrova. Un’imperfetta accumulazione di flashback e residui interiori, che la mente recupera, confonde, sovrappone. Come creatura viva,
Fabio Sandri
la statua replica i meccanismi cerebrali del sogno o del ricordo, rielaborando il suo passato in un’apparizione impossibile. Quello che l’artista definisce un “capriccio piranesiano” rivela così il montaggio di quattro differenti immagini storiche, corrispondenti alle quattro tappe fondamentali del lungo viaggio che ha condotto la Menade fino a Palermo. Ritrovata a Roma nell’area delle Terme di Caracalla, tra il 1545 e il 1546, la statua venne portata nello splendido Palazzo Farnese, a Campo de’ Fiori. Nel 1766, alla morte di Elisabetta Farnese, che aveva sposato Filippo V, Re di Spagna, la collezione antica passò a Carlo III e Ferdinando IV rimento nel nuovo Museo di Napoli, tra il 1786 e il 1789. Nel 1827 fu inviata a Palermo per adornare un viale del Parco reale della Favorita e li è rimasta fino al suo arrivo al Museo Salinas, intorno agli Anni ‘50 del secolo scorso. Quattro le immagini scelte per elaborare questa apparizione onirica: – Un’incisione in rame di Giuseppe Vasi del 1786, Avanzi della famosa Cella Soleare nelle Terme di Antonino Caracalla;
– La nota Veduta di Palazzo Farnese di Piranesi, incisione ad acquaforte, bulino e puntasecca, del 1773; – Uno scorcio degli spazi aperti del MANN, con alberi e reperti lapidei, immortalato in una vecchia foto in bianco e nero (W.H. Goodyear, Veduta del Cortile Occidentale del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, 1895, Napoli, Museo, Archivio fotografico); – Una foto in bianco e nero che immortala la Menade incorniciata dalla vegetazione della Favorita, unica testimonianza fotografica di quel passaggio, che segnò l’approdo della statua in Sicilia. Spiega Sandri, a proposito del procedimento con cui ha ottenuto l’opera: “ blato le immagini storiche, proiettandole su carta fotosensibile e ottenendone il negativo digitalmente in positivo. Il dittico contiene e rivela questo processo, che fonde analogico e digitale e ne incrocia le caratteristiche, facendovi rivivere l’immagine”.
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FERDINANDO SCIANNA
dalla serie ‘Sicilia - Jorge Luis Borges a Palermo’, 1984 È nato a Bagheria, in Sicilia, nel 1943. Nella sua città inizia a dedicarsi alla fotografia, ancora giovanissimo, agli inizi degli anni Sessanta, raccontando per immagini la cultura e le tradizioni della sua terra d’origine, e scattando intensi ritratti ai suoi concittadini. Nel 1961 si iscrive a Lettere e Filosofia all’Universitá di Palermo, conosce il grande critico Cesare Brandi e mostra le proprie foto a Enzo Sellerio, scoprendo grazie a lui il mondo di Brersson. La coscienza politica formatasi in quegli anni sarà determinante per l’evoluzione della sua fotografia. Circa due anni dopo incontra Leonardo Sciascia, con il quale a soli 21 anni pubblica il saggio “Feste Religiose in Sicilia”, libro che ottiene il prestigioso Premio Nadar. Sull’onda del successo editoriale, Scianna si trasferisce a Milano. fotoreporter, inviato speciale e corrispondente da Parigi, dove resta per 10 anni, iniziando a dedicarsi con successo anche alla scrittura. Collabora con varie testa-
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il suono e l’installazione, partecipando a mostre personali e collettive. Nel 2004 è presente a Nusign, Parigi, e nel 2007 alla Biennale di Venezia con il progetto Walls inside; nel 2008 è a Los Angeles per Nomadaz, nel 2014 alla Biennale di Arte Urbana di Mosca, Artmossphere, nel gennaio 2015 alla grande collettiva Mapping the City, curata da Rafael Schacter alla Somerset House di Londra. Nel 2019 è invitato come artista residente da Lacasapark, a New York, dove realizza anche diverse pitture murali.
Meccanica intangibile I/II 2019, tecnica mista su carta, dittico, 48 x 68 cm cad.
Silvano serale | Raijin (I Signori della pioggia) | Silvano notturno | Inno alla notte 2019, installazione sonora (4 tracce audio digitali, sistemi di amplificazione)
Tante le mostre personali in gallerie, musei, festival; tra queste: Seventeen Dens,Ego Gallery, Lugano (Switzerland), 2012; nel 2013 Crossroad #1 (double with Elzo Durt) / Doppelgaenger Gallery, Bari, The thin mountain – The soft mountain / 999Contemporary, Roma, La manipulation de la form – Bienurbain, Besancon (Fra); nel 2014 Solstizio d’Inverno, Studio Cromie, Grottaglie; nel 2015 Antipodas, Dinamica Galeria, Buenos Aires (Arg) e Svartans Orolighet, Nevven, Goteborg (Swe); nel 2016 The Rite of Spring– Little Circus, Antonio Colombo Arte Contemporanea, Milano, poi di nuovo a Lugano per La forma dell’Ignoto, Ego Gallery; nel 2017 a Lione per “A New Ice Age”; nel 2018 a Parigi per “Abolir toute pensée rationnelle” alla Galerie Celal e a fine 2019 ancora da Antonio Colombo, Milano, per “Sogno Lucido”.
ALESSANDRO ROMA
Drawing, I, II, III 2018, colore e candeggina su cotone, 145 x 280 cm
My Head inside the Landscape 2019, ceramica smaltata, 50 x 25 x 25 cm L’ariete 2019, libro d’artista, 37 x 52 cm, particolare
My head inside the Nature, 2019, ceramica smaltata, 45 x 35 x 35 cm
littéraire. Il suo lavoro ottiene importanti riscontri proprio nella capitale francese: ad apprezzarlo, fra gli altri, Henri Cartier-Bresson, grazie a cui, nel 1982, entra Torna quindi a Milano e collabora con vari giornali. Inizia anche a fotografare per due giovani desiUn incontro casuale, che darà vita ad una delle collaborazioni meglio riuscite nella fotografia di moda. Da qui nasceranno servizi per importanti riviste di moda: quest’improvvisa svolta lo porta a nuove esperienze: pubblicità e fotografie commerciali, senza mai abbandonare il reportage sociale, i ritratti e il giornalismo. Come critico e giornalista ha pubblicato numerosissimi articoli in Italia e Francia, su temi relativi alla fotografia e alla comunicazione per immagini in generale. Decine le pubblicazioni editoriali e le mostre presso istituzioni culturali italiane e straniere: tra queste ultime anche la retrospettiva ospitata dalla GAM di Palermo nel 2019.
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My Head Inside the Nature 2019, ceramica smaltata, 25 x 30 x 30 cm L’ariete 2019, libro d’artista, 37 x 52 cm Nasce ad Alessandria nel 1978 e si trasferisce a Milano nel 1997 per frequentare la facoltà di Architettura (dove conseguirà la laurea in Disegno Industriale). Fra i maggiori esponenti del Postgraffitismo tra fine Anni ‘90 e inizio 2000, è tra i primi a portare la ricerca pittorica non figurativa negli spazi pubblici. Le sue forme astratte sono strettamente legate alle aree industriali abbandonate del Nord Italia, ma iniziano subito comparire anche a Berlino, Parigi, New York, Londra. Parallelamente alla pittura lavora con la scultura,
Forms in transition 2018, colore e candeggina su cotone, 200 x 283 cm
e in divenire temporale.
FABIO SANDRI
My Head inside the Nature 2019, ceramica smaltata, 30 x 30 x 30 cm Incarnato (Ritratto di Partinico) 2019, carta fotosensibile in continua impressione, 200 x 127 cm
My Head inside the Nature 2019, ceramica smaltata, 30 x 30 x 30 cm Nato a Milano, nel 1977, ha vissuto a Londra, Berlino e Bruxelles. Artista da sempre interessato alla pittura, nel 2011 inizia ad avvicinarsi alla scultura in occasione della mostra persoHumus e Rovereto. Da diversi anni lavora con la ceramica, creando ambienti installativi in cui le sue composizioni tridimensionali dialogano in maniera sempre più stretta con la pittura. Ha studiato all’Accademia di Brera e successivamente ha partecipato a una residenza artistica alla Künstlerhäuser Worpswede (Germania). Nel 2007 ha preso parte alla IV edizione dell’ International Painting Prize, Diputación de Castellón del Museo de Bellas Artes de Castellón. Ha partecipato a mostre collettive in musei e gallerie italiane e internazionali; tra queste: Graffiare il presente, Casa Testori, Novate Milanese (Milano), 2018; Hardest hue to hold, 2018; Drawing Biennial, Rimini, 2015 e 2016; Accadrà domani, an ongoing archive of artists’ books, Museo Marino Marini, Firenze, 2015; Drawing Biennial, 2015 e 2013; Biennale di Praga, 2009. Tra le mostre personali si ricordano: Duo Foundation, Brussels (Be), 2019; Vertigo. Walking on the edge of the tone, MIC Museo della Ceramica, Faenza, 2019; The vivid dream, Yamamoto Keiko Rochaix gallery, Londra, 2017; Swamp, Museo di Villa Croce, Genova, 2016; One foot in the world and the other in the stillness, Z2o Sara Zanin Gallery, Roma, 2016; Solo show, Sobering Gallery, Art Brussels, Bruxelles, 2015; Solo show, Coburn project, Londra, 2015; Locus amoenus, Sobering gallery, Parigi, 2014; Organizzazione organica di forme, Contemporary art Museum, Lissone, 2014; Enclosure, Paradise Row gallery, Londra, 2013; Il sole mi costrinse ad abbandonare il giardino, Brand New Gallery, Milano, 2012; Unfolding the Folds, Galerie Alexandra Saheb, Berlino, 2011; Sites of action, Scaramouche Gallery, New York, 2011; Humus, MART, Trento e Rovereto, 2011; Vicarius, Galerie Alexandra Saheb, Berlino, 2009; Il sogno è anche un luogo ideale per il desiderio di giustizia, Lucie Fontaine, Milano.
Incarnato (Pan) 2019, carta fotosensibile in continua impressione, 200 x 127 cm
Incarnato (Satriro Versante) 2019, carta fotosensibile in continua impressione, 300 x 127 cm
Incarnato (Cesare) 2019, carta fotosensibile in continua impressione, 200 x 127 cm
Menade 2019, Videoimpronta, 80 x 104 cm
Ha esposto in mostre personali e collettive collaborando con importanti critici, quali Italo Zannier, Daniela Palazzoli, Elio Grazioli, Simone Menegoi, Luca Panaro e altri. Ha esposto in diverse rassegne internazionali, in Italia ed in Europa, tra cui: Galerja Scuc (Lubiana, SLO); Kettle’s Yard (Cambridge, UK); Fotografia Europea (Reggio Emilia); Artforum (Berlino, D); Kurpfalzischmuseum (Heildelberg, D); Museo d’ Arte Moderna e Contemporanea di S. Marino (RSM); Extra City Kunsthal di Anversa (B); SIFEST (Savignano, FC); Artissima (Torino). Il suo lavoro è presente in alcune significative pubblicazioni sulla fotografia italiana e internazionale: Mario Cresci, Future images, Motta Editore, Milano, 2009; Sergio Giusti, Fabio Sandri, in AA.VV: Fotografia Europea Eternità, Electa ed., Reggio Emilia, 2009; Elio Grazioli, Uno sguardo italiano, Cartaditalia, 2011; Tim Otto Roth, Korper. Projection. Bild. Eine Kulturgeschichte der shattenbilder. Wilhem Fink, 2015; Simone Menegoi, The camera blind spot III - La camera. Sulla materialità della fotografia, Banca di Bologna, 2016; Marc Lenot, Jouer contre les appareils. Photosyntheses, Arles, 2017; Luca Panaro e Marcello Sparaventi, Centrale. La fotografia di ricerca in Italia. Editrice Quinlan, 2018.
MIMMO RUBINO
Quando le statue sognano 2019, campagna di comunicazione. Noto anche come Rub Kandy, è nato a Potenza nel 1979. Vive a Roma. Artista, storico dell’arte, docente di storia del design e comunicazione visiva. Si autodefinisce art-designer, provando a tenere assieme, in un termine inventato, pratiche creative contrastanti, conciliabili solo nel terreno dei forse, dei prototipi, dell’esemplarità. Come artista ha partecipato a diversi appuntamenti internazionali, tra mostre, festival, interventi d’arte pubblica e progetti di riqualificazione urbana; tra questi: Biennale di Panama, 2013; Outdoor Festival - Ex Caserma Guido Reni, Roma, 2015; SANBA Festival, quartiere San Basilio, Roma, 2015; Manifesta 11 - The European biennial of contemporary art, Zurigo, 2016; Artmossphere - Biennale d’Arte Urbana di Mosca, 2016; Paphos (Cipro) Capitale Europea della Cultura 2017; riallestimento della stazione metropolitana Cavour per ATAC - Comune di Roma, 2017; L’Albergo delle Piante, quartiere di Corviale, Roma, 2017; Matera 2019 Capitale Europea della Cultura. Molti gli interventi indipendenti realizzati tra spazi pubblici e periferie in giro per il mondo, tra cui Roma, Berlino, Parigi, New York. Il suo lavoro è stato raccontato su diverse testate e pubblicazioni internazionali, in particolare nell’ambito dell’arte urbana e del post-graffitismo. Per il progetto “Quando le statue sognano” veste i panni di Art Director: il suo esperimento di comunicazione visiva prende la forma di un’opera d’arte in progress. O viceversa.
Trasporto (Polydeukion) 2019, videoimpronta, 80 x 143 cm Nato a Valdagno (VI), nel 1964. Si forma presso l’accademia di Belle Arti di Venezia nel laboratorio di Emilio Vedova. Insegna al Liceo Artistico “U.Boccioni” di Valdagno e all’Accademia di Belle Arti di Bologna. La sua ricerca artistica si caratterizza per una concezione scultorea del medium fotografico, indagato nella sua essenza di impronta su supporto fotosensibile a contatto diretto con la materialità dei luoghi o di impronta continua 35
Regione Siciliana Presidente Nello Musumeci Dipartimento Regionale dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana Dirigente Generale Sergio Alessandro A cura di Caterina Greco e Helga Marsala Artisti 108/Guido Bisagni Alessandro Roma Fabio Sandri Con la partecipazione di Ferdinando Scianna Ciclo “Interludi” - Project Room “Ritratto di Famiglia”, fotografie di Roselena Ramistella Concerto - Agorà 108/Guido Bisagni (electronics) Ornella Cerniglia (pianoforte) Floriana Franchina (flauto) Musiche di 108, C. Debussy, J. Cage, E. Bozza, F. Pennisi In collaborazione con Dario Oliveri e Società del Quartetto di Palermo Schede opere contemporanee: Helga Marsala Schede reperti archeologici: Alessandra Ruvituso COMUNICAZIONE Art Director Mimmo Rubino Uffici Stampa Lara Facco (Milano) Simonetta Trovato, Adriana Falsone (Coopculture) Social Media Sandro Garrubbo Pubblicità Alessi, AMAT
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Un progetto del Dipartimento dei Beni Culturali Realizzato dal Museo Archeologico Antonino Salinas Direttore Caterina Greco Collaborazione scientifica Alessandra Ruvituso (Museo Salinas) Assistente di produzione Simona R. D. Sanfilippo Segreteria e organizzazione Giovanna Scardina, Roberta Zottino (Museo Salinas) Restauri Alessandra Barreca, Alessandra Carrubba (Museo Salinas) Ricerche d’archivio e documentazione fotografica Giusy Milazzo (Museo Salinas) Giuseppe Mineo (Polo Regionale di Siracusa per i siti e musei archeologici) Salvatore Plano (CRICD) Olimpia Sunseri (Museo Salinas) Ottimizzazione e montaggio video Giusi Garrubbo (Museo Salinas) Fabiola Spatola ALLESTIMENTI Realizzazione 100cento Movimentazione opere archeologiche Tsr Raimondi Spedizioni Stampa pannelli, banner e pubblicazione editoriale Visiva Marketing Tools Cornici e stampa opere fotografiche Print&Go RINGRAZIAMENTI Le colleghe del Dipartimento dei Beni Culturali Maddalena De Luca e Alma Virzì, il personale e i custodi del Museo Salinas, la squadra dei PIP, Coopculture, Laboratorio Gatti (Faenza), Leica, Domenico Marco, Giuseppe Ippolito, Christian Lanni, Antonella Putaggio, Annamaria Cannella, Luana Maiorana.
Corso di diploma accademico di secondo livello in Grafica e Fotografia Dipartimento di Progettazione e Arti Applicate Scuola di Progettazione Artistica per l’Impresa a.a. 2019/2020