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Brent Hartinger
Geography Club SIMONETURNERSTORIES.TUMBLR.COM e-book - Traduzioni
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DEDICATO A MICHAEL JENSEN Il mio viaggio inizia e finisce con te
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CAPITOLO UNO
ERO DIETRO LE LINEE NEMICHE, nel cuore del fronte opposto. I miei avversari erano tutto attorno a me. Per il momento, il mio travestimento reggeva, ma comunque mi sentivo esposto, nudo, come se il mio segreto fosse evidente per chiunque si fermasse un attimo a guardarmi. Sapevo che il primo errore, per quanto trascurabile, poteva smascherarmi e rivelare la mia vera identità. Pensarci mi fece accapponare la pelle. Il nemico non avrebbe preso bene la mia incursione tra i suoi ranghi, soprattutto non qui, nel suo luogo più sacro. Poi Kevin Land si sporse dalla panca di legno dietro il mio armadietto. «Ehi, Middlebrook, prestami il tuo shampoo!» Ero nello spogliatoio dei ragazzi della mia scuola alla fine della terza ora. Ero appena tornato dalle docce, e parte del motivo per cui mi sentivo nudo era che io ero nudo. Poggiai l’asciugamano bagnato sull’anta dell’armadietto e mi vennero i brividi, volevo soltanto rivestirmi e uscire fuori di lì prima possibile. Perché esattamente lo spogliatoio della mia scuola alla fine della terza ora mi sembrava territorio nemico – e perché gli altri ragazzi della mia classe mi sembravano soldati nemici in una qualche guerra? Be’, in realtà non c’era una risposta semplice a questa domanda.
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«Usa il tuo dannato shampoo,» dissi a Kevin, inginocchiandomi di fronte al mio armadietto alla ricerca di biancheria pulita. Kevin si avvicinò a me e iniziò a cercare nel mio armadietto da solo. Potevo sentire il calore del suo corpo, ma questo non aiutava a farmi passare i brividi. «Andiamo,» disse. «Dove lo tieni? So che ne hai un po’. Hai sempre lo shampoo, come hai sempre mutande pulite di ricambio.» Avevo appena trovato i boxer, ed ero tentato di non dare a Kevin la soddisfazione di sapere che aveva ragione su di me, ma avevo freddo ed ero stanco di essere esposto. Mi sedetti sulla panca, infilai le gambe dentro l’elastico della biancheria intima, poi la tirai su. Frugai nel mio zaino alla ricerca dello shampoo e glielo porsi. «Tieni,» dissi. «Ma ridammelo quando hai finito.» Kevin era longilineo, muscoloso e scuro di carnagione, con le basette perfette e l’ombra della barba che iniziava a ricrescergli già alle dieci del mattino. Ma più importante, anche lui era nudo, e all’improvviso mi sembrò non ci fosse altro da guardare nello spogliatoio a parte il suo pacco. Distolsi lo sguardo, ma era come un campo minato - i corpi di Leon e Brad e Jarred e Ramone, e degli altri ragazzi della classe sembravano uno di quei cataloghi di intimo dal vivo. Okay, forse c’era una risposta semplice al perché mi sentivo fuori posto in quello spogliatoio. Mi piacevano i ragazzi. Vederli nudi, intendo. Ma – e questo vorrei sottolinearlo - mi piaceva vederli nudi su Internet; non avevo alcun interesse a vedere nudi, di persona, questi particolari ragazzi nello spogliatoio della mia scuola alla fine della terza ora. Non ero mai stato nudo con un ragazzo – intendo per fare sesso - e non prevedevo 5
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di trovarmi in una situazione simile a breve. Ma il fatto che mi sarebbe piaciuto stare nudo con un ragazzo per fare sesso era una cosa che Kevin e Leon e Brad e Jarred e Romone non avrebbero mai potuto capire. Non ero lo studente più popolare della Scuola Superiore Robert L. Goodkind, ma neanche un emarginato. (Kevin Land almeno mi parlava, anche se solo per chiedermi lo shampoo). Ma un modo sicuro per diventare il ragazzo meno popolare della scuola era far pensare alla gente che potessi essere gay. E non essere gay non era solo evitare di avere un’erezione sotto le docce. Era un intricato modo di rapportarsi con gli altri ragazzi, con disinvoltura, senza sforzarsi, come a dire “Sono uno di voi. Sono a mio agio qui”. Anche se non ero uno di loro, e non ero a mio agio, ma loro non avevano bisogno di saperlo. Kevin prese lo shampoo, e io di proposito gli voltai le spalle, infilandomi goffamente nei jeans. «Ehi, Middlebrook!» Mi disse Kevin. «Bel culo!» Leon e Brad e Jarred e Ramone risero. Bella battuta, non proprio una cattiveria, ma andò a segno. Una piccola parte di me si chiese, ho davvero un bel culo? Accidenti, non lo sapevo. Ma una parte molto più grande di me si tese come la corda di un violino, perché sapevo che era un test, il genere di cose con cui i soldati nemici nei film mettono alla prova l’eroe che sospettano non essere uno di loro. E da un ragazzo a cui avevo appena prestato lo shampoo, oltretutto. Alla faccia della gratitudine. Adesso tutto dipendeva dalla mia reazione. Avrei passato l’ultimo test di Kevin Land sulla mia mascolinità? Mi voltai verso Kevin, che ancora rideva. Nel suo basso ventre tremolava tutto, ma ovviamente non guardai lì. 6
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Invece, mi chinai in avanti, sporgendo il sedere nella sua direzione. «Lo pensi davvero?» Dissi, sculettando. «Middlebrook!» Disse Kevin, tutto denti e barba e fossette. «Sei proprio un frocio!» Missione compiuta, pensai. La mia copertura era ancora in piedi - almeno per un altro giorno. Dopo aver finito di rivestirmi, incontrai i miei amici Gunnar e Min per pranzo al nostro solito tavolo nella mensa della scuola. «La vernice si sta staccando dal soffitto nella classe del professor Wick,» disse Gunnar mentre iniziavamo a mangiare. «A volte i pezzi cadono sul mio banco.» Gunnar e io eravamo amici da sempre, o almeno dalla quarta elementare, quando la sua famiglia si trasferì dalla Norvegia nel mio quartiere. Avevo sempre pensato che avrebbe dovuto essere orgoglioso di venire da un posto diverso, ma gli altri bambini lo avevano preso in giro per il suo accento e il suo nome (lo chiamavano “Goony” o “Gunner”), cosi lui aveva fatto di tutto per ignorare le proprie origini. Gunnar era un bravo ragazzo e un amico fedele, ma - e questo era difficile da ammettere, proprio perché era un amico e tutto il resto- anche un po’ troppo sensibile. «È una scuola vecchia,» disse Min. «Il soffitto ci cadrà in testa uno di questi giorni.» Min era la secchiona della scuola. (Era anche asiatica, che è una specie di stereotipo, no?) Ma a differenza di Shelly Vorhaus, l’altra secchiona della scuola, Min aveva più di due magliette e sì truccava. In altre parole, Min e Gunnar erano come me, visitatori occasionali dei territori al confine della rispettabilità delle scuole superiori.
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«Tu non capisci,» disse Gunnar a Min. «E se fosse vernice al piombo? L’hai detto anche tu: è un edificio vecchio.» «Vernice al piombo?» Dissi. «Lo sai - del tipo che causa danni cerebrali se la ingerisci?» Gunnar potrebbe essere anche un po’ ipocondriaco o qualcosa del genere. «E se anche fosse?» Disse Min. «Non la stai mangiando, vero?» «Ingerire non vuol dire solo mangiare qualcosa.,» disse Gunnar. «Potrebbe essere sufficiente respirarla. La maggior parte delle persone non lo sa.» Aveva ragione; io non lo sapevo. Ma se non lo sapeva neanche Min, non poteva essere tanto grave. Mi piacevano Min e Gunnar. Avevamo un sacco di cose in comune, e quasi sempre, ero a mio agio con loro. Però non potevo fare a meno di immaginare come avrebbero reagito venendo a conoscenza del mio piccolo segreto – intendo, che mi piacevano i ragazzi. Dubitavo che sarebbero scappati via gridando dalla stanza. Ma erano i miei migliori amici, e non volevo metterli nella posizione di dovermi accettare per forza. Per questo non gli avevo mai detto nulla. Ma questo era anche il motivo per cui non ero mai completamente rilassato nemmeno con loro. All’improvviso, un silenzio di tomba calò sulla mensa. Min, Gunnar e io ci girammo per vedere cosa avesse causato quella calma innaturale. Brian Bund, un ragazzo del secondo anno, era seduto da solo a un tavolo nell’angolo più lontano della sala mensa. Qualcuno gli aveva lanciato addosso una grossa cucchiaiata di chili, che gli si era spiaccicato sul retro della maglietta bianca, schizzando da tutte le parti. 8
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Non appena compreso cosa fosse successo, le persone nella mensa scoppiarono a ridere. Mi guardai intorno, di solito c’erano uno o due inservienti in giro per pulire i tavoli o caricare il distributore di tovagliolini, ma in quel momento non c’erano adulti nella sala. Quasi tutti ridevano di Brian, ma quelli dalla squadra di baseball, seduti due tavoli più in là rispetto a lui, ridevano più forte di tutti. Ero certo che il proiettile al peperoncino fosse opera loro. Tutta la sala mensa rimase a guardare quando Jarred Gasner lanciò un cucchiaio di budino al cioccolato contro la maglietta di Brian. Nate Klane, invece, usò il gelato alla vaniglia. Kevin Land, sghignazzava assieme agli altri atleti senza tirare nulla, ma ero certo che fosse stato lui a cominciare tutto con la salsa piccante. Non si poteva dire che i membri della squadra di baseball non si impegnassero in quello che facevano, alla fine, riuscirono a ricoprire di cibo l’intera maglietta di Brian su fino ai capelli. A questo punto, la mensa era sommersa di risate. Arrivavano da ogni angolo. Dalle cheerleaders al tavolo delle cheerleaders, dai drogati al tavolo dei drogati, dalle componenti della squadra di calcio femminile, dal gruppo di teatro, dai fanatici cristiani, dall’orchestra, dai nerd, ognuno al proprio tavolo a ridere a crepapelle. (Per la cronaca Min, Gunnar e io formavamo una specie di tavolo dei secchioni e nessuno di noi rideva.) Non mi sorpresi di quella scena. Brian Bund era l’emarginato per eccellenza della scuola. Gli atleti lo prendevano in giro senza pietà, e quasi tutti gli altri stavano a guardare e a ridere mentre accadeva. Forse, Brian sarebbe diventato uno di quegli studenti che finita la scuola fondavano società da miliardi di dollari. Ma in questo momento raschiava il fondo della gerarchia scolastica, e tutti i miliardi futuri che un giorno avrebbe 9
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potuto guadagnare non sarebbero bastati a convincermi ad avvicinarmi a lui per un secondo. Mi piacerebbe poter dire che, dopo aver visto quello che gli avevano fatto, misi fine alla sua umiliazione alzandomi in piedi e facendo qualche battuta per sviare da lui l’attenzione. E se questo fosse un film sulla mia vita, avrei fatto esattamente così, sarebbe stato un ottimo modo per presentarmi come un ragazzo coraggioso e simpatico. Ma questo non era un film, e il solo pubblico presente erano gli altri studenti della mensa, quindi rimasi seduto come gli altri. E in ogni caso non avrebbe fatto differenza. Niente di ciò che avrei potuto dire li avrebbe fatti smettere di maltrattare Brian. Anzi, quelli della squadra di baseball avrebbero iniziato ad insultare anche me, e la prima cosa che avevo imparato alle lezioni di pronto soccorso era di stare attenti quando ci si avvicinava una persona che annegava - perché avrebbe potuto tirarti giù con lei. «Cosa sta succedendo?» La voce di un inserviente frustrato della mensa spezzò la confusione. Il cibo smise di volare, ma le risate non si fermarono. Brian rimase seduto per un secondo, con la maglietta macchiata di salsa, gelato e budino. Poi si alzò e pezzi di cibo iniziarono a colare sul pavimento. Brian si girò e si guardò attorno nella mensa con una tale miscela di smarrimento e tristezza negli occhi che sentii una profonda fitta di vergogna allo stomaco, anche se facevo parte della quindicina di persone che non ridevano di lui. Incredibilmente, andò a svuotare gli avanzi di cibo del suo vassoio nel bidone della spazzatura. Chi non riuscì a vedere la dignità che mantenne nell’ordinare le sue posate sporche, non aveva proprio idea di cosa fosse la dignità. In ogni caso, la maggior parte dei ragazzi nella mensa non fecero altro che ridere ancora più forte. 10
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«Avete visto questo posto?» Disse l’inserviente frustrato, indicando il disastro dove era stato seduto Brian. «Chi pulirà qui? Eh? Chi?» L’inserviente sì rivolse a Brian, il che era davvero ironico. Dava la colpa alla vittima. Gunnar, Min e io tornammo a guardare verso il nostro tavolo, senza dire una parola. Non ero sicuro di quello a cui pensavano. Sapevo che come me trovavano terribile il modo in cui tutti trattavano Brian Bund. Ma diciamoci la verità, lui era un tipo strano, aveva l’acne e puzzava. E per Gunnar e Min, probabilmente Brian era talmente diverso da essere considerato come di un’altra specie. In pratica, ti importa se qualcuno investe un cane, stai male per il povero animale, ma non tanto quanto staresti male per un essere umano. Brian non sembrava tanto diverso da me. Perché sapevo che era così che la gente mi avrebbe trattato sapendo la verità sul mio conto. E questo mi terrorizzò, ero certo che non sarei riuscito a gestire da solo una situazione del genere. Quella sera nella mia camera, mi collegai a Internet. Ho detto che non ero mai stato nudo davanti ad un altro ragazzo prima, ma era possibile che un paio di volte mi fossi collegato a una chat gay e forse anche spostato in una stanza privata con un ragazzo o due. Rifiuto di dire altro su questo argomento perché potrebbe essere usato contro di me, ma dirò che la maggior parte del tempo che avevo passato lì era stato a parlare di cose innocenti, tipo da quanto tempo sapevo di essere gay o quale attore trovavo carino. Il fatto era, che c’era differenza tra l’essere soli e il sentirsi soli. Infatti io non ero completamente solo ma era proprio così che mi sentivo. La mia missione segreta - sopravvivere a quat11
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tro anni di scuola superiore - inevitabilmente mi teneva lontano da tutti, e in quel momento non desideravo altro che trovarmi da qualche altra parte, dove poter essere onesto su chi fossi e su cosa volessi. Io avrei avuto molto da dire al riguardo, ma non potevo parlarne con i miei amici, e sicuramente non potevo farlo con i miei genitori (non fatemici pensare). Internet mi forniva qualcuno con cui parlarne, il problema era che non erano persone reali. Quella notte, visitai uno dei miei soliti ritrovi. Fra le varie opzioni - “Studenti Universitari”, “Bisessuali”, “Fanatici della politica”, etc. – c’erano una serie di stanze classificate per posizione geografica. In altre parole, se si voleva parlare con una persona gay a Boise, Idaho, c’era una stanza chiamata “Boise, Idaho”. Continuai a scorrere i nomi verso il fondo dello schermo, fino ad arrivare a una stanza con il nome della mia città. Non esisteva prima – l’avevano appena creata – ne fui sorpreso. La mia città era piuttosto piccola, e non pensavo che ci fossero altre persone gay. Certo aveva senso - i nostri vicini di casa e amici potrebbero essere gay, il dieci per cento della popolazione è gay …e via dicendo. Ma fino a quel momento comunque avevo supposto che nella realtà i gay vivessero solo in città come New York o San Francisco. Però, se c’erano persone gay a Boise, Idaho, non c’era motivo per cui non ce ne potessero essere anche nella mia città. Entrai nella chat room con più entusiasmo del solito. C’era solo un’altra persona nella stanza, anche questo per me aveva senso, probabilmente era l’unico altro gay della città. Si faceva chiamare “GayTeen”, non era molto originale. Il mio soprannome invece era “Smuggler”, ma non posso spiegarlo per nessun motivo. 12
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Ciao, Scrissi. Come va? Rispose. Non era esattamente una conversazione stimolante. Però ero disperato, lo ammetto. Anni? Gli chiesi. 16, Scrisse. Certo, non potevo sapere se quello che mi aveva detto fosse vero - questa era la parte brutta di internet, o quella bella a seconda di come si vede la cosa. D’altro canto, se si fosse rivelato un vecchio bavoso in cerca di sesso virtuale, la cosa sarebbe stata subito chiara e avrei potuto semplicemente uscire dalla stanza. Quindi gli chiesi se davvero vivesse nella mia città. Certo, Scrisse. In che scuola vai? Lo stavo mettendo alla prova, c’erano solo tre scuole superiori nella zona e se davvero viveva nei dintorni doveva per forza conoscerle. Lo schermo rimase vuoto per un secondo, GayTeen ci stava pensando. Poi apparve una parola. Goodkind. Non me lo aspettavo, era la mia scuola! Accettavo che ci fossero altre persone gay nella mia città, anche altri studenti delle superiori. Ma non credevo che ce ne fosse uno proprio nella mia scuola! Di nuovo, sapevo che non era impossibile ma avevo creduto di essere solo così a lungo, che non mi era mai passato per la testa che forse non doveva essere per forza così. Era qualcuno che conoscevo? Che anno? Chiesi. Terzo, Scrisse. Tu?
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Anche io, Scrissi. Beh, aveva tutta la mia attenzione in quel momento. Conoscevo tutti quelli del mio anno, almeno per nome. Chiunque fosse, lo conoscevo. Chattammo ancora per qualche minuto, soprattutto di professori e di quello che serviva la mensa. Non potevo negare che fosse qualcuno della mia scuola, sapeva troppe cose. Alla fine, la mia curiosità ebbe la meglio. Chi sei? Scrissi. Qual è il tuo vero nome? Volevo saperlo. Lo schermo rimase vuoto, GayTeen non rispondeva. Ci sei ancora? Sono qui, Scrisse lui. Tu chi sei? Dimmelo prima tu. Improvvisamente mi resi conto del problema. Se avessi detto a GayTeen chi ero, non avevo garanzie che poi lui avrebbe fatto lo stesso con me. E se non lo avesse fatto, avrebbe potuto dire di me alla gente. O potevo essere io a fare lo stesso con lui. Potevamo promettere di scrivere i nostri nomi nello stesso momento, ma chi ci garantiva che poi lo avremmo fatto davvero? No, non potevamo rivelarci su internet, la posta in gioco era troppo alta. Una parola apparve sul mio schermo. Incontriamoci, Scrisse. Era la soluzione più logica. L’unico modo per non correre rischi. Lui avrebbe saputo chi ero, ma anche io avrei saputo chi era lui. Se parlava di me, io avrei parlato di lui - distruzione reciproca assicurata. C’erano meno rischi, ma non era comunque sicuro al cento per cento. Non avevo mai incontrato un’altra persona gay prima. Aveva senso che il primo fosse proprio qualcuno della mia classe? Dopo tutta la fatica che avevo fatto in quegli anni 14
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per nascondere la mia vera identità, come potevo anche solo considerare l’idea di rivelarmi a qualcuno che mi conosceva. Non l’avevo ancora detto neppure a Min e Gunnar. Quei pensieri confusi affollarono la mia mente tutti insieme, ma nonostante tutto le mie dita stavano già digitando una risposta. Talmente veloci che inciampavano sulla tastiera. Era una un’unica parola: Dove? Era già buio quando arrivai al parco dove avevamo deciso di incontrarci. Scesi dalla bici e mi guardai attorno, senza vedere nessuno. Non c’erano auto nel parcheggio. L’aria era fresca e umida e avevo i brividi sotto la giacca pesante, non solo per il freddo. Poi lo vidi. C’era un gazebo per i pic-nic sul lato opposto del parco, al confine con una zona paludosa. Sotto il gazebo, una figura curva sedeva su uno dei tavoli. Appena io notai lui, lui notò me. Scese dal tavolo e fece un passo in avanti, rimanendo nell’ombra, ma guardando verso di me. La luce della luna non era abbastanza forte, quindi non riuscivo a vederlo chiaramente e lui non poteva vedere bene me. In pratica, avrei potuto ancora tornare indietro. Avrei potuto risalire sulla mia bici, e schizzare via, e non avrebbe mai saputo chi ero. Però non avevo intenzione di farlo, mi ero già spinto troppo oltre. Iniziai ad attraversare il parco, aveva piovuto molto ultimamente e l’erba era fradicia. Le mie scarpe da tennis sprofondavano nel fango e l’acqua fredda iniziò a bagnarmi le calze. Chi c’era sotto il gazebo? La corporatura era sicuramente quella di uno studente delle superiori, ma chi? E se fosse stato Gunnar? No, probabilmente era Brian Bund. Cosa avrei fatto in 15
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quel caso? Non avrei potuto semplicemente voltargli le spalle e andare via. Sorpassai un parco giochi per bambini - due serie di barre di metallo arrugginito. Una a forma di treno e una di tepee, in mezzo a un quadrato di sabbia. Il ragazzo sotto il gazebo non fece nessun movimento verso di me, ma non indietreggiò neanche, stava semplicemente fermo a guardarmi, immerso nell’ombra. L’unica cosa più melodrammatica sarebbe stato vederlo fumare una sigaretta con indosso un soprabito scuro e il cappello calato sulla fronte a celare il viso. Questo era stupido. Avevo parlato con decine di adolescenti gay su internet. Avevo detto loro che ero gay. Qual era la differenza? Ma già mentre ci pensavo, sapevo bene qual era la differenza, ed era una differenza enorme. Questa volta era reale. Ero a meno di dieci metri dal gazebo adesso. La puzza della palude era davvero forte, non riuscivo ad immaginare nessuno che potesse scegliere quel posto per fare un pic-nic. Ancora qualche metro, e saremmo stati in grado di vederci chiaramente l’un l’altro. Stavo rischiando tutto, e non ero neanche sicuro del perché. Tutto quello che sapevo era che ero stato sotto copertura per troppo tempo. Finalmente, era arrivato il momento di uscire allo scoperto. Presi un respiro profondo, percorsi gli ultimi passi sull’erba bagnata, entrai nel gazebo, e mi ritrovai a fissare nel buio il volto ispido di Kevin Land.
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CAPITOLO DUE
Avevo commesso un errore. Ero nel gazebo sbagliato, nel parco sbagliato, probabilmente avevo anche sbagliato notte. «Kevin?» Dissi. «Cosa ci fai qui?» Kevin, nel frattempo, sembrava sorpreso di vedermi quanto me. «Russel?» Disse. «Niente! Tu cosa ci fai qui?» Non c’era dubbio - Kevin era nervoso. «Stavo facendo un giro in bici,» dissi, guardandomi attorno. Adesso io ero nervoso. Sapevo di non essere nel gazebo sbagliato o al momento sbagliato. Semplicemente “GayTeen” non era ancora arrivato. Ma cosa sarebbe successo se si fosse presento in quel momento? Se era uno studente del Goodkind sicuramente anche lui conosceva Kevin. Avrebbe potuto dirgli qualcosa su di me. «Davvero?» Disse Kevin, a voce alta. «Be’, io stavo facendo una passeggiata!» E senza aggiungere altro, iniziò ad allontanarsi. In quel momento finalmente capii – Accidenti! – Kevin era la persona che dovevo incontrare. Non mi era mai passato per la mente che Kevin Land – Kevin Land! – Potesse essere gay, nemmeno dopo averlo trovato nel punto esatto in cui avevo organizzato l’incontro con un altro ragazzo gay della mia scuola. 17
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«GayTeen,» Dissi a Kevin. Non era una domanda. Lui si fermò, dandomi le spalle. Ma non disse niente. Sembrava aver smesso anche di respirare. Finalmente, si girò, con la rabbia negli occhi. «Che diavolo vuoi dire? Mi stai dando del frocio, o cosa?» Se avessi avuto davanti il Kevin Land che conoscevo a scuola, il ragazzo spavaldo e sicuro di sé negli spogliatoi dopo l’ora di ginnastica, avrei ceduto. Ma non lo era. Era un Kevin Land completamente diverso, con le spalle curve e la voce insicura. E a differenza dell’altro Kevin, questo non aveva solo rabbia negli occhi, ma anche paura. «Kevin,» dissi. «Falla finita. Lo so che sei GayTeen.» I suoi occhi si fecero ancora più ampi, tanto che mi sembrava di potervi leggere dentro. Dovrei negarlo? Stava pensando. E anche, Dovrei provare a minacciarlo? «Rilassati,» dissi, stranamente tranquillo. «Non lo dirò a nessuno.» Prima di arrivare avevo avuto paura dei rischi di un incontro come quello, ma in quel momento conducevo io il gioco. Proprio così - Kevin avrebbe potuto mettere in giro delle voci su di me a scuola, avrebbe potuto dire a tutti che ero gay. Ma anche io avrei potuto farlo e diciamoci la verità, io ero solo Russel Middlebrook. Lui invece era Kevin Land, un giocatore titolare della squadra di baseball. Sicuramente aveva molto più di me da perdere. Alla fine, Kevin sospirò, sconfitto. Il suo intero corpo sembrò afflosciarsi. Si riavvicinò a me, ma senza guardarmi negli occhi. 18
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«Quindi Kevin Land è gay,» dissi. Ci provai, ma non riuscii a trattenere un sorriso compiaciuto. Dopo anni di prese in giro da parte Kevin e ragazzi come lui, era divertente essere in una posizione di forza per una volta. «Shhh!» disse Kevin, la sua voce riecheggiò nel parco vuoto. «E comunque, non lo so che cosa sono.» «Guardi ragazzi nudi su internet?» Esitò. «A volte.» «Allora sei gay. Qual è il problema?» Mi stavo godendo la situazione davvero troppo, ma ancora non riuscivo a fermarmi. «Il problema,» disse Kevin, «è che nessuno a scuola sa di me! E nessuno deve saperlo! Se sapessero che faccio certe cose con i ragazzi…!» «Hai fatto sesso con un ragazzo?» Non avevo previsto una cosa simile. Gay, si - sessualmente attivo, no. «Forse,» Disse Kevin. Alzò gli occhi, fino a incontrare il mio sguardo, ma questa volta lo distolsi subito io. La prossima domanda che logicamente mi avrebbe fatto era se anche io avessi già fatto sesso con un ragazzo. Non l’avevo fatto, e sicuramente non volevo dirglielo, quindi mi ritrovai ad avere disperatamente bisogno di cambiare argomento. «Chi farebbe un pic-nic in un posto come questo?» Dissi, adesso era la mia voce ad essere fin troppo acuta. «Voglio dire, c’è puzza! Non credi che questa palude puzzi?» Kevin lesse dentro di me come su un libro aperto. «Mai fatto sesso, vero?» Ecco di nuovo il vecchio Kevin Land, quello con il sorriso e lo sguardo arroganti. 19
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«Beh,» dissi, «non con un ragazzo.» Feci molta attenzione alle parole. Non stavo dicendo che avevo fatto sesso con una ragazza, perché non l’avevo fatto. Ma formulai la frase in modo che Kevin pensasse che lo avevo fatto. Brillante, eh? «Non importa,» disse Kevin, il sorriso scomparve dal suo viso velocemente com’era apparso. Dovevo dargliene atto, avrebbe potuto mettermi a disagio come avevo fatto io, e invece non ci provò neanche. «Quindi ora sappiamo l’uno dell’altro,» dissi. «E adesso?» Avevo un paio di idee, ma non volevo essere io a suggerirle. «Non lo so,» disse Kevin. «Potremmo parlare.» «Okay. Parliamo.» E sapete? È proprio quello che abbiamo fatto.
Il giorno dopo a scuola, Kevin Land non mi ignorò. Se stessi leggendo questa storia, penserei questo, e invece no. Mi salutò all’ingresso e parlò con me in palestra. Non in modo super amichevole, ma se lo avesse fatto, gli altri lo avrebbero notato, e nessuno di noi due voleva che accadesse. In quel gazebo freddo e puzzolente la sera prima, io e Kevin avevamo parlato per più di un’ora. Mi aveva raccontato di come si sentisse a disagio fra i suoi amici, e del fatto che il suo atteggiamento da macho fosse solo per assicurarsi che nessuno dubitasse della sua sessualità. All’inizio, mi era sembrato come se Babbo Natale mi stesse dicendo che era allergico alle renne, ma Kevin mi era sembrato sincero, cosi gli avevo dato il beneficio del dubbio. Io invece gli avevo raccontato di quanto mi sentissi fuori posto pratica20
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mente ovunque, ma avevo lasciato da parte la storia della solitudine, perché mi era sembrata troppo melodrammatica. Avevamo deciso di rivederci per parlare ancora. Ed ero davvero felice di farlo. Per la prima volta nella mia vita, (a) ero amico di uno dei ragazzi più popolari della scuola, e (b) di un vero ragazzo gay. E incredibilmente, erano la stessa persona. Questo doveva essere uno di quegli ironici colpi di scena di cui blaterava sempre l’insegnante di inglese. Quel pomeriggio finita la scuola, incontrai Gunnar al parcheggiò delle bici. Visto che vivevamo nello stesso isolato, spesso rientravamo a casa insieme, parlando per tutto il tragitto. Ma quel giorno mi girava la testa. Pensavo a Kevin, a tutto quello di cui avevamo discusso la sera prima, e forse anche un po’ a quando l’avevo visto nudo negli spogliatoi. Naturalmente, non parlai di queste cose a Gunnar. Comunque, anche lui sembrava avere altro per la testa. «Credo che il professor Kruger tenga volutamente le luci più basse nella sua aula per tenerci calmi e assonnati,» disse Gunnar. Poco dopo, raggiungemmo la base di una salita che avremmo dovuto superare per arrivare a casa. Arrivando a scuola la mattina, mi piaceva quel dislivello, perché lo percorrevo in discesa e visto che di solito ero in ritardo mi aiutava, ma il pomeriggio, ragazzi, odiavo questa salita. «Vorrei una fidanzata,» disse Gunnar di punto in bianco, proprio mentre iniziavamo a pedalare faticosamente per superare l’ultimo tratto. Questo non mi sorprese, Gunnar voleva 21
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una ragazza fin da quando lo conoscevo. «Una fidanzata o un cane», aggiunse. «Un Cane?» Dissi, confuso. «Cosa centra un cane con una fidanzata?» Il cervello di Gunnar era come un gomitolo di lana gigante; alla fine tutto era collegato, ma era impossibile capire esattamente come. E questa in realtà era una delle cose che più mi piacevano di lui. Gunnar sospirò. «Ogni ragazzo popolare che conosco ha una ragazza o un cane. A volte entrambe le cose. Ma il meglio che potrei desiderare è una ragazza che è un cane.» «Non vuoi un cane», dissi. «Passano la metà del tempo a pulirsi il culo, e puzzano comunque.» «Va bene, dimentica il cane. Ma voglio una fidanzata!» Gunnar era senza fiato, e solo in parte per la salita. «Perché vorrebbe dire che non sei un perdente.» «Esatto! Non negarlo, perché sai che è vero.» «È un po’ rozza come idea,» dissi. «E se la ragazza scopre che la stai usando per essere popolare?» «Scherzi? Le ragazze lo sanno. Per loro è anche peggio, non hanno un cane su cui ripiegare.» Anche se ero quasi sicuro che Gunnar scherzasse, non potevo esserne certo. Però sapevo che era serio quando parlava del vantaggio che gli avrebbe dato avere una ragazza. E per essere franchi, aveva ragione sulla connessione fra l’avere una fidanzata e lo status. Ed era giusto che volesse scalare qualche gradino della scala sociale. Gunnar non era certo Brian Bund, ma c’era pericolosamente vicino. 22
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«Allora,» disse Gunnar una volta arrivati in cima alla collina. «Mi aiuterai?» «A fare cosa?» Dissi. Adesso eravamo entrambi senza fiato. «A trovare una ragazza!» «Perché io?» «Non lo so, sembri a tuo agio con le ragazze.» Questo era vero. Erano i Kevin Land nudi del mondo che mi mettevano in soggezione. Come mai tutto il pianeta non avesse da tempo concluso che fossi gay era una cosa che sinceramente non capivo. «Che ne pensi di Min?» Dissi. «Cosa ne penso?» «Voglio dire come fidanzata.» «Troppo perspicace.» Non sottolineai l’ovvietà - chi usava parole come “perspicace” sembrava proprio perfetto per Min. Stavamo discendendo l’altro versante della collina. Avevo sempre amato la vista su quel lato della baia, con il vento che mi soffiava sul viso. «Allora mi aiuterai?» Disse Gunnar. «Aiutarti a fare cosa?» «A trovare una ragazza!» «Certo,» dissi. «Tutto quello che posso.» Questa era una promessa facile da fare. Gunnar stava cercando una ragazza da sempre, e non ci si era mai avvicinato neppure lontanamente.
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Morivo dalla voglia di raccontare a qualcuno di Kevin. Questo mi potrebbe far sembrare un idiota, lo so, ma cosa potevo farci? Al cuore non si comanda e il mio cuore voleva fare cose sconce con Kevin Land. Non volevo dirlo a tutta la scuola. Mi bastava una singola persona con cui parlarne a voce alta – tanto per essere sicuro di non aver immaginando tutto. Il problema era che, per dire a qualcuno di Kevin, avrei dovuto prima dirgli di me. Quindi doveva essere qualcuno di cui mi fidavo ciecamente. Gunnar era escluso, non ero sicuro della sua reazione. Questo lasciava in campo solo Min. Sapevo di aver già deciso di non dirle niente su di me, ma incontrare Kevin Land mi aveva fatto cambiare idea. Quel sabato pomeriggio, Min e io ci incontrammo a casa sua, per giocare una partita a Wiz War nella sua camera da letto. Tenevamo il punteggio sulla prima pagina ripiegata del Goodkind Gazette, il giornale della scuola. Ero sorpreso che Min ne avesse una copia visto che nessuno leggeva mai il Goodkind Gazette. Stavo vincendo la partita ma non davo nulla per scontato, Wiz War era quel tipo di gioco in cui quando pensavi che il risultato fosse scontato, l’altro giocatore pescava una carta che da sola poteva cambiare tutto. «Allora,» dissi, fingendo di studiare le mie carte, in realtà stavo pensando a quello che avrei dovuto dirle. «Cosa ne pensi dei pettegolezzi?» «Hmm?» Disse Min, a mala pena mi ascoltava, fissava il tabellone come se avesse potuto cambiarne il risultato con la sola forza di volontà. «Pettegolezzi,» dissi. «Ho scoperto una cosa interessante su qualcuno della nostra scuola.» 24
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Mise giù una carta. «Ti ho colpito con una palla di fuoco.» Fissai le pedine sul tabellone. «Non puoi lanciare una palla di fuoco, c’è un ostacolo sulla tua linea di tiro.» Sorrise e mise giù una seconda carta. «Ultra-Vista,» disse. «Posso vedere attraverso i muri.» Contrattaccai alla sua palla di fuoco con una delle mie carte di difesa ma la sua ‘Ultra-Vista’ era riutilizzabile e questo non era un bene per me. «Allora,» disse Min. «Cos’è questo pettegolezzo?» Ora che il gioco volgeva a suo favore il suo umore migliorava a vista d’occhio. A Min non piaceva perdere, e fortunatamente per lei accadeva raramente. «Oh,» dissi. «Quello.» Studiai le mie carte per davvero adesso, poi giocai un incantesimo stordente - che Min contrastò rapidamente. «Forza,» disse lei. «Sputa il rospo.» «È su Kevin Land.» «Cosa hai scoperto su di lui?» Giocò una carta ‘Bomba d’Acqua’ che respinsi. «Cosa diresti se ti dicessi che Kevin Land è gay?» Min inarcò un sopracciglio. «Direi che è interessante. Ma come fai a saperlo?» Era il momento della verità. Anziché incontrare il suo sguardo, mi concentrai sul gioco spostando il mio mago il più lontano possibile dal suo.
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«L’ho incontrato su una chat room gay,» dissi piano. «Non sapevamo uno dell’altro fino a quando abbiamo deciso di incontrarci. Non so chi è stato più sorpreso, se lui o io.» Min mi fissò, assolutamente congelata. Neanche le sue pupille si muovevano. Guardai di nuovo il tabellone. «So a cosa stai pensando,» dissi, armeggiando con i punti nel triangolo della morte. «Stai pensando: Cosa ci facevo in una chat room gay?» Min non disse nulla, ma non era stupida. Capiva benissimo quello che le stavo dicendo. Poggiai sul tabellone una delle mie ultime carte d’attacco – una delle poche carte d’attacco che non richiedono una linea di tiro diretta. «Contrasta questa!» Dissi. Min iniziò a ridere. «Cosa c’è?» Dissi. «Che c’è di così divertente?» Ma lei si limitò a ridere ancora più forte. Dopo un po’, sembrava che le stesse per esplodere una vena sul collo. «Min,» dissi. «Non è divertente.» Questa non era la reazione che mi aspettavo. A dire il vero, mi stavo arrabbiando. «Non è per te,» disse Min, riprendendosi, e asciugando una lacrima. «Non stavo ridendo di te.» «Allora cosa?» «Conosci Terese Buckman?» «Quella che gioca a calcio?» Dissi. Frequentava la nostra scuola, ma la conoscevo a malapena. Min annuì. «Cosa diresti se ti dicessi che è lesbica?» 26
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«Davvero? Wow.» Non potevo dire di esserne stato proprio sorpreso. Era molto mascolina. Comunque, questo significava che c’erano tre studenti gay nella mia scuola - esattamente due in più di quanti immaginassi. Min trasse un respiro profondo, lo trattenne, poi espirò. «E cosa diresti, se ti dicessi che è mia amica?» «Lo so che è tua amica. Dal campo estivo.» «No,» Disse Min, improvvisamente molto seria. «Voglio dire che è la mia fidanzata.» Ora Min non mi guardava negli occhi. Invece, iniziò a giocare una serie di carte, prima respinse il mio ultimo attacco, poi abbatté muri e aprì porte finché non rimase una sola parete a separarci. Poi giocò la carta ‘Morte Improvvisa’. Dal momento che mi aveva già costretto a usare la mia ultima carta di contrasto ero senza difese. Aveva vinto, ero morto. Alla fine, si decise a guardare di nuovo verso di me. «Allora?» «Sei gay?» «Veramente, penso che ‘bisessuale’ sia più accurato.» Mai, nemmeno in un milione di anni, avrei immaginato che Min fosse bisessuale. Eppure, ora che me lo aveva detto tutto aveva perfettamente senso. In qualche modo, questo spiegava ogni cosa, dalla sua estrema razionalità all’esagerato perfezionismo. Iniziai a ridere e non riuscii più a smettere. Quasi nello stesso momento ricominciò anche lei. Ben presto ci ritrovammo entrambi a rotolare sul pavimento della sua camera a schiamazzare come animali da cortile.
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Va bene, questo era troppo strano. Tutta la scuola era segretamente gay o cosa?
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CAPITOLO TRE
La notte successiva, mandai una Mail a Kevin e gli chiesi di incontrarci al gazebo puzzolente. «Che c’è?» Disse quando arrivai. Era la mia immaginazione, o sembrava felice di vedermi? «Niente di ché,» dissi. Allora l’espressione di Kevin cambiò da felice di vedermi a impaziente che dicessi qualcos’altro – come se si aspettasse che avessi avuto un motivo preciso per chiedergli di incontrarci. Ma non ne avevo uno. Volevo solo parlare ancora un po’. «Ho appena scoperto che la mia amica, Min, ha una fidanzata,» dissi. «Terese Buckman, la conosci?» Non avevo in programma di dirgli questo, ma non riuscii a pensare ad altro, e comunque, Min mi aveva detto che potevo. «Min è una lesbicona, eh?». Disse Kevin. Kevin era gay, ma continuava comunque a comportarsi come uno stupido bulletto a volte. Vorrei poter dire che ce l’avevo con lui per questo, ma in realtà lo trovavo un po’ carino (okay, molto carino.) «Lei ha usato la parola ‘bisessuale’,» dissi. «E anche Buckman è una lecca passere? Non posso dire di essere sorpreso.» 29
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Non avevo mai saputo come comportarmi quando qualcuno diceva cose del genere. Una cosa era pensarle, tutt’altra dirle ad alta voce. «Tu hai amici gay?» Chiesi. Kevin scosse la testa. «Non che io sappia.» Nessuno dei due sapeva più cosa dire. Avevo sperato di parlare di Min e Terese più a lungo, ma la conversazione si era arenata subito. Così ora ce ne stavamo con le mani in tasca, a fissare l’erba. «Beh…» disse Kevin, come se pensasse di andarsene. «Dovremmo incontrarci!» Sbottai. «Eh?» Disse Kevin. «Chi?» «Min e Terese e tu e io! È di questo che volevo parlarti. Potremmo uscire insieme dopo la scuola. Mangiare una pizza o qualcosa del genere.» Questa era una bugia. Non avevo intenzione di dire a Kevin niente del genere, e neanche particolarmente voglia di uscire con Min e Terese. Ma stavo disperatamente cercando qualcosa – qualsiasi cosa! – da dire. Ma ora che l’avevo detto, non mi sembrava più un’idea tanto orribile. Se non altro, mi avrebbe dato la possibilità di passare più tempo assieme a Kevin. Sperai solo che non mi avrebbe messo in imbarazzo chiamandole “lecca passere” o cose del genere. «Oh…» Disse Kevin. Ci pensò per un secondo, come per calcolare le probabilità in una mano di poker. Ma alla fine, alzò lo sguardo verso di me e disse: «Va bene. Voglio dire, perché no? Non ho mai conosciuto nessuna lesbica prima.»
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Ognuno di noi voleva qualcosa di diverso sulla pizza. Era il mercoledì dopo le lezioni, e Kevin, Min, Terese e io ci incontrammo in una pizzeria poco distante dalla scuola. Ora che sapevo per certo che Terese era LESBICA (a lettere maiuscole), non mi sembrava più tanto evidente. Era bionda, e sì, aveva i capelli corti e, francamente, le spalle più larghe delle mie. Ma anche dei bei lineamenti e due grandi occhi azzurri davvero belli. Avrebbe potuto fare la modella. Terese aveva portato un suo amico, Ike, che ci aveva sussurrato essere «uno di noi,» per precisare che anche lui era gay. Ike era un ragazzo allampanato, tutto nervi, alto e snello con un esile pizzetto e una bandana sulla testa. Lo avevo visto qualche volta a scuola, ma non ci avevo mai parlato. Usciva con gli attivisti di sinistra – avevano organizzato una manifestazione per i diritti degli animali qualche mese prima. Ma adesso eravamo in questa minuscola pizzeria senza finestre, e i pavimenti di vinile arancione, e non riuscivamo a metterci d’accordo sulla pizza. Kevin e Terese ci volevano la carne, ma Kevin ci voleva la salsiccia e Terese la pancetta. Min e Ike erano vegetariani, ma ad Ike non piacevano i funghi e Min odiava le olive. Quanto a me, l’avrei voluta acciughe e carciofi, ma non provai nemmeno a suggerirla. Alla fine ci accordammo su una con i peperoni e una vegetariana senza funghi e olive. Poi ci sedemmo al tavolo più isolato della saletta, come spie che cospiravano per rovesciare il governo. Per i primi minuti, ognuno di noi parlò solo con le persone che conosceva meglio. Questo significava che io parlai per lo più con Min e Kevin, e Terese con Ike e Min. Era come il primo giorno di scuola, quando stavi lì a parlare solo con i tuoi amici,
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ma nello stesso tempo ti sentivi diverso rispetto a prima perché era come se ci fosse un non so che nell’aria, e tutti fossero in attesa che accadesse qualcosa di interessante o di importante. Ci portarono le pizze, e restammo fermi a fissarle in silenzio. Improvvisamente avvertii la delusione da parte di tutti, appena realizzammo che le pizze erano l’unica cosa che stavamo aspettando e che non c’era nient’altro di importante dietro l’angolo. Iniziammo a mangiare e ancora nessuno sembrava avere niente da dire, tranne cose tipo, «È buona,» oppure, «Mi passi un tovagliolo?» Era strano. Adesso che erano arrivate le pizze, sembrava che non fossimo più in grado di parlare a gruppi di due o tre. Per qualche motivo, ora potevamo parlare solo come un gruppo unito. Restammo ancora in silenzio. Ike si grattò il tatuaggio. Alla fine dissi: «Allora, eccoci qua.» Suonava stupido, lo sapevo, ma mi sembrava di dover dire qualcosa. Dopotutto, quella piccola riunione era stata una mia idea. «Già,» disse Min. «Eccoci qui.» Ovviamente anche lei sentiva di avere qualche responsabilità, visto che aveva invitato Terese, che a sua volta aveva portato Ike. Nessuno disse niente, e io ero particolarmente infastidito dal comportamento di Kevin, che continuava a ingurgitare pizza come un senzatetto alla mensa dei poveri. Si supponeva fosse mio amico. Poteva almeno cercare di non far morire questa cena in agonia? Poi lui raddrizzò la schiena e guardò verso Terese. «Voi ragazze avete una buona squadra quest’anno?» Va bene, pensai, forse non era così idiota dopo tutto. 32
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«È okay», rispose Terese. «Abbiamo perso due giocatrici anziane l’anno scorso, ma la maggior parte dei nostri talenti è del secondo anno. Mentre il nostro portiere è una matricola.» «Vorrei poter dire lo stesso», disse Kevin. «L’anno scorso abbiamo perso il lanciatore e la maggior parte dei battitori. Siamo disperati.» Terese sembrò voler aggiungere qualcosa, ma poi si rese conto che nessun altro parlava. E come ho detto prima, all’improvviso sembrava che di qualsiasi cosa parlassimo avremmo dovuto parlarne insieme. Quindi tacque. Pensai: È il nostro massimo dallo sport come argomento di conversazione. Ike fissava la pizza. «Sapete che modificano geneticamente i pomodori?» Disse. «Volevano farli più rossi e ha funzionato ma sono diventati anche molto più piccoli. E ora ci sono pomodori che possano crescere anche nell’acqua salata.» «Oh!» Disse Min. «Come quando hanno preso i geni di una platessa e li hanno inseriti nelle piante di fragole, per renderle immuni al gelo?» Ike annuì eccitato. «Ho sentito che in qualche modo hanno incrociato una capra con un ragno.» «C’è una barzelletta su una cosa simile,» dissi sorridendo. «Qualcosa su Rosetta spaventata da un ragno mentre munge il latte della sua capretta.» Stavo cercando di essere divertente, ma nessuno rise eccetto Min, che ridacchiò un po’. Ike non sorrise neanche, e decisi che non mi stava molto simpatico. Poi lo vedi sbirciare verso Kevin, e indugiare a fissarlo. Pensai: Perché sta guardando Kevin? Eravamo stati io e Min a parlare non con lui. Allora capii il vero motivo per cui non mi piaceva Ike: a lui piaceva Kevin. 33
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«Sapete cos’altro fanno?» Stava dicendo Ike. «Modificano i geni delle piante in modo che non producano più i semi, poi vendono i semi di quelle piante a basso costo. In questo modo gli agricoltori sono indotti a continuare a comprare i semi da loro, anno dopo anno. Poi, quando li hanno in pugno iniziano ad alzare i prezzi.» Questa volta, fu Min che sembrò voler aggiungere qualcosa. Ma come Terese poco prima, si accorse che la maggior parte di noi non era particolarmente interessata all’argomento, quindi non disse nulla. Il nostro anche massimo dalla politica. Eccoci qui, a metà della pizza, e fu chiaro che come gruppo non avevamo proprio niente in comune. Eravamo solo cinque persone prese a caso. Avremmo dovuto piacerci solo perché eravamo tutti gay? Era stupido. Ridicolo. «Siamo tutti soli,» dissi. Restammo tutti in silenzio per un secondo. Poi Terese disse: «Amico, hai ragione.» «Certo non ne possiamo parlare a casa,» disse Kevin. «Mio padre andrebbe fuori di testa.» «Anche il mio,» disse Min. «Non sono nemmeno sicura che mia madre sappia cosa vuol dire la parola ‘gay’. A anche se riesco a farglielo capire poi come faccio a spiegarle cos’è un ‘bisessuale’?» «Non lo posso dire nemmeno ai miei amici,» disse Ike, fissando la pizza, ma non per i pomodori questa volta. «Dicono di essere all’avanguardia, ma non sono all’avanguardia su questo. Non alle superiori comunque.» Ovviamente, quello che avrei voluto dire quando avevo detto “Siamo tutti soli” era stato che dentro la pizzeria non 34
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c’era rimasto nessun’altro. Volevo solo spezzare il silenzio, non intendevo fare un’analisi sull’essere gay. Comunque, finalmente si era avviata una vera conversazione che coinvolgeva tutti, quindi non avevo intenzione di spiegare agli altri quello avrei voluto dire realmente. «Non è che non ho amici,» stava dicendo Terese, giocando con gli avanzi nel suo piatto. «Ne ho tanti. A volte mi chiamano ‘lesbicone’ o cose del genere, ma non ci credono veramente, è solo un gioco. So quello che direbbero se sapessero che è vero. Infatti non mi posso mai rilassare veramente in mezzo a loro. Voglio dire, sarebbero ancora miei amici se sapessero la verità?» Sì! Pensai. Era proprio così che mi sentivo! E durante la nostra chiacchierata al gazebo puzzolente, anche Kevin aveva detto qualcosa di simile. Voleva dire che tutti i ragazzi gay si sentivano in questo modo? «È come indossare sempre una maschera,» disse Ike. «Con la tua famiglia, e con gli amici, non puoi mai far vedere a nessuno il vero te stesso.» Odiai ammetterlo, ma anche quello che aveva detto Ike mi rispecchiava. «È difficile,» disse Kevin. «Accidenti, è davvero dura.» Era strano sentire Kevin così serio. Ero curioso di sapere cosa intendesse dire esattamente. Quindi chiesi: «Che intendi?» Si strinse nelle spalle, tenendo gli occhi bassi. «Lo sai. Tutto. Credo sia per questo che bevo così tanto. Non solo con i miei amici. A volte anche quando sono solo. Voglio dire, è difficile tenere un segreto come questo. Non poter dire quello che provi davvero. Soprattutto se sei un atleta. Forse pensi che sia fantastico essere popolari, e a volte lo è, ma c’è così tanta pressione. 35
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A volte così tanta che mi sento scoppiare! Vorrei essere onesto per una volta, anche solo con me stesso, ma è difficile. A volte è dannatamente difficile.» «Lo so,» disse Min. «Se non fosse stato per Terese non so come avrei fatto in questi tre anni.» Min si guardò intorno, la pizzeria era ancora vuota. Poi prese la mano di Terese nella sua «Probabilmente sarei impazzita.» «Ho cercato di uccidermi,» disse Ike. (Se mai avrete bisogno di interrompere bruscamente una conversazione, queste quattro parole sono perfette.) Noi tutti lo fissammo a bocca aperta. «Non preoccupatevi,» disse Ike con un mezzo sorriso. «È stato anni fa, avevo quattordici anni. È stata una cosa stupida. Qualcuno mi disse che si poteva morire bevendo il detersivo per i piatti. Mi ha fatto stare davvero male e sono dovuto andare in ospedale. Ma quando l’ho fatto volevo davvero morire. Ho detto a tutti che era perché non avevo vinto la medaglia d’oro al concorso di scienze, e credo che i miei genitori ci abbiano creduto. Ma la verità è che ero stanco di cercare di non essere gay.» Si guardò attorno. «Non l’avevo mai detto a nessuno prima, neanche al mio terapista.» Dopo che Ike finì di raccontare la sua storia, mi sentii in colpa per aver pensato che non mi piaceva. «Be’, nessuno ha qualcos’altro da dire?» Disse Ike, diventando rosso. «In caso contrario, sembrerà che ho ucciso la conversazione.» Scoppiammo tutti a ridere. Poi, solo per far ripartire il discorso, dissi a tutti quanto mi ero sentito solo e disperato per rischiare di incontrare un ragazzo sconosciuto – un ragazzo 36
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con cui avevo parlato una notte in chat - in un parco di notte. Kevin sorrise quando raccontai la mia storia. Continuammo a parlare, e io pensai, che a parte Min, non conoscevo quelle persone – non conoscevo bene nemmeno Kevin. Ma era come se potessi essere completamente onesto per la prima volta nella mia vita. Parlammo di cose che non avevamo mai detto neppure ai nostri migliori amici, e alcune che non avevamo mai detto nemmeno ad alta voce. Noi cinque potevamo essere soli in quella pizzeria, ma non saremmo mai più stati veramente soli. Non più. Dopo aver parlato ancora un po’, la porta d’ingresso si aprì, e un paio di operai edili entrarono nella pizzeria. Erano a dieci metri dal nostro tavolo - intenti a decidere cosa ordinare - ma smettemmo comunque di parlare. Alla fine, Terese guardò l’orologio e disse: «Accidenti! Sono passate le sei!» Eravamo lì dentro da tre ore. Anche se sembravano passati solo cinque minuti. Nessuno si mosse. Fissammo il nostro tavolo ingombro di tovagliolini usati e piatti vuoti. Pensai che sapevamo tutti che era ora di tornare a casa, ma nessuno voleva andarsene. «Vorrei poter restare ancora,» disse Min. «Già,» disse Kevin. «Che tristezza,» disse Terese. Ci fu un’altra pausa. Poi Ike disse: «Non dev’essere per forza così.» Lo fissammo tutti. «Voglio dire, perché non ci incontriamo di nuovo domani? A scuola? Potremmo pranzare insieme.» 37
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Servì un secondo per assimilare l’idea. «Perché no?» Dissi io. «Suona bene!» Disse Min. «Ci sto!» Disse Terese. Una volta presa la decisione, andare via fu molto più facile. Dopotutto, non era più un addio, ma un a presto. Ci incamminammo tutti verso le rispettive auto o bici, e poi passammo altri quaranta minuti a chiacchierare in piedi nel parcheggio. Per quante cose ci fossimo detti, sembrava che ci fosse sempre qualcos’altro di cui parlare, non aveva importanza di cosa, ci intendevamo alla perfezione su tutto. Non potei fare a meno di chiedermi se era questo che si provava a stare fra buoni amici senza dover nascondere costantemente chi eri. In quel momento ricordai l’inizio della cena, quando sembrava che tutti fossimo in attesa di qualcosa di interessante e importante che stava per succedere. Ora sapevo che qualcosa era successo, dopotutto.
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CAPITOLO QUATTRO
«Ti piace,» mi disse Min qualche minuto dopo. Avevamo caricato la mia bici sul retro della Honda dei suoi genitori e mi stava riaccompagnando a casa. «Cosa?» Le domandai a disagio. «Chi?» «Russel, ti prego,» disse Min. «Kevin. Ti piace Kevin.» «Non è così!» Non riuscivo neanche pensarci. Ero sbalordito che Min lo avesse capito così in fretta. Cosa mi aveva tradito? «No?» Disse Min. «No!» «Beh, devi ammettere che è attraente.» «No, non mi sembra!» Min mi squadrò dal suo sedile. «Oh, Russel, andiamo. È bello da morire. Sono bisessuale, ricordi?» Qualcosa mi disse che avrei sentito spesso quelle parole. «Allora?» Disse lei. «Allora cosa?» Dissi io. 39
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«Davvero non pensi che sia attraente?» «Te l’ho già detto. No.» Min scosse la testa lentamente. «È così triste. Non riesci neanche ad ammettere quando un ragazzo ti piace. Eppure eravamo tutti così sinceri in pizzeria.» «E va bene!» Dissi. «Va bene, cosa?» «Quello che hai detto.» Min sorrise. «Allora dillo.» «Dire cosa?» «Devi dire: Penso che Kevin Land sia bello da morire.» «Min!» «Qual è il problema? Perché non riesci a dirlo?» «D’accordo, penso che Kevin Land sia bello da morire! Contenta?» Lei colpì il volante in segno di vittoria. «Ah! Lo sapevo! Sapevo che ti piace!» Come avevo detto, a Min piaceva vincere. Questo ne era solo un esempio. Ma non aveva ancora vinto. Potevo ancora cambiare soggetto. «Tre anni?» Dissi. «Sei stata con Terese per tre anni e non hai mai considerato di dirmelo?» Adesso era il turno di Min per arrossire. «Non è andata proprio così.» Disse. «Ci siamo incontrate al campo 40
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estivo, all’inizio eravamo solo inseparabili poi è successo qualcosa, anche se in quel momento non sapevo ancora cosa fosse. Il sesso è arrivato dopo.» Sesso, pensai. Ancora quella parola. «Lei comunque ha i suoi amici e io i miei,» continuò Min. «Non volevamo incasinare le cose. Quindi non lo abbiamo detto a nessuno. Ne che stiamo insieme. E neanche che siamo amiche. Ci incontriamo in un vecchio deposito in periferia. Tutti questi anni, i miei genitori hanno pensato che facessi volontariato all’Associazione Giovani Cristiani. È un casino. Un rapporto davvero contorto e incasinato.» Mi guardò di nuovo, imbarazzata. «E mi piace da morire!» Sorrisi, poi guardai fuori alla strada scura di fronte a noi. I giorni si stavano allungando, ma faceva ancora buio presto. «Credo che mi piaccia Kevin,» dissi alla fine. Fu un sollievo poterlo dire finalmente ad alta voce. Ma anche spaventoso. Min si limitò a sorridere. Le piaceva vincere, ma almeno poi non infieriva. «Ma è una stupidaggine.» Dissi. «Kevin Land? Voglio dire, che senso ha?» Non cercavo complimenti. Era davvero ciò che pensavo. Fra tutti i possibili infiniti universi, non riuscivo ad immaginarne nemmeno uno in cui io e Kevin potessimo stare insieme.
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Per questo fui così sorpreso quando Min sorrise di nuovo e disse, con disinvoltura: «Sì, penso che anche tu gli piaccia.» La mattina dopo, mentre andavo a Educazione Fisica la terza ora, mi capitò di passare davanti all’ufficio del professor Rall, il preside della scuola. La porta era aperta e sentii delle voci adirate provenire dall’interno. «Io non sarò censurata nella mia stessa classe!» Disse una voce. Era la professoressa Toles, di Educazione alla Salute, e aveva quel leggero fremito di indignazione nella voce che le persone hanno quando sono assolutamente convinte di avere ragione e non riescono a credere che qualcuno insinui il contrario. «Corrine, per favore,» disse il preside Rall. «Cerchiamo di mantenere la calma, tutti quanti.» «Mi dispiace, David, ma quello che proponete non è accettabile!» «Non è accettabile?» Disse una seconda voce maschile unendosi alla discussione, e aveva esattamente la stessa nota indignata della professoressa Toles. «Ti dirò io cosa non è accettabile! Riprodurre oscenità davanti a una classe di adolescenti!» Non riuscii a fare a meno di fermarmi nel corridoio. Adulti che discutevano di sesso? All’improvviso, sembrava interessante. E per pochi secondi almeno, ero l’unico studente a portata d’orecchio. 42
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Mi sporsi all’interno dell’anticamera, cercando di vedere qualcosa dentro l’ufficio. «Quello che è osceno, reverendo Bowd,» disse la Toles con voce piatta, «è l’idea che gli adolescenti siano tenuti all’oscuro del modo in cui funziona il proprio corpo!» Quindi era il reverendo Bowd a mettere sulla graticola la professoressa Toles. Francamente, non ne ero sorpreso. Alzava continuamente un polverone per qualsiasi cosa in città, e di solito centrava il sesso. Circa un anno prima aveva organizzato una grossa protesta dopo aver saputo che il negozio di DVD locale trattava anche film vietati ai minori. «Corrine,» stava dicendo il preside Rall, «penso che il reverendo Bowd si riferisca alla storia del cetriolo. Forse era un po’ troppo esplicita.» All’improvviso capii di cosa trattasse quella piccola discussione. Qualche settimana prima, la professoressa Toles aveva spiegato alla sua classe come usare un preservativo, e ne aveva infilato uno su un cetriolo (uno molto grosso, o così avevo sentito dire). Tutta la scuola ne aveva parlato per almeno una settimana, ed era ovvio fosse solo una questione di tempo prima che il Reverendo Piantagrane si facesse coinvolgere. Molto lentamente, mi spostai in un punto da cui potevo effettivamente vedere qualcuno dentro l’ufficio. Era la Toles, magrissima, pallida e lentigginosa. Ma
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sembrava tutt’altro che fragile. Al contrario, con i capelli ricci rossi e l’atteggiamento fiero, mi ricordava un leone. «È provato che la causa primaria per cui gli adolescenti non fanno uso del preservativo,» stava dicendo la professoressa Toles, «è che molti ragazzi non sanno come usarlo correttamente!» Non vedevo l’ora di sentire come avrebbe replicato a questo il Reverendo Piantagrane. Ma poi il preside Rall apparve sulla soglia, sciupato, sudato e arrossato. Stava già chiudendo la porta quando diede un’occhiata verso il corridoio mi notò. Chiuse immediatamente la porta, ma non prima che riuscissi a scorgere l’espressione sulla sua faccia. Non ricordavo di aver mai visto un adulto tanto atterrito prima. Sapevo di dover essere eccitato più tardi quel giorno quando io e Min ci sedemmo a pranzo. Dopo tutto Kevin, Terese e Ike si sarebbero uniti a noi, come avevamo concordato in pizzeria. Ma invece che eccitato, mi sentivo a disagio – qualcosa che non capivo. Non era come quel senso di catastrofe imminente che ti butta giù di tanto in tanto, ma quasi. Terese fu la prima a raggiungere il nostro tavolo. «Ciao,» disse. Aveva il pranzo all’interno di un sacchetto di carta marrone, ma non accennò a sedersi. 44
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«Ciao!» Dissi, cercando di sembrare entusiasta. A dispetto di come mi sentivo. «Siediti.» Lei guardò in entrambe le direzioni, come per attraversare la strada. Poi si avvicinò, scostò una sedia e ci si sedette. Min abbassò subito lo sguardo sul suo vassoio. In quel momento mi venne in mente che non si erano mai fatte vedere a scuola insieme prima. Per loro doveva essere strano. Ike arrivò subito dopo, avvicinandosi furtivamente al tavolo, come un ladro che cercava di eludere la polizia. «Grande,» disse. «Ce l’avete fatta ragazzi.» Ma non sembrava contento. Sembrava come se avesse sperato che ce ne fossimo dimenticati. Ike si sedette, ma lasciò una sedia vuota tra lui e noi. Stavamo tutti immobili a fissare il tavolo, nessuno diceva niente, e io non riuscivo a credere che fossimo lo stesso gruppo del giorno prima. Come ci si poteva sentire tanto a proprio agio in un momento e così a disagio in un altro? Poi mi ricordai del mio secondo appuntamento con Kevin al gazebo puzzolente. Eravamo in imbarazzo anche quella volta, senza che nessuno dei due riuscisse a trovare nulla dire. In quel momento capii che una conversazione era un po’ come un bambino, non la si poteva semplicemente abbandonare e poi riprendere il giorno dopo come se nulla fosse. Inoltre, questa era solo una parte del problema. Qui non eravamo nella sala 45
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buia di una pizzeria deserta. Questa era la mensa della scuola, e alle superiori tutti mangiavano sempre con le stesse persone ogni giorno. Fra simili. Come uccellini in un nido. E ognuno di noi aveva il proprio. Terese lanciò uno sguardo al tavolo delle sue compagne di squadra, tutte in tuta e con la coda di cavallo. Ike non stava guardando i suoi amici, con i loro piercing e le Birkenstocks, ma capii che percepiva la loro presenza. Era come se non li guardasse di proposito, per paura che si accorgessero di dove era seduto. Terese e Ike sapevano di non appartenere al tavolo mio e di Min. Anche io e Min lo sapevamo. Come avessimo fatto a dimenticarlo, non riuscivo a spiegarmelo. Il giorno prima eravamo talmente presi dal momento, che ci era passato di mente. Ma quel pensiero era sempre stato lì, in un angolino del mio cervello, era stato questo a generare la sgradevole sensazione che avevo provato arrivando a mensa poco prima. «Come va?» Era Kevin, torreggiava su di noi con il suo vassoio pieno di cibo e i suoi tre cartoncini di latte. Tirai un sospiro di sollievo. Questa era un’altra cosa che mi aveva preoccupato. Non ero stato sicuro che Kevin si facesse vedere. Il giorno prima, ero stato ben consapevole che lui era stato l’unico fra noi a non aver promesso di venire. E ora che era qui, non ero sicuro che volesse sedersi. La cosa divertente, era che nemmeno io ero sicuro di volere che si sedesse assieme a noi. Una cosa era che 46
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Min, Terese, Ike e io fossimo seduti allo stesso tavolo. Forse i loro amici lo avrebbero notato, ma nessun altro se ne sarebbe accorto. Tutt’altra cosa era che lo facesse Kevin Land, questo lo avrebbero sicuramente notato tutti. Kevin comunque non accennò a sedersi. Non sembrava nervoso, ma poi notai che esercitava una presa talmente salda sul suo vassoio da avere le nocche bianche. «Allora,» dissi. «Eccoci qui.» Potete immaginarlo. L’unica cosa che riuscii a pensare di dire. Questa volta, nessuno disse niente, neanche Min. Con la coda dell’occhio notai Wandy Garr al tavolo delle calciatrici indicare Terese. Lei fece finta di non guardare, ma ero sicuro che l’avesse vista. Stavamo avendo tutti uno di quei momenti: “Ma a cosa pensavamo?”. A cosa stavamo pensando? Perché non avevamo previsto che sarebbe successo questo? Eravamo come cittadini di paesi diversi. Davvero pensavamo di poter semplicemente scostare le sedie e sederci assieme a mensa? Non c’erano terreni neutrali alle superiori. Lo spazio era tutto occupato, e i confini netti. Non potevamo semplicemente attraversarli come niente fosse. Un tavolo poco distante era vuoto, e Brian Bund apparì dal nulla e ci si sedete. Si era portato il pranzo da casa in un contenitore di plastica, uno di Buffy l’ammazza vampiri per giunta. 47
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Ancora una volta, seppi che stavamo pensando tutti alla stessa cosa. Riflettevamo sulle conseguenze del trascorrere troppo tempo fuori dai confini del proprio paese: alla fine si rischiava di non poterci più tornare. In altre parole, si finiva in esilio, da soli, come Brian Bund. In quel momento esatto si presentò Gunnar. Min, Gunnar e io pranzavamo insieme da sempre. Come avessi fatto a dimenticare anche questo, non lo sapevo. «Ciao,» disse Gunnar, il suo vassoio tra le mani e un centinaio di domande stampate in faccia. «Gunnar?» Dissi. «Gunnar!» Disse Min. Aveva dimenticato Gunnar anche lei. Non potevamo certo mandarlo via, non senza sembrare maleducati. Ma il suo arrivo in realtà capitò al momento giusto. Era la scusa perfetta di cui avevano bisogno tutti per scappare. Poco ma sicuro, Kevin disse: «Devo andare, ci vediamo più tardi!» E nel tempo che impiegai a battere le palpebre, si stava già allontanando. Nello stesso momento, Terese recuperò il suo pranzo e si alzò. «Già!» Disse. «Anche io. A dopo!» «Si!» Disse Ike. E si alzò così in fretta da ribaltare la sua sedia. Gunnar osservò Kevin, Terese e Ike allontanarsi in fretta da noi. Alla fine, si sedette, ancora osservando ciascuno di loro venire riassorbito dalla propria cerchia di amici come una particella estranea fagocitata dentro 48
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un globulo bianco gigante in un qualche vaso sanguigno. «Allora,» Disse Gunnar. «Cosa è appena successo?» «Un progetto scolastico,» disse Min. Come me, era un’ottima bugiarda. In ogni caso, non credevo che Gunnar ci fosse cascato. Aveva passato tutta la vita a cercare di essere popolare e conosceva bene ogni cricca e gruppo della scuola. Sapeva quanto strana fosse stata quella riunione. E non aiutò il fatto che quando era arrivato, si fossero dileguati tutti come spacciatori davanti a un poliziotto. «Ehi,» dissi a Gunnar. «Avevo le vertigini ad Algebra, credo che ci sia la formaldeide nei banchi.» Non ero uno stupido. Sapevo quand’era il momento giusto per cambiare argomento. Come previsto, questa volta Gunnar abboccò all’amo. «Potrebbe essere la formaldeide,» disse lui. «Oppure il benzene o lo xilene. Sono tutti nel compensato.» Gunnar continuò a parlare, ma io non stavo ascoltando. Pensavo a Terese e Ike e Kevin (soprattutto a Kevin). Non guardai nessuno di loro, e sapevo che nessuno di loro guardava me. Ma ancora una volta, seppi esattamente a cosa pensavano. Pensavano quello a cui pensavo io, e cioè: Ieri in quella pizzeria, si era veramente creato un legame fra noi. E ora, ci chiedevamo se avremmo mai avuto occasione di parlare ancora. 49
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CAPITOLO CINQUE
Ma parlai ancora con loro, proprio il giorno dopo. Ci incontrammo dopo la scuola nei meandri della biblioteca. Non sapevo a chi fosse venuta l’idea – io avevo ricevuto un messaggio Min, a cui aveva mandato una mail Terese – ma era il posto era perfetto per stare insieme. Se si voleva stare soli, la biblioteca di una scuola superiore era uno dei posti migliori in cui andare, soprattutto nelle due ore dopo le lezioni. E se qualcuno ci avesse visto, potevamo far finta di non essere assieme, che stavamo solo cercando un libro nello stesso reparto e nello stesso momento. Subito prima dell’incontro, mi chiesi come sarebbe stato. Piacevole e rilassata come nella pizzeria? O innaturale e imbarazzante come in sala mensa? Nell’attimo in cui io e Min girammo l’angolo e vidi le facce degli altri, ebbi la risposta. Avvertivo quel piccolo senso di eccitazione come quando sai di stare per totalizzare il punteggio massimo in un videogioco che conosci bene. Inoltre essendo un po’ nerd, mi piacevano le biblioteche – amavo l’ambiente pulito e il profumo di inchiostro e carta. Ma non ero mai stato così euforico in una biblioteca prima. Ero addirittura contento di vedere Ike.
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Ci salutammo, ma cercai di non guardare troppo Kevin, stavo ripensando a quello di cui avevamo parlato io e Min due giorni prima, al fatto che lui mi piacesse. «Mi dispiace per ieri a pranzo,» disse Terese, a voce bassa. Anche Kevin e Ike borbottarono le loro scuse. «Non è stata colpa vostra,» dissi piano. E Min annuì. «Non è stata colpa di nessuno.» «Le tue amiche hanno detto qualcosa?» Chiese Min a Terese. «Si,» disse lei. «Si chiedevano cosa fosse successo.» «Cosa hai detto?» «Che stavamo pensando di fondare un club.» Si strinse nelle spalle. «Sono una brava bugiarda.» «Che tipo di club?» Dissi. «Non ne abbiamo parlato. Ho subito cambiato discorso.» Allora non ero l’unico a evitare le domande cambiando discorso. Forse questa era un’altra cosa che avevamo tutti in comune. «Non è giusto!» Disse Ike. «Non dovremmo nasconderci così, come criminali o che altro. Perché non possiamo farci vedere assieme come la gente normale?» Per tutta risposta, Candy Moon passò alla fine della corsia. Mi sembrò di vederla rallentare impercettibilmente. All’improvviso la biblioteca non mi sembrava più un buon posto dove incontrarci. Cinque persone nella stessa corsia di una biblioteca semi deserta erano davvero una grossa coincidenza. «Dannazione,» disse Kevin, abbassando di nuovo la voce. «Penso di aver avuto una pessima idea.» 51
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L’incontro era un’idea di Kevin? Allora perché non mi aveva mandato lui stesso una mail? Significava che Min aveva torto, a Kevin non piacevo? Oppure voleva dire l’esatto contrario, che Min aveva ragione, io gli piacevo, ma era troppo timido per fare la prima mossa? (Kevin Land timido? Che ridere.) «Quello che ci serve,» Disse Min piano. «È un posto per incontrarci dove non ci veda nessuno.» «Potremmo tornare alla pizzeria,» disse Ike. «Potremmo vederci li dopo la scuola.» «No,» disse Terese. «Prima o poi, qualcuno ci vedrebbe. È troppo vicino a scuola. La squadra ci va per la pizza.» «Allora un altro ristorante,» dissi. «Non lo so,» disse Kevin. «Ho gli allenamenti quasi tutte le sere, quindi deve essere qui vicino. Ma come ha detto Terese, se è vicino alla scuola, qualcuno prima o poi ci vedrà.» «Il bosco?» Disse Terese. C’era una grossa area boschiva oltre la recinzione della scuola. «Troppo freddo e bagnato,» disse Ike. «Aspettate un minuto,» disse Min all’improvviso. «L’ha detto Terese. Perché non fondiamo un vero club scolastico?» «Eh?» Dissi. «Lo sai,» disse lei. «Un club dopo scuola. Non ci farebbero usare un’aula? Voglio dire, se compiliamo i moduli giusti?» «Che tipo di club?» Disse Terese. Suonava sospettosa. «Tipo un’Associazione Gay-Etero?» Avevo sentito parlare di Associazioni Gay-Etero in altre scuole. Altre scuole di grandi città, però. Non c’erano Associazioni Gay-Etero nella nostra città, forse 52
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nemmeno in tutto lo stato, e non ce ne sarebbero state nel breve periodo. Se il reverendo Piantagrane si era impegnato tanto per impedire che un insegnante parlasse di contraccettivi in classe, non era difficile immaginare quello che lui e la sua squadra di genitori impegnati avrebbero fatto sapendo di un’Associazione Gay-Etero nella scuola superiore locale. Il fungo atomico si sarebbe visto a chilometri di distanza. «Beh,» disse Min, «non dobbiamo dire a nessuno di cosa si tratta. Ci limiteremo a dire che è un club.» «Invece dobbiamo,» disse Ike. «Bisogna dire esattamente di cosa si tratta. Così non potranno negarcelo, almeno finché seguiamo il regolamento. Io e i miei amici lo scorso anno abbiamo fondato il club “Prima la Terra!”, Rall non voleva darci il permesso,» (Il preside Rall, ricordate?) «ma Gladstein, il nostro professore di riferimento, lo avvertì che potevamo fargli causa. Ah già, bisogna avere anche un insegnante di riferimento.» Nessuno disse niente. Riflettemmo su tutte quelle nuove informazioni. «Bene, il primo problema è facile,» dissi. «Dobbiamo solo dire cosa facciamo. Potremmo dire che si tratta di un club di scacchi.» «E l’insegnante di riferimento?» Disse Ike. «Sarà sempre lì con noi.» «Il professor Kephart,» disse Min. La fissammo tutti. «È il professore più sfaticato dell’intera scuola. Se gli chiediamo di essere il nostro supervisore, l’ultima volta che lo vedremo sarà per la firma del modulo di richiesta.» 53
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«Pensi che accetterà?» Disse Terese. «Lo farà se gli dico che non sarà costretto a venire a nessun incontro.» Il sorriso mi spuntò sul volto. Ma nello stesso momento, percepii un movimento alla fine della nostra corsia di scafali. Mi girai e vidi Heather Chen guardare dritto nella nostra direzione. Terese, Min e io iniziammo velocemente a prendere libri a caso dagli scomparti. La scena apparì terribilmente innaturale e probabilmente ci fece sembrare ancora più sospetti agli occhi di Heather. Quando riguardai verso di lei, però se n’era andata. «Dobbiamo concludere questa cosa,» sussurrò Min, più piano che mai. «Siamo tutti d’accordo per fondare il club?» «Aspetta.» Anche Ike parlò a voce bassissima. «C’è ancora un problema. Se fondiamo un club sarà aperto ad ogni studente della scuola. È così che funziona.» «Peccato che non possiamo dire che è un club gay,» disse Terese. «Terrebbe tutti alla larga.» Era una battuta, ma non sembrava, perché il tono era amareggiato. Kevin non parlava da un po’, e immaginai che fosse perché aveva cambiato idea e ora non voleva avere più niente a che fare con questa storia del club. O con me. Quindi rimasi sorpreso quando improvvisamente il suo volto si illuminò. «Ho trovato! Dobbiamo solo scegliere un club così noioso, che nessuno penserebbe mai di iscriversi.» Ci pensò per un secondo. «Potremmo chiamarlo Geography Club!» 54
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Considerammo tutti l’idea. Questa volta, vidi sorrisi spuntare sul volto di tutti. Un club di geografia, pensai. Nessuno studente delle superiori sano di mente si sarebbe mai iscritto. In altre parole, era perfetto!
«Trish Baskin ha una cotta per te.» Mi disse Gunnar. Era il sabato successivo, e Gunnar e io stavamo giocando a Racquetball nella palestra del centro sportivo. Non facevo completamente schifo a Racquetball (e con questo voglio dire che modestamente non ero niente male). Ma Gunnar aveva detto quella cosa su Trish Baskin poco prima di servire palla, quindi aspettai la fine del turno per chiedergli cosa diavolo volesse dire. Ovviamente, vinse il set, ma solo perché ero distratto. «Cosa?» Dissi. «Cosa che cosa?» Disse lui. «Trish Baskin?» Le nostre voci echeggiavano sui muri del campo illuminato a giorno. «Gli piaci,» disse Gunnar, «L’ho sentito dire da una che la conosce. A te piace?» Piacermi? Pensai. A malapena la conoscevo. Oh, poi c’era anche il piccolo problema che ero gay. «È okay.» dissi. Era stata nella mia classe di Geometria lo scorso anno. Somigliava a un topolino, con la voce sempre bassa e le spalle strette e un taglio di capelli che attirava l’attenzione. «Avanti servi.» 55
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«Beh, tu gli piaci molto,» disse Gunnar, proprio prima di servire di nuovo la palla. Ma questa volta non mi lasciai distrarre, mi puntai bene in avanti e gliela rispedii indietro. Continuammo a giocare, e notai che Gunnar sembrava concentrato. Al contrario di Min, non era particolarmente competitivo, quindi dubitavo che fosse realmente interessato al gioco. No, stava decisamente macchinando qualcosa. «Ehi,» disse, qualche minuto dopo, quando vinse un altro set. Lo guardai, asciugandomi il sudore con un asciugamano che tenevo appeso alla cintura. Lui disse: «Ricordi di cosa abbiamo parlato l’altra settimana?» Non avevo assolutamente idea di cosa parlasse. «Cosa intendi?» «Lo sai. Riguardo il fatto che vorrei una fidanzata?» Ora lo ricordai. Ma ne aveva parlato tanto spesso, che ancora non capivo dove volesse arrivare. «Sì?» Dissi. «Beh, credo di averla trovata. Una fidanzata, intendo.» «Davvero? È fantastico! Chi è? Perché non me l’hai detto?» Ero davvero felice per lui, in parte perché non avrei più dovuto starlo a sentire mentre si lamentava di non avere una ragazza. «Kimberly Peterson.» «Gunnar, è fantastico!» Dissi. «Sono davvero contento per te.» Non avevo mai parlato con Kimberly, ma qualche volta 56
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l’avevo vista in giro a scuola. Aveva lunghi capelli biondi. Questo era tutto quello che ricordavo di lei, ma bisognava considerare che non avevo esattamente una memoria fotografica quando si trattava di ragazze. «Beh, ancora non è proprio la mia ragazza,» disse Gunnar. «Ma ha accettato di uscire con me.» «Beh…» cercai di pensare a qualcosa di incoraggiante da dire. «Sono sicuro che le piacerai quando ti avrà conosciuto. Poi diventerà la tua ragazza.» «Sì,» disse Gunnar, a denti stretti, e capii che c’era qualcos’altro che non mi aveva ancora detto. Qualunque cosa fosse, avevo una brutta sensazione a riguardo. «Avanti, servi.» Dissi, e lo fece. Vinsi il set, ma fu solo fortuna. Adesso eravamo entrambi distratti. «Piaci davvero tanto a Trish Baskin,» disse Gunnar. «È amica di Kimberly. È stata lei a parlarmene.» Lo guardai dritto in faccia. «Gunnar. Cosa sta succedendo?» Lui improvvisamente sembrò particolarmente affascinato dalle corde della sua racchetta. «Ti ricordi quando ti ho detto che volevo una fidanzata?» Annuii. «E ricordi quando mi hai promesso che avresti fatto qualsiasi cosa per aiutarmi?» Annuii di nuovo, anche se non ricordavo di avergli promesso niente di simile. «Beh, Kimberly ha accettato di uscire con me. Ma solo a una condizione.» 57
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«Oh,» dissi, e subito intuii quello che stava succedendo. «Gunnar, no!» «Russ, perché no? È solo un appuntamento!» Kimberly aveva accettato di uscire con Gunnar solo se anche io fossi uscito con la sua amica Trish. In caso non si fosse già capito, io me ne tiravo fuori. «Gunnar!» La mia voce riecheggiò forte nella palestra. Non avevo avuto intenzione di gridare. «Hai detto che avresti fatto qualsiasi cosa per aiutarmi!» Stavo per dirgli esattamente quello che pensavo - che non avevo mai detto che avrei fatto “qualunque cosa” per aiutarlo. E anche se l’avessi fatto, non era questo che intendevo! Intendevo dire che lo avrei accompagnato al centro commerciale a scegliere lo smoking per il ballo di fine anno. «Ti prego, Russ. Lo sai quanto è importante per me. E poi, è solo un appuntamento. Qual è il problema?» Il grosso problema era che volevo un appuntamento con Kevin Land! Ma non potevo dirlo a Gunnar. Ovviamente, fare tutto quel casino per un semplice appuntamento con Trish Baskin era il modo migliore per farglielo capire. Questa era esattamente il genere di cosa che poteva indurlo a sospettare. Sospirai. «È un doppio appuntamento, vero? Tu e Kimberly e io e Trish?» «Certo!» «Quando? Il prossimo fine settimana?» Gunnar annuì, «sabato.» 58
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Esitai ancora per qualche istante, giusto per tenerlo un po’ sulle spine. Poi dissi: «Va bene, lo farò.» «Oh, grazie a Dio!» Disse lui, molto più sollevato di quanto avrebbe dovuto essere. «Gunnar,» dissi. Fissava ancora le corde della sua racchetta. «Sì?» «Avevi già detto a Kimberly che l’avrei fatto, vero?» Alla fine mi guardò, con appena un accenno di sorriso sulle labbra. «Forse.» «Gunnar!» Ma almeno ebbe la decenza di vergognarsi, quindi decisi di passarci sopra.
«Un appuntamento con una ragazza, eh?» Disse Min il giorno dopo, quando ci incontrammo per una passeggiata nel parco. «Potrebbe essere una serata intensa e appassionata.» «Di sicuro non è stata una mia idea,» dissi. «Tu la conosci?» «Trish? No. Ma sono stata al campo estivo con Kimberly quando avevo otto anni. Mangiava la colla, se ti può aiutare. Cosa ci trova Gunnar in lei?» «Due cromosomi X?» Min sapeva quanto Gunnar desiderasse avere una fidanzata, e rise alla mia battuta, il che mi rese orgoglioso. Bisognava essere abbastanza intelligenti per far ridere Min. «Allora,» dissi. «Sei eccitata per il Geography Club?» 59
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«Si,» disse Min. Ma notai che all’improvviso aveva smesso di sorridere. «Dove vuoi andare a passeggiare?» Disse Min, guardando verso le colline erbose e gli alberi spogli. L’inverno era quasi finito, ma c’era qualcosa nel vento che suggeriva che il freddo non fosse ancora passato, come l’odore persistente di polvere da sparo la settimana prima del quattro luglio. Anche la terra era ancora fredda e dura. «Andiamo verso il Parco dei Bambini per la Pace,» dissi. Era un piccolo giardino dall’altro lato del parco. C’erano arbusti e fiori, e nel mezzo, si trovavano le sei sculture di legno verniciato dei bambini del mondo che si tenevano per mano. Era estremamente insulso, ma era stato costruito anni fa, quando la torcia olimpica era passata attraverso la città. «Cos’hai?» Dissi mentre camminavamo. «Niente,» Disse lei. Si strinse nelle spalle. «È Terese.» «Che c’è?» «Non lo so. È una stupidaggine, solo che…» Lei rabbrividì, stringendosi il cappotto intorno al collo. Min aveva freddo. «Ci siamo viste la scorsa notte al magazzino.» «E?» «Sembrava diverso.» Guardai verso di lei. «Cosa intendi?» Ci pensò per un secondo. «Ricordi quando ti ho detto che Terese e io ci incontravamo solo in quel magazzino?» Io annuii. «Nessuno ci aveva mai viste insieme, nessuno sapeva di noi. Quando stavamo insieme eravamo come nel nostro piccolo 60
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mondo. Un posto speciale e perfetto dove potevamo andare solo noi. Un posto separato dalla realtà.» Annuii di nuovo, ma segretamente ero un po’ geloso. Sembrava meraviglioso. «Ma la notte scorsa, sembrava diverso,» disse Min. «Perché ora altre persone sanno di voi? Kevin, Ike e io?» «Non lo so. Forse. Non è cambiato niente in realtà. Ma mentre eravamo insieme al magazzino la scorsa notte sembrava diverso. La amo ancora e tutto il resto. Ma è come se lei non fosse più la persona che ricordavo. Come se avessimo acceso le luci nel magazzino, e vedessimo tutto chiaramente per la prima volta, ma niente è come ce lo aspettavamo. È tutto in disordine. Mi piaceva come era prima. Non volevo accendere la luce in quella stanza.» «Non lo diremo a nessuno,» dissi. «Se pensi che uno di noi voglia fare una cosa del genere, ti assicuro che non succederà.» Non sapevo perché ne fossi tanto sicuro – non conoscevo bene Kevin e Ike. Ma ne ero assolutamente certo, più di quanto fossi mai stato sicuro di qualcosa in vita mia. Loro non avrebbero mai detto nulla a nessuno su Min e Terese, e certo nemmeno io. «Non è questo,» disse Min. Ma non aggiunse altro, il che mi portò a credere che forse neanche lei sapesse con precisione qual era il problema. Alla fine, disse «Era solo una sensazione.» «Forse ti ci devi solo abituare.» dissi io. «Adesso anche altre persone lo sanno. Immagino che questo faccia sembrare le cose più reali. Magari dopo che ti ci sarai abituata tornerete a sentirvi come prima. O forse sarà diverso, ma meglio.» «Forse,» disse Min, ma percepii che non mi credeva. 61
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«Non volete più entrare nel club?» «No. Quel che è fatto è fatto.» Disse lei subito, ma non ero comunque rilassato. Senza Terese e Min, non c’era Geography Club. E senza Geography Club, non c’eravamo Kevin e io. «Ma?» dissi. «Ma non riesco a levarmi dalla testa la sensazione che stia per accadere qualcosa di brutto.» Pensai: Qualcosa di brutto a Terese e te, o qualcosa di brutto a tutti noi? Ma non lo dissi ad alta voce, perché mi sembrò scortese ed egoista. Eppure non potei fare a meno di ricordare cos’era successo l’ultima volta che avevo avuto una sensazione di quel tipo. Tanto per stare allegri, arrivammo al Parco dei Bambini per la Pace. Era incredibilmente di cattivo gusto, esattamente come lo ricordavo. Le sculture di legno rappresentavano i più scontati stereotipi etnici dei bambini del mondo. Ma qualcosa era cambiato dall’ultima volta che c’ero stato. Qualcuno aveva disegnato le tette con un pennarello nero alla bambina polinesiana con la gonna di erba, inoltre aveva trasformato il sombrero del sorridente ragazzo messicano in un pene. Ma era il bambino eschimese con le guance rosse e il cappuccio ad aver avuto la peggio. Lo avevano scardinato dal suo sostegno, spezzato in due a calci, e sparso i pezzi per il giardino. «Carino,» disse Min. «Si,» dissi, ora rabbrividendo anche io, e non solo per il freddo.
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CAPITOLO SEI
«Dichiaro formalmente aperta la prima seduta del Geography Club!» Disse Kevin con una voce a metà tra un giornalista televisivo e un predicatore Battista. Tutti scoppiammo a riedere. Anche lui rise, ma riuscì ad aggiungere: «Accidenti! Sapevo che non sarei riuscito a dirlo seriamente!» Io pensai che ero davvero contento di essere qui, circondato da amici svegli e divertenti, uno dei quali casualmente era la persona più attraente da qui all’altro capo del paese. Era dopo le lezioni un paio di giorni dopo, ci eravamo incontrati in un’aula vuota del secondo piano della scuola deserta. Tecnicamente, non era ancora il Geography Club - la scuola non l’aveva ancora approvato ufficialmente. Però avevamo compilato tutti i moduli necessari e li avevamo consegnati in segreteria, quindi era solo una questione di tempo. Il professor Kephart aveva accettato di essere il nostro insegnante supervisore, e una volta firmati i documenti era sparito, esattamente come predetto da Min. Prima di andarsene, ci aveva anche consegnato la chiave della sua aula di storia. E quindi eccoci qui. Lentamente, smettemmo tutti di ridere.
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Eccola di nuovo, pensai. Un’altra pausa di silenzio imbarazzato, e non riuscivo a pensare a nulla da dire, a parte, “Allora. Eccoci qui,” che non aveva funzionato bene le ultime volte. C’era un poster sul muro con la foto di un busto di Giulio Cesare e una citazione che diceva: “Venni, Vidi, Vinsi.” Chiunque Giulio Cesare avesse conquistato, sapevo come dovevano essersi sentiti. Come me, sconfortati. Sarebbe stato così difficile iniziare a parlare ogni volta che ci fossimo visti? Kevin si schiarì la gola, e io pensai, Oh, Dio, Kevin si sta annoiando. «Ci servono delle regole,» sbottai. Tutti mi fissarono. «Sapete,» dissi. «Tipo uno statuto? Non sarà un vero club di geografia ma è comunque un club.» Immaginai che, se non altro, questo ci avrebbe dato qualcosa di cui parlare. Apprezzai il fatto che nessuno mi avesse mandato a quel paese. Avevamo preso tutti sul serio il progetto del club. «Che tipo di regole?» Disse Terese. Ci pensammo su. «Che ne dite di dare a tutti cinque minuti di tempo per dire quello che vogliamo?» Dissi. «Potremmo iniziare sempre così. Ci mettiamo in cerchio e nessuno può interrompere.» In seconda media uno dei miei compagni di classe era finito sotto un treno. Per due mesi ci avevano fatto frequentare un gruppo di sostegno, e li si procedeva in questo modo. Il Geography Club in sostanza era una specie di gruppo di sostegno, no? 64
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Tutti annuirono o grugnirono, quindi supposi che la mia proposta fosse approvata. Kevin disse: «Tutto quello che diciamo qui dentro, rimane qui dentro. Non ne parleremo con nessuno fuori dal club.» Non c’era neanche bisogno di dirlo, era esattamente quello di cui avevamo parlato io e Min al parco. Ma ero comunque felice che qualcuno lo avesse detto. «Decide la maggioranza,» disse Ike. «Se ci capiterà di dover prendere una decisione su qualcosa la mettiamo ai voti. Qualsiasi cosa abbia la maggioranza dei voti faremo, e visto che siamo in cinque non c’è il pericolo di un pareggio.» Non avevo idea di cosa avremmo mai potuto mettere ai voti, però in teoria aveva senso. Quindi annuii assieme a tutti gli altri. «Quante volte ci incontriamo?» Disse Min, e io realizzai che era la prima volta che apriva bocca da un po’. Non riuscii a fare a meno di ricordare quello che mi aveva detto domenica, riguardo al Geography Club e a come stesse incasinando la sua relazione con Terese, e iniziai a chiedermi a cosa stesse pensando. (Grandioso, pensai. Ora non mi devo preoccupare solo di ogni minima reazione di Kevin – ma anche di Min.) «Due volte a settimana?» Dissi in risposta alla domanda di Min. Potrebbe sembrare tanto, ma eravamo alle superiori, avevamo lezioni o allenamenti cinque volte a settimana. Quindi due volte non sembrava così esagerato. «Quali giorni?» Disse Terese.
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Fra gli allenamenti di football di Kevin, quelli di calcio di Terese e gli altri club frequentati da Min e Ike faticammo a scegliere i giorni. Ma alla fine ci accordammo su martedì e giovedì, subito dopo le lezioni. Se ci fossimo tenuti intorno ai trenta minuti o giù di lì, sia Kevin che Terese sarebbero riusciti ad andare agli allenamenti in tempo per il riscaldamento. «Vi viene in mente altro?» Dissi, intendevo altre regole. Ci pensammo per qualche minuto, ma nessuno disse nulla. Tutti mi fissarono, visto che per qualche motivo ero diventato il nostro capogruppo non ufficiale. «Allora possiamo iniziare con la cosa dei cinque minuti,» dissi. E dal momento che era stata una mia idea, il primo turno toccò a me. (Maledetta la mia boccaccia!) Iniziai a parlare di tutto quello che mi veniva in mente. Tutto, tranne Kevin e Min, le due cose che ultimamente dominavano i miei pensieri.
Non stavo esattamente contando i minuti fino al week-end e all’appuntamento con Trish e Gunnar e Kimberly. Poi arrivò il sabato mattina, e iniziai a contare i minuti, ma non sperando passassero prima. La verità era, che non ero stato a molti appuntamenti. Nessuno, per l’esattezza. Non veri appuntamenti. Oh, ero stato a un sacco di feste e uscite di gruppo, come quando si esce insieme per andare al cinema. Ma non mi era mai capitato di uscire da solo con una particolare ragazza, in un’occasione che potesse coinvolgere baci o addirittura sesso. (Dobbiamo davvero parlare ancora di questo?) Basti sapere che, fino a questo punto della mia vita, avevo fatto in modo di non trovarmi mai da solo con una ragazza. 66
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Gunnar sarebbe passato a prendermi alle sei, poi alle sei e mezza saremmo andati a prendere le ragazze. Quindi intorno alle quattro e trenta, iniziai a prepararmi. Volevo prendermi un po’ di tempo nel caso in cui qualcosa fosse andato storto, ad esempio se mi fossi tagliato radendomi e mi avessero dovuto portare al pronto soccorso per riattaccarmi il naso. Non ero sicuro del perché mi preoccupassi del mio aspetto per quella notte, ma tant’è. Quindi dopo aver fatto la doccia ed essermi pettinato, mi guardai allo specchio. Sì, avevo una nuovissima colonia di brufoli su quello che, fino a tre giorni prima, era un volto senza macchia. Ma non ero il ragazzo più brutto del mondo. Poi mi vestii. Passai venti minuti buoni a scegliere il giusto paio di mutande da indossare, guardandomi allo specchio di profilo per decidere quale mi stesse meglio. Di nuovo, non avevo idea del perché. Non era che pensassi ci fosse la minima possibilità che Trish potesse vedermi così. Era anche interessante notare che, per quanto bene pensassi di stare, non potevo comunque paragonarmi a Kevin Land con indosso solo un paio di slip. Non che Kevin indossasse degli slip. Kevin Land era più un ragazzo da boxer. Ma questo non aveva assolutamente nulla a che fare con il mio appuntamento con Trish, o anche con il mio essere pronto in tempo per l’appuntamento con Trish, quindi non ero sicuro del perché mi fosse venuto in mente. Immagino solo per darvi un’idea di quanto fossi preoccupato per quell’appuntamento. Gunnar arrivò in perfetto orario, e dovevo ammetterlo, si era sistemato per bene (aveva anche un buon profumo). Per un breve, davvero strano momento, immaginai che fossimo noi 67
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due ad avere un appuntamento. L’idea di avere un appuntamento romantico con Gunnar non destava alcun interesse in me, ma l’idea che un ragazzo si fosse fatto una doccia e avesse messo il gel nei capelli solo per me e poi fosse venuto a prendermi in macchina - beh, mi affascinava molto. Trish si sarebbe fatta trovare a casa di Kimberly, quindi io e Gunnar saremmo passati lì a prenderle. «Pensi che dovremmo andare a mangiare un hamburger dopo il film?» Mi disse Gunnar, mentre guidava. «O magari una pizza. Potremmo mangiare al ristorante del centro commerciale, ma chiude alle nove, quindi dovremmo mangiare prima e dopo andare al cinema, ma io ho appena cenato, e tu? O non dovremmo andare al cinema. Potremmo andare alla discoteca in centro. Pensi che a Kimberly piacerebbe? Ma se andiamo là, non potremmo parlare. Certo, non si può parlare neanche al cinema, ma così potremmo mangiare più tardi; che ne pensi?» Queste erano un sacco di domande, ma non potevo rispondere a nessuna, perché Gunnar non smise mai di parlare abbastanza a lungo, non fino a quando arrivammo in prossimità della casa di Kimberly. Ovviamente, Gunnar era anche più nervoso di me per questo appuntamento. Quando parcheggiammo davanti a casa di Kimberly, finalmente Gunnar fece una pausa, quindi mi girai verso di lui e dissi: «Gunnar? Calmati.» «Cosa?» Disse lui. «Cerca di rilassarti. Mi stai innervosendo.» In realtà, questa era una bugia. La verità era, che l’attacco d’ansia di Gunnar in qualche modo aveva calmato me. Vallo a capire. 68
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Gunnar prese un paio di respiri profondi, poi annuì, e ci incamminammo verso la luce intermittente del portico anteriore. Avevamo appena suonato il campanello quando la porta d’ingresso si spalancò. Kimberly e Trish la occupavano completamente. Sembravano entrambe agitate, si notava dal panico negli occhi di Kimberly. Gunnar e io fummo costretti a indietreggiare sul portico. Kimberly stava già gridando. «Sto uscendo!» Disse. «Ciao mamma, ciao papà!» Poi guardò me e Gunnar, e disse a mezza voce, «Andiamo, andiamo, andiamo!» Gunnar e io eravamo senza parole. Ma Kimberly aveva già richiuso la porta d’ingresso alle sue spalle e ora ci spingeva con forza verso l’auto. «Andiamo, andiamo!» Disse. «Muoviamoci!» Solo allora capii quello che stava succedendo. Kimberly non voleva presentarci ai suoi genitori. Neanche io volevo essere presentato ai suoi genitori, quindi la cosa mi stava benissimo. Gunnar lo intuì nello stesso momento, quindi insieme, ci girammo e iniziammo a correre verso l’auto come i personaggi di un film d’azione che scappavano da un’esplosione. Solo quando arrivammo alla macchina, vidi un rettangolo di luce aprirsi sotto il portico dietro di noi. «Kimberly!» Disse la figura sotto la porta. «Kimberly, aspetta un minuto!» Era sua madre. «Ignoratela!» Sussurrò Kimberly, spalancando entrambe le portiere dell’auto. «Andiamo!» Poi si girò verso la casa e gridò. «Ciao, mamma! Saremo a casa entro l’una!» 69
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«Ma Kimberly…» disse la voce, ma era troppo tardi. Eravamo tutti dentro la macchina ora, e la madre di Kimberly poteva solo osservarci impotente da sotto la luce intermittente del portico. «Parti!» Disse Kimberly, e Gunnar obbedì. Non fece proprio stridere le gomme, ma ci andò vicino. Quando raggiungemmo la fine dell’isolato, finalmente Kimberly si rilassò, e il resto di noi con lei. Seduta nel sedile anteriore accanto a Gunnar, si accese una sigaretta. «Oddio,» disse lei. «Non avevo nessuna intenzione di sottoporci al suo interrogatorio.» «È tutto okay,» disse Gunnar. Esitò un secondo, poi aggiunse, «Dovete sostituire la lampadina del portico.» Pensai che eravamo a quell’appuntamento da dieci secondi, e Gunnar aveva già detto la cosa sbagliata. Doveva essere una specie di nuovo record. Trish era seduta nel sedile posteriore accanto a me, quindi mi girai verso di lei e dissi: «Ciao.» «Ciao,» disse Trish. Sul sedile di fronte, Kimberly era truccata pesantemente e con il seno spinto in fuori. Trish, invece, aveva un viso meno appariscente ma un fisico più bello, inoltre il suo vestito era piuttosto aderente e lasciava ben poco all’immaginazione. Non era male, per essere una ragazza. «Stai benissimo,» dissi, e lei arrossì. «Grazie,» disse con la voce sussurrante da topolino che ricordavo. «Anche tu.»
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«Dove andiamo?» Disse Kimberly, riuscendo in qualche modo a far arrivare il fumo sul viso di tutti contemporaneamente. «Al cinema?» Disse Gunnar. Era una domanda, non un’affermazione, e vidi Kimberly storcere il naso, disgustata. Capii subito che le piacevano i ragazzi sicuri di sé, e che il povero Gunnar non aveva speranze.
Avevamo già comprato i biglietti per una stupida commedia romantica, ma una volta dentro il multisala, Kimberly disse che voleva vedere uno stupido thriller erotico. Fosse stato per me, non avremmo guardato nessuno dei due. Io avrei voluto vedere un film d’animazione Disney, e questo credo dimostrasse che ero davvero il ragazzo gay che avevo sempre pensato di essere. Ma ancora una volta, ne sapevo abbastanza da tenerlo per me, quindi andammo a vedere il thriller erotico che voleva Kimberly. C’era una sala giochi aperta fino a tardi nello stesso centro commerciale del cinema, e dopo il film, andammo là. «Quel film era proprio da gay.» Disse Kimberly. Intendeva dire che faceva schifo, e spero capiate quanto questo mi offese. Notai Gunnar osservarmi con la coda dell’occhio, come se cercasse di interpretare la mia reazione al commento di Kimberly sul film. Pensai: Perché sta guardando me? Sospetta qualcosa? Ma poi mi venne in mente che probabilmente voleva solo sapere cosa ne pensassi di lei, che era molto male a questo punto.
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All’interno della sala giochi, Kimberly andò subito a giocare a flipper, con Gunnar che la seguiva dappresso per finanziarla se ne avesse avuto bisogno. Trish e io andammo allo snack bar, dove ordinai due hamburger e Coca-Cola. «Kimberly è davvero simpatica.» Dissi mentre aspettavamo l’ordinazione. Cercai di parlare in tono neutro, così Trish non poteva offendersi se trovava che la rumorosa e odiosa Kimberly fosse davvero divertente. Ma in realtà ero sarcastico, e pensai che se ne sarebbe accorta se la pensava come me. «Oh, di solito non è tanto male,» disse Trish, «ma è sempre così quando beve troppo.» Kimberly si era portata una fiaschetta al cinema e aveva continuato a correggersi la Coca-Cola con il rum durante tutto il film. Ovviamente, questo non spiegava il suo essere stronza anche prima del film, ma questo non lo feci notare a Trish. Una volta recuperata la cena, ci spostammo verso un tavolo, e notai due ragazzi che fissavano Trish. (Come ho detto, il suo vestito era davvero aderente.) Entrambi la scansionavano come macchine a raggi x, spogliandola con gli occhi. Poi alla fine guardarono me. Erano gelosi. Era tutto nuovo per me, quindi non sapevo bene cosa fare. Avrei dovuto snudare i denti e ringhiare? «Da quanto tempo siete amiche?» Dissi a Trish una volta iniziato a mangiare. «Da sempre,» disse Trish. «Sin dalla prima elementare.» «Come Gunnar e me. Ci siamo conosciuti in quarta.» «Davvero non è così male quando la conosci.» 72
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Avevo la bocca piena, ma parlai comunque. «Cosa ti fa pensare che non mi stia simpatica?» Trish si limitò a sorridere comprensiva. «L’ho intuito.» Forse non avevo usato un tono tanto neutro dicendo che era davvero simpatica. O forse Trish era molto perspicace. «Sono contenta che sei venuto stasera,» disse Trish. «Davvero?» Dissi. «Sì. Mi piaceva quando eravamo in classe insieme lo scorso anno. Mi piaceva parlare con te.» «Davvero? Anche a me.» La verità era, che mi ricordavo a mala pena di aver parlato con lei, e speravo solo che non fosse tanto perspicace da capire anche questo. All’improvviso, apparve Kimberly, pregandoci disperatamente di unirci a lei per giocare ad House of Dead II. Non c’era più molto da dire sull’appuntamento. Finimmo di mangiare, poi giocammo con i videogiochi, e poi mangiammo ancora. Poi Kimberly iniziò a sentirsi male, quindi Gunnar e io riaccompagnammo le ragazze a casa, e lui accompagnò Kimberly fino alla porta d’ingresso, e io salutai Trish vicino alla macchina. Questo per poterci eventualmente salutare con un bacio della buonanotte senza sembrare in una specie di orgia. «Grazie,» dissi a Trish, fermi sotto il bagliore di un lampione che metteva in ombra la luna. «Sono stato bene.» «Si,» disse Trish, avvicinandosi. «Anche io.» Poi ci baciammo. Il suo viso era in ombra, quindi le nostre labbra si mancarono all’inizio. Ma poi entrammo in contatto. 73
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Le sue labbra erano calde e viscide, come asparagi troppo cotti, e io sclerai un po’. Ma almeno non c’erano lingue coinvolte. Trish si allontanò per prima. «Mi chiamerai?» Disse. «Certo!» Dissi. Pensavate che le avrei detto la verità, l’avete pensato? Poi corse verso il portico, incrociando Gunnar, che tornava alla macchina. Okay, forse non era stato il miglior appuntamento del secolo, ma almeno questa stupida cosa con Trish era finita e avevo chiuso con lei. O così pensavo.
Quel lunedì mattina, entrai a scuola e fui sommerso dal frastuono di voci, dall’odore di soda e deodorante, e dalla vista di gruppetti di persone intente a leggere le copie del Goodkind Gazzette. Aspetta un minuto! Pensai. C’era qualcosa di strano in quell’immagine. Nessuno leggeva mai il giornale della scuola. E ancora peggio, tutto attorno a me, le persone non stavano solo leggendo; erano entusiasmate. Non erano neanche le otto di un lunedì mattina, e la gente si comportava come se fosse il pomeriggio dell’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze di Natale. Ma non riuscivo a capire niente di cosa dicessero - sentivo solo un lungo, rumoroso brusio. Osservai il gruppetto più vicino. Due di loro leggevano l’articolo in prima pagina. Entrambi sembravano assolutamente 74
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presi da quello che leggevano, come se ci fossero rivelati i segreti dell’universo o le risposte del test di biologia. Tutti gli altri dovevano aver già letto l’articolo, perché discutevano animatamente, qualche volta indicando verso il giornale. Non riuscivo ancora a capire che cosa dicessero, ma all’improvviso, una parola sovrastò le altre. «Banana,» disse Tad Brikle. Le persone erano così eccitate per un articolo del Goodkind Gazette su una banana? Questo era molto più che strano. Mi avvicinai di più al gruppetto e cercai di leggere il titolo dell’articolo da sopra le spalle di Brittany Vanderberg. Ma proprio in quel momento lei girò pagina, l’articolo continuava anche a pagina due. Poi distinsi un'altra parola. «Toles,» disse Monica Melnacht. Toles? Pensai. Come la professoressa Toles, l’insegnante di Educazione alla Salute. Per qualche motivo, questo mi rese nervoso. Mi voltai verso un vicino dispenser della rivista, ma era vuoto. Era la prima che accadeva. Che stupidaggine, pensai. Dovevo semplicemente chiedere a qualcuno a cosa fosse dovuta tutta quell’agitazione. A quel punto sentii Zach Ward dire la parola: «Gay.» Gay? L’articolo riguardava una persona gay? Non mi piaceva affatto!
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Mi affrettai verso l’armadietto di Min, sperando che mi illuminasse sulla questione. «Cosa sta succedendo?» Dissi quando la trovai. Si guardò intorno, per accertarsi che fossimo soli. «Siamo fregati,» disse sottovoce. «Ecco cosa succede.» «Chi?» «Il Geography Club.» Non avrei pensato di poter essere più teso, ma successe. «Cosa?» Dissi «Perché?» Tirò fuori una copia del giornale dal suo armadietto e me la consegnò, tesa. «Leggilo.» Disse. Non volevo leggerlo. Volevo che fosse Min a dirmi cosa stava succedendo. «Dimmelo tu!» Dissi. «La professoressa Toles ha rilasciato un’intervista al giornale della scuola.» Che importava se la professoressa Toles aveva rilasciato un’intervista al Goodkind Gazette? Cosa poteva avere a che fare con il Geography Club? «E allora?» Dissi. Sembravo impaziente, ma la verità era, che non ero più tanto sicuro di volerlo sapere. «E allora leggilo!» Adesso anche Min era impaziente. Presi il giornale dalle sue mani. Min mi indicò l’articolo, e io iniziai a leggere. 76
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Il titolo recitava: “L’insegnante di Educazione alla Salute dice ciò che pensa, si innesca la polemica.” Ora capivo cosa intendesse la gente dicendo di avere il cuore in gola. Era un profilo della professoressa Toles. Parlava delle sue opinioni riguardo l’educazione sessuale e di cosa pensasse dei distributori di preservativi nei bagni delle scuole superiori (era a favore) e dei dépliant “Pratica l’astinenza” (era contraria). Parlava anche di quando aveva messo il preservativo sul cetriolo in classe. (“Nessuno studente si è lamentato con me a riguardo,” diceva la professoressa Toles, “e dopo la lezione tre studenti si sono avvicinati per ringraziarmi.” Dovevo ammettere che si trattava per lo più di cose buone.) Ma non avevo bisogno di finire l’articolo per capire che la professoressa Toles era spacciata. Sarebbe stata licenziata entro la fine dell’anno solo per la storia del cetriolo e del preservativo. Ora, dopo questo articolo sul giornale, sarebbe successo al massimo entro una settimana. Niente al mondo avrebbe potuto evitarlo. Però niente di tutto questo aveva a che fare con il Geography Club, o con qualsiasi cosa “gay” e non riuscivo a capire il motivo per cui Min fosse così arrabbiata. «Cosa c’entriamo noi?» Dissi. «Non riesco a capire-» «Gira pagina,» disse Min, «e continua a leggere.» Diedi uno strattone alla pagina – strappandola in parte nel processo - e proseguii la lettura. Due paragrafi prima della fine dell’articolo, mi si gelò il sangue nelle vene. Era una citazione della professoressa Toles 77
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(“Come educatore sanitario, è mio dovere insegnare a tutti gli studenti,” diceva. “Quindi anche agli studenti gay. Perché ci sono studenti gay e lesbiche in tutte le scuole della città, compresa la nostra,” proseguiva la Toles. “Proprio la scorsa settimana ho parlato con uno di loro riguardo un gruppo di sostegno per adolescenti gay.”) Un dettaglio di secondaria importanza! Di questo parlava tutta la scuola. Per questo Min era così sconvolta. Qualcuno aveva vuotato il sacco sul Geography Club!
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CAPITOLO SETTE
Terese era furiosa. «Va bene,» domandò. «Chi ha fatto la spia?» Era quello stesso lunedì pomeriggio dopo le lezioni, a una riunione di emergenza del Geography Club. E Terese non era l’unica ad essere arrabbiata per l’articolo sulla professoressa Toles. Nessuno aveva nemmeno salutato arrivando. Tutti e cinque eravamo entrati in classe guardandoci di traverso, come lottatori di wrestling intenti a studiarsi a vicenda prima di attaccare. Quando nessuno si fece avanti ammettendo di essere il colpevole, Terese disse: «Allora?» Faceva sul serio. «Non sono stato io,» dissi, se non altro perché qualcuno doveva cominciare. «Terese,» disse Min. «Sai che non sono stata io» Ike scosse la testa. «Non ci ho mai nemmeno parlato con la professoressa Toles.» Terese si girò di scatto verso Kevin. «Allora sei-!» Kevin alzò le mani sulla difensiva, come se avesse pensato che Terese potesse colpirlo. «Aspetta un minuto!» Disse Kevin. «Non sono stato nemmeno io!» «Allora chi?» Disse Terese. 79
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Ci fissammo di nuovo a vicenda in cagnesco come un branco di lupi rabbiosi. Poi mi venne in mente una cosa. «Terese?» Dissi. Si girò di scatto verso di me. «Cosa c’è?» «E solo che tu sei l’unica-» Mi rivolse uno sguardo serio. «No! Non sono stata nemmeno io.» Min andò a sedersi su uno dei banchi. Sembrava confusa quanto me. Ike iniziò a camminare avanti e indietro. E Kevin aveva tirato fuori dal suo zaino una pallina da baseball che iniziò a lanciare in aria e riprendere. Non gliel’avevo mai visto fare prima, sembrava una specie di tic nervoso. (Anche se ero arrabbiato, trovai la cosa interessante). «Davvero non è stato nessuno di voi?» Disse Terese. «Non sono stata io,» Disse Min. «O io,» dissi. «O io,» disse Kevin. «Non sono stato io,» disse Ike. Li guardai uno ad uno, le spalle curve e l’aria da cane bastonato. Gli credevo. All’improvviso, ero certo che nessuno in quella stanza avesse fatto la spia. E anche tutti gli altri iniziarono a crederci. Ci eravamo detti l’un l’altro troppe verità per iniziare a mentire ora. Avvertii la tensione nella stanza scemare, mentre continuavamo a guardarci negli occhi. «Allora chi?» Disse Terese con più calma. Min alzò improvvisamente lo sguardo. «Beh, chi dice che sia stato uno di noi? Ci sono ottocento studenti in questa scuola. Ci 80
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devono essere più di cinque persone gay. Magari è stato uno di loro.» «Certo!» Disse Terese. «E anche lui casualmente ha fondato un gruppo di supporto come il nostro nello stesso momento?» «Aspetta,» dissi. «La professoressa Toles non ha mai detto che avevano già formato un gruppo. Ha detto solo che ci stavano pensando.» «Allora davvero nessuno di noi ha parlato,» disse Terese. Appariva sia grata che sollevata. «Davvero un ottimo tempismo,» disse Ike. «Voglio dire, con il nostro club e tutto il resto. Ora tutti parlano del club di gay e di chi potrebbe essere il ragazzo gay.» «E allora?» Disse subito Min. «Non abbiamo niente di cui preoccuparci. Voglio dire, nessuno di noi dirà niente, quindi come possono scoprirci? Questo è un club di geografia. Perché qualcuno dovrebbe sospettare altro?» Ci ragionammo tutti. Aveva abbastanza senso. «Inoltre la gente crede già di sapere chi è il ragazzo gay,» disse Ike. «O almeno per i miei amici è così.» «Si,» disse Kevin. «Anche i miei.» «Anche i miei,» disse Terese. «Ho sentito dire qualcosa,» disse Min. «Di chi sospetta la gente?» Dissi, come se non lo sapessi. Com’era prevedibile, Ike disse: «Brian.» Kevin disse: «Brian.» Terese disse: «Brian.» E Min disse: «Brian.» 81
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Pensai: Chi ha detto che le diverse cricche e gruppi della nostra scuola non hanno niente in comune? Tutti sembravano d’accordo nell’odiare Brian Bund. Povero ragazzo. Come se avesse bisogno che le persone fossero ancora più cattive con lui. «Allora nessuno sospetta minimamente di noi?» Disse Terese. E Min annuì. Stemmo in silenzio ancora un secondo, poi Kevin disse: «Docius!» Una specie di: “supercalifragilisticexpialidocious”, dal film Mary Poppins, ed era un esempio del famoso senso dell’umorismo della mia generazione. Più o meno una parola multiuso nella nostra scuola, che voleva dire sia “davvero bello” (Grande!) che “davvero brutto” (Merda!). Kevin voleva dire solo quanto era contento che non fosse successo niente di male al Geography Club. Infatti, Kevin adesso era felice, non tirava più nervosamente la palla. Ora la lanciava tranquillamente in aria. Ma dopo un lancio mentre ricadeva, mancò la presa e per sbaglio gli cadde. Ero vicino a lui, quindi mi chinai e agguantai la palla prima che toccasse terra. «Bella presa!» Disse Kevin quando gli rilanciai la palla. «Hai mai pensato di entrare nella squadra di baseball?» Non ci avevo mai pensato. Ma adesso sì. Fui sorpreso di vedere che Gunnar mi avesse aspettato durante la riunione del Geography Club. Lo trovai intento a leggere sull’erba vicino alla rastrelliera delle bici. Questa era dedizione, visto che faceva ancora piuttosto freddo fuori. O così, o voleva qualcosa da me. 82
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«Ciao,» disse lui, alzandosi e mettendo a posto il suo libro. «Dove sei stato?» «Oh,» dissi. «Scusa. Sono entrato in un club. Di solito, ci vediamo il martedì e il giovedì, ma oggi avevamo una specie di riunione straordinaria.» «Che tipo di club?» Questa era la domanda che avevo temuto da Gunnar per giorni. Se c’era qualcuno nella nostra scuola interessato a far parte di qualcosa come un club di geografia, era Gunnar. Era semplicemente un tipo strano. «È un club di geografia,» gli dissi. «Ma è davvero noioso. Lo faccio solo per metterlo sui moduli del college.» «Oh.» Mi aspettavo delle domande in proposito da lui, invece nulla. «Allora, sei pronto ad andare via?» «Si, certo.» Dissi. E iniziai subito a togliere la catena dalla mia bici, ma quello che avrei voluto fare davvero era saltare e battere i tacchi uno contro l’altro e gridare: “Gunnar non vuole entrare nel Geography Club!” Montammo sulle bici e ci avviammo verso casa. «Allora,» disse Gunnar. «Sei stato bene sabato?» Impiegai qualche secondo a realizzare che si riferiva all’appuntamento con Trish. Fin da quando ero risalito in macchina, non avevo praticamente più pensato a lei. «Si,» dissi. «Trish è carina.» Sapevo che Gunnar si sentiva depresso dopo il suo appuntamento con Kimberly. Non c’era ragione per farlo sentire peggio facendogli pesare il fatto che mi aveva incastrato con Trish. «Mi dispiace che fra te e Kimberly non abbia funzionato,» dissi. 83
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«Chi ha dice che non ha funzionato?» Disse Gunnar. Sembrava offeso. Fui costretto a guardarlo per accertarmi che non stesse scherzando. Sembrava offeso per davvero. «Cosa?» Dissi. «Cosa che cosa? Cosa ti fa credere che con Kimberly non abbia funzionato?» «Beh, io…» Ripensai a tutto quello di cui avevamo parlato sabato sera dopo aver riaccompagnato le ragazze. Nessuno dei due aveva detto esplicitamente che il suo appuntamento con Kimberly era stato un fallimento totale. Ma Kimberly in generale si era comportata da stronza, e aveva ignorato Gunnar per tutta la notte. Quindi avevo dato per scontato che si fosse reso conto che era stato un disastro. L’unico motivo per cui non avevo detto nulla sabato sera era che non volevo farlo sentire ancora peggio visto che sembrava starci già molto male. «Vuoi dire che ti piace ancora Kimberly?» «Certo! Mi piace molto. Abbiamo parlato oggi durante la pausa. Vuole uscire di nuovo questo fine settimana.» «Cosa?» Sapevo che era da maleducati sembrare così sorpreso, ma non riuscii a trattenermi. Non riuscivo a credere che Kimberly volesse uscire di nuovo con Gunnar. Forse se lo stava inventando? «Sembri sorpreso,» disse Gunnar. Provai a fargli credere che il mio tono di voce fosse dovuto alla fatica per la pedalata. «No,» dissi. «No! È grandioso. Voglio dire, lei ti piace, giusto?» «A te no?»
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«Non ho detto questo!» Perché tutti continuavano a pensare che non mi piacesse Kimberly? Era vero, ma come facevano a saperlo tutti? «Era un po’ ubriaca,» disse Gunnar. «Voleva solo divertirsi.» Ero combattuto. Una parte di me era felice per Gunnar. Sapevo da quanto tempo desiderasse avere una ragazza. Ma una altra parte di me pensava, Dio, perché proprio Kimberly Peterson? Non poteva finire bene per lui. Come avrebbe potuto? A lei neanche avrebbe dovuto piacere uno come Gunnar. Probabilmente lo stava solo usando per qualche motivo - ma quale? «Oh!» dissi, perché all’improvviso sapevo esattamente il motivo per cui lo stava usando. A Kimberly non interessava Gunnar, ma a Trish piacevo io. Per questo Kimberly voleva un altro appuntamento con Gunnar. Trish voleva uscire di nuovo con me. E sapendo quanto piacesse a Gunnar – era paurosamente ovvio – Kimberly gli dava corda nella speranza che, in quanto mio migliore amico, lui mi convincesse ad uscire ancora con Trish. O forse Trish non voleva ancora uscire da sola con me, e voleva Kimberly e Gunnar di nuovo insieme a noi. In ogni caso, era questo l’unico motivo per cui Kimberly voleva uscire di nuovo con Gunnar. Ne ero certo. Se mi fossi rifiutato di uscire con Trish, Kimberly avrebbe mollato Gunnar all’istante. «“Oh”, cosa?» Disse Gunnar. «È solo che…» Stavo per dirgli quello a cui pensavo. Ma poi guardai bene al ragazzo sulla bici accanto alla mia, e all’espressione sul suo volto. Aveva una di quelle espressioni confuse, totalmente vulnerabili e capii che se gli avessi detto la verità, non si sarebbe più ripreso.
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Allora decisi che non era necessario dirglielo. Inoltre, forse mi sbagliavo. Che ne sapevo? Forse a Kimberly piaceva davvero Gunnar. Lui aveva quell’aria da smanettone affascinante. Ero il primo ad ammettere di non capire i pazzeschi motivi che spingevano le coppie etero a mettersi insieme. (Non capivo neanche i pazzeschi motivi per cui lo facevano le persone gay, però questa era un’altra storia.) «Oh, c’è un’altra buona notizia!» Disse Gunnar, ma sapevo già qual era: anche Trish voleva uscire di nuovo con me. «Quale?» Dissi. «Anche Trish vuole uscire ancora con te,» disse Gunnar. «Kimberly pensa che potremmo uscire di nuovo tutti insieme.» Cercò di suonare entusiasta, ma percepivo la preoccupazione nella sua voce, la paura che avrei tirato su un altro polverone per non uscire con Trish. In altre parole, almeno nel subconscio, pensai che anche Gunnar sapesse di essere usato. «Allora?» Disse. Racimolai il sorriso più grande che mi riuscì per il mio amico. «È fantastico. Mi piacerebbe uscire ancora con Trish!» Dopotutto, era solo un altro piccolo appuntamento. Quanto poteva essere terribile? Il giorno dopo prima delle lezioni, incontrai Min vicino al suo armadietto e le dissi che sarei uscito di nuovo con Trish Baskin. E senza darmi troppe arie, le spiegai anche il perché. Sorrise ammirata. Poi disse: «Sei davvero un bravo ragazzo. Lo sai, Russel? Sei un ragazzo decisamente rispettabile.» Arrossii un po’. Ancora più che far sorridere Min, mi piaceva che pensasse a me come a una persona degna di rispetto. Immaginai perché pensavo la stessa cosa di lei. 86
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Mi avvicinai a lei e abbassai la voce. «Allora come vanno le cose? Con Terese, voglio dire.» Sembrava non sapere di cosa parlassi, lo trovai un po’ strano. Lei disse: «Di cosa parli?» «Beh,» dissi, «la scorsa settimana nel parco eri abbastanza giù di corda.» «Oh, quello.» Alzò gli occhi al cielo. «Era solo una stupidaggine.» «Davvero?» «Sì. Siamo state insieme un paio di volte da quel giorno. Non è cambiato nulla. O se è cambiato qualcosa, è stato in meglio.» «Davvero?» Lei annuì. Non stava facendo buon viso a cattivo gioco. Diceva la verità. «Beh, è fantastico!» Dissi. Pensai a tutto quello che era successo negli ultimi giorni. Min e Terese erano tornate a stare bene insieme. Nessuno di noi aveva fatto la spia sul Geography Club. Inoltre Kevin mi voleva nella squadra di baseball. Certo, ero gay ed uscivo con una ragazza - e la cosa non mi piaceva per niente - però lo stavo facendo per un amico, quindi alla fine non mi sembrava una cosa così terribile. Il fatto era che, le cose finalmente stavano andando per il verso giusto, e non riuscivo a immaginare niente che potesse cambiare la situazione. «Questo è tutto, Middlebrook!» Mi disse Kevin Land. «Ora pulirò il pavimento con la tua faccia!» 87
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Era quel pomeriggio all’incontro del martedì del Geography Club e stavamo per giocare a baseball dentro la classe del professor Kephart. Usavamo una pallina da ping-pong come palla e il cancellino come mazza. Kevin era il lanciatore e io stavo alla battuta. Erano Kevin e Terese contro Ike, Min e me. «Forza, batti, batti!» Intonò Terese. «Forza, batti, batti!» Kevin lanciò la palla, e io la colpii. Ci fu un thwap davvero soddisfacente, e a pallina volò sui banchi. «Corri!» Gridò Min. «Corri!» Non c’era bisogno di dirlo. Ero già scattato verso la prima base, che era un banco della prima fila. «Prendila, Prendila!» Gridò Kevin a Terese. «Lanciamela!» Ma era finita sotti i banchi in fondo alla classe, e lei faticava a trovarla. «Vai!» Mi disse Min. «Continua a correre!» Quando raggiunsi la prima base, Terese stava ancora cercando la palla, quindi mi avviai verso la seconda base – un altro banco. «Forza!» Gridò Ike. «Sei quasi alla casa base!» Presto superai la terza base, e ancora non c’era nessuna pallina da ping-pong in vista. «Sbrigati!» Gridò Kevin a Terese. «Sbrigati!» «Ce l’ho!» Disse Terese, rimettendosi dritta. Lanciò la palla a Kevin, che la prese al volo e corse per intercettarmi alla casa basa. Si schiantò contro di me con la forza di un meteorite - un meteorite con i bicipiti e gli addominali scolpiti! «Eliminato!» Disse Kevin, con le sue braccia strette intorno a me. 88
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«Salvo!» Disse Ike. «Eliminato!» Disse Terese. «Salvo!» Disse Min. «Salvo!» Dissi io. «Tre contro due!» «Buuuuu!» Gridò Terese dal retro dell’aula. «È un colpo basso!» Iniziammo tutti a ridere, e onestamente non riuscivo a pensare ad un altro momento in cui mi ero sentito così vicino a un gruppo di persone. (Ho già detto che Kevin mi stringeva fra le sue braccia?) Proprio in quel momento, qualcuno bussò alla porta della nostra classe. «Oops,» disse Terese, fingendo di essere terrorizzata. «Troppo rumore.» Soffocammo le risate al meglio (e Kevin alla fine si allontanò da me) e Min andò ad aprire la porta. «Si?» Disse? Era una ragazza di colore corpulenta con indosso un maglioncino arancione e un cerchietto di plastica abbinato. Era del primo anno, e un membro dell’orchestra, quindi si collocava fra gli smanettoni del computer e gli ambientalisti in termini di popolarità (più vicino agli smanettoni). «È questo il club di geografia?» Disse lei. «Si,» disse Min. «Ci dispiace se abbiamo fatto troppo rumore.» «Non per è questo,» disse la ragazza. «Allora cosa?» 89
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ÂŤBeh, vorrei sapere cosa fare per iscrivermi.Âť
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CAPITOLO OTTO
«Come iscriverti?» Disse Min alla ragazza grassa con il cerchietto arancione nei capelli. La ragazza sulla porta inclinò la testa. «Beh, al Geography Club. Non avete detto che è questo?» «Vuoi iscriverti al Geography Club?» Disse Ike. Lei annuì. Nessuno disse niente, e sentii il mio stomaco andare in subbuglio come su un ascensore senza freni. Una studentessa nongay voleva iscriversi al Geography Club! Se l’avessimo mandata via, poi non avremmo più potuto usare la classe del professor Kephart nel doposcuola, il che sostanzialmente avrebbe segnato la fine del Geography Club. Ma se l’avessimo fatta entrare, non avremmo più potuto parlare di quello che volevamo – anzi avremmo dovuto parlare di geografia! – e anche questo avrebbe causato la fine del Geography Club. «Perché?» Chiese Terese alla ragazza. Era la stessa domanda a cui pensavamo tutti. «Perché cosa?» Disse la ragazza. «Perché il club di geografia?»
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La ragazza si strinse nelle spalle, e notai che indossava degli orecchini gialli a forma di faccina sorridente. «Penso che mi potrebbe aiutare con i test di fine anno,» disse lei. «A proposito, sono Belinda Sherman.» «Non c’è geografia nei test di fine anno,» disse Min. «Non c’è?» Disse Belinda. «Beh, non può far male, giusto?» «Ma la geografia è noiosa,» disse Kevin, quasi indignato. «Be, non è questo lo scopo del club? Renderla meno noiosa?» Belinda Sherman non era semplicemente “non-gay” – era esuberante. Odiavo le persone esuberanti anche più di quanto odiassi quelle sleali come Kimberly Peterson. «Come hai saputo di noi?» Le chiesi. «Oh. Ho visto il vostro modulo di richiesta. Sto facendo tirocinio nella segreteria della scuola.» «C’è una quota d’ingresso di cinquanta dollari!» Disse Terese. «Sai, per le mappe e gli atlanti e cose del genere?» «Oh,» Disse Belinda. Ci pensò per un secondo. «Scommetto che mio zio la pagherà. È un carto…qualcosa? Disegna mappe. Veramente, è solo un geometra, però più o meno è lo stesso. Forse può venire a parlare con noi qualche volta, eh?» Eravamo senza parole. Cosa c’era da dire? Belinda, una ragazza grassottella del primo anno con il cerchietto arancione e gli orecchini gialli a forma di faccina sorridente, era arrivata, ci aveva visto, e conquistato.
L’indomani, mi unii alla squadra di baseball. 92
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Vorrei poter dire che ci entrai perché volevo giocare a baseball e che pensavo di farlo da tempo. Ma non potevo dirlo, perché non mi piaceva e non ci avevo mai pensato. A dire il vero, pensavo che il baseball fosse un po’ noioso. Ed ero in ansia all’idea di trovarmi ogni giorno per più tempo del solito in uno spogliatoio pieno di atleti idioti e strafottenti. No, in pratica mi stavo unendo alla squadra di baseball perché me l’aveva chiesto Kevin. Per questo e per il fatto che l’ingresso di Belinda Sherman nel Geography Club in pratica avrebbe segnato la fine del Geography Club. E pensai che se non fossi entrato nella squadra di baseball, non avrei più visto Kevin. Era un’esagerazione, ma in quel momento aveva senso. (Cosa posso dire? Ero cotto di lui.) Quindi nel momento esatto in cui la campanella annunciò la fine delle lezioni, prima che potessi convincere me stesso a tirarmene fuori, corsi fino agli spogliatoi della palestra. Arrivai prima di tutti gli altri giocatori di baseball e degli altri atleti che usavano lo spogliatoio in quel periodo dell’anno. L’allenatore della squadra era anche l’insegnante di educazione fisica, ed ero sicuro di trovarlo nel suo piccolo ufficio, posizionato appena fuori dagli spogliatoi. Bussai alla porta, e lui rispose. Era grasso e calvo, ironico per un insegnante di educazione fisica. «Vorrei entrare nella squadra di baseball,» esordii. «Sul serio?» Disse lui, squadrandomi attentamente. «Hai già giocato?» Gli dissi che non giocavo seriamente a baseball dalla seconda media, e lui perse un po’ di entusiasmo. Però avevo giocato in 93
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seconda media, e non facevo così schifo. (Ricordate, questo significa che ero abbastanza bravo.) Ed ero stato abbastanza bravo anche in quella partita in classe. «In che posizione giocavi?» Mi chiese l’allenatore. Posizione? Pensai. Non sapevo che fosse necessario scegliere una posizione specifica. Alle medie le avevo coperte tutte, a rotazione. «Interbase.» Dissi, perché era la prima cosa che mi venne in mente. Poi mi diede un elenco delle attrezzature che mi sarebbero servite, incluse alcune cose imbarazzanti da atleta che avevo sperato di non dover mai più acquistare. Mi diede anche un modulo da far compilare ai miei genitori e dal medico, e mi lasciò andare via. Non avevo ancora lasciato lo spogliatoio quando tutti i miei dubbi sull’unirmi alla squadra mi assalirono. Mi stavo prendendo in giro. Oltretutto, ero stato così stupido da aver fatto tutto questo solo per amore di Kevin. Non avevo orgoglio? Però allontanandomi dallo spogliatoio, incontrai Kevin che a sua volta andava agli allenamenti. «Ciao,» dissi, cercando di non sembrare troppo eccitato. «Mi sono appena unito alla squadra.» «Alla squadra?» Disse. «Di baseball.»
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Kevin mi guardò a bocca aperta per un secondo. Poi disse: «Grande! Ci sarai di grande aiuto!» Più parlava, più gli si allargava il sorriso. Potevo quasi specchiarmi nel bianco dei suoi denti. E all’improvviso, non mi importò più della mia “posizione” in campo, o che entrare in una squadra solo per stare vicino a un ragazzo era una pessima idea. Kevin Land era felice che mi fossi unito alla squadra di baseball, e questa era l’unica cosa importante! Ero patetico o cosa?
Quel fine settimana, andai al mio secondo appuntamento con Trish Baskin. Gunnar e io andammo a prendere le ragazze a casa di Kimberly, dove Trish stava di nuovo passando la notte. Almeno questa volta, non fummo costretti a scappare dai genitori di Kimberly. Questa volta, Gunnar si era messo d’accordo con le ragazze per incontrarci oltre l’angolo alla fine dell’isolato. Per la prima volta nella mia vita, ero quel genere di ragazzo che incontra di nascosto una ragazza di notte (Eccetto che davvero non lo ero). Andammo a cena in un ristorante cinese, e Kimberly ordinò solo fritti, quindi tutto quello che poteva essere fritto era fritto. A metà del pasto, disse: «C’è un cazzo di capello nella zuppa piccante!» «Credo che sia tuo,» le dissi. Ero sicuro che nessun dipendente del ristorante avesse lunghi capelli biondi. 95
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«Sta zitto cazzo!» Disse Kimberly. «Vuoi cenare gratis o no?» In altre parole, Kimberly sfoderava nuovamente il suo fascino. Dopo aver finito di mangiare io e Gunnar ci dividemmo il conto. (E non solo non volli cenare gratis, ma lasciai anche una generosa mancia per riparare alla figuraccia di Kimberly.) In seguito, ci spostammo verso la discoteca per adolescenti in centro. Non c’ero mai stato, e il furetto dentro di me rimase impressionato dagli specchi e dalle luci stroboscopiche. La musica era assordante, il che rese impossibile parlare, ma visto che ero con Trish e Kimberly, non era necessariamente un male. Gunnar e Kimberly andarono a prendere da bere, e io mi avvicinai a Trish. «È bello qui,» dissi, alzando la voce per farmi sentire. Lei annuì e disse qualcosa in risposta, ma non avevo idea di cosa, perché lei parlava ancora con la sua solita voce bassa e sussurrante. «Vuoi ballare?» Le dissi, e Trish annuì. Dopo cinque o sei canzoni, Trish si appoggiò al mio orecchio, e questa volta la sentii, anche se a malapena. «Ti va di andare a fare un giro?» Disse. «Solo noi due.» Un giro? Pensai. Eravamo appena arrivati, e avevo speso venti dollari per far entrare entrambi. Perché voleva andare a fare un giro? «Dove?» Dissi. «Non abbiamo la macchina.» «Puoi prendere quella di Gunnar.» 96
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Mi strinsi nelle spalle. «Vado a chiederglielo.» Quando trovai Gunnar e gli spiegai il motivo per cui mi servivano le chiavi, lui sembrò confuso. «Cosa c’è?» Dissi. «Niente,» rispose, dandomi velocemente le chiavi prima di correre a cercare Kimberly, che in qualche modo era riuscita ad allontanarsi da lui. Gunnar sembrava preoccupato per qualcosa. Trish e io ci lasciammo timbrare la mano, poi uscimmo dal locale. Aveva iniziato a piovere mentre eravamo dentro. Non era un acquazzone, ma nel tempo che impiegammo a raggiungere la macchina, ero abbastanza bagnato. Faceva freddo fuori, ma ancora accaldato dal ballo, me ne accorsi appena Una volta dentro la macchina, dissi: «Dove vuoi andare?» «Oh, non lo so,» disse. Così guidai verso un tratto di parco che costeggiava l’acqua a nord del centro. «Hey,» disse Trish. «Fermati qui.» Da dove eravamo, di solito c’era una bella vista delle isole a largo della baia. Ma era buio, e la pioggia cadendo sembrava un lenzuolo grigio battuto dal vento, tanto che era appena possibile distinguere i contorni neri della terra in mezzo all’acqua. Fermai la macchina e restammo in silenzio per un minuto o due. Eccetto per la pioggia che batteva sul tetto dell’auto e scivolava sui finestrini, era tutto tranquillo. Con il rombo della musica ancora nelle orecchie, il silenzio era snervante. Inoltre,
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iniziava a fare freddo, il riscaldamento dell’auto non era rimasto acceso abbastanza a lungo e la temperatura scendeva rapidamente. «Mi piace il locale,» disse Trish. «Già,» dissi, pensando: Non le ho detto la stessa cosa meno di un’ora fa? Sedemmo fianco a fianco sui sedili per un po’ di tempo. Finalmente, Trish rabbrividì e si strinse nella giacca. «Hai freddo?» Dissi, preparandomi ad avviare l’auto. «Possiamo tornare…» «No!» Disse Trish. «Sto bene. Ho solo…» E senza preavviso, scivolò sul sedile fino ad attaccarsi a me. Poi mi strinse attorno le braccia e poggiò la testa sul mio petto. Io sollevai il braccio per allontanarmi, e Trish lo prese e se lo poggiò attorno le spalle. «Ecco,» disse, contenta. «Così va molto meglio.» Restammo in questa posizione per qualche minuto, un groviglio umano. Mi sentivo rigido e imbarazzato, ma non osai muovere un muscolo per paura di urtare Trish. «Posso sentire il battito del tuo cuore,» disse Trish, con voce soffocata. «Oh,» dissi. Riuscivo a sentirlo anche io. Mi pulsava nelle orecchie. Ecco un altro silenzio. Stavo sudando di nuovo, nonostante il freddo dentro la macchina. Non ero un idiota. Sapevo la destinazione finale di quel suo piccolo “giro”. Ma non potevo levarmela di dosso, o potevo? 98
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«Russel?» Disse Trish. «Si?» Lei mi guardava, ma evitai di incrociare il suo sguardo. «Ti piaccio?» Disse. Cosa avrei potuto rispondere ad una domanda simile? Mentii «Certo.» «Perché tu mi piaci.» «Grande.» «Russel?» Visto che non disse più nulla, alla fine sbirciai verso di lei. Aveva gli occhi chiusi e le labbra appena socchiuse, e sapevo che voleva essere baciata. Gunnar, pensai, ti ucciderò! Ma l’unico modo di mettere fine a quella orribile serata era farlo. Malgrado il suo alito puzzasse, mi chinai e la baciai. Nell’attimo in cui le mie labbra sfiorarono le sue, la bocca di Trish si aprì come la porta di un garage, e sentii la sua lingua frugare sulle mie labbra. Era come un’ostrica cruda con una mente propria. Sorpreso, mi allontanai. Gli occhi di Trish si spalancarono. «Qualcosa non va?» Disse. Artigliai la portiera dell’auto. «Non lo so. Niente. Solo non credo che dovremo…» «Cosa?» «Lo sai.» «Perché no?» «Be’, non abbiamo i preservativi.» 99
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Trish si tirò indietro e raddrizzò la schiena sul sedile accanto a me. «Beh, non ho detto che volevo fare sesso con te adesso, l’ho fatto? Pensavo ci stessimo solo baciando!» «Oh.» Mi sentii un completo idiota. Ma almeno ero riuscito a fermare il bacio. Trish esitò. Poi sussurrò, ancora più piano del solito: «Però se vuoi farlo, ne ho qualcuno nella mia borsa.» Fissai la pioggia fuori dalla macchina, che aveva davvero iniziato a cadere. Quindi, anche Trish “il topolino” aveva fatto sesso. E adesso voleva farlo con me. Come diamine avevo fatto a cacciarmi in quel pasticcio? Ma più importante, come ne potevo uscire? «Non l’hai mai fatto prima,» disse Trish. «Vero?» «Cosa?» Ero scioccato e nel pallone. «Sì! L’ho fatto!» «Quando? Con chi?» All’improvviso, Trish smise di sussurrare. Era strano sentire per la prima volta la sua vera voce. «Sembra un interrogatorio,» dissi. «Con una ragazza del mio quartiere.» Questa era proprio bugia. Non c’era nessuna ragazza. E non ce ne sarebbe mai stata una, se avessi potuto evitarlo. «Va bene se non l’hai mai fatto. Non è un problema.» Non dissi niente. «Cosa c’è?» Disse Trish. «Sei gay o qualcosa del genere?» «No! Certo che no!» Ovviamente, un’altra bugia.
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Stemmo fermi ancora per qualche minuto, entrambi guardavamo la pioggia battere sul parabrezza. Di solito, quando sentivo le gocce sul tettuccio dell’auto ringraziavo di non essere fuori. Ma ora avrei preferito di gran lunga stare fuori sotto la pioggia, che dentro la macchina con lei. «Allora?» Disse Trish. «Vuoi farlo o no?» «Cosa?» Dissi, anche se sapevo dannatamente bene cosa. Si voltò verso di me e sorrise. «Lo sai.» «Oh,» dissi. Trish continuava a fissarmi, e io non avevo ancora trovato una via d’uscita. Se non avessi fatto sesso con lei, Trish lo avrebbe potuto dire a tutti. E c’era solo un tipo di ragazzo che rifiutava un’occasione come quella. La gente avrebbe fatto due più due. «Rilassati,» disse lei, riavvicinandosi. «Okay?» Sentii le sue mani su di me, e ricominciò a baciarmi. La sua lingua scivolò di nuovo nella mia bocca, e subito pensai alla creatura del film Alien, quella che ti si attacca al viso e ti entra in gola per impiantare il suo embrione nel tuo stomaco. No, pensai. Questo è troppo. Se lo avessi fatto, davvero non avrei avuto nessuna dignità. All’improvviso, non mi importava più di quello che Trish avrebbe potuto dire di me. La allontanai. E in malo modo, suppongo. «Uh?» Disse lei, rimettendosi dritta. «Cosa c’è che non va?» «Niente,» dissi. «Penso solo che dovremmo tornare in discoteca.»
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Trish sospirò, come rassegnata, e si lasciò scivolare contro lo schienale del sedile. «Non è per te!» Dissi in fretta. «È solo che… avevi ragione. Io sono, tipo, sai, vergine. E ho sempre pensato che la mia prima volta sarebbe stata diversa. Speciale, credo. E non sul sedile anteriore di una macchina. Mi piaci molto, però se mai lo faremo, penso che dovrebbe essere speciale...» Persino io, un bugiardo patentato, mi sorpresi di quanto facilmente mi fosse venuta quell’ultima bugia, e di quanto suonasse convincente. Ma mi serviva un’ottima storia per tenere Trish lontana dal conoscere il vero motivo per cui l’avevo respinta. Fortunatamente, il volto di Trish iniziò a distendersi. «Oh! Russel, non fa niente. È davvero dolce in realtà. Non dobbiamo per forza farlo stanotte. Hai ragione. La tua prima volta dovrebbe essere speciale.» Poi, Trish accettò di tornare alla discoteca. Con tutto quel sudare, il timbro sulla mia mano era quasi sparito. Ma si ricordarono di me e mi lasciarono rientrare. Trovammo Gunnar e Kimberly, e Trish e Kimberly si diressero subito verso il bagno. Sapevo per certo che Trish avrebbe raccontato tutto a Kimberly. «Okay,» mi disse Gunnar mentre aspettavamo. «Cos’è successo?» «Cosa?» Dissi. «Con Trish! Avete fatto un ‘giro’?» «Non è successo nulla! Abbiamo parlato.»
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Sapevo che Gunnar non mi credeva. Era certo che avessimo fatto ben altro. Non ero sorpreso che pensasse questo. Come bugiardo navigato, sapevo che la gente crede a ciò che vuole. Trish credeva che non volessi fare sesso con lei perché ero vergine, perché era ciò che voleva credere. E Gunnar invece credeva che avessi fatto sesso, perché era questo che voleva credere. Quando Kimberly e Trish tornarono dal bagno, Kimberly disse di avere mal di testa e volle tornare a casa. Sapevo che era un’altra bugia. Trish le aveva raccontato tutto e ora lei voleva tornare a casa per ridere di me. Potevo leggerlo sul ghigno beffardo che aveva stampato in faccia. Riportammo le ragazze a casa con tanto di non-orgia di baci finale in cui Gunnar baciò Kimberly sotto il portico anteriore e io baciai Trish in macchina. «Non hai niente di cui vergognarti,» mi rassicurò Trish. «E non preoccuparti, non lo dirò a nessuno.» La sua bugia avrebbe potuto essere più convincente se, in discoteca, avesse aspettato almeno due minuti prima di scappare via per raccontare tutto a Kimberly. Ma ero io il bugiardo in quella relazione, quindi lasciai correre. «Mi chiami?» Disse Trish, allontanandosi. «Ci puoi scommettere!» Dissi cercando di sembrare convincente. Poi Gunnar mi riaccompagnò a casa, e il mio secondo appuntamento con Trish Baskin era finalmente – finalmente! – finito. Grande, pensai. Ma volevo decisamente dire: Merda!
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Più tardi quella sera, fissavo le stelle al gazebo puzzolente nel parco. Finalmente aveva smesso di piovere e la notte era limpida e chiara. Le stelle sembravano avere davvero delle piccole punte. «Ciao,» disse una voce. Mi voltai. Era Kevin. Gli avevo mandato un messaggio mezz’ora prima, dicendogli che avevo davvero bisogno di vederlo, e di incontrarmi lì. Poi mi ero cambiato i vestiti bagnati ed ero andato ad aspettarlo. «Ciao!» «Che c’è?» Aveva la voce dolce e misurata, come quella di un chirurgo quando parla a una famiglia in ansia nella sala d’attesa di un ospedale. Aveva capito che c’era qualcosa che non andava. Aprii la bocca e gli raccontai tutto quello che era accaduto quella sera. Forse ripresi fiato nel mezzo, ma non ne sono sicuro. Quando finalmente smisi di parlare, Kevin esitò solo un secondo, per accertarsi che avessi finito. Poi disse: «Amico, che schifo! Trish è proprio una stronza.» «No,» dissi. «Voleva solo quello che vogliono tutti. Solo che io non voglio farlo con lei.» Per qualche ragione, non riuscii a guardare Kevin mentre dicevo questo. Meno male che c’erano le stelle. «Comunque,» disse Kevin. «Non doveva dire quelle cose. Non doveva dire che sei gay. Sembra quasi che ti volesse spaventare per farti fare sesso con lei.» Lo guardai, ma teneva lo sguardo basso sulle scarpe. «Devi essere stato con un sacco di ragazze,» dissi. 104
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Si strinse nelle spalle. «Non tante quanto avrei dovuto.» Non ero geloso al pensiero di Kevin mentre faceva sesso con le ragazze. Immaginai dovesse essere stato eccitante quanto la mia esperienza con Trish. «Russel?» Disse Kevin. Non lo guardavo adesso, ma immaginai che non si stesse più fissando le scarpe, e neanche le stelle. Guardava proprio me. Pensai: Perché non c’è mai la nebbia quando serve? «Dovrei andare!» Dissi. «Avevo solo bisogno di un amico che mi ascoltasse. Grazie per averlo fatto!» Kevin non disse nulla. Rimase fermò lì, come un guardiano di pietra che mi guardava mentre iniziai ad allontanarmi. Avevo fatto solo un paio di passi quando realizzai di aver detto un’altra bugia, l’ennesima in una serata piena di bugie. Se avessi davvero avuto bisogno di un “amico”, avrei scritto a Min. Ma era Kevin che volevo vedere, e non per dirgli quello che era successo con Trish. Mi girai verso di lui, per dirgli che ero stanco non solo delle bugie, ma anche della solitudine. Incontrare gli altri membri del Geography Club, aprirmi con loro, era stato importante, ma era stato solo l’inizio del mio viaggio. Sapevo dove volevo arrivare, ne avevo già parlato con loro, ma in realtà non avevo mai messo piede fuori di casa. Quello che c’era nel mio cuore, il territorio dell’amore, era un sentiero del tutto inesplorato. Ma la gente aveva ragione quando diceva che il primo passo di ogni viaggio è sempre il più difficile, e io ero spaventato. (D’accordo, ero terrorizzato) «Va tutto bene,» Disse Kevin, a bassa voce, comprensivo. «Non dobbiamo fare nulla che non vuoi fare. E se faremo qual105
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cosa, la faremo per bene.» Quindi Kevin sapeva la verità. Perché avevo chiamato lui quella notte. Quello che volevo davvero da lui. E sembrava volere la stessa cosa, come se fosse pronto per iniziare quel viaggio con me. La cosa divertente era, che all’improvviso non ero più nervoso. Non sapevo se per quello che aveva detto Kevin, o se semplicemente ero stanco di sentirmi così solo - proprio come la notte che avevo accettato di incontrarlo la prima volta, qualcuno che non conoscevo nemmeno, in quello stesso gazebo puzzolente. In ogni caso, feci un passo verso Kevin e lo baciai. Stretto tra le sue braccia, mi sentii come se avessi fatto un passo dritto verso le stelle – come se fossimo diventati un tutt’uno con il cielo. Insieme eravamo tanto puri e infiniti quanto l’universo stesso.
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CAPITOLO NOVE
Ero arrivato alla terza base, ecco, all’allenamento di football il lunedì successivo. Invece, per quanto è successo con Kevin l’altra notte al gazebo puzzolente, non sono affari vostri. Ma suppongo che dovrei dirvelo comunque. Se io stessi leggendo questo libro e non mi dicessero quello che è successo, m’incazzerei. Quindi ecco cosa è capitato. Ci stavamo baciando con tutta la roba delle-stelle-e-dell’universo che andava avanti. E non era per niente come baciare Trish Baskin. Per prima cosa, non gli puzzava il fiato. E diversamente da quando mi aveva baciato Trish e io non volevo ricambiare. (Ragazzi, lui mi aveva ricambiato eccome!) Ma era solo un bacio, senza palpate o armeggiamenti o troppi abbracci. E dal momento che non ci si può semplicemente baciare troppo a lungo, a un certo punto ci separammo, e ci ritrovammo uno di fronte all’altro. «Amico,» disse Kevin. «Volevo farlo da così tanto.» Mi ci volle un secondo per riprendere fiato. «Cosa?» «Sai, volevo baciarti. Fin dalla prima notte che ci siamo incontrati qui. Volevo baciati già allora. E anche da prima. Perché pensi che mi sia unito al Geography Club? Be’, mi piacciono 107
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tutti, ma sei tu la ragione per cui sono entrato. Per stare con te.» Non riuscivo a credere alle mie orecchie. Kevin Land era entrato nel Geography Club per stare con me? Lui voleva me? Ma potevo leggerglielo in faccia. Min aveva ragione. Kevin Land voleva me per davvero. Lo ripeterò per dare enfasi, e perché mi piace come suona. Kevin Land voleva me! Kevin Land voleva me! Kevin Land voleva me! Scusate se sono uscito di testa in questo modo, ma apprendere che Kevin Land aveva una cotta per me mi aveva colto completamente di sorpresa. Certamente, esprimere tutto questo ad alta voce probabilmente sarebbe risultato patetico. Quindi dissi solo: «Anche io volevo baciarti.» Fece un passo verso di me, e sentii le sue braccia cingermi di nuovo e le sue mani poggiarsi sulla mia schiena. «Amo i tuoi occhi,» disse. «Hai occhi bellissimi.» «Come fai a saperlo?» Dissi. «È troppo buio per vederli.» (Si, lo so che questa era la cosa sbagliata da dire. Datemi tregua – ero ancora un novellino.) Ma Kevin si limitò a sorridere. «Me li ricordo. È come se fossero verde e grigio e marrone e giallo, allo stesso tempo.» Semplice, banale, vecchio nocciola, pensai. (Ma almeno ne sapevo abbastanza da non dire anche questo ad alta voce.) 108
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Sentii la sua mano risalire il mio corpo e toccarmi i capelli. «E i tuoi capelli,» disse Kevin. «Non ho mai visto un colore come questo. Come le foglie d’autunno.» La sua mano si spostò sul mio viso, sfiorandomi delicatamente le guance, il naso e le labbra e il mento. «Sei il ragazzo più bello del terzo anno, questo è sicuro.» «E Jarred allora?» Dissi. Jarred Gasner era un ragazzo del nostro anno, e sì, mi pentii subito di averlo detto. «Sei molto più bello di Jarred,» disse Kevin. «Lui è… tipo… carino. Ma tu sei fantastico.» «No, non lo sono.» Kevin sorrise di nuovo e i suoi denti brillarono nel buio. «Invece sì.» «Posso farti una domanda?» Dissi, cercando disperatamente di cambiare argomento - e allo stesso tempo di non farlo. «Certo,» disse Kevin. «Quando hai capito di essere gay?» Si strinse nelle spalle. «Credo di averlo sempre saputo. Mi è sempre piaciuto avere intorno altri ragazzi. Mi piace il modo in cui sono audaci e sicuri di sé. E che non hanno paura di correre rischi.» «Oh,» dissi, e pensai: In altre parole, ti piacciono i ragazzi che sono l’esatto opposto di me. «Russel?» Disse Kevin. «Huh?» Dissi. «Posso baciarti ancora?» 109
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Non potevo certo rifiutare la sua offerta – non dopo quello che aveva detto su quanto gli piacevano i ragazzi che corrono dei rischi. E in ogni caso, non volevo rifiutare. Quindi annuii, e lui mi baciò. Le sue labbra erano sode e forti, il mento e le guance ruvide per la barba. Continuammo a baciarci, solo che questa volta c’erano anche qualche palpata e armeggiamento e abbraccio. Penso che chiuderò qui questa scena. Dopo tutto, un ragazzo deve pur avere qualche segreto, no?
Partecipai al mio primo allenamento di baseball quel lunedì pomeriggio, e non feci del tutto schifo. Sfortunatamente, in questo caso “non fare completamente schifo” non significava “essere abbastanza bravo”. Significava semplicemente “non fare completamente schifo”. Ma durante uno dei miei turni alla battuta, riuscii ad arrivare fino alla terza base. A metà degli allenamenti, il coach disse alla squadra di dividersi in coppie, e prima di riuscire a trattenermi, guardai Kevin. Un paio di altri ragazzi cercavano di attirare la sua attenzione, quindi fui lusingato quando lui venne verso di me. Il Coach ci fece spostare nel campo esterno, dove le varie coppie avrebbero dovuto fare pratica con i lanci e le prese. Kevin lanciava la palla nel mio guanto (thwap!) e io facevo del mio meglio per prenderla e rilanciarla nel suo (Thwumph.) All’inizio, mi sentii rigido e goffo. La mia mira era scadente, e anche se era ovvio che Kevin ci stesse andando piano con me, i suoi tiri erano così forti, da farmi bruciare la mano. Thwap! 110
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Thwumph. Thwap! Thwumph. Ma poi accadde qualcosa di strano. Era come se avessimo preso una sorta di ritmo. La palla continuava ad andare avanti e indietro, e iniziammo a sentirci in qualche modo collegati – come da una corrente elettrica lungo un filo di rame invisibile tra di noi. La palla stessa era viva, e all’improvviso anche noi – reattivi e attenti, spontanei. Thwap! Thwumph. Thwap! Thwumph. Kevin voleva lanciare e io volevo prendere, poi io volevo lanciare e lui voleva prendere, e mentre lo facevamo, gli altri giocatori attorno a noi nel campo esterno sembrarono allontanarsi. Adesso eravamo completamente soli, come due vulcani attivi fianco a fianco su una qualche isola tropicale deserta al centro di un calmo oceano blu. Thwap! Thwumph. Thwap! Thwumph. Fissai Kevin, i movimenti aggraziati del suo corpo tonico, le ciocche dei suoi capelli scuri che spuntavano indomabili da 111
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sotto il berretto. Pensai: Giocare a baseball è sempre così? (E pensai anche: Meno male che indosso il sospensorio!) Ironicamente, solo due ore prima, avevo deciso di lasciare la squadra. Il mio ragionamento era stato questo: Ero entrato in squadra per stare più vicino a Kevin, ma dopo quel sabato notte, ero più vicino a lui di chiunque altro. Però, avevo programmato di far passare qualche settimana prima di lasciare davvero la squadra, almeno finché non avessi avuto una scusa abbastanza credibile. In questo modo, Kevin non avrebbe pensato che mi fossi unito alla squadra solo per lui, che in qualche modo mi sembrava ancora troppo patetico da ammettere. Ma ora pensai: Be’, questo baseball non è così male! Di sicuro è meglio dei miei appuntamenti con Trish. «Bene!» Disse il Coach, richiamandoci alla casa base, e all’improvviso mi ritrovai nel campo esterno, con la mia mira mediocre e la mano dolorante. «Proviamo ancora qualche colpo!» Mentre camminavamo verso la panchina, Kevin tese la mano e disse: «Vuoi?» Non avevo idea di cosa parlasse. Ero abbastanza sicuro che non mi stesse chiedendo di ballare. Forse notò la confusione sul mio viso, perché mi mostrò la scatola di tabacco da masticare. «Tabacco,» disse. «Vuoi provare?» «Oh.» All’improvviso, capii perché avevo passato la prima mezz’ora dell’allenamento ad evitare dozzine di sputi. Non mi era venuto in mente che i giocatori stessero effettivamente sputando qualcosa. Che schifo! 112
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Non avevo mai masticato tabacco prima. (Avevo solo fumato sigarette due volte.) E il fatto era, che non avevo particolarmente voglia di farlo. Quando si trattava di immettere tossine cancerogene nel mio corpo, beh, non ero Gunnar, ma ci pensavo comunque almeno due volte. Poi mi ricordai quello che aveva detto Kevin riguardo ai ragazzi audaci e sicuri di sé, e che erano disposti a correre dei rischi. Inoltre, adesso ero un giocatore di baseball; dovevo provare a masticare il tabacco almeno una volta, giusto? «È tutto a posto,» Mi disse Kevin, rimettendo la scatolina nella tasca dei suoi pantaloni. «Non devi farlo se non vuoi.» «No,» dissi. «Voglio farlo.» «Davvero,» Disse lui. «Non c’è problema.» Inarcai le sopracciglia. «Ehi, ormai dovresti sapere che mi piace provare cose nuove.» Lui rise e arrossi un po’, poi aprì il contenitore e me lo porse. Provai, e di sicuro, non mi piacque. Sapeva di cuoio triturato marinato nell’aceto. Ma continuai, soprattutto perché non volevo deludere Kevin. Nel frattempo, stavo pensando: Che importa se faccio un piccolo, insignificante compromesso per il bene di Kevin? I compromessi non fanno parte di tutte le relazioni? Martedì, il giorno dopo mio primo allenamento di baseball, il Geography Club si riunì di nuovo. «Allora?» Chiese Terese. «Lei dov’è?» Parlava con Min e Kevin e Ike e me, e parlava di Belinda Sherman. Tenendo fede alle 113
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sue parole, Belinda era venuta al nostro incontro del giovedì precedente. Visto che nessuno la voleva lì, e visto che nessuno di sicuro voleva di parlare di geografia, era stato un incontro abbastanza imbarazzante. Dopo circa dieci minuti, lo avevamo sospeso mettendoci vagamente d’accordo per rivederci la settimana seguente. Questa settimana. Oggi. «Forse se n’è andata,» Disse Kevin speranzoso. Quello era il piano del giovedì. Essere talmente noiosi e disorganizzati che lei non avrebbe voluto avere più niente a che fare con noi. Ma Min disse: «Non siamo così fortunati. L’ho incrociata oggi. Ha detto che avrebbe portato un qualche noioso gioco da tavolo geografico questo pomeriggio. Solo Dio sa perché, ma credo sia qui per restare.» Sedemmo in silenzio per un secondo, inviando ondate psichiche scoraggianti a Belinda, ovunque si trovasse in questo momento. Ike sembrava particolarmente infastidito, ma poi notai che ogni volta che guardava verso di me, il suo cipiglio si intensificava. Allora capii che non ce l’aveva solo con Belinda Sherman. Avevo ragione a pensare che Ike avesse una cotta per Kevin, e adesso era geloso di quello che c’era tra Kevin e me. Io non gli avevo detto quello che era successo sabato notte – infatti lo avevo detto solo a Min, che era stata davvero felice per me, e che era riuscita a trattenersi abbastanza dal dire “…te l’avevo detto!” solo una volta. Però Min doveva averlo detto a Terese, e Terese probabilmente lo aveva detto a Ike.
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«Allora,» disse Terese al gruppo. «Le cose stanno così. Se Belinda si fa rivedere, sarà la fine del Geography Club. Cosa facciamo?» «No!» Dissi. Non avevo intenzione alzare la voce, ma ero infervorato. Non volevo che il Geography Club finisse – alla fine, passare più tempo con Kevin non doveva essere l’unica ragione per cui ci ero entrato, dopo tutto. O se era stato per questo, adesso per me il Geography Club era diventato importante anche per altre ragioni. Perché adesso avevo Kevin, ma continuavo a volere disperatamente anche che il Geography Club continuasse. Guardai la porta dell’aula del professor Kephart, che era ancora chiusa. Belinda non si era ancora fatta vedere. «Ci deve essere qualcosa che possiamo fare,» dissi. «Potremmo sempre fondare un altro club,» disse Ike. Min scosse la testa. «Belinda lo scoprirebbe subito. Lavora in segreteria, ricordi? Vedrà i nostri nomi sul modulo.» «E allora?» Disse Terese. «Che ci importa se feriamo i suoi sentimenti?» «Non è per questo,» disse Min. «Potrebbe denunciare la cosa, dicendo che l’abbiamo volutamente esclusa, potrebbe anche dire che l’abbiamo fatto perché di colore. Richiamerebbe solo l’attenzione sul nostro club, e questa è l’ultima cosa ci serve.» Ci pensai su, ma non importava da che verso analizzassi la cosa, non riuscivo a trovare una soluzione. «Maledizione!» Disse Terese. «Iniziava davvero a piacermi questo dannato club.» 115
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«Si, anche a me,» disse Ike, dimenticando persino di essere arrabbiato con me. «Non è giusto!» Dissi, e tutti mi guardarono. «Perché non può semplicemente esserci un posto per ragazzi gay, dove non dobbiamo nascondere quello che siamo? Dannazione, gli etero hanno tutto il resto del mondo! Loro se ne vanno in giro mano nella mano, si baciano e parlano apertamente di “la mia fidanzata questo…” o “il mio fidanzato quello…”. E dicono che gli sbattiamo il nostro stile di vita in faccia? È uno scherzo?» Ero abbastanza su di giri. Ma non tanto da non percepire il cambiamento nell’aria. Ci voltammo tutti verso la porta dell’aula, dove, ovviamente, Belinda Sherman se ne stava impalata, con una grande borsa a tracolla sulla spalla. Come diamine aveva fatto ad aprire la porta senza che nessuno la sentisse, non lo sapevo. Ma l’aveva fatto. E anche se non aveva sentito proprio tutto quello che avevamo detto, aveva sentito abbastanza. Lo si poteva leggere nei suoi occhi scuri. La fissammo e lei fissò noi. Adesso sapeva. E tutti i presenti, inclusa Belinda, sapevano anche che avrebbe potuto rovinarci. Min fu la prima a rompere il silenzio. «Lo dirai a qualcuno?» Disse piano. Belinda ci pensò per un minuto o più, ma probabilmente erano solo dieci secondi. Poi chiuse la porta dietro di lei e ci affrontò. «Mia madre è un’alcolizzata,» disse alla fine. Che diamine centra questo con noi? Pensai. Se Belinda Sherman era eccentrica come Gunnar, che diceva sempre la cosa sbagliata al momento sbagliato, in questo momento di sicuro non ero dell’umore adatto per starla a sentire. Io e tutti gli altri 116
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membri del Geography Club volevamo sapere solo una cosa, e una cosa soltanto: Avrebbe detto di noi al resto della scuola? «È sempre ubriaca,» continuò Belinda. «Voglio dire, mia madre. Non è sempre davvero, davvero ubriaca, ma quando capita, dice a tutti che è malata. Penso che a volte ci creda anche lei. Perché qualche volta si sente davvero male, e poi io devo pulire.» «Mi dispiace,» disse Terese. «Ma non risponde alla nostra domanda. Hai intenzione di dire agli altri di noi o no?» «No, aspetta,» disse Min. «Lasciala parlare.» Anche io volevo che Belinda continuasse. Avevo la sensazione di sapere dove volesse andare a parare. Inoltre, fare incazzare Belinda Sherman non mi sembrava davvero un buon piano in quel momento. «Le persone parlano continuamente delle loro famiglie,» disse Belinda. «Di quando vanno da McDonald’s per cena, o di come siano appena tornati dal loro ultimo viaggio a Disneyland. Tutti mi ripetono ancora e ancora quanto siano normali le loro famiglie, e quanto siano diversi da me. E devo stare seduta ad ascoltarli, perché loro non vogliono sentire la verità, che la mia famiglia non è mai stata a Disneyland e che non succederà mai.» Belinda guardò dritto verso di me. «Quindi so cosa intendi quando dici che la gente ti sbatte sempre qualcosa in faccia. E so anche cosa vuol dire avere qualcosa da nascondere.» Avevo ragione. Belinda non era eccentrica come Gunnar. Aveva risposto alla domanda di Min. L’aveva semplicemente fatto in modo indiretto. 117
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Fissai Belinda. Mi era sembrata solare ed esuberante, ma adesso non la vedevo più così. I vestiti colorati e gli orecchini con le faccine sorridenti? Facevano solo parte della commedia che interpretava. In altre parole, Belinda Sherman aveva qualcosa in comune con il resto di noi. Era un’ottima bugiarda. Ora Belinda guardava Min. «Non preoccuparti,» disse. «Non dirò a nessuno del vostro club. E vi lascerò in pace. Non tornerò più.» E fece per girarsi verso la porta. «Aspetta,» dissi, e lei sì fermò. Guardai gli altri, e sperimentammo per la prima volta una vera conversazione silenziosa. Il Geography Club non esisteva solo perché eravamo gay, su questo eravamo tutti d’accordo. Serviva a qualcos’altro, qualcosa sull’essere emarginati, vagabondi, senza un posto da poter chiamare casa. Ma qualunque cosa fosse, Belinda aveva tutti i requisiti per farne parte. «Ti piacerebbe restare?» Dissi a Belinda. Belinda sembrava confusa. «Ma sono etero.» «Siamo un club scolastico,» disse Kevin. «Non possiamo discriminare.» Belinda inclinò la testa. «Davvero non vi importa?» «Beh,» disse Min. «Non aspettarti che passiamo molto tempo a parlare di geografia.» Belinda sorrise. «Accidenti! Sono l’unica etero!» La sua risata, che era stata tanto fastidiosa la settimana prima, adesso aveva un qualcosa di musicale. Ed era anche contagiosa, perché il resto di noi si unì a lei.
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E fu così che l’ormai ex Gay Geography Club accettò il suo primo membro etero.
Quel venerdì, giocai la mia prima partita di baseball. Il coach mi posizionò a sinistra del campo - che, se sai qualcosa sul baseball, non è esattamente dove gioca il campione della squadra. Ma io ero nuovo, e in ogni caso non volevo la responsabilità di una posizione più importante (a differenza di Kevin, che giocava in prima base). E farmi scappare una palla, era il massimo del danno che potessi causare da quella posizione. Forse, se avevo di questi pensieri, non avevo la stoffa del campione, però era il mio atteggiamento nei confronti del baseball, quindi eccoci qua. Comunque, riuscii a prendere un paio di palle, anche se ne persi un altro paio. La prima volta che mi ritrovai con la mazza in mano, pregai solo di non essere eliminato. Riuscii a colpire la maledetta palla, a anche ad arrivare in seconda base prima che il nostro battitore successivo lisciasse una palla, mettendo fine al nostro turno alla battuta. Nel baseball alle superiori, si giocavano solo sette riprese, e mentre giocavamo l’ultima, iniziai seriamente a divertirmi. Era ufficialmente primavera, e il sole era ufficialmente splendente, e decisi che il baseball non era così noioso da giocare quanto lo era da guardare. Ma meglio ancora, non mi resi ridicolo per tutta la partita. (Il segreto per essere felici nella vita? Basse aspettative.) Alla fine della settima ripresa, quando arrivò il mio turno alla battuta, eravamo indietro di sei a otto. Questa era esattamente il genere di pressione che non volevo. Avevamo solo un 119
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turno, quindi se mi avessero eliminato tecnicamente non avremmo perso per colpa mia. Ma non mi sarei neanche fatto dei nuovi amici. «Forza, Russel!» Gridò Kevin mentre prendevo la mazza e il casco, e facevo del mio meglio per perdere tempo salendo sul piatto. «Batti un fuoricampo!» Il Coach e gli altri ragazzi probabilmente gridavano incoraggiamenti simili, ma i loro non li ascoltavo. Feci un paio di tiri di prova e fissai il lanciatore. Sembrava amichevole e tranquillo, ma c’era determinazione nei suoi occhi, come se stesse pensasse agli hot dog e alle torte di mele, oltre ad eliminarmi. Tuttavia, Kevin mi aveva detto che il baseball era tanto un gioco psicologico quanto fisico, e intimidire il lanciatore con uno sguardo rilassato era una parte importante del gioco. Il primo lancio era lungo, ma come un idiota, cercai di colpire, e come un idiota goffo, rischiai anche di inciampare. Il mio sguardo poteva anche essere intimidatorio, ma la mia percezione della profondità faceva schifo. «Tieni gli occhi sulla palla!» Gridò Kevin. «Tieni gli occhi sulla palla!» Anche il secondo tiro fu lungo. Ero pronto a colpire, ma all’ultimo secondo, mi tirai indietro, e sentii l’arbitro gridare «Palla!» Quando tornai a guardare negli occhi il lanciatore, mi resi conto che quei lanci lunghi non erano un caso. Aveva capito che ero un novellino, e stava cercando di indurmi a colpire delle palle difficili da intercettare. Ma ora avevo capito il suo gioco. Naturalmente, anche lui si accorse che avevo capito, 120
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quindi niente più lanci lunghi. Comunque tutta la storia dell’“intimidisci-il-lanciatore-negli-occhi” era proprio una figata. «Bravo!» Gridò Kevin. «Hai buon occhio!» Studiai le basi. Avevamo un giocatore in prima e uno in terza. Se avessi mancato la palla, avremmo perso la partita. Ma se avessi fatto un fuori campo, beh, loro due più me facevano tre punti, e avremmo vinto la partita. E se gli elefanti deponessero le uova, ci vorrebbero sedici persone per mangiare una frittata. Tornai in posizione, in attesa del lanciatore, e prontamente mancai la palla. Era il potere del pensiero negativo. «Va tutto bene!» Disse Kevin incoraggiante. «Hai ancora un tiro!» Va bene, pensai. Niente più pensieri negativi. Era troppo importante. Era uno di quei momenti che alcuni definiscono, questioni di vita o di morte. Non solo per la partita, ma anche per me e Kevin. Se avessi fallito quel tiro, sarei stato troppo imbarazzato per ripresentarmi davanti a lui. Il lanciatore tirò la palla. Io feci ruotare la mazza. E sapete una cosa? La mia mazza colpì la palla da baseball proprio come il cancellino aveva colpito la pallina da pingpong mentre giocavamo a baseball in classe al Geography Club. Ci fu un crack! pulito e molto soddisfacente e la palla salì in alto, sempre più su e lontano - oltre il campo.
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Sì, avevo battuto proprio un fuoricampo! Ci avevo fatto vincere la partita. Non ci fu un vero e proprio ruggito della folla c’erano solo una cinquantina di persone sugli spalti, e solo trentacinque circa facevano il tifo per la squadra di casa. Ma trentacinque persone possono fare un bel po’ di rumore, soprattutto quando gridano, battono le mani e si congratulano come a una festa di compleanno. Per un secondo, rimasi a bocca aperta, come se fosse stato tutto semplicemente un errore. Ma poi sentii la voce di Kevin in mezzo al frastuono. «Vai!» Disse. «Corri alle basi!» Quindi corsi verso le basi – era molto più che correre. Toccai la prima, la seconda e la terza e poi mi diressi verso la casa base, dove tutta la squadra stava saltando su e giù e gridando, e dove Kevin mi aspettava con il suo sorriso brevettato, pronto a battermi una pacca sulla spalla. La gente continuò ad applaudirmi per tutto il tempo. Nessuno mi aveva mai acclamato prima, e ci si sentiva bene. (Okay, ci si sentiva grandi!) Niente di tutto questo sembrò accadere al rallentatore, ma potete immaginarlo così se volete. Ci si fa un quadro molto migliore in questo modo. E anche io avrei voluto che accadesse al rallentatore. Mi sarei potuto godere la gloria un po’ più a lungo. E ci sarebbe stato più tempo prima di tutte le cose terribili che accaddero nei giorni seguenti.
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CAPITOLO DIECI
«Middlebroooook!» Mi disse Ramone nello spogliatoio dopo la partita. «Ti darei un bacio!» La squadra di baseball in teoria avrebbe dovuto essere già sotto le docce. Invece sì accalcarono tutti su di me per congratularsi e dirmi quanto fossi stato grande in campo. Dopo, gli altri ragazzi della squadra, mi sommersero di pacche sulle spalle, schiaffetti e spinte scherzose – praticamente tutto ciò che un ragazzo poteva fare ad un altro in un posto pubblico senza rischiare di essere arrestato «È stato grandioso, Middlebrook!» Disse Nate. «Dritta sopra quelle teste di cazzo!» Mi sentivo come il vincitore di un concorso di bellezza, circondato da tutti gli altri concorrenti che mi facevano le congratulazioni e mi sommergevano di mazzi di fiori alla fine della gara. (Probabilmente non è il paragone migliore, ma era così che mi sentivo. Cosa ci posso fare?) «Come hai fatto a colpirla in quel modo?» Mi chiese Jarred. «Eh, Middlebrook?» «Beh, è stato facile,» dissi. «Ho immaginato che la palla fosse la testa del lanciatore!» Non ero un idiota. Sapevo che tipo di risposte si aspettavano quei testoni.
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Di sicuro, Jarred e tutti gli altri scoppiarono a ridere. Anche io ridevo, e in questo momento esatto mi venne in mente una cosa incredibile. Mi stavo divertendo. Mi stavo divertendo? Non mi ero mai divertito nello spogliatoio dei ragazzi prima! Prima d’ora, mi ero sempre sentito come una spia in territorio nemico che stava per essere scoperta. (Vedi capitolo uno, sezione uno). Ma adesso ero la, a ridere e scherzare con i migliori di loro. Certo, ero anche un po’ distratto perché metà dei ragazzi erano nudi o se ne andavano tranquillamente in giro solo con i sospensori. E sapevo anche che la maggior parte di quei ragazzi erano delle teste di rapa incapaci di portare a termine una conversazione di senso compiuto. Ma allo stesso tempo, sentivo questo strano senso di cameratismo. Era come se non fossi mai stato in quello spogliatoio prima. Come se per tutta la vita, mi fossi vestito e svestito al freddo fuori nel corridoio, potendo ascoltare solo piccoli pezzi delle loro conversazioni. Ma adesso la mia presenza era stata accettata, e mi avevano accolto all’interno. E come bonus, c’erano anche un sacco di ragazzi nudi. Guardai Kevin, si stava svestendo vicino agli armadietti. Mi fece l’occhiolino. Poi afferrò un asciugamano e si avviò verso le docce, flettendo i muscoli del sedere. Era stato l’unico ragazzo della squadra a non avermi abbracciato dopo la fine della partita. Non me la presi. Avremmo recuperato dopo. Il giorno dopo, sabato, incontrai Gunnar per una partita a Racquetball. Nello spogliatoio del centro sportivo, gli raccontai della vittoria a baseball. 124
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«È fantastico!» Mi disse. «Non avevo idea che fossi bravo a giocare a baseball! Ma avrei dovuto immaginarmelo, giusto? Voglio dire, mi batti sempre a racquetball, non è vero? E a bowling – mi batti anche lì. E a croquet! No, aspetta, qualche volta ti batto a croquet. A quello e a Puzzle Bubble. O mi battevi a Puzzle Bobble? Sai, mi piacerebbe venire alle tue partite. Verrò alla prossima, va bene? Posso venire alla prossima partita? Wow, ancora non riesco a credere che hai vinto a un gioco come quello, è incredibile!» Gunnar era molto felice per me. Troppo felice. C’era qualcosa sotto. «Casa c’è?» Gli dissi. «Cosa?» Disse innocentemente. Lo ripeteva spesso ultimamente, e iniziava a farmi incazzare. «Vuoi qualcosa da me. Vuoi che esca di nuovo con Trish, vero?» «Perché?» Disse Gunnar, un po’ troppo in fretta. «Vuoi uscire con lei? Perché penso di poter organizzare. Cioè, potrei chiamare Kimberly e sentire cosa ne pensa, ma non posso prometterti nulla.» Alzai gli occhi al cielo. Il tentativo di Gunnar di non sembrare entusiasta all’idea di un mio appuntamento con Trish suonava falso quanto il suo essere così incredibilmente eccitato per la mia vittoria alla partita di baseball. Quindi Trish voleva uscire di nuovo con me. E questo significa che quando le avevo detto che non volevo fare sesso con lei, aveva capito che non volevo ancora farlo. «No,» dissi a Gunnar, nel tono più fermo possibile con qualcuno che non sia un bambino piccolo. «Non voglio uscire di nuovo con Trish.» 125
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«Davvero? Perché penso di aver avuto una bella…» «No!» Guardai Gunnar dritto negli occhi. «Dico sul serio, non voglio uscire con Trish.» «Ma Kimberly…» «Ascoltami!» Dissi. «La risposta è no!» Finimmo di cambiarci per la partita in un silenzio gelido. E nello stesso clima ci incamminammo verso il campo. Una volta all’interno, Gunnar si girò verso di me e disse: «Non è che ti abbia mai chiesto molti favori.» «Mi hai chiesto di uscire con Trish già due volte, ed entrambe le volte ho accettato. Ma non lo farò una terza.» I grandi occhi blu di Gunnar mi fissarono. «Russ, ti prego.» Cominciò a tremargli la voce, e per un secondo, pensai che stesse per piangere. «Ti devo un favore. Uno enorme. Farò tutto quello che vuoi.» Avrei voluto aiutarlo - chi vorrebbe vedere un amico soffrire in quel modo? Ma un terzo appuntamento con Trish Baskin non era negoziabile, soprattutto dal momento che iniziavo a pensare che lei avesse deciso che il terzo appuntamento potesse qualificarsi come un momento abbastanza “speciale” per fare sesso. «Perché non esci con Kimberly da solo?» Dissi. «Perché vuoi sempre Trish e me con voi?» Sapevo già la risposta a questa domanda – Kimberly non voleva uscire con Gunnar da sola. Ma pensai comunque che se fossi riuscito a farglielo capire, forse lui non avrebbe più voluto vederla. Frustrato, Gunnar fece roteare la racchetta in aria (pericolosamente vicino alla mia testa, aggiungo). «Non lo so!» Disse. 126
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«Kimberly vuole uscire solo in coppia con te e Trish. Forse è timida.» Kimberly timida? Pensai. Come poteva una persona intelligente come Gunnar credere una cosa simile? Era il momento di essere schietti. La verità poteva far male, ma si supponeva che rendesse anche liberi. «Senti,» dissi. «Non credo che Kimberly vada bene per te. Penso che lei stia uscendo con te, solo perché Trish vuole uscire con me.» Gunnar mi guardò con l’odio negli occhi. «Non è vero!» Lo stridore della sua voce riecheggiò su di me dal soffitto della palestra. «Okay!» Dissi in fretta. Ammetto che mi prese alla sprovvista. «Va bene, era solo un’idea.» «Beh, era una stupidaggine!» Era stata un’idea stupida, ma non per la ragione che pensava Gunnar. Era stata stupida, perché non c’era verso di far rinunciare ad avere una ragazza a una persona che ne voleva disperatamente una quanto Gunnar, anche se si trattava di una poco “attraente” come Kimberly Peterson. «Pensiamo a giocare,» dissi. «Va bene?» Senza aggiungere altro, afferrò la palla è iniziò a colpirla con forza. I suoi primi cinque servizi furono talmente veloci che non ebbi il tempo di rispondere a nessuno. Quando finalmente vinsi un servizio, lui ricominciò subito a giocare nello stesso modo brusco e vinse di nuovo. Questo non era il Gunnar che conoscevo. Non l’avevo mai visto così determinato nella sua vita.
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Verso la fine della partita, finalmente si girò verso di me. «Perché non vuoi uscire con Trish?» «Cosa?» Dissi. «Qual è il problema? Non è abbastanza carina?» «Lei è a posto.» «Non è abbastanza bella?» «No, va bene.» «Allora cosa? Qual è il vero motivo?» La determinazione non aveva ancora lasciato i suoi occhi. Non avevo una risposta, almeno non una per lui. «È solo che non c’è nulla,» dissi, alla fine. «Non sento niente per lei.» «Per lei, eh? È divertente. Perché io non ricordo che tu abbia mai sentito niente per nessuna.» Non mi piaceva per niente la direzione che stava prendendo la conversazione. Tutto quello che riuscii a dire fu: «Cosa?» «Cosa cosa?» Disse Gunnar. «Sto solo dicendo che non ricordo di averti mai visto interessato a nessuna ragazza.» All’improvviso, stavo sudando, ma non per il racquetball. Questo era il sudore freddo e viscido della paura. Esattamente cosa stava dicendo Gunnar? Che cosa sapeva, e da quanto tempo lo sapeva? «Trish ha detto qualcosa?» Dissi. Era stata Trish – Doveva essere stata lei! Ma se stava dicendo in giro che ero gay, perché voleva uscire ancora con me? «Tipo cosa?» Disse Gunnar innocentemente - troppo innocentemente. «Lo trovo solo divertente. Voglio dire, una grande stella del baseball come te, ma non hai una fidanzata? Non 128
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credi che sia divertente? Penso che la gente lo troverebbe divertente.» «Okay!» Gridai, e anche quella parola riecheggiò nella palestra, proprio come la voce di Gunnar qualche minuto prima. «Okay, cosa?» Disse Gunnar. Abbassai la voce. «Uscirò di nuovo con Trish. Va bene? È questo quello che volevi, giusto? Uscirò con lei. Tutte le volte che vuoi. Adesso finiamo la partita, va bene?» Gunnar tornò indietro alla linea di servizio, e finimmo la partita. Spero non ci sia bisogno di dire che mi ruppe il culo. Il lunedì successivo, tutta la scuola sapeva che avevamo vinto la partita di baseball grazie a me. Non ero sicuro di come ognuno lo avesse saputo - c’erano solo trentacinque persone tribuna. Sì, c’era un articolo a riguardo sul Goodkind Gazette, ma tutta la scuola aveva ricominciato a non leggere il giornale della scuola, quindi ero certo che nessuno l’avesse saputo in quel modo. Ma in qualche maniera la voce si era sparsa. Adesso persone con cui non avevo mai parlato prima, persone che pensavo non sapessero neanche chi ero, gridavano il mio nome nei corridoi. Due volte durante la giornata, dei gruppetti di persone si zittirono quando gli passai vicino. (Era impossibile non sentirsi incredibilmente lusingati da questo.) Anche alcuni professori, che si suppone debbano essere al di sopra di queste cose, avevano uno strano luccichio negli occhi mentre parlavano con me. E quando mi accorsi che mi mancavano cinquanta centesimi per pagare il pranzo in mensa, la cassiera mi fece passare facendomi l’occhiolino.
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Una settimana prima, sarei andato fuori di testa per tutte quelle attenzioni, ma mi sentivo già un esperto al gioco della popolarità, quindi affrontai tutto serenamente. Però quel pomeriggio, dopo gli allenamenti di baseball, mi resi conto di aver dimenticato un libro nel mio armadietto. Quindi prima di andare alla bici, tornai indietro verso edificio principale. Le porte della scuola non erano ancora chiuse, ma i corridoi erano vuoti da un pezzo, e la maggior parte delle luci erano spente. Il pavimento, appena lavato, puzzava di ammoniaca e sporcizia. Mi avviai lungo il corridoio e sentii delle voci arrivare da dietro l’angolo. Normalmente, sentire delle voci nei corridoi deserti della scuola mi avrebbe messo a disagio – specialmente forti, odiose, voci maschili. Avrei fatto un altro giro per non imbattermi in chiunque fosse. Ma in quei giorni, mi sentivo il padrone della scuola. Per la prima volta nella mia vita, non avevo niente da temere. Svoltai l’angolo e mi ritrovai faccia a faccia con Jarred e Nolan, due ragazzi della squadra di baseball. Il Coach aveva trattenuto me e loro due agli allenamenti per aiutarci con le battute, quindi gli altri ragazzi erano andati via prima. Adesso Nolan e Jarred erano alla base delle scale per il secondo piano, che era esattamente dove dovevo andare. «Ciao, Middlebrook!» Disse Nolan. «Che fai?» «Ciao,» dissi. «Ho dimenticato un libro.» Sapere che quei ragazzi erano entrambi nella squadra di baseball, mi rilassò un po’. Immaginai di essere stato meno tranquillo e a mio agio nel girare l’angolo di quanto avessi pensato. «Ehi,» disse Jarred, «esci con Trish Baskin, giusto?» 130
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«Cosa?» Dissi. «Oh sì.» Io dovevo uscire con Trish Baskin, anche se contro la mia volontà. Ma questo certo non dissi a loro. «È piuttosto arrapante,» disse Jarred. Non ero sicuro del protocollo qui. Dovevo dire grazie, o cosa? «E la sua amica Kimberly?» Disse Nolan, più a Jarred che a me. Poi rise e fece schioccare la lingua come Hannibal Lecter nel film Il silenzio degli innocenti. «Si,» dissi, e sperai di non dover di dire a cosa pensavo in quel momento. «Beh,» aggiunsi, «a dopo.» Poggiai un piede sul primo gradino della scala tra Nolan e Jarred, e sarebbe andato tutto bene se, proprio in quel momento, Brian Bund non fosse apparso sul pianerottolo sopra di me. Il mio primo pensiero fu: Cosa diavolo ci fa Brian a scuola così tardi dopo le lezioni? Ma aveva una pila di libri tra le braccia – e ovviamente li trasportava come una ragazza – quindi immaginai che stesse arrivando dalla biblioteca, che aveva appena chiuso per il pomeriggio. Il mio secondo pensiero fu: Ti prego fa che Jarred e Nolan non lo vedano! Era abbastanza buio e, se i due non avessero alzato lo sguardo, avrebbero potuto non notarlo, soprattutto se Brian fosse stato abbastanza intelligente da non muoversi. Ma poi Jarred guardò verso di me e poi nella direzione in cui stavo guardando. «Brian!» Disse con esagerato entusiasmo. «Come va?» Adesso era troppo tardi. Era stato scoperto. Brian non mosse un muscolo. «Qualcosa che non va?» Disse Nolan, con falsa innocenza. «Non vuoi scendere?» 131
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Brian ci pensò per un secondo, considerando le sue opzioni. L’unica altra scala per scendere dal secondo piano era dall’altra parte dell’edificio. E lui sapeva che girarsi e scappare adesso poteva solo peggiorare la sua situazione. «Andiamo,» lo persuase Nolan. «Non vogliamo farti niente.» Brian esitò ancora per un secondo, poi tentò di scendere le scale finché non arrivò a meno di un metro da noi. Naturalmente, quanto più Brian si avvicinava alla base delle scale, tanto più Nolan e Jarred gli si mettevano di traverso per sbarrargli la strada. E non lo aiutava il fatto che io mi trovassi tra loro, in tre bloccavamo efficacemente la sua unica via d’uscita. «Guardalo?» Disse Nolan a Jarred, entrambi sogghignarono. «Quanto sembra spaventato?» Brian era spaventato. Adesso che era sotto la luce, potevamo vedere i suoi occhi spalancati, e l’espressione sul suo viso arrossato. Ma per me era tutto tranne che divertente. Brian Bund era sempre stato trattato di merda nella nostra scuola. Ma da quella stupida intervista alla professoressa Toles sul giornale della scuola, tutti avevano semplicemente deciso che era lui il ragazzo gay di cui si parlava. Da allora, le persone avevano iniziato a trattare Brian ancora peggio. All’inizio avevo pensato che tutte quelle molestie straordinarie sarebbero passate col tempo, come una canzone pop trasmessa in modo esagerato che poi sparisce. Invece era diventato una specie di inno della scuola, e tutti lo cantavano in ogni occasione. Se fossi stato in Brian, avrei fatto molta più attenzione. «Sembra che abbia appena visto un dannato fantasma!» Disse Nolan. «O un mostro!» Disse Jarred. «Sembra che abbia appena visto un mostro!» 132
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Pensai: Che originalità Jarred – vedere un mostro è totalmente diverso dal vedere un fantasma. (Jarred non era certo la stella più luminosa della galassia, ma era davvero un bel vedere sotto i pantaloni.) Nolan guardò verso di me. «Ehi, Middlebrook, per te a cosa somiglia?» Ed eccomi qua. All’improvviso, mi ritrovai invischiato in un’altra questione di vita o di morte. Era proprio come alla partita, quando mi trovavo alla battuta alla fine della settima ripresa, non c’era nessuna folla a guardarmi questa volta, solo Nolan e Jarred. Ma sentii molta più pressione da parte loro di quanta ne avessi avvertito dal pubblico e dalla squadra il venerdì precedente. Questa era una cosa ancora più importante. Non si trattava solo di una stupida partita di baseball. C’erano in gioco i sentimenti di una persona. Mi piacerebbe poter dire di essermi distinto in quell’occasione, proprio come il venerdì precedente. Che fossi saltato tranquillamente sul piatto pronto per battere un altro fuori campo dicendo a Jarred e Nolan di andare a farsi fottere. Ma non posso dirlo, perché quella volta, salii sul piatto, battei e mancai completamente la palla. Dissi a Jarred e Nolan: «Sembra un topo intrappolato nelle spire di un pitone. Guardate la sua faccia - si possono quasi vedere i suoi baffi tremare.» Sia Jarred che Nolan dovettero pensarci per un secondo, per elaborare l’informazione nelle loro menti. Era più complicato rispetto ai loro soliti insulti. Ma finalmente Nolan rise, e poi anche Jarred. «Hey, Middlebrook!» Disse Nolan. «Questa era buona!» 133
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Risi anche io, ma mi sentivo l’esatto opposto che felice. Non avevo mai preso in giro Brian prima d’ora per nessun motivo. Non avevo mai nemmeno riso di lui. Ero una merda, okay? Lo sapevo anche io. Tutto quello che posso dire è che quello che io e Kevin avevamo fatto sotto il gazebo puzzolente nel parco non era stato l’unico viaggio che avevo fatto ultimamente. Stavo viaggiando anche attraverso un posto bellissimo, chiamato Terra della Popolarità, e la vista da lì era dannatamente bella. Se poi ci aggiungevo i miei amici del Geography Club e il fatto che uscivo con Kevin Land – Kevin Land! – allora, la Terra della Popolarità praticamente era il paradiso. Ed ero in paradiso solo da due giorni, ed ero maledettamente sicuro di non essere ancora pronto per tornare a casa, non ancora. (Almeno non stavamo prendendo in giro Brian perché era gay. Sicuramente non mi sarei prestato a farlo se l’avessero ridicolizzato per quel motivo. Almeno questo fu quello che mi dissi.) Continuammo a ridere di lui, e Nolan disse: «Boo!» E Brian, accidenti a lui, trasalì. Jarred ruggì come un mostro, ma almeno questa volta, Brian non si ritrasse. Non riuscii a immaginare che verso facesse un pitone, così ruggii anche io come un mostro. E intanto, ridevamo tutti eccetto Brian. E poi, proprio quando pensavo di non potermi sentire più miserabile, guardai alle spalle di Brain e vidi Min ferma sul pianerottolo sopra di lui. Anche lei aveva dei libri in mano, come se arrivasse a sua volta dalla biblioteca.
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Mentre ridevo ancora di Brian, i miei occhi incontrarono quelli di Min. Fu come quando avevo cercato di mostrarmi sicuro con il lanciatore la settimana prima alla partita di baseball. Ma non c’era modo di intimidire Min con lo sguardo. PerchÊ potevo leggerle negli occhi che aveva visto e sentito tutto quello che avevo appena detto e fatto.
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CAPITOLO UNDICI
Min non parlò con me in quel corridoio dopo la scuola, mentre Nolan e Jarred e io ridevamo di Brian Bund. Lei semplicemente mi fissò per un secondo, poi senza dire una parola, marciò giù per le scale, facendosi strada tra me e Nolan. Mi spostai velocemente per farla passare. Brian, da ragazzo intelligente che era, approfittò della sua scia per andare via da lì. «Che problema ha?» Disse Nolan. Min era visibilmente incazzata. «Stronza,» disse Jarred. Ma notai che entrambi avevano finalmente smesso di ridere. Non parlai con Min neanche quella sera. Lei non mi mandò nessun messaggio, e io non mandai a lei. E il giorno dopo, non pranzò insieme a me e Gunnar, ma con alcune sue amiche del campo estivo. Ma anche Min se non parlò con me di quello che era successo in quel corridoio con Brian, sapevo che non sarebbe stata l’ultima volta che ne avrei sentito parlare.
Il pomeriggio successivo, alla riunione del martedì del Geography Club, Min entrò nella classe del professor Kephart e disse: «Abbiamo un problema.» Non avevamo mai applicato la 136
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regola dei cinque minuti prima, quella che ci permetteva di usare quel tempo per dire qualsiasi cosa volessimo. Di solito utilizziamo quel tempo per conversare liberamente. «Che tipo di problema?» Disse Belinda. Min era l’ultima arrivata, eravamo già tutti lì. «Brian Bund,» disse Min. Eccoci, pensai. Ora Min dirà a tutti quello che ho fatto a Brian. Ovviamente voleva punirmi. Mi sarei preso a calci per non aver detto agli altri la mia versione per primo. In ogni caso, ero assolutamente certo di quello che stava per dire. «Cosa centra lui?» Disse Kevin. «La gente lo sta davvero tormentando,» disse Min. «È orribile.» Guardava proprio verso di me. «Non è vero, Russel?» Non dissi nulla, mi limitai a fissare il pavimento. Cosa potevo dire? Mi meritavo tutta la merda che Min mi avrebbe gettato addosso, e anche di più. «Fa schifo,» disse Terese. «Ma tu hai detto che ‘abbiamo’ un problema. Cosa ha a che fare Brian con noi?» «Penso solo che dovremmo fare qualcosa.» «Cosa?» Disse Kevin. «Perché?» «Andiamo,» disse Min. «Non importa a nessuno? Pensate a come si deve sentire?» «Certo,» disse Ike. «Deve essere terribile. Ma cosa possiamo fare?» «Per prima cosa,» disse Min. «Potremmo invitarlo ad unirsi al Geography Club.» 137
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Nel momento in cui pronunciò quelle parole, scese un silenzio tanto profondo che si sarebbe potuto sentire cadere uno spillo. Pensai: Perché mi sta facendo questo? Dissi a me stesso che era solo perché era competitiva - che era gelosa della mia nuova popolarità, e voleva farmi abbassare la cresta. «Dici sul serio?» Disse Terese alla fine. «Certo,» disse Min sicura. «Perché no?» Kevin disse: «Beh, per prima cosa, non sappiamo neanche se è gay. Questo è quello che dicono tutti, ma non sappiamo se è vero. Anzi probabilmente non è così.» «Questo non vuol dire nulla,» disse Min. «Nemmeno Belinda è gay.» «Già!» Disse Belinda a Kevin. «Guarda qui, amico.» «In ogni caso,» disse Min, «tutti pensano che sia gay. Lo insultano perché pensano che sia gay. È noi siamo un gruppo di supporto per ragazzi gay e ragazzi che hanno problemi come i nostri. Non abbiamo una responsabilità in questo caso?» «No,» disse Terese. «Siamo un gruppo di supporto per noi stessi. Quello che sta succedendo a Brian fa schifo, ma non spetta a noi sistemare le cose.» Qual era lo scopo del Geography Club? Il primo giorno nella classe del professor Kephart, avevamo parlato di molte cose, ma non avevamo mai chiarito questo. Non ci era sembrata una cosa importante in quel momento, ma adesso decisamente lo era. Ma il fatto era, che noi eravamo un club gay. E Brian veniva insultato perché la gente pensava che lo fosse. Min aveva ragione. Se servivamo a qualcosa, allora avevamo una responsa138
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bilità nei sui confronti. Per questo capii che l’idea di Min – invitare Brian ad unirsi a noi – non era nata perché voleva competere con me, o per punirmi. Era per cercare di fare la cosa giusta. «Non lo so,» disse Kevin. «Cosa succede se Brian parla? Cosa succede se noi gli diciamo del club, e lui decide di non entrarci, ma dice a qualcuno di noi?» «Non parlerà,» disse Min. «Stai scherzando? Più di chiunque altro, lui sa cosa vuol dire essere un emarginato. Credi davvero che lo farebbe?» «Potrebbe,» disse Ike. «Sai cosa si dice dei ratti che stanno annegando. Si uccidono a vicenda per sopravvivere più a lungo.» «Andiamo,» disse Min. «Queste sono solo scuse. Non sono il vero motivo per cui non lo volete qui.» «Ah sì?» Disse Terese. «Allora qual è il motivo?» «Perché è Brian Bund.» Disse Min. Nessuno disse niente, aveva centrato il punto. «Non è solo per questo,» disse Terese. «C’è anche la faccenda che tutti pensano che lui sia gay. Se si unisce al Geography Club, inizieranno a pensarlo anche di noi.» «Questa è una stupidaggine!» Disse Min, e Terese si irrigidì un po’. «Siamo un club di geografia. Se qualcuno chiedesse – ma non credo che qualcuno lo farà – diremo che Brian si è iscritto per imparare qualcosa di geografia. Perché non dovrebbero crederci? Nessuno penserà che ci sia altro sotto.» Quando nessuno rispose, Min disse: «Credo che dovremmo metterlo ai voti.» 139
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«Ai voti?» Disse Belinda, e Min le spiegò quello che avevamo deciso di fare in caso di “conflitti” durante il nostro primo incontro. «Ha senso,» Disse Belinda. «Beh, io voto per chiedergli di entrare. Per far aumentare un po’ il contingente non-gay.» «Anche io,» disse Min decisa. «Beh, io sono contraria,» disse Terese, e Min la fissò come se la sua fidanzata le avesse appena dato uno schiaffo. Non ero sicuro del perché Min fosse così scioccata. Era stato abbastanza chiaro durante tutta la discussione che Terese avrebbe votato contro. Ma immaginai che Min non avesse mai preso realmente in considerazione l’idea che Terese potesse davvero votare contro di lei. «Ike?» Disse Belinda. «Non lo so,» disse lui. «Non credo che sia una buona idea.» «Neanche io,» disse Kevin. «Sono contrario.» «Cosa?» Dissi a Kevin. Ero talmente sorpreso che avesse votato contro da farmi parlare a voce alta per la prima volta da quando Min era entrata nella stanza. Perché Kevin aveva votato contro l’ingresso di Brian nel Geography Club? Senza dubbio era la cosa giusta! Come faceva a non accorgersene? «È troppo rischioso,» disse Kevin. «E già molto pericoloso vederci così. Meno persone lo sanno, meglio è.» «Russel?» Disse Min. «Huh?» Dissi, ancora sconvolto da quello che aveva detto Kevin. Ero certo che avrebbe votato a favore, che credo fosse stupido proprio come quando Min lo aveva pensato Terese. Invece, Kevin aveva votato contro senza nessuna possibilità di ripensamento. ( Mi chiesi se fosse questo che intendeva dicendo 140
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che gli piacevano i ragazzi capaci di correre dei rischi. Ma immaginai si riferisse solo a qualche sport estremo o qualcosa del genere.) «Cosa voti?» Mi disse Min. «Io?» Dissi. Stavo per votare come Min. Ma dopo il voto di Kevin, non sapevo più cosa fare. Non volevo votare contro di lui. «Che differenza fa come vota?» Disse Terese d’un tratto. «Siamo due a tre. Anche se vota a favore di Brian siamo pari. E se finisce in parità non se ne fa nulla.» Guardò verso Ike. «Non è così?» Lui annuì. «Si. È così che funziona. Serve la maggioranza per apportare dei cambiamenti.» Tirai un sospirò di sollievo. Ero fuori dai guai. Non dovevo più decidere tra Min e Kevin. «Abbiamo votato tutti,» disse Min. «Dovrebbe farlo anche Russel.» Avrei voluto strozzarla. Ora stava cercando di punirmi! «Ma Terese ha ragione!» Protestai. «Il mio voto non farebbe alcuna differenza.» «Eppure,» disse Min, guardandomi dritto negli occhi. «È la cosa giusta.» «Andiamo!» Disse Terese con impazienza. «Vota, così possiamo farla finita, e passare a qualcos’altro.» Tutti stavano guardando me. Grazie a Min, ero obbligato a dire qualcosa - ma cosa? Da una parte, sapevo che lei aveva ragione su a Brian, avevamo una responsabilità nei suoi confronti – soprattutto io, per compensare quello che gli avevo fatto nel corridoio con a Jarred e Nolan. Ma anche Ike aveva ragione, il 141
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mio voto comunque non aveva valore. Era solo simbolico. Sarebbe stato certamente diverso se il mio voto fosse stato decisivo. Ma non c’era motivo di rischiare che Kevin se la prendesse per uno stupido voto simbolico. (Ma anche mentre ci pensavo, ricordai le parole di Ike sui ratti che annegano.) «No,» dissi. «No, cosa?» Disse Min. Voleva che glielo sillabassi? «No,» dissi. «Non voglio che Brian entri a far parte del Geography Club.» E nel momento in cui lo dissi, pensai: Perché diavolo non mi sono astenuto? Non è un’opzione quando si vota? Adesso che avevo votato mi sembrò di vedere Kevin rilassarsi un poco – o mi stavo immaginando le cose? Non riuscii a guardare Min negli occhi, ma non avevo bisogno di farlo per sapere che in quel momento mi stava odiando con tutta sé stessa. «Due a quattro,» disse Terese. «La mozione è respinta.» Aveva vinto, ma non sembrava affatto contenta. «Min?» Disse Belinda «Ti sta bene?» Lei annuì appena. Almeno non mi stava più fissando. Mi chiesi se mi avrebbe guardato ancora. Non avrei mai pensato che la mia settimana potesse peggiorare. Ma poi arrivò il venerdì e quindi il mio terzo appuntamento con Trish Baskin. Come al solito, Gunnar passò a prendermi, e ancora una volta caricammo le ragazze oltre la curva alla fine della strada di Kimberly. Andammo a mangiare la pizza, nello stesso locale dove si era riunito per la prima volta il Geography Club, ma quella cena non sarebbe potuta essere più diversa. Per prima 142
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cosa, Trish e Kimberly e Gunnar non faticarono a scegliere la pizza (peperoni – e nessuno chiese la mia opinione). Anche la conversazione fu diversa. A un certo punto mentre mangiavamo, Kimberly disse «Il professor Donaldson è un gran figo! Ci scoperei se mi volesse.» Il professor Donaldson era uno degli insegnanti di scienze della nostra scuola, e visto che l’accompagnatore di Kimberly, Gunnar, era seduto proprio accanto a lei, il suo commento fu decisamente fuori luogo. (Sarebbe stato di cattivo gusto anche se Gunnar non fosse stato seduto vicino a lei.) Ma ancora una volta, il mio amico - lo zerbino - non ci fece caso. Più tardi, mentre eravamo in macchina dopo la cena, Kimberly si voltò dal sedile anteriore e Chiese a Trish: «Sei sicura di aver portato la chiave?» Trish annuì «È nella mia borsa.» «Chiave?» Dissi. «Della casa al mare dei miei genitori,» disse Trish. «Credevo che saremmo andati al cinema.» «Ah sì,» disse Gunnar dal sedile anteriore. «Ho dimenticato di dirtelo. Trish è riuscita a prendere la chiave della casa al mare dei suoi genitori. Abbiamo pensato di andare lì anziché al cinema.» «Cosa ci andiamo a fare in una casa al mare?» Chiesi, ma lo sapevo già. C’erano camere da letto nelle case al mare. E anche Gunnar lo sapeva. Per questo mi aveva mentito dicendo che saremmo andati al cinema. Sapeva che altrimenti non avrei accettato di venire. Sul sedile anteriore, Kimberly si strusciò su Gunnar. Aveva davvero intenzione di fare sesso con lui, uno che neanche le 143
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piaceva, solo per costringermi a passare un’altra notte con Trish? Ma questo non era un mio problema. Il mio problema era che una di quelle stanze nella casa al mare era riservata a Trish e me. Per quanto lo volessi, non riuscii a saltare fuori dall’auto in corsa. Non potevo neanche chiedere a Gunnar di accostare e farmi scendere - non senza mettere me stesso e Gunnar in imbarazzo. Quindi prima che me ne accorgessi, Gunnar aveva parcheggiato l’auto nel vialetto di ghiaia di una casa immersa nell’ombra lungo la spiaggia. «Cazzo, che freddo!» Disse Kimberly una volta entrati. «Accendete il riscaldamento!» La casa era arredata in stile nautico - un sacco di conchiglie e gabbiani e fari e navi da pesca in bottiglia. «Russel?» Disse Trish. «Sai accendere un fuoco?» «Credo di sì,» dissi. Mentre preparavo il giornale per il camino, mi avvicinai a Gunnar e dissi: «Perché non mi hai detto che saremmo venuti qui?» «Pensavo di averlo fatto,» disse. «Forse l’ho dimenticato.» Persino ora, non riusciva a dirmi la verità. Questo mi infastidì forse di più della bugia originale. Quando il fuoco prese vita, mi girai e vidi che Kimberly stava accendendo un fuoco tutto suo: aveva trovato la scorta di liquori dei genitori di Trish e stava allineando le bottiglie sul tavolino da caffe.
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«Così si fa!» Disse Kimberly, meravigliata per la varietà di liquori. All’inizio, pensai che avrebbe insistito per farci ubriacare con lei, il che dimostrò solo quanto poco conoscessi Kimberly Peterson. No, apparentemente, l’alcool era solo per lei. E una volta iniziato a bere, fu subito chiaro che non si sarebbe più curata di noi. «Ricordati di lasciare almeno metà di ogni bottiglia,» disse Trish, ma Kimberly la ignorò. Se a Trish fosse importato davvero che restasse qualcosa dentro quelle bottiglie prima della fine di quella serata, avrebbe dovuto trovarsi una nuova migliore amica. Più o meno per la prossima ora, sedemmo a parlare in cerchio, e Kimberly diventò sempre più ubriaca, rise ad ogni battuta anche solo lontanamente divertente, e poi iniziò a ridere anche per cose che non lo erano affatto. Io bevvi solo CocaCola, ma Gunnar e Trish seguirono entrambi l’esempio di Kimberly. Alla fine di quell’ora, c’era molto meno della metà dei liquori in ogni bottiglia su quel tavolino da caffe. Gunnar si alzò per fare pipì, e io lo tirai da parte. «Ehi,» dissi. «Non pensi di aver bevuto abbastanza?» «Huh?» Lui ovviamente non stava pensando, o vedendo, molto chiaramente. «Devi riportarci a casa, ricordi?» Avevo già intenzione di guidare io, ma volevo almeno suggerirgli l’idea che magari saremmo potuti tornare a casa a breve. «Sto bene,» disse, con voce impastata. «Comunque, stavo pensando che potremmo passare la notte qui!» Non provai neanche a protestare. Sapevo che non c’era niente che potessi dire per fagli cambiare idea. Era come il ca145
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pitano in una di quelle navi in mezzo al mare in tempesta dipinte nei quadri dozzinali alle pareti della casa; che nonostante gli ovvi avvertimenti della bufera, erano determinati a portare a termine il viaggio. Quando Gunnar e io tornammo alla “festa”, Gunnar si strinse accanto a Kimberly, e Trish si strinse a me. Poi Kimberly disse: «Ehi! Facciamo un gioco!» Intuii che non intendesse giocare a carte, quindi non fui sorpreso quando annunciò, «giochiamo a Obbligo o Verità!» Trish ovviamente prese la palla al balzo. «Ottima idea!» «Inizio io!» Disse Kimberly. Poi si girò verso Gunnar e con voce seducente disse, «Obbligo o verità?» «Obbligo,» rispose lui, e almeno ebbe la decenza di suonare nervoso. «Baciami!» Disse Kimberly. Poco ma sicuro, Gunnar le si accostò e la baciò. Una volta che le loro labbra si incontrarono, Kimberly si avventò su di lui. Lo strinse così forte tra le sue braccia che mi ricordò una stella marina attaccata a una vongola. Solo che Gunnar non opponeva resistenza. Ricambiò il bacio, e iniziarono a palparsi. Apparentemente, Kimberly stava davvero per fare sesso con Gunnar, un ragazzo che nemmeno le piaceva. Infatti, sembrava che stesse per fare sesso con lui proprio lì sul divano davanti a me e Trish. In ogni caso, i loro contorcimenti frenetici posero fine al gioco più breve della storia. Ma il gioco non era finito per Trish. «Tocca a me!» Disse. Evviva, pensai, non riesco a immaginare cosa potrebbe chiedermi di fare.
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Ma ne avevo abbastanza. Mi alzai dal divano, e Trish rimasta senza sostegno ricadde con un tonfo sui cuscini. La stavo respingendo di nuovo, ma questo non era un mio problema, giusto? «Cosa c’è che non va?» Disse Trish. «Niente,» dissi. «Non voglio giocare.» «Oh.» «Voglio andare a casa.» «Oh.» La ignorai e mi voltai verso Gunnar, che era ancora sul divano impegnato a esplorare la bocca di Kimberly con la lingua. «Gunnar?» Quando non mi guardò o diede segno di sentirmi, alzai la voce e dissi: «Gunnar! Voglio tornare a casa!» Questo finalmente attirò la sua attenzione. «Eh?» «Voglio andare a casa adesso.» «Cosa?» «Quale parte di ‘voglio andare a casa’ non hai capito?» Feci un passo verso la porta. «Ora dammi le chiavi, guido io.» «Ma…» «Ma cosa?» Si alzò velocemente in piedi, e io cercai di ignorare l’imbarazzante rigonfiamento sul davanti dei suoi pantaloni. Poi mi spinse verso la cucina. «Russ, che cosa stai facendo? Hai promesso che l’avresti fatto per me!» Non l’avevo mai visto così deciso riguardo qualcosa, nemmeno il fine settimana precedente quando mi aveva ricattato per uscire con Trish una terza volta. 147
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«Ho promesso che sarei uscito con Trish,» sussurrai. «E l’ho fatto. Per tre volte.» Guardai indietro verso di lei, rimasta rannicchiata sul divano sconsolata. Kimberly, nel frattempo, non pensava affatto alla sua amica. Si stava scolando un’altra tequila. Mi sentii in colpa per aver ferito i sentimenti di Trish, ma in quel momento non potevo fare niente per lei. «No!» Mi disse Gunnar. «Sei uscito con lei due volte e mezzo! Il terzo appuntamento non è ancora finito!» «Ah sì?» Dissi. «Be’, scoparmela non faceva parte dell’accordo!» Non ero un ragazzo che usava parolacce molto spesso. Ma per chi mi aveva preso - Russel Middlebrook, ragazzo squillo? «Cristo, Russ!» Disse Gunnar. «Non fare lo stronzo!» Lui stava accusando me di fare lo stronzo? Dopo avermi ricattato per venire a quell’appuntamento, mentito su cosa implicava, essersi ubriacato, e ora persino rifiutandosi di riportarmi a casa? «Non sto facendo lo stronzo,» dissi, non calmo quanto avrei voluto. «Voglio solo andare a casa.» «Si? Beh, non è ancora ora di andare!» I suoi occhi mi avvertirono di non sfidarlo su questo, ma non potei fare a meno di ignorare il suo segnale. «Gunnar, non resterò qui!» «Bene!» Disse. «Allora puoi andare a piedi!» Eravamo nel bel mezzo del nulla, probabilmente a chilometri dal primo telefono pubblico. Inoltre, era notte fonda. «Bene!» Dissi, e mi incamminai verso la porta d’ingresso. Questa volta non era un bluff. Ero bloccato a chilometri da casa, ma qualsiasi posto era meglio di quello. 148
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«Russel?» Disse una voce bassa e tremula alle mie spalle. Trish: «Cosa c’è che non va? Dove stai andando?» «A casa!» Dissi. «Eh?» Disse Kimberly dal divano, e i sui occhi appannati cercarono di mettermi a fuoco. «Ma perché?» Disse Trish. Le dovevo una spiegazione? Probabilmente sì. Ma cosa potevo dire? «Non sei tu,» dissi. «Sono io. È stata una pessima idea.» Dopo questo, Trish iniziò a piangere. Così, tanto per farmi sentire meglio. «Cristo, Russ!» Disse Gunnar. «Sei davvero un stronzo!» «Sta zitto!» Dissi. «Tu, sta zitto!» «Figlio di puttana!» Disse Kimberly. Non credo che Kimberly avesse davvero idea di quello che stava succedendo. Aveva solo reagito alle voci alterate mia e di Gunnar, e alle lacrime di Trish. «Me ne vado!» Dissi. «Bene!» Disse Gunnar. «Vai! Vattene! E visto che ci sei, vattene al diavolo!» «Russel!» Disse Trish. «Aspetta!» Ma non c’era niente che potessi dirle per dare un senso a tutta quella faccenda, quindi non mi fermai. «È uno stronzo,» sentii dire a Kimberly. «Lascialo perdere.» «Ma non credere che sia finita qui!» Gridò Gunnar alle mie spalle. «La pagherai per questo!» 149
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Poi non li ascoltai piĂš. Aprii la porta e uscii nella notte fredda e scura, ormai ero un relitto distrutto e naufragato sugli scogli.
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CAPITOLO DODICI
Almeno avevo ancora Kevin. Fu lui che chiamai quando finalmente riuscii a trovare un telefono pubblico oltre due ore dopo. Lo svegliai, ma quando gli dissi dove ero e qualcosa di quello che era successo, accettò immediatamente di venire a prendermi. (Chiamai anche i miei genitori e dissi loro di non preoccuparsi - che Gunnar aveva bucato ma avevamo già chiamato il pronto intervento.) Quaranta minuti dopo, Kevin finalmente arrivò con la macchina dei suoi genitori. Erano quasi le due di notte. «Stai bene?» Disse quando entrai in auto. «Si,» dissi, ma non stavo bene, e lui lo sapeva. Iniziai a raccontargli quello che era successo, ma avevo appena iniziato quando scoppiai a piangere. «Ehi,» disse. «È tutto a posto.» Poi aprì le braccia, e io affondai la testa nel suo petto. Non avevo mai pianto tra le braccia di qualcuno prima, e devo raccomandarlo, poi ci si sente molto meglio. Dopo lo sfogo, iniziai finalmente a raccontare la storia di quello che era successo quella notte. Mi ascoltò senza parlare, e quando finii, mi disse che avevo fatto bene ad andarmene, e che non avevo nulla da rimproverarmi o per cui piangere. Poi 151
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iniziò ad accarezzarmi i capelli e a dirmi che sarebbe andato tutto bene. «Grazie per essere venuto,» sussurrai. «Ehy,» disse. «Siamo una squadra, tu e io. Non sai che farei tutto per te?» Giusto, almeno avevo ancora Kevin. Non ero sicuro di cosa avrei fatto se l’avessi perso.
Il lunedì successivo, non avevo nessuno con cui sedermi a pranzo. Min ancora non mi parlava, ed ero dannatamente sicuro che non mi sarei seduto con Gunnar. Così andai al tavolo della squadra. Adesso che ero un membro della squadra di baseball, sembrava una cosa perfettamente normale. Ma, naturalmente, mi assicurai di non sedermi proprio accanto a Kevin. «Come butta, Middlebrook?» Disse Ramone, e io accennai un saluto. La mia stella iniziava a sbiadire da quando avevo segnato quel fuoricampo una settimana fa, ma qualcuno si ricordava ancora di me. «Poi cosa è successo?» Disse Nolan a Jarred. Avevo interrotto una conversazione in corso. «Tu cosa credi?» Disse Jarred. «Amico, lei mi stava implorando, strillava come una maialina!» «Davvero?» Disse Nolan. «Oh sì!» Disse Jarred. «E poi quando sono entrato, non ne aveva mai abbastanza. Mi supplicava per averne di più!» A me sembrano un sacco di balle, pensai. Con chi era uscito Jarred – con una senzatetto? Ma fin da quando mi ero unito alla 152
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squadra di baseball sapevo che avrei passato un sacco di tempo ad ascoltare i ragazzi vantarsi di aver fatto sesso, in particolare il lunedì. Per qualche motivo, era stato più facile ignorare quel tipo di discorsi prima che io e Kevin ci fossimo messi insieme. Ora che iniziavo ad avere una qualche idea su cosa fosse la vera intimità, quei ragazzi mi sembravano degli idioti, racconta balle e crudeli. Guardai Kevin, ma lui fissava il suo pranzo, e immaginai che stesse pensando alla stessa cosa. Prima che Jarred potesse aggiungere altro, il silenzio scese sulla sala mensa. Capii cosa era appena successo prima ancora di vederlo. Qualcuno aveva fatto qualcosa a Brian Bund. Mi girai nella direzione verso cui guardavano tutti. Come previsto, c’era Brian Bund in piedi davanti alla doppia porta che dava sull’auditorium della scuola. Qualcuno dall’altra parte l’aveva spinto dentro la sala mensa. E non era l’unica cosa che avevano fatto. Gli avevano anche infilato un reggiseno stretto intorno al petto e spalmato il viso di rossetto e fard. Un nanosecondo dopo, tutta la sala mensa esplose in una fragorosa risata. Il ruggito di scherno lo investi come un’onda, e Brian barcollò stordito. Esaminai la sala mensa. Ancora una volta, sembrava che tutti stessero ridendo – dagli atleti agli smanettoni del computer. Alcune risate sembravano un po’ forzate, ma la maggior parte delle persone se la stava spassando sul serio. Non potei fare a meno di notare che anche Terese, seduta con le sue compagne di squadra, stava ridendo. C’erano due supervisori nella mensa, e persino uno di loro sorrideva. 153
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Ma poi notai Min, seduta tra altri suoi amici. Lei non stava ridendo. Neanche Belinda e Ike, seduti ai rispettivi tavoli, ridevano. Cercai di vedere la reazione di Kevin, ma Ramone seduto tra di noi me lo impedì. Nel frattempo, Brian era nel panico. Era troppo, anche per lui. A differenza di quella volta che gli avevano lanciato il cibo addosso, non si incamminò lentamente verso la porta, calmo e con dignità. Questa volta, artigliò disperatamente il reggiseno che aveva legato intorno al petto, e quando finalmente riuscì a strapparselo di dosso lo getto via, era stato chiaramente fissato a dovere. Poi, corse fino al bagno probabilmente per levarsi dal viso il rossetto e il fard. E anche se il trucco era spesso, non riuscì a nascondere la sua espressione terrorizzata. Mi chiesi come fosse possibile che chiunque trovasse qualcosa di divertente nella sua espressione. Un secondo dopo, Nate Klene e Brent Ragell apparvero in fondo alla caffetteria. Erano entrambi atleti – Nate faceva parte anche della squadra di baseball. Forse fu il modo in cui camminavano (più spavaldo del solito), ma ero sicuro che arrivassero proprio dall’auditorium. Erano stati loro, lo avevano spinto dentro la sala mensa e poi erano usciti dalla porta sul retro. E ora facevano – malamente – finta di non sapere cosa fosse successo. Nessuno nella caffetteria ci cascò. Avevano visto Brian, poi Nate e Brent, e sapevano che erano stati loro. Le risate si fecero ancora più forti, mancava solo che qualcuno iniziasse ad applaudire, e Nate e Brent ringraziarono il pubblico con sorrisetti e piccoli inchini.
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Dubitavo che sarebbero finiti nei guai per le loro azioni. Forse avevano agito da soli in quell’occasione, ma non lo erano mai stati davvero. L’avevano fatto insieme a tutta la scuola. Ecco perché nessuno, nemmeno Brian, li avrebbe accusati di nulla. Inoltre, erano atleti, e in quanto tali ricevevano un trattamento speciale. Ma sapete qual era la cosa che trovavo davvero divertente? Anche se ero seduto ad un tavolo pieno di persone, non mi ero mai sentito più solo. Il giorno dopo, alla riunione del Geography Club, l’aria era così fredda che dentro l’aula si sarebbe potuto scolpire il ghiaccio. C’era l’astio malcelato di Ike nei miei confronti. E Min e Terese, che normalmente ridacchiavano e sussurravano sottovoce prima di ogni incontro e durante si tenevano per mano, non si erano neanche guardate in faccia. (E se avessero litigato? Mi chiesi. Visto che Min non mi parlava, non potevo saperlo.) Anche Belinda sembrava fredda con tutti. Non aiutò che Min sollevasse nuovamente l’argomento ‘Brian Bund’. Avevamo saltato l’incontro del giovedì, quindi era la prima volta che ci riuniamo dopo martedì scorso, quando avevamo parlato di Brian. «Tutti sanno quello che è successo a Brian ieri in sala mensa,» disse Min. «Si,» disse Kevin. «E allora?» «Quindi pensi ancora che non dovremmo farlo entrare nel Geography Club?» «Ne abbiamo discusso la settimana scorsa,» disse Terese, con tono irritato. 155
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«E allora?» Disse Min. «Voglio discuterne di nuovo.» «Non c’è niente da dire,» disse Kevin. «Abbiamo già votato.» «Allora userò i miei cinque minuti.» Nessuno poteva impedirglielo. Durante quei minuti ognuno poteva dire ciò che voleva, senza essere interrotto. Quindi per cinque minuti, Min ci spiegò di nuovo perché pensava che dovessimo invitare Brian a unirsi al nostro club. Non voglio ripetere tutto ciò che disse perché, francamente, erano le stesse argomentazioni della settimana precedente. Quando finì, restammo tutti in silenzio per un secondo. Poi Terese disse: «Okay. Chi è il prossimo?» «Aspetta un minuto!» Disse Min. «Voglio un altro voto.» «Abbiamo già votato,» disse Kevin. «La settima scorsa.» «Quindi? Non esiste una regola per cui non si può votare due volte.» «Si, beh, hai già avuto i tuoi cinque minuti. Adesso è il turno di qualcun altro.» «Davvero?» Disse Belinda. «Beh, ora tocca a me, e anche io penso che dovremmo votare un’altra volta.» «Questo non è giusto,» disse Kevin. «Va bene, allora votiamo un’altra dannata volta!» Gridò Terese. E la sua sfuriata zittì tutti. Kevin sospirò. «Sentite, sappiamo tutti di cosa si parla. Qualcuno vuole cambiare il suo voto?» Min guardò verso Terese, speranzosa. «Terese?» 156
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«Min!» Disse Terese a denti stretti. «Ne abbiamo già parlato, va bene?» Allora capii che avevano litigato, e che Brian era uno dei motivi principali. Quando Terese disse questo, gli occhi di Min si fecero tristi, come se avesse visto una madre perdere il suo bambino. Capii che tra Terese e Min era finita. Quella lite su Brian era stata la loro rovina. «Qualcun altro?» Disse Min, e io cercai disperatamente di evitare il suo sguardo. Nessuno disse niente per un secondo. Poi Ike disse: «Io.» «Tu cosa?» Disse Terese. «Voglio cambiare il mio voto,» disse Ike. «Credo che dovremmo chiedere a Brian di entrare nel club.» «Cosa,» disse Kevin. «Perché?» Ike si strinse nelle spalle. «Immagino sia per quello che ho visto ieri in sala mensa. Voglio dire, ognuno ha il suo punto di rottura. Beh, Brian è andato molto vicino al suo. Allora cosa succede se lo supera e fa qualcosa di estremo? Starei davvero male sapendo che avremmo potuto fare qualcosa per aiutarlo, ma che non l’abbiamo fatto.» Nessuno disse niente, ma sapevamo tutti cosa intendesse Ike. Cosa sarebbe successo se Brian si fosse ucciso? Specialmente detta da Ike, una cosa simile aveva un impatto molto profondo. Ancora una volta, mi ero sbagliato su di lui. Nemmeno in un milione di anni avrei pensato che potesse cambiare il suo voto. Ma anche sapendo che era la cosa giusta da fare e tutto il resto, lo odiai più che mai in quel momento. Perché eravamo di nuovo tre a due. Se votavo con Kevin e Terese, allora il 157
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risultato sarebbe stato tre e tre, e non avremmo chiesto a Brian di unirsi al Geography Club, proprio come voleva Kevin. Ma se anche io avessi cambiato il mio voto, allora il risultato sarebbe stato due a quattro, e Min avrebbe vinto. In altre parole, il mio voto non era più simbolico. All’improvviso, era importante. Grazie a Ike, adesso il mio voto era decisivo! «Russel?» Disse Min, con un cauto ottimismo nella voce. Lei sapeva di essere vicina a far prevalere la sua opinione, e io sapevo che mi avrebbe perdonato tutto se avessi votato con lei. E per quanto fossi arrabbiato, pensavo comunque che avesse ragione riguardo Brian Bund, e avrei voluto davvero votare a favore. Ma poi guardai bene lei e Terese sedute rigide, senza parlare, senza toccarsi. Pensai: È questo che succederà a me e a Kevin se voto contro di lui? Sembrava impossibile rovinare una cosa tanto bella per una stupida incomprensione. Ma era stato abbastanza per allontanare Min e Terese, no? Non avrei potuto sopportare di stare senza Kevin. Eravamo una squadra, lui e io. L’aveva detto lui. Non volevo essere di nuovo solo. E così voltai le spalle a Brian Bund per la terza volta. (Lo stesso numero di volte che l’apostolo Pietro rinnegò Gesù, nel caso vi interessi.) «Mi dispiace,» dissi, con gli occhi bassi. «No.» Per un attimo, Min restò immobile, sbalordita. Poi, di scatto, si alzò in piedi. «Bene!» Disse, furiosa. E con questo si avviò verso la porta. Era abbastanza chiaro che non sarebbe tornata indietro.
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Avrei potuto fermarla. In qualsiasi momento prima che raggiungesse la porta, avrei potuto dirle che cambiavo il mio voto, e lei sarebbe tornata indietro. Ma chissà come avrebbe reagito Kevin? Non c’era via d’uscita. Quindi anche se avrei potuto fermare Min, non lo feci. E lei scomparve nel corridoio. «Min!» Disse Belinda. «Aspetta!» Quando Min non tornò indietro, Belinda si affrettò a seguirla. Poi Terese disse: «Fottiti!» E senza nemmeno un saluto, le seguì fuori. Questo lasciò Ike, Kevin, e me. Non avevamo neanche un quorum. Nessuno dei tre disse nulla. Non ce n’era bisogno. Sapevamo tutti cosa era successo. Il Geography Club era finito. Quel pomeriggio all’allenamento di baseball, mi massacrarono. Quattro volte. Più forte roteavo la mazza, più velocemente la palla sembrava sfuggirmi. Era una metafora per qualcosa, ed ero abbastanza sicuro di sapere cosa. La verità era, che non avevo fatto nessuno fuoricampo sin dalla partita di undici giorni prima (non avevo neanche azzeccato molti tiri), e la gente iniziava a notarlo. La mia presa era meglio, ma solo un po’. Non ero assolutamente il peggior giocatore della squadra – quello era Christian Coles – ma ero decisamente fra gli ultimi tre. Kevin e io non parlammo tra noi durante l’allenamento, ma questo non era strano. Avevamo deciso di non sembrare troppo amichevoli durante gli allenamenti. La cosa strana era 159
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che dopo quella riunione al Geography Club, non avevo particolarmente voglia di parlare con lui. Questo era ironico; avevo votato contro Brian e Min in modo che Kevin non si arrabbiasse con me, e adesso ero io ad essere arrabbiato con lui. Più tardi, mi raggiunse lungo la strada per gli spogliatoi. «Russel?» Disse. «Stai bene?» «Si,» dissi, continuando a camminare. «Ehi,» disse, e mi fermai, ma non lo guardai negli occhi. Lui si guardò intorno in cerca di un posto dove parlare in privato, poi mi guidò tra gli alberi dietro gli spalti. «Che ti succede?» Disse. Giocherellava con la palla da baseball tra le mani. Era nervoso per qualcosa, ma non l’avevo mai visto farlo quando eravamo soli. «Niente,» dissi. «So che fa schifo essere in riserva,» disse. «Ma andrà meglio. Stai solo avendo una brutta settimana.» «Non è per quello,» dissi. «Non potrebbe fregarmene di meno.» Lui annuì ancora e distolse lo sguardo. «Lo so, è per Brian.» Quindi Kevin sapeva cosa stava succedendo, dopo tutto. «Tu pensi che avremmo dovuto farlo entrare nel club. E hai votato contro solo perché pensi che sia quello che voglio io. Non è così?» Si, pensai amaramente. E mi hai costretto a scegliere fra te e la mia migliore amica. Ma tutto quello che dissi a Kevin fu: «Non fa niente» e riiniziai a camminare. «Dobbiamo tornare agli spogliatoi, prima che qualcuno si accorga che siamo spariti.» 160
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«Aspetta» disse. Mi fermai e guardai indietro verso di lui. Non aveva ancora smesso di tormentare la palla. «Penso che dovresti votare come ti senti,» disse. «Per Brian, voglio dire.» «È troppo tardi.» Dissi. «No, non è così. Puoi dire a Min che hai cambiato idea. Sono sicuro che tornerà nel Geography Club se le parlerai. E forse possiamo parlare con Terese e far tornare anche lei. Tornerà tutto come prima. A parte che ci sarà anche Brian.» «E resterai anche tu?» Dissi. Lui annuì e mostrò le sue famose fossette sorridendo. «Si. Resterò anche io.» «Grazie!» Dissi, e prima di potermi fermare, feci un passo avanti e lo baciai. Ma le mie labbra lo avevano appena sfiorato quando lui si allontanò. «Dobbiamo andare,» borbottò. E mentre si voltava, non potei fare a meno di notare che continuava a tormentare la palla, ancora più di prima.
La mattina successiva prima delle lezioni, incontrai Jarred Gasner mentre camminavo verso la scuola. «Ciao,» dissi. Quando Jarred non rispose, lo guardai. Mi stava fissando con un’espressione strana. Quasi fredda.
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«Cosa c’è?» Dissi. Sapevo di non avere nessun nuovo brufolo. Avevo il moccio al naso o qualcosa del genere? «È vero?» Disse. «È vero cosa?». «Che sei un frocio.» Sentii il sangue gelare nelle vene. «Cosa?» Dissi. «Chi te l’ha detto?» «Tutti,» Disse Jarred. «Lo dicono tutti. Che sei il ragazzo gay che ha parlato con la professoressa Toles. E che ieri hai fatto domanda per iniziare un club di froci.» «No!» Dissi. «No!» Non ero sicuro di parlare solo con Jarred o con l’intero universo. Ero senza parole. Chi poteva aver messo in giro una bugia simile? Ma anche mentre ci pensavo, conoscevo la risposta. Questa era l’idea di Gunnar di vendetta.
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CAPITOLO TREDICI
E così iniziò il giorno peggiore della mia vita. All’improvviso, ero io il “Ragazzo Gay”. Non pensavo a me stesso come a una persona pessimista, ma era così che mi sentivo. Avevo desiderato così tanto che tutto questo non accadesse che alla fine era successo, se sapete cosa intendo. Mi ero comportato da stronzo con Brian e Min, e mi meritavo di essere punito - ma doveva essere proprio in quel modo? In un certo senso, fu come il giorno dopo il mio fuoricampo alla partita. Persone a cui non avevo mai rivolto la parola bisbigliavano il mio nome nei corridoi. Gruppi di ragazzi si fecero silenziosi quando passai vicino a loro, ma naturalmente non parlavano di me con ammirazione e rispetto. Ora molti mi guardavano con pietà o peggio disprezzo – effettivamente per lo più disprezzo. Riguardo gli insegnanti invece, non avevano più stima negli occhi quando parlavano con me, ora erano quasi esitanti. Come se stessero pensando: se non sono abbastanza gentile con il Ragazzo Gay, sarò licenziato come la professoressa Toles? A pranzo quel giorno, non avevo davvero nessuno con cui sedermi. Ovviamente, Gunnar e i miei compagni di squadra erano esclusi, e immaginavo che Min fosse ancora arrabbiata con me. E non potevo imporre la mia presenza a Belinda o Ike. 163
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Poi notai un tavolo dove un ragazzo sedeva tutto solo. Mi avvicinai a lui e dissi: «Ciao,» Brian Bund alzò lo sguardo verso di me. «Ciao,» disse. Non sembrava sorpreso di vedermi, il che, in realtà, mi offese un po’. «Ti dispiace se mi siedo qui?» Dissi. «F-f-fai pure.» Quindi Brian balbettava. Non avevo mai parlato con lui prima e non eravamo mai stati in classe insieme, non lo sapevo. Ma avrei dovuto immaginarlo. Pelle e ossa, brufoli e balbuzie. Chi non ha mai dubitato dell’esistenza di un Dio giusto e misericordioso non aveva mai incontrato Brian Bund. Mi sedetti. Nel corso delle ultime settimane, avevo esplorato la Terra della Popolarità e i Paesaggi dell’amore, ma non erano gli unici due posti che avevo visto. Avevo coperto tutte le tappe di un tipico liceo. Ero passato dai Confini della Rispettabilità, alla Terra della Popolarità, e adesso ero sull’Isola degli Emarginati, altrimenti conosciuta come ‘tavolo di Brian’. Avevo fatto il giro completo. Ma l’Isola degli Emarginati era sicuramente la fine del viaggio. Nel mondo delle scuole superiori, si poteva passare dalla popolarità alla rispettabilità e viceversa, ma non ci si poteva allontanare dall’emarginazione. Una volta arrivati lì, si rimaneva bloccati. Questo era il punto di essere esiliati da un posto: non si poteva tornare indietro. Il tavolo di Brian Bund era stato l’unico posto al mondo che non mi sarei mai aspettato di visitare, ma sapevo che era meglio che mi ci abituassi. Era la mia nuova patria, ed ero lì per restare. «Allora,» dissi a Brian. «Eccoci qua.»
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Lui mi guardò senza dire niente. Avevo davvero bisogno di trovare un altro modo per iniziare le conversazioni. «Senti,» dissi. «Mi dispiace davvero tanto per l’altro giorno, sulle scale.» Visto che lui non dava segni di capire, aggiunsi: «Ero con due ragazzi della squadra? Ti abbiamo preso in giro?» «Oh,» disse. Apparentemente, quel tipo di cose gli succedevano talmente spesso che non distingueva più gli incidenti l’uno dall’altro. «Allora,» dissi. «Hai sentito qualcosa su di me? «Che sei g-g-gay? Si, l’ho sentito. È vero?» Annuii. «Però non che sono il ragazzo di cui parla la professoressa Toles sul giornale – quello che si suppone abbia consegnato un modulo per il club gay. Qualcuno ha detto una bugia su di me, che casualmente è in parte vera.» Brian non disse nulla, continuò semplicemente a mangiare il suo pranzo. «È un problema?» Dissi. «Che sei g-g-gay?» Disse lui, e quando io annuii, disse, «questo f-f-farebbe di me una s-s-sorta di ipocrita, non credi?» Sorrisi mio malgrado. Quindi Brian Bund aveva il senso dell’umorismo. Immaginai che gli fosse stato necessario, visto tutto quello che aveva dovuto sopportare. «Tu lo sei?» Dissi. «Gay, intendo.» Sperai che non si offendesse per la domanda, ma dopo tutto quello che era successo, volevo davvero saperlo. «No,» disse lui. «Ho pensato di esserlo per circa una s-s-settimana qualche anno fa. Ma ora s-s-sono certo di non esserlo.» 165
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Se c’era mai stata una risposta che suonasse sincera senza ombra di dubbio, sarebbe stata quella. «Come fai a sopportarlo?» Dissi. Non so come abbia capito che mi riferivo al suo essere un emarginato, ma lo capì. «Ci si abitua.» Disse semplicemente. «Per tutto il giorno mi sono sentito sul punto di scoppiare a piangere. Con tutti gli sguardi puntati addosso, e quei sussurri.» «No. Non puoi f-f-fare così.» «Cosa intendi?» «Non ti p-p-puoi preoccupare di quello che pensa la gente. Diventerai p-p-pazzo. D-d-devi risparmiare le energie per quando ti f-f-faranno davvero qualcosa.» Mi faranno davvero qualcosa? Pensai. Ma anche mentre lo pensavo, sapevo a cosa si riferiva. Cose come lanciargli il cibo a mensa. O spingerlo in un auditorium buio e vestirlo come una ragazza. Oppure, bloccarlo in un corridoio deserto dopo la scuola. Era un buon consiglio. Ebbi anche un’affascinante visione di come doveva essere stata la sua vita, anche se fu terribilmente deprimente. «Hai mai desiderato cambiare le cose?» Dissi. Guardò in basso al suo pranzo. «Le cose non cambiano, nnon per me.» Non provai neanche a fargli qualche stupido segno di incoraggiamento. Aveva assolutamente ragione. Per lui,
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le cose non sarebbero mai cambiate, non finché avesse frequentato le superiori. E ora non sarebbero mai cambiate neanche per me. «In ogni caso,» disse Brian. «È troppo tardi per cambiare le cose ora che ho pranzato insieme al ragazzo g-g-gay.» Sorrisi e pensai: se devo essere bandito sull’Isola degli Emarginati per il resto dei miei giorni alle superiori, c’erano persone peggiori con cui parlare rispetto a Brian Bund. L’unica cosa buona dei giorni di scuola era che non importava quanto fossero schifosi, alla fine comunque finivano. Non vidi Kevin per tutto il giorno. Saltai ginnastica alla terza ora (Venti ragazzi con guantoni, palle e mazze da baseball? Non ero un idiota!) E lo mancai anche a pranzo. Ma sapevo che strada faceva per andare agli allenamenti, passava vicino al cassonetto e così lo aspettai lì. Ovviamente non avevo calcolato la puzza della spazzatura. Pensai: Che rapporto c’è tra la mia relazione con Kevin e i cattivi odori? Per il resto della mia vita, probabilmente avrai avuto un’erezione ogni volta che avessi sentito puzza di uova marce. Finalmente, Kevin apparì. Era da solo, che significava che potevamo parlare, e mi rilassai per la prima volta nelle ultime sei ore. Sapevo che Kevin non poteva far tornare tutto come prima, ma mi avrebbe comunque fatto sentire meglio. Dopo tutto, l’aveva già fatto due volte, dopo il mio secondo e terzo appuntamento con Trish Baskin. Kevin non mi aveva visto in piedi dietro il cassonetto, quindi quando si avvicinò attirai la sua attenzione salutandolo a voce alta. 167
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Sobbalzò un po’ per la sorpresa. Aveva una specie di espressione di panico sul viso, ma non potevo biasimarlo per non essere strafelice di vedermi. Voglio dire, anche per lui era una situazione difficile, visto che io in quel momento ero un emarginato e tutto il resto. Ed eravamo fondamentalmente in uno spazio aperto dove chiunque poteva vederci. Eppure, avevo disperatamente bisogno del suo sorriso, e rimasi deluso quando non apparve. Mi assicurai che non ci fosse nessuno in giro, poi dissi: «Non dobbiamo parlare adesso, ma ho davvero bisogno di vederti. Incontriamoci al gazebo nel parco, stasera alle nove.» Kevin continuò a non sorridere. Non disse nulla. Semplicemente mi fissò con quella strana espressione vuota. «Cosa c’è?» Dissi, anche se avevo la sensazione di saperlo. Si girò verso la scuola. «Non credo di farcela,» disse. «Cosa?» Dissi io. «Perché no?» «Davvero non posso.» «Domani allora.» «Non posso neanche domani.» Disse. «Cosa vuoi dire?» Certamente non mi stava dicendo che non ci saremmo visti mai più. Questo non era possibile. Io e lui eravamo una squadra. Ma in quel momento esatto sentimmo delle voci avvicinarsi dalla direzione dell’edificio principale. Erano Nate Klane e Ramone Hernandez, due giocatori della squadra di baseball, probabilmente stavano andando anche loro agli allenamenti. 168
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Kevin si girò verso di loro. Sapevo che non mi avrebbe mai perdonato se ci avessero visti insieme, così mi nascosi nello spazio fra il cassonetto e la parete. Il fetore era insopportabile, e mi ritrovai appiccicato a uno strato di sporcizia arancione. Non ero proprio nascosto ma dubitavo che Nate e Ramone mi avrebbero notato, a meno che non avessero guardato esattamente nella mia direzione. «Yo, Lando!» Disse Nate mentre lui e Ramone si avvicinavano. (Lando era uno dei tanti soprannomi di Kevin. Nel caso a qualcuno interessi, non avevo mai avuto un soprannome, e ora non ne avrei mai avuto uno. Non di genere amichevole almeno.) «Come butta?» Disse Kevin. La sua voce suonava un po’ incerta. «Che fai?» Gli chiese Nate. «Rovistavi nel cassonetto?» «Niente.» Rispose Kevin, allontanandosi rapidamente. «Andiamo all’allenamento.» Ma Nate stava finendo di mangiare un gelato. «Aspetta,» disse, voltandosi verso il cassonetto per gettare via il cono. Spero non siate sorpresi di sapere che mi notò immediatamente. «Middlebrook?» Disse, confuso. «Che diavolo?» Naturalmente, Kevin e Ramone si girarono a guardare. «Ho… perso una cosa,» dissi a Nate, e suonò stupido proprio come si legge. Strisciai fuori dal mio nascondiglio e cercai alla
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meglio di tenere dritta la schiena. Non c’era molto altro che potessi fare per recuperare un po’ della mia dignità. Ormai era sepolta da qualche parte in fondo al cassonetto. «Cristo, Middlebrook,» disse Nate, come se non avessi neanche parlato. «Che ci facevi lì dietro? Aspettavi il tuo fidanzato?» Nate e Ramone risero, e io pensai: Nate se sapessi quanto hai ragione. Anche Kevin rise, ma sapevo di non doverci restare male. Solo perché io ero un reietto non c’era bisogno di portarlo a fondo con me. E quindi in pubblico, Kevin doveva trattarmi come tutti gli altri atleti – in pratica, di merda. Lo capivo. «Oppure, cercava qualcosa da mangiare,» disse Ramone. «Hai trovato qualcosa, Middlebrook? Qualche wurstel?» Nate e Ramone e Kevin risero ancora di più. Alla fine, Kevin disse: «Lui non vuole un wurstel - vuole una bella salsiccia succosa!» E mentre lo disse, Kevin mimò un ampio spazio tra le mani, come un pescatore quando parla di un pesce. Finalmente c’era un sorriso sul viso di Kevin, ma non quello che mi aspettavo. Era un ghigno crudele, del tipo che di solito riservava a Brian Bund. Una cosa era che Kevin fosse obbligato a fingere di trattarmi in quel modo – di merda! - ma doveva per forza essere così convincente? Eccetto che non c’era nessuna finzione, e lo sapevo. Kevin prima voleva dirmi che non sarebbe venuto al gazebo nel parco, né quella notte né mai. Questo era quello che aveva iniziato a dirmi quando Nate e Ramone erano arrivati. Passare del tempo con me adesso era semplicemente troppo rischioso per lui.
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Molte persone potrebbero dire che mi meritavo di essere trattato in quel modo da Kevin. Avevo imparato qualcosa da tutti quei racconti durante le lezioni di inglese. Questo era un chiaro esempio del protagonista – io – che otteneva la giusta punizione per la sua arroganza. (Visto? L’avevo detto di essere anche un secchione.) Ora capivo chiaramente come doveva essersi sentito Brian Bund quel pomeriggio sulle scale, quando Jarred e Nolan e io lo avevamo messo con le spalle al muro. Ma almeno io, a differenza di Kevin, non avevo mai preso in giro nessuno per il fatto di essere gay. «Forza,» disse Nate. «Andiamo via di qui.» E lui e Ramone e Kevin si allontanarono, come se fossi un oggetto inanimato, proprio come il cassonetto, non ero degno neanche di un cenno di saluto. «Succhiacazzi,» sentii mormorare Nate. Così rimasi lì, in mezzo alla spazzatura, e compresi che in quel momento ero davvero, completamente solo.
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CAPITOLO QUATTORDICI
Inutile dirlo, non andai agli allenamenti di baseball. Invece, decisi di fare una passeggiata. Chissà come, arrivai fino al Parco dei Bambini per la Pace, con i bambini del mondo intagliati nel legno, quello che avevo visitato con Min. Ma quelle sculture erano state vandalizzate l’ultima volta che ero stato lì, e qualcuno finalmente le aveva rimosse. Ora c’era solo un giardino fiorito, con un sacco di tulipani, azalee e iris, tutti nel pieno della fioritura. Mi ricordò un cimitero e mi sembrò appropriato. Poteva essere un memoriale per la morte del Geography Club. O forse solo un giardino commemorativo, in ricordo di quando ero ancora un essere umano. «Ciao,» disse una voce alle mie spalle. Era Min. In qualche modo anche questo sembrò appropriato. La sentii camminare fino al mio fianco, ma non riuscii a girarmi verso di lei. Entrambi continuammo semplicemente a guardare i fiori, fianco a fianco. «Come hai fatto a trovarmi?» Dissi. «Non eri a casa. Non ci sono molti posti in cui potevi essere.» «Stai davvero parlando di nuovo con me?» «Dovrei essere davvero meschina per abbandonarti proprio ora.» 172
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Non sapevo cosa dire. Avevo paura che se avessi aperto bocca, avrei iniziato a piangere. «Oggi ho incontrato Kevin con alcuni compagni di squadra,» dissi alla fine. «Ha riso di me.» «Aveva paura,» disse Min. «In molti hanno avuto paura ultimamente.» Questo era un riferimento a me, a quello che avevo fatto a Brian. Aveva ragione, ovviamente. Quello che Kevin aveva fatto a me non era diverso da quello che io avevo fatto a Brian. Ma le parole di Min mi fecero realizzare anche un’altra cosa. Anche in quel momento continuavo a pensare solo a me stesso. «Sono stato un coglione,» dissi. «Mi dispiace così tanto. Ho rovinato tutto, vero? Ho solo quello che mi merito.» «Nessuno merita una casa simile,» disse Min, con una fermezza che mi fece venire i brividi. «Nessuno.» «È finita fra te e Terese?» Dissi. «Vero?» Con la coda dell’occhio, vidi Min annuire. «È stata colpa mia, vero?» Dissi. «Se non avessi preso in giro Brian nel corridoio…» «Non è stata colpa di nessuno,» disse Min, con la stessa fermezza di prima. «Doveva finire in un modo o nell’altro. Era solo questione di tempo. Non è mai stata una cosa vera. Non puoi avere una relazione nascosto in un magazzino di notte. Non la conoscevo nemmeno. Il Geography Club, l’incidente con Brian, me l’hanno fatta vedere con chiarezza per la prima volta.» «Beh, a me dispiace comunque.» 173
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Si strinse nelle spalle. «Un giorno tutto questo finirà. Fra cinque anni, probabilmente ci guarderemo indietro e ci rideremo su.» Significava che fra cinque anni saremmo stati ancora amici? «Non riesco a credere che mi perdoni,» dissi. Ero incredibilmente grato a Min, ma avevo anche paura di aver interpretato male le sue parole. «Russel,» disse lei, «le persone commettono degli errori. Se non ci fosse il perdono, non esisterebbe più l’amicizia nel mondo.» Mi girai verso di lei. E lei si girò verso di me. Non avevo mai pensato che Min fosse bella prima, ma ora vedevo che lo era. Un giorno avrei scritto una canzone sul suo viso, o ne avrei dipinto un quadro. Ma sapevo già che non sarei mai riuscito a renderle giustizia. «Ricordi qualche settimana fa, quando mi hai detto che ero una brava persona?» Dissi, e lei annuì. «Ti sei sbagliata. Tu sei una brava persona. Sei la persona migliore che conosco.» «Se sono così brava,» disse Min, «perché mi sento una merda?» Non riuscii a fare a meno di ridere. Ironia della sorte, la cosa mi diede speranza. Anche io mi sentivo una merda. Significava che non ero una persona così terribile dopo tutto?
Quella notte dopo cena, me ne stavo sdraiato sul letto a fissare il soffitto, quando sentii bussare alla finestra della mia camera. Il mio cuore accelerò per un secondo, perché ero certo che fosse Kevin. Ma quando tirai le tende, fu la faccia di Gunnar 174
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che vidi fuori. Non credevo di essere mai stato tanto deluso in vita mia. «Vattene,» dissi. Non aprii nemmeno la finestra. E gli chiusi le tende in faccia. Lo sentii bussare ancora. «Russ, per favore?» Potevo a malapena sentire la sua voce attraverso il vetro. «Per favore fammi parlare, solo per un secondo.» «Vattene!» Dissi, più forte che potevo senza rischiare di farmi sentire dai miei genitori. (Non serve dirlo, i miei genitori non hanno molto a che fare con questa storia. Ma d’altronde, non hanno mai avuto molto a che fare neanche con il resto della mia vita.) In ogni caso, Gunnar sarebbe passato sul mio cadavere prima di entrare in camera mia. «Non sono stato io!» Disse attraverso la finestra. «Non ho messo in giro quella voce! Russ, lo giuro!» Cosa intende? Pensai. «Per favore, lascia che ti spieghi!» Disse Gunnar. Tirai di nuovo le tende e aprii la finestra. Ero ancora furioso, se la mia camera fosse stata al secondo piano e Gunnar si fosse arrampicato su uno scarico o qualcosa del genere per raggiungerla avrei preso in considerazione l’idea di spingerlo di sotto. Ma la mia camera era al pian terreno, e lui stava semplicemente nel giardino in mezzo ai cespugli. «Cosa?» Dissi. Il tono nella mia voce suggeriva che avrebbe dovuto darmi un sacco di dannate spiegazioni. Gli occhi di Gunnar erano ancora più grandi del solito. «Sono state Trish e Kimberly! Beh, più Kimberly. Voleva fartela pagare. Ha detto che avevi messo in imbarazzo Trish. Così, la 175
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mattina dopo sé né uscita con l’idea di dire a tutti che eri il ragazzo gay.» Ci pensai su. Conoscendo Kimberly, aveva abbastanza senso. Gunnar abbassò lo sguardo. «Va bene, non è proprio la verità.» «Cosa?» Dissi, di nuovo infuriato. «Senti, ti dirò tutto, va bene? La verità è che non ho provato a fermarle. Non so se mi avrebbero ascoltato, ma avrei dovuto provarci. Ma ero arrabbiato con te, così le ho lasciate fare.» Iniziò a sussurrare il resto. «Forse le ho anche un po’ incoraggiate.» Stavo per dire qualcosa di terribile, ma Gunnar mi interruppe. «E anche se avessi cercato di fermarle, tu avresti ancora tutte le ragioni di essere arrabbiato con me. Tu mi hai fatto un grosso favore uscendo con Trish, e io ti ho ripagato mentendo. Non avrei mai dovuto chiederti di farlo. E non dovevo chiedertelo una seconda né una terza volta. E non dovevo lasciarti andare via a piedi da solo quella notte dalla casa al mare, o dirti le cose che ti ho detto. E mi dispiace così tanto! Russ, sei il mio migliore amico, e non c’è niente di più importante per me!» Non potevo fare a meno di ricordare quello che aveva detto Min sugli amici e il perdono. Ma questo genere di cose si potevano davvero perdonare? Io potevo perdonarle? «È vero, lo sai?» Dissi. «Cosa?» Disse lui. Ottenne alcuni punti per essersi asciugato una lacrima. «Che sono gay.» Gunnar alzò gli occhi al cielo. «Questo lo so.» «Che cosa? Da quanto tempo lo sai?» 176
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«Oh, cinque anni credo.» «Cosa?» Non riuscivo a credere alle mie orecchie. «Be’, non sono un completo idiota!» Disse Gunnar. «Voglio dire, era abbastanza ovvio. Musical Disney?» «E ti dà fastidio?» «Cosa?» Disse. «Che sei gay?» Io annuii, e lui disse: «Se mi desse fastidio, pensi che starei qui fuori con un ramo di ginepro nel culo?» «Perché non mi hai mai detto che lo sapevi?» Chiesi io. «Ho pensato che me lo avresti detto quando fossi stato pronto. E comunque, il fatto che lo sapessi rende ancora più odioso che ti abbia chiesto di uscire con Trish. Perché sapevo quello che aveva intenzione di fare in quella casa al mare. E credo anche di aver sempre saputo che Kimberly usciva con me solo per farti uscire con Trish, proprio come hai provato a farmi capire. L’unica giustificazione che ho è il sesso, Russ. Ho perso la testa. Quello, e l’idea di avere una ragazza per la prima volta nella mia vita, mi hanno fatto impazzire.» In quel momento capii una cosa. Gunnar aveva fatto lo stesso genere di cose folli per stare insieme a Kimberly che io avevo fatto per stare con Kevin. E come io non mi ero curato dei sentimenti di Brian Bund, lui non si era curato dei miei. Fu divertente il modo in cui tutti i tasselli iniziavano a combaciare. «Allora cosa è successo?» Dissi. «Nella casa al mare – dopo che sono andato via?» Alzò di nuovo gli occhi al cielo. «Sarai felice di sapere che è stato un disastro. Kimberly ha vomitato per tutta la casa, e Trish ha dovuto pulire, anche se aveva un terribile mal di testa. E mia madre era furiosa perché non sono rientrato a casa 177
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quella notte - tra l’altro, sono in punizione in questo momento.»Feci un respiro profondo, lo trattenni, ed espirai. Poi dissi: «Beh, è meglio che entri e mi dici tutto.» Avevo anche io un sacco di cose da dirgli. In altre parole, avevo deciso di perdonare l’idiota, dopo tutto. Andai anche al gazebo puzzolente quella notte alle nove, giusto nel caso Kevin avesse deciso di venire - nel caso la sua fosse stata davvero una sceneggiata vicino a quel cassonetto dopo scuola, o nel caso avesse cambiato idea da allora. Ero abbastanza sicuro che non si sarebbe fatto vedere. E avevo ragione, non si fece vedere.
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CAPITOLO QUINDICI
Per prima cosa la mattina seguente, incontrai di nuovo Jarred. Mi preparai per altri insulti. Invece, disse: «Ehi, amico. Scusa per ieri.» «Cosa?» Dissi. «Per averti chiamato frocio e tutto il resto. Non ci credevo, ma ne parlavano tutti, così ho pensato che doveva essere vero.» Stavo ancora dormendo, giusto? Questo era un sogno. Entro un minuto, Jarred si sarebbe trasformato in un ghiacciolo al lampone gigante. «Che cosa ti ha fatto cambiare idea?» Dissi, senza riuscire a trattenermi. «Ho visto il modulo. Era Brian. Ha fondato lui il club dei froci e tutta quella merda. È di lui che parlava la Toles. Proprio come ho sempre pensato.» Considerai di chiedere a Jarred altre informazioni, ma poi decisi che era meglio chiudere la bocca per evitare di rivelargli qualcosa che non volevo. Lasciai Jarred e trovai Belinda nel corridoio. «Cosa sta succedendo?» Le chiesi. 179
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«Oh!» Disse lei, eccitata. «Ti stavo cercando! Ieri sera Brian è venuto nell’ufficio scolastico a presentare una domanda per un club. L’Alleanza Gay-Etero del Liceo Goodkind! È l’unico iscritto. Ho cercato di convincerlo a non farlo - non ha neanche un insegnante di riferimento! A cosa serviva presentare una domanda che sarebbe stata respinta in ogni caso? Ma ha voluto presentarla comunque, e mi ha fatto promettere che avrei sparso la voce. C’erano un paio di altri studenti nell’ufficio che lo hanno sentito e ora lo sanno tutti.» «Così ora tutti pensano che sia Brian il Ragazzo Gay e non io?» Dissi, e Belinda annuì.
Finalmente trovai Brian seduto a un tavolo nascosto in fondo alla biblioteca. «Perché?» Dissi. Non sollevò lo sguardo, continuò semplicemente a fissare il suo libro. «C’è già un Brian Bund,» disse semplicemente. «Non ne s-s-serviva un altro.» Quindi aveva presentato quel modulo per ripulire il mio nome, proprio come pensavo. Probabilmente aveva anche alterato la data per farlo sembrare più credibile. Si era sacrificato al mio posto (proprio come voi-sapete-chi sulla croce, come crede qualcuno). Come diavolo sì poteva ripagare un gesto simile? «Grazie,» dissi, e ragazzi, lo pensavo davvero. «La gente di questa scuola non sa cosa si perde a non conoscerti.» Lui annuì e voltò pagina sul suo libro.
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Non riuscivo a crederci. Forse la mia storia avrebbe avuto un lieto fine dopotutto!
Quel pomeriggio a pranzo, Kevin si avvicinò a me proprio mentre lasciavo il banco del buffet. Avevo ancora il vassoio in mano. «Ciao,» disse, senza guardarmi negli occhi. «Ciao,» dissi. «Russel, mi dispiace. Mi dispiace davvero.» «È tutto a posto.» Alzò lo sguardo su di me, cercando di capire sé stessi dicendo la verità. «Davvero?» «Si,» dissi. Sapevo di non poter giudicare Kevin – non dopo il modo in cui mi ero comportato nelle ultime settimane. Ma mi faceva ancora star male sapere che se fossi stato ancora il Ragazzo Gay – se Brian Bund non avesse accettato di prendere il mio posto, Kevin e io non avremmo avuto quella conversazione. Mi guardai attorno in cerca di un tavolo. Min e Gunnar non si erano ancora fatti vedere. «Siediti con noi,» disse Kevin. «Con la squadra?» Dissi. «Si. È tutto a posto adesso.» «Ma ieri ho mangiato con Brian. Il Ragazzo Gay. La gente non pensa che sia strano?» 181
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«Ho detto a tutti che era solo perché lui è stato l’unico a lasciarti sedere. A causa di quello che tutti pensavano di te.» «Oh,» dissi. Quindi Kevin era stato in mensa ieri. Mi aveva semplicemente evitato, immaginai. «Forza,» disse. «Andiamo a sederci.» Iniziai a seguirlo verso il tavolo della squadra, ma a metà strada, mi ritrovai ad osservare la mensa e notai Brian, di nuovo solo. All’improvviso, sapevo esattamente cosa fare per ripagare Brian di quello che aveva fatto per me. Certo, avrei voluto seguire Kevin al tavolo della squadra. Ma mi veniva offerta la possibilità di redimermi. Avevo tradito Brian tre volte, ma potevo ancora fare la cosa giusta. Incredibilmente, mi veniva offerta una quarta possibilità. «Kevin,» dissi. Lui si fermò e si girò a guardarmi. «Vai avanti, andrò a sedermi da un’altra parte.» «Eh?» Era confuso. «È solo che ieri ho fatto amicizia con Brian Bund.» «Si? Grande.» «È davvero un bravo ragazzo.» Kevin non sembrava avere ancora capito dove volevo arrivare. «E allora?» «Allora ho intenzione di restare amico di Brian.»
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Kevin seguì il mio sguardo fino al tavolo di Brian. Potevo immaginare gli ingranaggi del suo cervello mettersi in ordine mentre realizzava quello che avevo intenzione di fare. Sì avvicino rapidamente a me. «Russel!» Sussurrò. «Pensi davvero che sia una buona idea?» «Si. Penso che sia un’idea fantastica.» Kevin continuò a sussurrare. «Ma Russel…!» Non finì la frase, ma sapevo bene quello che voleva dirmi. Se fossi andato fino in fondo - se mi fossi davvero seduto di nuovo al tavolo di Brian – non sarei più potuto tornare indietro. Questa volta, avrei perso molte cose per sempre. Il mio visto per la Terra della Popolarità, per prima cosa, e probabilmente anche il mio biglietto di ritorno per i Confini della Rispettabilità. Ma quello che Kevin non riusciva a capire, era che sedendomi insieme a Brian avrei guadagnato qualcos’altro, qualcosa a cui non potevo dare un nome, ma che era più importante di tutte quelle altre cose. Mi limitai ad annuire verso Kevin e dissi: «Vai pure. Starò bene.» Kevin non si mosse. Mi guardò voltarmi verso il tavolo di Brian e poi avviarmi attraverso la mensa. Ero consapevole che anche tutti gli altri dentro alla caffetteria mi stavano guardando. Più mi avvicinavo al tavolo di Brian e più i rumori nella sala si affievolivano. Quando lo raggiunsi, ormai non parlava più nessuno. Sapevo cosa pensavano, e non era quello che avevano pensato i giorni successivi al mio fuoricampo. Ma loro cosa ne sapevano, giusto? «Ciao,» dissi Brian. «Ti dispiace se mi siedo di nuovo qui?» 183
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Brian guardò verso di me, e questa volta sembrò sorpreso. Ma questo non mi impedì di sedermi.
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EPILOGO
Probabilmente vorrete sapere se rividi Kevin. Questo è quello che vorrei sapere io – voglio dire, se l’avessi mai rivisto oltre che nei corridoi a scuola. Ma ecco un dato di fatto, lo rividi, quella stessa notte dopo il mio Grande Momento in mensa. Mi mandò una mail chiedendomi di incontrarlo al gazebo puzzolente nel parco. Essendo questo un epilogo, dove si suppone che tutto dovrebbe avere una conclusione lieta e felice, vorrei poter dire che non mi importava di quello che aveva da dirmi. Ma la verità era, che morivo dalla voglia di saperlo e, anche in quel momento, continuavo disperatamente a sperare che volesse tornare di nuovo insieme a me, non mi importava a quali condizioni. Lui mi stava già aspettando quando arrivai, una figura scura che camminava avanti e indietro con le mani in tasca. Quando mi vide, attraversò velocemente l’erba nello spazio che ci separava, fino al punto dove mi trovavo. Restammo fermi goffamente per un minuto, a guardarci. Aveva bevuto, potevo sentire l’odore di birra dal suo alito caldo e dai suoi vestiti. «Perché?» Disse. Questa era sicuramente la domanda del giorno. Ma avevo una buona risposta. Gli spiegai tutto riguardo al modulo e a come Brian avesse fatto in modo di metterci il suo 185
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nome per far credere alla gente che fosse lui il ragazzo di cui si parlava tanto, e non io. Ci guardammo semplicemente l’un l’altro. Sapevo cosa avrei voluto sentirgli dire. La questione era, l’avrebbe detto? «Sei un bravo ragazzo,» disse alla fine. Ma, pensai. Lui abbassò lo sguardo. «Russel, non sono così forte! La pressione – è semplicemente troppa! Mi piace essere popolare!» «Piaceva anche a me,» sospirai. «Mi piaceva da morire.» Improvvisamente, a Kevin venne un’idea. «Ma noi possiamo ancora vederci qui, giusto? Può tornare tutto a posto! Prometto di non infastidirti a scuola, e farò in modo che neanche gli altri della squadra lo facciano, così potremmo ancora venire qui e parlare e stare insieme, giusto?» Tutto rimase come congelato. Questo era esattamente quello che avevo voluto sentirgli dire. Ma allora perché non ne ero contento? Una parte di me voleva che tutto tornasse a posto. Quella parte di me pensò: Si, ci potremmo incontrare qui ogni notte per parlare (e molto di più), proprio come Min e Terese nel loro magazzino buio, e avremmo potuto andare avanti come se non fosse successo nulla. Ma allo stesso tempo, un'altra parte di me sapeva che in qualche modo non era giusto. Non potevamo andare avanti come se non fosse successo nulla, perché qualcosa era successa. Erano successe un sacco di cose a dire il vero, e questo aveva cambiato il modo in cui lo vedevo. «Kevin…» dissi.
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Lui annuì, gli occhi tristi. «Sì. So che non può funzionare. Russel, mi dispiace di averti deluso.» «Va bene.» Dissi, ed era davvero così. Alla fine avevo perdonato un altro amico. Ma a volte solo perché si perdona qualcuno non significa che si possa ancora amarlo. I Paesaggi dell’Amore erano un posto davvero strano. (Per inciso, spero che nessuno abbia pensato che mi sarei davvero rimesso con lui. Questo è l’epilogo, dopotutto.) Lui fece un passo avanti e mi abbracciò, e io avvertii il suo corpo, duro e caldo contro il mio. Nonostante tutto, era ancora una sensazione meravigliosa, era come abbracciare una montagna. Ma adesso sapevo che per quanto potesse sembrare forte, lui non era affatto una montagna. Non si ritrasse. E allora decisi che dovevo essere io a farlo. Dopo tutto ero io che lo stavo lasciando. (Stavo davvero mettendo fine a una relazione con Kevin Land?) Dovevo essere io quello forte tra noi. Quando lo allontanai, iniziò a tremare e singhiozzare. Ma non cedetti, e sentii qualcosa spezzarsi dentro di me, come se una metà della mia anima fosse stata strappata via. Ma allo stesso tempo, mi sentii meglio, come quando ci si taglia le unghie troppo corte, ma si sa già che ricresceranno più forti e pulite di prima. «Addio, Russel,» disse, era strano vedere lui con il viso rigato di lacrime per una volta. «Addio, Kevin,» dissi. Poi mi voltai e mi allontanai a piedi. Vorrei poter dire che non mi voltai indietro, ma lo feci. E credo che lo farò per sempre. 187
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Per quanto riguarda me e tutti gli altri, tre settimane dopo, ero di nuovo nella classe del professor Kephart. Ma non per una riunione del Geography Club. «L’Associazione Gay-Etero del Liceo Goodkind,» proposi, alla ricerca di un nuovo nome per il gruppo raccolto intorno a me. «Accidenti, suona proprio male.» «Associazione Gay-Etero e Bisessuali,» mi corresse Min. «Siamo tutti sicuri di voler fare davvero una cosa del genere?» Dissi. «Yeah,» disse Belinda. «Affermativo,» disse Ike. «Ci sto,» disse Gunnar. «Anche io,» disse Brian. E Min annuì semplicemente e mi sorrise rassicurante. «È un’associazione gay-etero,» disse lei. «Se qualcuno ce lo chiede, diremo soltanto che molti dei membri del gruppo sono etero, il che è vero. Non c’è bisogno di dire quali.» «Associazione Gay-Etero-Bisex,» le ricordai. Min ridacchiò, «Touché.» Da quando avevo iniziato tre settimane prima a pranzare insieme a Brian, mi ero preso la mia parte di insulti, ed ero sicuramente ai ferri corti con la squadra di baseball (e con Kevin). Ma incredibilmente, la gente non mi considerava più gay. Era ancora Brian il Ragazzo Gay (anche se non era vero), mentre io
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ero solo uno che era gentile con lui. Credo che le persone avessero difficolta a capire che, in una scuola con più di ottocento studenti, ci potesse essere più di un ragazzo gay. Non potevo biasimarli, solo qualche mese prima io stesso non credevo che ce ne potesse essere più di uno (io!). Inoltre, in quel momento, per la prima volta nella mia vita, l’ignoranza omofobica delle persone giocava a mio vantaggio. Ma tutto questo stava per cambiare. Nessuna delle sei persone presenti all’interno della classe del professor Kephart – Min, Gunnar, Belinda, Ike, Brian e io – avrebbe potuto immaginare cosa sarebbe successo quando avremmo rivelato l’esistenza dell’Associazione Gay-Etero-Bisessuali del Liceo Goodkind a tutta la scuola. Saremmo stati emarginati? Oppure avremmo mantenuto un po’ di rispettabilità? (Siamo onesti, la popolarità non era più contemplata.) Ma non mi importava più. A nessuno di noi importava. Perché ovunque saremmo finiti, saremmo stati insieme. Infatti ora sapevo che anche il posto più brutto del mondo poteva essere meraviglioso se ci stavi con dei buoni amici, proprio come la destinazione più favolosa poteva essere una noia se eri da solo. E quando si parlava di amici, non ce ne potevano essere migliori di Min, Belinda, Brian, e si, perfino Ike e Gunnar. Ora che stavamo per uscire allo scoperto, forse si sarebbe unito a noi anche il “vero” Ragazzo Gay – quello di cui aveva parlato la professoressa Toles in quell’articolo di giornale che aveva dato inizio a tutto. E forse anche altri ragazzi della scuola l’avrebbero fatto. «Allora, c-c-cosa facciamo adesso?» Disse Brian. 189
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Gli spiegai che nel Geography Club ci mettevamo in cerchio e davamo a tutti cinque minuti per dire quello che volevano senza essere interrotti. «Chi comincia?» Disse Belinda. «Russel?» «No, qualcun altro,» dissi. Per la prima volta nella mia vita, almeno per il momento, avevo già detto tutto quello che c’era da dire.
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Riguardo l’autore
Brent Hartinger aiuta a creare Oasis, un gruppo di supporto per giovani gay e lesbiche nella sua città Tacoma, nello stato di Washington. È uno scrittore di talento, vive vicino Seattle con il suo compagno, lo scrittore Michael Jensen.
Visita il sito di Brent Hartinger all’indirizzo:
www.brenthartinger.com
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La traduzione di quest’opera è amatoriale e non a scopo di lucro.
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