Il magazine dedicato all’innovazione e alla crescita economica Quadrimestrale anno III° n. 1/2020 Marzo 2020/Giugno 2020
Come sarà l’auto del futuro Ugo Bertone, Giuseppe Berta, Giancarlo Fisichella, Dino Marcozzi, Marta Bucci Alessandro Alviani, Paola Liberace
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RITIRA E CONDIVIDI
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Clima e tecnologia. Per l’industria automobilistica è una sfida epocale di Pierluigi Mennitti
Mai come in questo numero, affrontando la rivoluzione dell’automotive, ci siamo trovati a raccontare un settore i cui cambiamenti stanno ormai avvenendo in tempi rapidissimi. Nei soli quattro mesi intercorsi fra la scelta dell’argomento e il completamento della rivista, la storica casa automobilistica italiana ha legato il proprio destino al costruttore francese Psa, il visionario Elon Musk ha sconvolto l’industria dell’auto tedesca avviando i lavori per la costruzione della gigafactory europea alle porte di Berlino e le novità più interessanti per l’automobile del futuro sono arrivate da una rassegna di elettronica, il Consumer Electronic Show di Las Vegas, e non da una fiera automobilistica. L’auto del futuro prende sempre più le sembianze dei veicoli futuristici che hanno forgiato l’immaginario collettivo della nostra fantascienza: un gadget elettronico, un dispositivo tecnologico quasi più simile a uno smartphone che al veicolo a quattro ruote che abbiamo guidato finora. Nel pieno della rivoluzione in corso abbiamo tastato il polso a un settore alle prese con una sfida epocale, determinata dalle urgenze di tutela ambientale e dall’impatto dell’innovazione tecnologica. Lo abbiamo seguito nelle sue trasformazioni
in Europa, in particolare in Italia e Germania dove le produzioni si intrecciano anche lungo la rete delle filiere, e nello sviluppo dei nuovi motori che daranno il benservito all’era del combustibile fossile. Quindi abbiamo viaggiato sulle nuove rotte della geopolitica delle risorse e siamo andati a vedere come la tecnologia e l’intelligenza artificiale stanno rivoluzionando l’idea stessa di auto che ci accompagna dal Novecento. Lo sbarco delle Big Tech è il segnale che su questo fronte si è solo agli inizi. Abbiamo infine indagato la nuova frontiera del car sharing e le piattaforme che contribuiscono a modificare il rapporto proprietario che l’uomo ha avuto con l’automobile: già oggi, per la cosiddetta generazione dei Millennials l’auto non è più uno status symbol, ma un semplice mezzo per muoversi da un luogo all’altro. Abbiamo voluto fornire una traccia narrativa a un settore che spesso viene raccontato da e per gli addetti ai lavori. La dimensione della sfida è fissata nelle parole del numero uno di Volkswagen, Herbert Diess, riportate nell’articolo di apertura di questo numero: “Se non saremo in grado di reagire con la velocità necessaria, rischiamo di fare la fine di Nokia”.
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Michele Arnese (Direttore www.startmag.it) Giusy Caretto Valerio Giardinelli Giuseppe Mancini (Istanbul) Luca Martino Simone Martino Manola Piras Chiara Rossi
Progetto grafico Grafica Internazionale Roma Illustrazione copertina: Stefano Navarrini
In questo numero hanno scritto Alessandro Alviani Giuseppe Berta Ugo Bertone Marta Bucci Massimo Ciuffini Giancarlo Fisichella Ivo Stefano Germano Stefano Grazioli Luciano Lanna Paola Liberace Giuseppe Mancini Dino Marcozzi Marco Pavone Marisa Saglietto Alessandro Sperandio Maurizio Stefanini
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Trasformarsi o scomparire di Ugo Bertone
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Psa-Fca, un matrimonio inevitabile Intervista a Giuseppe Berta di Giusy Caretto
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L’industria dell’auto tra crisi e futuro di Marisa Saglietto
L’evoluzione dell’automotive è una strada ormai tracciata Intervista a Giancarlo Fisichella di Giusy Caretto
L’Anno Uno dell’auto elettrica di Dino Marcozzi
Motori, le opzioni in campo di Alessandro Sperandio
C’è anche l’auto a metano per abbattere le emissioni di Marta Bucci
Una risposta plurale alla sfida ambientale di Luca Martino
Il Made in Germany si elettrifica di Pierluigi Mennitti
Se l’auto entra nella rete elettrica di Simone Martino
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James Dyson e il sogno sfumato dell’e-car di Giuseppe Mancini
Auto elettrica, i numeri dell'Italia
Lo sbarco delle Big Tech di Alessandro Alviani
Aspettando la guida autonoma Intervista a Marco Pavone di Chiara Rossi
Drive in: l’intrattenimento sale a bordo di Paola Liberace
Günther Shuh, l’Elon Musk della Renania di Stefano Grazioli
Le nuove frontiere della mobilità condivisa di Massimo Ciuffini
Niente auto, siamo Millennials di Ivo Stefano Germano
Ho visto auto che voi umani non potete neanche immaginare di Luciano Lanna
Gli autori
Geopolitica del litio di Maurizio Stefanini
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Trasformarsi o scomparire La rivoluzione dell'industria automobilistica è destinata a segnare l'economia e la finanza europea nei prossimi anni. E il suo esito è tutt'altro che scontato
di Ugo Bertone “Se non saremo in grado di reagire con la velocità necessaria, rischiamo di fare la fine di Nokia”. Non è certo per distrazione che il numero uno di Volkswagen, Herbert Diess, ha consentito che le sue parole pronunciate nel corso di una riunione interna ai massimi livelli alla fine del 2019, finissero in pasto ai mass media. Diess, insediato al vertice del gruppo di Wolfsburg con l’incarico di traghettare il gruppo fuori dall’incubo dei dieselgate verso l’auto del futuro, sa che molti suoi collaboratori guardano più con paura che con entusiasmo alla sfida che li attende, vista la complessità dei problemi, le perplessità di clienti e dipendenti, le incognite di un settore che, dopo più di un secolo, rimette in discussione equilibri che sembravano eterni. Di qui il parallelo con il gruppo della telefonia mobile travolto nel giro di pochi anni dallo smartphone e la rivoluzione che ha trasformato un apparecchio per telefonare in un computer che ci accompagna ovunque, sia per lavorare sia per il tempo libero. Nulla esclude che quel che è capitato nel mondo della comunicazione non possa ripetersi in quella della mobilità, ridisegnando tra l’altro la mappa delle città.
D'ORA IN POI È VIETATO SBAGLIARE Certo, tutto questo non accadrà nel 2020. Ma fin d’ora è vietato sbagliare, vuoi per eccessiva lentezza, vuoi per aver cercato di correre troppo in fretta. Come è capitato a Nemaska, una società canadese finanziata da Softbank che ha sviluppato con largo anticipo gli investimenti nelle miniere di litio, un elemento per ora indispensabile per le batterie elettriche. Un’intuizione giusta, ma prematura: la società è fallita, travolta dalla caduta improvvisa di richieste da parte dei clienti cinesi, a loro volta colti di sorpresa dal taglio dei sussidi di Pechino. Non basta, insomma, correre sull’autostrada del futuro schiacciando un metaforico pedale dell’acceleratore. L’ha capito, con grande umiltà, James Dyson, il genio inglese che ha preferito rinunciare alla sua auto elettrica, per cui aveva già investito 200 milioni di dollari piuttosto che rischiare un bagno di sangue finanziario. Sono solo due episodi di una grande corsa che ci riserverà grandi sorprese, come già lascia intendere la cronaca degli ultimi mesi: chi l’avrebbe detto, solo cinque anni fa, che
5 un’azienda all’epoca ancora quasi sconosciuta come Tesla avrebbe avuto l’ardire di sfidare l’industria tedesca nel cuore della sua potenza industriale? Del resto, a conferma che i giochi non sono ancora chiusi: come sosteneva il presidente Mao, la situazione è eccellente quando regna il disordine sotto i cieli. E il disordine sembra regnare sovrano perfino negli straordinari motori (elettrico, of course) dell’auto tedesca. Facciamo, in sintesi, un breve elenco: - La Germania, sotto lo shock dello scandalo del diesel e la pressione crescente dell’elettorato verde, ma anche per difendere la sua leadership nel settore, ha deciso di accelerare la sfida elettrica dandosi l’obiettivo di produrre dieci milioni di veicoli elettrici entro la fine del decennio. Mica male, se si pensa che a fine 2019 le auto elettriche rappresentano il 2% del mercato tedesco. - Per soddisfare l’offerta in attesa della domanda la sola Volkswagen dovrà procedere ad investimenti per 80 miliardi, peraltro da effettuare in tempi rapidi per fronteggiare la sfida di Tesla che si prefigge l’obiettivo di produrre entro un anno mezzo milione di auto elettriche nella sua nuova fabbrica tedesca. - La rivoluzione non porterà ad un aumento dell’occupazione perché l’auto elettrica richiede assai meno manodopera. I gruppi tedeschi parlano di un taglio di 88mila unità ma centri indipendenti parlano di un taglio di 400mila posti, circa la metà degli 800mila addetti d’oltre Reno. E il salasso rischia di essere anche più robusto nell’indotto, che occupa tre milioni di lavoratori. - Non ci vuol molto a capire che, per attutire l’impatto, l’industria tedesca, come già chiedono i sindacati, dovrà concentrare in patria l’intera catena produttiva, riducendo il più possibile il ricorso ai fornitori stranieri, in testa quelli italiani. - L’altro nervo scoperto riguarda la produzione di batterie che incidono per circa un terzo sul costo di un veicolo elettrico, ma
che sono per l’85% del totale prodotte in Asia e che richiedono materie prime, vedi il litio e il cobalto, spesso controllate dai giganti di Pechino, molto più avanti sul fronte della produzione di auto nonché delle batterie. - L’elenco dei problemi comprende il nodo della rete di distribuzione che richiederà sforzi enormi che solo la Germania, forte della sua invidiabile posizione finanziaria, sembra in grado di affrontare. - Il nuovo quadro è senz’altro drammatico per la velocità dei tempi di esecuzione e per l’incertezza che comporta. Non si ha alcuna evidenza del gradimento dei consumatori, peraltro perplessi per l’aumento dei prezzi. I FINANZIAMENTI DELL'UE E LE MOSSE ITALIANE Questo, ovviamente, è solo un piccolo riassunto di un tema destinato a segnare l’economia e la finanza europea nei prossimi anni. L’Unione europea, per esempio, ha già deciso di fare un’eccezione alla normativa sugli aiuti di Stato, tra l’altro promuovendo un progetto europeo sulle batterie che prevede finanziamenti per 3,2 miliardi di investimenti in ricerca e sviluppo. L’industria italiana, intanto, cerca di recuperare il terreno perduto. Al Salone di Ginevra, verrà presentata la 500 elettrica in produzione a Mirafiori. Intanto il gruppo, in attesa delle nozze con Peugeot, sta per finalizzare l’intesa con Foxconn, il colosso di Taiwan che produce l’iPhone per sbarcare assieme sul mercato cinese dell’auto elettrica con obiettivi ambiziosi. Anche così si cerca di ovviare ai ritardi che hanno avuto effetti paradossali: l’investimento Tesla a Berlino, la prima gigafactory in Europa, sarà pagata per intero dai capitali, circa 2 miliardi, che Fca sta versando ad Elon Musk per l’acquisto dei “diritti ad inquinare”, la penalità prevista per il mancato rispetto dei nuovi parametri. Anche questo può succedere ai tempi della rivoluzione.
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Psa-Fca, un matrimonio inevitabile La Fiat ha rappresentato la via italiana all'automobile, ma Fca non era più in grado di reggersi da sola sul mercato. La fusione con i francesi è una buona soluzione, ma l’Italia vede sparire di scena come soggetto nazionale il proprio produttore storico
Intervista a Giuseppe Berta di Giusy Caretto Non c’è nulla di meglio di uno storico dei processi industriali e del capitalismo per provare a fermare, almeno per un momento, le bocce velocissime della rivoluzione che sta investendo l’automotive. E capire cosa sta accadendo in casa Fca, erede del marchio Fiat che ha incarnato la storia dell’auto in Italia. Giuseppe Berta, vercellese, classe 1952, è anche uno dei più accreditati studiosi dell’industria automobilistica nel nostro Paese (dal 1996 al 2002 ha diretto l’Archivio storico della Fiat). Dopo aver dedicato diversi studi alla casa torinese, ha recentemente allargato lo sguardo a una città il cui destino è stato ugualmente legato alla storia dell’industria automobilistica e, in più momenti, a quella della Fiat: Detroit.
INTERVISTA A GIUSEPPE BERTA INTERVISTA A GIUSEPPE BERTA INTERVISTA A GIUSEPPE BERTA INTERVISTA A GIUSEPPE BERTA INTERVISTA A GIUSEPPE BERTA INTERVISTA
7 Professore, cosa ha rappresentato l’auto e la Fiat per l’Italia? La Fiat ha rappresentato per il nostro Paese la via italiana all’automobile. Così ha inevitabilmente rappresentato anche il modello italiano della produzione di massa, fin da quando – ancor prima che scoppiasse la Prima guerra mondiale – il suo fondatore Giovanni Agnelli andò in America per studiare l’organizzazione della produzione di massa realizzata da Henry Ford nel suo stabilimento di Highland Park, a Detroit. In fondo, la fabbrica del Lingotto (1923) e poi quella ancor più grande di Mirafiori (1939) costituirono il tentativo di disegnare una strategia italiana per il fordismo e la produzione di massa. Tale tentativo però si scontrò con le dimensioni troppo ristrette del mercato italiano e con le politiche autarchiche del regime fascista, che non permettevano di replicare e ibridare il modello americano in Italia. Perché fosse possibile si dovette aspettare il secondo dopoguerra, quando Vittorio Valletta approfittò delle nuove condizioni di apertura del mercato, all’ombra dell’alleanza atlantica, e dell’importazione delle nuove tecnologie favorita dagli Stati Uniti per raggiungere davvero dimensioni di massa. Furono gli anni della 600 e della 500, con l’immigrazione dal Sud al Nord e il conseguimento di soglie importanti di capacità produttiva. Il marchio “Fiat” – Fabbrica Italiana Automobili Torino – corrispose in pieno all’identificazione con lo sviluppo industriale italiano. Ora, naturalmente, tutto questo ha un senso solo dal punto di vista storico. Facciamo un lungo salto temporale e arriviamo a tempi a noi più vicini. Come è cambiata la Fiat con l’arrivo di Sergio Marchionne? La leadership di Sergio Marchionne ha trasformato la Fiat perché Marchionne arrivò a Torino nel momento di massima crisi del gruppo, immediatamente dopo la morte di Umberto Agnelli (2004), che veniva appena dopo la scomparsa dell’Avvocato, come era soprannominato Gianni Agnelli. L’azienda allora era in pieno marasma e si temeva che potesse finire nelle mani delle banche con cui era fortemente indebitata. Marchionne aveva il vantaggio di non essere condizionato dalla gestione precedente perché non aveva avuto contatti col vecchio mondo Fiat (non aveva mai nemmeno conosciuto l’Avvocato Agnelli, nume tutelare dell’azienda). Poté così operare con piena libertà manageriale, sfoltendo drasticamente i quadri di un gruppo dirigente aziendale in-
vecchiato e inaffidabile, inabile a conseguire gli obiettivi che peraltro indicava nei documenti programmatici. Tale libertà d’azione gli permise di ridefinire gli obiettivi e di guidare il management al loro conseguimento, svecchiando così una gestione che era diventata troppo provinciale e acquistando finalmente quel respiro internazionale che non aveva mai davvero avuto. Si trattò di un totale rinnovamento dei metodi operativi di un gruppo che si era logorato negli anni precedenti a causa di una gestione inadeguata. Quali le tappe principali degli anni di Marchionne in Fiat/Fca? L’opera di Marchionne si è scandita a mio avviso in tre fasi. Nella prima di esse, tra il 2004 e il 2007, egli rimise in ordine i conti dell’azienda, cambiando radicalmente le sue politiche interne. Revocò il patto con la General Motors, traendone un significativo vantaggio per le casse di una Fiat stremata (oltre 1,5 miliardi di euro). Modernizzò e ridimensionò i quadri manageriali. Migliorò gli impianti. Diede il via a una nuova linea di prodotto col lancio a Torino, nel luglio 2007, della Nuova Cinquecento. Tutti segnali che, almeno agli inizi, gli guadagnarono un consenso piuttosto largo. La seconda fase fu quella compresa tra il 2008 e il 2014. Essa iniziò con l’impatto terribile della crisi globale sull’industria automobilistica. Marchionne fu tra i primi a sostenere che l’alternativa era tra un cambio radicale e la scomparsa. Così, quando nessuno voleva prendere l’americana Chrysler giudicando che essa non potesse più essere risanata, Marchionne propose al governo americano e alla “task force” per l’industria di Detroit, che stava collassando, una partnership con la Fiat. La casa italiana non avrebbe apportato un solo centesimo sul piano delle risorse finanziarie, ma avrebbe concesso in dote per il matrimonio il proprio bagaglio tecnologico, di cui gli americani avevano bisogno. Questa proposta (che peraltro era l’unica in campo) convinse Obama, che acconsentì al sodalizio. Di qui il successivo stretto legame tra Fiat e Chrysler che poi si trasformò in una fusione. Tale operazione, però, ebbe la conseguenza di spostare l’asse aziendale verso l’America, determinando un progressivo ridimensionamento del ruolo italiano ed europeo della Fiat. La terza fase va invece dal 2015 alla scomparsa di Marchionne nel luglio 2018. Sono gli anni in cui Marchionne concepì addirittura l’ipotesi di un’Opa ostile su General Motors, che avrebbe dovuto determinare la nascita del più grande gruppo automobilistico su scala mondiale. Ma
era un’operazione terribilmente difficile, che procurò a Marchionne molte ostilità e che alla fine destò la perplessità anche del suo azionista di riferimento (Exor), che lo trattenne. Da quel momento Marchionne intraprese un’altra strada, quella di un forte contenimento del debito, un’azione propedeutica a una nuova alleanza o nuova fusione. La morte rapida impedì a Marchionne di completare il proprio percorso manageriale all’interno di Fca.
era in cima alle sue prospettive. Ma, venuto a mancare Marchionne, per Fca c’era l’assoluta necessità di una partnership e/o di una fusione con un altro gruppo automobilistico. Tramontata l’ipotesi, a mio avviso improbabile, con Renault (e Nissan), sul tavolo non è restata che la possibilità di un incontro con Psa. Sulla carta questa non è forse la migliore delle intese possibili, ma certo è quella più concretamente praticabile.
Ci sono stati errori nella strategia di Marchionne?
Era davvero l’unica via di salvezza per la casa italo-americana?
Anche un manager abile, con delle punte di genialità, come Marchionne ha commesso certamente degli errori. Per esempio, nel 2009, dopo lo scoppio della grande crisi, lui immaginava di costituire un nuovo gruppo a tre punte: Fiat, Chrysler e General Motors. Era cioè persuaso che l’indebolita General Motors fosse pronta a cedergli Opel, il suo ramo europeo, così da configurare un nuovo gruppo dell’auto capace di produrre quasi sei milioni di vetture all’anno. Purtroppo per lui (e forse anche per l’Europa), Marchionne si trovò di fronte a un ostacolo che non aveva considerato: la Germania considerava la Opel come parte integrante del proprio patrimonio industriale e il governo tedesco si oppose alla sua cessione alla Fiat. Così Marchionne dovette far fuoco con la (ridotta) legna a sua disposizione e ciò finì per sbilanciare il nuovo gruppo Fca, dopo il matrimonio con Chrysler, tutto sul versante americano, con le conseguenze e i limiti che conosciamo. Un altro errore è dipeso anche dal fatto che Marchionne non era propriamente un car guy, cioè un uomo imbevuto di cultura produttiva dell’automobile, un limite che lo condusse a sottovalutare gli aspetti e i contenuti tecnici dell’industria in cui operava. Infine, negli ultimi anni della sua gestione investì troppo poco sui nuovi modelli e sui contenuti tecnologici, ma questo rispecchiava i pesanti limiti impostigli dall’azionista, che voleva un gruppo il più possibile libero dai debiti, in modo da poterlo accasare più facilmente con un altro produttore.
Fca non era in grado di reggersi da sola sul mercato internazionale, per almeno tre motivi. La sua offerta è caratterizzata da un portafoglio modelli troppo scarso e limitato, basti pensare al fatto che Fca non dispone al momento di alcun modello ibrido o elettrico. I suoi risultati sono abbastanza buoni sul mercato nordamericano, grazie ai risultati di vendita dei marchi Jeep (Suv) e Ram (pickup), ma sono assai negativi sul mercato europeo e non brillanti su quello latino americano, mentre in Asia Fca semplicemente non c’è. Ciò infine rende “disfunzionale” il suo assetto di gruppo, che non è sufficientemente integrato e versatile: nel medio-lungo periodo non può quindi tenere. Dunque, non rimane che scommettere sulla fusione con un altro gruppo e, al momento, l’unica possibilità reale rimane Psa. Questo gruppo ha il vantaggio di avere un leader d’impresa assai forte, Carlos Tavares, in questo momento uno dei manager dell’auto migliori in assoluto, capace e determinato (che, tra l’altro, è un vero car guy). Personalmente ritengo dunque la fusione con Psa una buona soluzione per Fca. Non so pronosticare tuttavia se tale operazione darà buoni frutti anche per l’Italia, che vede infatti sparire di scena, almeno come soggetto nazionale, il proprio produttore storico, ricollocato all’interno di un nuovo gruppo che assai probabilmente perderà la sua (ormai scolorita) matrice italiana.
Fca è pronta a fondersi con Psa. Quale futuro? Come ho già detto, Marchionne aveva in mente soprattutto una fusione con General Motors, un obiettivo che a un certo punto divenne quasi un assillo per la sua leadership manageriale. Certo, un eventuale partnership con Psa non
INTERVISTA A GIUSEPPE BERTA INTERVISTA A GIUSEPPE BERTA INTERVISTA A GIUSEPPE BERTA INTERVISTA A GIUSEPPE BERTA INTERVISTA A GIUSEPPE BERTA INTERVISTA
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Chi Siamo
E-Fase S.r.l. è una società di servizi integrati per l’energia che si propone come “Energy Manager” indipendente per svolgere azioni generative di risparmio ed efficienza energetica e supportare i clienti nello sviluppo e nel mantenimento delle stesse.
Certificazioni
E-Fase è certificata secondo la normativa ISO 9001:2015 che garantisce la capacità di fornire con regolarità prodotti o servizi che soddisfano i requisiti del cliente ed accrescere la soddisfazione del cliente tramite l’applicazione efficace del sistema qualità. Possiede inoltre la certificazione UNI CEI 11352:2014 “Società che forniscono servizi energetici” la quale attesta le capacità organizzative, diagnostiche, gestionali necessarie allo svolgimento dei servizi proposti. Ai sensi del D.lgs. 102/2014, il possesso della certificazione UNI CEI 11352 consente ad E-fase di redigere le Diagnosi Energetiche e di partecipare al meccanismo dei certificati bianchi.
Consulenza
La consulenza offerta è personalizzata in base alle esigenze del cliente, alla gestione ed il controllo delle prestazioni energetiche. E-fase S.r.l. è in grado di offrire un servizio completo in tutti gli ambiti della gestione efficiente dell’energia.
E-FASE s.r.l. via Daniele Pesenti, 1 - 24022 Alzano Lombardo T +39 035 4127352 | F +39 035 4721794 info@efase.it
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L’industria dell’auto tra crisi e futuro Il trasporto stradale resta una parte fondamentale dell’ecosistema dei trasporti per la flessibilità che offre. Ma la sua riconversione non sarà indolore
di Marisa Saglietto
Dal 2007 ad oggi molto è cambiato nella società, nell’economia e nell’industria dell’auto. Il breve excursus che segue delinea a grandi linee questi cambiamenti. La domanda e la produzione globali di autoveicoli si sono mantenuti in costante crescita fino al 2007 (73 milioni gli autoveicoli prodotti). Nel 2006, negli Usa, la crisi dei subprime e del mercato immobiliare innescata dallo scoppio di una bolla immobiliare produsse a catena una grave crisi finanziaria nell’economia americana, che nel 2008 si estese in tutto il mondo, soprattutto in quello industrializzato ed avanzato. Quella del 2008 fu una crisi profonda, le cui conseguenze, piuttosto gravi, per certi versi persistono tuttora. Il grave squilibrio tra mondo della finanza ed economia reale basata su beni e servizi scardinò non solo il sistema economico ma anche quello sociale, determinando profonde disuguaglianze economiche e rendendo sempre più evidente che quel sistema non avrebbe più garantito il miglioramento delle condizioni di vita a milioni di persone in Occidente, come era stato dal dopoguerra in avanti.
11 L’industria maggiormente colpita dalla crisi fu quella automobilistica, che rischiò un vero e proprio collasso. Lo scenario che emerse fu un’espansione della domanda nei Paesi emergenti, soprattutto asiatici, dove il basso costo del lavoro e una classe media in ascesa garantivano mercato e produzione, mentre la domanda nei mercati avanzati si limitava alla sostituzione, anche a causa della disoccupazione e della mancanza di credito. Per la produzione mondiale di autoveicoli il picco negativo si registrò nel 2009 con appena 61,6 milioni di unità e un pesante calo della produzione nelle aree Nafta (-43% sui volumi del 2007), Giappone (-32%) e Ue (-22%). La crisi risparmiò alcuni Paesi emergenti, Cina, Brasile e India, che continuarono a produrre e a vendere autoveicoli. Si consolidò, in particolare, la produzione di auto e camion in Cina, che, nella classifica mondiale dei Paesi produttori, passò dal 3° posto del 2007 al 1° nel 2009, conquistando la scena internazionale. In Ue la crisi colpì i major market europei, ma fu più pesante e lunga in Spagna e in Italia. In Italia la riduzione dei volumi produttivi di autoveicoli era già in corso da tempo: nei 5 anni precedenti la crisi (2004-2008), dalle fabbriche italiane uscivano mediamente 1,14 milioni di autoveicoli all’anno, 410mila in meno all’anno rispetto al quinquennio precedente (media annua 1999-2003: 1,55 milioni di autoveicoli). Con lo scoppio della crisi economica e della recessione che ne seguì (2009-2014), la produzione media annuale crollò a 750mila unità. La ripresa economica dell’Italia iniziò alla fine del 2014, quando i volumi produttivi aumentarono, superando il milione di autoveicoli. Nuove alleanze, fusioni e joint venture fra costruttori hanno permesso di far fronte alla crisi del settore. Nel 2009 il governo americano decise di sostenere la Chrysler, che era in gravi difficoltà, nell’intesa con la Fiat di Sergio Marchionne, interessata all’acquisto. Fiat rilevava così la casa automobilistica di Detroit, che poteva sfruttare la tecnologia avanzata del partner italiano in termini di motori più ecocompatibili e Fiat accedeva al vasto mercato d’oltreoceano, dal quale era uscita molti anni prima. L’alleanza consentì a Fca di resistere in un contesto internazionale sempre più competitivo e globale. Un percorso che, a fine 2019, prosegue con l’accordo di fusione Fca-Psa per creare un campione europeo secondo solo alla Volkswagen e quarto nella classifica mondiale dei produttori. Dopo il picco negativo del 2009, la produzione mondiale di autoveicoli riprese a crescere fino al 2017, quando segnò un nuovo record a
quasi 98 milioni di unità. Nel 2016/2017 in Cina e Nafta furono prodotti volumi record, rispettivamente di 29 e 18 milioni di autoveicoli. In Ue, la produzione, pur recuperando, è invece rimasta al di sotto dei livelli pre-crisi. Nel 2018 la produzione mondiale registra il primo segno negativo dal 2009, che persiste nel 2019. Dal 2007 ad oggi il mondo è molto cambiato e così il mondo dell’auto: il dieselgate (2015), ha colpito la reputazione dell’industria automobilistica, rea di aver aggirato le norme sulle emissioni negli Usa e in Europa; la conferenza sul clima a Parigi (2015), ha vincolato i Paesi del mondo (oltre 190) a contenere il surriscaldamento del pianeta (entro i 2 gradi rispetto ai livelli pre-industriali); la Cina ha frenato la sua corsa inarrestabile di fabbrica del mondo; le tensioni commerciali frenano il commercio mondiale; le profonde disuguaglianze economiche minano ovunque la stabilità politica; le tecnologie digitali si diffondono rapidamente in tutti gli aspetti del business e comportano cambiamenti sostanziali a livello tecnologico, culturale e come generazione di valore. L’accordo sul clima di Parigi impone, a partire dal 2020, una rigorosa agenda per la riduzione delle emissioni di gas serra. In Europa, il mutamento del clima, che potrebbe avere gravi conseguenze su economia, infrastrutture, capacità di produrre cibo, salute pubblica, biodiversità, flussi migratori e stabilità politica, spinge l’Ue a diventare il primo continente a impatto climatico zero grazie al Green Deal, la recente proposta di normativa europea sul clima che sancirà per la prima volta per legge l’obiettivo della neutralità climatica entro il 2050. Ciò significa emettere meno biossido di carbonio ed eliminare dall’atmosfera quello emesso. Uno dei settori a cui è richiesto uno sforzo maggiore è quello dei trasporti. Il Green Deal punta a una riduzione del 90% delle emissioni di gas serra entro il 2050, che potrà avvenire solo con un reale cambio di paradigma della mobilità attraverso: l’incremento dell’offerta di carburanti alternativi sostenibili; l’intermodalità nei trasporti; una tariffazione stradale efficace; la riforma del Cielo unico europeo; la cessazione delle sovvenzioni per i combustibili fossili; la conversione al digitale per realizzare una maggiore automazione della mobilità e sistemi intelligenti di gestione del traffico. Per l’industria autoveicolistica significa una trasformazione ed un’evoluzione che richiedono ingenti investimenti e una riconversione a 360 gradi, i cui effetti positivi, per alcuni aspetti, sembrano essere molto “teorici”. La trasformazione industriale riguarda processi
12 industriali (automazione, robotica, digitalizzazione, IoT, efficienza energetica), prodotti (veicoli elettrificati, connessi, a guida autonoma, nuovi materiali), persone (nuove competenze professionali, contaminazione delle competenze tra settori diversi), sicurezza (sviluppo e protezione delle proprietà intellettuali e delle tecnologie incorporate ai veicoli, protezione dei dati); presidio della catena di fornitura; accesso alle materie prime (terre rare). L’evoluzione della domanda comporta nuovi modelli di business customizzati sul cliente con l’offerta di prodotti e servizi attraverso piattaforme on line e applicazioni. Il trasporto stradale resta una parte fondamentale dell’ecosistema dei trasporti per la flessibilità che offre, ma compiere questa riconversione può non essere indolore. L’industria automotive nell’Ue vale oltre 19 milioni di autoveicoli prodotti, un avanzo commerciale di oltre 84 miliardi di euro, 428 miliardi di entrate fiscali e conta 3,5 milioni di addetti, che salgono a 13,8 milioni considerando i servizi. In Italia l’industria automotive conta 274mila addetti diretti e indiretti, che salgono a 1,2 milioni con i servizi, oltre 76 miliardi di euro di entrate fiscali e oltre 6 miliardi di avanzo commerciale per la componentistica. Il 2019 si è chiuso con una contrazione del manufacturing in Ue, in particolare in Germania e Italia, dove l’industria dell’auto ha registrato significative riduzioni dei volumi produttivi, pesando sull’andamento della produzione industriale nel suo complesso. Serve dunque un contesto regolatorio europeo favorevole all’innovazione, alla sperimentazione e all’imprenditorialità, orientato alla riconversione di un comparto chiamato a modificare e integrare le proprie tradizionali specializzazioni, che accompagni tale evoluzione in un mercato altamente competitivo, con una visione d’insieme che migliori sia l’efficienza di ciascun modo di trasporto sia quella del sistema trasporto nel suo complesso. Questo con l’obiettivo di mantenere accessibile e affidabile la mobilità dei cittadini da un lato e di garantire il lavoro dall’altro.
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L’evoluzione dell’automotive è una strada ormai tracciata “Per un pilota di Formula 1 la tecnologia è fondamentale e rappresenta il progresso capace di aiutare e rendere migliore la nostra vita. Ma finché potrò, guidero io la mia auto” Intervista a Giancarlo Fisichella di Giusy Caretto
Classe 1973 e due passioni: le auto e la velocità. Giancarlo Fisichella nato a Roma, sotto il segno del Capricorno (14 gennaio), è uno dei piloti italiani più amati. Ha corso per la Formula 1 ed ora è alla guida della Ferrari-AF Corse nel Campionato del Mondo Endurance, ma a Roma ha fatto anche un paio di giri di prova sulla pista dell’Eur su una monoposto elettrica. A lui abbiamo chiesto come vive la rivoluzione tecnologica (e non solo) che sta interessando la mobilità. Dalla Formula 1 alle corse con la Ferrari-AF Corse nel Campionato del Mondo Endurance nella categoria GT Am, Lei è stato uno dei protagonisti del mondo delle corse automobilistiche. Diciamo che la competenza sui motori non le manca. Come giudica la rivoluzione che sta interessando l’industria auto e il passaggio dai motori a combustione a quelli a trazione elettrica o a gas? L’automotive, e di conseguenza anche il motorsport, stanno attraversando mutamenti radicali e ormai inevitabili. Sono anni che assistiamo al passaggio all’ibrido e a breve all’elettrico. Io ho vissuto queste fasi anche in Formula 1 poiché spesso le innovazioni tecnologiche vengono lanciate e sperimentate nel motorsport e poi se utili riportate sulle vetture di serie. Ricordo ancora l’introduzione del Kers, che in pratica era un dispositivo che in frenata
recuperava energia cinetica e la trasformava in energia elettrica poi utilizzabile. Ormai l’evoluzione è tracciata e penso che andremo incontro ad un progressivo ingresso anche nel motorsport delle nuove tecnologie e motorizzazioni. Penso non solo alla Formula E ma anche ad altri campionati Turismo e Gran Turismo che potrebbero aprirsi all’ibrido e all’elettrico. La Formula 1 penso che resterà ancora tale poiché è un mondo a parte e rappresenta l’apice del motorsport, per qualche anno non vedo grossi stravolgimenti tenici al di là della progettazione delle monoposto. Guidare un’auto elettrica è emozionante, anche se non ha il rombo? Devo essere sincero, quando ho provato una Formula E mi è mancato il rombo. Manca anche la pista vera perché i circuiti cittadini non trasmettono le sensazioni che puoi provare in piste vere tipo Spa. Ma il futuro è quello, anche se alla vecchia generazione di piloti può non piacere. Secondo me oltre alla Formula E può esserci uno sviluppo nelle vetture GT e di serie con motorizzazione elettrica, leggo di molte idee in giro e le seguo con interesse. Una molto interessante mi sembra quella di Gerhard Berger, ho letto di un campionato DTM aperto a tutte le motorizzazioni che si sfidano in pista, senza recinti. Quanto incidono le nuove sensibilità sull’ambiente e gli allarmi sul cambiamento climatico nella rivoluzione dell’auto e nel rimodellamento dei sistemi di trasporto? La strada della mobilità è sempre più sostenibile? La strada della mobilità deve essere sostenibile altrimenti non ha futuro, sono contento che ci siano le nuove sensibilità perché guardano al futuro dei nostri figli e non posso che essere d’accordo perché riguarda il loro futuro più che il nostro. Ci sono delle trasformazioni ormai in corso ed irreversibili, penso anche al car sharing. Tutti fenomeni che fino a qualche anno fa sembravano magari impossibili ma ormai sono la realtà e quindi bisogna sapersi adeguare. Il mondo del motorsport lo sta facendo perché ha sempre seguito l’evoluzione del mondo dell’auto. Secondo Lei, l’auto avrà anche in futuro un ruolo da protagonista nella vita dell’uomo? L’auto sarà sempre protagonista della nostra vita, in forme diverse come il car sharing o al-
tre modalità che arriveranno, ma sarà sempre il nostro primo mezzo di trasporto. Ne sono convinto e aspetto come ho sempre fatto a braccia aperte le nuove tecnologie. Per un pilota di Formula 1 la tecnologia è fondamentale e rappresenta il progresso capace di aiutare e rendere migliore la nostra vita. La domanda a un pilota di auto è dovuta: si fida della guida autonoma? Io non mi fido neanche di un’altra persona che guida, figuriamoci la guida autonoma! Forse questa sarà l’innovazione tecnologica che faticherò più di ogni altra a digerire. Finché potrò, guiderò io la mia auto. L’asfalto fa parte della Sua vita. Come la velocità. Ma la strada non sempre, purtroppo, è amica. Come dovrebbe cambiare il codice della strada, anche in vista della massiccia introduzione di nuove tecnologie e dei sistemi di intrattenimento nell’auto? Il tema della guida sicura mi sta molto a cuore. Ho sempre dato il mio sostegno alle campagne di sensibilizzazione, ho fatto molte volte da testimonial a queste campagne. Purtroppo vedo un peggioramento dei comportamenti scorretti al volante, è un tema che riguarda tutti. L’uso del telefonino, la mancanza di conoscenza delle regole di base del codice stradale. Ormai i rapporti stradali sembrano bollettini di guerra, sono troppi gli incidenti e i morti per non fare qualcosa dal punto di vista culturale. Bisogna promuovere l’educazione stradale, seriamente, nelle scuole a partire dai ragazzi, noi possiamo fare molto e io come testimonial ci sono e ci sarò sempre su questo tema. E come dovrebbe cambiare l’educazione stradale? Io ho dei progetti per far sì che i ragazzi, giocando, apprendano le regole ed i comportamenti. L’uso del telefonino è ormai esagerato e bisogna far capire che un calo di attenzione in auto è pericoloso. L’educazione stradale deve entrare nelle scuole e diventare una materia con la quale si possa anche giocare. Ormai non abbiamo più tempo, educazione stradale e mobilità sostenibile possono camminare di pari passo.
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L’Anno Uno dell’auto elettrica Bisogna andare avanti con i piani industriali e di riconversione verso la mobilità elettrica. Ogni ulteriore ritardo potrebbe essere pagato duramente in termini di competitività
di Dino Marcozzi Il padre della meccanica quantistica, Niels Bohr, affermava che “fare previsioni è estremamente difficile, specie per quel che riguarda il futuro”. Per questo, quando parliamo del futuro dello sviluppo della mobilità elettrica è meglio ragionare di obiettivi e di quali scenari siano ragionevoli per raggiungerli. È forse l’unico modo per cercare di comprendere come seguire uno sviluppo che, seppur tracciato, si trova solo nelle primissime fasi. Il target al 2030 di 4 milioni di veicoli elettrici puri (Bev) circolanti è largamente condiviso da più parti, non ultimo l’ultima versione del Piano nazionale integrato di energia e clima del governo (seppure in realtà nella prima versione parlava di circa un milione di Bev e di un grande sviluppo di ibride plug-in; i commenti di Motus-E crediamo abbiano convinto il Mise a rivedere queste stime). Pensiamo che al 2030 almeno il 50% dei veicoli immatricolati sarà elettrico e, conseguentemente, il “phase out” totale dalle immatricolazioni di veicoli ad alimentazione fossile non potrà avvenire dopo il 2035. Questo obiettivo è il minimo da raggiungere se si tiene a mente l’altro grande target europeo: la decarbonizzazione totale dei trasporti su strada al 2050. Il grafico sotto riportato descrive lo scenario di vendite e circolante durante gli anni che ci separano dal 2030.
Il numero di veicoli totalmente elettrici nelle nostre strade a fine 2019 è di circa 40.000 unità, quindi solo poco più dell’uno per mille di un circolante di circa 39 milioni (la più alta concentrazione di veicoli per abitanti d’Europa, con il Lussemburgo) con la incredibile media di 650 veicoli ogni mille abitanti. Se solo pensiamo che il tasso di utilizzo delle auto è del 5% del loro tempo e che non vi dovrebbe essere un rilevante aumento di popolazione, è ragionevole ipotizzare che nel 2030, grazie allo sviluppo di pooling e sharing dei veicoli, non più di 32-33 milioni di veicoli continueranno a occupare le nostre strade. Conseguentemente si dovrà passare dall’uno per mille al 12-13 per cento di Bev circolanti tra il 2019 ed il 2030. Il tasso di crescita delle vendite di Bev è stato tra il 2017 ed il 2019 pari al raddoppio da un anno all’altro, ma questo risultato è piuttosto semplice da realizzare quando si parla di numeri assoluti così piccoli rispetto all’immatricolato annuo di auto convenzionali (poco meno di due milioni). Anche il 2020 probabilmente seguirà questo andamento e quindi dovremmo registrare circa 20mila nuove immatricolazioni di Bev alla fine di quest’anno. Il 2020 può essere considerato il vero Anno Uno perché al suo termine tutte le auto immatricolate dovranno ri-
17 Full electric Italia, scenario MOTUS-E (in migliaia)
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Circolante
spettare un limite medio europeo di 95g/km di CO2 allo scarico. È da notare che questo limite, variabile in funzione della massa del catalogo dei costruttori (minore è la massa, più basso è il limite e quindi più sfidante) potrà essere raggiunto solo attraverso la vendita di veicoli a basse o zero emissioni allo scarico (quindi in particolare Bev). Le case automobilistiche sono mediamente in ritardo, pur conoscendo da almeno 10 anni che esso sarebbe entrato in vigore, quindi ben prima del dieselgate (2015) e dei Fridays for Future e ora devono rapidamente adeguarsi: questo spiega i grandi investimenti in corso per nuovi modelli e la prossima proliferazione di “Gigafactory” di batterie in tutta Europa. Alcuni costruttori, più in ritardo rispetto ad altri dovranno acquistare da costruttori virtuosi onerosi crediti di emissione per evitare le multe consistenti comminate dalla Ue. Altro fenomeno sarà quello di cercare, attraverso modelli ibridi (in tutte le possibili declinazioni) di mitigare le emissioni. Assisteremo anche a qualche velleitaria ricerca di riabilitazione dei motori diesel, per il solo fatto che hanno un po’ minori emissioni delle auto a benzina, operazione rischiosa conoscendo i punti deboli delle emissioni di NOx e particolato PM 2.5 dei motori a gasolio rispetto a quelli a benzina, anche dalla
rigenerazione dei loro “sofisticati” filtri antiparticolato. Ma la soluzione sarà sempre quella di dedicarsi all’evoluzione della tecnologia full electric. Tornando agli scenari è essenziale sapere che il limite avrà una ulteriore contrazione a 80 g/km di CO2 nel 2025 e 59 g/km di CO2 dal 2030. Per questo pensiamo che la crescita delle immatricolazioni in Italia avrà un primo incremento dal 2021 ed un secondo, molto più forte dopo il 2026 (con un aumento del circolante da un milione ai quattro del 2030). Si dovrebbe passare da una media di 30-40mila ad una media di circa 150mila immatricolazioni aggiuntive all’anno, sino al raggiungimento del target 2030. Non c’è tempo da perdere, dunque. Evitiamo di sviare l’interesse verso tecnologie velleitarie e inefficienti (idrogeno) o verso investimenti infrastrutturali su tecnologie destinate a scomparire dalle nostre strade (gas fossile). In questo senso, confidiamo nel lavoro dei tavoli operativi attualmente convocati presso il ministero per lo Sviluppo economico e a cui Motus-E è stata invitata a partecipare. Avanti con i piani industriali e di riconversione verso la mobilità elettrica: ogni ulteriore polemica o tentativo di frenare lo sviluppo potrebbe essere pagato duramente nei prossimi anni, in termini di competitività.
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Motori, le opzioni in campo di Alessandro Sperandio
PROPULSIONE A BENZINA
benzina come combustibile
durata media motore
250.000 km
PROPULSIONE A DIESEL Il motore diesel rientra nella famiglia dei motori a combustione interna. L'alimentazione è il gasolio e il motore utilizza la compressione per il suo ciclo, vale a dire l’aria all’interno del cilindro che permette l’accensione viene compressa a valori elevati, per far accendere il combustibile. Mentre i motori benzina, hanno una durata media di 250.000 km, i motori diesel riescono ad arrivare a 600.000 km. Il loro vantaggio risiede nell'autonomia per chilometro, generalmente più alta rispetto alla benzina e al costo del combustibile più basso. Di contro le prestazioni vengono ritenute leggermente inferiori rispetto ai motori a benzina. Le auto che utilizzano un motore diesel possono sfruttare un sistema che unisce due combustibili: gasolio e metano. In questo caso le nuove tecnologie hanno permesso di utilizzare un motore diesel (con tutte le sue caratteristiche e i suoi vantaggi) risparmiando però su costi ed emissioni e consumando quindi metano.
In generale il motore a benzina è un motore a scoppio - come gli altri del resto - che utilizza la benzina come combustibile. La differenza tra la benzina e il gasolio è data dal fatto che pur essendo entrambi carburanti, perfetti per il funzionamento dei motori, il primo è un prodotto più pregiato e raffinato, mentre il gasolio è frutto di una minore raffinazione. Il ciclo del motore si compone di diverse fasi ben precise, il cui complesso è chiamato “accensione comandata”, in quanto il combustibile viene “acceso” in un dato momento stabilito dalla meccanica. Il tutto avviene nella camera di combustione, o cilindro, del singolo pistone. Il cilindro è composto, oltre che dal pistone e dalla camera, anche da almeno due valvole, una di aspirazione e una di scarico, ma oggi sono più comuni le soluzioni a quattro valvole per cilindro (2 di aspirazione e 2 di scarico). Il funzionamento del motore diesel è simile, ma non uguale. Infatti il gasolio non si accende attraverso una candela bensì attraverso la compressione dello stesso carburante.
gasolio come combustibile
risparmio sul prezzo del carburante rispetto benzina durata media motore
600.000 km
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PROPULSIONE A METANO E GPL I motori a gas - metano o gpl - hanno molti vantaggi ma anche alcuni svantaggi. Il vantaggio principale è il grande risparmio sui costi del carburante, rispetto ai motori a benzina o a diesel. Ma anche il fatto di essere molto più ecologici rispetto ai veicoli alimentati da carburanti tradizionali e di poter viaggiare senza subire le limitazioni di circolazione del traffico. Tra i contro soprattutto l’aspetto legato alla manutenzione. Nel Gpl come nel gas metano, non essendo presenti sostanze come il benzene e il toluene, non si crea il “velo protettivo” che preserva valvole e altri componenti dall’usura. L’Italia rappresenta il maggior mercato europeo per questo tipo di autovetture.
risparmio sul prezzo del carburante rispetto benzina e diesel ecologico rispetto benzina e diesel
svantaggi legati alla manutenzione
PROPULSIONE ELETTRICA
autonomia da 200 a 600 km
zero emissioni
lunghi tempi di ricarica
Le vetture a motore elettrico sono una novità degli ultimi anni. Questo tipo di propulsione ha molti punti di forza, tra cui alta efficienza, valori di coppia elevati fino da zero giri/minuto e l’assenza di cambio. Ma soprattutto l'assenza totale di emissioni. L’autonomia varia dai 200 ai 600 km per i modelli più recenti ma tra i punti a sfavore ci sono sicuramente i tempi di ricarica piuttosto lunghi. Queste auto si basano sull’utilizzo di batterie ricaricabili che sfruttano l’energia chimica utilizzata successivamente come energia elettrica. Le batterie più diffuse utilizzano il litio, ma sono state sviluppate anche quello a litio-titanio.
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PROPULSIONE IBRIDA
sistema benzina elettrico
mild hybrid
full hybrid
Negli ultimi anni, ai motori principalmente a benzina sono stati affiancati i motori elettrici, creando una classe di veicoli detti “ibridi”. In questo caso vengono sfruttati entrambi i sistemi per cercare di utilizzare al meglio l’energia prodotta dai due meccanismi sia in termini di prestazioni sia in termini di minor consumo e quindi di convenienza. Esistono diversi livelli di ibridazione, che si differenziano in base alla potenza del motore ibrido rispetto alla potenza totale e alla capacità di immagazzinare energia elettrica: “mild hybrid” quando la modalità di funzionamento puramente elettrica non è in grado di seguire per intero un ciclo di guida normalizzato, e “full hybrid” quando il veicolo è in grado di avanzare in modalità puramente elettrica su un ciclo di guida normalizzato.
PROPULSIONE A IDROGENO Quando si parla di auto a idrogeno si intende un veicolo che converte l’energia chimica di questo elemento in energia meccanica. L’idrogeno può bruciare in un motore a combustione interna, ed in questo caso si parla di auto a idrogeno HICEV (Hydrogen Internal Combustion Engine Vehicle), oppure si può provocare una reazione con l’ossigeno in una pila a combustibile, producendo così elettricità. In questo caso di parla di auto a idrogeno FCEV (Fuel Cell Electric Vehicle). Quest’ultimo è il modello di motore a idrogeno sul quale si sono concentrati gli studi dei vari costruttori. Il principale vantaggio dell’auto a idrogeno è quello di non produrre alcun gas serra dato che dallo scarico della vettura fuoriesce unicamente vapore acqueo. Ma anche i tempi di rifornimento che oscillano intorno ai 3-5 minuti. Tra i contro, al momento, il prezzo di acquisto, la quasi totale assenza sul nostro territorio di stazioni di rifornimento dedicate, e il peso di queste vetture per via delle bombole di immagazzinamento dell’idrogeno. Se si considera un prezzo medio dell’idrogeno di 10 euro al Kg, un pieno potrebbe costare sui 50 euro, mentre la percorrenza media si può paragonare a quella di una vettura a benzina.
energia chimica in energia meccanica
zero emissioni prezzo acquisto alto
C’è anche l’auto a metano per abbattere le emissioni
Per raggiungere una mobilità sostenibile bisogna coinvolgere tutte le fonti e i vettori in grado di dare un contributo sul piano ambientale. E il gas naturale può fare la sua parte di Marta Bucci
Il settore dei trasporti richiede oggi importanti e urgenti interventi per ridurre le emissioni climalteranti e migliorare la qualità dell’aria, specialmente nei centri urbani. A livello europeo, mentre si registra una generale riduzione delle emissioni complessive di gas a effetto serra (- 23% dal 1990 al 2016), per il settore dei trasporti viene invece evidenziato un aumento (+ 27% nello stesso periodo) con contestuale incremento del peso delle emissioni generate da questo settore che è passato dal 19,8% nel 1990 al 26,3% nel 2016. La situazione italiana è analoga, anche se meno marcata: nel nostro Paese le emissioni complessive di gas a effetto serra sono diminuite del 23% nello stesso arco temporale, mentre quelle provenienti dal settore dei trasporti hanno fatto registrare un incremento del 2%. Alla luce di tale scenario, la necessità di centrare già i target di riduzione delle emissioni definiti nel Piano energia e clima PNIEC (in attesa dei più ambiziosi obiettivi che deriveranno dal Green New Deal) richiede la progressiva sostituzione dei carburanti tradizionali e più inquinanti con i combustibili alternativi a basso impatto ambientale, con l’obiettivo di portare il sistema ad un consistente abbattimento non solo delle emissioni di CO2 ma anche degli inquinanti locali. In quest’ottica sarà necessaria un’azione congiunta e coordinata, non solo a livello di politiche ambientali, ma anche sul piano industriale e sociale, che porti allo sviluppo di una mobilità alternativa a più basse emissioni con il coinvolgimento di tutte le fonti e i vettori in grado di dare un contributo sul piano ambientale. Con particolare riferimento al settore dei trasporti, emerge l’importanza di sviluppare un approccio sinergico e di cooperazione in quanto nessuna tecnologia da sola è in grado di condurre il sistema verso i target ambientali
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22 richiesti. L’impiego di tutte le tecnologie a basso impatto ambientale – quelle oggi disponibili e quelle che matureranno in futuro – consentirà al settore dei trasporti di giungere a un assetto meno inquinante. È quindi importante individuare diversi piani e ambiti di intervento con l’obiettivo di attuare le soluzioni più efficaci. In quest’ottica le aree urbane dovrebbero vedere un maggiore sviluppo della mobilità a metano ed elettrica, mentre con riferimento al trasporto pesante, su lunga distanza e marittimo, il GNL rappresenta, al momento, la soluzione più efficiente, senza tuttavia escludere lo sviluppo di altre soluzioni sostenibili per il raggiungimento dei target previsti in un’ottica di neutralità tecnologica. Venendo al ruolo che il gas naturale può avere in questo settore, va prima di tutto ricordato che tra i combustibili fossili il gas naturale è quello con minore impatto ambientale, sia in termini di riduzione di CO2 ma soprattutto rispetto agli inquinanti locali. Il gas naturale presenta inoltre una rilevante flessibilità di impiego e versatilità, può essere agevolmente trasportato, anche su lunghe distanze ed in modi diversi, ed è una fonte energetica abbondante, grazie anche, nel nostro Paese, ad una rete infrastrutturale tra le più capillari ed efficienti in Europa. In futuro continueremo ad avere ampia disponibilità di gas naturale: lo evidenzia anche il World Energy Outlook del 2019 che prevede una domanda di gas in crescita nei prossimi anni in tutto il mondo per superare il carbone nel 2030. Lo stesso scenario, in relazione al settore dei trasporti, ipotizza una crescita dei consumi del 150%, con una penetrazione nel mix energetico che dovrebbe passare dal 3,5% al 10% (World Energy Outlook 2019 – Scenario Sviluppo Sostenibile). A livello europeo e nazionale sappiamo che la domanda di gas negli ultimi anni ha registrato riduzioni legate a diversi fattori. Ma tale risorsa resta centrale nel bilancio energetico e, in Italia, rimane la fonte più utilizzata nel comparto industriale, residenziale e termoelettrico. Il settore dei trasporti viene a seguire, ma nel panorama europeo l’Italia può vantare un primato per tradizione industriale, diffusione dei veicoli e dell’infrastruttura per il rifornimento. Con particolare riferimento all’autotrazione, il parco circolante italiano supera il milione di veicoli, rappresentando il primo Paese in Europa per numero di veicoli alimentati a gas naturale, e può contare su più di 1.300 stazioni di rifornimento. I consumi complessivi superano 1 miliardo di mc/anno e le auto circolanti rappresentano il 2,4% del parco nazionale. Il segmento dell’autotrazione leggera presenta pertanto diverse opportunità per una
riduzione delle emissioni inquinanti, dal gas naturale fino al vettore elettrico. L’autotrazione pesante – a differenza di quella leggera che impiega il gas naturale compresso (CNG) – è caratterizzata dall’utilizzo del GNL e da un mercato meno maturo ma in grande sviluppo. L’incidenza di veicoli a metano in tale comparto è pari a 1,9%, la domanda è in rapido aumento e la rete infrastrutturale è in crescita costante: oggi conta 59 impianti in esercizio e 41 in progetto (cfr. Piano Energia e Clima). Si tratta di un comparto dove il GNL può dare un rilevante contributo all’abbattimento delle emissioni e rappresenta la soluzione tecnologicamente più matura ed efficace per sostituire i combustibili più inquinanti. Analoghe considerazioni valgono per il trasporto navale, caratterizzato dall’impiego pressoché esclusivo del petrolio, dove il GNL rappresenta al momento la migliore soluzione a basso impatto ambientale. Ad oggi i consumi di gas naturale sono marginali, le infrastrutture per lo Small Scale LNG sono in fase di realizzazione, ma il mercato dovrebbe evolversi in misura significativa. Questo anche in considerazione del rilevante sviluppo che avrà il GNL a livello mondiale la cui quota rispetto alla commercializzazione globale dovrebbe passare dal 42% al 60% nel 2040, anche se con flussi destinati in gran parte al mercato asiatico. In conclusione, lo sviluppo del gas naturale nel settore dei trasporti è sicuramente auspicabile, specialmente se si tiene conto dell’importante contributo che può dare il biometano in termini di ulteriore riduzione e/o azzeramento dell’impatto ambientale. Il percorso verso una mobilità sostenibile non può tuttavia indirizzarsi verso un’unica soluzione, ma – se si vuole accelerare il processo – occorre puntare sulla coesistenza e sulla cooperazione di più vettori. Ciascuna soluzione presenta limiti e benefici sotto diversi aspetti, ma il loro impiego sinergico ci consentirà di raggiungere gli obiettivi richiesti riuscendo ad offrire ai consumatori diverse alternative così da far partecipare tutti, a seconda dei contesti e anche delle diverse capacità di spesa, a questo sfidante percorso di transizione energetica. In tale contesto, la promozione dell’uso del gas nei trasporti è quindi certamente auspicabile così da valorizzare il consistente patrimonio infrastrutturale di gas di cui il nostro Paese dispone, anche in un’ottica costi-benefici, per accelerare il percorso di decarbonizzazione nel settore dei trasporti.
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Una risposta plurale alla sfida ambientale di Luca Martino
Non c’è un’unica soluzione per combattere smog e polveri sottili. La strada vincente è la combinazione di più strumenti che, associati fra loro, contribuiranno a ridurre l’inquinamento
Stiamo andando sempre più veloce e sempre più lontano, percorrendo chilometri, sull’asfalto, sui binari o lungo le rotte aeree o navali. E anche le merci che consumiamo devono fare molta strada per giungere fino a noi. Con un costo, per l’ambiente, troppo alto. Ogni anno, secondo dati dell’Agenzia internazionale dell’energia, il trasporto di persone e merci è responsabile di circa un quarto delle 35 miliardi di tonnellate di anidride carbonica globalmente emesse in un anno. E il trend, sempre secondo l’Agenzia, è in crescita: le emissioni del settore trasporto potrebbero crescere molto più di quanto prospettato per gli altri settori. Invertire la rotta è un obbligo ed un’urgenza per Comuni, regioni, Stati. E tutti siamo chiamati a fare la propria parte. Anche il settore mobilità sta cambiando, si sta trasformando. Stiamo per assistere ad una vera e propria rivoluzione dei trasporti. Mentre si fa strada una mobilità sempre più condivisa e l’automobile non è più uno status symbol, la ricerca e la tecnologia permettono il lancio sul mercato di auto meno inquinanti. E la batteria non è l’unica soluzione a cui i consumatori possono guardare. Il parco auto di domani potrebbe essere molto più vario di quello che immaginiamo oggi, con le auto elettriche che potrebbero essere solo co-protagoniste della rivoluzione della mobilità. Il diesel è davvero costretto a sparire? No. I combustibili fossili possono essere miscelati con combustibili ottenuti da biomasse di scarto o da biomasse non in concorrenza con le colture. Scegliere questo tipo di carburanti permette di contribuire alla riduzione dell’impatto ambientale senza dover rinnovare completamente il parco auto circolante (abbattendo il costo dell’acquisto di un nuovo veicolo). In
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Italia Eni ha dato vita a Eni Diesel+, un carburante con una componente biodiesel HVO ottenuta grazie alla tecnologia proprietaria EcofiningTM. Anche la batteria, ovviamente, farà parte del parco auto del futuro. Una soluzione ancora più efficiente, su questo fronte, potrebbe essere quella che vede l’affiancamento a un veicolo elettrico di un elettrolizzatore che permetta di ricavare elettricità non dalla batteria dell’auto (che dovremmo caricare in qualche modo), ma dalla reazione dell’ossigeno dell’aria con l’idrogeno contenuto in una bombola che produca soltanto vapore acqueo senza alcuna emissione di anidride carbonica. Anche l’idrogeno, come l’elettricità, va considerato un vettore e non una fonte (a differenza degli idrocarburi): non esiste sulla Terra in forma non ossidata, va quindi ricavato dall’acqua utilizzando fonti rinnovabili quando queste sono disponibili. Non dimentichiamoci del metano, la fonte fossile candidata a traghettare la transizione energetica grazie al suo impatto ambientale minore (vanta emissioni di CO2 dimezzate rispetto al carbone a parità di energia prodotta). Un numero sempre maggiore di case automobilistiche - spinte dall’obbligo europeo di offrire un parco auto in cui, in media, non sia superata l’emissione di 95 g di CO2 per km percorso stanno inserendo nei loro listini auto native a metano. E a metano è possibile anche convertire le auto a benzina circolanti. Una scelta ancora più sostenibile del metano è quella che punta sul biometano. Si tratta di un composto chimicamente uguale al metano, ma, quando brucia, anziché rimettere in circolo il carbonio intrappolato nei giacimenti sotterranei centinaia di milioni di anni fa, rimette in circolo anidride carbonica di origine vegetale.
Piante che, a loro volta, grazie all’energia del sole avevano sottratto all’atmosfera praticamente la stessa anidride carbonica che rimettiamo in circolo, con un bilancio carbonico totale virtualmente pari a zero e - considerando anche i costi di produzione e smaltimento - comunque sostanzialmente più basso. A muovere passi in questa direzione sono Eni, Inalca e Havi Logistics che il 31 gennaio hanno siglato il primo accordo nazionale per la produzione e l’utilizzo di biometano per autotrazione prodotto da scarti agroalimentari nel settore delle carni. Si tratta di un contributo concreto in favore della transizione verso un sistema di trasporto a basso impatto basato interamente su fonti rinnovabili. Gli impianti di produzione biogas di Inalca, del gruppo Cremonini, come previsto dal progetto, saranno convertiti dall’energia elettrica al biometano. La società attualmente autoproduce il 100% dell’energia necessaria al proprio fabbisogno, di cui il 50% da fonte rinnovabile. Grazie al supporto tecnologico di Eni per la gestione del complesso processo di conversione energetica degli impianti e l’impegno di Havi Logistics per l’utilizzo del bio-metano nelle nuove flotte di automezzi impiegate nel trasporto carni, si realizzerà una filiera energetica integrata, in grado di valorizzare scarti e rifiuti di lavorazione per il loro riutilizzo nel contesto dello stesso sistema che li ha generati, realizzando un esempio concreto di economia circolare. Non c’è dunque un’unica soluzione allo smog e alle polveri sottili, ma una combinazione di soluzioni che se adottate possono contribuire a ridurre l’inquinamento. Ricerca e tecnologia ci hanno dato gli strumenti, a noi utilizzarli (e sceglierli), per contribuire a raggiungere gli obiettivi fissati con la Cop21 di Parigi.
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Il Made in Germany si elettrifica
L'industria automobilistica tedesca è stata il cuore del terremoto che ha messo fine all'era del diesel. Ora, spinta dalla politica, si gioca la sfida decisiva dell'auto elettrica di Pierluigi Mennitti Le fiere costituiscono sempre una sorta di barometro sull’andamento di un settore. E dunque, per raccontare la durezza della transizione che affronta l’industria automobilistica tedesca, conviene riavvolgere il nastro indietro di qualche mese, fino a settembre dello scorso anno, e soffermarsi sulle cifre del Salone dell’auto di Francoforte (IAA), la principale rassegna di settore del Paese e una delle più importanti nel mondo. Secondo i numeri ufficiali degli organizzatori, l’edizione del 2019 ha attirato 560.000 visitatori. In soli quattro anni si è persa quasi la metà dei frequentatori: nel 2015 erano stati 932.000. Un crollo che ha fatto il paio con la defezione di gruppi e marchi importanti quali Psa (con eccezione di Opel), Fca, Renault, Nissan, Mitsubishi, Cadillac, Chevrolet, Mazda, Rolls-Royce, Toyota, Volvo e altri. Si è trattato di una fiera quasi tutta
tedesca, dal sapore mestamente provinciale e agitata dalle proteste degli ambientalisti. Un quadro desolante dalla vetrina di quella che ancor oggi è la prima industria tedesca, con un fatturato che rappresenta quasi il 5% del Pil, occupa direttamente più di 800.000 addetti e alimenta la forza di un vasto indotto non solo in Germania, ma anche in Paesi a essa industrialmente legati come Italia, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria. In attesa che il Salone dell’auto tedesco trovi nuova linfa a Monaco di Baviera con un diverso format, magari attingendo dalle fiere dell’elettronica come il CES, l’industria dell’automotive cerca la strada che la proietti nel futuro, strappandola al rischio di finire nel museo del Novecento come glorioso ricordo di un tempo ormai scomparso, ultimo dinosauro dell’era dell’industrializzazione.
27 LE MACERIE DEL DIESELGATE E LA NECESSITÀ DI UNA SVOLTA EPOCALE In Germania tutto è cominciato la mattina del 18 settembre 2015, proprio in concomitanza della fiera IAA, quando l’agenzia di stampa Reuters rilanciò dall’altra sponda dell’Atlantico la notizia che l’Epa, l’agenzia statunitense per l’ambiente, accusava Volkswagen di aver illegalmente installato un software di manipolazione progettato per aggirare le normative ambientali sulle emissioni di Nox e di inquinamento da gasolio. Fu l’inizio del dieselgate (o Abgasskandal in tedesco), lo scandalo che ha travolto Volkswagen (11 milioni di autovetture con motore diesel coinvolte nel mondo), trascinando con sé il mito dell’affidabilità e della correttezza dell’auto made in Germany. Ma fu anche l’avvio di una crisi complessiva dell’industria automobilistica che ne ha messo in discussione la sua sostenibilità ambientale in un momento storico dominato dai timori per il futuro del pianeta. Per superare problemi di immagine e crisi di fiducia, il governo di Berlino e il mondo dell’automotive tedesco hanno faticosamente impostato un’ennesima svolta epocale: la Verkehrwende, la svolta nelle politiche del trasporto privato, sulla falsariga di quella adottata in campo energetico (Energiewende). Tutto il potere all’auto elettrica: un massiccio processo di riconversione produttiva che nel tempo più breve possibile dovrebbe tramutare il parco automobilistico tedesco dai veicoli a combustione fossile ad automezzi a propulsione elettrica. I tre gruppi principali, Daimler, Volkswagen e Bmw, hanno annunciato investimenti nell’ordine di 50 miliardi di euro fino al 2024 per sviluppare 150 auto a zero emissioni. Secondo gli auspici, la svolta garantirà il recupero dell’immagine dell’automotive tedesco, contribuirà alla riduzione delle emissioni inquinanti e proietterà di nuovo l’auto tedesca al vertice della catena innovativa del settore.
INVESTIMENTI MASSICCI IN UN PERIODO DI VACCHE MAGRE Per ora si tratta appunto di auspici. Non tutti, anche tra i manager dei grandi marchi tedeschi, sono convinti che puntare l’intera posta su un’unica carta, quella elettrica, sia la decisione più saggia. I fornitori, le grandi e piccole aziende che operano nella filiera, lo sono ancor meno: c’è chi teme di non avere la forza per riconvertirsi e chi invece, pur avendo le risorse per farcela, preferirebbe maggior gradualismo. I necessari grandi investimenti finanziari pesano su casse indebolite o da multe e sanzioni miliardarie conseguenti al dieselgate o dal calo degli utili dovuto alla guerra commerciale Usa-Cina. I dazi imposti da Donald Trump a Pechino hanno paralizzato il mercato cinese, colpendo le esportazioni delle auto tedesche. Ne è conseguito un calo della produzione automobilistica in Germania: secondo un recentissimo studio del Car Institut dell’Università di DuisburgEssen, la produzione negli stabilimenti tedeschi nel 2019 è stata di 4,67 milioni di veicoli, cifra che riporta indietro le lancette di 22 anni. E se nel 1997 la produzione in Germania rappresentava l’11,8% di quella mondiale, nel 2019 è scesa al 5,9%. Non sono tanto le case automobilistiche tedesche a perdere peso globale, ma la Germania come luogo di produzione. Con riflessi che rischiano di essere socialmente dirompenti sul piano dei posti di lavoro, già minacciati dall’automazione dei processi produttivi e dal passaggio ai motori elettrici. Non c’è gruppo tedesco, da Volkswagen a Daimler a Bmw, che non abbia varato strategie di risparmio e lo stesso sta accadendo nelle imprese della filiera. La svolta elettrica vorrebbe interrompere questa spirale, anche se gli stessi ricercatori di Duisburg-Essen ritengono che neppure l’annunciato investimento di Tesla in Brandeburgo riuscirà a invertire la tendenza. Secondo le loro stime, la produzione calerà ancora quest’anno per poi riprendersi appena solo nel 2021.
28 LO SBARCO DI ELON MUSK, ORGOGLIO E PREGIUDIZIO TEDESCO E alla fine del 2021 dovrebbe entrare in funzione la scommessa europea di Tesla. Lo scorso novembre, Elon Musk ha sfruttato una cerimonia a Berlino per fare uno di quegli annunci a effetto che piacciono a lui. Di fronte a una platea di addetti ai lavori, fra cui i capi delle aziende automobilistiche di casa, ha comunicato la decisione di istallare in Brandeburgo, alle porte della capitale tedesca, la Gigafactory 4, lo stabilimento europeo che segue i tre già operativi in Nevada, nello Stato di New York e a Shangai. Giga Berlin produrrà batterie, powertrain e auto, a partire dalla Model Y, e assieme allo stabilimento di produzione nascerà un centro di progettazione e sviluppo. Gli esperti ritengono che nella fabbrica brandeburghese verranno sfornate anche le auto di media cilindrata del Modell 3. Un progetto da 10.000 posti di lavoro per il quale sono già iniziati i preparativi dell’area: Gründheide, dove curiosamente tempo fa aveva gettato gli occhi Bmw per costruire un suo stabilimento. Se la Frankfurter Allgemeine Zeitung teme l’impatto concorrenziale di Tesla nei confronti dei marchi di casa, che sull’elettrico sono in affannoso recupero rispetto ai competitori cinesi, americani e asiatici, il mondo politico è galvanizzato: l’investimento massiccio, i posti di lavoro promessi, la convinzione (e forse la presunzione) che Musk sia sbarcato in Germania perché intravvede le potenzialità di riscatto. “La Germania diventa hotspot dell’elettromobilità” ha commentato l’Handelsblatt, rispolverando l’orgoglio nazionale ammaccato. “I tedeschi hanno dormito durante il primo tempo della partita dell’elettromobilità ma poi vi si sono gettati con grande decisione”, ha aggiunto, “A Musk non è sfuggito questo rapido mutamento di rotta dell’industria automobilistica e anche della politica tedesca e se vuole giocare ancora da protagonista il secondo tempo di questa partita, deve venire laddove lo sviluppo sarà significativamente più avanzato”. Il quotidiano economico è sicuro che questo secondo tempo si giocherà in Germania.
GLI INCENTIVI DEL GOVERNO E UN MERCATO CHE RISPONDE CON LENTEZZA Il governo ha puntato con decisione sull’elettromobilità, coinvolgendo anche le aziende automobilistiche nello sforzo finanziario per promuovere una rapida transizione. Dal 2016 sono stati varati sostegni all’acquisto di veicoli elettrici via via incrementati, fino all’ultimo pacchetto deciso lo scorso novembre che prevede incentivi più alti e modulati sul costo del mezzo. Sono stati adottati piani per lo sviluppo sul territorio delle infrastrutture per la ricarica delle batterie. Aiuti fiscali dovrebbero premiare coloro che ricaricano la propria auto nell’azienda in cui lavorano. I risultati non sono stati finora incoraggianti, il mercato risponde con molta lentezza, gli obiettivi di diffusione che lo stesso governo si era dato (1 milione di auto elettriche entro il 2020) è lungi dall’essere raggiunto. La Frankfurter Allgemeine Zeitung riporta i dati delle preferenze degli automobilisti tedeschi che hanno già optato per un veicolo elettrico: si tratta appena dell’1,7% del mercato, ancora una nicchia, nella quale prevale proprio l’americana Tesla (9300 auto vendute all’anno), seguita da Renault (8300) e Bmw (8000). Il primo produttore tedesco è solo al terzo posto, il gruppo che più di tutti punta sull’elettrico - Volkswagen - non è ancora presente. Ma qualcosa si muove: nell’anno appena concluso la Germania ha spodestato la Norvegia come leader europeo per numero di veicoli elettrici immatricolati: 57.533 contro 56.893. Secondo stime del governo, per raggiungere gli obiettivi sul clima previsti per il 2030, per quella data dovrebbero essercene in circolazione fra i 7 e i 10 milioni. E sembra finalmente svilupparsi la rete infrastrutturale delle stazioni di ricarica. In un anno, dal 2018 al 2019, le colonnine sono aumentate del 50%, in numeri assoluti sono 24.000 i punti in cui è possibile ricaricare veicoli elettrici. E anche la tendenza sembra consolidarsi: entro la fine di quest’anno saranno installate altre 4mila stazioni a ricarica veloce, altre 100.000 entro il 2030, quando il governo assicura sarà anche compensata la disparità oggi esistente fra grandi centri urbani e zone rurali. La corsa contro il tempo è appena iniziata.
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Se l’auto entra nella rete elettrica La tecnologia Vehicle to Grid consente di avere a disposizione una sorta di “batteria diffusa” in grado di livellare domanda e offerta di energia in casi di forte assorbimento
di Simone Martino In un ipotetico scenario futuro con sole auto elettriche circolanti, è di fondamentale importanza capire come si farà a produrre l’energia necessaria senza dover bruciare combustibili fossili e come gestire i picchi di assorbimento che si verificherebbero in determinate ore del giorno. Uno dei principali punti interrogativi sulla strada dell’elettrificazione di massa riguarda il problema dell’approvvigionamento e della distribuzione di energia. Una parziale risposta viene dal sistema chiamato V2G, acronimo di “Vehicle to Grid” ovvero “dal veicolo alla rete”. In parole povere la tecnologia Vehicle to Grid consentirà, tramite sistemi di carica capaci di far viaggiare l’energia in entrambe le direzioni, ossia dalla rete all’auto e viceversa, di utilizzare le auto stesse come “riserve” da cui l’energia possa essere prelevata per stabilizzare il sistema nei momenti critici. La necessità di bilanciamento della rete, quindi, si va facendo sempre più necessaria con la diffusione della
produzione da fonti rinnovabili non programmabili. Diventa così estremamente appetibile la gestione intelligente delle batterie delle auto quando si trovano connesse alla rete attraverso la wallbox di ricarica domestica, oppure la colonnina di ricarica aziendale o (in minore misura) pubblica. Fino ad oggi le strategie di carica hanno sempre previsto che l’energia elettrica fluisse in una sola direzione, esclusivamente dalla rete fino alle batterie. Ebbene, il V2G rompe questi schemi. L’ idea è molto forte e ad alto contenuto rivoluzionario, infatti, l’automobile cessa di essere solo un mezzo di trasporto, ma, grazie alla batteria, diventa un elemento integrante della nuova generazione distribuita, con cui dialoga continuamente ed a cui fornisce servizi più o meno remunerativi. Sulla carta, questo consentirebbe di avere a disposizione una sorta di “batteria diffusa” che possa livellare domanda e offerta di energia in casi di forte assorbimento.
31 L’AUTO ENTRA A FAR PARTE DELLA RETE ELETTRICA Il sistema prevede la restituzione di parte dell’energia accumulata nell’auto, oppure il prelievo dalla rete per caricare le batterie a fronte di un comando remoto. Questo sistema viene detto Vehicle to Grid (V2G) quando l’auto scambia energia con la rete di distribuzione, ma può essere anche realizzato secondo lo schema Vehicle to Home (V2H) che prevede lo scambio locale con la propria abitazione, oppure col proprio condominio o comprensorio di abitazioni o aziende. Si tratta di due applicazioni che si differenziano qualora il comando provenga da un operatore di rete che si vuole approvvigionare (questo per avvalersi dei cosiddetti servizi ancillari, cioè di servizio per la funzionalità ottimale del sistema di distribuzione elettrica) o da un apparato di controllo dell’energia della casa che ha lo scopo di aumentare gli autoconsumi, massimizzando il ricorso all’autoproduzione (tipicamente da pannelli fotovoltaici, ma anche da impianti eolici, mini o micro-elettrici) e limando i picchi di energia e potenza prelevata dalla rete. Ottenendo così delle economie di spesa o degli incrementi di guadagno, a seconda delle situazioni. La tecnologia chiave per la realizzazione del sistema è un inverter di potenza bidirezionale che si accoppia sul lato auto direttamente alla batteria ad alta tensione (300-500 Volt) e sul lato rete in bassa tensione. L’inverter bidirezionale è in grado di prelevare energia dalla rete per caricare la batteria, oppure fornire energia alla rete prelevandola dalla batteria. Il tutto è gestito da un’unità di controllo che deve soddisfare le richieste del gestore di rete o l’ottimizzazione energetica dell’abitazione o del comprensorio, rispettando le volontà relative al livello di carica minimo e all’orario di ricarica completa fornite dal possessore del veicolo. ASPETTI REGOLATORI DEL VEIHICLE TO GRID In ottica di economia circolare, dunque, è opportuno approfondire anche gli scenari che si potranno sviluppare in futuro grazie alle importanti novità normative che si aspettano sull’applicabilità della tecnologia del V2G. Per quanto riguarda gli aspetti regolatori del Vehicle to Grid, sembra che si stiano facendo dei passi in avanti. La delibera ARERA 300/2017 ha aperto una fase sperimentale in cui viene consentito a nuove risorse di partecipare al Mercato dei Servizi di Dispacciamento (MSD). In particolare le “UVAM”, possono comprendere
generatori, carichi e sistemi di accumulo. Con il progetto pilota “UVAM”, per la prima volta è stato reso possibile in Italia il servizio del V2G, che tramite lo sviluppo della mobilità elettrica potrebbe consentire anche la parallela diffusione degli accumuli distribuiti. Inoltre si attendono novità sulla bozza del decreto per l’implementazione del V2G in Italia, in corso di studio presso il Mise, soprattutto riguardo all’abbassamento della potenza minima necessaria per accedere al mercato dell’energia elettrica. LE SPERIMENTAZIONI DI NISSAN IN ITALIA L’innovazione proposta da Nissan, in collaborazione con Enel, nasceva in un momento in cui i veicoli elettrici cominciavano a conoscere una certa fortuna e il cui mercato è destinato a crescere a grande velocità nei prossimi anni. Una vera e propria rivoluzione che permetterà la piena integrazione delle automobili elettriche nella rete elettrica nazionale. Il sistema proposto influenzerà in modo decisivo i sistemi energetici non limitandosi a cambiare e a innovare la mobilità sostenibile. Enel e Nissan avevano per primi presentato a Parigi in occasione di COP21 – la Conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico – il progetto sviluppato che riguardava un sistema Vehicle to Grid in grado di rivoluzionare il mondo delle auto elettriche. Grazie a questo sistema le e-car possono lavorare come vere e proprie “centrali mobili”, in grado di accumulare e rimettere in rete l’energia non utilizzata. Quello tra Nissan ed Enel rappresentava un primo passo verso un sostanziale cambiamento nel mondo delle tecnologie al servizio della mobilità sostenibile. Le due aziende hanno proseguito la loro ricerca in questo settore avviando varie sperimentazioni. Una delle prime è avvenuta nel 2017 in Italia a Genova, dove a seguito di un accordo siglato tra Nissan Italia, Enel Energia, e l’Istituto Italiano di Tecnologia, si sono poste le basi per lo sviluppo del primo progetto pilota di car sharing elettrico aziendale con colonnine di ricarica V2G presso la sede dell’IIT di Genova. Ulteriore importante progetto è quello che è stato presentato presso l’impianto sperimentale dell’RSE a Milano, il 24 maggio 2019 dove Nissan ha avviato, in collaborazione con EnelX e RSE, la prima sperimentazione italiana della tecnologia V2G/V2H. Quindi per rispondere alle tematiche in ambito sempre di mobilità elettrica ed economia circolare, o meglio per dare una risposta concreta alle ulteriori sfide, la tecnologia del Vehicle to Grid rappresenta sicuramente una soluzione importante.
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Dal 1946 al servizio delle aziende del gas Anigas nasce nel 1946 per sostenere il processo di metanizzazione in Italia, da allora aderisce a Confindustria e oggi rappresenta larga parte dell’industria del gas naturale in Italia. Anigas riunisce le imprese che operano lungo tutta la filiera del gas naturale, a partire dalla gestione delle infrastrutture di trasporto, stoccaggio, rigassificazione e distribuzione locale, fino alle attività commerciali di trading e di vendita del gas sui mercati all’ingrosso e retail. Fanno parte di Anigas, come soci aggregati, le Associazioni che operano nei settori dell’impiego di gas nei trasporti e dello sviluppo del biometano, le società che offrono servizi per le utility del gas e le aziende impegnate nello sviluppo di soluzioni innovative per l’impiego di gas naturale. La mission di Anigas è quella di valorizzare e promuovere: - il ruolo del gas naturale nella transizione energetica, quale fonte pulita, flessibile e affidabile, capace di abilitare il sistema allo sviluppo delle fonti rinnovabili; - il sistema infrastrutturale gas, patrimonio del nostro Paese che può garantire sostenibilità economica al percorso di decarbonizzazione. - lo sviluppo di un mercato efficiente e concorrenziale che consenta di offrire ai consumatori servizi innovativi e di qualità; - lo sviluppo innovativo della filiera del gas naturale, sostenendo l’impiego dei green gas e delle nuove tecnologie; - l’efficienza energetica quale strumento essenziale per la decarbonizzazione del sistema energetico. Anigas persegue i propri scopi istituzionali interfacciandosi in modo propositivo con le Istituzioni, le Autorità, gli Enti e gli stakeholder di riferimento per il settore gas e sostenendo iniziative di comunicazione per valorizzare l’immagine del sistema gas e la sua centralità nel bilancio energetico nazionale. Opera attivamente organizzando e partecipando a convegni ed eventi, promuovendo studi e ricerche sulle tematiche di interesse per il settore e fornendo assistenza e consulenza alle aziende associate. Anigas si occupa delle tematiche afferenti alle Relazioni Industriali ed è firmataria del CCNL Gas-Acqua.
ANIGAS
Associazione Nazionale Industriali Gas Milano - Via Giovanni da Procida, 11 - Telefono 02 310816.1 www.anigas.it - info@anigas.it
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Geopolitica del litio Sulla risorsa chiave per il successo dell’auto elettrica si scontrano interessi, aziende, Paesi. L’atlante dei giacimenti, la mappa di chi la produce. E il mistero Bolivia
di Maurizio Stefanini Numero atomico 3, il litio è il metallo più leggero e l’elemento solido meno denso. Ancora largamente usato in medicina, è oggi però importante soprattutto per le batterie: nei pc, e in prospettiva ancora di più nell’industria automobilistica, che vi sta cercando la chiave per ricaricare le auto elettriche in modo rapido. Insomma, nel XXI secolo potrebbe avere il litio quell’importanza strategica che nel XIX secolo ebbe il carbone e nel XX secolo il petrolio. Fino a poco tempo fa la più importante riserva di litio esistente al mondo era ritenuta il Salar de Uyuni: un’area di 140 km per 110 per un totale di 10.582 Km2 a 3663 metri di altezza, nell’altopiano andino meridionale della Bolivia. Avanzo di un lago preistorico prosciugato, rappresenta la più grande distesa salata del mondo, e secondo le stime dell’impresa Usa Srk conterrebbe 21 milioni di tonnellate. Evo Morales aveva identificato il litio come l’erede di quello che era stato per il Paese lo stagno
in passato e ora è il gas, però con lui la produzione boliviana di litio non aveva oltrepassato le 250 tonnellate all’anno. Secondo una interpretazione a lui ostile, perché gli investimenti stranieri sarebbero stati scoraggiati dall’esclusività riservata a Yacimientos de Litio Boliviano (Ylb): società statale al 100%. L’interpretazione pro Morales era invece che le cose stavano venendo fatte con cautela per rispettare l’ambiente e anche per mantenere più valore aggiunto possibile nel Paese. “Guadagneremo un miliardo e mezzo di dollari all’anno”, aveva detto Morales nel presentare ufficialmente il 1° ottobre la prima auto elettrica prodotta in Bolivia dalla Ylb, all’inaugurazione ufficiale di un nuovo centro di tecnologia al litio a Potosi. La stessa Ylb aveva affermato di poter portare la produzione da 250 a 150.000 tonnellate entro cinque anni, in modo da arrivare al 20% del mercato mondiale già entro il 2022.
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UN GOLPE CONTRO MORALES PER IL LITIO?
IL GRANDE GIOCO DEL METALLO LEGGERO
Ma il 10 novembre Morales è stato costretto alle dimissioni, e l’11 è partito per l’esilio. Davvero si è trattato di un “golpe per litio”, come lo stesso ex-presidente boliviano ha denunciato? L’idea di una vendetta di Washington dopo che imprese Usa erano state escluse dai progetti di sfruttamento è stata rilanciata da qualche commentatore, ma in realtà nessuna società Usa aveva partecipato alla licitazione per realizzare una fabbrica di batterie vinta dalla tedesca ACI System contro cinque concorrenti cinesi, una russa e un’altra canadese: salvo poi la joint venture con la Ylb essere annullata. Niente firme Usa neanche all’altra gara per una fabbrica di carbonato di litio vinta dalla cinese Xinjiang Tbea Group contro concorrenti cinesi, spagnole e tedesche. In realtà l’origine del rivolgimento che ha privato Morales del potere non è stata economica ma politica: il tentativo di ricandidarsi alla presidenza, malgrado il divieto della Costituzione e la bocciatura di un referendum per cambiarla. Morales si era allora fatto dichiarare dal Tribunale costituzionale che il divieto al suo elettorato passivo violava la Convenzione americana sui diritti umani, ma la protesta si è riaccesa quando si è diffuso il sospetto di brogli elettorali: la polizia a un certo punto si è ammutinata, e le forze armate si sono rifiutate di reprimere al loro posto. Il litio però in qualche modo effettivamente c’entra. La popolazione del Dipartimento di Potosí era infatti insoddisfatta per la miserrima quota del 3% sul valore lordo della produzione promessa alla regione, per cui dopo essere stati suoi ardenti sostenitori i potosini sono stati tra i più scalmanati oppositori di Morales al momento della sollevazione.
La Bolivia, comunque, al momento ha un ruolo minimo in una produzione mondiale che, esclusi gli Usa,nel 2017 era arrivata a 43.000 tonnellate. Quattro le società egemoni: Sociedad Química y Minera de Chile (Sqm), la australiana Talison, la tedesca Chemetall, la statunitense Fmc. Il Cile è solo il secondo produttore: nel 2018, 16.000 tonnellate. Ma ha nel Salar de Atacama una riserva da 8 milioni di tonnellate che è la prima al mondo effettivamente sfruttata. Protagonista la Sqm, il 30% delle cui azioni appartiene a Julio Ponce Lerou, che grazie al boom del litio nelle classifiche dei miliardari di Forbes è arrivato al posto numero 546, con un patrimonio da 2,6 miliardi. È ex genero del defunto dittatore Augusto Pinochet, che privatizzò Sqm negli anni ’80. Ma in Cile operano anche la statunitense Albemarle e la Codelco, società di Stato del rame. Al contrario, l’Australia è stata la più grande nazione produttrice di litio al mondo nel 2018, ma è seconda in termini di riserve: 2.700.000 tonnellate. Il Paese ospita il progetto Greenbushes, che è gestito da Talison Lithium, una consociata di proprietà congiunta della cinese Tianqi Lithium e della statunitense Albemarle. Terza è l’Argentina: 2.000.000 di tonnellate di riserve, 5.700 tonnellate di produzione nel 2017 e 6.200 nel 2018. Il litio locale è estratto dalla Fmc di Filadelfia, a cui appartiene la miniera di Salar del Hombre Muerto; e dalla Orocobre di Brisbane. Anche l’Argentina portrebbe però avere ora gravi problemi di reperimento di capitali, nel momento in cui il nuovo governo di Alberto Fernández ha dichiarato il default. Quarta è la Cina, che detiene riserve di litio di 1.000.000
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di tonnellate, ma nel 2018 ha prodotto solo 8.000 tonnellate, e importa la maggior parte del litio di cui ha bisogno dall’Australia. La Cina starebbe però cercando di espandere la sua produzione di litio, fino ad arrivare al 62% della produzione globale di batterie agli ioni di litio. Come già accennato, lo scorso anno Tianqi Lithium ha siglato un accordo per l’acquisto di una quota di 4,1 miliardi di dollari in SMQ. Un altro produttore cinese di litio che sta facendo notizia è Ganfeng Lithium, che ha investito 160 milioni di dollari in Lithium Americas per sviluppare il progetto Cauchari-Olaroz in Argentina. Ganfeng ha anche annunciato un protocollo d’intesa sulla fornitura a lungo termine di litio per celle a batteria per auto elettriche con la casa automobilistica tedesca Volkswagen, che ha un piano per fabbricare 22 milioni di veicoli elettrici in tutto il mondo entro il 2028. E Ganfeng fornirebbe anche la tecnologia per sviluppare il litio messicano. ALL’ORIZZONTE LE SCOMMESSE DI PERÙ E MESSICO Ci sono anche riserve nello Zimbabwe: 70.000 tonnellate. In Portogallo: 60.000 tonnellate. In Brasile: 54.000 tonnellate. Negli Stati Uniti: 35.000 tonnellate. Una riserva ancora non certificata che potrebbe rivoluzionare la geopolitica del litio è quella del Perù. Ad agosto infatti la start-up Nortvolt ha iniziato a Skelleftea, nel nord della Svezia, la costruzione della più grande fabbrica di batterie al litio in Europa. È un progetto che inizierà con una capacità da 15GW, per arrivare entro il 2030 a 150, per un valore di 13 miliardi di euro. Tra gli investitori che vi hanno messo un miliardo di dollari ci sono Volkswagen e Bmw.
Dopo essere andato in Perù a giugno per creare un forum “Industria estrattiva per il futuro”, che era anche un’opportunità per prendersi cura delle forniture, il vice ministro del Commercio estero svedese Niklas Johansson aveva infatti spiegato in un’intervista a Reuters a luglio che il progetto aveva valore strategico proprio per salvare l’Europa da un possibile monopolio cinese. Ed è probabile che anche il Nobel 2019 per la Chimica assegnato allo statunitense John Goodenough, al britannico Stanley Whittingham e al giapponese Akira Yoshino proprio per il loro contributo allo sviluppo delle pile al litio sia collegato a questo progetto. E poi c’è il Messico. Un giacimento che potrebbe arrivare a 243 milioni tra Sonora e Chihuahua, la cui scoperta è stata appena annunciata, e che dovrebbe entrare in produzione dall’anno prossimo. E a quel punto tutto l’attuale assetto del mercato ne sarebbe scombussolato.
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James Dyson e il sogno sfumato dell’e-car È il re degli aspirapolvere, con i quali ha innovato il mercato e conquistato milioni di clienti. Ma il suo desiderio di inseguire Elon Musk si è infranto ancor prima di cominciare
di Giuseppe Mancini Dagli aspirapolvere ciclonici alle automobili elettriche. Il salto temerario lo ha provato James Dyson, innovatore e imprenditore inglese di grande successo. Voleva fare concorrenza alla Tesla di Elon Musk, ma è stato obbligato a rinunciare al progetto. Eppure il bozzetto era già circolato online e il prototipo – un suv crossover – era pronto e funzionante (anche se mai svelato al pubblico), mentre la produzione in serie sarebbe iniziata nel 2021 in uno stabilimento hi-tech da costruire a Singapore. Troppo agguerrita la concorrenza, troppo alti i costi di sviluppo: l’auto elettrica conosciuta con la sigla N526, a differenza di tutti gli altri prodotti dell’azienda inglese, è stata giudicata commercialmente non sostenibile. Oggi, a flop annunciato – Dyson lo ha fatto via mail, inviata il 10 ottobre 2019 ai suoi dipendenti e pubblicata online – l’azzardo può apparire ingiustificato.
37 Sì, l’azienda è diventata famosa per l’alto contenuto di tecnologia avanzatissima dei suoi aspirapolvere senza sacchetti, dei suoi ventilatori senza pale, dei suoi asciugacapelli supersonici: degli autentici status symbol, che comunicano creatività spiazzante e offrono utilità insospettata. Sogni pianificati, che fatturano: oltre 5 miliardi di euro nel 2018 (con 1 miliardo abbondante di utili). Però, il passaggio dall’aspirapolvere all’automobile – quasi un balzo evolutivo – si è effettivamente rivelato impraticabile. Soprattutto perché sir James aveva intenzione di fare tutto da solo: non solo disegnare il veicolo e realizzare tutti i componenti, ma anche venderlo direttamente e in numeri sufficienti da giustificare gli investimenti richiesti. Se l’intuito avanguardista dell’inventore ha funzionato – per l’appunto, il prototipo era pronto: “una macchina fantastica”, l’ha definita nella sua mail ai dipendenti – l’approccio manageriale si è dimostrato inadeguato e ha portato al fallimento. Insomma: la Dyson sarebbe stata in grado di mettere la N526 in produzione, produrla avrebbe comportato costi maggiori dei ricavi e avrebbe comportato atroci difficoltà finanziarie per l’azienda. La decisione annunciata, in definitiva, è stata quella di voler utilizzare quanto sperimentato negli ultimi 4 anni in nuovi prodotti ugualmente promettenti e avveniristici, dalla robotica all’intelligenza artificiale. Una scelta legata al mercato, non al know how tecnologico: “Semplicemente, non possiamo renderla commercialmente sostenibile”, ha scritto Dyson nella stessa mail. Il progetto, in effetti, era partito su basi solidissime. L’intuizione di fondo, infatti, era quella di sfruttare quanto già conosciuto dall’azienda sui motori elettrici – quelli utilizzati nei suoi elettrodomestici – per produrre e lanciare sul mercato internazionale un’auto elettrica a batteria. Anzi, proprio le batterie – quelle di ultimissima generazione, allo stadio solido – erano l’anello di congiunzione sul quale era imperniata la strategia di Dyson: che infatti nel 2015 aveva acquisito la star-tup statunitense Sakti3, specializzata in questo tipo di accumulatori performanti in maniera rivoluzionaria. Cos’è andato storto, allora? Per giunta, superando l’impulso a far tutto da solo, Dyson aveva deciso di affidarsi a grandi professionisti del settore, come l’ex dirigente di Bmw Ronald Krueger, insieme ad altri veterani dell’Aston Martin e della Jaguar. Sono stati stanziati 2 miliardi e mezzo di euro per lo sviluppo della N526, affidato a un team di oltre 500 persone (che verranno in gran parte ricollocate all’interno dell’azienda); nel 2016 è stata an-
che acquistata l’ex base militare della RAF di Hullavington Field in Inghilterra, dov’è stato assemblato e testato il prototipo. Avviato nel 2015, il progetto è diventato di dominio pubblico solo nel 2017: ma in modo involontario e rocambolesco, inserito in un documento del governo britannico sulle politiche industriali. Ci sono poi state conferme ufficiali, ma mai presentazioni glamour: fino alla circolazione del bozzetto schematico del suv, che lascia intravedere la silhouette e poco altro. Il passo successivo avrebbe dovuto essere il trasferimento a Singapore del quartier generale dell’azienda, così da permettere al suo presidente di controllare da vicino sia linea di montaggio, sia i futuri acquirenti previsti soprattutto in Cina. Anzi, l’esigenza di costruire e rendere operativo lo stabilimento produttivo ha rappresentato l’ostacolo insormontabile: tutta una questione di costi certi e di ricavi attesi, troppo alti i primi e troppo ridotti i secondi. Dyson, in effetti, nel 2019 si è dovuto scontrare con condizioni di mercato radicalmente mutate. Quando ha iniziato, nel 2015, a lavorare su progetti simili erano solo pochi visionari: il modello Tesla, insomma. Addirittura, gli altri potenziali concorrenti sembravano essere Google e Apple. Poi sono arrivati i colossi dell’automobile, tutti insieme: quasi obbligati dal progressivo abbandono che si sta delineando dei motori tradizionali a combustione. Hanno a disposizione budget spropositati (quello della Volkswagen supera i 60 miliardi di euro), hanno grande esperienza in tutte le fasi dal design alle reti di vendita, sono capaci di assorbire i costi iniziali spalmandoli su grandi numeri e con orizzonte temporale dilatato. Competere con costoro sulla base del prezzo sarebbe stato impossibile; la stessa Tesla fa del rischio anche insostenibile la sua principale ragion d’essere. L’altro potenziale rivale, la start-up cinese Nio, nel terzo trimestre del 2019 ha sì venduto 5.000 automobili elettriche ma ha visto le sue azioni crollare di quasi l’80% nel corso dell’anno, soprattutto a causa del malfunzionamento di alcune batterie, andate a fuoco. In definitiva, la differenza di fondo con tutti gli altri è che per Dyson e per la Dyson ci sono alternative immediate e profittevoli: insistere sull’automobile elettrica sarebbe stato un suicidio aziendale, abbandonarla è stata una scelta di buon senso.
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Auto elettrica, i numeri dell'Italia PARCO CIRCOLANTE AUTOVETTURE
Euro 1
Euro 0
5,3%
3.9%
Euro 2
8,8%
Euro 5
18,6%
Euro 3
13,3%
Euro 4
28,3%
Euro 6 + elettr.
21,8% Fonte:Unrae
PUNTI E INFRASTRUTTURE DI RICARICA I punti di ricarica, gestiti da diversi operatori, sono distribuiti su tutto il territorio nazionale
10.647 Totale punti di ricarica
5.246
Totale infrastrutture di ricarica
Fonte:Motus-E
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DISTRIBUZIONE DELLE AUTO ELETTRICHE IN ITALIA Auto elettriche piĂš apprezzate al Nord. Nelle isole si contano solo 319 auto elettriche
Nord-Est
7.716
Nord-Ovest
4.630 Centro
4.305 Sud
700 Isole
319
Fonte:Motus-E
FOCUS 2019-2020
Città, imprese e modelli produttivi l’Italia che cambia > Un canale on line quotidiano su www.startmag.it > Un paper sull’Economia circolare > Un seminario a porte chiuse con gli stakeholder > Un libro sull’Economia circolare distribuito in allegato al Quadrimestrale Start Magazine > La presentazione pubblica del libro con esperti di settore ed esponenti delle Istituzioni
PROMOSSO DA
Lo sbarco delle Big Tech
di Alessandro Alviani
Lo sviluppo dei veicoli interconnessi e senza conducente richiede investimenti che non sempre i costruttori classici possono permettersi. Si passerà dalle alleanze alla competizione?
Nel gennaio del 2009, negli stessi giorni in cui Google lanciava in gran segreto il suo programma per un’auto senza conducente e Barack Obama giurava come presidente degli Stati Uniti, il mercato degli smartphone era dominato, negli Usa, da un telefono che montava una tastiera fisica al posto del touch screen, aveva pochissime app compresse in uno schermo minuscolo e richiedeva l’iscrizione a uno speciale servizio per poter accedere alle mail da mobile. Il BlackBerry era l’icona irrinunciabile di qualsiasi manager di successo, nonché di politici e presidenti in giro per il mondo, Obama su tutti. Da allora BlackBerry è stata prima tallonata dall’iPhone e dagli Android, poi superata, infine spinta sull’orlo del collasso – ed è risorta oggi sotto nuove spoglie: come specialista di soluzioni software per l’auto connessa e a guida autonoma. BlackBerry QNX, la piattaforma software del colosso canadese che combina strumenti di assistenza alla guida, moduli di connettività e sistemi di infotainment, è installata su oltre 150 milioni di veicoli e vanta tra i suoi partner Audi, Maserati, Porsche, Ford e Bmw. A titolo di paragone: all’apice del suo successo, nel 2013, BlackBerry contava 85 milioni di utenti smartphone.
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42 SVANISCONO I CONFINI FRA BIG TECH E AUTOMOTIVE
UN SETTORE DINAMICO E FRASTAGLIATO IN COSTANTE EVOLUZIONE
Il collasso e la rinascita del gruppo di Waterloo accompagna un decennio che ha visto le Big Tech lanciarsi con sempre maggiore determinazione nel settore delle auto, dei robotaxi e dei veicoli commerciali a guida autonoma – e funge da richiamo costante ai costruttori tradizionali: chi non è pronto a ripensarsi, mette in gioco il proprio stesso futuro. E il futuro è quanto mai incerto, stretto com’è tra la sfida dei motori elettrici, la trasformazione delle abitudini dei consumatori, che vedono sempre meno nell’auto uno status symbol da tener parcheggiato davanti la porta di casa, e la parcellizzazione di un mercato che vede oggi, accanto ai marchi storici e ad alleanze sempre più trasversali, un crescente numero di società che offrono sistemi di guida autonoma e servizi alla mobilità sempre più sofisticati. Il quadro è in rapido mutamento: negli anni Settanta, nella top ten delle aziende statunitensi con gli introiti netti più alti comparivano due case automobilistiche (Gm e Ford). Nel 2018 i costruttori automobilistici erano scomparsi, sostituiti da cinque giganti tech: Apple, Microsoft, Alphabet, Facebook e Intel. Tutte società – ad eccezione di Facebook – fortemente impegnate nel settore dell’auto a guida autonoma. D’altronde lo sviluppo dei veicoli interconnessi e senza conducente richiede investimenti enormi, che non sempre i costruttori classici possono permettersi. E così i big dell’auto hanno optato per strategie differenti, non necessariamente distinte tra loro: c’è chi, come Bmw e Daimler, ha deciso di superare la propria storica rivalità e costruire insieme nuovi sistemi di guida autonoma; chi ha delegato a partner tecnologici esterni l’aspetto del software, concentrandosi sulla costruzione dell’“hardware”; e infine c’è chi ha optato per una strada ibrida, come Volkswagen, che ha scelto contemporaneamente di lanciare un’alleanza con Ford, di collaborare con big come Microsoft o Google e di fondare una propria controllata specializzata in veicoli senza conducente. A dirigere quest’ultima Vw ha chiamato Alexander Hitzinger, un manager che aveva lavorato in precedenza al “Progetto Titan”, il programma segreto di Apple per una propria auto a guida autonoma, a dimostrazione del fatto che i confini tra Big Tech e automotive sono ormai tutt’altro che rigidi e che i costruttori automobilistici non hanno paura di pescare tra i giganti tecnologici per evitare di perdere il passo.
Lo sbarco di Big Tech negli abitacoli è partito da un classico punto dolente delle case tradizionali: i sistemi di infotainment, rimasti a lungo indietro rispetto ai software per smartphone, tablet e home entertainment. In realtà soluzioni come CarPlay di Apple e Android Auto di Google hanno rappresentato solo il primo passo. Il secondo è arrivato con gli assistenti vocali, come Alexa, che Amazon è riuscita a far adottare da marchi del calibro di Toyota, Audi e Ford. Il costante perfezionamento e l’integrazione sempre più spinta dell’intelligenza artificiale, delle soluzioni cloud e di innovativi sistemi di sensori e telecamere ha reso il settore tanto dinamico, quanto frastagliato. A dominarlo ci sono oggi due nomi che fino a una decina di anni fa non esistevano ancora: Waymo, controllata da Alphabet, la casa-madre di Google, e Cruise Automation, di proprietà di General Motors. Il leader indiscusso resta Waymo, le cui auto a guida autonoma hanno macinato finora qualcosa come 32 milioni di chilometri su strade pubbliche in 25 città statunitensi, da Detroit a San Francisco. Un database impressionante, che regala a Google un netto vantaggio competitivo, destinato ad allargarsi ulteriormente col lancio, in Arizona, di un servizio di ride sharing gestito da veicoli senza conducente. UN VALZER DI NUOVI INGRESSI E ALLEANZE INTRECCIATE Alle spalle di Waymo e Cruise Automation pullula una miriade di big tecnologici, aziende medio-grandi, start-up e joint venture, in un panorama costantemente in evoluzione. All’ultima edizione del CES, la più importante fiera mondiale della tecnologia, BlackBerry ha svelato ad esempio un’alleanza con Amazon Web Services (il servizio di cloud del gigante dell’ecommerce), per offrire ai costruttori una piattaforma software che dovrebbe consentir loro, ad esempio, di offrire abitacoli personalizzati o sistemi avanzati di guida assistita. Hyundai ha lanciato, insieme allo specialista di componentistica Aptiv, una joint venture da quasi quattro miliardi di euro per sviluppare sistemi di guida autonoma. Volkswagen ha investito in Aeva, una start-up creata nella Silicon Valley da due ex ingegneri Apple che offre sensori Lidar (quelli che “vedono” l’ambiente che circonda un veicolo senza conducente) altamente efficienti. Microsoft ha costruito intorno al proprio servizio di cloud Azure una piattaforma per aiu-
43 tare i costruttori a sviluppare servizi per i veicoli interconnessi. Il colosso di Redmond ha unito le forze con big del calibro di Volkswagen, Renault-Nissan-Mitsubishi, Bosch, Ericsson e TomTom. E così, ad esempio, i dati generati dal sistema di navigazione TomTom possono essere inviati dal veicolo ad Azure e usati dalle case automobilistiche per migliorare le proprie decisioni in materia di design e ingegneristica. Non solo, ma lo scorso settembre, al Salone di Francoforte, Microsoft ha presentato un programma per fornire supporto alle start-up impegnate nel settore dell’auto a guida autonoma, dando loro accesso, tra l’altro, al proprio network di ingegneri specializzati in questo campo. La corsa per entrare nei veicoli del futuro non poteva risparmiare i giganti dei chip: Intel ha rilevato Mobileye, una società israeliana che offre sistemi intelligenti per prevenire le collisioni usati tra gli altri da Nissan e Tesla; Nvidia si è alleata con Gm, Toyota, Bosch e Continental per dar vita a una piattaforma comune per i veicoli autonomi e a gennaio, al CES, Qualcomm ha presentato un suo sistema senza conducente. La sfida non coinvolge solo Big Tech e costruttori europei o americani: Yandex, la “Google russa”, gestisce in Russia, in alcune repubbliche ex sovietiche, nonché in Israele, Africa ed Est Europa un proprio servizio di veicoli a guida autonoma usati come taxi o per le consegne di cibo a domicilio, mentre Baidu, la “Google cinese”, ha lanciato, col progetto Apollo, una propria piattaforma per la guida autonoma. SARANNO LE BIG TECH LE FUTURE CASE AUTOMOBILISTICHE? Sullo sfondo resta la grande incognita: “Titan”, il progetto di una propria auto al quale Apple starebbe lavorando dal 2014. Al momento sembra che l’azienda di Cupertino, che finora ha già investito un miliardo di dollari in Didi (la rivale cinese di Uber) e portato Siri negli abitacoli di marchi come Bmw o Volkswagen, abbia deciso di concentrarsi sullo sviluppo di soluzioni software per l’auto a guida autonoma, piuttosto che sulla costruzione di un proprio veicolo, anche se i punti interrogativi restano. E il panorama delle Big Tech impegnate nell’automotive si fa sempre più ampio. Una delle maggiori sorprese all’ultimo CES è stato il prototipo di un’avveniristica auto elettrica, ribattezzata Vision S e realizzata insieme ai big della componentistica, da Magna Steyr a Bosch e Continental. Dietro il progetto c’è un nome che finora nessuno aveva annoverato tra i costruttori di auto: Sony.
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Aspettando la guida autonoma
Ci vorranno ancora cinque o sei anni prima che la nuova tecnologia sia pronta a entrare nel mercato in maniera significativa. I limiti del fattore umano e le opportunità per le aziende di mobilità condivisa Intervista a Marco Pavone di Chiara Rossi
Le auto a guida autonoma cominceranno ad avere una penetrazione significativa non prima di cinque-sei anni. Parola del professor Marco Pavone, direttore del laboratorio sui Sistemi Autonomi a Stanford e Co-Direttore del Centro per l’Automotive Research di Stanford, che ci ha illustrato limiti e sfide di questa tecnologia Quando si parla di guida autonoma, il livello 4 è una designazione della SAE (Society of Automobile Engineer) e significa che il veicolo può gestire tutti gli aspetti della guida in determinate condizioni senza intervento umano. Questo livello della tecnologia è pronto? Molto vicino ad essere pronto. Al momento ci sono varie aziende, come Waymo, con servizi di ride-hailing che si basano su veicoli autonomi di livello 4, che però ancora hanno bisogno di un safety driver a bordo del veicolo nel caso in cui sopraggiunga qualche anomalia. Però di fatto, almeno per applicazioni in domini ope-
INTERVISTA A MARCO PAVONE INTERVISTA A MARCO PAVONE INTERVISTA A MARCO PAVONE INTERVISTA A MARCO PAVONE INTERVISTA A MARCO PAVONE INTERVISTA A M
45 rativi specifici (ovvero condizioni meteorologiche buone, solo su alcune strade e così via), la tecnologia è quasi pronta e direi che per la fine del 2020 ci saranno le prime applicazioni in cui non è più richiesto un safety driver. Però punto fondamentale: queste applicazioni saranno limitate sia dal punto di vista meteorologico sia dal punto di vista delle strade navigabili da questi veicoli. Per avere effettivamente un livello 4 su scala globale – su tutta la rete di trasporto sia cittadina sia autostradale – si parla di cinque-dieci anni e forse anche di più. Secondo gli analisti di Gartner, entro il 2023 nel traffico di tre continenti (Usa, Asia ed Europa) transiteranno circa 745.000 veicoli autonomi. Si fa riferimento alle vetture che non abbisognano di alcuna supervisione (SAE livello 3 o superiori) per sfondare quota 2,5 milioni ben prima della fine della prossima decade, entro il 2028. Queste stime sono sempre difficilissime. Si prevedeva che già nel 2018 avremmo avuto i servizi basati su veicoli autonomi di livello 4 che però non abbiamo ancora. Queste stime addirittura con dati quantitativi lasciano il tempo che trovano e sono spesso rischiose. Vero è che un’azienda come Tesla – che sostanzialmente sviluppa una tecnologia di livello 3 – fornisce già in dotazione un autopilota usato in maniera frequente e sembrerebbe funzionare molto bene. Più importante è ragionare in termini di trend. Secondo me ci sarà una penetrazione sempre superiore sia di livello 3 sia di livello 4. Ma per arrivare a servizi di taxi condivisi con auto senza conducente ci vorranno altri 5 anni. Quando si raggiungerà il break even point rispetto a penetrazione nel mercato con l’auto a guida autonoma di livello 4? Innanzitutto, questi veicoli non saranno dei veicoli completamente autonomi e non saranno venduti nella maggior parte dei casi a privati ma saranno utilizzati da aziende di mobilità condivisa come Uber e Lyft in un contesto di ride-hailing e ride-sharing. Questi sistemi cominceranno ad avere una penetrazione significativa non prima di cinque-sei anni. Piccoli sistemi da 500-1000 autovetture si avranno nel giro dei prossimi due-tre anni, ma in domini operativi molto limitati. Ad esempio, Las Vegas o altre città del sud degli Usa dove il tempo è tipicamente molto buono o in Cina. Una delle prime città, se non la prima città, in cui auto senza conducente saranno utilizza-
te in contesti di mobilità condivisa sarà a mio avviso probabilmente Pechino o qualche altra città cinese. Al CES d Las Vegas si è parlato più di Adas (Advanced Driver Assistance Systems) che di driveless car, si spera forse che nel 2020 gli utenti acquisiscano maggiore familiarità con la tecnologia di guida automatizzata così da ridurre la paura per i veicoli completamente autonomi (visto i casi di incidenti avvenuti in questi ultimi anni di sperimentazione)? Nell’ultimo anno c’è stata una fase di riflessione sullo stato di questa tecnologia e chi lavora nell’ambito finanziario o nel marketing si è reso conto che essa è ancora molto complessa e richiede un decennio per essere messa a punto e diventare profittevole. Cosicché grandi aziende automotive come Bmw o Ford hanno preferito rallentare gli investimenti sulla tecnologia completamente autonoma e seguire una strada più incrementale basata su Adas, che ha un ritorno temporale più rapido. C’è stato un rallentamento dell’entusiasmo nello sviluppo di questa tecnologia e quindi per ora si è preferito spostare di più l’attenzione sulla tecnologia Adas, che è sempre molto avanzata ma comunque più semplice rispetto all’autopilota. Alla base c’è l’idea che, rendendo la tecnologia Adas sempre più avanzata, alla fine si arriverà all’autopilota completo. Detto questo, le aziende della Silicon Valley più votate ai software come Google con Waymo hanno come core business lo sviluppo di auto completamente autonome (che non riguarda dunque Adas) e continuano con la propria traiettoria di sviluppo di un autopilota completo. Quali sono i limiti di questa tecnologia? Ce ne sono vari. Primo, un sistema autonomo, un’auto senza conducente, si trova a volte ad operare in contesti che non sono anticipati in fase di disegno. Questo è un ambito tecnologico che è completamente nuovo nel contesto dell’automazione industriale. Fino a qualche anno fa il problema era di rendere un sistema autonomo (come un aeroplano che vola), ma tutto quello che gli poteva succedere poteva essere previsto e quindi l’autopilota veniva sviluppato rispetto a tutti i possibili scenari previsti che potevano avvenire in fase operativa. Nel caso dell’auto senza conducente non tutti gli scenari possono essere previsti: ci sono sempre degli eventi rarissimi che possono avere un effetto significativo sulla sicurezza.
Un caso tipico è uno strano animale che attraversa la strada. Cercare di avere un sistema software basato su intelligenza artificiale che sia abbastanza robusto da comportarsi in maniera sicura in contesti drasticamente diversi rispetto a quelli previsti in fase di disegno fa sì che questa tecnologia sia ancora in fase di sviluppo e pertanto non matura. Un secondo aspetto è che, a differenza dei tipici sistemi di automazione industriale (un robot che assembla auto in una fabbrica, aeroplani con autopilota), un’auto senza conducente si trova ad operare in contesti in cui c’è una forte interazione con gli altri esseri umani (pedoni, ciclisti o altre automobili), e gli esseri umani introducono elementi di imprevedibilità e incertezza che rendono difficile per un sistema basato su intelligenza artificiale essere in grado di comportarsi in maniera adeguata in tutte le possibili situazioni. L’essere umano è molto difficile da prevedere, a volte fa delle cose in modo scriteriato. Infine, c’è la questione del certificare che un veicolo senza conducente è di fatto sicuro. Questo è collegato con i primi due punti. Siccome non tutti i possibili scenari possono essere previsti in fase di disegno, quando si può dire che un veicolo ha vissuto abbastanza scenari da considerarsi sicuro? Nel caso dell’essere umano sappiamo che, se dopo un test di 15 minuti risulta positivo, probabilmente guiderà bene in tutte le situazioni. Le macchine hanno una capacità molto limitata in questo senso: deve ancora essere stabilito quanti chilometri debba guidare una macchina senza conducente per considerarsi sicura. A proposito della messa a punto degli algoritmi, è forse questa la sfida maggiore? Assolutamente sì. Nel caso di predizione dell’intento dell’essere umano è una tecnologia ancora non molto matura in quanto è difficile modellizzare l’intento dell’essere umano. In realtà, nel mio laboratorio è da diversi anni che ci occupiamo di tecniche di machine learning, deep learning e AI per sviluppare modelli basati su esperienze e situazioni che un veicolo può trovarsi ad affrontare sulla strada per sviluppare questi modelli. Fare affidamento a quello che si osserva nella realtà è fondamentale, dal momento che un modello che funziona bene in California magari non funziona in Italia.
Di recente l’amministrazione Trump ha lanciato nuove linee guida non vincolanti per la regolamentazione di auto e camion senza conducente. Una mossa per far avanzare un approccio leggero alla regolamentazione tecnologica che contrasta con la strategia dei leader europei che intendono stabilire uno standard globale per la regolamentazione dell’AI. Innanzitutto, non bisogna confondere il veicolo a guida autonoma con l’argomento più ampio di intelligenza artificiale che va molto al di là della robotica. L’intelligenza artificiale non è sinonimo di veicolo autonomo, bensì il veicolo autonomo usa diverse tecnologie di intelligenza artificiale. Dal momento che i limiti e le potenzialità di questa tecnologia non sono completamente caratterizzati si ha il timore che, approvando regole troppo restrittive, si limiti lo sviluppo tecnologico e dunque si perda il vantaggio competitivo a favore di altre nazioni, come ad esempio la Cina, che magari hanno un atteggiamento più lasco. Questo è il motivo per cui gli Stati Uniti hanno un approccio abbastanza leggero a livello normativo e stanno cercando di trovare un bilanciamento tra il garantire la sicurezza e le regole che limitano lo sviluppo tecnologico. Devo dire che per ora quest’approccio sta funzionando abbastanza bene.
INTERVISTA A MARCO PAVONE INTERVISTA A MARCO PAVONE INTERVISTA A MARCO PAVONE INTERVISTA A MARCO PAVONE INTERVISTA A MARCO PAVONE INTERVISTA A M
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Ci piace chi, sul mondo dell’energia, ha ancora tante domande
Fatti, numeri e scenari sull’energia. Oltre falsi miti e fake news
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Drive in: l’intrattenimento sale a bordo L’auto entra nel tunnel del divertimento, tra display panoramici, assistenti vocali e intelligenza artificiale. Preparandosi alla self driving car, ma senza dimenticare chi ama restare al volante
di Paola Liberace In principio era l’autoradio. Del resto, cos’altro vuoi fare in macchina, oltre ad ascoltare un po’ di notizie, al massimo di musica: l’attenzione di chi guida, si sa, deve essere tutta rivolta alla strada, senza altre distrazioni, soprattutto visive. E invece, negli anni i cruscotti delle auto si sono arricchiti di funzionalità sempre più vistose e complesse: destinate non solo alla trasmissione e alla riproduzione di audio, ma al controllo di informazioni sul veicolo e sul viaggio, all’interazione con i sistemi di bordo, alla visualizzazione di mappe e percorsi e all’integrazione di servizi di comunicazione, fino a quelle più avanzate (messaggistica e app) tipiche degli smartphone, da ultimo attinte direttamente dai cellulari grazie a sistemi come Apple Car Play o Android Auto. Così, quando Sony all’inizio del nuovo anno ha presentato all’ultimo CES (Consumer Electro-
nic Show) di Las Vegas la sua Vision S, eravamo già piuttosto preparati - a parte la sorpresa di vedere il produttore della Playstation (o del Walkman, per i più attempati) cimentarsi con il mestiere di Ford e di Agnelli. L’avveniristico prototipo di automobile, ovviamente elettrico, pensato per consentire gradi crescenti di autonomia lungo i quali avvicinarsi a una self driving car, è dotato di ogni tipo di feature per garantire la migliore esperienza di car entertainment mai provata: dall’intelligenza artificiale alle telecamere, dal sistema audio spaziale “360 Reality Audio”, all’ingente numero di sensori CMOS, ma soprattutto lo schermo panoramico esteso per tutta l’area frontale, in grado di trasmettere musica (distribuita dalla major discografica Sony), film (distribuiti dalla major cinematografica Sony), e persino giochi (dopotutto, Sony produce una console).
49 PIÙ SCHERMI (INTELLIGENTI) PER TUTTI I tempi per l’avvento di un vero e proprio sistema di intrattenimento veicolare erano ormai maturi. Appena qualche giorno prima che la Vision S si candidasse a protagonista assoluta della fiera dell’innovazione tecnologica, Tesla aveva annunciato la disponibilità di YouTube, Netflix e Hulu sul suo nuovo sistema di infotainment a bordo, il Tesla Theater: il tutto, pare, destinato ai momenti di attesa e funzionante solo se l’auto è debitamente parcheggiata e connessa a una rete WiFi. Lo scenario da guerra globale dello streaming si complica con i cinesi, che con la Byton M-Byte hanno portato sul display da 48 pollici i contenuti on demand della CBS e le previsioni meteo di AccuWeather. Sulla stessa lunghezza d’onda, Amazon ha annunciato il lancio di una nuova, speciale edizione di Fire TV, il suo servizio di intrattenimento multimediale, appositamente ripensato per il settore automobilistico, vista la partnership con Bmw e Fca. Per quanto ambiziosa sembri, la promessa in questo caso è garantire nell’abitacolo un’esperienza simile a quella del salotto di casa, grazie all’interfaccia touch screen avanzata e nuove funzionalità di riproduzione sia video sia audio, sia online sia offline. I contenuti possono infatti essere registrati con Fire TV Recast, e poi salvati in locale sul dispositivo o trasmessi in streaming tramite le varie soluzioni di connettività: Wi-Fi, LTE, hotspot mobile del veicolo o qualsiasi dispositivo abilitato per la Wireless Area Network (WAN). La proliferazione degli schermi non sembra dunque dover risparmiare l’habitat veicolare: in realtà, esiste un’alternativa, e avanza di pari passo. L’hanno mostrata tre anni fa, sempre al CES, società come Harman, Continental and Visteon: parliamo di cristalli smart che consentono di visualizzare le informazioni su ambiente circostante e viaggio direttamente sul parabrezza, in modalità di realtà aumentata. Non solo il guidatore, ma anche i passeggeri tramite la stessa tecnologia – che equipaggiava i veicoli Toyota e Gm – possono utilizzare i propri finestrini come veri display interattivi, dotati di touch screen su cui si può leggere informazioni sul panorama, scrivere con le dita, zoomare su un dettaglio dell’immagine esterna. In entrambi i casi si tratta di soluzioni che si avviano alla maturità: nell’edizione di quest’anno, per esempio, sono state mostrate integrate nelle auto di Audi, con il progetto Intelligent Experience nel quale i vetri sono schermi a tutti gli effetti, e di Bmw, con il concept i-Interaction Ease in cui il parabrezza, dotato di un’interfac-
50 cia di augmented reality, è inoltre in grado di rilevare in maniera intelligente lo sguardo del conducente, per verificare se sia diretto sulla strada o verso un altro passeggero (e dunque, sia bene per il veicolo mettersi alla guida da solo). Una potenziale risposta alle perplessità sul rischio di distrazioni alla guida, che i sistemi basati su AR potrebbero incentivare. SI PREGA DI PARLARE CON IL CONDUCENTE La verità è che alla base di sistemi analoghi c’è il presupposto che ci si debba preparare per il momento, sempre più vicino, in cui le auto saranno in grado di guidarsi da sole, e a noi non resterà che goderci il panorama, rilassarci, divertirci o persino mangiare e dormire. Su questa falsariga si posiziona per esempio una concept car come quella presentata a Las Vegas da Bmw, la i3 Urban Suite – un design insolito e futuristico e un abitacolo che pare disegnato a immagine e somiglianza della lobby di un boutique hotel. L’impressione è che ci troviamo a un bivio nel destino dell’industria automobilistica ad alto tasso di tecnologia, e che lo spartiacque sia decisivo: la passione per la guida. Singolarmente, il salto di qualità dell’intrattenimento veicolare, che superando il tabù dell’attenzione divisa include ormai apertamente il video, si fa avanti proprio quando le interfacce sonore, la vera novità degli ultimi anni in tema di interazione digitale, hanno raggiunto un grado di sviluppo tale da mettere a repentaglio la tradizionale supremazia di quelle visive. Abbiamo scoperto solo da poco, invece di guardare schermi in cui digitare chiavi di ricerca o toccare icone, quanto sia comodo parlare con i sistemi, proprio come faremmo con il passeggero seduto accanto a noi. Le nuove piattaforme basate sull’intelligenza artificiale non sono solo capaci, sulla base di complessi algoritmi di machine learning, di guidare un’auto come farebbe chiunque di noi che abbia conseguito la patente, ma sono perfettamente in grado di riconoscere il linguaggio naturale e di apprenderlo velocemente, imparando a risponderci sempre meglio. Nel contesto di un viaggio in macchina, questo consente di superare in un sol colpo tutte le difficoltà correlate alla doppia visione del parabrezza e del navigatore, o della radio, o della rubrica telefonica.
GUIDARE O NON GUIDARE, QUESTO È IL DILEMMA Le capabilities dell’intelligenza artificiale nel contesto delle smart car possono essere insomma utilizzate in almeno due direzioni: da un lato, sostituendo l’attività presumibilmente meno interessante per l’uomo – la guida – dall’altro supportando i piloti più appassionati per facilitare loro la gestione delle funzioni del veicolo, ed eliminando le occasioni potenziali di conflitti di attenzione. Gli stessi sistemi sono ambivalenti: se l’edizione car oriented di Amazon Fire TV offre l’accesso hands-free all’assistente virtuale Alexa, sempre disponibile a dialogare con il pilota e con i suoi passeggeri, tra le case automobilistiche che hanno presentato al CES l’integrazione già realizzata con Alexa c’è Lamborghini, con la sua supercar Huracan, nella quale una semplice frase pronunciata all’assistente virtuale consente di regolare la temperatura dell’abitacolo. La tecnologia per l’intrattenimento a bordo potrebbe non scomparire, ma diventare meno invasiva - come i sistemi di diffusione audio (marchiati Continental e Sennheiser) completamente integrati nelle superfici interne (porte, pannelli, persino il cruscotto), per ottenere un ascolto surround molto vicino a quello di un sistema di home theater. Per le auto a guida “umana”, tuttavia, lo scopo principale dell’innovazione resta quello di liberare energie preziose per guidare – il che per alcuni rappresenta ancora la forma più semplice, e più genuina, di car entertainment.
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Günther Shuh, l’Elon Musk della Renania Un po’ professore, un po’ imprenditore: storia del visionario di Aquisgrana che si è messo in testa di insidiare i grandi costruttori tedeschi sul mercato dell’auto elettrica di Stefano Grazioli
Alla fine dello scorso anno ha rischiato di schiantarsi. In senso figurato, s’intende, ma per la società di Günther Schuh l’insolvenza sarebbe stata un bel botto. Considerando il fatto che e.GO Mobile, la risposta tedesca a Tesla, era nata nel 2015 sotto i migliori auspici e per un paio d’anni aveva rappresentato la punta di diamante di quella piccola industria automobilistica teutonica capace di pungolare i giganti locali. Se non a livello di mercato, quantomeno per idee e innovazioni. Poi la notizia che l’Elon Musk della Renania sarebbe sprofondato con la sua start-up, se non avesse trovato qualcosa come 100 milioni di euro di liquidità per proseguire con il suo futuristico progetto. Ed ecco fatto che all’inizio del 2020, un po’ dal suo portafoglio un po’ con i crediti di varie aziende, tra cui quella di componentistica ZF e della Fondazione “der RAG” (Ruhrkohle AG), Schuh ha rimesso in carreggiata la sua creatura, anche con l’ambiziosa idea di entrare in Borsa fra qualche mese. Le prospettive sono ridiventate rosee, almeno sul breve periodo, anche se il futuro più distante rimane a questo punto incerto.
52 IL PROFESSORE CONVERTITOSI AL BUSINESS DELLA MOBILITÀ La storia del pioniere dell’auto elettrica in Germania rimane comunque il paradigma di quanto la via verso la e-mobility sia ancora irta di ostacoli, anche dal punto di vista di uno che nella terra dei grandi, da Volkswagen a Daimler e Bmw, è sempre stato considerato un guru. Il problema, alla pari di Elon Musk in Silicon Valley, è che le visioni ogni tanto si scontrano con la realtà, anche tra il Reno e la Sprea. Ma chi è davvero Günther Schuh? Oltrepassati i sessant’anni (classe 1958) ha detto una volta che avrebbe voluto fare l’imprenditore, anche se in realtà la sua carriera è cominciata a livello accademico. Ingegnere laureatosi alla rinomata università di Aquisgrana RWTH (Rheinisch-Westfälische Technische Hochschule Aachen), ha insegnato in patria e in Svizzera, e una decina di anni fa ha fondato con il collega Achim Kamper la Street-scooter GmbH, inizialmente un’iniziativa di ricerca privata organizzata proprio alla RWTH, in collaborazione con altri istituti di ricerca e un’ottantina di aziende, poi trasformatasi in società a responsabilità limitata. È stato un colpo di genio: coordinare pubblico e privato, ricerca e mercato, università e aziende, per far breccia in un settore dominato dalle storiche case tra Wolfsburg, Stoccarda e Monaco. Da Aquisgrana è cominciato così la nuova avventura di Schuh, il professore convertitosi al business della mobilità. Non ci è voluto molto e i primi furgoncini elettrici Work sono diventati un successo, tanto che nel 2014 la Deutsche Post, colosso postale e logistico mondiale, ha deciso di prendersi tutta Streetscooter. IL FILO DIRETTO CON ANGELA MERKEL Poi è arrivata e.GO Mobile, società per azioni creata nel 2015, che nel 2017 ha presentato il suo primo modello di serie, la e.GO Life. Non son state subito tutte rose e fiori, anzi: ecologia e mercato non si abbinano ancora bene e la strada per Günther Schuh si è fatta in salita. Ritardi in produzione, guerra dei prezzi, screzi anche con il governo per la questione delle sovvenzioni per le auto elettriche, insomma, il professore sognatore ha frenato e si è trovato a sbattere il naso contro il parabrezza. Alla fine del 2019 sono state immatricolate poco più di un centinaio di Life First, vendute al prezzo di 24.650 euro. Teoricamente ne dovevano essere pronte alla consegna 4.900, ma solo 500 sono state costruite. Il modello
è quello di Tesla, per cui si paga al momento dell’ordinazione e ad Aquisgrana ne sono arrivate 400. Pochine. Schuh si è anche lamentato per le condizioni imposte dalla politica e dello sconto di 6.000 euro per i veicoli elettrici sopra i 40.000, che deve essere garantito per metà dai costruttori; il che ha scombussolato i conti anche a chi con il governo di Angela Merkel ha avuto sempre un filo diretto. UN GRANDE VISIONARIO ALLE PRESE CON IL MONDO REALE I rapporti del fondatore di e.GO Mobile con la Cdu della Cancelliera sono stati ottimi, agganciati dall’ex ministro dell’Ambiente Norbert Röttgen. Quando entrano in ballo gli interessi diretti, però le cose possono cambiare e adesso, all’inizio del 2020, Günther Schuh si è ritrovato a navigare a vista. Scampato il tonfo, il momento di crisi che ha coinvolto piccole e grandi start-up tedesche e internazionali, dalla monacense Sono alle cinesi Nio e Byton passando naturalmente per Tesla, non lascia spazio a troppo ottimismo. I più critici hanno rimproverato all’emulo di Musk di produrre in sostanza macchine che di fronte alla concorrenza pochi vogliono comprare: la e.Go Life 60 e la e.UP targata Volkswagen hanno lo stesso prezzo, ma la seconda stravince il confronto per spazio e prestazioni; senza contare il fatto che lo stesso Schuh, nonostante il suo ruolo di antesignano, si è spesso lasciato andare a commenti non proprio convincenti sul futuro delle auto elettriche, con l’eccezione di quelle costruite da lui. Ovviamente. Pare inoltre che, anche per questioni di fisico, visto che arriva a quasi 2 metri di altezza e i 3,50 metri della sua Life gli sono un po’ stretti, guidi una Porsche Panamera ibrida. Quando lo scorso anno gli è stato consegnato dal costruttore di motori Deutz il premio dedicato a Nicolaus August Otto (l’inventore del motore a combustione interna), l’amministratore delegato Frank Hiller lo ha descritto così: “Un grande visionario, anche se la difficoltà delle visioni consiste spesso nel concretizzarle”. Appunto. In definitiva Günther Schuh, un po’ professore e un po’ imprenditore, ricorda davvero per certi aspetti Elon Musk, ed è forse per questo che si è rallegrato alla notizia che Tesla arriverà alle porte di Berlino. Concorrenza ed emulazione faranno bene a tutti. Si spera. Resta da vedere però se l’illuminato accademico di Aquisgrana riuscirà ad uscire dal pantano in cui con e.GO Mobile si è infilato e a riprendere la corsa per trasformare la Germania nel paradiso dell’e-mobility.
Le nuove frontiere della mobilità condivisa L’avevano data per finita, giudicandola una moda passeggera. E invece la sharing mobility conferma i suoi punti di forza e allarga diffusione e offerta, potenziando quella elettrica di Massimo Ciuffini
La sharing mobility in Italia sta bene, confermandosi come una delle novità più interessanti dal punto di vista trasportistico degli ultimi anni. I servizi di mobilità condivisa, abilitati dalle piattaforme digitali, vedono crescere, anno dopo anno, i loro dati di utilizzo, l’offerta di servizi e il numero di veicoli disponibili nelle città italiane. Il carsharing senza postazioni fisse e a gestione interamente privata di cui ancora lo scorso anno si metteva in discussione la sopravvivenza, in molte realtà ha già superato i cinque prelievi giornalieri per auto, considerata la soglia per generare redditività. Ulteriore buona notizia, nel corso del 2018 il carsharing a flusso libero ha raggiunto Bologna, attestando che questo tipo di servizio ha un ruolo anche in città con meno di 500mila abitanti. Positivo anche il quadro del carsharing a postazioni fisse. Anche in questo caso salgono iscrizioni, prelievi, percorrenze ma soprattutto crescono le automobili in flotta rispetto al 2017, smentendo molte delle previsioni che vedevano questo sistema ormai superato. Non solo si dimostra che non è così, visto che è quello più adatto in città più piccole o per servire specifici segmenti di utenza, ma è anche il tipo di carsharing che più si sta elettrificando.
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L’ESPANSIONE DELLO SCOOTERSHARING Molto interessante quello che sta accadendo allo scootersharing. Nel corso del 2017, con l’abbandono di questo mercato da parte di Enjoy, tanti avevano già suonato la campana a morto per lo scooter condiviso, quando invece è proprio da quel momento che ha cominciato a crescere. La progressione è senza dubbio la migliore per l’intero comparto della sharing mobility, con un’offerta di ciclomotori in condivisione arrivata il 31 dicembre 2018 a 2.240 veicoli, di cui il 90% con alimentazione elettrica. Quadruplicata la flotta nazionale, l’espansione dei servizi sostiene un aumento altrettanto forte della domanda: le iscrizioni al servizio nel 2018 sono state il 230% in più di quelle del 2017, mentre il numero di prelievi raggiunge quota un milione con tassi di rotazione che raggiungono una media di quattro viaggi al giorno per veicolo. Con l’arrivo dei servizi a flusso libero alla fine del 2017, il bikesharing italiano è stato investito da un’onda anomala di biciclette provenienti dalla Cina. Molti si sono chiesti se tante biciclette fossero compatibili con le nostre città e se i servizi preesistenti avrebbero retto una concorrenza di queste proporzioni. Oggi possiamo affermare che i servizi a postazione fissa ben progettati
e ben gestiti continuano a fare il loro mestiere e che le preoccupazioni legate alla poca cura nella gestione delle biciclette nei nostri centri storici, si siano progressivamente ridimensionate. L’operatore cinese Mobike, grazie a un management italiano che ha saputo dialogare nel modo giusto con le amministrazioni locali, è stabilmente presente in diverse città italiane, al contrario di altri operatori asiatici scomparsi molto rapidamente. Tutti si attendono che avvenga un’ulteriore trasformazione nel mercato della condivisione a due ruote, grazie all’avvio di nuovi servizi a flusso libero con e-bike e monopattini elettrici che hanno già oggi raggiunto alcune città italiane. INTEGRAZIONE VERTICALE TRA SERVIZI DI MOBILITÀ CONDIVISA Sono con il segno più anche gli sviluppi nel settore del carpooling con una progressione delle iscrizioni e nei viaggi nella lunga distanza ma anche nel numero di aziende coinvolte nel servizio dedicato agli spostamenti casalavoro. Molto interessante il fatto che uno dei più importanti operatori mondiali di carpooling, Blablacar, entri nel settore degli autobus di linea, seguendo il modello Flixbus. Si tratta di una delle forme d’integrazione verticale tra
55 LA CRESCITA IN ITALIA NONOSTANTE UN QUADRO NORMATIVO INADEGUATO
servizi di mobilità condivisa che sta caratterizzando l’evoluzione del settore. Le piattaforme digitali di taxi aumentano e, per quanto sia evidente che il nodo di un’offerta troppo limitata vada risolto con una riforma dell’assetto del mercato, per ora la digitalizzazione procede senza strappi e interessa sempre un maggior numero di operatori. Le piattaforme di carsharing peer-to-peer che permettono a chiunque di mettere in condivisione la propria auto, magari quella noleggiata a lungo temine – muovono i primi passi anche in Italia anche se, per ora, si tratta della tipologia di servizio che deve fare più strada. Le piattaforme di aggregazione tra servizi di mobilità e i cosiddetti Journey Planner multimodali – per intenderci quelle App che ci consentono di pianificare un viaggio che coinvolge più modalità o più operatori – coprono sempre più città e servizi oltre a procedere a grandi passi in direzione MasS, un acronimo che sta per mobility as a service, dal significato controverso: per alcuni un ecosistema, altri una strategia, altri ancora una semplice App. Non c’è dubbio comunque che il tema di come declinare l’integrazione tra servizi e la collaborazione di operatori in concorrenza tra loro chiamerà ben presto l’intero settore a un salto di qualità.
Ma ciò che ci spinge a dire che la sharing mobility italiana stia bene è che si tratta di un fenomeno che avanza nonostante un quadro normativo inadeguato, per non dire sfavorevole, e nella quasi totale assenza di politiche di sostegno da parte delle politiche nazionali. Questa condizione spiega come a fianco dei numeri senza dubbio positivi che la sharing mobility italiana ha fatto registrare fino a oggi, emergono non poche note dolenti quando si analizza la presenza dei servizi sul territorio e la tipologia di offerta presente nelle diverse aree geografiche. Ciò che emerge dall’analisi condotta su un campione di 34 città italiane formato da capoluoghi di regione, città metropolitane e città con più di 150mila abitanti, è una forte polarizzazione nella diffusione dei servizi di sharing mobility, con un ampio sbilanciamento verso le regioni del nord e, per i servizi offerti da operatori privati di free-floating, un netto sbilanciamento in favore delle grandi città. Se da un lato i servizi di mobilità condivisa tradizionale come il trasporto pubblico locale e i servizi taxi non mancano in nessuna delle città osservate, soltanto due città nel Mezzogiorno possono vantare la presenza di servizi di sharing mobility di peso: Palermo e Cagliari, dove sono presenti servizi sia di carsharing sia di bikesharing. Rispetto alla presenza di servizi al Sud, bisogna aggiungere che in nessuna delle città meridionali appartenenti al campione analizzato è presente un servizio free-floating di carsharing (anche se i carsharing di Palermo e Cagliari prevedono in alcune aree specifiche la possibilità di prelievo e riconsegna fuori dalle stazioni), un servizio di bikesharing a flusso libero, oppure un servizio di scootersharing. Questi dati attestano che per una crescita armonica e diffusa dei servizi di sharing mobility non basta più il pragmatico laissez faire delle amministrazioni locali di quei territori dove esiste maggiore concentrazione di domanda e disponibilità di reddito, ma sono necessarie politiche che stimolino la presenza di servizi di sharing mobility in tutto il territorio nazionale e non solo nelle grandi città. Ad oggi la sharing mobility italiana è un settore che opera e si muove seguendo prevalentemente logiche di mercato ma che attraverso opportune forme di sostegno pubblico potrebbe realizzare un ulteriore salto di qualità sia in termini di efficacia sia di equità.
Accelerare lo sviluppo della mobilità elettrica in Italia: il ruolo di MOTUS-E Movimento, cambiamento, sostenibilità: acceleriamo Oggi MOTUS-E rappresenta operatori industriali, mondo accademico e associazionismo ambientale e consumeristico, tutti soggetti che condividono l´obiettivo di sviluppare capillarmente nel nostro Paese la mobilità elettrica attraverso il dialogo con le Istituzioni, il coinvolgimento del pubblico e programmi di formazione e informazione.
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Niente auto, siamo Millennials L’ex status symbol dei baby boomer si va trasformando in un pragmatico mezzo di trasporto da un luogo all’altro. Connesso e, naturalmente, condiviso di Ivo Stefano Germano
L’auto non è più un mito giovanile. Non appartiene alle minime o massime “ragioni in più” che circoscrivevano nettamente il dato generazionale. Se solo facciamo mente locale ai consigli, oltremodo ansiosi, di un padre baby boomer ai figli sul controllo della pressione dello pneumatico o allo scheletro del motore di una scuola guida sbatteremmo il muso contro il muro della nostalgia. Che non va bene e che bene non fa. Più di una ricerca conferma che il cambiamento culturale della “generazione Z” ha un vero e proprio punto discriminante nelle dinamiche della rappresentazione dell’immaginario automobilistico. I rapporti fra culture e stili di vita nell’età dei Millennials, della “generazione Z” in un futuro che è il loro presente iperconnesso e digitale pare non contemplare un benché minimo orizzonte relazionale con l’automotive e ciò che la circonda. I social media, il loro uso intensivo, quasi radicale da parte dei Millennials è anni luce lontano dal poster di un Maggiolone, da quest’anno ufficialmente fuori produzione, oppure, della Citroën DS che Roland Barthes elevò a “mito d’oggi”.
L’AUTO COME FORMA DI CONSUMO CONDIVISO LUNGO IL FILO DELLA SHARING ECONOMY Gli approcci alla questione, tuttavia, rischiano di rimpannucciarsi in stenti tecnicismi sulla fine dei minerali fossili, sull’auto elettrica, sulla natura quasi angelica della Tesla, sulla guida automatica. La qualcosa orienta lo sguardo del sociologo dei media digitali, necessariamente, secondo una prassi laterale, a partire da una pura e semplice constatazione: il nesso che accomuna l’oggetto culturale macchina con i Millennials e la “generazione Z” è la propensione a forma di consumo condiviso e collaborativo. Prova ne sia l’incessante lavorio digitale di piattaforme online, ad esempio nel caso di AirBnB, massicciamente orientate ad un profilo operativo di sharing economy. In perenne ricerca di cose nuove, fenomeni inediti, la macchina non è più “a perdere”, collegata cioè all’utilizzo proprietario, ma una delle tante opzioni del real time e della macro-struttura d’intrattenimento dei social media, dei canali di messaggistica, WhatsApp, Telegram, Insta-
58 gram, al cui interno la possibilità stessa della macchina è soggetta ad un like, ad una condivisione, circolazione, partecipazione. Sono lo sharing, lo streaming, la diretta di un evento a trasmutare ciò che era status, collegato ad una società affluente e industrializzata, ad uno dei tanti contenuti mobili e istantanei offerti dal Megalon digitale. Un tratto specifico risiede nel basso engagement, nella scarno richiamo emotivo trasmesso dall’auto contemporanea. Le auto, le moto, le bici, al pari di monopattini e altri mezzi di locomozione, sic et simpliciter, si affittano, per un tempo breve, quasi effimero come piace ai giovanissimi, forse perché il mezzo pubblico è uno sbattimento, oppure, ci mette troppo a raggiungere una meta. Viceversa va benissimo anche lo “spostapoveri”. UN RITORNO ALLA RADICE DELLE RELAZIONI UMANE E SOCIALI C’è di che stravolgersi una volta in mezzo ad un tale mutamento sociale e culturale, stirati fra presente e futuro, se non ci ricordiamo, da subito, della virtù sottotraccia, silenziosa, indomabile del dono. Non perché il dono prima fosse più semplice, immediato, rispetto alle condizioni attuali dell’attenzione solidale verso gli altri. Si fatica a immaginare che sia un gesto facile e gratis, dal punto di vista economico e personale, il cui controvalore, nel momento in cui siamo affaccendati in mille rivoli di vanità, in fondo, è incommensurabile. Non starò a tediarvi su quanto sia mutato l’orizzonte attuale del regalo di Natale, spesso, interessatissimo o banalissimo. La virtù del dono è adiacente, domestica, quotidiana e dovrebbe estendersi a qualcuno di sconosciuto, lontano, stasera. Persino al condomino o al compagno improvvisato di una partita a carte. Un ritorno alla radice delle relazioni umane e sociali, al riparo da azzimate spettacolarizzazioni, capaci di far leva sulla monodimensionalità emotiva e fisica. Il dono salta a piè pari la contingenza per raggiungere la vicinanza, l’informale, le reti amicali, familiari, interpersonali che sanno tenere insieme e corroborare il tessuto sociale. Destrutturato, disintermediato dal narcisismo di massa dei social, più fragile, però anche più reale. Si tratta di quel gigantesco fronte trasversale della cura e del prendere cura spontaneamente delle tante parcellizzazioni sintomatiche che disconnettono il centro dalle periferie, le belle luminarie dalle ombre profonde del precario equilibrio umano e sociale. Per tornare all’origine di un principio di condivisione, quasi fosse una filo-
logia del dono, cioè, di qualcosa di solido, nel senso d’idem sentire, di essere sulla stessa barca, consapevolmente. In ogni dono che immaginate di fare o ricevere dovrebbe dimorare questa abitudine o attitudine che non s’acconsenta di tradursi in moto dell’animo, in generico richiamo ad un gesto di attenzione, concentrazione su cose che, altrimenti, non ci riguardano. LE CONDIZIONI SOCIALI DELL’ANTROPOLOGIA DEL DONO All’opposto, i paradossi e le contraddizioni della nostra contemporaneità contrassegnata dall’accelerazione vertiginosa di beni e persone dimostrano le buone ragioni per ricreare continuamente le condizioni sociali e istituzionali di quell’antropologia del dono. Il rischio che il dono possa rivelarsi debito, la possibilità che molti doni siano avvelenati non deve impedire la possibilità che qualcosa tenga insieme il sociale attraversandone la mera contingenza dei rapporti. Non è questione di formulazione, ma di paradigmi, categorie, circuiti di un gesto universale che chiamiamo dono. Una strada, al pari di una città intera, può essere concepita come dono aperto a modifiche, integrazioni, all’opposto, snaturanti e stravolgimenti sotto i colpi di maglio finanziario della gentrificazione. Tutto quello che sappiamo del dono e sul dono è in un capolavoro assoluto, cioè il Saggio sul dono di Marcel Mauss, pubblicato nel secolo scorso. Ancor più nella società della rete, iperconnessa, cronocompressa, incessante. Di nuovo e di più per la capacità innata del dono di contaminare categorie e, come si dice ora, “sentiment” per riflettere le percezioni degli immaginari avanzati. Proprio male non è. Proprio male non fa.
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Ho visto auto che voi umani non potete neanche immaginare Alette “pipistrelliche” e decolli verticali. Come narrativa, comics e cinema di fantascienza hanno plasmato l’immaginario dell’auto del futuro
di Luciano Lanna Quanto del nostro immaginario automobilistico è stato condizionato dalla fantascienza narrativa, fumettistica e cinematografica? E quanti e quali veicoli fantascientifici hanno influito sullo sviluppo dell’industria dell’auto da Metropolis a Ritorno al futuro, da Mad Max a Batman, da Citty Citty Bang Bang a Métal Hurlant, da Blade Runner a... Blade Runner 2049? D’altronde si prevede che nel 2040 le automobili si guideranno da sole e che la nostra vita in movimento non avrà più molto del macchinismo novecentesco. Potremo senz’altro rilassarci e distrarci alla guida, bere un drink e addirittura mangiare proprio mentre la macchina ci porterà a spasso o a lavoro. Oltretutto, non sarà più obbligatorio possederne una: basterà avere un abbonamento e chiamarla con il cellulare per averla a disposizione all’occorrenza. È come se le auto del futuro siano già arrivate. Le automobili che parlano al conducente, quelle che non hanno bisogno di manutenzioni e persino i veicoli che usano un combustibile ecologico stanno cominciando a entrare nei nostri garage. E circola sempre più il luogo comune secondo cui le auto della fantascienza stiano passando dai libri e dagli schermi alla realtà quotidiana.
60 NASCE ALLA FINE DEGLI ANNI TRENTA L’EPOPEA DELLA BATMOBILE Spostandoci sul piano dell’immaginario alla ricerca delle auto futuristiche della memoria fantascientifica, la prima tappa ci conduce alla Batmobile. Esordiva infatti nel 1939, già nella prima avventura a fumetti dell’uomo pipistrello, la celeberrima e inimitabile auto personale di Batman, il supereroe della DC Comics. Una macchina che ha subìto una continua evoluzione negli anni, spostandosi dai comics alla televisione e al cinema. Custodita nella Batcaverna, a cui si accede attraverso alcune entrate segrete, è un veicolo pieno di strumenti e oggetti per le attività anticrimine di Batman. Sempre di più nei disegni l’auto assunse uno stile “pipistrellesco”, includendo le tipiche, inconfondibili alette sul retro. Batman del resto è un supereroe sui generis: non vola, non ha supervista o forza disumana. E allora per affrontare e sconfiggere la malavita di Gotham serve qualcosa di ultra-tecnologico: per planare usa un mantello, per combattere gadget estremi ma per muoversi lo strumento privilegiato è proprio la sua Batmobile. Va sottolineato che il bolide a quattro ruote di Bruce Wayne (il nome all’anagrafe di Batman) non è stato solo il risultato della fantasia di qualche designer di auto prestato al mondo dei fumetti, ma un complesso progetto di ingegneria realmente funzionante nelle produzioni tv e cinematografiche che si sono susseguite per oltre mezzo secolo. La prima Batmobile vista in azione dal pubblico è del 1966, con la serie televisiva dedicata a Batman. Venne realizzata attraverso un raro esemplare di Lincoln Futura, una concept car realizzata da Ford otto anni prima, appositamente elaborata: vernice nera lucida, finiture rosse e delle particolari appendici, per avvicinarsi il più possibile al modello disegnato dei comics. BLADE RUNNER: ALLACCIATE LE CINTURE, SI DECOLLA CON L’AUTO VOLANTE Spostandoci agli anni Ottanta, ci imbattiamo invece negli “spinner”, le macchine volanti che possono viaggiare sia nel traffico delle strade sia decollare e atterrare in verticale. Sono le auto che trasportano le persone in Blade Runner, il film cult del 1982 di Ridley Scott tratto da Il cacciatore di androidi, il romanzo di fantascienza di Philip Dick. Gli “spinner” sono tecnologicamente molto evoluti, si muovono infatti usando tre motori: combustione interna, jet e antigravità. Il designer Syd Mead, che ha contribuito anche allo stile di altri
61 celebri film di fantascienza come Alien e Tron, aveva concepito gli “spinner” di Blade Runner come una sorta di misto tra un’automobile e un elicottero, riuscendo a ottenere un veicolo di successo (nell’immaginario fantascientifico, naturalmente) che ha poi ispirato quelli di altri film successivi, come Il Quinto Elemento e gli episodi 1, 2 e 3 di Star Wars. Ora, ricordando che il film di Ridley Scott era ambientato nel novembre del 2019, tra le tante anticipazioni di quella storia – come i video diffusi ovunque e sempre, il cambiamento climatico che trasforma le metropoli in ambienti piovosi al limite, inserzioni digitali in ogni punta delle città, la cucina asiatica come pilastro dello street food o l’utilizzo sempre più massiccio dell’intelligenza artificiale – balza in primo piano proprio la profezia della mobilità urbana rappresentata dagli “spinner”. Quasi si trattasse di una coincidenza apprendiamo, proprio nel 2019, che a Monaco una start-up definitasi Lilium ha appena testato una specie di “spinner”: un taxi aereo completamente elettrico che potrebbe trasportare cinque passeggeri a una velocità di 300 chilometri all’ora, con zero emissioni nel tragitto. Anche qui, insomma, c’è la fantascienza che diventa realtà. RITORNO AL FUTURO, L’AUTO VIAGGIA NELLA DIMENSIONE SPAZIO-TEMPORALE Tre anni dopo Blade Runner arrivava sugli schermi Ritorno al futuro, il primo film di una fortunatissima trilogia fantascientifica (i cui successivi episodi sono del 1989 e del 1990) ideata e sceneggiata da Bob Gale e Robert Zemeckis e diretta da quest’ultimo. Qui l’automobile diventa l’elemento centrale e simbolico della narrazione in quanto “macchina del tempo”. Non c’è bisogno di ricordare che, a distanza di un trentennio sono ancora davvero molto conosciute le invenzioni introdotte nel mondo immaginario dalla saga, cominciando proprio dalla macchina del tempo creata con una DeLorean alle Nike che si allacciano da sole, agli hoverboard, gli skateboard senza rotelle che fluttuano nell’aria, degli episodi seguenti. La trilogia fantascientifica racconta la storia di Marty McFly (Michael J. Fox), uno studente di liceo di Hill Valley che ha come migliore amico Emmett “Doc” Brown (Christopher Lloyd), un inventore che è riuscito a costruire la macchina del tempo modificando una DeLorean, che tra le altre cose funziona grazie a del plutonio sottratto a un gruppo terroristico. Nei film, l’autista della DeLorean DMC-12 modificata, aziona i circuiti temporali girando una chiave.
62 Con l’accensione del veicolo si azioneranno sul display dei segmenti che andranno ad indicare la data e l’ora nella quale ci si trova e la data e l’ora dalla quale si è partiti l’ultima volta che l’autovettura è stata utilizzata. L’operatore andrà ad impostare la data e l’ora sul display, utilizzando una semplice tastiera. Quindi, accenderà il motore e condurrà l’autoveicolo accelerando fino alla velocità di 88 miglia orarie. Quando il flusso catalizzatore si attiverà, la DeLorean sparirà in un grande lampo di luce, lasciando sulla strada due strisce di fuoco. L’operatore in questo modo si troverà nella destinazione spazio-temporale che avrà precedentemente impostato. Il trasferimento spazio-temporale comporterà un raffreddamento della DeLorean, la quale si troverà a destinazione praticamente ghiacciata. Non mancano le curiosità e i paradossi. La DeLorean DMC-12 era l’unico modello di auto sportiva costruita dalla casa automobilistica che portava lo stesso nome nei primi anni Ottanta. Non era, insomma, un’automobile molto conosciuta, aveva solo il vantaggio di una linea inconfondibile, ideale per essere associata facilmente al film. La caratteristica principale della DeLorean di Ritorno al futuro erano le classiche aperture delle portiere ad ali di gabbiano. C’era poi il fatto delle portiere che si aprono verticalmente e che potevano far pensare a un Ufo nella scena in cui l’auto veniva avvistata negli anni Cinquanta. La carrozzeria era inoltre realizzata in acciaio inossidabile, senza l’utilizzo di verniciatura. Eppure, nonostante tutto, ancora oggi la DeLorean resta nell’immaginario globale più come la “macchina del tempo” di Ritorno al futuro che come un’automobile di serie per il mercato. E tanto ha inciso sull’immaginario, soprattutto degli anni Ottanta, la trilogia di Zemeckis che nel suo discorso sullo stato dell’Unione del 1986, l’allora presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan inserì proprio una citazione da Ritorno al futuro. Reagan – che era anche citato nel primo film – arrivò a dire: «Non c’è mai stata un’epoca più entusiasmante di questa in cui vivere, un tempo di crescenti meraviglie e di progressi eroici. Come dicono in Ritorno al futuro: “Strade?! Dove stiamo andando non c’è bisogno di strade!”». Un’ulteriore profezia sul futuro della mobilità?
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Gli autori ALESSANDRO ALVIANI Giornalista, è stato per anni collaboratore de La Stampa per le corrispondenze dalla Germania. Oggi è coordinatore editoriale dell’hub di Berlino di Microsoft News. Collabora con diverse testate tedesche su temi di attualità ed economia.
GIUSEPPE BERTA Professore di Storia contemporanea all’Università Bocconi di Milano. Esperto di storia dell’industria, delle élites economiche e delle rappresentanze degli interessi, business and politics, ha riservato parte dei suoi studi all’evoluzione dell’industria automobilistica. Ha diretto l’Archivio storico Fiat dal 1996 al 2002. È socio corrispondente dell’Accademia delle Scienze di Torino.
UGO BERTONE Giornalista, ha lavorato al Il Sole 24 Ore, poi a La Stampa come caporedattore centrale e come responsabile della sede di Milano. È stato direttore di Borsa e Finanza e ha diretto per cinque anni le attività editoriali dell’associazione italiana degli analisti finanziari. Oggi collabora con diverse testate nazionali tra cui Il Foglio e Libero. MARTA BUCCI Direttore generale di Anigas, l’associazione nazionale degli industriali del gas. Ha ricoperto numerosi incarichi all’interno di Edison ed è stata direttore generale di Assogas, associazione di categoria del sistema Confindustria. Relatrice a convegni e seminari, svolge un’intensa attività pubblicistica sulla stampa di settore.
GIUSY CARETTO Giornalista pubblicista. Autrice del libro Rivoluzione teatrale: va in scena l’integrazione. Dopo uno stage presso la Federazione Italiana Hockey e uno alla Presidenza del Consiglio, ha iniziato a lavorare nella redazione di Ecoseven, quotidiano dedicato al Saper Vivere. Scrive di economia, geopolitica, tecnologia, mobilità. Coordina la redazione del Quadrimestrale di Start Magazine.
MASSIMO CIUFFINI Architetto, è il responsabile dell’area Mobilità sostenibile della Fondazione per lo sviluppo sostenibile, coordinatore tecnico dell’Osservatorio nazionale Sharing mobility e formatore per il ministero dell’Ambiente per il progetto CReIAMO PA, progetto che punta a rafforzare la capacità delle pubbliche amministrazioni in campo ambientale.
GIANCARLO FISICHELLA Giancarlo Fisichella, ex pilota di Formula 1, nel 2019 ha confermato il duplice impegno nel FIA WEC con Spirit of Race e nel Campionato Italiano GT Endurance con Scuderia Baldini.
IVO STEFANO GERMANO Insegna Teorie e tecniche dei nuovi media presso il corso di laurea in Scienze della comunicazione all’Università del Molise. Collabora con il Corriere di Bologna in qualità di editorialista. Si occupa di sociologia pop.
STEFANO GRAZIOLI Giornalista e saggista. Da oltre venti anni si occupa di spazio post-sovietico, Germania ed Europa orientale come autore freelance per testate italiane e straniere, tra cui la radio tv svizzera Rsi e Lettera43. Ha lavorato a Colonia, Vienna e Kiev. È autore di diversi saggi.
LUCIANO LANNA Giornalista e saggista, studioso del pensiero del Novecento e dei rapporti tra immaginario e fenomeni sociali, ha lavorato nella direzione di due quotidiani e, come autore, con programmi radiofonici e televisivi della Rai.
PAOLA LIBERACE Ha lavorato nell’industria del digitale, da Fullsix a Tim, e attualmente è responsabile di Vetrya Academy, la scuola di innovazione del gruppo Vetrya. Saggista e giornalista pubblicista, ha scritto di media e innovazione collaborando con Mediaset, Il Sole 24 Ore, Ideazione e con testate cartacee e online.
GIUSEPPE MANCINI Analista di politica internazionale e giornalista. Vive a Istanbul da dove scrive per diverse testate italiane e internazionali di geopolitica e strategia, di economia ed energia, di archeologia e musei. DINO MARCOZZI Ingegnere, è stato capo centrale, responsabile di ingegneria di esercizio, energia distribuita e chief procurement officer di Enel Green Power. Oltre a ricoprire la carica di segretario generale di Motus-E, attualmente è anche senior advisor per una società di consulenza leader.
LUCA MARTINO Avvocato, svolge la professione legale occupandosi di Diritto civile e commerciale e di Diritto amministrativo. È Cultore della materia presso l’Università Telematica Pegaso di Istituzioni di Diritto privato e Diritto dei mezzi di comunicazione e di Istituzioni di Diritto privato dei consumatori e utenti del turismo. Scrive su questioni giuridiche dell’energia per StartMagazine ed Energia Oltre. SIMONE MARTINO Laureato in Giurisprudenza presso l’Università La Sapienza di Roma ha svolto il tirocinio legale in materia di Diritto civile e Diritto commerciale ed è diventato mediatore professionista collaborando con alcuni organismi di mediazione. Ha svolto il lavoro di consulente nel campo finanziario-assicurativo occupandosi di Risparmio, Investimenti, Previdenza e Protezione per privati e per le aziende. È account manager di Innovative Publishing. Scrive per StartMagazine su questioni di economia circolare e mobilità elettrica. PIERLUIGI MENNITTI Pierluigi Mennitti, giornalista, è direttore responsabile di StartMagazine. Dopo una lunga attività in Italia, vive oggi a Berlino e si occupa principalmente di Germania ed Europa centro-orientale. Scrive per varie testate italiane e dal 2015 al 2017 è stato collaboratore fisso dell'agenzia Ansa da Berlino.
MARCO PAVONE Professore di Aeronautica e Astronautica alla Stanford University. Dirige l’Autonomous System Laboratory ed è co-direttore del Center for Automotive Research a Stanford. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tra i quali il Presidential Early Career Award for Scientists and Engineers, conferitogli dall’allora presidente degli Stati Uniti Barack Obama. CHIARA ROSSI Laureata in Relazioni internazionali presso la LUISS Guido Carli, entra nel mondo del lavoro con Radicali italiani. Da febbraio 2014 a settembre 2017 è stata alla guida della comunicazione di Formiche. Ha scritto per il sito formiche.net e per la rivista specializzata in difesa e aerospazio Airpress. A febbraio 2018 entra nel team di Innovative Publishing.
MARISA SAGLIETTO Responsabile delle attività di studio e analisi dell’Anfia (Associazione nazionale filiera industria automobilistica) sul settore industriale automotive e sulla mobilità di passeggeri e merci e della fornitura di servizi alle imprese della filiera automobilistica italiana. ALESSANDRO SPERANDIO Giornalista, autore di romanzi e saggi: una carriera in agenzia di stampa e numerose collaborazioni in varie testate. Si occupa principalmente di energia e di economia ma anche di politica MAURIZIO STEFANINI Giornalista e saggista. Collabora con testate nazionali e internazionali, tra cui Il Foglio, Libero, Lettera43, Linkiesta, Longitude, Bio’s. Si occupa in particolare di politica comparata, storia, cultura, America Latina, problemi del Terzo Mondo.
GLI AUTORI GLI AUTORI GLI AUTORI GLI AUTORI GLI AUTORI GLI AUTORI GLI AUTORI GLI AUTORI GLI AUTORI GLI AUTORI GLI AUTORI GLI AUTORI GLI AUTORI GLI AUTORI GL
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CORSI DI FORMAZIONE I PRIMI CORSI IN CUI SI UTILIZZERÀ UN SIMULATORE IN REALTÀ VIRTUALE CHE RIPRODUCE L’INTERNO DI UN AEROGENERATORE, ELABORATO NEL PROGETTO EUROPEO SIMULWIND DI CUI ANEV FA PARTE I CORSI DI FORMAZIONE ANEV RILASCIANO CREDITI FORMATIVI PROFESSIONALI PER GLI INGEGNERI. I CORSI SULLA SICUREZZA RILASCIANO RSPP, ASPP, RSPP DL, RLS ANEV 1/2020
ANEV 2/2020
ANEV 3/2020
ANEV 4/2020
10 - 11 marzo 2020 Roma, sede ANEV
19-22 maggio 2020 Roma, sede ANEV
3 novembre 2020 Rimini, Ecomondo Key Wind
4 novembre 2020 Rimini, Ecomondo Key Wind
15 CPF
24 CPF
8 CPF
8 CPF
ANEV 5/2020
Il Minieolico La Sicurezza Operation La Sicurezza Rinnovabili: nel Parco Eolico nel Parco Eolico corso avanzato sull’eolico & Maintenance
SEMINARIO
3 - 4 dicembre 2020 Roma, sede ANEV 15 CPF
SEMINARIO
I PPA Lo sviluppo dei PPA per finanziare nuove iniziative FER
Come affrontare l’iter procedurale Via?
22 aprile 2020 - Roma, sede ANEV
7 ottobre 2020 - Roma, sede ANEV
8 CPF
8 CPF
Per informazioni e iscrizioni : formazione@anev.org Lungotevere dei Mellini, 44 | 00193 Roma | tel. +390642014701 | fax +390642004838 | segreteria@anev.org
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