E G I D A ’ L L E D A S N l’A per un’alternativa sociale ed economica
2
L’ARSENALE AI VERONESI Patrimonio dell’Umanità o monopolio di privati? Il Comitato civico non ha dubbi: l’ex caserma austriaca è della città 1
L’ansa dell’Adige - trimestrale - n°2 marzo/2013 - preiscrizione Tribunale di Verona 285/2012 VG - Poste Italiane SpA - Spedizione in Abbonamento Postale - 70% NE/VR
L’ansa dell’Adige Editore Studio Editoriale Giorgio Montolli Lungadige Re Teodorico, 10 - Verona www.smartedizioni.it Direttore editoriale Michele Bertucco Direttore responsabile Michele Marcolongo Stampa NE&A print Viale Del Lavoro 12/A, Villafranca (VR) Preiscrizione Tribunale di Verona 285/2012 VG del 28/01/2012 Numero 2, marzo 2013
Riprendiamoci il pianeta Terra oggi nelle mani del capitale finanziario
SOMMARIO Fermare il declino... quello di Verona
04
Il lavoro al centro Lo sviluppo riparte dalle competenze
05
Balene spiaggiate La grande distribuzione in tilt
06
Fondazioni a servizio... delle banche
07
Paga Pantalone
08
Cattivi esempi: la TAV
09
Decrescita felice (e infelice) in tempo di crisi
09
Dove va la politica? Scarsa progettualità e niente rete
10
Arsenale di Verona No alla privatizzazione
11
Il tram-treno
12
Io sono molto ricco
14
La soluzione siamo noi!
14
Le mafie a Verona: la cronaca racconta di una presenza reale
15
Per un’alternativa sociale ed economica. Questa e’ la nostra ricerca cercando di federare e far confrontare le forze progressiste politiche, culturali e associative della nostra citta’ e uscire dal letargo culturale e politico in cui siamo caduti dopo la crisi della prima repubblica. Solo confrontandoci e mettendo assieme il meglio della storia delle forze della sinistra sociale e politica e il nuovo che emerge dalla societa’ civile e facendo tesoro della capacita’ di sintesi possiamo cominciare a costruire assieme la “nuova politica”. Le gravi crisi dell’economia globale, specie finanziaria, sviluppatesi a partire dal 2008 ha portato il mondo in un vicolo cieco. Praticamente si sono accettati il neoliberismo – nella sua veste di globalizzazione del sistema capitalistico – e l’egemonia mondiale del capitale finanziario, come una ineluttabilità storica priva di alternative, in nome di una difesa dei valori democratici e occidentali (tra l’altro in crisi anche in Europa e negli USA) e di uno sviluppo economico che però risulta distorto e basato più sulla quantità che sulla qualità. Praticamente il governo del mondo è nelle mani non più degli stati, ma del capitale finanziario – che specula e non produce – e del sistema delle multinazionali ad esso legato, che risulta sovranazionale e privo di ogni mandato e controllo politico. Basti un dato: se il PIL mondiale è 1 il capitale finanziario – la cartastraccia – vale da 13 a 15 volte. Può una persona con il suo lavoro mantenere 13 o 15 persone che vivono solo sul guadagno che da la carta ossia la speculazione sull’unica unità lavorativa? E’ chiaro che non funziona! Tutte le religioni hanno sempre ritenuto che l’unica fonte della ricchezza devono essere il lavoro e i mezzi di produzione, condannando in vario modo l’usura, ossia la mera speculazione finanziaria. Senza scomodare Karl Marx bastano i padri del liberismo economico Smith e Riccardo per trovare la stessa filosofia economica; anche se gli interessi su somme investite nel commercio e nella produzione erano ritenuti legittimi, mai nessuno ha negato la centralità del lavoro sia
subordinato che autonomo e, quindi, anche dell’impresa che produce ed a cui il sistema creditizio deve dare un supporto senza condizionare, comandare e sfruttare speculando oltre ogni limite razionale. Che dialogo si è instaurato per costruire un progetto comune di trasformazione della società globale e per far prevalere lo sviluppo a favore dell’uomo e non a favore del capitale finanziario? Che proposta politica dobbiamo formulare per unificare in modo nuovo le forze progressiste con un’Europa senz’anima, che parla solo di spread e di Banca Centrale Europea, con rigurgiti fascisti, nazionalisti e di destra? E’ indubbio che bisogna sostituire un’economia basata sull’accumulazione di carta straccia con un’economia che punti alla globalizzazione delle risorse umane, per un sviluppo equo e solidale. Non più il denaro fine a se stesso ma la socialità e la solidarietà come elemento fondante di una società diversa, dove libertà eguaglianza e solidarietà siano valori pregnanti e diffusi e in cui scienza e tecnologia siano strumenti di miglioramento di vita per tutti. A ognuno secondo le sue capacità a ognuno secondo i suoi bisogni nell’ambito di una società che sappia garantire condizioni di partenza eque. E’ importante ricreare non solo una sinistra sociale e politica in Italia, ma ricercare il dialogo a livello internazionale con tutte le forze che sono alla ricerca di questa trasformazione senza chiusure culturali ed ideologiche. Su questo terreno il nostro confronto deve essere aperto superando le varie botteghe per la costruzione di una nuova proposta politica che superi l’esperienza della sinistra storica e si apra al nuovo, passando dalla protesta alla proposta, definendo un soggetto nuovo, aperto e federato, che ci porti alla transizione da un sistema economico e sociale superato, irrazionale e ingiusto ad una nuova socialità, un mondo nuovo di liberi eguali, fratelli nei fatti e non solo nelle parole dei programmi elettorali.
Massimo Guerra
l’ansa dell’adige
A Verona non si parla di economia e lavoro Il sistema delle aziende partecipate e controllate, dall’Aeroporto alla Fiera, dal Consorzio ZAI alla Fondazione Arena potrebbero essere una risorsa, ma...
IL PUNTO
E’ nella costruzione di una vera area metropolitana comprendente i centri urbani limitrofi di Brescia, Vicenza, Mantova, Trento che il Comune di Verona può rafforzare logistica, turismo, trasporti e valorizzare le produzioni locali concertando una efficace azione di marketing territoriale
Nel 2012 sono state registrate più di 17 milioni di ore di cassa integrazione nella provincia di Verona con un trend in continua crescita che non accenna a calare nei primi mesi del 2013. A ciò si aggiunge un diffuso senso di incertezza rispetto al futuro che investe non solo il lavoro dipendente ma anche il mondo delle professioni, particolarmente presenti a Verona e che risentono fortemente del generale rallentamento dell’economia. A fronte di questo quadro, in cui convivono punti di forza e punti di debolezza, il Comune del capoluogo, pur non avendo competenze specifiche in materia di collocamento e politiche attive del lavoro, potrebbe svolgere un ruolo di primaria importanza per lo sviluppo generale dell’economia e dell’occupazione. Innanzitutto dovrebbe monitorare la situazione per conoscere la realtà e intervenire là dove la crisi morde con più forza, fornendo alle parti sociali il quadro di riferimento su cui esercitare le loro prerogative. Oggi questo quadro non c’è e si interviene per inerzia soltanto quando le emergenze non possono più venire ignorate (vedi ex Mondadori Printing, Fondver, Mazzi Costruzioni e via elencando). Ma il Comune di Verona se vuole ha potenzialità ben più importanti. Il sistema delle aziende partecipate e controllate, dall’Aeroporto alla Fiera, dal Consorzio ZAI alla Fondazione Arena, costituiscono una leva formidabile per rilanciare l’economia e l’occupazione dell’area comunale e provinciale che attualmente fornisce una forte riduzione. Per svolgere un ruolo nello sviluppo attraverso le aziende partecipate occorre però una strategia che coinvolga anche le aziende di servizio pubblico locale (acqua, energia elettrica, gas, rifiuti, trasporti). Trasparenza, professionalità e competenza sono requisiti necessari ma ancora non sufficienti: serve un passo indietro della politica nella loro gestione.
Il Comune deve preoccuparsi di fornire servizi di qualità al prezzo più basso piuttosto che trasformare le aziende pubbliche in puro sostegno al proprio bilancio o in posti dove esercitare il proprio potere clientelare. Alcune dismissioni possono essere fatte, come quelle nelle autostrade. In altre, come Fiera e Aeroporto, serve trovare un partner industriale che porti capitale ed idee per sviluppare l’attività. Acqua e rifiuti devono invece restare in mano al pubblico. Infine, le alleanze. Se il raggio della nostra azione per lo sviluppo è l’area metropolitana, è anche attraverso rapporti tra le aziende di questi territori che si realizza questa prospettiva. Senza escludere, anzi, la possibilità per società come l’Aeroporto di guardare a possibili alleanze verso la Germania, in particolare Monaco, avendo come base le scelte industriali e non quelle dettate dalle affinità politiche con questa o quell’altra amministrazione locale o regionale. In particolare, è nella costruzione di una vera area metropolitana comprendente i centri urbani limitrofi di Brescia, Vicenza, Mantova, Trento che il Comune di Verona può rafforzare logistica, turismo, trasporti e valorizzare le produzioni locali concertando con loro una efficace azione di marketing territoriale. Invece, la strategia del Comune di Verona è rivolta solo a continuare una politica deleteria di consumo di suolo e di trasformazione urbanistica della città. Colate di cemento per nuovi centri commerciali e direzionali. Un modello di sviluppo economico che proprio in momento di crisi come questo mostra tutti i propri limiti: non crea nuova occupazione, anzi perde posti di lavoro e continua una politica irreversibile di perdita di territorio naturale.
Michele Bertucco
l’ansa dell’adige
Fermare il declino... quello di Verona di Giancarlo Montagnoli Quello che colpisce di più è il silenzio, il silenzio di imprenditori, professionisti, artigiani, commercianti e loro categorie di rappresentanza di fronte al declino di Verona. Sì, perché quando hai l’Aeroporto Catullo in rosso da alcuni anni, la Fiera da troppo tempo in difesa, il Consorzio Zai che fatica ad attrarre imprese, l’autostrada Serenissima passata silenziosamente in mano privata e la Fondazione Arena in costante calo di spettatori è difficile negare che il declino c’è. E non si può cavarsela dicendo che è solo colpa della politica perché a capo di alcune di queste realtà (l’aeroporto, soprattutto, ma anche la Fiera) ci sono stati spesso professionisti e rappresentanti della cosiddetta società civile. Per la verità un paio d’anni fa il presidente dell’Associazione industriali aveva steso pubblicamente una piattaforma per una vertenza con la politica e aveva coraggiosamente indicato proprio nell’aeroporto, nella Fiera e nel consorzio Zai le priorità a cui mettere mano. Poi, però, non c’è stato seguito e tutto è andato avanti come prima, peggio di prima. Certo, nessuno è così cieco da non vedere che siamo in periodi di vacche magre e, conseguentemente, di difficoltà globali che si ripercuotono anche sulla nostra città. Ma è proprio di fronte alla progressiva complicazione del quadro che non si vedono accelerazioni, sforzi eccezionali né nel merito né nel metodo. Non che la politica, quella del Comune o della Provincia, siano esenti da responsabilità. Anzi, sarebbe proprio questo il momento giusto perché la Politica (maiuscola d’obbligo) svolgesse fino in fondo il suo ruolo di mettere insieme, di unificare, di indicare priorità, di proporre scelte sollecitando tutti ad alzare lo sguardo. Invece no. Emblematica la vicenda della vendita delle quote della Fiera da parte del Comune per fare un esempio di come non si deve fare. Infatti, se è condivisibile la scelta di ridurre la presenza del Comune nella compagine societaria, si è persa l’occasione di aprire a partner industriali così come al rafforzamento dell’area metropolitana attraverso il coinvolgimento delle province limitrofe. Ma soprattutto, sull’aumento della partecipazione si è
4
consumata una grave frattura all’interno della Camera di Commercio: insomma, l’Amministrazione comunale ha salvato il suo bilancio e gli altri (Fiera compresa) si arrangino. Su questa storia, poi, di dismettere o di aumentare la presenza del Comune nelle partecipate non è chiaro quali siano le linee guida. Ad esempio, perché dare 2.700.000 euro alla società autostradale Serenissima (ed è solo la prima tranche) quando la maggioranza è ormai passata al privato? Forse per mantenere il finanziamento per il traforo, ma sarebbe meglio starne alla larga così come hanno fatto praticamente tutte le città capoluogo del Veneto (e non solo) di qualunque colore politico. E quasi tre milioni, di questi tempi, potrebbero essere più saggiamente utilizzati in opere pubbliche (manutenzione delle scuole, marciapiedi o altro di simile). Sulla Fondazione Arena il discorso è diverso per la caratteristica culturale, oltre che economica, dell’ente. Solo due osservazioni. La prima è che il centenario del 2013 è già una occasione sprecata: senza entrare nel merito del cartellone, quello che è mancato è la ridefinizione del rap-
porto con la città. La seconda la prendiamo in prestito da quanto detto qualche tempo fa da Paolo Arena che, da presidente di Confcommercio e da ex componente del consiglio d’amministrazione, ha suggerito di mettere in atto aggressive politiche di marketing che coinvolgano l'intero sistema Verona per non giocare sempre e solo sui mercati tradizionali, ampliando il bacino di utenza e gli spettatori. Anche in questo caso, però, alle parole non sono seguiti i fatti. Insomma, o la politica e le categorie economiche, insieme, riprendono l’iniziativa sulla città o siamo destinati a scivolare ai margini, lentamente ma inesorabilmente. E quando i segni saranno ancora più evidenti sarà troppo tardi. E un disegno comune, oggi, è indispensabile anche perché le soluzioni dovranno fare sempre di più i conti con Roma, alla faccia della Padania o della macroregione del nord che dir si voglia. Infatti, non sarà solo necessario batter cassa, cosa sempre meno praticabile di questi tempi, ma soprattutto dimostrare di saper costruire strategie territoriali attorno alle società deputate allo sviluppo del territorio veronese e metropolitano. L’esempio della mancata concessione di Montichiari è quello che viene in mente per primo. E se questa non può prescindere dal piano nazionale degli aeroporti, non meno importante per la Fiera è il quadro nazionale del sistema fieristico e per il Quadrante Europa il piano nazionale della logistica e per la Fondazione Arena la riforma nazionale degli enti lirici. In tempo di elezioni è importante la squadra dei parlamentari, ma lo è ancora di più la capacità del territorio di condividere scelte e strategie.
l’ansa dell’adige
Il lavoro al centro Lo sviluppo riparte dalle competenze di Michele Corso* La crisi finanziaria, economica, sociale ed occupazionale, assieme all’assenza negli ultimi 20 anni di una politica industriale hanno messo a nudo e senza mezzi termini i punti deboli ed evidenziato l’insostenibilità del modello di sviluppo, abbandonato alle forze di mercato, dominante. La crescita vertiginosa delle diseguaglianze, il 10% della popolazione detiene il 60% della ricchezza del paese, e la perdita del peso politico e del valore del lavoro, quali risultati di questo modello di sviluppo che ha incentivato le rendite a scapito degli investimenti reali o disincentivato la ricerca e l’innovazione, hanno prodotto una doppia società: una società «vincente» con ampi settori di capitalismo territoriale che hanno visto crescere prestazioni, accumulazione di capitale, ricchezze materiali e influenze politiche contrapposta ad una società «soccombente» con il lavoro che viene smontato sotto il profilo giuridico, contrattuale e materiale e che paga sempre di più e lo fa anche per chi invece evade in maniera sistematica. Se a questo sommiamo il fatto che l'apparato industriale e di servizio del nostro territorio non contiene al proprio interno le conoscenze e le professionalità, le competenze di cui avrebbe bisogno per produrre un salto di qualità (in termini di innovazione e di competitività) che gli manca, emerge che la strada perseguita per competere è stata e continua ad essere la strada della svalutazione competitiva del lavoro. Si tratta nei fatti di una strategia miope che ha contribuito a determinare una specializzazione produttiva a basso livello tecnologico e utilizzo della conoscenza, nonché una dimensione cronicamente troppo piccola delle imprese, delocalizzazioni e non internazionalizzazioni, elusione fiscale e contributiva, compressione della legalità, dei diritti, della sicurezza. L’industria italiana versa in condizioni drammatiche: ci sono oltre 300 tavoli di crisi aperti con il governo che vedono coinvolti 180.000 lavoratori e secondo dati INPS, a novembre 2012, 520.000 lavoratori in cassa integrazione a zero ore (ordinaria, straordinaria e in deroga), per oltre 4 miliardi di ore richieste complessivamente dall’inizio della crisi (2008). Confrontando il 2012 sul (2011) per il periodo gennaio-novembre per Verona (dati di VenetoLavoro) emergono i seguenti dati: – 181 (111) aperture di crisi per un numero di lavoratori coinvolti pari a 4.321 (1.868), metalmeccanico, edilizia/legno e commercio i settori più colpiti; – 10.523.786 (10.312.100) ore di cassa integrazione ma con un’esplosione della CIGS in deroga pari a 3.349.575 (2.681.207). Questa situazione ci impone di scegliere fra due scelte alternative di fondo: competere sui costi e sulla svalutazione del lavoro oppure rilanciare la crescita, sostenendo la domanda interna, l’occu-
L'apparato industriale e di servizio del nostro territorio non contiene al proprio interno le conoscenze e le professionalità di cui avrebbe bisogno per produrre un salto di qualità in termini di innovazione e di competitività
pazione, i redditi da lavoro e dall’altro, l’offerta per agire di riflesso sulla domanda, attraverso un nuovo intervento pubblico in economia per creare un contesto competitivo. Convinto che non è attraverso l’abbassamento del grado di civiltà di un paese e del depauperamento industriale del territorio che si garantisce la crescita economica, vogliamo attraverso il Piano del Lavoro mobilitare i lavoratori e sfidare gli imprenditori, il Comune, la Provincia per: impedire che vengano continuamente cancellati i diritti di cittadinanza e del lavoro; confrontarci sulla qualità della crisi e come viene affrontata; affermare che il tema non è quello di lavorare di più e diminuire il salario; affrontare il rapporto tra grande e piccola impresa e aziende pubbliche; affrontare il nostro modello organizzativo attraverso la contrattazione e la negoziazione di II livello; rilanciare la programmazione; ridefinire la natura e la qualità dell’intervento pubblico nell’individuazione delle finalità di governo e gestione territoriale necessari; definire gli strumenti di pianificazione urbana, di regolazione dell’ambiente, di gestione economicamente appro-
priata delle società di servizio locali. È per queste ragioni che credo che non sia più procrastinabile rimettere in campo il diritto umano di base incentrato sulla valorizzazione del lavoro del diritto del lavoro quale fondamento e difesa della democrazia, e fondamento per la promozione e lo sviluppo delle persone a cittadini a pieno titolo.
*Segretario Generale CGIL Verona
l’ansa dell’adige
Balene spiaggiate La grande distribuzione in tilt Anche la GDO (abbreviazione della Grande Distribuzione Organizzata), ossia la catena distributiva dei supermercati e degli ipermercati, non è esente dalla profonda crisi che sta attraversando il nostro Paese. Anzi, nel ricco Nord Est, e nello specifico nella Provincia di Verona, il settore soffre più della piccola e media distribuzione, dove gli hard discount ed i supermercati solo alimentari stanno guadagnando terreno con la strategia, ora più che mai vincente, dei prezzi bassi (su tutta la spesa e non solo sugli articoli in promozione) e dei bassi costi di gestione, con pochi dirigenti e senza le elefantiache ed onerose strutture nazionali che gravano poi sui singoli punti vendita. Neppure il “regalo” fatto dal passato governo tecnico (evidentemente poco competente in questo settore) alla GDO è stato utile: ha permesso a tutti di aprire la domenica (ed anche le altre festività), con l'effetto di “spalmare” sempre i soliti soldi, in molti casi sempre meno, disponibili per la spesa su sette giorni anziché sei; risultato: gli incassi settimanali non aumentano, anzi in per molti punti vendita sono sensibilmente diminuiti, ma in “compenso” aumentano le spese di gestione (corrente elettrica, acqua, climatizzazione e, seppur di poco, anche la spesa del personale). Dicevano che le aperture domenicali avrebbero, in cambio di questo disagio per il lavoratori, portato nuovi posti di lavoro: niente di più falso. Non solo non sono aumentati i postidi lavoro, anzi, in alcuni casi è successo il contrario. A farne le spese, oltre che gli utili di questi grossi punti vendita, sono soprattutto i lavoratori impiegati, per lo più donne, direttamente (i di-
Complici di una situazione lavorativa degradata sono i sindacati confederali che hanno intrapreso una strategia difensiva molto debole, meno combattiva rispetto al passato pendenti) o indirettamente (lavoratori interinali ed in appalto esterno), che si vedono costretti, loro malgrado, a fare turni di lavoro sempre più flessibili, che spesso si scontrano con le necessità familiari, durante la settimana e soprattutto la domenica (con turni più lunghi rispetto a quelli settimanali) e con una retribuzione di fatto inferiore. Domeniche che se una volta, per la maggior parte dei dipendenti erano facoltative e ben pagate (in quanto ore di lavoro straordinarie con maggiorazioni oltre al 30%) ora sono divenute obbligatorie e con la sola maggiorazione del 30% e in taluni casi, come ad esempio le già malpagate “donne delle pulizie” (la cui paga oraria netta non supera i 5 euro) non viene neppure più riconosciuta questa misera maggiorazione. “Complici” di questa degradata situazione lavorativa anche i sindacati confederali (soprattutto CISL e UIL ma anche la solitamente più in-
transigente CGIL), che hanno passivamente intrapreso una “strategia” difensiva molto debole, meno combattiva rispetto al passato e sempre più accomodante, con “buona pace” dei lavoratori di questo settore, che di conseguenza si sentono sempre più abbandonati a se stessi, rassegnati e avviliti. Un esempio di punto vendita in crisi è lo storico ipermercato di Bussolengo Auchan, ex Città Mercato, il primo punto vendita della GDO della provincia di Verona, che da anni va promettendo una grande ed importante ristrutturazione ma che recentemente ha dichiarato 35 esuberi (anche se a detta di tutti i lavoratori di questo punto vendita la forza lavoro sarebbe sotto organico). Ricordiamo che questo punto vendita già lo scorso hanno aveva attuato una riduzione del personale, di qualche decina di persone, concordando con il sindacato una mobilità su base “volontaria” (ora molti di questi fanno parte dell'ampia schiera dei lavoratori così detti “esodati”). Discorso a parte andrebbe fatto per la GDS (abbreviazione della Grande Distribuzione Specializzata) ossia le catene specializzate, ed anche qui abbiamo l'esempio del punto vendita FNAC di Verona che, come altri dello stesso gruppo, rischia la chiusura se non trova in tempi brevi un'acquirente. Molti dei punti vendita della grande distribuzione odierna sono come delle grandi balene arenate sulla spiaggia, che all'interno del proprio ventre contengono dei lavoratori sempre più boccheggianti. Rosso Malpelo
l’ansa dell’adige
Grazie alla legge Ciampi del 1999 il sistema fondazioni ha garantito un importante “aiuto di stato” alle banche. Un patrimonio che nel 2010 si stimava di 50 miliardi di euro. Un tesoretto a cui attingere a piene mani. La campagna “Dichiariamo illegale la povertà” evidenzia come fuori legge il duplice ruolo delle fondazioni: come banche e allo stesso tempo promotrici della redistribuzione della ricchezza
di Ismail Ali Farah Nel 2013 la Fondazione Cariverona riuscirà a mantenere la stessa quantità di erogazioni assicurata nel 2012. Anzi, qualcosa di più: 54,1 milioni contro i 51,56 stanziati lo scorso anno. Il bicchiere pare mezzo pieno, dunque, ma di lacrime, mentre è la sua parte vuota a preoccupare. Il bilancio definitivo 2011, approvato lo scorso anno, segnava infatti un patrimonio netto di 2,6 miliardi, quasi il 40% in meno rispetto ai 4,3 del 2010, mentre circa il 38% delle erogazioni 2013, ben lontane dai 107 milioni stanziati nel 2011, saranno prelevate dal Fondo di stabilizzazione, cassaforte per i tempi difficili. La crisi morde e le Fondazioni sembrano limitarsi al ruolo di meri sacrifici offerti sull’altare della ricapitalizzazione delle banche. Ne sa qualcosa la Fondazione Mps, unica, nonostante le disposizioni di legge, a continuare a controllare una quota di maggioranza della propria banca (Monte dei Paschi di Siena), per questo schiacciata lo scorso anno sotto il peso dei debiti contratti per salvare l’istituto di credito. Grazie alla legge Ciampi del 1999, il sistema fondazioni ha garantito di fatto negli scorsi anni un importante “aiuto di stato” alle banche con il minimo delle ingerenze. Gli Enti, infatti, per loro natura, si devono limitare a svolgere un ruolo istituzionale in seno alle banche, senza incidere direttamente sulle scelte degli istituti di credito. Risultato: in sei anni le fondazioni di origine bancaria hanno bruciato il 41% del loro patrimonio. Soldi pubblici, è bene ricordare, perché, nonostante si tratti di organizzazioni di natura privata, il patrimonio proviene proprio da quegli istituti bancari di diritto pubblico privatizzati nel 1990 dalla legge Amato-Carli. Un patrimonio, si stimava nel 2010, di 50 miliardi di euro. Un tesoretto, evidentemente, a cui attingere a piene mani. È troppo presto per fare una valutazione della riforma Amato, secondo l’ex ministro dell’Economia Vittorio Grilli, al quale hanno replicato gli economisti Tito Boeri e Luigi Guiso, che chiedono la definitiva uscita delle fondazioni dalle banche conferitarie, paragonando l’inazione del governo Monti sulla materia ad un «brindisi sulla plancia del Titanic». A questo punto, sostengono i due, «forse è meglio rimettere mano alla legge e permettere che il patrimonio delle fondazioni, prima di sparire del tutto, venga utilizzato per ridurre il debito dello Stato». La pensa diversamente Giuseppe Guzzetti, presidente dell’Acri (associazione che riunisce fondazioni e casse di risparmio italiane), che difende le scelte fatte in materia di investimenti bancari definendoli, ad eccezione del caso Mps, una «tutela del patrimonio» e non la sua erosione. «Non abbiamo sposato le banche» ha inoltre dichiarato lo scorso luglio Guzzetti, prospettando una possibile uscita delle fondazioni
Fondazioni a servizio... delle banche una volta recuperato il patrimonio perduto. Sulla stessa linea di Boeri – ma per ragioni diverse – i promotori della neonata campagna “Dichiariamo illegale la povertà – Banning Poverty 2018”, avviata lo scorso ottobre con il sostegno di numerose associazioni e riviste, tra cui le missionarie veronesi Nigrizia e Combonifem. L’obiettivo? Far approvare dall’Assemblea generale dell’Onu nel 2018 una Risoluzione che dichiari l’illegalità di norme, istituzioni e pratiche all’origine della povertà. Tra queste figurano anche le fondazioni bancarie, incompatibili, secondo la Campagna, nel loro ruolo di banchieri e allo
stesso tempo di promotori della redistribuzione della ricchezza. Di fronte all’indebolimento del welfare di Stato, la politica avrebbe progressivamente delegato le proprie prerogative al privato di nomina pubblica, che, nella veste specifica delle fondazioni, sembra aver assunto la forma della carità borghese in perfetto stile vittoriano, svuotando il senso stesso di ciò che in oltre mezzo secolo è diventato un diritto. Il dibattito è aperto, dunque, tenendo presente che una nuova ondata di ricapitalizzazioni lascerebbe della torta solo poche briciole.
Un futuro incerto È desolante il quadro offerto dal report sulle 88 fondazioni bancarie italiane pubblicato da Mediobanca Securities il 28 maggio scorso, dal titolo “Italian banking foundations”, curato da Andrea Filtri e Antonio Guglielmi. Sono tre le simulazioni elaborate dagli esperti, tra queste una, la più ottimistica, prospetta per le Fondazioni un recupero dei livelli pre-crisi solo nel 2058. Se, invece, il rapporto tra i dividendi provenienti dalle banche d'origine e le erogazioni dovesse rimanere stabile sui livelli del 2010, la Fondazione Cariverona vedrà esaurito il patrimonio nel 2038, la Mps nel 2041, la Cariplo nel 2054, la Compagnia di Sanpaolo nel 2067, la Caritorino nel 2088 e la Cariparo nel 2100. Nel caso in cui le sei si aggregassero, entro il 2030 perderebbero un terzo del loro valore patrimoniale, per vederlo azzerato nel 2061. Sul versante della governance, Filtri e Guglielmi assolvono, a sorpresa, la politica, troppo impegnata, secondo gli esperti, a spartirsi la torta dei capitoli di spesa in interventi spot a breve termine, per preoccuparsi degli investimenti di lungo periodo. Più che ad una volontà, le ragioni sono attribuite a scarse capacità manageriali dei board nominati nelle fondazioni: solo l’1%, infatti, avrebbe competenze di finanza. A questo si aggiunge un gruppo dirigente di pietra (e in uscita), da quasi venti anni alla guida delle principali fondazioni bancarie italiane. È così per Andrea Comba (Caritorino), Paolo Biasi (Cariverona) e lo stesso Guzzetti (Cariplo). Tra manager di stato e politica sarebbe lecito dunque chiedersi quale prevalga. Neanche la Carta delle Fondazioni, tentativo di autoriforma approvata dall’Acri nel 2012, sembra essere sufficiente: priva di mezzi per la sua stessa implementazione, secondo lo studio di Mediobanca.
7
l’ansa dell’adige
Paga Pantalone «I cittadini, che già pagano il pubblico con le tasse, pagheranno una seconda volta i privati perché realizzino opere in project financing, riconoscendogli pure sostanziosi guadagni. E a Verona abbiamo esempi per tutti»
Piazza Corrubbio (rendering del progetto)
di Alberto Sperotto Il parcheggio di piazza Corrubio ci costerà 14,355 milioni di euro. Doveva essere a costo zero per il Comune, invece dovremo pagare più di 14 milioni alla ditta Rettondini che si è aggiudicata, con gara andata deserta, costruzione e concessione del parcheggio. Il motivo sono i soliti 4 sassi, o meglio 4 ossa, che cocciutamente si sono messe di traverso al cantiere. Una grande sorpresa. Chi avrebbe mai sospettato una tale resistenza archeologica a 50 metri dalla basilica di San Zeno! Così il Comune, non potendo patteggiare con la storia, propone alla Retondini di diminuire lo spazio di scavo “sacrificando” 86 posti auto (da 300 a 214) e riducendo di 6 mesi i lavori. Alla Rettondini non è parso vero e ha quantificato il “disagio” in 290mila euro/anno per la durata della concessione (49,5 anni) ripagato dal Comune con i ricavi di 48 stalli in via Lenotti e di 56 in piazza San Zeno per 160mila euro/anno. Ma ne mancano ancora 130mila/anno che pare dovranno essere versati dal Comune in contanti. Un affare per la Rettondini (specie considerati i picchi da ben 10 auto parcheggiate al parcheggio di piazza Corrubio) che potrà contare su introiti cash dal Comune e da altri parcheggi dove dovrà incaricarsi solo della riscossione essendo il Comune a farne la manutenzione. Ma è il bene pubblico che sfugge: un parcheggio interrato dovrebbe togliere auto dalle strade, mentre piazza San Zeno rimarrà piena di auto con la sola differenza che la sosta sarà a pagamento anziché gratuita com’è oggi. Grazie assessore Corsi per
8
la sua lungimiranza e la sua premura verso le tasche dei cittadini! E sempre la Mazzi è nel project financing degli ospedali di Borgo Trento e Borgo Roma, sprofondato nell’assordante silenzio della politica veronese e assegnato per 108 milioni all’ATI con capofila la coop rossa Coop. Muratori e Braccianti di Carpi (con sede in via Carlo Marx). La Mazzi compare anche per i lavori del centro commerciale con torri da 110 metri alle ex cartiere, per il passante nord, per la filovia, per il parcheggio all’ex gasometro ed è quella che ha legittimamente finanziato la campagna elettorale di Tosi del 2008.
ma soprattutto inquieta la miopia di Tosi che afferma, riferendosi al sistema sanitario «Realtà come il Veneto hanno sempre saputo gestire al meglio le risorse e mantenere costi di gestione efficienti». È indubbiamente vergognoso che privati possano lucrare sulla salute specie dopo le dichiarazioni di Monti secondo cui le prossime generazioni non potranno permettersi l’attuale livello di assistenza sanitaria, se non pagandosela.
I 108 milioni, secondo il bando di gara dell’Azienda Ospedaliera di Verona, sarebbero ripagati con una sorta di contributo di 56 milioni e con un canone di 44 milioni (2,2 milioni/anno per circa 20 anni di concessione) per un totale di 100 milioni. Praticamente con il 97% di investimento pubblico cui si aggiungono circa 560 milioni (circa 28 l’anno) di canone di manutenzione, ricavi degli spazi adibiti ad attività (affitti di attività commerciali, probabilmente), servizi di ristorazione, mensa dipendenti e pulizie. Insomma, il concessionario mette 54 milioni e porta a casa, tra contributi, canoni, affitti, servizi 604 milioni!
Nel caso degli ospedali di Verona, dunque, un appalto da 54 milioni ne renderà 604, così come a Mestre 135 milioni ne renderanno un miliardo. E per il passante nord? Non sarebbe ora che i Consiglieri comunali, che da mesi possono accedere al piano economico finanziario, cominciassero a informare i cittadini? Almeno per sfatare le nostre supposizioni: un’opera da mezzo miliardo di euro costerà alla collettività non meno di tre miliardi. Non risulta che in Italia un project financing abbia dato esiti positivi per le finanze pubbliche. Sono solo appalti mascherati per non far apparire il debito nella contabilità delle amministrazioni finendo con l’aumentare notevolmente i costi del finanziamento a scapito delle tasche dei cittadini. Un debito occulto che presto o tardi presenterà il conto.
Eppure Zaia aveva detto “Stop agli ospedali in project financing” dopo la notizia delle condizioni capestro applicate all’ospedale di Mestre che, a fronte di un investimento privato di 135 milioni, costringono la Regione a pagarne un miliardo. È proprio vero che dalla storia non si impara nulla,
E qui un altro punto dolente: i cittadini, che già pagano il pubblico con le tasse, pagheranno una seconda volta i privati perché realizzino opere in project financing, riconoscendogli pure sostanziosi guadagni. E a Verona abbiamo esempi per tutti.
l’ansa dell’adige
Cattivi esempi
La TAV Come privatizzare i profitti e socializzare le perdite di Daniele Nottegar Quando si parla di grandi opere non si può non parlare di TAV, il progetto di infrastrutturazione ferroviaria che dal 1991 avrebbe dovuto risolvere i problemi del trasporto passeggeri e merci in Italia, che inizialmente doveva essere finanziato al 60% dai privati ma che poi è diventato tutto a carico dello Stato. All’inizio la linea ad alta velocità doveva collegare Torino-Milano-Bologna-RomaNapoli ma in seguito è stato aggiunto il collegamento Milano-Genova e MilanoVenezia; quest’ultima tratta è “scomparsa” nel corridoio 5 Lisbona-Kiev. Ora che il corridoio 5 non partirà più da Lisbona, visto che nel 2012, dopo che il Portogallo ha fatto un po' di calcoli e dati i tempi di vacche magre, ha deciso che la TAV non si farà, diventa più difficile sostenere che è l’Europa che vuole la TAV. La Corte dei Conti portoghese ha annullato il contratto per la realizzazione della tratta principale del progetto di alta velocità fra Lisbona e Madrid e il governo ha annunciato in un comunicato l'abbandono definitivo del progetto, visti gli alti costi. E in Italia? L'alta velocità italiana è la più cara in Europa: lo hanno ammesso le Ferrovie dello Stato in uno studio, secondo cui il costo medio al chilometro è di 32 milioni contro i 10 spesi in Francia e i 9 della Spagna. Un sovrapprezzo importante, giustificato solo in parte dalla situazione orografica del nostro Paese. Dietro l'alta velocità si nasconde un meccanismo di privatizzazione dei profitti e di socializzazione delle perdite. A pagare gli ingenti costi infatti sono i cittadini, a testimoniarlo la Corte di Cassazione la quale ha decretato che i "debiti" della Tav verranno pagati dalle generazioni future fino al 2060. Basta solo dire che il progetto presentato il 7 agosto 1991, stimato e contrattualizzato con una cifra complessiva pari a 14.156 milioni di euro, è oggi lievitato a 96.850 milioni di euro. Secondo calcoli attendibili nel 2020, quando il Progetto sarà completato, dalle casse pubbliche saranno usciti circa 100 miliardi di euro; nel frattempo i cittadini italiani avranno già iniziato a pagare i rimborsi e gli oneri finanziari del cosiddetto finanziamento privato scaricato nel debito pubblico. Le stime indicano in un importo di circa 2.200 milioni di euro la quota media annua, da versare per circa 30 anni, necessaria per l’estinzione dei debiti contratti con gli istituti bancari. A guadagnarci alla fine sono sempre le banche.
Decrescita felice (e infelice) in tempo di crisi di Fabrizio Creston* Capita che anche il sindacato si interroghi su di un argomento che per moda o per passione affolla le discussioni inerenti la crisi economica ed il suo possibile superamento. È accaduto lo scorso dicembre, quando due delle maggiori federazioni sindacali della Cisl che rappresentano il mondo industriale (Fim e Femca) hanno organizzato un dibattito a partire dai ragionamenti del fondatore e Presidente dell' "Associazione Movimento per la decrescita felice" Maurizio Pallante (tra le numerose pubblicazioni ricordiamo il suo testo centrale La decrescita felice, Editori Riuniti, 2005) con la presenza di Alberto Berrini, economista indipendente consulente della Fiba Cisl (ricordiamo Una tempesta senza fine, Edizioni Lavoro, 2011) di formazione keynesiana. Le divergenze tra i due interpreti non hanno tardato ad emergere: la radicalità argomentativa del pensatore decrescista mal si conciliava con la pragmatica ricerca fattuale dell'economista che di fronte alla promozione della più ampia sostituzione possibile delle merci prodotte industrialmente con l'autoproduzione di beni non poteva che constatare l'obbligatorietà di una scelta in realtà imposta dalla "grande contrazione" in atto. Il fatto che una parte dei profitti realizzati dalle imprese sia reinvestita andando ad accrescere la dotazione di capitale, la quale, attraverso l'innovazione tecnologica, diviene la base per realizzare nuovi profitti, rappresenta il tratto fondamentale dell'economia moderna che possiamo in questo senso, definire "capitalista". Questo processo spiega l'inarrestabile crescita economica che ha caratterizzato, sin dalla rivoluzione industriale queste economie e che era invece sconosciuta a tutte le forme di organizzazione economica e sociale precedenti. Qui la possibile decrescita attuata dall’individuo che nell’andare al lavoro (mezzi pubblici o car sharing), nell’acquisto dei beni primari (o autoproduzione), nonchè nel riscaldarsi (efficienza energetica) interviene nel decremento della produzione di merci e materie prime: quindi meno pil e più benessere. Nulla di nuovo sotto il sole: già la teoria bioeconomica di Georgescu-Roegen rappresenta un punto di partenza imprescindibile per un'analisi critica dell’ortodossia economica, in particolare per quanto attiene il tema dei limiti ecologici alla crescita. Questi limiti sono, com’è noto, dovuti alla natura entropica del processo economico: secondo la legge di entropia ogni attività produttiva comporta l’irreversibile degradazione di quantità crescenti di energia e, sotto certe condizioni, anche di materia. Essendo la biosfera un sistema chiuso (scambia energia, ma non materia con l’ambiente) ne discendono due importanti conclusioni per l’economia: la prima è che l’obiettivo fondamentale del processo economico la crescita illimitata della produzione e dei redditi - essendo basato sull’impiego di risorse energetiche e materiali non rinnovabili, risulta in contraddizione con le leggi fondamentali della termodinamica. Esso pertanto, va abbandonato o comunque radicalmente rivisto (Bonaiuti 2001). Giustamente Pallante sottolinea che si tratta di un salto di paradigma fondamentale che trascende l’ambito economico per andare a coinvolgere il paradigma antropologico che la scoietà moderna si è data. Ma saranno sufficenti scelte responsabili di cittadini territorialmente organizzati a scardinare o quanto meno ad invertire, un sistema capitalistico oramai continuativamente in crisi? Anche in Cisl la ricerca è aperta: si passa dalla discussione su cosa, come, quanto produrre di “antica memoria” a come la violenza finanziaria ridimensioni il rapporto capitale-lavoro. Nella competizione globale il nostro tessuto produttivo ha due scelte per stare nel famigerato mercato: o incrementare l’estrazione di valore, magari delocalizzando, oppure sperimentare scelte, che la Cisl da tempo propone, che vedano i cittadini-lavoratori partecipi ad una “missione comunitaria” assieme alla propria azienda, direbbe Bruno Manghi. Il che non implica assenza di conflitto, ma nel declino dell’antagonismo ideologico riportare il sindacato a fare il suo mestiere, in maniera precisa ed adeguata ai tempi: partecipazione alla vita dell’impresa, assumendone sia i benefici che le responsabilità. Ciò che è in discussione non è l’esistenza della contesa, ma i modelli di relazioni industriali da seguire nell’affrontare tale sfida. *Femca CISL Verona
9
l’ansa dell’adige
Dove va la politica? Scarsa progettualità e niente rete di Damiano Fermo Spesso ci chiediamo se la politica – parliamo di quella locale – si renda conto che Comune, Provincia, Enti partecipati si stanno occupando del proprio territorio e della propria gente senza guardare ai reali movimenti in atto. Se si focalizzassero, per esempio, gli spostamenti delle persone, le relazioni economiche e le dinamiche che si muovono là fuori, nel mondo reale, “per strada”, capiremmo subito che il non condividere la politica territoriale, perlomeno con Brescia, Mantova, Trento, Modena e Vicenza corrisponde a chiudere gli occhi di fronte al fatto che informazioni e relazioni non possono trovare alleati in un amministrazione chiusa dentro le proprie mura. Sarebbe il momento che la politica seguisse le vite dei cittadini e adeguasse la propria struttura a nuove, attuali, priorità, sfruttando tutta quella ricchezza immateriale, data dalla cooperazione, dalle relazioni, dalle informazioni, dalla mobilità che già ci appartiene naturalmente. Invece che spazi da delimitare ci sarebbe da vedere persone, imprese, relazioni sociali ed economiche che si muovono e non possono più essere rappresentate da contesti istituzionali di cui nebuloso è ormai il senso. Il ruolo delle amministrazioni delle città medie e grandi negli ultimi dieci anni è profondamente cambiato, da erogazione di servizi ai cittadini (spesso demandati a società esterne partecipate), a “governo” del territorio, inteso anche come prefigurazione degli sviluppi futuri, rispetto ai problemi nuovi che si presentano. Pensiamo alla riqualificazione urbanistica, alla gestione dell’immigrazione. In tutta Europa la competizione territoriale si sta giocando non tra regioni, ma tra aree metropolitane, in certi casi formate da grandi metropoli, in altre da reti di città medie. La partita, in altri termini, si gioca sul sistema di governo che le aree riescono a sviluppare. Pensate… il Comune di Verona: assieme alle comunità periferiche si potrebbe dare
Una leadership politica con una cultura di governo non si limita a registrare in modo notarile – nell’ottica di immediati consensi – le attese dei cittadini, ma propone loro una visione del futuro, un nuovo modello di città. Esattamente quello che non accade a Verona
il via a sistemi di “discussione pubblica” e codecisione con i tanti soggetti interessati. Sarebbe una politica che guarda finalmente ai propri cittadini, per quello che fanno e per quello che possono dare, non solo elettori cui chiedere un “click” ogni 5 anni.
I “confini” di Verona non coincidono con i confini amministrativi (comunali, provinciali, regionali): i sistemi di relazioni economiche e sociali, i percorsi dello sviluppo economico, le traiettorie della vita quotidiana delle persone (nello studio, nel lavoro, nel tempo libero) hanno poco a che vedere con i confini amministrativi. L’area metropolitana di Verona esiste già e l’hanno costruita i flussi di merci e persone, anche senza intenzionalità politica. In buona sostanza, l’evoluzione degli insediamenti, delle residenze e delle imprese ha creato nei fatti un’area metropolitana veronese: occorre assumere quella scala come orizzonte di riferimento del governo locale, e punto di partenza per gli sviluppi futuri. Ma quello che manca a Verona e provincia è appunto una cultura di governo: il potere oggi interpreta ed esprime l’assenza di questa cultura. Una cultura di governo richiede una capacità di visione del futuro, di coinvolgere e mobilitare tutti i soggetti interessati e di proporre strade e obiettivi intermedi per realizzare la visione. Una leadership politica con una cultura di governo non si limita a registrare in modo notarile – nell’ottica di immediati consensi – le attese dei cittadini, ma propone loro una visione del futuro. Di questa capacità di elaborazione, di proposta, di “anticipazione strategica”, di vedere Verona “fuor dalle mura di Verona”, obiettivamente, non si trovano tracce significative, mentre i soggetti economici appaiono più attenti a come lucrare nell’immediato dalla situazione che a contribuire a definire il futuro della città. I veronesi, soprattutto in questa fase di crisi, non possono continuare ad evitare ogni discussione sul futuro di Verona. Dobbiamo pretendere una città che aspiri ad essere europea, nei termini di mobilità urbana, di integrazione di cittadini, di politiche per la valorizzazione del territorio. Creare una comunità matura, in tempi di crisi, diventa ancor più necessario. E la politica ha il grande compito di indicare la strada.
Il Piano degli interventi e le esigenze dei veronesi di Yared Ghebremariam Tesfaù Verona ha subito gli effetti della crisi economica quanto, se non più, le altre gradi città: vuoi perché alla periferia del Veneto, vuoi perché lontana dal “cuore padano”. Ma in cosa Verona non ha saputo cogliere le necessità e le opportunità che si è trovata di fronte? Un esempio su tutti: il Piano degli Interventi, fiore all’occhiello della passata giunta comunale … per i cittadini una scellerata colata di cemento. In una città come Verona, dove i dati indicano un calo dei residenti, un alto numero degli appartamenti sfitti ed un allarmante aumento dei cantieri “scheletro” avremmo auspicato un progetto di riqualificazione dei quartieri, uno studio delle necessità e delle criticità che le zone fuori dal centro storico presentano oramai in modo evidente. Prevedere la creazione di aree verdi,
10
parchi gioco e quant’altro, per le famiglie, favorire la ristrutturazione e l’ammodernamento dell’esistente, sopperire alle carenze di servizi pubblici e commerciali nelle zone che ne sono a tuttora sprovvisti: sono queste le linee di condotta che la Giunta ha purtroppo mancato. Ci troviamo, invece, solo davanti all’ennesima lista di permessi a costruire ed alla trasformazione di terreni agricoli in commerciali, togliendo ai quartieri quei polmoni verdi oramai tanto rari a Verona, il tutto senza pensare ad ampliare i servizi: asili nido, scuole, palestre, centri d’incontro o impianti sportivi … Il problema, cui purtroppo la Giunta Tosi si dimostra sorda, è che non si tratta di “avere di più” ma della qualità di quel che già si possiede: dai quartieri al centro storico la priorità deve essere una riqualificazione e un ripristino dei servizi per non trattare più la periferia solo come un “dormitorio”.
Arsenale di Verona NO alla PRIVATIZZAZIONE Il 5 dicembre 2012 nasce il Comitato Arsenale di Verona con dei precisi scopi a servizio di tutti i cittadini: restaurare, con i fondi già a disposizione, le strutture dell’importante sito storico; fermare il progetto di privatizzazione promosso dal Comune; preservare la naturale vocazione di questo importantissimo sito storico-monumentale a polo culturale, ricreativo e parco pubblico. «Con tali intenti – spiega la portavoce Elisabeth Klijn – il Comitato, completamente apartitico, ha avviato una petizione pubblica con raccolta di firme anche on line, che ha già superato il numero di tremila adesioni, tra cui quelle dell'eurodeputato Andrea Zanoni e di molti professionisti e uomini di cultura, nonché di associazioni quali Italia Nostra e Musa Antiqua». Il Comitato propone fondamentalmente di utilizzare i dodici milioni di euro che il Comune ha a disposizione da subito per questo sito per il suo restauro e messa in sicurezza, somma che si è rivelata sufficiente a questo scopo da una accurata analisi economica svolta: «non vi è invece la necessità – continua Klijn – di “svendere” l'Arsenale come ha intenzione di fare l'Amministrazione Comunale, cioè con una con-
cessione per 99 anni dei due terzi della superficie, concessione che regalerebbe di fatto ad un utilizzo privato il sito con la creazione di esercizi commerciali, quali bar, ristoranti, negozi e uffici direzionali, compresi un centro commerciale nel suo corpo centrale e un’ ulteriore edificazione di un ennesimo parcheggio a pagamento: i cittadini, perché il nostro territorio venga veramente rilanciato, hanno invece bisogno di un polo culturale pubblico dove partecipare attivamente alla vita della città. Per Andrea Zanoni, eurparlamentare, «occorre dire insieme no a questo progetto anche perché interessa un'area che è patrimonio mondiale dell’UNESCO. Tosi ascolti la voce dei veronesi». La politica, è il messaggio del Comitato, si metta al servizio dei cittadini, come le compete, di coloro dunque che sono anche contribuenti di questo Comune, e non dimentichi i loro bisogni e richieste. Il Comitato e i firmatari della petizione vogliono anche ricordare all'Amministrazione comunale di Verona che quando si parla di Arsenale si sta parlando di un meraviglioso esempio di architettura militare asburgica della metà
dell'800, il secondo al mondo dopo quello di Vienna, Patrimonio dell'Umanità e che solo la sua destinazione a pubblica utilità può rispettare questo status. «Chi ha intenzione di aderire alla petizione del Comitato – conclude Klijn – firma per un Arsenale che rimanga di proprietà pubblica e per un’azione che ne blocchi il degrado nell’immediato, affinché la struttura diventi luogo di aggregazione sociale e culturale». Il Comitato si ritrova ogni mercoledì sera alle 20.30 al Caffè Rialto di Porta Borsari a Verona, dove è lieto di accogliere tutti coloro che si riconoscano nella volontà di difendere l’Arsenale dalla privatizzazione di fatto. Tra i progetti in fase di realizzazione vi è la creazione di un blog on line perché questa causa possa raggiungere il maggior numero di persone e perché i cittadini possano essere ancor più protagonisti, senza subire passivamente le scelte dell’Amministrazione. Per firmare la petizione pubblica attraverso internet basta cercare “Petizione a favore del mantenimento dell'Arsenale asburgico di Verona” sul motore di ricerca google e poi seguire le istruzioni.
11
ECONOMICO/EFFICIENTE/INTELLIGENTE
IL TRAM-TRENO Verona ha davvero bisogno del devastante buco delle Torricelle e del completamento dell'anello circonvallatorio che stravolgerà l'intera area collinare a Nord? La soluzione alternativa potrebbe essere il recupero della rete ferroviaria e tranviaria già esistente per un buon 70% di Giorgio Forti Con le liberalizzazioni, la rete ferroviaria già esistente, che si snoda attorno alla città di Verona, può essere fruita anche da altri soggetti diversi dalle Ferrovie dello Stato. Infatti, la rete di binari è di proprietà della Società RFI, controllata dalla FS SpA, che deve garantirne l’uso anche ad altri soggetti. E’ ipotizzabile pertanto la fruizione della rete che collega attualmente le quattro stazioni già esistenti (Parona, Porta Nuova, Ca’ di David e Porta Vescovo) per l’uso del trasporto pubblico urbano per mezzo di idonei mezzi, peraltro già in uso in Europa. Il concetto di treno-tram o tram-treno nasce dall'idea di integrare reti ferroviarie con infrastrutture tranviarie al servizio del territorio urbano. Questo richiede che i due mezzi (treno e tram) abbiano caratteristiche comuni (prima fra tutte lo scartamento, che deve essere il medesimo) e che, grazie ad idonee apparecchiature di commutazione, siano duali, ossia possano funzionare sia in modalità tram che treno. Il caso più significativo di rete di tram-treno è quello di Karlsruhe (Germania) in cui i mezzi tranviari, dotati di inverter a bordo, passano dalla rete tranviaria in corrente continua al funzionamento in corrente alternata sui binari ferroviari, condivisi con i treni suburbani e regionali. Nel caso di Verona siamo in presenza di una rete – è da sottolineare già esistente – che po-
12
trebbe prevedere ulteriori fermate intermedie che permetterebbero, già ora, di servire i quartieri di Golosine, Santa Lucia, San Massimo, Borgo Milano e il Chievo a Nord-Ovest e ad Est Porto San Pancrazio e San Michele Extra. Il tratto che collega la stazione di Parona, Porta Nuova e Porta Vescovo potrebbe essere inoltre implementato nel tempo prevedendo il collegamento a Nord della stazione di Porta Vescovo con Parona. Questa idea era stata peraltro percorsa dall’esercito tedesco che utilizzò le ferro-tramvie veronesi (Verona-Caprino e Verona-San Bonifacio)
A Verona siamo in presenza di una rete già esistente che permetterebbe di servire i quartieri di Golosine, Santa Lucia, San Massimo, Borgo Milano, Chievo a Nord-Ovest e ad Est Porto San Pancrazio e San Michele Extra
quale alternativa alle linee ferroviarie nazionali, costantemente martellate dall’aviazione alleata. Inoltre, per migliorare l’utilizzazione, il comando militare germanico pensò di collegare le stazioni delle ferrovie di Porta san Giorgio con le stazioni di Porta Vescovo con una galleria sotto le Torricelle, sia per abbreviare il percorso, sia per garantire una maggiore sicurezza contro i bombardamenti americani. L’opera fu iniziata, ma si arenò molto presto per l’incrementarsi dei bombardamenti. Tralasciando di soffermarci sugli esiti della mancata realizzazione della prevista galleria è da dire che l’ipotesi avanzata, che in questa fase vuole solo far emergere la fattibilità di una circolare ferro-tramviaria attorno alla città, potrebbe correre in parte in tunnel sotto le Torricelle prevedendo due uscite strategiche: una nei pressi dell’antica stazione di Porta san Giorgio, che dista soli 5 minuti a piedi da Piazza Erbe, ed una seconda nei pressi dell’’ospedale (ahimè costruito senza considerare la sua valenza intrinseca di attrattore di traffico e senza prevedere preliminarmente idonei parcheggi) per poi proseguire fino a raggiungere Parona con l’accortezza di limitare, se non di escludere completamente, le interconnessioni con la rete stradale carrabile esistente. Il progetto potrebbe prevedere opportune fermate intermedie a servizio dei quartieri di Borgo Venezia, Fontana del Ferro, Valdonega/Santo Ste-
l’ansa dell’adige fano, Ponte Crencano, Pindemonte e Ca’ di Cozzi. La realizzazione del completamento della circolare, che ammonta a circa il 25-30% di quella esistente, potrebbe fruire delle moderne tecnologie per realizzare sedi antirumore, in modo da annullare l’impatto acustico, realizzando di fatto una vera e propria metropolitana di superficie che fruisce ed è collegata, con gli opportuni accorgimenti tecnici, alla rete ferroviaria. La circolare ferro-tramviaria potrebbe, una volta conclusa, essere collegata a pettine dall’esterno con i tratti che già ora ne prevedono la fruizione per i quartieri di Cà di David e San Michele Extra e, tramite tratti costruiti ex novo, i quartieri ad est di Borgo Trieste e Montorio e quelli a sud come Borgo Roma (compreso l’ospedale) ed il casello dell’autostrada Verona Sud. Non vanno trascurati i collegamenti con i paesi limitrofi che risultano in parte già esistenti, come San Bonifacio, San Martino B.A., Domegliara e Villafranca – prevedendo l’ovvia deviazione verso l’Aeroporto –, ma anche con i paesi della cintura che gravitano su Verona, come San Giovanni Lupatoto, Bussolengo e Grezzana. Questa connessione con la rete ferro-tram urbano ha il vantaggio che molti mezzi dell’ATV non entrerebbero più in città, garantendo solamente il collegamento dei paesi limitrofi con la stazione di riferimento, che dovranno esseri muniti di capienti parcheggi scambiatori. L’uso del tram-treno, una volta a regime, potrebbe comportare la possibilità di una minor spesa famigliare, non solo per il trasporto, ma anche nella non necessità del possesso di più vetture per famiglia. Ed il minor numero di automobili comporta la non necessità della costruzione di parcheggi con la conseguente riappropriazione da parte dei cittadini di spazi aperti e liberi necessari per i momenti di aggregazione. Inoltre, il percorso protetto del treno-tram potrebbe favorire l’abbinamento di percorsi ciclabili, con zone 30 Kmh e corsie preferenziali all’uso della bicicletta, veicolo che sarebbe indispensabile fosse trasportabile anche sul trenotram. Infine è anche da dire che la profonda relazione che viene tracciata tra il tram-treno ed il multiforme panorama suburbano, classificabile come città diffusa, va oltre una valutazione di opportunità trasportistica ed economica, chiamando in causa esigenze più profonde ed allo stesso tempo urgenti. Osservando la riflessione architettonica e sociologica ancora in divenire, sembra possibile sfruttare ciò che spesso è ostacolo, ovvero il forte ruolo della linea tranviaria nella morfologia urbana, come opportunità di caratterizzazione di un panorama altrimenti ignorato. Un tale approccio comporta il condensarsi nella componente maggiormente visibile, il veicolo, del ruolo di simbolo della modificazione, di chiave di lettura di un territorio rinnovato.
Centro Storico e delle zone di urbanizzazione consolidata, permetterebbe una perfetta promiscuità del traffico residenziale (da limitare ai 30 km/h) col traffico su due ruote e pedonale, prevedendo altresì collegamenti con le stazioni tranviarie con pollicini a trazione elettrica o a metano ed ovviamente con il bike sharing, prevedendo idonei parcheggi. Potrebbe essere inoltre percorsa la strada già prevista in altre città di accordi con la compagnia dei taxi in grado di prevedere su percorsi obbligati ( avanti e indietro e con prezzi calmierati) il trasporto di 6-8 persone, a seconda dei mezzi, che possono salire o scendere in ogni luogo lungo il percorso. L’ipotesi proposta ha, come spiegato, il vantaggio
di essere impiegata fin d’ora e di essere implementata nel tempo, convogliando i finanziamenti per il trasporto urbano, come i 143 milioni del filobus malamente sprecati e poco importa sostenere che il 60% di tale importo è garantito dallo Stato, dal momento che anche i soldi dello Stato sono soldi nostri e non devono essere sprecati con soluzioni parziali. Si potrebbero inoltre convogliare i finanziamenti per il passante nord, se la città decide, con un referendum, di limitare il trasporto su gomma ed il conseguente inquinamento. Non vanno inoltre scordati i finanziamenti europei che non aspettano altro di essere elargiti a fronte di un serio progetto di mobilità sostenibile.
Per la realizzazione del tram-treno si potrebbero utilizzare i finanziamenti per il passante nord, se la città decide con un referendum di limitare l’inquinamento del trasporto su gomma. Non vanno inoltre scordati i finanziamenti europei che non aspettano altro di essere elargiti a fronte di un serio progetto di mobilità sostenibile
Nei quartieri posti all’interno della circolare tramtreno, l traffico potrebbe prevedere, gradatamente, l’esclusione di quello di attraversamento automobilistico, fino ad arrivare in alcune parti, come il Centro Storico e le zone più prossime di urbanizzazione consolidata, alla completa dedicazione delle strade al solo traffico dei residenti, limitando il più possibile le finestre aperte per l’approvvigionamento degli esercizi pubblici. I collegamenti all’interno dell’assetto viario del
13
l’ansa dell’adige
Io sono molto ricco di Andrea Sellaroli Vivo in una tenuta di 60 ettari molto vicina al centro di Verona. Nella mia dimora si trovano parchi di rara bellezza, che si arrampicano sulle colline, con alberi secolari e prati all'inglese. Sono anche molto fortunato perché non devo stipendiare nessun giardiniere, ma questo non vuol dire che i giardini siano tenuti male. Ho dato il permesso ad altre persone di entrare nei miei parchi perché se c'è una cosa che trovo triste sono i giardini vuoti. Poi ho delle enormi biblioteche, sempre aggiornate ma con un'importante collezione di libri antichi. E' molto piacevole cercare tra gli scaffali momenti di raccoglimento, oppure accogliere in quelle sale affrescate dotte compagnie con cui conversare. Ci sono anche delle sale in cui ascolto le lezioni dei migliori eruditi in città. Come tutti sanno i ricchi non hanno la televisione e quindi, ogni tanto, faccio ingaggiare da una commissione di esperti una compagnia teatrale che si ferma per una sera o due nel mio teatro privato. L'ho fatto costruire sufficientemente grande da poter invitare tutti i miei amici e conoscenti. Essendo molto ricco non ho bisogno di lavorare e quindi posso dedicarmi ai miei passatempi preferiti. Prima di tutto coltivo l'orto, che si trova nella parte est delle mie proprietà. Certo è un piccolo pezzo di terra ma trovo molto nobile poter piantare i piselli uno ad uno. Con le verdure che raccolgo ma soprattutto, devo ammettere, con quelle che mi porta un simpatico villico, posso divertirmi con il mio secondo hobby, la cucina. Mi piace molto partire dalle materie prime e creare succulenti pranzi per gli amici. E faccio questo nonostante il mio palazzo abbia molteplici cucine e sale da pranzo, che posso scegliere a seconda del gusto del momento. Sono così famose che i forestieri e gli abitanti della città hanno addirittura dato un nome ad ognuna di esse. Nella mia villa ho un rapporto economico con i cuochi e i camerieri un po' particolare. Visto che mi piace cucinare e quindi utilizzo poco le loro cucine non pago uno stipendio mensile ma lascio loro qualche soldo ogni volta che cucinano per me. Chiaramente questi lavoranti non possono vivere solo con i proventi dei miei pasti e quindi cucinano anche per qualcun altro. Ma a me questo non importa, basta che siano sempre disponibili quando ne ho bisogno. Come avrete capito la mia tenuta è molto grande e quindi non sempre mi sposto a piedi. Nonostante alcuni membri della servitù utilizzino l'automobile, io mi sposto solo in bicicletta, per darmi un contegno più fiero. Ho una scuderia molto fornita con un'officina meccanica di prim'ordine, in cui mi diletto ad accarezzare il mio destriero curando personalmente le riparazioni. Accanto ho fatto costruire un atelier per i miei abiti sartoriali unici, che mi distinguono dalla plebaglia. Mi rendo conto che di questi tempi vantarsi delle proprie fortune può essere un po' sconveniente. L'altro giorno uno dei saltimbanchi che gironzola nella mia proprietà mi ha detto che sono solo un povero disoccupato che vive in un monolocale di Veronetta. Non ho capito di cosa stesse parlando.
14
La soluzione siamo noi! di Valentina Brunelli* Appello delle studentesse e degli studenti veronesi per il rilancio del Paese «Non è questa la politica economica che permetterà al nostro paese di uscire dalla crisi»; «siamo in fase di stallo: di questo passo non arriveremo da nessuna parte». Queste alcune delle considerazioni dei giovani in merito all'attuale situazione economica italiana. Pensieri scettici che sembrano dimostrare che una certa inquietudine è presente anche nella fascia giovanile della nostra popolazione. «La soluzione siamo noi. Smettetela di demolire il nostro futuro: puntate su istruzione e cultura» è l'appello lanciato dagli studenti, che vorrebbero poter guardare al loro futuro con serenità. In un momento come questo è inutile tentare di trovare una via d'uscita che non veda i giovani come protagonisti. Questi lamentano una scarsa considerazione dell'opinione pubblica per quanto concerne la scuola, che si trova a dover fronteggiare uno dei periodi peggiori degli ultimi anni. Mancano i finanziamenti, gli incentivi ma soprattutto le prospettive. Al giorno d'oggi la scuola sta diventando un luogo nel quale devono essere solo distribuite nozioni, mentre viene tolta attenzione alla formazione dell'individuo che deve poter sviluppare uno spirito critico nei confronti di ciò che lo circonda. Gli studenti chiedono uno "svecchiamento" del sistema scolastico. «I programmi sono gli stessi da 30 anni e i metodi di insegnamento non si sono evoluti». I tempi sono cambiati, come è cambiato il modo di comunicare: vogliamo nuovi programmi e sistemi di apprendimento innovativi. Ci viene chiesto di rimanere al passo coi tempi e non solo per quanto riguarda l'ultima moda o l'ultimo smartphone. Stop alla solita lezione frontale! Vogliamo una scuola dove poterci mostrare ed esprimere liberamente per ciò che siamo. Per questo motivo molti studenti si defi-
Una scuola aperta che permetta ai giovani più mobilità sociale e che garantisca loro la possibilità di costruirsi un futuro fatto di diritti e partecipazione niscono stufi di un sistema diviso in compartimenti stagni e avanzano la richiesta di poter scegliere le materie da approfondire. Ciò a cui i giovani puntano è una strada più aperta che permetta loro più mobilità sociale e che garantisca loro la possibilità di costruirsi un futuro "fatto di diritti e di partecipazione". Ora come ora tra noi e il nostro futuro vediamo un grande muro e la strada che dobbiamo percorrere è caratterizzata dal buio. Tanti sono convinti che quest'era possa essere definita una sorta di "secondo medioevo", nel quale ogni vero valore sia andato perduto e che l'unico modo per risollevare il paese sia puntare sui giovani. La barriera sociale che essi devono fronteggiare ha sulle pareti le parole "austerity", "welfare sociale", "spread", "crisi", disoccupazione crescente", "tasse", "tagli" e via dicendo. Questa sorta di "muraglia" separa i giovani dal loro futuro e da un mondo che si aspetta qualcosa da loro, e che, pieni si speranza, ideali e aspettative, vogliono poter accogliere a braccia aperte. Questo l'ultimo invito lanciato agli adulti:"Basta stare a guardare: è giunta l'ora di abbattere quest'ostacolo. Non fate in modo che il nostro futuro diventi un'utopica Itaca. Non vogliamo essere tutti Ulisse del XXI secolo. Aiutateci a costruire un futuro, non distruggetelo!" *Rete degli Studenti Medi Verona
l’ansa dell’adige
Le mafie a Verona: la cronaca racconta di una presenza reale di Michela Faccioli Sono tanti e “rispettabili” i modi in cui le mafie reinvestono e fanno fruttare il denaro sporco, immesso e scomparso nei circuiti economici tradizionali. Sono vicini i luoghi in cui l'economia criminale e organizzata invade i mercati appropriandosi di strumenti economici che, a causa della crisi, non sono più nelle disponibiltà delle aziende di sana conduzione. Francesco Forgione nel suo ultimo lavoro, "Porto Franco", racconta che il proprietario di una libreria antiquaria a Verona, dalle influenti amicizie e noto come "predatore di libri rari", è finito in un'inchiesta della Procura di Milano per la ricettazione di un esemplare prezioso del 1499. Nel maggio 2009 la Squadra Mobile di Verona, su indicazione dei colleghi napoletani, arrestò Giacomo Cavalcanti, ex boss della camorra flegrea. Soprannominato “'o poeta” per sue presunte velleità letterarie. Cavalcanti era una delle figure di maggiore rilievo della camorra degli anni Ottanta, considerato uno dei leader del cartello di clan che andava sotto il nome "Nuova Famiglia". L'arrestato aveva numerosi precedenti penali che andavano dall'associazione a delin-
quere di stampo mafioso all'omicidio, dall'estorsione alla rapina e alla ricettazione, dal porto abusivo di armi da sparo alle lesioni. Viveva da alcuni anni a Verona dove era titolare di una azienda che commercializzava schede telefoniche. Nell'aprile 2011 un'operazione della Dia e dei carabinieri portò all'arresto di una trentina di indagati, tra cui quattro veronesi, con l'accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso, finalizzata a commettere reati quali l'usura, l'estorsione e il sequestro di persona. L'imprenditore, che rischiò di essere strozzato dalla camorra e di perdere la sua azienda, al giornalista che gli chiedeva se avesse provato paura e la ragione dell'atteggiamento omertoso di altri suoi colleghi, rispose: «Sì, ne ho avuta parecchia ma se avessi continuato, sarei sicuramente finito nei guai e mi avrebbero costretto a cedere l'azienda (...) ci sono ancora oggi altri imprenditori a Verona che pagano a queste organizzazioni anche se vengono picchiati. E stanno zitti (...). La forza dell'usuraio è quella di picchiare, hanno addirittura il piacere ad alzare le mani. E incutono un enorme terrore alla vittima che così non denuncia».
Durante un convegno sulle presenze mafiose che insistono sulla sponde del Garda, un giudice esortò gli esponenti politici della zona: «Gli amministratori locali devono capire che gli investitori mafiosi riciclano il denaro in paesi tranquilli come i vostri, dov'è facile mimetizzarsi. L'errore più grande è tacere questa realtà, specie se si tratta di un centro turistico, per non dare l'impressione che il proprio territorio sia infiltrato dalla mafia». La provincia di Verona è la seconda nel Veneto, dopo quella di Venezia, per numero di beni confiscati alle mafie: 23, due dei quali nel Comune di Verona. Appaiono lontani i tempi in cui Gianfranco Miglio si permetteva, forse ignaro del radicamento della criminalità e delle complicità nelle nostre aree, di sostenere: «Alcune manifestazioni del Sud debbono essere costituzionalizzate (...). Io sono per il mantenimento anche della mafia e della 'ndrangheta. Il Sud deve darsi uno statuto poggiante sulla personalità del comando (...)». Anche a quel tempo, quelle parole, esecrabili e scellerate, che l'ideologo leghista pronunciò nel 1999, erano superate dai fatti.
MoVimento 5 Stelle «Ci sentiamo profondamente offesi dall’Ansa dell’Adige» Spett. Redazione de L’Ansa dell’Adige, se il buongiorno si vede dal mattino, è difficile prevedere una nostra futura collaborazione nel vostro progetto editoriale. Abbiamo inviato un articolo con un titolo ben preciso, a firma di Alessandro Gennari, con l’esatto intento di contribuire alla pluralità dell’informazione alla cittadinanza di Verona. Abbiamo chiesto, prima di inviare il nostro contributo, da chi fosse composta la redazione, da chi fosse finanziato il giornale. Siamo stati informati che il finanziatore non vuole palesarsi, ma che ha espressamente chiesto il coinvolgimento di tutte le componenti sociali e politiche che ora si trovano all’ “opposizione” a Verona, compreso il Movimento 5 Stelle. Confrontandoci con la redazione abbiamo sottolineato il fatto che le sue componenti sono tutte incardinate nel Partito Democratico, chi per ragioni di collaborazione come ufficio stampa, chi addirittura come ex candidato sindaco ed ora capogruppo in Consiglio Comunale. Ci è stata data una risposta convincente, l’obiettivo è importante. Il cittadino avrebbe avuto a disposizione una pluralità di voci. Abbiamo perciò accettato di collaborare fiduciosi che l’obiettivo fosse realmente questo. Ma ci mancava ancora di vedere il primo numero della rivista! L’abbiamo visto e la sorpresa è stata enorme! Nutriamo un profondo disappunto circa la collocazione editoriale del nostro contributo al primo numero del periodico. La scelta del titolo, fatta in modo totalmente discrezionale dalla redazione, è volgare ed offensiva nei confronti dei cittadini a cui si rivolge. Lo riteniamo un titolo denigratorio e senza corrispondenza col contenuto dell’articolo, il quale testimonia dell’esperienza diretta e positiva del nostro gruppo con la gente. Si vuole far passare il concetto che la partecipazione la Movimento 5 Stelle sia dettata solo dalla protesta. Si è voluto coscientemente dare un messaggio negativo al lettore. Ci saremmo aspettati per lo meno la concertazione del titolo e se questo fosse avvenuto non avremmo mai fornito il nostro assenso. Troviamo al limite del diffamatorio a mezzo stampa, poi, l’accostamento con il rappresentante, nell’immaginario collettivo grazie all’interessante film, del populismo più becero e sessista che è il personaggio Cetto La Qualunque, interpretato in modo egregio da Antonio Albanese. Tanto più che l’immagine riprodotta è la locandina del film in collegamento con il simbolo del MoVimento 5 stelle, come se fossero un tutt’uno, con tanto di ripro-
duzione in chiaro del sito www.partitodudilu.it e frasi “Un impegno concreto, più pilu per tutti!” La scelta dell’accostamento tra un simbolo della più becera e mafiosa politica che si possa fare e il MoVimento 5 Stelle ci offende profondamente e ci danneggia considerando che questa rivista andrà nelle case dei cittadini veronesi. Eravamo convinti che L’Ansa dell’Adige fosse una testata seria, ma ci siamo sbagliati. Dovevamo attenderci un tale colpo basso, del resto i componenti della redazione tutti del Partito Democratico non potevano non cogliere l’opportunità di manifestarsi nel miglior modo possibile, accostando il MoVimento 5 Stelle ad un film dove la politica viene sbeffeggiata. Chiediamo quindi una rettifica nel prossimo numero attraverso delle scuse ufficiali oltre alla pubblicazione integrale di tale nostra missiva. Se ciò non avvenisse ci riserviamo di procedere per vie legali su cui stiamo già valutando gli estremi di denuncia. MoVimento 5 Stelle Verona Cari Cinque Stelle, se uno solo, dei mille che siete, fosse venuto anche una sola volta alle riunioni di redazione alle quali siete stati invitati sapreste benissimo che nessuno dei partiti o dei comitati che partecipano a questo progetto ha avuto modo di vedere l'impaginato prima della stampa. E questo perché titolazione e impaginazione non vengono mediate politicamente ma sono fatte da professionisti. Comunque sia il titolo che l’immagine di Albanese non volevano offendere, semmai lanciare un messaggio che tradotto in parole sarebbe: «C’è un movimento che denuncia il malcostume politico e raccoglie il consenso dei cittadini», concetto riassunto benissimo all’inizio del vostro articolo, cioè in una posizione assolutamente importante per chi deve capire come titolare. Nella redazione il clima è trasparente e tale che, pur non essendoci unanimità e uniformità di vedute, per ricomporre eventuali incomprensioni basta una telefonata. Mezzi come le minacce di querela penso appartengano alla politica arrogante. La redazione resta comunque aperta, se mai deciderete di uscire dal vostro fortino. Michele Marcolongo Direttore
15
ASSEMBLEA PUBBLICA
ARSENALE
bene di tutti Interventi di dott.ssa arch.
Francesca Capobianco
Andrea Galliazzo
dott.ssa Elisabeth arch. Fiorenzo arch. Luca
Klijn
Meneghelli
Speziali
Modera Fabiana Bussola
20 marzo - ore 20.45 Sala conferenze Ater Piazza Pozza, 1 - San Zeno