Extropia!

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Extropia! di Erik Davis [Tratto da Techgnosis di Erik Davis, Ipermedium Libri] Se davvero l’entropia ha in mano tutte le carte di briscola – e la seconda legge della termodinamica suggerisce che sia così – allora tutto quel che ci si presenta davanti di ordinato, interessante o energetico da catturare la nostra attenzione, è condannato ad imputridire in una fredda, insipida gelatina di vaganti particelle senza senso. Da questo punto di vista, l’entropia è sicuramente la più scroccona tra le leggi della fisica. Come abbiamo visto in precedenza, la seconda legge di Maxwell si può applicare soltanto a sistemi chiusi che per definizione non esistono nel mondo reale. Ma questo dettaglio tecnico non ha ridotto di molto il sospetto piuttosto cupo che la legge dell’entropia sia inscritta nell’atto costitutivo delle nostre vite, delle nostre creazioni, della nostra civilizzazione – e persino del cosmo stesso. Le sculture arrugginiscono, le culture si disgregano lentamente e il roseo bouquet dell’esistenza si dissolve gradualmente in putrido fogliame. L’euforico nichilismo de L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon, un inno visionario all’entropia del dopoguerra, sembra essere in parte mosso dalla sensazione che la maggior parte degli sforzi umani equivalgano ad una corsa in salita sullo scivoloso pendio della seconda legge. Per quanto condannati, di certo non siamo venuti fuori dal grembo delle nostre madri come cadaveri decomposti, e ci si meraviglia di quale forza cosmica consenta a noi ed a qualunque altra cosa di resistere , anche se solo per poco, alla morsa paludosa dell’entropia. Qualche fortuito agente dell’universo ha messo al tappeto la seconda legge, permettendo ai bambini, progetti e biosfere di fiorire lontano dall’equilibrio entropico che porta alla morte le cose viventi. Nel corso dei secoli, questa forza creativa ha assunto molti nomi: dallo spirito di Dio all’élan vital fino al concetto di informazione stessa; recentemente siamo stati poi propensi a parlare di novità, autoorganizzazione e comparsa. Ma la parola chiave più caustica di tutte può essere extropia. Secondo gli extropiani, un gruppo di futuristi e filosofi di Los Angeles drogati di megavitamine e di tecnologie per l’accrescimento cognitivo, l’extropia è il modo dell’universo di assicurare un razzo propulsore alla


cocciuta traiettoria dell’evoluzione per poi farla partire. Dando slancio agli alti alberi di sequoia e alle cattedrali gotiche, la forza del’extropia genera novità, crea complessità, produce informazione e ci spinge in avanti e verso l’alto. L’extropia è il vigore opportunistico che si innalza tra le più ridondanti e cicliche leggi della materia e dell’energia; essa si manifesta nelle vite umane come ragione, scienza, tecnologia, e come qualunque compulsione evolutiva che costringa l’essere umano ad imparare nuove cose, a superare i limiti fisici e psicologici, ad amplificare l’intelligenza, a costruire magici marchingegni ed a sognare sulle possibilità del futuro. E’ proprio questo il tipo di cose con cui gli extropiani impegnano le loro giornate. Incarnando l’archetipo di prometeo con lo stile di un commerciante di alta tecnologia, gli extropiani concentrano la loro attenzione su vari scenari tecnofuturistici sui quali hanno già navigato per decenni fantascienza e scienza d’avanguardia. Sfogliando le loro riviste ed immergendovi nelle loro pagine Web, troverete ottimistici pronostici riguardanti colonie su altri pianeti nello spazio, robotica avanzata, intelligenze artificiali ed estensione della vita. Gli extropiani mantengono viva la fredda fiamma della criogenia, ed allo stesso modo ascoltano attentamente il forte richiamo delle nanotecnologie, una branca ancora piuttosto speculativa dell’ingegneria che tenta di costruire macchine molecolari, teoricamente capaci di modellare qualunque cosa, dagli space shuttle alle ossa delle bistecche. Gli extropiani aderiscono anche a quell’empirismo scettico che si oppone violentemente a qualsiasi forma di “dogma”, mentre resta invece beatamente ignaro delle spesso ingenue assunzioni sottese al suo stesso, alquanto adolescenziale, entusiasmo. Con il loro ardente ottimismo e la loro imprenditoriale ostilità alle voci di prudenza e di ritegno, gli extropiani sono diventati tra i più esuberanti e noti predicatori della causa libertaria della cybercultura. Per come la vedono, i programmi sociali, le legislature e le avide politiche di tassazione, soffocano tutta la forza in evoluzione dell’extropia, impedendoci di gustare una reale esplosione cambriana di valori differenti e di incredibili opportunità per la crescita dell’economia. Ma la loro ostilità nei confronti dello stato deriva anche da un particolare tecnognosticismo, un’appassionata devozione per le potenzialità metamorfiche di un sé progettato a tavolino e una conseguente ringhiosa irritazione verso tutte le forze esterne che inibiscono queste potenzialità. Nel suo Extriopian Principle 2.5, Max More, il sollevatore di pesi presidente dell’Extropy


Institute, non solo esalta l’affermazione anarco-utopica secondo cui nessun limite “naturale” è scritto nella pietra, ma enfaticamente invoca “la rimozione dei limiti politici, culturali, biologici e psicologici alla autorealizzazione ed alla auto-comprensione”. Innanzitutto, arrivare attraverso un po’ di gergo New Age – come con parole tipo “auto-realizzazione” – nel mezzo di un roboante discorso sull’extropia, è come cercare di cogliere uno sbuffo di incenso Nag Champa in un cigar bar di Wall Street. Ma oltre a sfruttare tutto ciò che ragione e commercio hanno da offrire, gli extropiani esaltano anche un nuovo sforzo del perfezionismo tecnologico che arriva attraverso una revisione assolutamente cieca – e a cervello blindato – del movimento del potenziale umano. Nel suo testo elettronico, More spiega: Liberandoci dei limiti che ci vengono imposti dal nostro patrimonio naturale, noi applichiamo il talento evolutivo della nostra intelligenza razionale ed empirica per superare i confini della nostra umanità, per attraversare le soglie che conducono agli stadi transumani e postumani che ci attendono. Secondo gli extropiani, Nietzsche non stava semplicemente avendo un brutto caso di indigestione quando ha proclamato che “l’uomo è qualcosa che deve essere superato”. Al contempo, la loro posizione può anche essere considerata come un umanesimo di vecchia scuola con il volume girato al massimo. Come il cabalista del Rinascimento, Pico della Mirandola, gli extropiani si sono eletti “liberi e fieri fautori” della loro stessa mutazione. Insieme ad una folta schiera di perfezionisti New Age e di tecnolibertari, essi giustificano i loro scopi transumanistici considerandoli una fase del motore dell’evoluzione. Proprio come la selezione naturale ha levigato la razza umana per millenni, così è necessario che continuiamo a trasformarci secondo una base individuale imparando, migliorando e stimolando costantemente noi stessi. Così, mentre ripudiano la visione a tinte pastello della New Age, gli extropiani abbracciano simili “tecnologie dell’informazione”: macchine neuronali e tecniche di visualizzazione, regimi di meditazione e droghe che aumentano le percezioni, reti di computer e programmazioni neurolinguistiche. Inoltre More segnala che il pensiero positivo degli extropiani, devoto all’evoluzione personale può riempire il buco esistenziale lasciato dal crollo della cultura religiosa tradizionale. More sostiene che, a differenza di gran parte del pensiero del


ventesimo secolo, la filosofia extropiana fornisce significato, una direzione e degli scopi alla vita umana; nello stesso tempo però non cerca, di soffocare il progresso o di annientare “la ricerca senza confini verso il miglioramento”. Come ogni leader spirituale che si rispetti, anche More sottolinea che i suoi principi non sono idee astratte ma riferimenti etici che dovrebbero essere messi in pratica ed integrati nell’esperienza della vita quotidiana. Una volta portati nell’orbita delle nostre vite e delle nostre abitudini, i principi extropiani ci permetterebbero di saltare oltre l’ordinario percorso della caliginosa mente umana. Essi ci incoraggeranno non solo a riflettere e a credere in maniera differente, ma a diventare realmente “transhuman” – più acuti, più forti e più padroni di noi stessi. Ma che fine fanno tutte quelle confuse emozioni che agitano così tanto l’animale uomo, mandando all’aria tutti i suoi piani migliori? Generalmente gli extropiani scarseggiano in lodi per i sentimenti e per le emozioni completamente, anche se Max More – volendo dimostrare più di ciò che egli realmente conosce – sostiene che gli extropiani vogliono semplicemente diventare più “efficienti”. Sciolti i nostri dubbi e le nostre paure, e saltati sul Transhuman Express, non potremmo più raccogliere compensi nel qui ed ora. Come santi in attesa del trionfo finale, anche noi ci prepareremo attivamente per il momento in cui le macchine faranno un quantum leap oltre la fantascienza dove tutto cambierà. Ecco la profezia di More: Quando la tecnologia ci consentirà di ricostruirci fisiologicamente, geneticamente e neurologicamente, noi che ora siamo divenuti trans-umani saremo pronti per trasformarci in post-umani – persone con capacità fisiche, intellettuali e psicologiche senza precedenti, auto-programmabili, potenzialmente immortali, individui senza più limiti. Gli extropiani si sono serviti di molti pixel e di molto inchiostro per tramare questi grandi progressi tecnologici, ma nonostante il loro rigore fantascientifico, le speculazioni tecnologiche del gruppo sono rimaste alla fine su un registro di immaginazione apocalittica. L’asintotico momento metastorico che essi attendono con ansia, è così solenne e trionfante che da alcuni extropiani viene chiamato Singolarità, un termine recuperato dalla scienza della dinamica non lineare ed imbottito di smania millenaristica. Nessun desiderio extropiano è più audacemente trascendentale della loro speranza di superare l’insulto


più umiliante dell’entropia: la morte. Come aspiranti immortalisti, molti extropiani inghiottono pillole cerebrostimolanti e pozioni anti-invecchiamento; setacciano riviste tecniche e pagine Web alla ricerca di notizie sulla possibilità di prevenire l’obsolescenza fisica ascritta nel DNA; progettano installazioni con equipaggiamenti criogenici che un giorno congeleranno i loro hardware biologici trasformandoli in ghiaccioli. Ma nel caso in cui il corpo sia per sempre destinato a morire, gli extropiani hanno un ancora più sbalorditivo asso nella manica: trasferire la loro coscienza – la loro mente, il loro sé – in un computer. Il sogno del trasferimento può essere fatto risalire alla prima decade dell’età dei computer, quando la cibernetica, l’intelligenza artificiale e la teoria della comunicazione lasciarono intendere che la filosofia meccanicistica della scienza moderna avrebbe potuto definitivamente colonizzare il più incorporeo dei territori: la mente umana. Sebbene il corpo sia stato considerato per secoli una macchina di carne, e la psicologia del diciannovesimo secolo abbia abbracciato l’immagine della “mente fertile”, questi nuovi approcci ai sistemi informatici complessi hanno suggerito che la mente avrebbe potuto finalmente descriversi come un aggeggio innervato capace di fornire feedback di reazione a stimoli e percezioni, un apparecchio che, in qualche modo , durante questo processo produce il sé. Per dei Mefisto dell’intelligenza artificiale come Marvin Minsky ed i coniugi Churchlands, riduzionisti cogsci, la mente è una macchina come qualunque altra cosa si possa immaginare – e cioè, la mente è fondamentalmente un sistema fisico che noi possiamo comprendere, descrivere ed in teoria replicare. Ogni ricordo triste, ogni mossa astuta, ogni gustoso morso ad un éclair al cioccolato resta un prodotto del cervello e se noi riuscissimo a figurarci come lavora il cervello o addirittura a simulare la sua nascosta rete di nodi, collegamenti e segnali chimici (e le tutte condizioni fondamentali), allora potremmo essere capaci di rievocare la mente all’interno dell’unica macchina che sia teoricamente in grado di simulare ogni altra macchina: il computer. Come lo scrittore scientifico Ed Regis puntualizza in Great Mambo Chicken and the Transhuman Condition uno studio di frangia scientifica estrema – le possibilità di trasferimento sono implicite nella teoria dell’informazione, che sostiene che qualsiasi informazione può essere ridotta a raffiche controllate di energia elettrica. Da quando sappiamo che il cervello vive già di attività elettrica, non è difficile reimmaginare noi stessi e le nostre esperienze come trame di


informazioni che sfrigolano sotto la calotta cranica come in uno show di fuochi d’artificio. Come sottolinea Regis, “tutto dipende dal fatto che la personalità umana è, sostanzialmente, informazione”. Inutile dirlo, questo “fatto” poggia, precario, in cima ad un certo numero di traballanti presupposti sulla natura della coscienza umana, sul ruolo del corpo nel definire il pensiero e sul potere della macchina “intelligenza”. Ma se le nostre menti e le nostre personalità si possono realmente riassumere in brulicanti trame di informazione nel peculiare impianto del nostro sistema nervoso, allora non è poi un salto troppo grande immaginare di replicare quell’unica architettura all’interno delle viscere di una macchina – e così reimbottire digitalmente la sede dell’anima. Nessuno segue questa linea post-biologica di speculazione con l’entusiasmo meccanicistico del mago della robotica Hans Moravec della Carnegie-Mellon University. Nel suo libro Mind Children, un classico extropiano così eccessivo che qualche volta si stenta a credere che l’autore sia serio, Moravec non solo sostiene di essere in grado di trasferire le nostre menti nelle macchine, ma che niente ci darà più soddisfazione di questo. In una scena particolarmente forte, egli descrive con crudi dettagli come possa avvenire questa metempsicosi digitale. Per primo, un chirurgo robot asporta la sommità del vostro cranio e comincia a esplorare la vostra materia grigia con nanosonde hi-tech che rilevano minuscole misurazioni della risonanza magnetica. Il dottore robot poi programma un simulacro ad alta risoluzione del vostro cervello nel computer, un modello così accurato che “voi” vi trovate improvvisamente proiettati all’interno della macchina. Questa roba è oltraggiosa, ma se siete disposti a gettare uno sguardo più freddo sul nostro sé, la logica di Moravec resta diabolicamente irresistibile. Per cominciare, noi viviamo già in una realtà virtuale di sorta; segni, suoni, strutture e sapori sono tutti fantasmi del cervello, prodotti da schemi concettuali preesistenti e da segnali in entrata che noi riceviamo dai sensi, i quali elaborano questi segnali al volo. Questi segnali non trasportano le cose stesse, ma sol l’informazione su come dobbiamo relazionarci con esse. Da questo punto di vista, l’esperienza dell’io è una specie di crema che si forma sopra i piccoli vortici di un minestrone di memoria, percezioni e varie ricorrenze cognitive. E poiché non c’è niente di magico nel processo che unisce l’intelletto alle nostre reti neurali, allora niente in teoria può impedire al treno del pensiero di tracciare i suoi binari virtuali diritto dentro una copia sufficientemente fedele del cervello. Nei fatti tale traduzione potrebbe


considerevolmente migliorare le cose. A quel punto noi ci fermeremo a contemplare un cadavere senza cervello e preda dei suoi spasmi finali; come viaggiatori astrali guarderemo con occhi di cyborg il nostro precedente corpo. Naturalmente il macabro viaggio fantasticato da Moravec genera immediatamente innumerevoli quesiti. In un tempo in cui i parchi a tema e l’edutainment [fusione dei termini education ed entertainement n.d.c.] prendono il ruolo della storia ed in cui gingilli elettronici e computerizzati soppiantano sempre di più l’esperienza corporea, l’investimento di Moravec nella capacità ontologica della simulazione sembra parte integrante di un totale abbandono delle pretese del mondo fisico. Possiamo davvero così semplicemente disgiungere la mente dal suo contesto carnale, o identificare la realtà con l’abilità di riprodurre la percezione della realtà? Come possiamo identificare con sicurezza il sé con la sola cognitività, ignorando gli elementi emozionali e transpersonali della mente? Inoltre, psicologi, neurologi e immunologi sostengono che il corpo pensa come un tutto nella sua integrità, che la cognizione non è limitata solo al cervello ma emerge dall’intero “ecosistema” carnale. Altri neurologi sostengono che le emozioni – spauracchio della psicologia extropiana – giocano un ruolo fondamentalmente costitutivo del pensiero umano; ed ancora, pensatori e mistici del mondo intero concordano sul fatto che differenti livelli di coscienza sono riscontrabili attraverso introspezioni contemplative che si realizzano in attività e stati che – poco passibili di misurazione – non possono essere semplicemente identificati con la dialettica attività mentale studiata dalla scienza cognitiva e che Moravec vuole simulare. E’ qui che c’è da meravigliarsi: la tecnologia dell’informazione permette, anche ai materialisti più incalliti di meditare ancora una volta sull’antico sogno di far passare indenne l’incorporea scintilla del sé attraverso le fauci della morte. Nell’introduzione al suo libro, Morvec proclama che non è più necessario adottare “una posizione mistica o religiosa” per immaginare la liberazione del nostro pensiero dalla “schiavitù di un corpo mortale”. Moravec parla a Regis del suo sogno di trasferimento: “è in realtà una sorta di fantasia cristiana: è come diventare puro spirito”. Questa pretesa richiede un minimo di supporto teologico. Perché nonostante tutta la sua denigrazione della carne, l’ortodossa “fantasia” cristiana comprende la totale realtà fisica del mondo creato e sostiene fermamente che il salvato sarà ancora vestito di carne nel mondo perfetto che seguirà il Giorno del Giudizio.


Più importante ancora, il fulcro di tutto il credo cristiano è l’incarnazione di Cristo in un corpo umano che soffre, muore e resuscita; nella comunione romana, il corpo di Gesù si manifesta proprio come qualcosa di commestibile attraverso il miracolo della transustanziazione. Secondo il patristico controllo delle eresie, molti Gnostici asserivano che Cristo “non è realmente esistito nella carne, ma ha preso in giro i sensi umani presentando loro una sembianza simulata dalla forma corporea ed ha così dato loro non solo l’illusione della morte, ma anche della resurrezione”. Persino l’ex manicheo Agostino, che non era certo un grande fan della callosa sacca di piscio e peli che noi tutti ci portiamo in giro, critica gli Gnostici per il loro docetistico credo in un Christos Simulacrum. La curiosa dottrina extropiana, che soppianta con una simulazione incorporea la realtà entropica del corpo, mostra che la fantasia di Moravec è più gnostica che cristiana – ma, si deve aggiungere, si tratta di uno gnosticismo incredibilmente ingenuo. Come William Irwin Thompson nota nel The American Replacemente of Nature: Con il suo odio per la reclusione dell’anima nella materia, il suo raffigurarsi da una parte la mente come luce, virilità e informazione, come logos spermaticos, e dall’altra, la carne come tenebre, femminea e adescante, lo Gnosticismo è una fonte d’attrazione per quegli ingenui tecnologisti che si muovono fuori da una visione convenzionale della società moderna. L’appunto di Thompson è arguto: per quanto questi moderni prometeici perseguano le possibilità “razionali” della scienza e della tecnologia, diventa sempre più difficile per loro mantenere la prospettiva e il buon senso che caratterizzano l’uomo della strada. Più facilmente, tali pensatori e tali bricoleur si sono dispersi in un mondo di possibilità, le cui profonde dimensioni metafisiche e religiose sono spesso troppo difficili per loro da manovrare, o anche riconoscere; in tal modo, si riscoprono inconsapevolmente attratti dalle più adolescenti fantasie di trascendenza e di immortalità dell’anima. Le inclinazioni gnostiche di Moravec sono anche accresciute dalle tracce di platonismo che scorrono attraverso il suo razionale flusso sanguigno. Secondo l’allegoria della caverna, Platone sostenne che noi siamo così intorpiditi dall’agitata palude delle consuete e sensuali percezioni e sensazioni, che il mondo puro ed eterno delle forme trascendentali si rivela a noi solo sotto la forma di ombre tremolanti sulla parete di un


antro paragonabile al ventre materno. Analogamente, Moravec ed i suoi extropiani operano una netta divisione ontologica tra i nostri fallibili e corruttibili corpi e lo stesso astratto processo cognitivo. Da un lato, semi-inebetita, c’è la nostra percettiva, emozionale e logica carcassa umida; dall’altro c’è la perfezione concettuale dell’intelligenza immateriale, una sfilza informatica di codici, regole ed algoritmi in cui essi identificano il potenzialmente immortale sé e le sue infinite abilità computazionali. Per Platone, l’arte della geometria offriva una finestra sul mondo delle forme; con la vivace perfezione delle sue leggi e delle sue figure, essa descriveva un mondo razionale che il nostro mondo concreto, con le sue caotiche ondulazioni e con i suoi materiali precari, può rappresentare solo approssimativamente. Similmente, anche Moravec e compagni cercano di trascendere il nostro vecchio bagaglio evolutivo attraverso i moderni discendenti delle forme ideali platoniche: la logica binaria, la teoria dell’informazione e la matematica. Anche se quasi tutti i matematici e i cibernetici hanno da lungo tempo abbandonato la visione platonica secondo cui i numeri si riferiscono ad un mondo reale più solido e perfetto del nostro, essi non sempre riescono a spogliarsi così facilmente delle dinamiche psicologiche del pensiero platonico, con il suo amore per la perfezione astratta e la sua speranza di sintetizzare i misteriosi schemi dell’universo in semplici equazioni. “E’ curioso”, nota Theodor Roszak, “come qualcosa del vecchio spirito platonico, a volte nel più imprevedibile dei modi, riaffiori nel mondo della scienza computerizzata… In un modo altrettanto determinato di quanto gli scienziati dovrebbe (oppure vorrebbe) rispondere alla vecchia magia matematica. Il sogno di Platone sopravvive e in nessun posto è più presente come nel culto dell’informazione”. Il tempio di questo culto è naturalmente il computer, che, come Jay David Bolter spiega, incarna il mondo così come i logici vorrebbero che fosse. Bolter sostiene che i computer ci riportano all’universo visto da un cosmologo greco; sebbene la logica aristotelica sia stata da tempo abbandonata, il contrasto tra “l’ordine interno ed il caos esterno” resta. Per di più, dato l’esplosiva capacità del calcolo digitale, dei complessi modelli di previsione e visualizzazione dei dati, le operazioni logiche del computer stanno definitivamente affermando la loro concreta esistenza in un mondo di informazioni sempre più sostanzioso, anche se incorporeo, che abita dall’altra parte dello schermo. Nel crescere in complessità e in potere di rappresentazione, questo mondo sembra essere ormai parallelo al nostro –


e persino, nella sua binaria perfezione, oltrepassarlo. Fissando attentamente un denso rendering grafico sulla situazione meteorologica del pianeta, oppure una effettiva riproduzione ad alta risoluzione di una foglia, scivoliamo inconsapevolmente nella visone del mondo di Pitagora, mistico predecessore di Platone, che considerava l’universo non solo obbediente a leggi matematiche, ma anche in realtà composto da numeri – numeri che egli identificava con figure geometriche. Nel Timeo, Platone rinnovò questa teoria asserendo che i quattro elementi che compongono il mondo visibile fossero essenzialmente quattro solidi poliedrici, piuttosto simili ai poligoni grafici bidimensionali che costituiscono le superfici virtuali di Zelda e di Quake [due videogiochi n.d.c.]. Forse la più ardita manifestazione metafisica di questo “vecchio spirito platonico” si trova nel pensiero di Edward Fredkin, un brillante ed eccentrico scienziato informatico, imponente figura in alcuni circoli scientifici e autodidatta, la cui mancanza di pubblicazioni gli ha impedito di diventare un professore al MIT. Fredkin è convinto che l’universo sia letteralmente un computer. Al di sotto della sua più piccola briciola subatomica riconosciuta oggi dai fisici, si troverebbero un gruppo di bit, una struttura di informazioni che si riproduce secondo semplici algoritmi. Aderendo ad una sorta di panteismo digitale, Fredkin immagina l’universo come un grande automa cellulare – uno di quei programmi per computer che consta di semplici elementi e funzioni basilari, ma che col tempo produce complesse ecologie cibernetiche. L’affascinante teoria di Fredkin, anche se folle, mostra la piena estensione cosmologica del paradigma digitale. Ed una volta considerato l’universo come un’immensa matrice logica di algoritmi, l’attività dei computer terreni di oggi potrebbe ben assumere un metafisico, quindi demiurgico, potere. La macchina universale diviene così una macchina che costruisce universi. Sfortunatamente, il richiamo della sirena verso il pleroma informatico tende anche a risucchiare gli esseri umani negli aspetti più problematici della psicologia platonica. Una volta assicurataci la perfezione logica del mondo dei computer, potrebbe essere poi particolarmente duro accettare il nostro essere degli animali destinati alla morte. Non c’è bisogno di guardare lontano per trovare un profondo moto di disgusto per il corpo nell’asettico immaginario promosso da Moravec e da molti extropiani; ma a differenza del vecchio desertico orrore degli anacoreti per la libidine, gli escrementi e la bile, questo disgusto nasce dall’avversione di certi mistici moderni per il


cattivo design. Come sostiene il futurista Bob Truax nel suo libro The Conquest of Death, “quale progettista ben intenzionato proverebbe a costruire qualcosa senza calce e gelatina? Ossa e protoplasma sono materiali strutturali estremamente poveri.”. L’eroe extropiano Bon Ettenger, che nel 1962 con il libro The Prospect of Immortality dette inizio al movimento criogenico, propose che una delle prime operazione da effettuare sui nostri nuovi corpi trasumani fosse quella di fare le cose pulite e senza merda. Ascoltando tali piani, quasi automaticamente ci si immagina lo stereotipo del goffo ed impacciato hacker che si lamenta di dover alimentare, scaricare e occasionalmente anche lavare la propria macchina di carne sempre ammaccata. Hans Moravec si meraviglia del perché non percorriamo tutta la strada e diventiamo letteralmente macchine. Moravec non riesce a spiegarsi perché Data, l’androide di Star Trek: The Next Generation voglia divenire umano; per Moravec, travasare le nostre menti in un circuito elettrico ci permetterà non solo di schivare la “bieca mietitrice”, ma anche di superare con un sol balzo i nostri corporei limiti umani. Non appena saremo cyborg post-umani, tutte le manopole delle nostre capacità verranno regolate sul livello “semidio”: memoria, assunzione di informazioni, acutezza percettiva, capacità di elaborazione. Persino il cielo non sarà più un limite quando la nostra capacità di trasferire le nostre menti nel maggior numero di macchine possibile ci permetterà di esplorare spazi profondi, colonizzare altri pianeti ed estrarre ricchezze dalla materia grezza del sistema solare. Curiosamente, l’immagine del cyborg, sottesa a molte delle speculazioni degli extropiani, è legata all’inizio dei voli spaziali. Il termine stesso fu coniato all’inizio degli anni ’60 da due scienziati, Manfred Clynes e Nathan Kline, che volevano sviluppare i corpi degli astronauti sia tecnologicamente che farmacologicamente, in modo da far sentire i ragazzi a casa propria anche nello spazio aperto. In questo senso, la compenetrazione cyborg di tecnologia ed umanità è parte integrante dell’eroico sogno di abbandonare il pianeta, un sogno che riassume il materialismo trascendentale esemplificato da Moravec, dagli extropiani e da altri tecnofili mutanti. In seguito vedremo come la setta denominata Heaven’s Gate (la Porta del Paradiso) abbia fagocitato questo sogno con tutto l’amo e la lenza, ma l’esaltazione religiosa per lo spazio esterno è difficilmente limitabile ai soli fanatici degli UFO. Come David Noble mostra in La religione della tecnologia, lo spirito si è posato sul programma spaziale americano sin da quando nel 1950 il rocket-man Wernher von Braun, appena arrivato nella


Germania post-nazista, si convertì al Cristianesimo fondamentalista. Per questo, con tutte le Bibbie e le ostie che gli astronauti hanno portato su è giù dalla luna, e con tutti i mormoni ed i convertiti che seguivano lo show da casa, è difficile meravigliarsi del fatto che la General Motors, uno dei padri del programma spaziale degli Stai Uniti, abbia tentato di costruire una Cappella degli Astronauti vicino al Kennedy Space Center nei primi anni ’70. Le tecnologie spaziali non materializzano solo le smanie orbitali di quei disperati bisognosi di sfuggire all’austero destino della vita terrena. Esse drammatizzano quella nostalgia cosmica che vibra in tanti cuori umani: vivo desiderio di un trascendente livello di autenticità, di essere riflessi nei cieli. Molti cervelloni moderni, religiosi e non, credono che questo senso di estraniamento non possa essere in realtà mitigato; si può però guadagnare autenticità gettandosi nelle condizioni esistenziali della vita reale, con tutte le sue limitazioni, sofferenze e insicurezze. Altri trovano che questo desiderio cosmico possa venir soddisfatto se si comprende che la vita terrena è già composta da polvere stellare, e che i disegni delle galassia distanti sono riflessi nelle fronde delle palme, negli specchi delle maree e nell’iride dell’occhio di un amante. Ma simili rivelazioni non sono sempre sufficienti a sopire il sospetto gnostico che esista qualcosa di più per noi, oltre quel che la natura ci consente di vedere. Secondo quanto proclama il vescovo Hoeller, “le tradizioni essoteriche ed esoteriche affermano che la terra non è l’unica dimora per gli esseri umani, che noi non siamo cresciuti come erbacce del terreno. Se i nostri corpi possono di fatto aver avuto origine su questa terra, così non è stato per la nostra essenza interiore”. Inutile dirlo, il vescovo, come la maggior parte dei libertari e dei tecno-utopisti, si infiamma facilmente quando affronta gli ambientalisti. A livello politico, gli ambientalisti rappresentano la tirannia poiché essi professano la realtà della limitazione. Essi sostengono che stiamo oltrepassando i limiti naturali della biosfera, che enti regolatori dovrebbero imporre delle norme limitative ai cittadini ed alle corporation; inoltre sostengono che la tecnologia è rigidamente limitata nelle sue possibilità di ripulire il sudicio casino che ha combinato. Su un piano spirituale, molti profondi ecologisti, New Agers e vari bacia-alberi ripudiano la tendenza di Hoeller all’estraniamento dal mondo in quanto patologico, condividendo invece un’identificazione quasi pagana con la natura ed i suoi poteri di guarigione. I filosofi ed i poeti della natura hanno poca predilezione per la tradizione platonica e per


la sua denigrazione della vita materiale nel nome di ideali astratti. Allo stesso modo rifiutano l’eredità antropocentrica di un umanesimo trionfante ed insoddisfatto e non sono particolarmente amanti neanche della filosofia meccanicistica di Descartes, che separava la mente dal corpo e scalzava l’incanto della natura, riducendo quest’ultima ad una semplice macchina da usare. Con il pedale dell’Occidente a tavoletta, gli extropiani portano tutte queste tendenze antiecologiche ad uno stato febbrile, distillando quel che Mark Dery in modo pungente classificò come la “teologia del sedile espulsore”. Nell’utopia extropiana, la mente abbandona il corpo, la tecnologia riscrive le leggi della natura, e i superbrillanti libertari abbandonano quel rifugio inquinato ed impoverito che è la Terra per una vita da cyborg nello spazio. Sicuramente questi sogni possono essere visti come sintomi di un arrogante e mortale rottura con la natura, o come un insolente rifiuto a riconoscere il dominio della necessità, o come un disprezzo ingenuo ed insensibile per le reti sociali ed ecologiche che continuano a legarci qui ed ora. Ma la tecnologica pulsione degli extropiani verso la trascendenza deve anche essere considerata come la maschera fantascientifica di un’intuizione psicospirituale che ha trascinato gli uomini per millenni. L’intuizione è alchemica: sepolto nell’oscurità del sé umano, giace un informe nucleo dorato, e con la tecnologia, sia nel suo senso metaforico di tecnica che in quello letterale di strumento, possiamo canalizzare e trasformare questo potenziale. Siamo già dei cyborg, potrebbe dire un extropiano, e ora possiamo puntare alle stelle.


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