Periodico edito dall’Associazione PAN - Centro di produzione culturale Via Flavio Gioia, 1 - Brindisi di Montagna (Pz) Tel. 342 32 51 054 e-mail: sineresi.sineresi@gmail.com www.sineresiarte.it
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Willy Verginer
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Al di là della paura La luce e la spiritualità del contemporaneo Osservati dal 1921? Uno sguardo pieno di insignificanze In fondo siamo tutti Icaro La cognizione del proprio io nell’opera di Lee Bul “Semplicemente: strisciare”. La rinuncia alla verticalità di William Pope. L “L’arte è poesia”. Retrospettiva in fieri di Fausto Delle Chiaie Sarai opera Negli occhi della tigre c’è lo sguardo dell’universo La spiritualità futurista tra tempo e spazio O adesso o mai più. Storia di racconto simultaneo lungo il fiume Non per amore La relazione etica uomo-natura L’ora del biocentrismo Jorge Louise Borges. La Parola che compendia il mondo Medina Roma Art Gallery Miglionico: il Polittico di Giovanni Battista Cima da Conegliano La memoria di Palazzo San Gervasio ritrovata lungo la Via Appia
Esiste uno Spirito che dà respiro a tutto l’Universo; è lui il comune denominatore che rende possibile l’uguaglianza nell’infinita diversità che ci circonda, è lui che rende a tutti la dignità dell’esistenza e il diritto a ricevere amore senza graduatorie né podi e senza esclusioni. È un dio ma non è il dio, non è la concretezza, ma è la Verità, è una significativa insignificanza che pervade il mondo e che si può ascoltare dentro e non fuori di noi. La Natura, gli animali, gli uomini sono al pari emanazioni di quello Spirito, perciò siamo soltanto DISSIMILI UGUAGLIANZE. Anna R. G. Rivelli
Direttore Anna R. G. Rivelli Collaboratori Roberto M.G. Cafarelli - Daniele M.G. Cafarelli - Linda Cioni Donato Faruolo - Jonathan Graham - Luna Gubinelli - Cristiana Elena Iannelli - Roberto Lacarbonara - Roberta Luongo Giuseppe Passavanti - Fabrizio Perrone - Giancarlo Riconosciuto - Mara Sabia - Vito Santarsiero - Giuseppe Satriani - Antonello Tolve - Melanie Zefferino Direttore responsabile Marco Lovisco Responsabile editoriale Giovanni Cafarelli Progretto Grafico Salvatore Comminiello Segreteria Roberto M. G. Cafarelli
Responsabile sito web Daniele M. G. Cafarelli Impaginazione e stampa Editing srl - Potenza di Gianluca Arcieri Prezzo di una copia + inserto € 13,00 Abbonamento solo sostenitori € 80,00 Estero € 100,00 Per richiesta abbonamenti info: sineresi.sineresi@gmail.com Registrazione Tribunale di Potenza n.457 del 13 agosto 2015
Al di là della paura Giuseppe Passavanti
Prossimità e lontananza. Le cose lontane sono più lontane, le vicine inaccessibili. Separazione, confinamento. L’oggetto isolato non è perturbato dall’azione di variabili inattese – potremmo pensare. Tuttavia esistono forme di isolamento nelle quali soffia implacabile il gelido vento dell’incertezza costante, dell’emergenza permanente. All’erta. All’armi. Dov’è il nemico? Insonni e sfibrati nel frattempo ci consumiamo, e non vorrei unirmi alla cantilena universale di morte che tutto consuma. Gira la ruota del tempo. Milioni di storie giacciono mute, sprofondate nelle ceneri di passati inattingibili. L’alto e il basso, il nobile e il gretto, l’urlo e il sussurro, le luci e le ombre mille volte si sono scambiati di posto. Le onde del tempo. Nel tempo, gli abissi. E poi il fondo del mare, calmo. Il fondo del mare e l’altezza del cielo stellato che nell’estremo si toccano e fanno circonferenza infinita. Fragile e mortale è ogni uomo. Eppure nel suo cuore, nelle sue membra, nei suoi occhi, nella sua voce, nella sua mente può brillare l’infinità silenziosa che solo il silenzio conosce. Ogni cosa si rispecchia nelle altre, ogni cosa è connessa alle altre. A volte ci è concesso di saperlo. L’isolamento è una infelice astrazione. L’infinito rispecchiamento di ciascuno in tutti gli altri, il colloquio giocoso che intratteniamo – danza, musica, gioco cosmico – non si consuma, è segno incancellabile. Illusorie le separazioni, illusori i confini. Intorno e dentro di noi, nel più intimo recesso della nostra anima e, allo stesso tempo, nel luogo dove terminano tutti i luoghi risuona un accordo eterno, una pulsazione cosmica fondamentale. Le nostre piccole e curatissime tane. Piene di finestre sul mondo? Connessioni superficiali
fra atomi sociali aiutano a dimenticare le connessioni senza strumenti, i contatti senza rubriche di cui da sempre siamo capaci. Difficoltoso risulta – soprattutto – fare silenzio. Quanta più sicurezza cerchiamo, tanto meno ne troviamo. L’equilibrio, come la separazione, è possibile come errore di prospettiva. La certezza dell’assenza di fondamento, il nulla che ci portiamo dentro, non è il vuoto di ciò che è destinato a precipitare all’infinito. Il silenzio che precede e segue ogni gesto, ogni pensiero, ogni parola, non è vuoto. Dietro le parole vuote, fra le parole quel vuoto. Dobbiamo imparare ad ascoltare. Forse anche domandare, gli uni agli altri. Cercare un senso diverso a questo essere insieme sotto lo stesso cielo, un senso meno disumano. Respingere le offese, le minacce, la grande parata di strumenti terrorizzanti che ci rincorre giorno e notte, per rivolgere lo sguardo altrove. Ciò che pare stabile nella sua minacciosità è in realtà l’effimero, l’incubo che facciamo da svegli, mentre ciò che pare effimero, ciò su cui gli uomini cinicamente spesso sputano, ciò di cui la società impaziente trova materia di scherno infinito, ha invece il profumo dell’eternità. L’inutile, l’inefficiente, lo sconveniente, l’errore, l’imprevedibile, il cangiante, ciò che è al di là del bene e del male, al di là del sì e del no: in questo spazio si muove una verità diversa, che nessuno può legare perché radicalmente futura, possibile, libera. Agli antipodi troviamo l’utile, l’efficiente, ciò che conviene, il corretto, il prevedibile, ciò che resta identico nel tempo, beni e mali nella loro reciproca esclusione, il sì e il no detti con convinzione granitica, accompagnati da un inutile ‘assolutamente’. Ma il pensiero - libero - vive delle sfumature che la paura distrugge. Incontriamoci domani, al di là della paura.
Aysegul Altunok
Massimo Bignardi
La luce e la spiritualità del contemporaneo
Dan Flavin in Santa Maria Annunciata in Chiesa Rossa
Lo spirituale torna nel lessico dei nostri giorni, in questo tempo sospeso nel quale ci ha ingabbiato la malattia pandemica, che ha mietuto e miete vittime in ogni istante della quotidianità. L’arte di una società liquida rispecchia l’accelerato “ritmo del cambiamento che – sosteneva Bauman – tende forse a essere troppo rapido, e vertiginosa è la velocità con cui nuovi fenomeni esplodono e scompaiono nella consapevolezza pubblica”. Aggiunge inoltre che le esperienze, nel nostro caso quelle delle arti, non riescono a cristallizzarsi, cioè non fanno proprie le vitalità messe in campo, “sindromi di valore e visioni del mondo adatti a essere registrati come tracce durevoli dello «spirito del tempo» e ridefiniti come caratteristiche uniche e durevoli di una generazione”. La riflessione sulla dimensione spirituale dell’arte d’oggi, meglio ancora degli ultimi tre decenni, è stato il primo dei punti elencati nello schema di una ricerca che ho avviato da anni, sugli “interni”, ossia sul significato e il senso di interventi creativi in luoghi privati, cioè spazi con dimensioni newtoniane nel cui volume l’artista trova e afferma lo spirito che lo riporta all’ignoto pittore che, oltre quarantaquattro milinioni di anni fa, dipinse sulle volte delle grotte nell’isola di Sulawesi, in Indonesia. Lo spirito prende le sembianze di ‘luogo’, perché, sosteneva Kandinskij, nel noto Dello spirituale nell’arte, “la forma in senso stretto non è in ogni caso nulla di più della delimitazione di una superficie dall’altra. È questa la sua definizione sul piano dell’esteriorità”. Concludendo: “Poiché però tutto ciò che è esteriore racchiude in sé, inevitabilmente, anche un’interiorità (che viene in luce con maggiore o minor forza), così anche ogni forma ha un contenuto interiore”.
“È quello che è, e non è nient’altro”, Dan Flavin
Tale traccia ha orientato l’attenzione verso interventi di operatività ambientale che hanno interessato il concetto di ‘interno’, ai quali continuo a guardare e che, in questa occasione, coincide con un aspetto in parte anomalo rispetto ad altri. L’anomalia non si manifesta nel luogo, tantomeno nei materiali usati, quanto nell’idea di stabilire un rapporto tra una materia incorporea, qual è la luce artificiale e lo spazio, non nella dimensione fisica, bensì nel suo valore di ‘luogo’ della fede. Si tratta dell’intervento progettato da Dan Flavin per l’interno della chiesa di Santa Maria Annunciata in Chiesa Rossa a Milano, realizzato dopo la sua morte, avvenuta nel novembre del 1996. Una scelta che è di profonda spiritualità, se la si pone in rapporto alla drammatica pagina biografica dell’artista che, per associazione, richiama la Salle des départs, che proprio a metà del decennio novanta, Ettore Spalletti realizza per l’ospedale Raymond Poincaré a Garches. Gli incontri, la proposta, le preoccupazioni dell’artista statunitense, la tempistica, il progetto dell’intervento e la sua realizzazione, avvenuta dopo la morte, nel 1997 (l’opera fu finanziata da Miuccia Prada), sono state ricostruite sia nelle pagine dei ricordi autobiografici del collezionista Giuseppe Panza, apparse nel 2006, sia nell’intervista a Don Giulio Greco, al tempo parroco di Chiesa Rossa, che Francesca Bonazzoli pubblica sul “Corriere della Sera”, nel febbraio del 2012. Prima di parlare dell’intervento in sé una nota va rivolta alla chiesa di Santa Maria Annunciata in Chiesa Rossa, in quegli anni, punto di riferimento della comunità del quartiere Stadera; un reticolo urbano sviluppatosi, dalla fine degli anni venti, intorno ad un nucleo di case popolari voluto dal fascismo. La chiesa appartiene a quegli anni, riformulata nel 1932 dall’architetto Giovanni Muzio sul progetto di Franco Della Porta, del 1926. Il suo interno accoglie l’intervento progettato
da Dan Flavin, nel 1996, vale a dire nell’ultimo anno di vita, momento nel quale l’artista convive con un male incurabile che lo porterà alla morte. L’idea centrale di tale intervento, dal titolo Untitled, ricorrente nell’ambito della Minimal art, è stata quella di considerare il ruolo che la luce svolge all’interno di un corpo architettonico, affidando la risoluzione, ad un articolato incontro di piani geometrici, posti in contrasto o complementari tra loro; piani che si fanno superfici colorate da lampade fluorescenti, in sostanza tubi al neon verdi e blu, i quali modellano le pareti della navata, per poi incrociarsi con il volume trasversale del transetto, illuminato da luce rossa fino a spingersi all’abside che acquista sfumature auree, grazie alle lampade a luce di Wood, la cui luminosità esalta i bianchi, conferendo maggiore intensità all’aura dorata. La sensazione, appena raggiunto il punto d’innesto con l’area del transetto, è quella di avvertire la vitalità di questo luogo, il suo profondo respiro che preannuncia l’incontro con la luce absidale. Nonostante il suo ben noto il suo distacco dalla fede – sviluppatosi negli anni trascorsi in seminario –, così come l’idea che l’opera potesse o dovesse significare altro da sé, ribadito nel concetto “è quello che è e non è nient’altro”, all’interno di Chiesa Rossa non sfugge una dose di intensa spiritualità. Lo dicono le luci che la pervadono e che ho avuto modo di percepire come stato emozionale. Don Giulio, rispondendo alle domande di Bonazzoli, ce ne offre una possibile lettura: “Spiegai a Flavin la difficile situazione del quartiere Stadera, le sconfitte, le lotte per migliorare la vita di chi ci abita e gli spiegai di essere in sintonia con il suo desiderio di illuminare le cose di questo mondo. Flavin restò profondamente commosso e due giorni dopo si mise al lavoro progettando un’opera monumentale e magnifica dicendo: «Questo sarà il mio grande testamento»”.
Matilde Puleo
Osservati dal 1921? Uno sguardo pieno di insignificanze.
Hannah Hoch
Siamo nel 1921 e Hannah Hoch ha già pubblicato il suo capolavoro. Il fotomontaggio concepito come la dichiarazione di guerra alla cultura borghese che glorifica la lotta, il patriottismo e il mito del soldato coraggioso. Lo intitola provocatoriamente “Taglio con coltello da cucina attraverso il ventre gonfio di birra della Repubblica di Weimar” e deride sguaiatamente l’approccio apolitico dei cubisti. La grande guerra è finita da poco e chi è tornato dal fronte sente il bisogno di demonizzare quell’esperienza. Gli artisti che smantellano le rappresentazioni mitiche della produzione di massa, producono collage corrosivi tra il 1919 e il ’21, anche per opporsi all’impegno espressionista di fondere estetica e spiritualità. Urlano insieme a Dada che non c’è alcuna leggibilità universale nelle immagini! A monte, il bisogno del primo dopoguerra era quello di accusare il dato di realtà appena vissuto, affermando che non esiste una sola facoltà sensoriale umana in grado di cogliere ciò che conta veramente. La razionalità non basta ma il pensiero metafisico di fine Ottocento - una volta installato nelle sedi del potere – insinua e giustifica la distruzione di ciò che “non è conforme”, convalidando l’idea imperialista secondo la quale gli esseri inferiori che vivono esistenze inferiori non meritano ordini superiori di protezione. Non è un caso che il più influente praticante del pensiero metafisico del XX secolo sarà anche un nazista impenitente come Martin Heidegger.La questione però era complessa. Non si trattava solo di cercare qualcosa del pensiero metafisico che valesse la pena redimere. Quel fotomontaggio cercava rifugio da un tarlo ancora più corrosivo che chiedeva se il mondo empirico fosse davvero tutto lì. È sempre così nelle “ere di crisi”: in molti si scoprono impreparati. La formazione precedente è inservibile per decifrare il contesto e l’equipaggiamento mentale diventa a un tratto inadeguato. Sono i momenti nei quali ci si chiede se la realtà è solo quella che c’è. Se gli intellettuali hanno responsabilità. Se l’arte può qualcosa. La questione del reale, oltre ad essere una delle riflessioni più suggestive mai poste da Theodor Adorno, era anche l’inizio della sua ricerca di qualcosa di insignificante, che potesse imprimere ethos e dare senso alla vita. Nel testo Minima Moralia si poneva il problema di una filosofia che si giustificasse “al cospetto della disperazione” del dopo Auschwitz (1951) parlando di
Hannah Hoch
redenzione e svelando ciò che resta in sospeso dopo il fallimento della cultura. Comprendendo che la regola cartesiana di rivolgersi solo all’indubitabile, dà un’idea altrettanto falsa della teoria opposta, dell’intuizione delle essenze, Adorno parla di stabilire prospettive in cui il mondo riveli le sue fratture e le sue crepe, mostrandosi così alla luce messianica. Dunque, poiché solo un’esistenza storta si può permettere di essere non regolamentata, ragione e misticismo sembrano forzatamente unite dal filosofo in ragione della comune opposizione al pensiero dogmatico. Il misticismo ridiventava affidabile nel suo rifiuto di accettare questa realtà come l’unica degna di essere reale. Si faceva spazio l’idea che la nostra esistenza fiorisce e acquista significato da ciò che non può essere visto o misurato esternamente. Come il peso invisibile del passato, il legame non rilevabile delle relazioni o l’espressione che intuisce e cattura l’indicibile. Se si lascia che questa consapevolezza trovi spazio in noi, il mondo inizia ad approfondirsi e ad allargarsi davanti ai nostri occhi. La qual cosa speriamo, ci rende più perspicaci e sensibili a tutto ciò che partecipa al suo divenire, immunizzandoci dal peso e dal controllo di ciò che è già qui. L’espansione dell’espressione essere qui sembra quindi l’unica strada che alcuni artisti (si pensi a Magritte) riescono ad accettare dell’esperienza metafisica. Ciò che si sente, una volta che si lascia andare la necessità di una certezza concettuale vincolante sul mondo. Sbarazzarsi della metafisica voleva dire essere lasciati a sé stessi certo, ma sentirsi anche adeguatamente accompagnati dallo scarto. Anzi, da ogni genere di scarto, dagli object trouvè, al collage, dall’assemblaggio fino ai merzbild. Scarti che Derrida chiamerà differenza. Residui che lasciano moltissime tracce lungo il loro cammino. Discontinuità che offrono una pluralità di letture e interpretazioni del nostro mondo. Ecco perché, alle domande indagatorie del tipo: questo o quello? dentro o fuori? prima o dopo?, questa specie di teoria dell’insignificanza risponde: “né l’uno né l’altro”. Solo lo spazio che è tra l’uno e l’altro. L’interlinea.
objet trouvé
L’indecidibile insomma.Penso che l’utilizzo di materiale di scarto e la violenza del gesto dadaista andassero proprio in questa direzione.
Marco Barina
Lo scopo della miscela anti-estetica creava un’accozzaglia di prospettive utile a dare un’immagine visivamente e concettualmente fedele al caos della guerra. Significava cambiare vita e accogliere ciò che non entra nella legge; ciò che “trascende la società dominante”, nella quale Adorno vedeva “la sola cellula di guarigione”. L’insignificanza si propone allora come atto etico e impone di sentire di più, amare di più, sperare di più. Prostrarsi e genuflettersi di fronte a tutte le dimensioni più fragili della vita per non incorrere nel pericolo del Tutto. Anche Andrè Breton cerca questa stratificazione di significati e trova intollerabile la mediocre sottomissione alla storia. Era necessario invece prestare ascolto al mito di una società unitaria, dove la traiettoria individuale, anche del più umile (dunque scartato) degli uomini era indissolubilmente legata a quella cosmica. Secondo questa prospettiva, ogni evento era un segno. Ogni parola o gesto scatenava magicamente misteriose correnti di elettricità mentale. E ciò accadeva fuori dalla storia e dal tempo. Basterà pensare alle ridicole e volgari interpretazioni del “Demolire tutto!” dadaista fatte dalla guerra per accorgersene. E anche se Breton nel quinto numero di Littérature (1922) dà ragione a Dada, la coscienza del riformismo surrealista diventerà sempre più sporca: non solo la rivoluzione globale non si farà, ma l’arte non cambierà un bel niente e perfino sognare era al momento, piuttosto difficile. Si fanno sogni contraddittori pieni di misticismo, decadenza e non-vita. L’idea del suicidio come progetto negativo, finalizzato al paradosso di sopravvivere alla propria morte era uno di questi. Lo stesso nichilismo sul quale Dada riponeva le sue speranze per stimolare in noi la ricostruzione del sé e per un ritorno alla totalità spirituale ma che nessuno seppe sviluppare. Si vede che gli anni Venti sono sempre anni complessi. Artaud ad esempio, nel 1924, si era già accorto che la speranza di una società senza classi da realizzare nel prossimo regno della libertà, soffocava sotto il tanfo sprigionato dalla maschera dello stalinismo. Breton allora cominciò a chiedere al suo gruppo di vivere l’alienazione di tutti i giorni come una tragedia cosmica, una tragedia della mente che non poteva avere però alcun contatto con la realtà. Insomma, ora che la rivoluzione era saltata, restava solo l’inestimabile insignificanza. Si sperava nell’inconciliabilità come segreto e nell’insignificante come luogo nel quale le intuizioni vengono realmente acquisite. Ci si augurava che quello fosse il luogo nel quale i pensieri reali si verificano quando tutte le soluzioni offerte sono sbagliate.
DAVID LACHAPELLE
Luna Gubinelli
In fondo siamo tutti Icaro
“L’illuminazione arriverà, e se non viene dall’arte non so da dove possa venire”. David LaChapelle
Elton John con due uova sugli occhi, il sorriso paradox di Hilary Clinton, Di Caprio “juicy” come la frutta su cui è steso, Micheal Jackson morente in una novella pietà Michelangiolesca, fino ad arrivare alla nostrana Valeria Marini immortalata come mamma sexy in una cucina pop (con tanto di padella con bistecca incollata). Conosciamo David LaChapelle come fotografo di personalità all’apice del successo, consacratore della luccicante e opulenta bellezza hollywoodiana, mistificatore degli ideali capitalistici che pur lo hanno reso miliardario. Come discendente della scuola warholiana nessuna particolare novità, verrebbe da dire. LaChapelle ci racconta la decadenza di un mondo preda del consumo sfrenato da parte delle masse, dei colori sgargianti e dei glitter, mettendo in evidenza l’ironia e la conflittualità identitaria conseguenti all’ascesa delle celebrità. Argan, parlando di Warhol, usava un termine che risulta ben calzare anche in questo caso: obsolescenza. Come perfetto tecnico dell’informazione, come creatore di immagini, LaChapelle vira verso quel processo di assorbimento e dissolvimento della notizia nella psicologia di massa che porta inesorabilmente alla perdita di valore. LaChapelle oggi, come Warhol allora, agisce in modo assolutamente consapevole. Giunto all’apice della professione di fotografo di moda e delle celebrità dello star system, regista di video clip, creatore di un marchio che ha sbancato in tutto il mondo, LaChapelle nel 2005, stanco della propaganda legata al suo lavoro, decide di ritirarsi a Maui, nell’arcipelago hawaiano. Non certo un luogo alla portata di tutti, verrebbe da dire. Superando il pregiudizio secondo cui gli artisti devono essere per forza tormentati, introversi e poveri, l’artista originario del Connecticut, guarda al prodotto-opera cercando di sconvolgere le apparenze. Uno dei baluardi del cambiamento di rotta nella sua carriera risulta essere The Deluge, una versione del diluvio Universale in cui gli uomini e le donne invece di affrontare il disastro lo subiscono passivamente abbandonandosi al proprio ruolo.
Come molti fotografi, LaChapelle immagina lo scatto prima di effettuarlo, lo compone nella sua mente e poi, invece di aspettare l’attimo magico, allestisce un vero e proprio set teatrale con tanto di casting. La foto scattata è imperturbabile come uno still life, i colori esprimono la tragedia, mentre i corpi delle celebrità lontani dall’essere veicoli di pathos, si presentano plastici come manichini, come il manichino sotto l’insegna di Gucci in rovina. La volontà di esprimere un significato al di là della patinatura da rivista emerge qualche anno prima con la serie di scatti Jesus is my homeboy del 2003. In particolare, nella foto che rappresenta l’Ultima Cena, la scelta dei personaggi viene recepita come provocazione, una irriverenza verso la sacralità rappresentata dal momento in cui il Messia prende congedo dai suoi seguaci. La sensazione immediata è che Cristo sia capitato nella scena per caso, in un covo attrezzato per lo smercio della droga. LaChapelle ci pone di fronte a un pregiudizio che spesso si innesca nella mente di chi è abituato a percepire il mondo in categorie sociali. Ebbene, queste divisioni non esistono nella religione, o meglio, non dovrebbero esistere, perché i sentimenti di divinità e di sacralità appianano le diversità. Le disuguaglianze che caratterizzano gli esseri umani si azzerano di fronte a chi porta un messaggio di pace, anche se il messaggero è un traditore come Giuda. Il misticismo raccontato con un linguaggio che appartiene alla pubblicità, agli scatti da jet set, fa sorridere, infastidisce, scandalizza. Parafrasando una celebre frase di Marshall MacLuhan potremmo sostenere che i media si sono sostituiti al mondo di prima. Anche se volessimo recuperare questo mondo di prima, potremmo farlo soltanto con un studio intenso di come i media lo hanno inghiottito. In Rape of Africa, in quello che si può definire uno scatto/dipinto, LaChapelle non fa distinzioni e si occupa anche delle divinità pagane, di cui ingoia questa volta il mito, citando specificatamente Venere e Marte di Alessandro Filipepi, detto il Botticelli. Per il divertimento degli iconologi, la fotografia sovverte il messaggio originario del dipinto: da rappresentazione dell’armonia la composizione si trasforma in una nuova lettura della guerra. Concentrandoci sulla composizione, ossia sul modo in cui gli oggetti e i personaggi sono posizionati nel frame dell’immagine, e su come questa vada a costituire la comunicazione del
messaggio, il rovesciamento è palese, nonostante la struttura compositiva rimanga la stessa. Evidentemente a LaChapelle non interessa raccontare di faccende neoplatoniche di 500 anni fa. Venere e Marte sono posizionati nella stessa identica maniera del dipinto, quasi in modo maniacale; i fauni, trasformati in bambini della guerra, sono sempre tre, ma vincono su Marte e si impossessano degli strumenti e del bottino di guerra (quest’ultimo assente nella versione di Botticelli). Ciò che cambia radicalmente è il contesto: al posto della foresta che si apre sul cielo, c’è una baracca con un’apertura sullo sfondo che lascia intravedere un paesaggio desolato in cui il braccio di una ruspa interviene su quello che sembra essere la cavea di un teatro. La guerra, anche se spettacolarizzata, è pur sempre guerra, nessun tentativo di smacchiare con la candeggina l’onta all’umanità (le scatole di Classic SUN Bleach tappezzano la parete) può essere risolutivo se anche i bambini diventano mostri. La Venere-Nera trama vendetta nello sguardo, non c’è nessuna speranza, nessuna redenzione. LaChapelle sostiene che le sue opere non hanno bisogno delle didascalie di spiegazione. Potremmo attribuire questa affermazione al mestierante della comunicazione pubblicitaria che considera infallibile l’efficacia della propria produzione. Ma, ancora una volta, cerchiamo di guardare oltre, verso l’immagine. È indubbio che mentre la cultura pop coinvolge le masse per definizione, l’arte antica e l’iconografia, se non respingere, certo con fatica si fanno avvicinare dai meno preparati e poco volenterosi. Ciò non di meno, in quello che è il calderone mediatico della comunicazione visiva ogni tanto è necessaria qualche epifania che deve essere stimolata dagli studi più importanti, da quelli fondamentali senza i quali non avremmo modernità nelle nostre idee. Così, LaChapelle appare convinto che tramite le sue immagini si possa arrivare a un sentire comune che ci rende tutti parte della stessa entità, concetto pop per antonomasia, a prescindere dalla cultura personale che caratterizza ognuno di noi, a prescindere dalla religione e dalla nostra condizione sociale. Il sentimento scaturito osservando Icaro sfracellato sul cimitero di computer che dilaga come un mare contaminato se non è lo stesso per tutti, è molto simile, che si conosca il mito oppure che non lo si conosca.
Negli ultimi anni della sua produzione, il fotografo statunitense sembra virare verso una deriva metafisica. Si serve sempre dei miti, delle religioni, dei personaggi famosi, dei colori accesi e, a volte, di quell’effetto kitsch dato dal sovrappopolamento della scena di personaggi, oggetti e toni aspri che riempiono l’immagine. Cambiano però il contesto e il trattamento del corpo. In Praise Dance (2017) i corpi delle Grazie sembrano colte nel momento in cui si stanno trasformando in qualcosa che va oltre la sensibilità umana, cioè oltre il naturale. La pelle delle fanciulle si colora come se fosse in atto un mutamento innescato dall’energia irradiata dalle sfere che sostengono. La trasfigurazione simbolica tra corpo, natura e spirito è la risposta alla ricerca di una nuova Verità, che di questi elementi si compone, stavolta, però, i personaggi non sono costruiti e soprattutto non ci sono moniti. Il risultato è una visione naif, da alcuni definita new age, insieme di elementi che si ritrovano e si uniscono in una alchemica trasformazione. Che LaChapelle stia cercando una sorta di redenzione per sé stesso e addirittura per la sua arte? Basiamoci ancora una volta sulle immagini. Considerando l’uso del contesto nelle sue precedenti composizioni e osservando Staircase to Paradise (2019) risulta evidente che la natura sia posta sullo stesso piano della divinità e in questo contesto l’uomo diventa sostanza all’interno della complessità che porta all’ascensione ultraterrena. Vista la controversia del personaggio un dubbio rimane: si tratta di una nuova ispirazione monista in cui si ammette un solo genere di sostanza, oppure si stava preparando la strada per il nuovo calendario ecologista della Lavazza?
Cristiana Elena Iannelli
La cognizione del proprio io nell’opera di Lee Bul
«..Se non avessi fatto arte, sarebbe stato difficile resistere alla vita.».. Così Lee Bul, una delle maggiori artiste della sua generazione, definisce il suo percorso in un’intervista rilasciata a BrilliantIdeas. Nata e cresciuta in Corea del Sud in un periodo di repressione e dittatura militare, Lee Bul rappresenta una delle figure artistiche contemporanee più complesse e imprevedibili del nostro tempo, la cui identità ha forgiato la sua arte indiscutibilmente inconsueta. Bul esordisce verso la fine degli anni ’80, successivamente allo studio della scultura, nella creazione di forme “mostruose”, spesso accompagnate da performance di strada e concepite come consapevole rifiuto della scultura convenzionale, figlia di un regime militare e opprimente. Alcune sculture verranno indossate dall’artista durante le esibizioni in strada e in altri luoghi pubblici, come in Cravings (1989), attraverso la quale l’artista scompone il concetto di bellezza e genere, indossando un costume con protuberanze e viscere, per mettere così in discussione quell’ideale classico di corpo femminile da sempre modello di equilibrio, grazia e armonia. Etichettate come “Guerrilla performance”, le sue prestazioni, inizialmente guidate da un intento provocatorio, cominciarono a evolversi in qualcosa che avrebbe presto dissestato il pubblico, qualcosa di insolito: una prestazione il cui intento evocativo iniziava a perdere quello scopo originario di ribellione, favorendo al contempo nuovi stimoli e nuove idee.
Più tardi Bul scioccherà il pubblico con Abortion (1989), performance che vede l’artista, per metà nuda e sospesa con i piedi legati al soffitto, discutere apertamente sul tema dell’aborto. È la voce della libertà espressiva che conferisce potere alla sua opera e allo stesso tempo evidenzia l’oppressione e la violenza nella società di cui è figlia, mettendone in discussione l’autorità patriarcale e l’emarginazione della figura della donna. Ma la sua ricerca progredisce successivamente negli anni ’90, aprendosi a una considerazione del corpo come visualizzazione tangibile del desiderio umano di perfezione e dell’idea di unire macchina e organismo per trascendere i limiti del corpo umano, creando un ibrido tra scultura e design che è tipico di questa nuova fase. È il tempo delle serie di e Anagrams Cyborgs, in cui appaiono forme femminili erotizzate e fuse con macchine, in cui fragilità ed energia convivono e attraverso le quali sceglie di schierarsi contro quell’immorale imposizione sociale sulla donna coreana. È sempre indiscutibilmente l’essere umano a costituire il punto cruciale della sua opera, l’osservatore, colui il cui corpo interagisce con l’installazione o che addirittura ne diventa parte inte-
grante. Con la sua opera Lee Bul induce alla riflessione e alla consapevolezza di sé, rivelatrice della Verità più profonda, insita in noi stessi. È la cognizione di sé quel denominatore comune che ci rende uguali e allo stesso tempo distinti per la diversità che ci circonda e la differente percezione del mondo da parte di ognuno. In Bells from the Deep (2014) sono le strutture sperimentali, realizzate con materiali riflettenti e accuratamente selezionati, a creare spazi architettonici in scala e specchiati, dove lo spettatore compie un percorso obbligato che lo rende sempre più consapevole della propria presenza e dei suoi movimenti sempre più distinguibili, percepibili e inconsciamente sonori. Installazioni di forme e strutture architettoniche che lasciano spazio ad un’esplorazione multiforme, frammentata, il cui intento non è altro che quello di riflettere la visione del mondo di ogni essere umano. È questo il manifesto poetico dell’artista sudcoreana, che trae ispirazione nelle sue creazioni dall’architettura e dall’urbanistica moderna, riproposte sotto forma di paesaggi metropolitani drammatici e visionari, esplorando prima fra tutti l’interazione fra l’essere umano e l’ambiente circostante, in
modo da stimolarne la curiosità e scatenarne dissimili percezioni. Lee Bul si prefigge di capovolgere o, più appropriatamente, di ricreare un vero e proprio percorso di visione fatto di sperimentazione, ma anche di utopia (tema caro all’artista), quel desiderio umano di perfezione, proiettato in una dimensione spazio-temporale indefinita e perfettamente contestualizzata nell’installazione di Bul. Il limite esplorato è quello tra sogno e realtà, due dimensioni opposte che corrono lungo lo stesso binario, ma che disorientano l’essere umano a tal punto da restituire un’immagine distorta di chi la guarda. Stephanie Rosenthal, direttrice della mostra di Bul alla Hayward di Londra descrive le sue opere come «spettacolari e belle da vedere, ma dietro c’è sempre dolore». L’essere umano per Lee Bul è estremamente sensibile, alla ricerca di un modello di perfezione nel quale raggiungere consolazione e conforto, ma consapevole del proprio limite nel non poterlo mettere in atto. Una cognizione di sé che accomuna lo spirito umano, ma che offre una conoscenza del mondo possibile limitata, soggettiva e distante dalla realtà.
Linda Cioni
“Semplicemente: strisciare”. La rinuncia alla verticalità di William Pope. L
“Artists don’t make art, they make conversation. They make thingshappen. Theychange the world” - William Pope L. Strisciare a terra vestito come un comune uomo d’affari in piena estate a Manhattan? Said and done! E chi cercò di fermare William Pope.L, non vi riuscì, perché quellao oltre al proprio lavoro era la sua missione. L’arte si manifestava con tutta la sua potenza in una New York vacanziera, sotto un sole cocente e lo sguardo sconcertato degli astanti. Perché un uomo di colore ben vestito stava abbracciando l’asfalto? Stava prendendo in giro i senzatetto? Era un malato di mente? Le risposte sono molteplici, ma ciò che più importa è che lo stessero guardando. Strisciare e ancora strisciare tra un quartiere e l’altro con in mano un vaso di fiori gialli. Con il ventre a terra, lo sguardo dell’artista era ancora più lontano dal cielo e più vicino al mondo degli uomini.Schiacciato e compresso dovette sentire tutto il peso di quegli alti grattacieli, lontanissimi nella loro tensione verso l’infinito.
Ecco la rivoluzione di chi combatte la geometria sociale. L’orizzontale di chi soccombe contro la verticalità del potere, Il basso contro l’alto, ma dov’è Dio? Dove cercarlo? Le street actionsdi Pope.L denominate“CRAWLS”, nascono a cavallo degli anni Settanta e Ottanta, in anni in cui il problema sociale dei senzatetto era particolarmente sentito nella Grande Mela; un tema che per la valenza sociale e politica continua ad essere attualissimoe che riguarda i nuovi outsiders di oggi. Le performance denunciano la disuguaglianza e le contraddizioni in una città come New York, dove tutto è possibile, dove per arrivare alla cima si è disposti a salire numerosi gradini, dimenticandosi di chi, invece, rimane a terra spesso schiacciato dalla prepotenza o peggio, dall’indifferenza altrui. “Rinunciando alla propria verticalità” e attraverso l’azione dello strisciare, l’artista costringe i passanti ad abbassare lo sguardo
verso il basso e a rivolgere metaforicamente la propria attenzione a tutte quelle persone reiette rese vulnerabili dalla società. L’azione stessa perde la connotazione negativa e servile del prostrarsi, dello “strisciare a terra come un verme” tipica di chi si trova in una posizione di inferiorità. Il fatto che a farlo sia un artista di colore, è ancora più potente.L’umiliazione si trasforma in rivendicazione. Nell’universo di Pope.L, quest’ultimo aspetto è particolarmente sentito e ribadito in numerose altre opere. Nato nel 1955 a Newark (New Jersey), l’artista vive e lavora a Chicago, dove si esprime anche tramite altri media, la fotografia, scultura e la scrittura, riflettendo perlopiù su questioni razziali e sui concetti di blackness e whiteness. Per “The Great White Way”, una performance che ha iniziato nel 2001, Pope.L ha indossato un costume da Superman, guanti da giardinaggio e uno skateboard legato alla schiena. Ha iniziato a strisciare per tutte e ventiduele miglia che da Broadway, e
precisamente dalla Great White Way - luogo scelto non a caso - lo separavano dalla casa della madre nel Bronx. Il video girato per l’occasione registra la sofferenza dell’artista, mentre con i suoi gomiti e le ginocchia scavava nel ruvido tappeto di asfalto della città, spingendo il suo corpo lungo il marciapiede. Questa estenuante azione è deliberata e acquista una dimensione di ritualità. Ciò che traspare poi è una sottile ironia, quella di uomo vestito da Superman, incarnazione della pura idiozia per l’assurdità della scena, dove il colore della pelle dell’artista non fa che accentuarne il biasimo. Se l’uomo da sempre guarda in alto alla ricerca di una risposta ai suoi perché, a volte emulando, a volte sfidando il proprio Dio, William Pope.L la cerca tra di noi, lì dove non si ha il coraggio o la voglia di guardare e cioè tra gli ultimi, in coloro che sono fuori dalla nostra vista, proprio come Dio.
Mara Sabia
“L’arte è poesia”. Retrospettiva in fieri di Fausto Delle Chiaie.
Da oltre trent’anni il“Museo all’aria aperta” è visitabile a Roma, tra Piazza Augusto Imperatore e l’Ara Pacis, e chiude quando lo decide l’artista. Da oltre trent’anni Fausto Delle Chiaie prende il suo carrellino da spesa colmo di opere e dal piccolo centro di Sgurgola nel frusinate, sale sul treno per esporre a Roma. “I primi tempi la polizia municipale mi dava noia” racconta “poi hanno smesso”. E ora è parte della città, le persone che lo amano fanno il passaparola per sapere quando arriva ad esporre, per ammirare l’ormai celebre museo, per farsi una foto o chiedere un’opera all’autore.
Fausto Delle Chiaie ha gli occhi acuti e calmi di chi “vede”, colpisce la sua calma, la sua signorilità, il sorriso mite e gentile, anche se assediato da tanti, oggi che alla sua opera e alla sua persona, sono stati dedicati articoli, libri, documentari. La sua storia artistica inizia negli anni Ottanta. Nel 1986 è autore di un Manifesto Infrazionista che spiega l’”infra-azione” come “un’azione-collocazione-donazione di una o più opere, mostrate a terra da parte dell’artista, nei luoghi dell’arte, e il suo susseguente allontanamento dall’opera e dal luogo”. Fausto Delle Chiaie è rimasto sempre fedele a questo concetto. Allestisce quotidianamente il suo percorso espositivo, si pone seduto spesso di fronte alle opere, ma a giusta distanza, e resta in attesa del suo pubblico, sempre attento ad aggiustare una didascalia che viene spostata, a porre l’orecchio ai tanti che gli porgono domande. Le sue opere sono a disposizione dei passanti “siete voi che passate, io sono sempre qui” dice. E il passante stesso talvolta si scopre opera, oltre che visitatore, e partecipa all’ironia dell’artista che spesso è la chiave del concetto artistico che apre il senso di quella “rubbish!”, la “robaccia” esposta. L’opera d’arte di Fausto Delle Chiaie è creata spesso con oggetti abbandonati e a cui l’autore dà nuova vita: un mucchietto di gratta e vinci perdenti sono accompagnati dalla didascalia “lascia perdere”, un mozzicone di sigaretta è accompagnato dalla scritta “torno subito”: “è un’opera del 1988” mi spiega. Celebre è la cartina turistica di Roma appallottolata accostata alla didascalia “Duemila anni dopo” e in questi anni che Roma sta toccando una decadenza impressionante l’opera si presta davvero tanto. “Il messaggio lo devono cogliere le persone oppure chiedetelo ai bambini e ve lo spiegheranno”. Sorride e io con lui.
Questa sola frase fa emergere quanto conti infinitamente di più per l’artista il popolo dei passanti che ogni giorno osserva le sue opere, che la schiera dei critici, prima fra tutti Bonito Oliva, che hanno posto attenzione alla sua arte. Quella di Fausto Delle Chiaie è anche un’arte esplicitamente impegnata: il cartoncino delle patatine fritte di Mc Donald’s è commentata da una sola parola in tre lingue: “dappertutto”, “partout”, “everywhere” a sottolineare aggressività di una certa globalizzazione. Ben oltre le istallazioni Delle Chiaie si avverte come un artista figurativo, più che concettuale. Le sue figure talvolta allungate fanno riferimento esplicito a Giacometti. Mi colpisce come mutui liberamente dagli artisti che ama, senza nascondere l’origine delle sue ispirazioni, anzi sottolineandole. “Ho frequentato la libera Accademia del nudo. Lì le persone facevano i corpi belli, i figurini. Io facevo i figurini e poi li scomponevo, come Picasso. Mi è sempre piaciuto così”. ”Quale opera ti piace?” mi chiede. A Roma è una giornata grigia, temo a breve dovrà raccogliere tutto di corsa e andare via sotto la pioggia. “Opera trafugata”, gli rispondo con un sorriso: ha solo la didascalia, l’opera ovviamente non c’è, e ciò mi fa riflettere sulla capacità dell’artista di fare il pieno con il vuoto, di riempire di senso il nulla, mi fa riflettere sull’assenza, che spesso è il vuoto più pieno che c’è. “Anche mezza porzione è bella!” mi dice. Vero: “Mezza porzione” è un piatto rotto a metà, la didascalia recita: “Lo chef suggerisce mezza porzione”. “Ma questa mia è una retrospettiva, sa? Alcune opere sono qui da trent’anni.” In verità l’opera di Fausto Delle Chiaie è nuova ogni giorno, perché ogni giorno rinasce e cambia sotto gli occhi dei passanti, sotto un diverso cielo di questo angolo calmo e maestoso di Roma,
ma alcune istallazioni esistono da così tanto che sono diventate un po’ l’emblema dell’artista, hanno dato il titolo a documentari sulla sua opera come “Ho fatto una barca di soldi”. Fausto Delle Chiaie vive delle offerte spontanee dei visitatori, oggi divenuti spesso committenti delle sue opere, spesso elaborate sul muretto dell’Ara Pacis o se più complesse, sul suo letto, nella casetta di Sgurgola, dove vive con la sua compagna irlandese Noreen, scrittrice e pittrice. Una casetta con le pareti coperte di disegni e scritte - come il famoso “muro degli angeli” di casa Merini- una casetta in cui ci piove dentro: “e io dormo tra le due piogge” dice Fausto Delle Chiaie a Domenico Iannacone nel documentario “Io sono qui”, andato recentemente in onda sulla Rai. Oggi è attiva una petizione per poter concedere a Fausto Delle Chiaie la Legge Bacchelli. “Perché hai scelto di far abitare alle tue opere questa via di Roma?” gli chiedo, pensando che chissà quanti abbiano già a lui rivolto questa domanda. “È stato casuale. Ho iniziato a esporre qui una sola opera nel 1989 e poi sono rimasto qui, perché è tranquillo”. All’inizio dell’esposizione il visitatore può leggere la tavoletta di legno con su scritto: “Il primo anno di questa esposizione è stato il 1989. Da allora io sono qui ogni giorno. Le persone di passaggio siete voi”. È così: un incontro con l’opera di Delle Chiaie, con la sua ironia elegante, fa riflettere anche sul passaggio del visitatore, ma sulla permanenza dell’arte. Noi passeremo, l’arte no. “C’è un messaggio poetico nella sua arte?”azzardo ancora. “L’arte è poesia. Sempre” mi spiega anche che a suo avviso la letteratura ha bisogno di tempo e che guarda indietro. L’arte invece è qualcosa che vive di visione, è luce immediata. Sta disegnando con un pennarello rosso su tela il suo famoso “Romolo…e Remo?”, la lupa stilizzata con uno solo dei due gemelli. E appare chiaro e immediato quanto vuole esplicitare. Fausto Delle Chiaie ha esposto in molti spazi importanti, in Italia e all’estero, ma chi vuole partecipare davvero della sua arte deve goderla qui, alla sua presenza, all’ombra dell’Ara Pacis. “A un ragazzo che vuole oggi intraprendere la via dell’arte cosa consiglierebbe?” “Di farla. Di prendere in mano carta e pennelli e farla. Dare forma ai concetti, ai pensieri. Fare.” Lo lascio all’obiettivo di due fotografi. Si presta, sorride. Gli chiedono se può fare le foto senza mascherina. Dolcemente risponde “Le foto bisogna farle d’epoca: la mascherina è l’epoca.” Ecco, Romolo è finito. L’opera può essere esposta.
Giancarlo Riconosciuto
Sarai opera “Questa zattera mi è stata molto utile, consentendomi di attraversare un fiume che mi spaventava, la caricherò sulle spalle e la porterò sempre con me.” “Starà compiendo una scelta saggia, questo viaggiatore?” Chiese il Buddha.
La separazione tra quotidianità materialistica e spiritualità - che innegabilmente limita i nostri orizzonti - si deve, in parte, al Cristianesimo. Tale religione, basata su una profezia apocalittica e sul concetto di sofferenza terrena ripagata dal paradiso, ha separato fin dalle sue origini “Cesare da Dio” e poi bollato come eretiche idee, invece degne di considerazione, come quelle di Averroè o di Gioacchino da Fiore. L’arte, come quelle viti che si aggrappano ai pioppi per crescere e fruttificare, si è lasciata utilizzare quale strumento di propaganda e sintomo di potenza e prosperità, riuscendo, tuttavia, a ritagliarsi ampi spazi di autonomia fino ad affrancarsi da qualsiasi condizionamento, in misura sempre crescente, a partire dalla fine del XIX secolo. Essere liberi è una maledizione perché obbliga a pensare e gli artisti (anche aiutati dal digiuno) hanno raggiunto livelli di elevazione talvolta considerevoli. L’artista contemporaneo opera all’insegna della piena autonomia di pensiero, che gli consente di guardarsi attorno e dentro con consapevolezza e lo spinge ad aprire quel terzo, appannato occhio, che pure sa di avere. Figure esemplari come Duchamp, Beuys o Marina Abramović illuminano il cammino anche di chi, come me, sembra avere la punta del naso come bussola, inducendomi ad analizzare ogni aspetto della storia, della cultura e della natura non solo con lo sguardo di chi “… si deve guadagnare un pezzo di pane” ma anche, spesso, con l’intatta sensibilità del bambino di sette anni intrappolato in un corpo da adulto.
Può l’arte guidarci lungo il sentiero che conduce alla metafisica? Sì, può farlo. In quali casi accade? La risposta che mi verrebbe da dare è: quando l’artista scompare dalla scena, se l’opera ha qualcosa da comunicare, lo farà. Non posso concedermi, però, una risposta sì tranchant poiché è necessario riconoscere un ruolo di guaritori di anime (e quindi di corpi) a molte figure, sia nell’ambito delle arti figurative che del teatro, della musica, della letteratura e della poesia, anche quando costoro proprio non riescano a stare lontani dai riflettori. Diverso è il discorso per l’opera in sé che, se ci condurrà in una dimensione diversa dall’ordinario, scomparirà ai nostri occhi consentendoci di vedere e scoprire altro. Per osservare come taluni artisti riescano a condurci su un crinale tanto sdrucciolevole, potremmo partire da Tomás Saraceno che nell’ambito della mostra Della materia spirituale dell’arte, al MAXXI, ancora nel 2020, ci attirava in una stanza buia, utilizzando dunque in maniera quasi didascalica un topos particolarmente evocativo ma mettendoci infine faccia a faccia col soprannaturale e l’estatico della natura stessa, tenendo in bilico il nostro sguardo e la nostra mente sopra fili di ragnatela. Volendo avvicinarci ad opere che ci incantino con la perfezione formale, prima ancora che con la raffinata concettualità zen, dovremo invece varcare la soglia dello studio di Roberto Pietrosanti. Nel lavoro di questo artista il concetto di manufatto viene esaltato fino alla perfezione, l’equilibrio e il “definito” appaiono come cardini di
Tomàs Saraceno
Roberto Pietrosanti
una ricerca che vede nella scultura solo uno dei suoi momenti salienti. La totale assenza di pregiudizi ha consentito a Pietrosanti di misurarsi con temi ed esperienze multiformi che gli hanno conferito la capacità di guardare alla storia dell’arte come ad un fiume privo delle dighe, costituite dai prima e dopo, e di considerare l’architettura come un aspetto fondamentale dell’arte stessa. Sarà proprio guardando alla forza evocatrice dell’architettura che Pietrosanti si avvicinerà a ciò che definisce Mistero, attribuendo a questo concetto la capacità di guidare il fruitore dell’arte alla scoperta di un ruolo attivo nel quale la sua sensibilità diventa strumento di dialogo con l’opera, diversamente da quando questi venga posto dinnanzi ad una verità rivelata alla cui sacralità nulla sentirà di poter aggiungere. L’artista dovrà però considerare che il Mistero può sfuggire al suo controllo e dinnanzi a questa evenienza Pietrosanti ci sorprende, scegliendo un atteggiamento di resa che consentirà al Mistero di rivelarsi, al Verbo di farsi Segno. Da quel momento in avanti il dialogo si svolgerà tra l’opera e il suo fruitore, che se si troverà davanti ad una porta, e la vedrà, potrà scegliere di aprirla, varcarne la soglia ed “essere opera”. Accennare alla ricerca di due artisti non pretende, ovviamente, di fornire il punto della situazione riguardo al rapporto tra Arte e Mistero, ma in parte evidenzia la relazione sempre più felice e spontanea tra ricerca artistica e speculazione filosofica. Tale contiguità rappresenta la via maestra affinché sempre maggiore possa essere il contributo fornito dagli artisti alla comunicazione tra l’uomo e la natura, tra l’uomo e la propria anima, il che, nel tempo, determinerà un netto miglioramento della qualità della vita di ognuno.
Antonio Ligabue
Tigri sontuose che lottano contro immensi boa, leopardi con le zampe protese nell’atto predatorio e scimmie bercianti: a vedere i suoi dipinti si ha l’impressione di trovarsi nella savana, o nel cuore di una foresta equatoriale, e invece siamo nella Bassa Reggiana, a Gualtieri, sulle sponde del Po. Occhi sbarrati, fauci spalancate, denti aguzzi: se avessimo chiesto ad artista del 5 d.C. di rappresentare la minaccia animale, probabilmente nel suo mosaico avrebbe mostrato qualcosa del genere Eppure, quando osserviamo le opere di Antonio Ligabue, siamo di fronte a dipinti degli anni Cinquanta del Novecento.
Marco Lovisco
Negli occhi della tigre c’è lo sguardo dell’universo.
Analogie, uguaglianze simili ma diverse e quindi uniche, che viaggiano nello spazio e nel tempo: è questa la sensazione che si prova quando si ha di fronte un quadro di quest’artista dalla vita tormentata. È come se in quelle immagini ci fosse molto di più di quanto l’occhio riesca a vedere e la mente a spiegare: nello sguardo ferino dei suoi animali c’è l’essenza della vita. C’è una verità inspiegabile che è però radicata in tutte le creature viventi. Negli occhi della tigre c’è l’essenza dell’universo. Non è un caso che a coglierla sia stato un artista che non appartiene a nulla: sradicato dalla famiglia, dal territorio, dalla società. Un artista che, per le sue condizioni fisiche e mentali, è stato costretto a vivere in un ascetismo forzato, che gli ha permesso di entrare in contatto con le forze primordiali della natura. La storia di Ligabue è nota: nato in condizioni misere, per tutta la vita fu affetto da rachitismo e gozzo. Soffriva inoltre di psicosi “maniaco-depressiva”, un male che lo isolava dal resto dello persone e che lo portava a mettere in atto comportamenti violenti, spesso autolesionisti. Eppure, è proprio questo malessere che ha permesso all’artista di realizzare opere universali di impatto immediato. Le sue tele sembrano impregnate di “fame di vita”. Quella vita che la società intendeva negargli, relegandolo ai suoi margini, e che invece l’artista si è ripreso per intero, consegnandola all’immortalità. Così, a decenni di distanza dalla sua morte, il figlio di nessuno è stato adottato da tutti.
Nelle sue opere c’è una genuina energia che riesce ad entrare in immediata sintonia con lo spettatore. Con qualunque spettatore: a prescindere dall’età, dalla classe sociale, dal livello di istruzione. I suoi dipinti sono permeati di “dissimili uguaglianze”. Sono opere “dissimili”, perché ogni spettatore le completa in maniera soggettiva, attingendo al proprio background personale e allo stato d’animo con cui le osserva, ma al contempo si percepisce un concetto di “uguaglianza” che accomuna chiunque si trovi di fronte alle fauci spalancate delle sue bestie. È il racconto della lotta per la vita che emerge prepotentemente nei soggetti scelti da Ligabue e che ognuno noi conserva per istinto. È solo rileggendo la storia di questo artista che possiamo comprendere perché proprio lui, e non un altro, è stato capace di rendere così manifesta l’energia primordiale che cova nell’animo di ogni creatura vivente. È nella sua biografia tormentata che si possono scorgere gli indizi di quella universalità che rende le sue opere istintivamente “vere”, come emanazioni di uno spirito che permea il creato. L’incapacità dell’uomo di essere accolto in un una specifica società (quella italiana degli anni Venti del Novecento), ha permesso all’artista di trovare ispirazione in un universo “altro”, lontano dai bisogni imposti dalla pressione sociale, contingenti nel tempo e nello spazio. Le sue opere, spesso considerate, a torto, ingenue, sono semplicemente “pure”. E per questo universali. Le sue bestie selvagge sono intrise di una potenza ancestrale che travalica i confini geografici e temporali, per conquistare il diritto di esistere. Nei loro occhi c’è la sfida che accomuna tutti gli esseri viventi, diversa a seconda delle latitudini, ma sempre la stessa: la sfida di esistere.
Fabrizio Perrone
La spiritualità futurista tra tempo e spazio
Siamo abituati a inquadrare storicamente il Futurismo, come un movimento culturale che, in barba ad ogni accenno di immobilità, ha per quasi la prima metà del Novecento (la sua vicenda storica si chiude nel 1944 con la morte di Marinetti), accompagnato il dibattito culturale del nostro paese. Resterà indelebile nei giovani artisti il: “Noi vogliam cantare l’amore del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità” dichiarato da Filippo Tommaso Marinetti nel Manifesto del 1909 mentre opere famose nell’immaginario comune come Dinamismo di un cane al guinzaglio, oppure la Città che sale, generavano una vera e propria rivoluzione spaziotemporale dell’arte. Sarà proprio nella ricerca della perfetta sintesi tra figurazione e dato oggettivo che si avvia questa riflessione, mirata a scandagliare il territorio di una ‘spiritualità’ che potesse non solo combaciare con le esigenze del Futurismo, quanto spiegare il possibile rapporto tra l’uomo, individuo e lo Spirito. Prospettiva che rende l’arte non solo “semplice godimento estetico” bensì universale “necessità”. Nel giugno del 1931 usciva, a firma di Marinetti e Fillia (Luigi Colombo), il Manifesto dell’Arte Sacra Futurista, un vademecum per la rappresentazione del sacro. Saranno opere come Sacra Famiglia o Crocifissione a meglio descrivere il tratto distintivo della rinnovata arte sacra, nella quale al soggetto è spesso abbinata la visione tutta personale del divino, visione che si potrebbe sintetizzare nell’immagine di uomini che non solo puntano in alto (con una lunga ciminiera o le croci dal fondo celestiale) bensì esigono l’altitudine di Dio. Infatti, nonostante l’innovazione del tema sacro sembrasse spingere sempre più verso l’astrazione delle forme, è sintomatico notare quanto, in Fillia, sia la composizione che l’uso della forma, richiamasse per certi versi la tradizione, affidandosi, ad esempio, in Sacra Famiglia, ad uno schema piramidale ereditato dalla più antica Sant’Anna Metterza di Masaccio e Masolino, o in Adorazione, all’uso di elementi della geometria solida quali la sfera e la piramide, sintomo di un ritorno all’elementarità della forma nella sua purezza. L’altitudine divina, a cui poc’anzi si faceva riferimento era stata raggiunta, almeno in parte, con l’aeroplano e con l’esperienza dell’aereopittura, di poco precedente alla svolta spiritualistica. Nello citato manifesto dell’arte sacra si leggerà infatti: “soltanto gli aeropittori futuristi, maestri delle prospettive aeree e abituati a dipingere in volo dall’alto, possono esprimere plasticamente il fascino abissale e le trasparenze beate dell’infinito”. Sono parole tese a ribaltare sia la tradizione iconografica che il punto di vista da cui guardare al divino. Saranno sopratutto gli esiti di Gerardo Dottori, “primo futurista che rinnovò con originale intensità l’arte sacra”, a descrivere il connubio fra sacro e aereopittura, come in Crocifissione, dove alla tradizionale iconografia sono aggiunti paesaggi che, dalle soffici, colline degradano in cieli
tersi dai fasci luminosi, scandagliati da campiture spigolose; sintesi estrema dell’esperienza divisionista italiana. Fillia, riassumendo la sua prospettiva raffigurativa, rileva: “L’uomo ha bisogno di staccarsi dalla terra ha bisogno di sognare, di desiderare eterne felicità, di dimenticare continuamente la realtà quotidiana”. Insomma si chiede se la ricerca spirituale altro non fosse che lo stesso desiderio umano di riconoscersi nel recondito, ripartendo proprio dal punto in cui la ricerca sembrava essersi smarrita, la “macchina”. A tal proposito scrive: “la Macchina non fu inventata per sole necessità fisiche (l’uomo aveva vissuto ugualmente bene per tanti secoli) ma per un bisogno spirituale causato dall’esaurimento di tutti i misteri e di tutte le divinità della Natura”, intendendo la Macchina non solo come opera di produzione umana, bensì comune denominatore tra creato e creatore. Del resto, già nelle primissime opere futuriste si poteva avvertire un debito con l’infinito, preludio alle istanze del Surrealismo, che, proprio attraverso la ricerca cosmogonica, che sarà di Prampolini, riusciva a valicare il confine dello scibile, protendendo sempre più verso confini spaziotemporali non delimitabili dalla semplice imitazione naturale, astratti nella visione alienata del tangibile. In tal senso si pensi, tra i diversi esempi, a Velocità astratta + rumore di Balla. Nei progetti di Antonio Sant’Elia era possibile già avvertire una sorta di sacralizzazione del verticalismo, identificabile nella stessa funzione dell’altezza nell’architettura gotica, netto rimando ad una città che monumentalizzata si proclama sacra. La stessa velocità, tanto decantata, si ritrovava, con l’arte sacra futurista, non solo a scandire il possibile tempo umano ma anche a descrivere la ricerca di un tempo, sempre più fuggevole, che potesse convogliare l’uomo nella sua dimensione più alta, astraendolo dal tempo terreno ed eleggendolo all’atemporalità propria dell’ultraterreno. Un presagio si leggeva già in Forme uniche della continuità dello spazio di Boccioni, dove il contrasto temporale del movimento, esemplificato tra la parte superiore e quella inferiore della scultura, tratteneva una possibile atemporalità, trascendente per definizione. È a partire dalla scomposizione del tempo e dello spazio che, il Futurismo, genera una vera e propria rivoluzione, segnata dall’umano desiderio di andare oltre, di sporgersi al di là del limite naturale delle cose, lasciando che la ricerca spaziotemporale iniziasse, fisiologicamente, dal concetto di dinamismo e velocità e approdasse alle rive della spiritualità, dove per antonomasia il tempo e lo spazio altro non sono che semplici visioni.
Giacomo Balla
Umberto Boccioni
WILLIAM KENTRIDGE
Luna Gubinelli
O adesso o mai più. Storia di racconto simultaneo lungo il fiume
Il 21 aprile 2016, Natale della città eterna, è stato inaugurato a Roma un intervento di arte pubblica chiamato Triumphs and Laments. Si tratta di più di 50 gruppi di figure realizzate con la tecnica dello stencil sul muraglione ad argine del fiume in corrispondenza del Lungotevere della Farnesina. L’autore del progetto è William Kentridge, uno dei più celebri artisti internazionali, noto per l’utilizzo di molteplici linguaggi espressivi che traggono tutti origine dal disegno. Arte, storia, memoria sono parte del processo creativo dell’artista che “disegna” le connessioni tra diversi media attraverso schizzi, collage, animazioni stop motion, performance, teatro, musica, scultura, film. Le sue opere sono dominate dalla permutazione degli oggetti rappresentati, o dalle immagini riprodotte, che si alternano ordinandosi in complessi anagrammi e che si trasformano compiendo magiche metamorfosi. L’immagine in continua evoluzione assume una natura transitoria, definita dall’artista stesso “effimera”. Questo carattere dell’immagine è ciò che è stato pensato anche per Trionfi e Lamenti. La provvisorietà in questo caso non è data dal veloce utilizzo del tempo nell’alternare e creare oggetti, ma dall’inesorabile intervento del tempo che farà scomparire l’opera stessa. Le immagini iconiche della città, che si avvicendano lungo 550 metri di passeggiata, sono state ricavate dalla sottrazione dei detriti biologici dal muro, eccezion fatta per quello volontariamente protetto dagli stencil. Le figure sono emerse a seguito della rimozione, con un potente gettito d’acqua, della patina nera creata dagli agenti atmosferici con il passare del tempo. Il destino delle sagome nate dalla sporcizia è di essere riassorbite lentamente dal limo e dal muschio che cresceranno e dal nero dell’inquinamento che le oscurerà, andando inesorabilmente ad inglobare questo provvisorio racconto della città.
Il valore di quest’opera risiede nella possibilità che l’artista offre agli osservatori, o anche ai semplici passanti, di entrare e uscire dal tempo grazie alle storie narrate tramite le immagini e di riflettere sulle connessioni tra eventi antichi e recenti, appartenenti alla cultura alta e a quella popolare, tra storia e fiction, tra elementi distanti e differenti che sono però tutti raffigurati sulla tela/ muro, che sembra in questo modo riassumere, anche in maniera ironica, lo spirito della città: la sua eternità, il potere e la morte, la santità e la bestemmia, i trionfi e i lamenti. Osservando il racconto asincronico proposto dall’artista risuonano in mente le parole di Montesquieu sulla storia della città: le cause della grandezza e della decadenza sono esattamente le stesse. La forza di Roma è la stessa che la conduce alla sconfitta e dipende da una causalità oggettiva. Nel susseguirsi della storia, gli eventi che portano alla grandezza e al ridimensionamento sono attribuibili ad una o più specifiche condotte, sono rapporto di causa ed effetto. Ma la riflessione che l’artista sudafricano introduce in questo intervento pubblico non si basa solo sull’analisi della storia passata, non è una semplice riproduzione di simboli come una specie di pastiche contemporaneo. Kentridge, attraverso il passato, sceglie di mostrare il presente non solo perché equipara gli eventi trionfali o tragici della storia, ma anche perché quella che introduce è una riflessione dialettica che non si ferma alla storia, dato che le diverse figure rappresentate sono una reazione ad essa. Lo scopo è quello di creare nuove e diverse connessioni per arrivare a cogliere il senso della realtà, capire un’altra verità, o almeno tentare di farlo. Partendo da questo presupposto non è un caso l’utilizzo dell’anacronismo, espediente compositivo preso in prestito da antiche pratiche consuete nell’arte. L’anacronismo consiste nell’utilizzare all’interno della composizione pittorica elementi che sono tra loro distanti nel tempo (come ricorda Salvatore Settis nel suo saggio su Kentridge). Da questo punto di vista, considerando il muraglione come una grande tela, non ci stupiamo di trovare nella composizione una sequenza con Mussolini, privato ironicamente del braccio da saluto, seguito da Cicerone e dal corpo straziato di Pasolini, oppure Vittorio Emanuele II seguito da Anita Garibaldi a sua volta preceduta dall’indicatore della Piena del Tevere. Il racconto simultaneo si rivela altresì all’interno di uno stesso gruppo formato da tre distinte figure, tra le più riconoscibili nella storia dell’arte e nella storia recente: il ritrovamento del corpo
di Aldo Moro nel 1978, in ricordo della famosa foto con il corpo all’interno della Renault 4; i romani che uccidono i barbari nel III secolo, dal Sarcofago Ludovisi in Palazzo Altemps; l’estasi di Santa Teresa d’Avila del 1647-52, opera del Bernini sita nella cappella Coronaro, in Santa Maria della Vittoria a Roma. Cosa hanno in comune queste tre rappresentazioni? Perché proprio queste? Perché questo salto cronologico? Ecco le domande che si innescano nella mente di chi guarda. Mai come in questo caso alle risposte è affidato il compito, che è anche quello dell’arte pubblica, di far sbocciare una riflessione sui luoghi in cui gli avvenimenti si evolvono. Le fonti dalle quali sono tratte le scene più o meno fatidiche della storia dell’urbe sono numerose e differenti e vanno dalla scultura, alla pittura, alla fotografia, alla cinematografia, e ogni evento e ogni personaggio raccontato, così come un monumento, ha un peso nella memoria della città. Si può attribuire un valore a ciascuna immagine, come viene fatto nella storia, attribuendogli il peso e l’importanza che hanno assunto con il passare del tempo, eppure la memoria collettiva, rappresentata sul muro da sagome, è posta in maniera tale che questa differenza di peso e di importanza passa in secondo piano, fino a venire meno. Si ottiene, dice qualcuno, un teatro di marionette, in cui i personaggi sono un tutt’uno con la storia della città, senza distinzioni, e che l’occhio percepisce come esteticamente coerenti. A chi osserva il compito di farsi trascinare nella lettura dei frammenti, nella ricostruzione delle connessioni, di camminare lungo una parete di storie disordinate legate insieme dall’anima contraddittoria della città, fatta appunto di dissimili uguaglianze. Il progetto è frutto di anni di ricerche di gruppo, di selezione delle immagini, di prove di resa e di incastri di burocrazia. L’opera che adesso sta lentamente svanendo è stata inaugurata mentre Roma era senza Sindaco. “O adesso o mai più, questo è il momento” ha detto William Kentridge nel film documentario dedicato a Trionfi e Lamenti. La politica costruisce e distrugge e fornisce sempre chiavi di lettura volte all’esaltazione del potere e questo l’artista sudafricano lo sa bene. Forse quest’opera per essere veramente pubblica doveva essere liberata da celebrazioni legate a idee di palazzo, essere semplicemente osservata e lasciata scorrere insieme al fiume sottostante, forse l’opera, per essere parte dello spirito della città e della sua natura, doveva semplicemente manifestarsi grazie all’intervento dell’uomo, per poi essere di nuovo riassorbita dalla stessa materia da cui ha avuto origine.
Anna R.G. Rivelli
Non per amore È solo per un eccesso di vanità ridicola che gli uomini si attribuiscono un’anima di specie diversa da quella degli animali. (Voltaire)
Fransdita Muafidin
L’amore per gli animali non è propriamente la stessa cosa che il riconoscimento dei loro diritti. L’amore presuppone infatti la scelta discrezionale per quello che viene individuato come “oggetto” d’elezione, il diritto, invece, è preesistente a qualsiasi scelta e si sottrae a qualsiasi discrezionalità. Se non si parte da questo, la difesa degli animali resterà sempre, nell’immaginario collettivo e – quel che è peggio – nelle visioni politiche, confinata nel territorio delle fanciullesche sensibilità e in quello delle attempate manie delle gattare; soprattutto ritaglierà una discriminazione nella discriminazione, al più concedendo ( e non a caso si può parlare di concessione) qualche attenzione ad una parte minimale di queste creature che con l’uomo coabitano il pianeta e continuando a ignorare la sofferenza di tutte le altre. Il nostro tempo, però, per quanti progressi abbia fatto nella lotta alle discriminazioni, per quanto sempre più convintamente combatta il razzismo, l’omofobia, il sessismo, non si occupa ancora sufficientemente di debellare lo specismo, cioè quella fatua convinzione dell’animale uomo di appartenere a una specie superiore e perciò stesso di essere titolare di un incondizionato diritto di vita e di morte su tutte le altre creature.
Peter Singer nel suo saggio “Liberazione Animale”, vero e proprio manifesto dei movimenti animalisti edito per la prima volta nell’ormai lontano 1975, argomentando in modo serrato e confutando molteplici possibili obiezioni, ammonisce che “per evitare lo specismo dobbiamo ammettere che esseri simili sotto tutti gli aspetti rilevanti hanno un analogo diritto alla vita, e che la semplice appartenenza alla nostra specie biologica non può costituire un criterio moralmente rilevante ai fini di questo diritto”. E che gli animali siano simili a noi “sotto tutti gli aspetti rilevanti” è opinione condivisa dalla maggior parte degli uomini di scienza della nostra epoca e comprovata, tra l’altro, dalla inconfutabile capacità degli animali di provare dolore e dolore non soltanto fisico. La difesa degli animali, però, confligge troppo con l’interesse dell’uomo, con le sue abitudini e tradizioni (troppo spesso utilizzate per giustificare ogni specie di bruttura) e con il suo tornaconto economico. Non è a caso, infatti, che gli animali vengono utilizzati a seconda di quanto e di come possono rendere: cani e gatti e altri piccoli animali da compagnia sono infatti oggi il cuore di un business mastodontico e sono i destinatari di una variegata produzione di articoli dedicati al loro benessere,
Tommaso Ausili
pubblicizzati con grande evidenziazione del loro ruolo familiare e della loro intensa capacità affettiva. Ma dacché una mucca o un vitello, una capra piuttosto che un tacchino difficilmente li si potrà ammettere nei nostri salotti, l’interesse dell’animale uomo perderà la maschera e non si farà fatica a passare dalla proposta del cibo biologico per Fido, a quella delle alucce ben rosolate del galletto, rappresentatoci con ipocrita maestria razzolante e felice in una qualche inesistente fattoria. E qui si ritorna al punto di partenza: non sull’amore deve basarsi la difesa degli animali, ma sul diritto; e il diritto appartiene non di più a un cane di quanto non appartenga a un topo o a un uccello, ancora oggi bersaglio inutile e innocente di un retrogrado passatempo che insistiamo a chiamare sport. Sarebbe presumibile credere, peraltro, che quanto più si è sensibili al tema dei diritti, tanto più bisognerebbe acquisire la consapevolezza che tra tutti i discriminati gli animali sono quelli che maggiormente hanno bisogno del nostro aiuto, perché impossibilitati a lottare da sé per la propria liberazione; quasi sempre, invece, questa battaglia viene vista come una causa minore, talvolta risibile addirittura. Lo stesso Singer at-
tribuiva tale scarsa percezione del problema all’ignoranza delle sofferenze atroci patite dagli animali asserviti all’interesse dell’uomo. Tuttavia, se questo poteva essere vero qualche decennio fa, non appare più giustificazione plausibile nel tempo dell’ipercomunicazione, perciò si potrebbe asserire che è più il diniego, vizio “capitale” del nostro tempo ben delineato dal filosofo Umberto Galimberti, che ci impedisce di associare alla fettina apparecchiata nel nostro piatto il cadavere di un essere dotato di capacità di provare affetto e sofferenza esattamente come li proviamo noi. Il diniego, ci dice Galimberti, “consiste nel negare, nelle forme più svariate e ipocrite, l´esistenza di ciò che esiste e per giunta si conosce”. Eppure non sarebbe difficile immaginare quale possa essere la vita di un animale già per il solo fatto di vivere in un mondo non a lui commisurato, dove tutto deve apparirgli di una minacciosa sproporzione. Con un gioco di sapienti fotomontaggi, l’artista indonesiana Fransdita Muafidin ha disseminato il web di immagini di amorevoli gattini ingigantiti e collocati nel mare, nelle strade, nelle piazze, sui monumenti delle città del mondo. In quelle immagini la sola accresciuta dimensione è sufficiente a far acquisire a quelle tenere creature una parvenza di inesorabile ferocia e a polverizzare la tracotanza dell’uomo con tutte le sue opere. Il micio rosso con gli occhioni dolci che camminando calpesta le figurine umane nella piazza, quello grigio che sgretola l’asfalto nel bel mezzo della sua toilettatura, quello che nuota più grande della nave da crociera siamo noi, noi che in questo mondo ci sentiamo dei titani, ma forse siamo al massimo ciclopi, privi dell’altro occhio che ci consentirebbe di percepirci come creature tra le creature. Eppure ci sarebbero tanti motivi per convincersene. Non vogliamo ricorrere, per supportare la lotta allo specismo, ad argomentazioni di tipo religioso, ben sapendo che sarebbero solo relativamente condivisibili; tuttavia va almeno ricordato che nella Genesi è ben specificato che gli animali sono dati all’uomo in affidamento, come fratelli più piccoli. Men che meno ci azzardiamo a toccare la sfera del paranormale, per non rischiare di inficiare l’attendibilità del ragionamento con argomentazioni a cui ancora troppe persone non riconoscono alcuna valenza; anche in questo caso va detto però che esistono numerose e affidabili testimonianze del palesarsi di spiriti di animali. Ci sembra sufficiente citare un meticoloso lavoro di Rupert Shaldrake, biologo inglese già membro della Royal Society, che, con anni di studio e ricerche e migliaia di interviste e di esperimenti rigorosi, ha dimostrato che gli animali (non solo cani e gatti, ma anche mucche, colombi, topi, pappagalli ecc.) hanno capacità che vanno ben oltre la nostra immaginazione. In un suo saggio dal titolo “I poteri straordinari degli animali”, attraverso innumerevoli esempi elabora una nuova teoria scientifica, supportata da reale evidenza, che accende sul mondo animale una luce che non può incolpevolmente essere ignorata. Ma non per questo lo specismo va debellato, non perché gli animali sono creature straordinarie, ma perché sono creature che hanno diritto a vivere una vita dignitosa e priva di sofferenze.
Damien Hirst
Alessandro Sabia La relazione etica uomo-natura
Temi connessi alla crisi ambientale che caratterizza il nostro tempo, e la conseguente necessità di un atteggiamento più rispettoso nei confronti del nostro ecosistema, convergono in un nuovo campo teorico, che a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, si è aperto alla riflessione filosofica. Esso, che può definirsi pensiero ecologico o filosofia dell’ecologia, verte principalmente sul rapporto fra uomo e ambiente, colto però entro una più ampia e rinnovata prospettiva etica. Le grandi questioni dell’etica contemporanea, in fondo, non vertono più solo sull’agire degli uomini in rapporto ai loro simili, come accadeva in passato, ma riguardano anche l’agire dell’uomo nei confronti della natura, vista, quest’ultima, come un sistema di equilibri complessi che impone dei limiti all’azione degli individui. Cuore della nuova etica ecologista è l’idea di responsabilità, diretta ai singoli come alla collettività, che si traduce in un impegno nei confronti dell’intera biosfera, cioè del sistema-Terra in quanto tale. Una simile riflessione etica si connette peraltro con quella sulla tecnica, la scienza, il progresso e su tutte quelle dinamiche sociali, politiche ed economiche che, nel tempo, hanno determinato questa progressiva devastazione ambientale. La questione ecologica chiama senz’altro in causa la modernità e il suo progetto antropocentrico, esemplificato dalle filosofie di Bacone e Cartesio, di fare degli uomini i dominatori della natura. Qui,
sennonché, nasce un interrogativo decisivo: siamo davvero certi che questo rapporto di subalternità della natura nei confronti dell’uomo, che ha legittimato il moderno sviluppo industriale e che sta producendo effetti catastrofici, sia un originale parto della modernità? Il rapporto uomo-natura, in fondo, per noi occidentali, risulta riconducibile a due arcaiche visioni del mondo, quella greca e quella giudaico-cristiana. Entrambe, infatti, pur nelle loro grandi differenze, escludevano la natura dal campo di pertinenza dell’etica, il cui ambito era circoscritto alla regolazione dei rapporti fra gli uomini, senza nessuna inclusione per le cose naturali. I greci pensavano la natura come un ordine immutabile che nessuna iniziativa umana poteva alterare, come quel limite insuperabile, quella legge suprema a cui l’azione umana doveva necessariamente piegarsi. In questo senso l’uomo non poteva dominare la natura, ma solo svelarla. Sorgeva così la concezione greca della verità come disvelamento della natura, dalla cui contemplazione fluivano le conoscenze che avrebbero dovuto orientare il fare umano. La natura, quindi, concepita come dato originario e immutabile eliminava di fatto ogni preoccupazione circa la sua vulnerabilità e di conseguenza non ne faceva un possibile oggetto di riflessione e cura etica. L’idea di dominio è, in realtà, del tutto assente nel mondo ellenico. La ritroviamo invece nella religione biblica che concepisce la natura come prodotto della volontà di Dio, che l’ha creata e consegnata all’uomo. La natura non costituisce più un impersona-
le e astorico ordine immutabile, ma è dominio di una Volontà. “Il suo significato non è più cosmologico, ma antropo-teologico; per ordine divino, essa dipende dall’uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio”(U. Galimberti). La natura rappresenta un puro materiale, un serbatoio, da utilizzare al di là di qualsiasi considerazione etica. Questa visione del mondo comporta quindi che l’indagine sulla natura non è più finalizzata alla conoscenza delle sue leggi immutabili, a cui si rivolgeva la speculazione greca, ma è sottoposta alla progettualità umana, ben espressa all’alba della modernità, dalla sentenza baconiana, conoscere è potere, ovvero conoscere è dominare. Questa pre-comprensione giudaico-cristiana innerva, in forma più o meno secolarizzata, tutta la modernità. Per Kant ha dignità d’essere trattato sempre come fine e mai come mezzo solo l’uomo e non gli enti naturali; per Hegel, la natura è Spirito in forma alienata e degradata che trova la sua determinazione solo con la mediazione concettuale umana. Una natura, in ultima analisi, mai colta al di fuori del dominio dell’uomo, quel dominio che coincide, oggi, con la tecnica, attraverso cui si realizza l’impiego e l’usura della natura. Nella misura in cui la natura è colta con categorie giudaico-cristiane, è evidente, non è possibile porre alcun argine alla tecnica e agli effetti apocalittici della sua espansione. Superare il presupposto biblico, quantomeno nell’interpretazione che ne ha dato la modernità, e quindi fuoriuscire dal suo correlato orizzonte antropocentrico, è lo scopo del recente pensiero ecologista. Hans Jo-
nas, allievo di Heidegger e uno dei fondatori di questo indirizzo di pensiero, ritiene indispensabile individuare un nuovo paradigma dell’azione umana che sia in grado di rispondere ai problemi posti dal progresso tecnologico. Per garantire la sopravvivenza dell’umanità, compatibilmente con la salvaguardia ambientale, l’uomo deve agire responsabilmente, cioè farsi carico del diritto di esistere dell’Essere (si legga la Natura). In altri termini, Jonas, diversamente da Kant, restituisce un valore intrinseco all’Essere (la Natura), da cui discendono precisi imperativi etici per l’umanità. Jonas estende così il riconoscimento teleologico di ‘fine in sé’ anche al mondo naturale e ne include la cura nel concetto di bene umano. “La natura avanza nei nostri confronti una sorta di pretesa morale, non soltanto a nostro ma anche a suo favore in base a un proprio diritto”. Alcuni critici, ad ogni modo, sostengono che la posizione di Jonas sia infirmata ancora da un atteggiamento antropocentrico, poiché la sopravvivenza della Terra sembrerebbe subordinata e finalizzata alla sopravvivenza autentica della sola umanità. Quella di Jonas, in altri termini, sarebbe un’ecologia superficiale. Si è fatta strada, infatti, negli ultimi anni una riflessione ancora più intransigente, definita appunto ecologia profonda o ecosofia, che ha come rappresentante di spicco il filosofo norvegese Arne Naess. Muovendo, anch’egli da una critica radicale dei modelli economici e culturali dell’occidente, sviluppa la nozione di sé ecologico, ossia la visione che l’essere umano deve acquisire di sé, non più come ente privilegiato destinato a dominare la natura, ma quale essere vivente integrato con tutti gli altri, e rispettoso del loro valore. “Le relazioni del sé ecologico non sono solo quelle che abbiamo con gli altri umani e con la comunità umana, ma anche quelle che abbiamo con altri esseri viventi”. Al di là delle grandi differenze che si registrano nell’ambito del pensiero ecologico, in definitiva, tutte le sue personalità concordano sull’esigenza di stabilire una nuova alleanza tra natura e umanità fondata su un nuovo concetto etico di responsabilità collettiva e che sia questo, peraltro, una condizione imprescindibile per attivare quello sviluppo sostenibile, presente, sebbene spesso solo in linea teorica, nell’agenda politica internazionale.
Vito Santarsiero
L’ora del biocentrismo
Le grandi scoperte scientifiche che hanno caratterizzato l’avvio del nostro secolo, dal bosone di Higgs alle onde gravitazionali, alle cosiddette correnti cerebrali (onde elettromagnetiche misurabili prodotte dal nostro cervello e da quello degli altri animali), se aprono sicuramente a nuovi spazi di conoscenze e ricerche nel campo strettamente scientifico, aprono anche a nuove riflessioni su quel filo conduttore, quello spirito universale che lega ogni esistenza presente nel pianeta e nell’universo, sul suo essere e sulla relazione che deve caratterizzare tutte queste presenze ed esistenze. Grandi sensibilità hanno già anticipato tali questioni: da San Francesco che , riconoscendo una spiritualità a tutte le specie viventi, affermava “e tutte le creature che sono sotto il cielo, ciascuna secondo la sua natura, servono, conoscono e obbediscono al loro Creatore meglio di te, o uomo”; al grande capo indiano Seattle che al presidente degli Stati Uniti, il grande “capo bianco” di Washington che chiese di acquistare una parte del territorio indiano, rispose “Come potete acquistare o vendere il cielo, il calore della terra? L’idea ci sembra strana. Siamo tutti parte della terra, e la terra fa parte di noi. I fiori profumati sono nostri fratelli; il cervo, il cavallo, la grande aquila sono nostri fratelli; le creste rocciose, l’aroma dei prati, il calore dei pony e l’uomo appartengono tutti alla stessa famiglia” ; al Dalai Lama che ricorda “ Tutto ciò che esiste, esiste solo perché è in comunicazione con tutto. Niente esiste per se stesso, ogni cosa ha la sua esistenza nell’altro”; così anche un grande filosofo come Leibniz nei suoi saggi scriveva “ ogni essere è un frammento luminoso dell’anima universale”. In un qualche maniera le stesse leggi della fisica, sia pure in altri modi, ripetono un uguale concetto; il teorema di Mozzi, per esempio, che ben conoscono coloro che hanno studiato la meccanica razionale, afferma che “ ogni atto di moto rigido è un atto di moto elicoidale”, per dire che ogni movimento degli oggetti va considerato come parte di un moto più ampio e completo, quello appunto elicoidale. Senza entrare nel merito di questioni che rimandano al credo delle diverse fedi, possiamo però affermare che, oltre le stesse religioni, siamo solo all’inizio di una nuova epoca destinata a cambiare la nostra visione dell’universo ed a farci meglio percepire quel disegno unitario e quella armonia che lo regolamentano unitamente alla variegata e complessa realtà di cui vive. Un’epoca destinata a proiettarci in una nuova dimensione con nuovi orizzonti cognitivi che ci consentiranno di meglio intercettare “l’altro”, che c’è, esiste e vive con noi, spesso confinato nei fenomeni “paranormali”, che i nostri sensi non percepiscono, per una estensione
del nostro sentire e delle nostre relazioni a quelle realtà ed a quei mondi che oggi non cogliamo o non vediamo e con cui non interagiamo, esattamente come l’uomo non riusciva ad immaginare, vedere o sentire le galassie, i buchi neri, o le voci e le immagini che si muovono attraverso le onde elettromagnetiche. In un meccanismo circolare, più sarà completa e matura la nostra evoluzione, più l’uomo comprenderà che è parte di un qualcosa di molto più ampio e complesso, più riuscirà a sviluppare quelle sensibilità per avere rapporti con le realtà “altre” e più riuscirà anche ad avere relazioni “sane” con il mondo che più direttamente lo circonda, quello del nostro stesso pianeta e delle sue molteplici forme di vita, superando in tal modo una limitata e limitante visione antropocentrista. Comprendere che è l’ora del biocentrismo e che occorre guardare con visione nuova e globale alla questione ambientale significa comprendere che, difendendo la vita in generale, si difende meglio anche l’uomo e si evita di rompere quei delicatissimi equilibri su cui si regge quella nicchia ecologica che è il nostro pianeta. Uno dei primi elementi che caratterizzerà questa nuova stagione e per certi versi favorirà il ritorno dell’uomo ad una sua condizione più naturale e propria, sarà proprio un suo rinnovato rapporto con gli animali, esseri che nell’Antico Egitto non solo erano parte del mondo degli dei e degli uomini ma erano anche considerati immortali. Lo stesso libro della Genesi è tutto permeato di una visione olistica in ordine alla presenza degli esseri viventi sulla terra, ed in esso il Signore più volte ricorda all’uomo che “ io vi do ogni pianta ed ogni albero fruttifero che fa seme: questi vi serviranno per cibo”. Invece oggi, ben oltre le esigenze di sussistenza - esigenze certamente da mutare, ma per certi versi ancora in parte comprensibili, perché figlie di errate culture e consuetudini secolari - assistiamo ad un pezzo di economia che vive senza coscienza del commercio delle carni di animali maltrattati e ferocemente assassinati. In un bel volume di Michele Campanozzi dal significativo titolo “Anche gli animali hanno un’anima” viene ricordato il biologo americano Balcombe, autore de “La vita emotiva degli animali”, il quale sostiene che “gli animali provano emozioni e sentimenti come gli umani, esprimono generosità, gratitudine, compassione e pietá, solidarietà, eroismo e percezione del dolore”. Occorre riconoscere che in tale contesto anticipano nuove sensibilità, evoluzioni biologiche e nuove visioni della relazione tra gli esseri presenti nel nostro pianeta tutti coloro che oggi per scelta “ideologica” vivono da vegetariani o, ancor più, da vegani.
Mara Sabia
Jorge Louise Borges. La Parola che compendia il mondo.
Nel pantheon dei poeti si trova Borges. Inavvicinabile, eterno, talmente molteplice che anche a scriverne suscita timore: impossibile coglierne la complessità, coglierne la “cifra”, nel suo labirinto di specchi infranti, biblioteche sconfinate, numeri indecifrabili, elenchi meticolosi. Borges resta il poeta che trae ispirazione dall’immanenza, dalla coesistenza di realtà, finzione, mondi reali, immaginati, infiniti. Bibliotecario cieco, instancabile viaggiatore, avido lettore dalla conoscenza enciclopedica, Jorge Louis Borges impiegò la sua esistenza nella ricerca del “libro assoluto”, del poema universale e unico. La sua produzione letteraria e la sua poetica, sono completamente protese verso un’unica molteplicità in una sorta di parola che compendia il mondo. La sua ispirazione è simbolo dell’atto creativo quasi impersonale, come se tutta la sua opera fosse una declinazione e un sunto della Letteratura che appartiene all’umanità e che, come tale, può esistere nella continua interpretazione – in modi sempre nuovi e sorprendenti - degli stessi temi. Una radice unitaria chiara che si dipana in tutte le opere a partire da “Fervore di Buenos Aires”. Anche gli animali nell’opera di Borges appartengono all’unità molteplice che mischia al reale l’irreale e che apre porte agi uomini su mondi sconosciuti. Immediato il pensiero si volge al “Manuale di zoologia fantastica” scritto con Margarita Guerrero nel 1957 (successivamente intitolato “Il libro degli esseri immaginari”), un bestiario redatto quasi come resistenza alla razionalità completa e arrogante di una certa arte per affidarsi, invece, alla fantasia creativa e feconda, ma in realtà tutta l’opera di Borges è pervasa dalla presenza di alcuni animali che si sommano alla realtà con le loro qualità quasi magiche. È il caso di Beppo, poesia dedicata da Borges al suo amato gatto, così chiamato in onore del personaggio del poema veneziano di Lord Byron. Il gatto bianco e celibe si guarda nella lucida lastra dello specchio e sapere non può che quel candore e le pupille d’oro non vedute mai nella casa sono la sua immagine. Chi gli dirà che l’altro che l’osserva è solamente un sogno dello specchio? Penso che questi armoniosi gatti, quello di vetro e quello a sangue caldo, sono fantasmi che regala al tempo un archetipo eterno. Così afferma Plotino, ombra lui pure, nelle Enneadi. Di che Adamo anteriore al paradiso, di che divinità indecifrabile siamo noi uomini uno specchio infranto? Beppo, in La cifra
Ciò che colpisce in questa poesia è l’idea che il gatto attraversi il tempo e gli dia eternità e significato: è il gatto che conferisce al tempo “un archetipo eterno”. Il gatto è anche ciò che induce il poeta a interrogarsi sull’uomo: senza soluzione di continuità Borges passa dalla filosofia antica, fino a chiedersi a quale enigmatica divinità appartenga l’uomo, che ne conserva traccia, sì, ma in un riflesso in frantumi, come uno specchio infranto. Dunque il tempo del gatto è un tempo eterno, ma è contemporaneamente lo stesso e superato tempo dell’uomo, di Plotino, di un Adamo precedente all’Eden e anche di Dio. Il gatto solo può attraversarlo perché fantasma, perché “enigma”. Borges non conosceva ancora Beppo quando scrisse un altro celebre componimento che egli descrive come “un sonetto profetico”: A un gatto. Non sono più silenziosi gli specchi né più furtiva l’alba avventuriera; sei, sotto la luna, quella pantera che a noi ci è dato percepire da lontano. Per opera indecifrabile di un decreto divino ti cerchiamo invano; più remoto del Gange e del Ponente tua è la solitudine, tuo il segreto. La tua schiena accondiscende la carezza lenta della mia mano. Hai accolto, da quella eternità che è già oblio, l’amore di una mano timorosa. Sei in un altro tempo. Sei il padrone di un ambito chiuso come un sogno. A un gatto in L’oro delle tigri Anche qui tornano il tema dello specchio, l’amore per i felini, che pare Borges amasse fin dall’infanzia – disegnava tigri soprattutto, scrivono i biografi- torna anche il topos della ricerca del divino, la possibilità dell’uomo di percepire solo lontanamente un segreto che il gatto rivela forse solo per un istante, in quella carezza che il felino asseconda con la schiena, scegliendo di farsi toccare con amore dalla mano lenta e timorosa del poeta. Torna qui soprattutto il topos dell’eternità: unico, molteplice, eppure diverso campo in cui si incontrano davvero l’uomo, il felino, l’universo e il divino. Dopo quella carezza il gatto torna nel suo tempo, un altro tempo. Suoi restano la solitudine e il segreto, essendo l’unico padrone di una eternità che agli uomini non è dato conoscere, ma solo vivere nell’istante di una carezza.
Medina Roma Art Gallery
Medina Roma Art Gallery è una factory nel cuore pulsante ed in fermento della capitale a due passi dal Colosseo. Dal 2016 segue un percorso di crescita nello scenario dell’Arte Contemporanea con esposizioni, mostre ed organizzazione di eventi (vernissage, reading, convegni, workshop, talk, presentazioni, temporary). Polo d’avanguardia caratterizzato dal concept-design minimale e moderno con allestimenti site-specific e linguaggi artistici che spaziano dalle forme più tradizionali a nuove formule visive con una spiccata propensione alle dinamiche del web e dei social (che hanno permesso la continuità del lavoro anche durante il periodo di lockdown covid-19 con la fruizione di esperienze digitali: online exhibit o viewing room). Attiva nella propria galleria romana e su tutto il territorio nazionale ed internazionale, ha costruito consolidate sinergie e partnership con Istituzioni, Ambasciate, Istituti bancari, di credito ed assicurativi, grandi aziende e Musei. L’esperienza maturata è stata costruita negli anni verificando, studiando e sperimentando nuove tendenze e correnti del settore dell’arte e della cultura. Sviluppando competenze artistiche, culturali, curatoriali e gestionali. Al netto di molte collaborazioni esterne, il team core interno vede l’Arch. Palma Costabile come responsabile e la Dott.ssa Annalisa Perriello come Art Curator & Manager.In una prospettiva evolutiva, fondamentale sarà la prossima partecipazione all’ESPOSIZIONE TRIENNALE DI ARTI VISIVE A ROMA nel 2021 (posticipata nel 2020 causa emergenza covid). Insieme a Palazzo Velli a Trastevere, sarà location “off / fuorisalone” con le proposte più sperimentali e d’avanguardia (le sedi istituzionali saranno Palazzo Borghese, Palazzo della Cancelleria e la Biblioteca Angelica). Grande spazio viene dato anche a Serate reading di poesie con il circolo letterario La Setta dei Poeti Estinti (di Emilio Fabio Torsello e Mara Sabia) al Museo Palazzo Merulana in collab. con CoopCulture, allo Stadio di Domiziano (Piazza Navona), al Castello di Santa Severa in collab. con Regione Lazio. Tutti gli eventi sono pubblicati ed archiviati sul sito www.medinaroma.com e sulle pagine social (www.facebook. com/medinaroma.arte e www.instagram.com/medinaroma.arte).
I LUOGHI DELL’ARTE
Fabrizio Perrone
Miglionico: il Polittico di Giovanni Battista Cima da Conegliano
Lo stupore e l’incredulità nel ritrovare la Lucania imperturbata dal tempo, riparata dal frenetico viavai della contemporaneità, sigillata in una sorta di atemporalità, sono fra gli aspetti più seducenti della nostra regione.“Cristo si è davvero fermato a Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania. Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l’ anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia. Cristo non è arrivato” Così, Carlo Levi, nel suo Cristo si è fermato a Eboli, traduceva la vera essenza della Lucania, descrivendo questa misteriosa terra illibata dal tempo. Eppure la spiritualità, che da sempre ha accarezzato questo popolo, non sembra essersi mai spaventata della sua ritrosia, pervadendola spesso sino al suo più intimo e remoto paese. Ecco quindi che la Lucania offre ancor oggi ai visitatori l’esempio, forse uno tra i più importanti, di una profonda spiritualità declinata nell’arte e nel vivere quotidiano. Veniamo al piccolo borgo; il “romito villaggio”: Miglionico, che custodisce, fra i suoi più importanti capolavori, il Polittico di Giovanni Battista Cima da Conegliano.Diciotto tavole, una cornice settecentesca, una storia travagliata che forse ancor oggi non è del tutto chiarita. Giovanni Battista, figlio di Pietro (cimatore di panni), di lui Giorgio Vasari scrisse: “Fece anco molte opere in Vinezia, quasi ne’ medesimi tempi, Giovan Batista da Conigliano, discepolo di Giovan Bellino…] E se costui non fusse morto giovane, si può credere che arebbe paragonato il suo maestro”.
LUCANIA INVENIENDA
Del resto la fama del Cima è senza dubbio alcuno ormai svelata, seppur si indugia spesso nel riconoscerlo uno dei maggiori interpreti del Quattrocento veneziano. Il suo essere ancorato ai legacci del tardogotico, il suo essere rimasto preda della rappresentazione sacra ha, forse, contribuito a scartare la possibilità di schierarlo fra i maggiori esponenti dell’arte tardo quattrocentesca. Si ha però la netta convinzione che proprio quel suo insistere su temi iconografici ormai stabili, abbia permesso al Cima di rinnovare, sempre nel segno della tradizione figurativa lagunare, il modo di interpretare le novità paesaggistiche, eliminando nella sua produzione più tarda l’ammaliante fondo oro delle sue tavole.Così il polittico di Miglionico, datato e firmato al 1499, si inserisce nella produzione tanto vasta quanto distintiva delle tavole con sfondo paesaggistico. Ricercare nella formulazione iconografica l’origine dei motivi paesaggistici, caratteristici delle sue tavole, ci ricondurrà quasi certamente al paese natio; Conegliano. Le diciotto tavole offrono nell’insieme uno fra i migliori esempi di produzione cimesca; al centro, la Vergine assisa in trono col Figliolo fra i Santi Francesco, Girolamo (a sinistra) Pietro e Antonio da Padova (a destra); nel comparto superiore: Santa Chiara, San Ludovico di Tolosa, San Bernardino da Siena e Santa Caterina d’Alessandria; nella cimasa, al centro tra l’Angelo annunciate e la Vergine annunciata, Cristo, mentre nella predella, i quattro Santi Protomartiri Francescani e San Bonaventura. L’iconografia prettamente francescana rimanda all’originaria ubicazione nella Chiesa del Convento francescano di Miglionico, come del resto già Martin Wackernagel nel 1907 ricordava in un suo fondamentale contributo pubblicato sull’Arte di Adolfo Venturi. L’incipit dell’articolo, in cui Wackernagel con suo grande stupore realizzava di essersi trovato dinanzi a diciotto tavole firmate
e datate dal Cima, ancora del tutto sconosciute, così recitava: “ L’arte di Venezia seguendo le strade del commercio cittadino andò largamente espandendosi attraverso i mari lontani, e non fa meraviglia l’incontrare in tante città delle coste meridionali insigni opere di pennello veneziano. Noi veniamo a segnalare invece alcune tavole che fanno testimonianza di quell’arte lontano da ogni porto di mare in un paese romito di montagna nella provincia di Potenza”.La resa pittorica e i lineamenti facevano pensare già di accostare queste tavole al coevo esempio della Madonna in Trono dell’Accademia di Venezia, meglio conosciuta come Pala Dragan, sino ad allora promossa per rappresentare gli ultimi anni del Quattrocento del pittore coneglianese. Proprio l’accostamento di queste due opere fece riflettere, come, sia la Vergine che tutto l’apparato miglionichese determinasse, oltre che un’ evoluzione pittorica del maestro, anche un nuovo assetto di periodizzazione biografica del Cima, che quindi con Miglionico riusciva ad aggiungere un tassello mancante, ma allo stesso tempo fondamentale per la vita dell’artista. Miglionico aveva così aperto una nuova via per gli studi sul maestro coneglianese, studi che ancor oggi vengono portati avanti affinché si possa, con esattezza, ricostruire la possibile storia del Polittico, a partire dal possibile acquisto sino alle più recenti evoluzioni. Ancora oggi la genuina espressione ‘di malcontento’ della Vergine, stupisce gli osservatori, mentre il Bimbo seraficamente aggrappato al manto (prettamente cimesco) della Madre, guarda il consesso di Santi che nelle loro sinuose movenze sembrano quasi proteggerlo; mentre in fondo, lo scenario immaginifico delle colline coneglianesi sembra scandire il tempo, evanescente nella sua figurazione.
Mario Saluzzi
La memoria di Palazzo San Gervasio ritrovata lungo la Via Appia
LUCANIA INVENIENDA
foto di Davide Pellico
Nell’estate del 2020, durante i lavori per la realizzazione della infrastruttura idrica “Bradano-Basento”, nei pressi della ex-stazione ferroviaria, in località Fontana Rotta, nei pressi del centro abitato di Palazzo San Gervasio, è stata scoperta una importante necropoli imperiale romana, datata tra il I ed il IV secolo d.C. Le tombe risultano allineate lungo un percorso, una strada che evidentemente esisteva già ai tempi in cui i defunti sono stati sepolti e che coincide con antiche ipotesi sul passaggio dell’Appia tra Venosa e Palazzo San Gervasio; nelle immediate vicinanze i resti di un edificio, seppure scavato solo in piccolissima parte, hanno già restituito materiale di gran pregio dell’età dell’imperatore Augusto. Gli elementi ritrovati hanno confermato quanto era stato precedentemente affermato nei lavori di ricerca relativi al villaggio dei guerrieri sanniti scoperto in località Casalini nel 2014 e la necropoli di Grotte di Caggiano, editi all’interno del Palazzo San Gervasio. Modalità insediative e pratiche funerarie dal territorio, a cura di Antonio De Siena e Tonia Giammatteo. Lo studio dei reperti e dei contesti scavati, tuttora in corso grazie ad una Convenzione tra la “Pinacoteca Camillo D’Errico” e la Soprintendenza -coordinamento organizzativo di Mario Saluzzi e direzione scientifica di Sabrina Mutino-, è stato quindi implementato con la ricognizione sistematica delle tracce archeologiche presenti nel territorio di Palazzo San Gervasio e dei paesi viciniori di Venosa, Banzi e Genzano di Lucania, ed hanno portato alla scoperta della presenza di due ponti sulla fiumara tra Venosa e Palazzo e le tracce di un acquedotto romano, che da Palazzo sembra ricollegarsi al famoso acquedotto fatto costruire da Erode Attico nel II secolo d.C. da Montemilone a Canosa. Il dato più significativo, che abbraccia e racchiude gli studi in atto, le ricerche in divenire e le testimonianze già affiorate, è quello relativo ad un rinnovato sentimento di identità, non locale ma comprensoriale e territoriale, che poggia il proprio comune sentire sulla Via Appia, la regina delle strade in età romana, il cui tracciato all’interno dell’area altobradanica rappresenta il connettore da cui si sono diramati i vari gangli insediativi, e sulle azioni messe in campo dalla Pinacoteca e Biblioteca “Camillo d’Errico” di Palazzo San Gervasio, le cui sinergie disciplinari e collaborazioni istituzionali l’hanno trasformata da contenitore culturale a volano per la ricerca e la promozione del territorio.
Il risultato di queste azioni si palesa nella riscoperta di un territorio troppo spesso dimenticato, non solo dai grandi progetti di indagine archeologica attuati in passato, ma a volte dai suoi stessi cittadini. La memoria ritrovata rappresenta proprio una nuova temperie culturale che sta investendo integralmente Palazzo San Gervasio e il suo Paesaggio Culturale; un centro abitato e un territorio che, con la collaborazione della gente del posto, stanno offrendo agli studiosi interessantissimi spunti di analisi e testimonianze materiali. Innegabile è il ruolo che questo territorio ha avuto in un periodo compreso tra il IV/III secolo a.C. e il XIII secolo. Qui l’edificazione infrastrutturale romana ha creato indubbiamente le premesse per il successivo sviluppo insediativo, perdurato fino alla piena età medievale, quando, una rinnovata attenzione per quest’area ha creato le basi per la costruzione di un caravanserraglio normanno, diventato poi un castello vero e proprio in età federiciana e manfrediana. Infatti, lo studio del castello e le indagini storico-archivistiche relative al comprensorio intercomunale hanno permesso a Nicola Montesano (San Gervasio. Palazzo dei Re, 2018) di identificare proprio Palazzo San Gervasio come luogo in cui Bianca Lancia, compagna di Federico II, partorì Manfredi nel 1232, durante una sosta del viaggio di trasferimento da Spinazzola a Melfi. Si aggiunga anche che la stessa struttura castellare è stata sede di un importante centro di allevamento e cura di cavalli, avviata proprio da Manfredi con un programma di selezione delle razze, attraverso un impegno multidisciplinare, sia scientifico nel campo dell’innovazione e della sperimentazione veterinaria, sia tecnico nell’allevamento e nell’addestramento dei cavalli destinati agli usi bellici e da parata. Un territorio e un centro urbano, quindi, caratterizzati dalla forte impronta storico-archeologica che sta finalmente affiorando, grazie all’azione intrapresa dall’Ente morale Pinacoteca “Camillo D’Errico”. A questa attiva istituzione culturale non sfugge come, per individuare le opportunità che un determinato territorio può offrire, sia nel campo culturale sia in quello turistico, sia indispensabile recepirne tutti gli aspetti, materiali ed immateriali, in modo da carpirne l’anima identitaria, il bagaglio di informazioni che esso è capace di trasmettere.
Il concetto di Mente Universale implica la teoria secondo la quale le energie psichiche dei singoli un giorno confluiranno - come gocce d’acqua - in rivoli, ruscelli, fiumi ed infine in quel Mare che rappresenta il motore evolutivo della nostra specie. Caterina Arcuri nelle sue installazioni alla Galleria Nazionale di Cosenza (Co-ABITAZIONI a cura di Simona Caramia e Camilla Brivio, dal 3 luglio al 9 settembre 2021) sembra ragionare su questa affascinante teoria in due momenti: mediante la costruzione di una vera e propria macchina, KA2019, per la captazione e la condensazione dell’alito vitale, la Nephesh dell’Antico Testamento; mediante una installazione, Preveggenza, che mostra come, data una civiltà, gli esiti evolutivi della stessa possano essere molteplici ed imprevedibili. Se KA2019 consente di individuare la consapevolezza di noi stessi e del mondo come fattore indispensabile per la salvezza della specie umana, Preveggenza descrive il percorso lungo il quale una successione di eventi si verifica e quanto marginale possa essere il nostro ruolo, una volta che determinate dinamiche siano state innescate. Le due installazioni risultano, dunque, concettualmente speculari e l’invito che ne riceviamo è quello di vivere tenendo gli occhi aperti sia sulla realtà a noi circostante che sulle nostre emozioni e sui nostri sogni per poi scegliere se esprimerci, prendendo una posizione, o tacere, consci che al nostro silenzio di oggi corrisponderà la passività di domani. Viviamo un’epoca di crisi e di scelte cruciali e il ruolo dell’Artista è tornato ad essere quello di Custode della (nostra) Libertà. Caterina Arcuri in più occasioni ha dimostrato zelo nello svolgere questo compito ma stavolta fa rilevare una accorata premura in ogni gesto e in ogni scelta compiuti prima di lasciare che il Pubblico incontri la sua macchina e la sua installazione, come chi sa che il tempo stringe. Giancarlo Riconosciuto
CATERINA ARCURI
Non c’è tempo
KA2019, 2019-21 - Macchina sensitiva Dimensioni ambiente