Fotografia e Scultura nel Contemporaneo

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LABA Libera Accademia di Belle Arti Diploma di Primo Livello in Fotografia

LIMITE VALICABILE fotografia e scultura in dialogo nel contemporaneo

Relatore: Chiar.mo Prof. Giovanni Mantovani Docente di corso: Chiar.mo Prof. Virgilio Fidanza Diplomando: Stefano Conti Matricola: n° 2861 Anno Accademico 2015/2016



Indice

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Introduzione

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L’ibridazione dei mezzi nel contemporaneo

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Il problema del medium

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Il codice digitale come dimora

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Ai Becher, un premio per la scultura

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Una questione di peso

101 Conclusione 104 Apparato di interviste integrali 152 Fonti 154 Indice dei nomi



Introduzione

Sostanzialmente, l’arte di oggi, è una zona minata. E’ un campo pericoloso in cui, se da una parte non è ancora chiara la funzione delle forze armate, pronte a difendere limiti invalicabili tra i mezzi, dall’altra sembrano esserci zone sterminate in cui ogni tipo di mossa è valida. Per non parlare della fotografia, talvolta addirittura esclusa da tale scontro, talmente protetta in angoli remoti, ghetti inaccessibili, che le impediscono di partecipare alla campagna. La sua volontà di valicare il limite sembrerebbe scontrarsi con le sue radici, con la sua inviolabile piattezza, pura ed intangibile bidimensionalità. E la ronda fa il suo dovere. Ha davvero bisogno, la fotografia contemporanea, di un cartello che ne vieti l’accesso da parte di altro? LIMITE VALICABILE vuole dare voce a quegli artisti che sentono possibile un dialogo tra la fotografia e la scultura, tra due opposte dimensioni (una –bi, l’altra –tri) che, in diversi modi, possono raccontare molteplici sensibilità e narrazioni, nonostante le contrarie nature. Nell’ottica di una ridefinizione della fotografia contemporanea, da intendere come tentativo piuttosto che come teoria, l’allontanarsi dai già sentiti stereotipi e discorsi teorici è imprescindibile. Da questo presupposto nasce l’idea di ascoltare direttamente le parole degli artisti, utilizzare il metodo dell’intervista per indagare, in modo critico, il panorama di relazione della fotografia con la scultura, facendo emergere i differenti approcci, motivazioni, sensazioni e significati. Il limite si pone, dunque, come esperienza di ricerca, stimolo e novità, anziché freno inibitore, o barriera spinata minante l’indagine artistica. E’ indubbio che input in questa direzione vennero raccolti già ad ini5


zio secolo da importanti personalitĂ , quali Brassai, C. Brancusi, Medardo Rosso, R. Mapplethorpe e molti altri. La loro poetica artistica si mosse sempre tra i territori della fotografia e della scultura, riuscendo in eccellenti risultati. Nonostante ciò, ritengo piĂš funzionale alla mia tesi la presa in considerazione di autori i cui lavori a stento possono essere definiti totalmente scultorei o totalmente fotografici; il fatto di non essere estremamente legati ad un unico mezzo, permette all’opera di rendere impossibile il distinguo tra le diverse tecniche conducendo, concettualmente, ad uno stimolante cortocircuito.

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L’ibridazione dei mezzi nel contemporaneo

A partire dal Novecento, secondo le parole della critica Angela Vettese , l’arte non è più soltanto dominio della pittura e della scultura. A queste si sono affiancate nuove grammatiche visive, nonostante nel pubblico non manchino, tutt’oggi, forti resistenze nei confronti di quelle forme espressive che richiedono nuove forme di fruizione, a cui non si è ancora del tutto abituati. Allo stesso tempo, si evidenzia la necessità di punti di riferimento che sembrano essere sempre meno presenti. L’arte si fa con tutto, ed orientarsi nel panorama contemporaneo non risulta certo semplice. Soprattutto perché i limiti tra i diversi mezzi sono sempre più sottili, e l’impollinazione incrociata di cui parla Vettese nel suo “Si fa con tutto, il linguaggio dell’arte contemporanea”, tocca ormai anche la fotografia, una delle arti relativamente più giovani. Il catalogare, come si faceva per i movimenti d’avanguardia, affidandosi alle diverse scelte di materiali o di procedimenti, è ormai un metodo obsoleto. Gli artisti si muovono volentieri da una disciplina all’altra, da un supporto all’altro, senza introdurre la benché minima gerarchia tra un’azione effimera e una scultura, un video, un’installazione o un intervento gestuale2. Eppure questa nuova molteplicità ad alcuni fa paura, smuove dei concetti cardine dell’arte la cui rilettura fa fatica ad essere accettata; pone delle questioni politiche. 1

1  Cfr. Intervista ad Angela Vettese su milanoartexpo.com, rilasciata il 06.02.2012. 2  Vettese A., Si fa con tutto: il linguaggio dell’arte contemporanea, Laterza, Roma, 2010, p. 6.

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1.

L’ibridazione come dubbio e trauma

E’ interessante notare come la Vettese ponga con certezza il fare fotografico all’interno del grande contenitore dell’arte, nonostante sembrino continuare ad esistere diverse frizioni nell’accogliere tale accelerata. Parlando direttamente con gli artisti, non sembra però emergere questo mancato riconoscimento, se non in una breve digressione durante un’intervista raccolta a Milano, a Paolo Ventura, che apre un interessante scenario. P.V: […] Poi è arrivato Thomas Demand, lui è stato sempre in contatto più che con il mondo della fotografia con quello dell’arte contemporanea. S.C: In che senso? Perchè distingui le due parti? P.V: Beh, il mondo dell’arte è diviso in settori, solo adesso stanno iniziando a dialogare, ad ibridarsi. Ci sono ancora musei, gallerie, istituzioni che si occupano esclusivamente di fotografia. […] E’ ovvio che è una cosa che non durerà per molto perchè è una contraddizione, è uno sciocco limite. Però, essendoci dietro un mercato molto forte, è chiaro che in qualche maniera dice la sua, quindi non vuole che la fotografia si inserisca senza protezione all’interno del mondo dell’arte contemporanea, con il rischio di essere violentata. Ci sono regole in fotografia che non valgono nell’arte contemporanea. Paolo (Milano, 1968) è una persona a modo, lo incontro nel suo studio mentre è indaffarato a stampare delle immagini e a preparare le ultime cose per l’imminente Paris Photo. Nonostante ciò, mi parla e lavora con un’alternanza tra le abilità tutta sua; si muove per lo studio senza perdere di vista il punto centrale della discussione, parla di idee consapevoli, forti, ben maturate. Il suo atelier è un piccolo mondo magico, nascosto tra le vie di una Milano grigia e trafficata; non nascondo di aver esplorato il più 8


Lo studio di P. Ventura, Milano

possibile con lo sguardo le pareti e i tavoli pieni di qualsiasi cosa, con l’obiettivo di cercare non so quale segreto. Eppure le sue parole custodivano qualcosa di prezioso. P.V: […] Tra pochi anni queste forme di protezionismo nei confronti di un media saranno completamente anacronistiche, cambieranno le cose. Non so in che direzione, ma cambierà qualcosa. La grande distanza di cui parla Ventura sembra, però, essere già stata colmata (quantomeno in termini teorici) nel 1862 attraverso il contenuto di un documento redatto dal Tribunale Francese, secondo cui la fotografia aveva il diritto legale di essere riconosciuta come medium dal carattere artistico. I francesi Meyer e Pierson iniziarono una causa contro certi concorrenti che avevano riprodotto abusivamente, e rivenduto, il loro ritratto ufficiale realizzato a Cavour. Il giudice stabilì l’illegalità dell’azione, perché “una fotografia non è mera riproduzione, ma un prodotto del pensiero del gusto e dell’intelligenza del fotografo”. Sono inoltre note le innumerevoli diatribe circa il rapporto tra pittura e 9


fotografia, tra pittura e realtà, e così via. Un confronto in questi termini è oggi divenuto sterile e di poco significato proprio in virtù della riconosciuta ed articolata polifonia dei linguaggi e dei mezzi, che rende impossibile il distinguo delle singole linee melodiche. P.V: Il panorama della fotografia contemporanea in questo momento è molto complesso. Perché, seppur la fotografia si sia liberata da certi limiti che aveva in passato, rimane comunque arginata in certi ghetti. Siamo in un momento di passaggio, la fotografia è una cosa recente, e da poco si è liberata da questi vincoli. A volte è ancora tenuta in ghetti (musei, gallerie), che non le permettono di entrare a pieno titolo nell’arte contemporanea. E’ ancora un percorso che sta facendo. Ventura ripete una parola molto significativa: ghetto. E’ un luogo fisico, suggerisce una distanza presa con potere, che esclude una parte per elevarne un’altra; è un sostantivo che sottolinea la qualità di una cosa, e rimanda immediatamente a restrizioni e differenze. Ma cosa può centrare questa riflessione su fotografia e arte, già superata ma che torna spesso, con il tema dell’intera tesi? La risposta la suggerisce direttamente Ventura, il quale mi chiede, in modo retorico: Cosa vuol dire ormai fotografia? Cosa lega Penelope Umbrico e Martin Parr? Nulla. Però ancora la fotografia li tiene insieme in questo ovile. L’indeterminatezza di cosa sia la fotografia è un elemento chiave del contemporaneo, soprattutto in questa sede in cui la si studia sul limite scultoreo. Ormai, quando ci si riferisce alla fotografia, l’orizzonte si è spostato più avanti, rendendolo molto meno definito, così come avviene nella visione reale degli orizzonti. Esso tende ad inglobare il termine immagine, il 10


cui contenuto semantico è ben più ampio. Riconoscere tali problematicità è indubbio essenziale per vivere ed operare nel presente, ma è anche vero che sperimentare rimane l’unica soluzione per dirigersi verso il futuro. Ormai assodato che la fotografia appartenga all’ambito dell’arte contemporanea (nonostante tale nozione, come sottolinea Ventura, debba ancora maturare nel tessuto delle istituzioni e di chi ne è a capo), non resta che perseguire il solco della storia dell’uomo, che ci dimostra quanto trovare, leggere e rielaborare un dato contenuto siano i soli atteggiamenti utili a trovare nuove chiavi di lettura del presente. Le operazioni artistiche contemporanee ci suggeriscono quanto la fotografia sia desiderosa di superare il trauma dell’ibridazione - ancora legato al dubbio del nuovo - di compiere un nuovo salto e, in definitiva, di incontrare il proprio Fosbury.

2.

La società ibrida

Ricordo una frase di Monica Mazzone, artista milanese, che un paio di anni fa, chiacchierando nel suo atelier, mi disse una frase del tipo: “L’arte contemporanea si chiama così perché è l’arte di oggi. Domani, si chiamerà in un altro modo”. Una riflessione al quanto didattica e spontanea, ma estremamente efficace. Mazzone suggeriva che l’arte non può essere vista fuori dal proprio contesto entro cui nasce e si sviluppa, così come ogni cosa che viene detta e fatta dall’uomo. Ciascun periodo storico ha la propria esperienza, oggi raccogliamo l’eredità di una storia ancora segnata da barbarie ed ingiustizie che sembrano gravare sul corpo dell’uomo. La Grande Guerra, i continui conflitti nel mondo, le tensioni tra i confini, le instabilità politiche e le incertezze di cui quotidianamente fa esperienza l’uomo, continuano a mantenere aperta una ferita mondiale, nata ad inizio 11


secolo e rimasta ancora senza cura. La fragilità dell’uomo moderno è certamente un tema già dibattuto da una molteplicità di autori (uno su tutti il latino Seneca), e non è questa la sede in cui riportare ulteriori apporti. Ciò che è necessario, tuttavia, risulta rendersi conto di tale condizione sociale, chiave dell’intero processo artistico contemporaneo, prenderne atto e tenere a portata di mano una manciata di considerazioni su questo tema, che può divenire, all’occorrenza, memorandum interpretativo per le arti. Rispetto a quanto veniva affermato con forza negli anni ‘60 dagli artisti concettuali, ora la tendenza è quella del multitasking, che si mette in gioco tanto nel fare artistico quanto nella vita quotidiana. Questo nuovo modo di fare è sintomo e riflesso di un’epoca in cui viene richiesto tanto, in cui le competenze di ognuno è bene sappiano muoversi su più fronti. L’uomo è sempre più composito e allo stesso tempo frammentato, capace di adattarsi a diversi ambienti e prestazioni. Si tratta di una polifonia del fare che trova le proprie radici nell’assenza di certezze innanzitutto nella vita, e poi nell’arte. Ben distante dal considerare la propria vita un’opera d’arte, filosofia già esplorata nel Decadentismo europeo tra fine ‘800 e inizio ‘900, è comunque innegabile rintracciare un sottile legame tra le due parti. Vita come inevitabile fonte d’ispirazione per opere artistiche, ma anche come elemento singolare facente parte di una più collettiva forma. Riducendo, l’uomo viene plasmato dalla società in cui cresce, e quella di oggi sembra essere impregnata di valori quasi unicamente riconducibili al concetto di frammento. In quest’ottica si può ben inserire anche l’idea di fuga (si pensi ai fenomeni d’immigrazione ed emigrazione) attraverso cui una società si separa, perde dei pezzi, e l’idea di precarietà (dal lavoro instabile alla famiglia disgregata e sempre meno pronta a formarsi). Francesca Rivetti (Milano, 1972), durante un’intervista, propone una metafora molto forte rispetto a questi aspetti:

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Una drammatinca immagine tratta dai video che hanno ripreso la strage dell’11 Settembre 2001.

[...] Ci sono immagini di questo periodo storico che, secondo me, raccontano in modo ineluttabile e drammatico chi siamo, come purtroppo nel terribile evento dell’11 settembre, in particolare mi riferisco a quelle immagini, ormai icone, che mostrano persone che si buttano dai palazzi del WTC. Purtroppo mi hanno molto colpito perché riescono a metter insieme tantissime cose di questa epoca: la crisi, la spettacolarizzazione, la decadenza, fino al fatto che qualcosa letteralmente stia bruciando, crollando. Questa analogia, emersa mentre le chiedevo di raccontarmi la nascita del suo ultimo progetto, colpisce molto per il fatto che Rivetti abbia visto sotto un’altra luce i video e le fotografie che documentarono la strage americana. Forse si tratta della metafora più vicina al contemporaneo, testimone di violenza, drammaticità e allo stesso tempo leggerezza e voyeurismo. Chiaramente tutti questi concetti provengo direttamente da inizio secolo, non sono una novità tra le dinamiche sociali, ma ancora oggi permangono e permeano nei tessuti degli uomini.

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Come fa notare Vettese, e come potrebbe dedurre in modo spontaneo ciascuno di noi, la globalizzazione accentua l’idea che non esista per l’uomo un progetto unitario, ma un insieme di possibilità che si avverano. Oggi qualsiasi concezione teleologica della storia appare esausta. Avvertiamo che il nostro sapere, per quanto più solido e comprovato di quanto lo sia mai stato, è legato a teorie parziali; predomina la condizione di vivere tra i frammenti, con poche cose conosciute e ancora molto da scoprire, siamo persone e popoli frutto di fusioni3. Questa grande condizione sociale, che complessa lo è per sua natura, si dimostra essere coincidente con il fare artistico contemporaneo. Più che una metafora, le due dinamiche sono una vera e propria sovrapposizione perciò, guardare ad una, significa riferirsi immediatamente all’altra. Tale osmosi dei processi è chiaramente visibile nei lavori di molti autori, ciascun epoca possiede le proprie specificità; in questa sede prenderò in esame alcune opere degli artisti da me intervistati, così che in un discorso critico, intrecciato alle parole dei diretti interessati, si possa comprendere come l’ibridazione dei mezzi, di cui tanto si discute, sia inscindibile dall’ibridazione della società. In altre parole, i nuovi metodi dell’arte visiva accolgono ed esibiscono la distanza tra ciò che siamo stati per millenni e ciò che stiamo diventando4. Le immagini raccolte in Dalston Anatomy, progetto dell’artista Lorenzo Vitturi (Venezia, 1980), sembrano stare su un preciso limite: da una parte i grandi contrasti di colore, le cromie brillanti e ben coordinate, dall’altra le sculture, accrochage effimeri, precari, talvolta composti da materiali organici ormai consunti, che si pongono in netto contrasto con la palette di colori e la compostezza dell’immagine. Escludendo per questo momento l’analisi 3  Ivi, p. VII. 4  Ibid.

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Lorenzo Vitturi, Green stripes, from the Dalston Anatomy series (2013), stampa giclée montata su legno, 48x33cm.

foto-scultorea, a livello di significato nasce il dubbio del racconto: si tratta di una narrazione positiva, gioiosa, o l’intento è quello di mostrare una certa frammentazione di un qualcosa? Convinto che un’opera non debba spiegare o dare risposte, quanto piuttosto porre dei dubbi, delle irrisolutezze, la domanda diviene di semplice uso retorico, una provocazione per proseguire nell’indagine. Qualche spunto in questo senso viene diretta15


mente dalle parole dell’artista, il quale spiega come il progetto sia nato con l’ottica di […] raccontare la storia del mercato del quartiere East London, trasformato da un processo di gentrificazione molto forte. In questo senso, le fotografie di Vitturi (che hanno preso forma anche all’interno di un bellissimo libro d’autore), diventano metafora dell’incrocio di popoli londinese. Come la società è palesemente ibrida, o multietnica, così i mezzi della scultura e della fotografia si uniscono in un’esplosione di vita che ricorda molto la città natale dell’artista, Venezia, crocevia europeo e non solo. Contestualmente, l’idea di precario che emerge dai materiali viene rappresentato da […] sculture effimere, per raccontare il mix di culture trovato, in cui la fotografia è l’unico modo per documentarlo. Alla luce di queste parole, la volontà delle immagini non sembra dirigersi verso la presa in considerazione di una società frammentata, fragile. Eppure, guardandole sotto un’altra luce, lo suggerisce sottilmente. L’ambiguità di cui le fotografie si fanno portatrici rivela, a mio parere, l’abilità di Vitturi nel sviluppare una poetica aperta e diffusa, perfettamente in linea con il fare della società, sintomo di una sensibilità verso il polifonico, che attinge ad un immaginario preferibilmente teso verso la narrazione personale, piuttosto che in cerca di un finale logico, chiuso ed universale. Personalmente, trovo questo modo di fare sempre stimolante, un valore aggiunto che ricerco negli artisti. Penso possa essere un’ottima chiave per il successo di un lavoro; o quanto meno si presenta come una delle possibilità.

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Parlando con Francesca Rivetti riguardo al suo ultimo lavoro “I Want To Talk With Seymour Too”, è interessante notare il fatto che si presenti un simile atteggiamento artistico. S.C: Quello che emerge e che si sente, dal mio punto di vista, è uno spostamento. C’è quella cosa che mi fa percepire la presenza di qualcos’altro. E’ un discorso chiaro da una parte, poi girando l’angolo si trova l’immagine di una grottesca, che spiazza lo sguardo. Mi piace come tu abbia saputo trovare una chiave diversa per inserire qualcosa di estremamente personale, non esplicitamente chiaro al pubblico. F.R: Sì, mi fa piacere, questo per me è importante. La cosa che mi interessa molto è che una certa parte del lavoro non possa essere spiegato, almeno non da me. Cercavo una frattura; non un completo percorso unico, organico. Volevo andare in un’altra direzione. L’altra direzione cui fa riferimento Rivetti si sposa completamente con l’idea di frattura da lei citata e, come si diceva sopra attraverso le parole della Vettese, risulta essere estremamente contemporanea. Francesca la incontro tra le pareti di un bianco fresco in Viasaterna, galleria milanese in cui è attualmente5 in corso Due mondi (con opere di Kensuke Karasawa e Francesca Rivetti, a cura di Fantom). La fortuna ha voluto che parlassimo proprio tra le stanze che accolgono le sue opere: niente di meglio per poter confrontarsi davanti al dato reale. I lineamenti del viso tradivano la sua pacatezza in un parlare riflettuto, incurante dei vuoti, attenta al peso ed al corpo della parola da utilizzare. La ritroverò qualche giorno più tardi sul volo Milano-Parigi, per pura coincidenza; scambierò con lei qualche parola, dimostrandosi nuovamente disponibile 5  Mi riferisco al momento in cui ho scritto questo passaggio della tesi, Novembre 2016. Tuttavia, la mostra ha coperto il periodo 11 Ottobre – 23 Dicembre, 2016.

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Francesca Rivetti, Bottle #1 dalla serie I Want To Talk With Seymour Too, 2016, stampa inkjet su Baryta, 45x30cm.

Francesca Rivetti, Grottesque Glass dalla serie I Want To Talk With Seymour Too, 2016, stampa inkjet su carta cotone Fine Art, 31x36 cm.

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ed entusiasta per il tema in corso d’indagine. Nel tentativo di rintracciare dei riferimenti nella storia dell’arte, senza la volontà di accumunarne i significati, ma con il solo spirito d’indagare sottili somiglianze operative, emerge un’interessante analogia tra i lavori fotografici di Vitturi e Rivetti con le operazioni artistiche di Man Ray e Picabia. Ereditando l’atteggiamento surrealista, quest’ultimi mettevano insieme frammenti ed oggetti trovati, secondo associazioni apparentemente incongrue, che rimandavano al sogno, alla memoria, alle emozioni. F.R: […] Quindi, un po’ come l’azione dell’acqua, effettivamente non c’è un filo logico preciso fra i diversi segmenti, ma spero si percepisca. Rivetti sottolinea attraverso la metafora dell’acqua che tutto mischia e trasporta senza logica, tema a lei molto caro, il motivo per cui all’interno delle sue immagini scultoree (così come nell’accostamento ad esse di una serie di grottesche), non vi si possa rintracciare un discorso razionalmente coerente. Ciò che interessa all’artista, così come per Vitturi, è l’atmosfera che si crea, la sensazione che nasce nell’avvicinare elementi apparentemente distanti in modo che creino delle storie nuove, tra la fantasia e la realtà. La riflessione appena proposta dell’antirazionale, del fluido e delle relazioni concettuali, si incontra con la società ibrida in un matrimonio laico con non pochi invitati. Tanto Vitturi, quanto Rivetti, sono riusciti a mostrare il connubio di intenti e peculiarità che accomuna l’aspetto sociale al fare artistico attraverso un equilibrio composto di contrasti e analogie: S.C: Nelle tue immagini trovo sempre una relazione tra la precarietà delle sculture e l’armonia generale, che vedo nei colori, nella composizione, nell’allestimento della mostra. E’ una relazione evidentemente di contrasto tra i contenuti dell’immagine, che permette, a mio parere, di muovere il pensiero. 19


F.R: Ti ringrazio, questa è una cosa a cui ho sempre tenuto tantissimo. Partendo proprio da “Abbastanza Vuoto” (1997-2002) e “Meteore” (2005), la mia ostinazione ad usare poco dell’immagine, ma usarla, mettendo le persone sempre al margine, è per dare questa sensazione di precario. La specializzazione del sapere, il suo frazionamento in campi di ricerca sempre più circoscritti, ha accresciuto il bisogno di frequentare luoghi di interazione e di scambio, dove perseguire una visione integrata della realtà6. Estremamente attuale, l’ibridare i mezzi espressivi di Vitturi è specchio e sovrapposizione, come si diceva prima, di una società frammentata e precaria. La pratica fotografica in comunione a quella scultorea sorge, dunque, come spontanea riflessione (il più delle volte inconscia) sui giorni attuali. L’arte visiva contemporanea, più di altri terreni di indagine, sembra essersi intestata questa necessità del nostro tempo, battendo strade di confine, perlustrando regioni mediane, incuneandosi negli interstizi che separano le diverse discipline. E ciò non soltanto all’interno del filone relazionale - che ha fortemente contraddistinto la produzione degli anni Novanta del secolo scorso e orientato una parte importante di quella del decennio successivo - ma anche nel quadro di altre esperienze, più inclini all’elaborazione di un discorso interno all’arte stessa e che a questa riconoscono una possibile indipendenza rispetto ai diversi ambiti del vivere umano7. Ciascuno potrà, in definitiva, ritrovarsi nei tuffi a mezz’aria dell’America colpita, ammettendo che nel dubbio – in una smentita del titolo – non risiede necessariamente il trauma.

6  The Camera’s Blind Spot sculpture-photography recent examples, catalogo dell’omonima mostra a cura di Simone Menegoi e Lorenzo Giusti, (23 marzo – 26 maggio, 2013) Museo Man, Provincia di Nuoro, Nero publishing, 2013, p. 8. 7  Ibid.

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Il problema del medium

1. Oltre la scelta L’ibridazione dei mezzi sembra comportare la necessità di indagare il mezzo nella sua qualità, scardinandone i meccanismi perché riveli la propria natura di fronte lo spettatore. Ma è davvero necessaria una riflessione sul mezzo? Dai pensieri della Vettese, ma anche della Krauss, sovviene l’emergenza di sondare il perché della scelta di un mezzo rispetto ad un altro. Questa necessità, dettata sicuramente dalla formazione delle due personalità, sembra sorgere dal fatto che ormai, in un lavoro artistico, la sola idea non basta. Fondamentalmente, ogni cosa che ci circonda ha in sé un alto potenziale narrativo. Dalla strada alla spazzatura, dagli incontri quotidiani alle fantasie personali. Ciò che rende unica la storia, per così dire in potenza, è la sensibilità dell’artista, che riconosce le suggestioni e tenta di rileggerle attraverso l’utilizzo del mezzo a lui più congeniale. Da questa premessa emerge innanzitutto una prima questione, ossia la scelta del medium. Il termine scelta si legge spesso all’interno dei modi di procede dell’arte contemporanea, ma quanto essa è davvero tale? Prediligere l’utilizzo di un medium rispetto ad un altro è, oggi, una questione d’istinto, o meglio, di pulsione1. Penso sia molto più simile all’orientamento sessuale; non si tratta di una scelta, quanto di una caratteristica insi1  Per approfondire il distinguo tra i due termini, si rimanda a Galimberti U., Miti del nostro tempo, Feltrinelli, Milano, 2009. Considerando l’istinto una risposta rigida ad uno stimolo, l’orientamento riguardo il medium è da considerarsi quale pulsione.

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ta nell’uomo, emergente nel tempo, non determinata, ma in costruzione. Allo stesso modo, l’utilizzo di un mezzo artistico rispetto ad un altro è dettato dal percorso di vita individuale, non certo da una scelta filosofica e di significato rintracciata a tavolino. Il significato lo si può trovare dopo, il che non vuol dire inventarlo, ma dedicare del tempo per una riflessione critica, a posteriori, sulle dinamiche del lavoro in relazione al mezzo. Poiché fino al Novecento si praticavano solo la pittura, la scultura, l’architettura ed il disegno, le cosiddette Belle Arti, la scelta era anche dettata dall’attitudine personale verso la tecnica richiesta dal mezzo. Capitava, talvolta, dover cambiare strada per approdare ad un utilizzo di un medium più certo e consapevole. Oggi anche l’assenza di tecnica, l’assenza di una conoscenza profonda del mezzo, diviene espressione artistica. Ciò non attribuisce un giudizio di valore all’opera, ma pone delle questioni da rileggere attraverso la storia contemporanea. Alla domanda “Perché non hai presentato direttamente la scultura, ma l’immagine fotografica?”, proposta ad ogni artista intervistato, nessuno ha avuto modo di dire direttamente ciò esposto sopra. Nelle mie aspettative, confesso, c’era la possibilità di sentirsi dire frasi in riferimento all’istinto, alla maturazione consapevole nel tempo, a ciò che spontaneamente si sente. Al contrario, ogni risposta si fondava sull’esposizione di criticità e peculiarità proprie del mezzo, o della ricerca artistica. Riporto una selezione di esempi, che si avrà modo di approfondire più avanti. Erin O’Keefe: Le composizioni sono sempre costruite per l’occasione, ad hoc, e sono temporanee (come una scenografia, sono destinate a creare una determinata impressione da un punto di vista fisso). Fotografare questi oggetti e questi spazi mi permette di esplorare le differenze tra la cosa e l’immagine della cosa, lo spazio e l’immagine dello spazio. Lorenzo Vitturi: Uno dei miei soggetti principali è rappresentare at22


traverso il mio lavoro l’effetto del tempo sulla materia, un continuo divenire, così come vedo la vita: un processo inarrestabile continuo di trasformazione. […] Poi a livello di processo, il dialogo tra le due parti è continuo: quando io inizio a realizzare una scultura, la realizzo perchè venga fotografata, non perchè esista a 360°. […] Anche a livello concettuale, qualcosa che appare in un certo modo e in realtà è un altro. Thomas Demand: Perché non mettere la Mona Lisa su una sedia del Louvre? Csilla Klenyànszki: La fotografia mostra solo una piccola porzione, il fotografo può decidere cosa vuole mostrare; appena l’installazione diventa pubblica, questo potere è perso, perché lo spettatore può vederla da tutti gli angoli, etc. Paolo Ventura: Se fai vedere la scultura, limiti il contesto di questo oggetto, perchè si trova in una stanza, su un piedistallo, mentre fotografandola e ambientandola allarghi confini, gli puoi costruire qualcos’altro ed andare oltre quello che è lo spazio. […] Fotografandole il limite si espande perchè posso costruire degli orizzonti, delle altre quinte. Il fatto che non sia emersa la sfaccettatura riguardo la pulsione, la spontaneità, potrebbe essere letto sotto differenti aspetti, uno fra tutti riguarda l’ovvietà. Potrebbe essere che la riflessione appena presentata stia nel substrato di ricerca di un artista, ossia in quella zona d’ombra non accessibile al pubblico, non necessaria da spiegare perché fondante di ogni operazione artistica. Sotto questa luce, le molteplici risposte dimostrerebbero essere un passo dopo, ossia speculazioni razionali sul proprio modo di lavorare ricercate, o emerse spontaneamente, durante le proprie sperimentazioni artistiche. 23


Un’altra possibilità potrebbe risiedere nella necessità, da parte degli artisti, di dover giustificare, o quanto meno sostenere con pensieri personali, il proprio operare. Questa tendenza, espressamente di natura accademica, non vuole essere né additata né ritenuta poco valevole, quanto piuttosto riconosciuta come diffusa. Presentare un lavoro è tanto importante quanto saperne parlare e sostenerlo nel momento del confronto con il pubblico. Tuttavia, non andrebbe persa la spontaneità nell’esibirlo, con l’obiettivo di far emergere e ricordare quanto un’opera artistica non nasca, almeno questo è il mio augurio, da una razionalizzazione degli elementi o del mezzo utilizzato, quanto da un’empatia con il reale che può essere successivamente, o contestualmente, razionalizzata.

2. Reinventare il medium? Secondo la critica Rosalind Krauss, autrice di numerosi interventi riguardo l’era post-mediale, la scommessa di oggi sarebbe quella di reinventare il medium: non inseguire inutili sperimentalismi, né ripetere il già fatto, ma attenersi alle regole proprie di ogni supporto tecnico. Jackson Pollock, la cui pittura d’azione, il dipingere sulla tela disposta orizzontalmente sul pavimento, il dripping, le macchie-coaguli, l’interazione in alcune opere di rifiuti, ne hanno fatto il campione storico dell’informale, si pone come cardine della reinvenzione del medium. Questo perché le caratteristiche appena descritte della sua pratica pittorica non sono momentanee trovate, o soluzioni a problemi circostanziali, ma diventano sintassi, regole e convenzioni di un linguaggio, cioè appunto la base di un medium2. Proseguendo negli anni, la Krauss vede in James Coleman l’esempio di colui che è riuscito in questa impresa. Le sue diapositive proiettate, a 2  Krauss R., a cura di Elio Grazioli, Reinventare il medium: cinque saggi sull’arte d’oggi, Bruno Mondadori, Milano, 2005, p. XII .

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Pollock e la crisi della pittura da cavalletto (scatto anonimo del 1950).

volte corredate da una colonna sonora, non sono state un’invenzione vera e propria, ma egli è riuscito a rileggerne i meccanismi, trasformandole da una tecnica commerciale-pubblicitaria ormai obsoleta a linguaggio, medium. Per quale motivo risulta così importante reinventare il mezzo? La Krauss la reputa un’abilità imprescindibile per l’artista contemporaneo, a cui ormai tutto è concesso. Eppure sembrano mancare dei presupposti. Voglio dire, il medium non è altro che il pretesto per fare arte. Esso è lo strumento, non l’oggetto artistico. L’indagine, a mio parere, andrebbe fatta circa l’opera e non il mezzo utilizzato per produrla. Chiaramente a seconda del medium cambia il lavoro, ma una speculazione in questi termini potrebbe risultare estremamente fine a se stessa. E’ inoltre importante

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chiarire, come precisa anche Krauss, che con medium non si sta qui intendendo semplicemente la tecnica di esecuzione, il supporto, insomma la condizione materiale delle opere. Medium è un insieme di regole, uno spazio disciplinato di possibilità che si apre all’artista. Così, ad esempio, per Jackson Pollock l’orizzontalità è non solo il presupposto che permette il dripping, la colatura del colore sulla tela stesa a terra, ma un medium a tutti gli effetti, un “vettore fenomenologico” che apre una nuova dimensione nell’esperienza del pittore e quindi una diversa intenzionalità3. A questo proposito la visione si scontra con quella di Clement Greenberg, secondo cui la natura di un medium era teorizzata in maniera troppo semplice, legata esclusivamente alla sostanza fisica e non intesa a livello più ampio come insieme di regole, linguaggio. In realtà, si tratta di una logica, piuttosto che di materia. Ad esempio, Ed Ruscha nel suo “Ventuno stazioni di rifornimento” ha reinventato il medium in quanto esso coincideva con l’automobile. Le sue regole non sono la sua definizione nel senso di “idea” ma il suo automatismo, che rimanda ad auto. Come supporto tecnico l’automobile ferma di colpo il cammino di Duchamp4. Reinventare il medium è sicuramente un’azione stravolgente, che permette di aprire una molteplicità di modi di fare e linguaggi nuovi, e su questo non si può discutere. Dimostra, senza dubbio, un valore aggiunto nel fare artistico, una ricerca ed una sensibilità tutte nuove. Trovo limitante il fatto che “riuscire o meno in questa impresa” possa definire un’opera nelle sue qualità, poiché questa necessità viene espressa dall’autrice come un vero e proprio compito del contemporaneo. In questo modo si evita il parametro del gusto personale, affidandosi ad elementi riconoscibili come universali. Il mezzo non è il messaggio, ma soltanto una sua componente; inoltre, il materiale è solo un aspetto del linguaggio dell’arte, non il suo

3  Ivi, p. 26 . 4  Krauss R., Sotto la tazza blu, Bruno Mondadori, Milano, 2012, p. 24 .

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punto centrale. Il punto resta sempre il come5. La sfida, dunque, non è reinventare il medium, quanto capire perché ci sia il bisogno di reinventarlo. Cosa spinge l’artista a trovare nuove letture? Cosa spinge la critica ed il pubblico a cercare nuove letture? Penso sia solo un bisogno, nato da una miseria, dell’uomo contemporaneo.

5  Vettese A., Op. Cit, p. 141.

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Il codice digitale come dimora

Il problema dell’ibridazione dei mezzi è direttamente connesso ad una riflessione circa il codice digitale, elemento chiave della pratica contemporanea. Tale parentesi permette di comprendere quanto l’interscambio dei medium sia, oggi, alla portata di tutti. Passare da un suono ad un’immagine, e da un’immagine ad una scultura è abbastanza semplice e ciascuno, disponendo di un computer, può farlo. Il codice assume così forme diverse, l’opera muta, ma in se stessa rimane concreta l’idea. Il codice digitale diviene quindi dimora dell’idea, luogo in cui risiede l’essenza dell’operare artistico; la forma con cui si concretizza è solo un passaggio successivo. Un esempio su tutti, in cui questo meccanismo è estremamente palese, è rappresentato da Ives Maes (1976, Hasselt), artista belga. Il riferimento va al suo Sunville (2014), progetto costituito da una serie di sfere al titanio (del diametro di 10 cm, ma solo per il momento) letteralmente forgiate a partire da alcune immagini panoramiche scattate nel villaggio natale dell’artista, da cui il nome del lavoro. Il risultato finale, dunque, è una scultura tridimensionale sorta dalla rilettura di un codice digitale, realizzata da terzi. I.M: Oggi, abbiamo la possibilità di stampare direttamente senza alcuna interpretazione artistica e questo è il mio interesse. Se tu scansioni un oggetto, lo metti in mezzo e ci giri attorno; quello che io faccio è stare nel mezzo e scattare una fotografia del paesaggio, e non è possibile scansionare un paesaggio perché è troppo lontano, ma se traduci una fotografia panoramica, a 360°, in una sfera, usando i programmi 3D, applichi un principio che traduce l’intensi28


Ives Maes, 51°00’15.4”N x 5°24’01.3”E, 2014. Stampa 3D in titanio, ø 10 cm.

tà della luce nella profondità. Il bianco e il nero hanno una diversa profondità di campo, quindi ottieni l’oggetto tridimensionale. Ives lo incontro su Skype ad un passo dalle festività natalizie, compiendo un viaggio virtuale verso il Belgio, per colmare la distanza che ci separa. Insomma, il codice digitale ha già operato prima che se ne potesse parlare. Immediatamente mi racconta con entusiasmo il suo modo di procedere, spiegandomi fin nei minimi dettagli i meccanismi tecnici per ottenere quelle bellissime sfere, mostrate ad inizio anno al Palazzo De’Toschi di Bologna1. Da come mi parla (lo contraddistingue un accento inglese tra 1  La mostra in questione rappresenta il terzo ed ultimo episodio de “The Camera’s Blind Spot”, esposizione curata da Simone Menegoi sulla materialità della fotografia. (29 gennaio – 28

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le sonorità fresche del francese in lotta con delle gutturali quasi bergamasche), capisco quanto sia interessato al rapporto delle diverse dimensioni, e quanto voglia farsi comprendere al meglio. Attualmente, inoltre, sta frequentando un dottorato (PhD) proprio riguardo questo tema, che concluderà nel 2018. Dalle sue parole riportate sopra emerge la presa di distanza dal fare manuale, che si propone di lasciare il posto alla macchina, concetto direttamente mutuato dalle sperimentazioni minimaliste degli anni sessanta in cui, a fronte di un progetto dell’artista, l’industria avrebbe provveduto a realizzare il materiale desiderato. A riprova di questa tendenza, Maes torna più volte sul mezzo tecnico per rispondere a delle domande che, invece, pensavo potessero vertere su delle scelte personali in termini di sensazioni o concettualità. S.C: Dicevi che le tue sfere sono in titanio, perchè hai scelto proprio questo materiale? I.M: E’ abbastanza semplice. La stampante al titanio è l’unica stampante che può riprodurre oggetti così dettagliati. […] Questo tipo di stampante è utilizzata per sostituire le ossa nei corpi umani, quindi è estremamente precisa. Il materiale non è una vera e propria scelta, è più che altro un risultato di ciò che è possibile al momento. Oppure, poco più avanti: S.C: Stavo pensando, hai mai pensato di utilizzare Google Street View per realizzare queste sculture? In fondo, anche questo programma ti permette di avere immagini panoramiche.

febbraio, 2016).

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I.M: Questo è vero, molto vero, ma prima di tutto non ci ho ancora mai pensato. Secondariamente, serve una macchina fotografica speciale sul cavalletto, che permetta di ruotare. Quindi il punto di messa a fuoco della lente deve essere sempre nello stesso punto, non è semplice. […] Inoltre, sto scattando con macchine ad alta risoluzione, cosa non disponibile nel programma di Google. Più risoluzione ha l’immagine, più dettagliata sarà la stampa 3D. S.C: Ma perchè sei così interessato ai dettagli? I.M: Se hai un’immagine pixelata - in bassa risoluzione - traducendola in tridimensione, vedrai i pixel; è semplice. Queste idee si ricollegano alla volontà dell’artista, citata a inizio capitolo, di voler lasciare il più possibile alla stampante 3D la produzione del lavoro. Ad esempio, ipotizzavo che in seguito alla provocazione di Google Street View, emergesse una differenza in termini concettuali circa l’utilizzo del mezzo, e non il mero risultato tecnologico. Con ciò, la mia intenzione non vuole essere quella di giudicare negativo un atteggiamento del genere, anzi. Tale prospettiva permette di riflettere sul limite scultoreo e fotografico all’interno di un lavoro in cui le due parti sembrano indistinguibili. S.C: E’ come se sentissi il limite della bidimensionalità, ma questo ti permette di lavorarci molto. Quindi il limite diviene un elemento positivo all’interno della tua ricerca? I.M: Sì, perchè testimonia che in questo caso la fotografia è una scultura, e la scultura una fotografia, quindi i due media sono uniti insieme perchè non puoi affermare che siano solo una o l’altra cosa, sono entrambi. Vorrei dire che questa è la prima volta nella storia del mondo - sono ab31


bastanza sicuro di questo - che è stato creato un oggetto che è entrambe le cose allo stesso tempo. Questo per la mia ricerca è una cosa grandissima. A questo punto rimane il codice digitale, dimora dell’idea pronta ad espandersi nello spazio fisico secondo le regole della stampa al titanio. Dall’immagine tecnologica, esso si sposta nella materia del metallo rimanendo fedele alla propria informazione. Secondo le parole di Pierre Sorlin, l’osservazione informatica analizza emissioni che sfuggono alla vista e ne codifica le componenti, penetra i corpi senza traumatizzarli, dunque senza alterarne il funzionamento. Partendo dai dati registrarli dal computer, è facile operare simulazioni2. In questo senso, il codice digitale si comporta alla pari di un codice genetico, in cui una particolare informazione attraversa fisicamente i limiti di un altro corpo, influenzandone le forme, modificandone gli attributi, ma restando fedele alla propria impronta, o matrice. In modo analogo, l’artista Paola Pasquaretta (1987, San Severino Marche) nel lavoro Clap (2016) compie un’interessante operazione di codifica. In sintesi, il lavoro si configura come una scultura di polistirolo, realizzata da un’apposita macchina, che ripete la medesima forma di un sasso – ma a livelli ingigantiti – raccolto sul luogo di un devastante terremoto nella regione del Friuli-Venezia Giulia. In questo caso, il passaggio da una forma naturale ad una sintetica è avvenuta attraverso un programma digitale, il quale ha scansionato l’oggetto perché la fresa meccanica potesse seguire un tracciato nello scolpire il polistirolo. A questo proposito, le idee dell’artista convivono perfettamente con quelle di Maes:

2  P. Sorlin, Op. Cit, p. XX.

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Paola Pasquaretta, Clap, 2016, polistirolo, struttura in metallo, 210 x 150 x 130 cm.

S.C: Quindi il polistirolo per quale motivo l’hai scelto? P.P: Innanzitutto per le caratteristiche tecniche, sia perché è abbastanza facile da modellare, sia perché è leggero. Mi interessava proprio il contrasto, perché la forma è evidente che è quella di un sasso, e anche molto grande, però contrasta perché vedi che è polistirolo; c’è uno scarto fra quello che rappresenta e quello che è realmente, quindi se ti immagini un sasso, anzi un masso, di quella dimensione, di quella grandezza, sarebbe sicuramente più pesante. Essendo in polistirolo, si vede la finzione della cosa.

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Come spiegava prima Ives Maes, la scelta del materiale è innanzitutto dettata dalla caratteristica tecnica; inoltre, come dirà Pasquaretta nel proseguo dell’intervista, l’intento era ottenere il massimo del dettaglio, e ciò sarebbe stato possibile esclusivamente attraverso un intervento tecnologico. In questo caso la fotografia non ha nulla a che vedere nel processo se non, in qualche modo, durante la fase di scansione. Nonostante ciò, Clap mette in discussione l’abilità manuale dell’artista, il quale si affida completamente alla macchina. In un certo senso, un limite fisico viene superato attraverso l’espediente tecnologico restituendo un lavoro che stupisce per il proprio dettaglio. P.P: […] la cosa più importante era avere il massimo del dettaglio e quindi, sapendo di non avere la possibilità fisicamente e manualmente di poterlo produrre, ho deciso di farlo fare ad altri. E poi comunque era importante utilizzare questa tecnica sperimentale, quindi è venuto tutto quasi da solo. Per concludere, propongo una citazione di N. Fusini, trovata in un testo di U. Galimberti in cui l’autore scrive circa l’identità sessuale dell’essere umano. In modo molto curioso, questa riflessione incontra l’idea di codice genetico – di cui poco sopra – e di codice digitale in quanto dimora dell’idea artistica. Dice Fusini: di un essere che definiamo un uomo, una donna, dovremo poi dire il come: come è donna quella donna? E uomo quell’uomo? E troveremo che siamo tutti presi in un gioco di anamorfosi, sempre spostati, sempre obliqui, sempre almeno in parte eccentrici rispetto a quel significante, alla sua legge. Questa è la condizione della donna e dell’uomo moderni3, questa è la condizione dell’arte contemporanea. 3  N. Fusini, Uomini e donne. Una fratellanza inquieta, 1995, p. 8.

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Ai Becher, un premio per la scultura

Era il 1990 quando ai coniugi Bernd (1931-2007) e Hilla (1934-2015) Becher veniva consegnato il Leone d’oro per la scultura durante la cerimonia di premiazione della 44^ Biennale di Venezia. La curiosità risiede nel fatto che gli artisti presentarono delle immagini fotografiche, e non delle sculture tradizionalmente intese come oggetti tridimensionali. Tale caso sembra essere una provocazione per l’analisi dei rapporti tra fotografia e scultura, nonché esperienza che in un qualche modo suggerì, incentivandole, le nuove possibilità del medium. Probabilmente parlare di novità non risulta estremamente preciso, ma quantomeno permette di percepire il lungo percorso che la fotografia sta tutt’ora vivendo; quella dei Becher fu una ricerca sottile, nata molti anni prima. Nell’ottica di comprendere meglio la scelta della giuria si analizza, qui di seguito, l’approccio Becheriano ed il contesto in cui si sviluppò il loro percorso artistico. Il modo di lavorare dei coniugi Becher è sempre stato molto chiaro e riconoscibile: gli scatti in bianco e nero, di dimensione 30 x 40 o 50 x 60, mostrano impianti industriali (acquedotti, torri di raffreddamento, gasometri, silos...) stagliati su uno sfondo neutro, quasi sempre un cielo nuvoloso. In questo modo si possono apprezzare le molteplici sfumature dei grigi e le ombre morbide che contribuiscono a fare emergere la struttura scura, in contrasto con lo sfondo. Presentando tali fotografie, i Becher ne disponevano da 6 a 24 all’interno di una griglia, con l’obiettivo di costruire delle tavole tipologiche dall’alto rigore scientifico che permettessero, allo stesso tempo, di osservare analogie e differenze tra i diversi soggetti. Tale presentazione conferisce al lavoro un significato e una precisione nuovi: 35


Bernd & Hilla Becher, Torri dell’acqua, Germania 1972-1983 (Tipologia di 9 fotografie in bianco e nero, ciascuna 30 x 40 cm.)

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da un’operazione comparativa, la loro ricerca si sposta verso una rigida analisi fenomenologica, la quale rivela un interesse simbolico, che trasforma gli impianti industriali in feticci1. A livello tecnico, la posizione di scatto era sempre a metà altezza del soggetto, collocato in posizione simmetrica rispetto all’asse verticale mediano della foto, o potevano ingannare la prospettiva attraverso il basculaggio del banco ottico. La grande nitidezza e l’assenza di figure umane o altri dettagli di disturbo (abitazioni, automobili, strade…) permettevano di veicolare l’intera attenzione sul soggetto. L’immagine fotografica assume così, secondo le parole degli artisti citate a breve, lo status di “scultura anonima”: “Sono essenzialmente costruzioni in cui si riconosce il principio stilistico dell’anonimità. Risultano peculiari grazie a, e non malgrado, la mancanza di creatività formale”2. Nonostante potrebbe essere possibile contestare e rivedere il concetto di assenza di creatività in uno scatto fotografico, non si può prescindere dal contesto storico entro cui tale affermazione venne formulata. A tal proposito è importante citare come, nel 1969, i Becher avessero l’intenzione di allestire una mostra alla Kunsthalle di Dusseldorf dal titolo “Fotografia oggettiva”, che fu successivamente mutato in “Sculture anonime. Confronti formali di costruzioni industriali” e che venne effettivamente realizzata. Sono anonime perché senza tempo: è indicata la data dello scatto ma non della costruzione la quale, spesso, sarebbe incerta se non impossibile rintracciare (come nel caso di grandi complessi industriali edificati in più fasi). La loro anonimità deriva da una decontestualizzazione che non è tanto fisica, quanto temporale, una sospensione del tempo che permette 1  Celant G., Fotografia maledetta e non, Feltrinelli, Milano, 2015, p. 224. 2  Bernhard und Hilla Becher, Anonym Skulpturen. Eine Typologie technischer Bauten [Bernd e Hilla Becher, sculture anonime. Una tipologia di costruzioni tecniche], Dusseldorf, 1970.

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di considerarle in senso assoluto e di scioglierne i legami. Così, se le costruzioni industriali fossero state fotografate nei loro aspetti quotidiani, con persone nell’atto del loro lavoro e da un punto di vista più basso, avrebbero stimolato la partecipazione e forse l’identificazione dello spettatore con l’immagine. Ma, adottando gli accorgimenti descritti precedentemente, volti a raggiungere un senso di oggettività, le forme, non solo sagome, ma il loro essere tridimensionali, emergono e possono essere giudicate e comparate fra loro. L’analisi delle singole parti costituenti si risolvono o nella costruzione di una tipologia, sintesi di una data forma, o nei paesaggi, sintesi della forma e dell’ambiente3. Ad amplificare l’idea di oggettivo, la serialità della presentazione delle opere diviene veramente congeniale, permettendo di lasciar da parte l’atteggiamento meditativo/poetico per sposare un maggior rigore quasi scientifico. In questo modo gli impianti industriali acquistano lo status di monumenti, che ben sanno caratterizzare un precisa epoca d’industrializzazione. L’obiettivo della coppia di fotografi (tanto nella vita, quanto nel lavoro), era di ottenere una nuova emancipazione artistica della fotografia; per gran parte della sua esistenza, la fotografia (ufficialmente nata nel 1839) non venne mai considerata una forma d’arte autonoma. Già in principio sorsero le prime polemiche sostenute dai pittori, e ancora oggi non è per niente semplice affermarne l’autonomia, come già visto nel capitolo precedente. Affermò Hilla Becher: “La fotografia ha potuto affermarsi nell’arte dopo la nascita dell’Arte Concettuale. Si fecero delle performance e si sperimentarono tutti i mezzi possibili. L’Arte Astratta aveva raggiunto la terza generazione di studenti ed era diventata un po’ noiosa, una cosa da

3  Grontert S., a cura di Lothar S., La Scuola di Düsseldorf: fotografia contemporanea tedesca, Johan & Levi, Milano, 2009, pp. 18-19.

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epigoni”4. La visione dei Becher è fondamentale in quanto con essi la fotografia giunge ad un inedito distacco dall’emotività che invece, fin dalla sua nascita, aveva ricercato. Personalità quali Cartier-Bresson, Ansel Adams o Eugéne Atget tentavano di conferire ai loro scatti un’anima, di far emergere nei loro soggetti un’emotività che li rendesse più vicini possibile ad un possibile concetto di arte, di scattare quando si allineano, soggetto, occhio e cuore5. Bernd e Hilla Becher rovesciarono questa mentalità, o ideologia, cercando di riportare il mezzo fotografico al valore originale di freddo ed impersonale testimone della realtà, documentando ciò che di più impersonale poteva esistere al tramonto degli anni Cinquanta: il mondo industriale. In altre parole, in quanto “testimoni”, adottarono la fotografia come sistema “assente” di registrazione, evitando ogni componente espressionista. Allo stesso tempo, il massimo grado di indifferenza, permise di sottolineare il massimo grado di decoratività del dato archeologico e del documento visuale6. Il Leone d’oro, secondo le stesse parole della giuria, fu conferito loro “per la particolare plasticità della loro opera fotografica”. I Becher guardarono agli impianti industriali come fossero sculture, proprio perché non evidenziavano le caratteristiche strutturali in quanto tali; era molto più importante la forma esterna dell’oggetto. Le tipologie erano create in base alla funzione e quindi articolate secondo le conformazioni che potevano assumere le quali, nella maggior parte dei casi, erano ridotte, come già detto, a silhouette disegnate su uno sfondo neutro. Da rilevare il fatto che fu la prima volta, nella storia della Biennale, che 4  Helga Meister, “Bernd und Hilla Becher: die Anfange, die Schuler” [Bernd e Hilla Becher: gli esordi, gli allievi], in Dusseldorf Avantgarden. Personlichkeiten, Begegnungen, Orte [Avanguardie, personalità, incontri, luoghi di Dusseldorf], a cura di Arbeitsgemeninschaft 28 Dusseldorfer Galerien, Dusseldorf 1995, p. 48. 5  Nota frase di H.C. Bresson che si inserisce all’interno del concetto di momento decisivo. 6  G. Celant, Op. Cit., p. 220.

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venne assegnato un premio a dei fotografi; ma, nonostante ciò, esso non ricevette un’attenzione sincera e fu prevalentemente considerata un’eccentricità. Il critico d’arte Gillo Dorfles, che era parte della commissione giudicante, difese la scelta di premiare i Becher, rispondendo alle critiche dicendo che fosse necessario abbattere le barriere fra le varie arti. Dopotutto, fu riconosciuto il fatto che le strutture fotografate erano equiparabili a sculture. Sculture anonime tuttavia, i cui autori erano sconosciuti o dimenticati, e i soli che potevano essere premiati erano coloro che li avevano fotografati. La loro influenza fu tale che, nel 1976, Bernd Becher divenne professore di fotografia artistica (il primo in un’accademia di belle arti tedesca) alla Kunstakademie di Dusseldorf, seguendo una classe di soli sei alunni (di cui ricordiamo i noti Candida Hofer, Axel Hutte, Thomas Struth, Thomas Ruff e Andreas Gursky). Un Leone D’oro conferito non tanto per un’eccentricità, per una novità sperimentale, quanto per una carriera che ha saputo rileggere il medium fotografico con un’attenzione ai meccanismi ed una sensibilità nuovi, affini al fare scultoreo.

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Una questione di peso

Che la scultura racconti di un mondo precario sembra quasi impossibile. Scultura è spesso indice di fortezza, solidità, tenacia, peso, poiché legata all’immaginario classico scultoreo, tra le cave di marmo e le fonderie di bronzo. Eppure scultura può essere anche l’opposto, totalmente. Quella “s” a inizio parola non vuole essere privativa, non vuole ledere un concetto puro e necessario (s-cultura), in questo momento le regole della grammatica non sono d’aiuto. L’opposto di scultura non è possibile comprenderlo ortograficamente, è necessario indagarlo osservando il significato peculiare di ciascun opera d’arte. Si scoprirà, così, la leggerezza della carta fotografica. Simone Menegoi, (1970, critico e curatore milanese) negli ultimi anni ha realizzato un’importante mostra - articolata in tre atti - intitolata “The Camera’s Blind Spot”, dedicata ad un tema che l’appassiona molto: il rapporto tra fotografia e scultura. Il progetto ha esordito al MAN di Nuoro nel 2013, e ha avuto un secondo episodio a Extra City Kunsthal di Anversa nel 2015. I primi due episodi cercavano di esplorare il rapporto fra fotografia e scultura in tutte le forme che esso può assumere nella contemporaneità: dalla possibilità di realizzare un’opera in tre dimensioni per poi presentarne solo un’immagine (un nome su tutti: Giuseppe Gabellone) alla possibilità di trasformare la fotografia in scultura vera e propria, associandola a materiali come il gesso, il cemento, il metallo. In ogni caso, l’accento cadeva sulla scultura; si trattava di un approccio scultoreo alla fotografia, e non viceversa. Il terzo episodio si concentra invece sulla fotografia, e tenta di trovare una poten41


La Camera. Sulla materialità della fotografia, Palazzo de’ Toschi, Bologna, veduta dell’allestimento.

zialità scultorea insita in essa, nei suoi materiali, nei suoi supporti, nelle sue tecniche. In tempi di fotografia digitale, un gesto in controtendenza. Tale mostra (che in questo capitolo utilizzerò come strumento e pretesto utile a considerare gli artisti presi da me in esame), si pone come una sfida nei confronti di ciò che costituisce sin dal principio il “blind spot” della tecnica fotografica, il suo limite: l’impossibilità di rendere un oggetto tridimensionale su una superficie piana.

1. Il limite Una riflessione sull’idea di limite, concetto cardine de “The Camera’s Blind Spot”, si potrebbe fare riguardo ciascun autore da me intervistato, in quanto la totalità dei lavori considerati si muove su un terreno asimmetrico, in cui la fotografia e la scultura sembrano una e l’altra cosa allo stesso tempo impedendo, a tutti gli effetti, il riconoscersi delle parti. In questo capitolo prenderò in esame una selezione degli esempi più efficaci. Innanzitutto, l’idea di limite si ritrova chiaramente nel lavoro artistico di Lorenzo Vitturi - nonostante non fosse presente tra gli autori in mostra. 42


S.C: Leggevo in un’intervista rilasciata su “Arte”: “La mia pratica è una continua lotta con la piattezza della fotografia. Sono al tempo stesso frustrato e affascinato dai limiti delle due dimensioni”. Quindi il limite, comunemente inteso come un freno, tu, all’opposto, lo vedi come un aspetto positivo della tua ricerca, come uno stimolo? L.V: Sì, è un limite che diventa stimolo. E’ una frustrazione che per me è essenziale, sono comunque attratto dalla bi-dimensione dell’immagine, però questa mi sprona ad esplorare altre discipline e renderle parte del processo. Quindi sì, il limite diventa proprio un invito ad altro. Vitturi, infatti, in Dalston Anatomy, procede attraverso la costruzione di sculture dichiaratamente materiche in cui le diverse parti (oggetti, alimenti, polveri…) testimoniano il lavoro del tempo sulla materia. In questo senso, il limite bidimensionale permette all’autore di compiere un salto concettuale verso la temporalità, principio già insito nel fare fotografico, il quale non sarebbe possibile attraverso la presentazione diretta dell’elemento scultoreo. L.V: […] io non faccio la scultura e poi la fotografo subito, come Thomas Demand che ricostruisce degli ambienti, mettendoci anche un mese e poi scatta. Io, al contrario, inizio a fotografare la scultura da zero, e nella serie di scatti, se vedessi le fotografie, ti renderesti conto dell’effettivo dialogo tra fotografia e scultura, proprio in un rapporto di simbiosi tra le due discipline. Il tempo, dunque. Il limite della tecnica fotografica, dichiarato precedentemente da Menegoi, si relaziona direttamente con il problema temporale e la percezione dello stesso. Fotografare una scultura nel corso di tre, quattro giorni (L. 43


Lorenzo Vitturi, Plastic Blue #1 & #2, dalla serie Dalston Anatomy, 2013.

Vitturi) o aspettare di produrre lo scatto per molte settimane (T.Demand), è indice di sensibilità differenti, che si incontrano nell’elemento tempo per divergere successivamente verso obiettivi specifici. Le sculture di Vitturi sono, inoltre, costituite da elementi spesso organici che ne influenzano la struttura e la scelta dello scatto. Un eccessivo deperimento della materia potrebbe non corrispondere alla volontà visiva del fotografo, per cui la temporalità diviene quasi unità di misura, vincolo, ma allo stesso tempo stimolo per la produzione artistica. L’approccio di Thomas Demand (1964, Monaco di Baviera), al contrario, testimonia la distanza dal riferimento di un mercato multietnico (da cui Vitturi ha preso spunto, in termini fisici e psicologici, per il proprio progetto), relegando gli scatti ad un immaginario più calmo, riflessivo ma non 44


sofisticato, rigoroso e pacato, in cui l’elemento temporale accompagna in sottofondo la produzione. Le sue sculture, dei veri e propri modellini di cui è impossibile stabilirne la grandezza a causa dell’assenza di riferimenti, sono sempre realizzate in carta o cartone, con tonalità pastello (o per lo più mai troppo contrastate) e stampate in grande formato. S.C: Perchè sceglie la carta per i suoi modelli, e non altri materiali? T.D: Perché è un materiale comune, che ha in sé molte connotazioni: un uso limitato nel tempo, è economica, fragile, molto conosciuta, tutti toccano la carta ogni giorno, più di una volta. Il fatto che Demand risponda citando l’elemento del tempo, risulta in questa sede estremamente interessante. Ad una attenta osservazione, la sua poetica ruota totalmente attorno alla carta: dopo la costruzione del modello, l’immagine finale sarà nuovamente cartacea, in quanto stampata, per cui limitata nel tempo, fragile, conosciuta. L’approssimarsi di una feticcia traslazione del supporto artistico, induce a pensare ad una sorta di sospensione temporale, arcaica e metafisica, specchio del contenuto dell’immagine o, se si vuole, pura coincidenza. Questo circolo virtuoso (che si muove in direzione opposta ad uno vizioso), impedisce il definirsi dell’autoreferenzialità, promuove la riconoscibilità di un limite e, in definitiva, l’accoglienza di una sfida. Non potendo risolvere una presunta vittoria o sconfitta, tale sfida sembra esprimersi attraverso la volontà dell’autore nel mostrare (che sfumerei con mormorare, suggerire o sussurrare), talvolta, minime imprecisioni nella costruzione del set: un angolo non perfettamente piegato, un grumo di colla là in fondo, il tavolo che rivela un lavoro di forbici e righello, etc. Proponendo questa riflessione direttamente all’artista in questione egli, con un’irriverenza tutta sua (che emergerà spesso nel corso dell’intervista), 45


Thomad Demand, Control Room, 2011.

mi risponde: [‌] Le imperfezioni permettono alla mente di lavorare. Le perfezioni fanno arrabbiare gli dei. Non essendo chiaro se egli reputi se stesso un servo terreno o, al contrario, collega stretto di quei tali, rimane la volontà di porre delle questioni. Il fatto che l’imperfezione permetta alla mente di lavorare, legittima e dichiara il distinguo dei medium (fotografia e scultura) ponendoli all’interno della questione saussuriana del referente. S.C: Quali sono, secondo lei, le differenze tra vedere una scultura e la sua rappresentazione?

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T.D: Non capisco perché sia così difficile dimenticarsi che l’immagine di qualcosa non è la cosa in sè. La cosa in sé non c’è nelle mie immagini, è la sua rappresentazione, che è anche e nuovamente la rappresentazione di qualcos’altro. Non a caso, tra le influenze dell’artista, vi è dichiaratamente Magritte. Il cortocircuito della sua arcinota pipa (L’inganno delle immagini, 1928-29) viene ripreso ora da Demand in termini fotografici, ed ancora prima da J. Kosuth (Una e tre sedie, 1965) in termini installativi. Tuttavia, ciò che ancora oggi li accomuna, è la volontà di sondare il limite. Allo stesso modo, anche in Rivetti emerge una questione limitante: F.R: […] anche solo il fatto che la fotografia sia frontale, non ha vie di fuga, è quella e basta. Alcuni la possono trovare limitante, io la trovo, forse, stoica, non ci puoi girare attorno, la vedi forzatamente in modo frontale. L’idea chiave è dunque che la bidimensionalità dell’immagine fotografica abbia una sua forza, costringa l’osservatore a vedere ciò che sta sulla superficie perché è quella, concretamente, la sede dell’informazione significante. La si può cogliere con un solo colpo d’occhio – ma allora rimane superficiale – oppure lasciando vagare lo sguardo a tentoni sulla superficie, in un’operazione di scanning1. Osservando le fotografie di Rivetti all’interno della mostra in Viasaterna, a sostegno della forza del limite bidimensionale, pensavo a dove potessero trovarsi in quel momento le sculture. Vedere una riproduzione cela la reale essenza della cosa, ne trasmuta l’aurea magica proponendo una visione personale, ma parziale, che differisce totalmente dall’osservare concretamente la scultura in sé, su un piedistallo. 1  Flusser V., Per una filosofia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano, 2006, p. 3.

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Essa potrebbe essere ancora nello studio dell’artista, o non esistere già più. E, non esistendo, l’immagine fotografica diviene memoria, urna e baccello di un’esistenza esclusivamente immaginifica, per lo spettatore. Allo stesso tempo, un’ulteriore lettura potrebbe essere rappresentata dalla volontà dell’artista di impedire a chi guarda l’accesso totale all’oggetto intimo, costruito con dedizione e silenzio nel proprio studio. L’immagine dà accesso ad una minima porzione della gestualità dell’artista, la quale potrebbe esprimersi appieno solo dinnanzi l’oggetto concreto. Eppure, la fotografia riesce a restituire un ambiente ed un’atmosfera privati, dal sapore di magico. L’approccio di Erin O’Keefe (1962, New York), al contrario di Rivetti la cui formazione è stata prettamente fotografica, è direttamente ereditato dall’architettura, suo ambito di studio e di lavoro; con essa la fotografia diventa un tutt’uno, generando un nuovo oggetto dotato di senso autonomo. S.C: Da dove proviene il tuo interesse per la percezione dello spazio? E.O: Penso che l’interesse nello spazio e nella capacità della fotografia di distorcerlo ed appiattirlo, è qualcosa che provenga direttamente dalla mia formazione di architetto. C’era sempre un’enorme differenza tra lo spazio e l’immagine dello spazio, e sfruttare quella distanza percettiva era per me davvero stimolante. Le sue composizioni di oggetti colorati provengono esplicitamente dalle molteplici suggestioni minimaliste degli anni sessanta (l’artista cita, fra gli altri, James Turrel e Fred Sandback), con un modo di fare tipicamente americano. Nei suoi scatti sembra esserci, talvolta, la volontà di fare del limite uno strumento per nascondere la tridimensione. In altre parole,

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Erin O’Keefe, dalla serie Things As They Are, 2015.

laddove la fotografia avrebbe potuto mostrare l’esistenza della profondità, ecco che la composizione si appiattisce, disorientando lo sguardo che tenta la ricerca di un disperato punto di riferimento. Gli elementi scultorei (rettangoli, bacchette e quinte di cartone) che sembrano apparire in prospettiva, dopo una rapida scansione dell’immagine tradiscono la loro posizione diventando elementi quasi virtuali, le cui materie si sovrappongono, si scambiano per poi tornare nella propria sede. Un andirivieni di forze possibili esclusivamente se osservate dalla frontalità dell’immagine, così come diceva prima Rivetti. Dopotutto, sono le stesse parole di O’Keefe a confermare questa visione:

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[…] la mia speranza è che diventino spazialmente incoerenti, cadano un po’ a pezzi, così come accade per il cubismo e per la pittura purista. Obbligando la visione in un certo modo, il limite della bidimensione assume forza e significato all’interno della stampa fotografica, processo che risulterebbe altrimenti impossibile dinnanzi alla scultura fisica. Se per Ives Maes, autore facente parte della mostra in questione, il limite costituisce un elemento che impedisce di distinguere i due medium2, per Paolo Ventura esso diviene strumento per allargare i confini, espandendo gli orizzonti di senso di un mondo immaginario ed estremamente personale3. S.C: Spesso torna nel tuo lavoro l’idea di limite: i limiti dello spazio nella costruzione della scena, i limiti del tempo (sospeso, un po’ metafisico) e della fotografia in sé, intesa come un limite in quanto obbliga a fotografare quello che si vede, a lavorare sulla realtà. Quindi il limite, nel tuo lavoro, è inteso come un aspetto positivo di ricerca? P.V: Il limite è una cosa che uno sposta dove vuole. Puoi darti dei limiti più o meno ampi. La fotografia in sè è un limite perchè lavori con un oggetto meccanico che contiene quello che fai dentro di sé, e non te lo lascia vedere subito, una volta dovevi anche estrarlo fisicamente. Poi ti limita perchè devi fotografare quello che c’è, se no lo disegneresti, ma questo limite lo puoi spostare ricostruendo quello che fotografi. Ventura rintraccia nella fisicità della macchina fotografica un primo 2  Cfr. p. 28 del presente volume. 3  Cfr. p. 21 del presente volume.

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germe di limite, un contenitore non immediatamente accessibile. Ed effettivamente, al contrario del pennello (o dello scalpello), nel meccanismo tecnologico rimane custodita l’immagine finché il gesto umano non la riporta alla luce (che sia attraverso lo sviluppo chimico o la connessione usb). Letta in quest’ottica, la fotografia sarà sempre limitante in partenza, a meno che non si consideri concluso il discorso artistico non appena aver scattato, eliminando la necessità di mostrare l’immagine all’esterno. Ora come ora, questa risulterebbe essere l’unica soluzione per non considerare limitante il limite fisico dell’oggetto meccanico. L’altra questione posta da Ventura verte sull’arginamento delle possibilità espressive della fotografia a causa del lavoro forzato sulla realtà. Ciò che permette di superare questa tensione di intenti, secondo l’artista, è l’invenzione di mondi propri, interiori ed immaginari, che si concretizzano attraverso la costruzione di scenografie ed oggetti, vere e proprie sculture che successivamente vengono fotografate. Se si pensa a Short Stories (2013-2015), i fondali e le quinte che permettono ai personaggi di sparire, rimandano a fantasie surreali, ben lontane dalla realtà. Allo stesso modo, in Iraq (2008) o Lo Zuavo Scomparso (2012), i manichini costruiti dall’artista e i relativi scenari urbani contribuiscono ad esprimere la poetica dello spostare il limite dove si vuole. Nonostante tutto, a rigor di logica, anche le sculture di Ventura, tanto i personaggi quanto i paesaggi urbani, appartengono ontologicamente al concetto di realtà. L’artista li crea, quindi esistono, ci sono, stanno nella realtà. Sorgono dall’immaginario creativo e libero dell’autore, ma poi trovano il loro posto nuovamente nella realtà, così come tutto il resto. Ecco perché tale atteggiamento artistico rimane una modalità per spostare il limite un poco più avanti, come afferma Ventura, fallendo in un ipotetico tentativo di sbarazzarsene, o di superalo. Il “blind spot” della tecnica fotografica, l’impossibilità di rendere un oggetto tridimensionale su una superficie piana, il limite che si è visto 51


Paolo Ventura, dalla serie Lo Zuavo Scomparso, 2012.

espresso negli artisti citati, frustra ma allo stesso tempo pungola la loro sensibilità: essi non trovano nuovi espedienti in termini di surrogati, compensazioni o compromessi, quanto piuttosto di novità, sperimentazioni e tentativi.

2. Evocare Nell’esplorare le relazioni tra scultura e fotografia, “The Camera’s Blind Spot” ribadisce l’importanza di un approccio interdisciplinare alla ricerca, pur riconoscendo alla trattazione di questioni specifiche - i linguaggi 52


dell’arte - un’importanza generale. Attraverso una serie di esempi recenti, il progetto suggerisce un’idea dell’arte come possibile espressione di un tutto articolato, di una complessità che non corrisponde alla semplice somma delle parti che la compongono. Da qui il tentativo di studiare i rapporti di complementarità e di interazione tra due discipline apparentemente distanti tra loro, interrogandosi sui possibili elementi comuni, le analogie e sulle rispettive specificità, accettando, come premessa, l’inevitabilità di una conoscenza approssimativa della fitta rete di rapporti interni ed esterni all’opera d’arte4. S.C: Però anche l’immagine in sè, a livello di stampa, si può intendere come limitata. P.V: Sì certo, però il foglio evoca degli spazi più ampi. Quello che a me interessa è costruire ed evocare un mondo che si ha intorno a questo oggetto, funzionale alla fotografia. Che dopo l’oggetto in sè assuma una sua forza ed una sua caratteristica è un altro discorso, però è secondario rispetto alla fotografia. Un altro aspetto che emerge dalle interviste condotte con gli artisti, è l’idea dell’immagine fotografica come fonte evocativa di mondi e spazi nuovi. Personalmente, lo trovo estremamente vicino alla mia sensibilità e modalità di percepire le fotografie in cui l’elemento scultoreo è prevalente. Ed in questo Paolo Ventura continua ad essere fonte d’ispirazione per proseguire le riflessioni. Innanzitutto egli vede nella riproduzione bidimensionale la forza – o il limite, come si diceva prima – del pensiero creativo che si attiva nello spettatore, il quale davanti ad un’immagine non può stare indifferente. Quando decifriamo un’immagine, dobbiamo tener conto del suo carattere magico.

4  Menegoi S., Op. Cit., p. 8.

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E’ dunque sbagliato voler vedere nelle immagini “eventi congelati”. Esse, anzi, sostituiscono gli eventi con stati di cose e li traducono in scene. Il potere magico delle immagini risiede nella loro qualità di superficie, e la loro intrinseca dialettica, la loro contraddizione va vista alla luce di questa magia. Le immagini sono mediazioni fra il mondo e l’uomo5 e, in quanto tali, non bisogna considerarle come la cosa, ma come riproduzione (dello stesso parere era risultato precedentemente T. Demand)6. Proprio questo scarto di percezione fa emergere la dimensione magica, la stessa forza per cui l’uomo, ad esempio, guarda i film: se le immagini non avessero magia, nessuno si metterebbe davanti ad uno schermo per osservare una narrazione. La stessa modalità vale per il teatro: S.C: Quindi, nel tuo modo di lavorare, che differenza trovi tra il presentare direttamente una scultura e, al contrario, la sua immagine fotografica? F.R: Definendolo scherzosamente, il mio a tratti cerca di essere un linguaggio ad ideogrammi. Ho cercato di allestire delle scene, teatro di un vissuto all’interno di un set, in qualche modo mi riporta allo spazio magico del teatro. Il teatro è sempre stato uno spazio magico, in cui le cose sono tra la realtà e la fantasia. Ma tutto oggettivamente vero. Questa cosa mi è sembrata sempre stupenda. Osservando le immagini di Rivetti, ciascuno può trovarci all’interno la propria storia. Aggiungerei, dunque, che si tratta sì di un linguaggio ad ideogrammi, ma aperto. Esse non comunicano attraverso il suono della parola, ma attraverso l’idea che rappresentano. Essendo esenti da un determinato codice, le immagini restano diffuse, talmente permeabili al nuovo che vivono del continuo riciclo di pensieri che gli osservatori rivolgono 5  Flusser V., Op. Cit., p. 5. 6  Cfr. p. del presente volume.

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Francesca Rivetti, Black Glove dalla serie I Want To Talk With Seymour Too, 2016, stampa inkjet su Baryta, 45x30cm.

loro. Spostando momentaneamente l’attenzione verso ciascun autore considerato in questa tesi, gli elementi di ogni fotografia costituiscono storie e suggestioni che sorgono dall’individuale connessione dei diversi elementi. Così, i corpi di Csilla Klenyànszki raccontano di un possibile dialogo tra l’oggetto e l’uomo, o forse la donna rappresentata assume la dimensione propria di un oggetto. Paolo Ventura ha fatto suo l’atteggiamento dei cantastorie, ricostruendo dei veri e propri palchi che rispecchiano lo spazio magico del teatro di cui parlava recentemente Rivetti. Anche le sfere in titanio di Ives Maes hanno in sé una magia squisitamente scolpita, ripor55


tando alla mente dei paesaggi che sono stati in qualche luogo, in buona sostanza assimilabili agli ambienti di Thomas Demand, immobili e silenziosi. S.C: L’idea dello spazio magico di cui parli la condivido appieno, di fronte alle tue immagini percepisco la medesima cosa. Quindi la scultura è fondamentale, ma è solo il punto di partenza. F.R: E’ estremamente importante, è la cosa che per me in quel momento esprime ciò che avevo in mente. La fotografia è funzionale a come voglio trasmettere quella scultura, la percezione che voglio attribuirgli. La fotografia ha quel potere. […] Poi un’immagine vive meno con il resto, poiché riporta un’atmosfera che è stata in un altro ambiente, è meno contagiabile. In questo caso, quello che io volevo, è che la persona si trovasse frontale a queste mie sculture create in un ambiente per me magico. E’ esattamente come l’idea del teatro, o di alcuni luoghi che sono deputati ad avere la possibilità di mischiare diversi elementi in modo unico, sia la realtà che la fantasia. Questa relazione mi è sempre interessata. Dalla riflessione di Rivetti emerge l’idea dell’altrove. La macchina fotografica è il medium più adatto perché si trasporti l’atmosfera, vissuta nello studio, verso l’esterno. In un certo senso, si tratta di prelevare gli oggetti dal loro contesto, così che possano essere reinvestiti in sé e per sé di una forza estetica7 posizionandosi all’interno di un nuovo spazio. La scenografia del teatro si riduce a fondale, gli attori entrano in scena in un silenzio che avvolge l’intera mostra; della scultura rimane solo il ricordo. Una delle maggiori attrattive dell’immagine riguarda la sua ambivalenza. Essa registra senza inventare nulla, ma sottomette tutto quello che capta

7  Krauss R., Op. Cit., p. 53.

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alla norma della sua ottica. Rivelando mondi altrimenti inaccessibili, moltiplicando le copie dell’universo circostante, essa sposta, trasforma tutto quello che offre allo sguardo8. Lo stesso atteggiamento è stato utilizzato da Vitturi in Dalston Anatomy: egli, infatti, ha raccolto diversi oggetti dal mercato londinese, spostandoli fisicamente dalla loro sede verso il proprio studio, trasformandoli e rileggendone le forme in relazione tra loro stessi, con lo spazio e con i ritratti. A questo punto, le parole di Feuerbach messe da Guy Debord a esergo della Società dello spettacolo, si incontrano perfettamente con il pensiero di Vitturi. Diceva il filosofo: “E senza dubbio il nostro tempo…preferisce l’immagine alla cosa, la rappresentazione alla realtà, l’apparenza all’essere”9. Un’affermazione estremamente contemporanea, che si inserisce in un discorso d’ibridazione, in cui si cela una parte (la scultura) a favore della sua immagine. Durante l’intervista, dicevo, la medesima idea emerge con Vitturi: […] una forma illusoria che da l’idea di una scultura ma in qualche modo è un ibrido tra un l’elemento bidimensionale e una forma tridimensionale, anche a livello concettuale, qualcosa che appare in un certo modo e in realtà è un altro. E mi sembra anche rappresentativo del nostro tempo, del valore che diamo all’apparenza, che in ogni campo è molto importante. Contestualizzando questa riflessione, la premessa sta nella formazione di Vitturi, inizialmente scenografo per Cinecittà in Roma, lavoro in cui le forme e gli spazi devono apparire tridimensionali e realistici, quando invece si tratta di vere e proprie illusioni. L’evocare rientra anche nel fare artistico di Paola Pasquaretta, che incontro su Skype alla vigilia del primo giorno d’inverno. Subito si scusa 8  Sorlin P., Op. Cit., p. XIX. 9  Menegoi S., Op. Cit., p. 22.

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nel caso, rispondendo alle mie domande, fosse andata fuori tema, ma tra il fuoco del camino da ravvivare ed un cagnolino che a tratti si fa notare, l’intervista scivola benone, e l’ora di chiacchierata passa senza che ce ne accorgessimo. Paola parla in modo semplice e spontaneo, a volte il modo in cui spiega certi concetti mi fa sorridere, come quando tentava di mimarmi con le braccia i movimenti di una fresa meccanica utilizzata per una sua scultura, peraltro riuscendo nell’intento. Pochi giorni prima dell’intervista arriva la notizia della vincita del Premio Francesco Fabbri 2016, sezione Arte Emergente, ed è da lì che iniziamo. Dopo averne discusso ampiamente, il mio interesse si focalizza su un altro suo lavoro (Volcano 01, Volcano 02) le cui immagini fotografiche rappresentano della normalissima schiuma di sapone modellata a mo’ di vulcani. S.C: Però, trasportando la realtà fisicamente sulla stampa, oltre a diventare qualcos’altro, restituisce delle sensazioni totalmente diverse. Anche qui c’è un ulteriore scarto. P.P: […] è un po’ la rappresentazione dell’idea del vulcano, l’immaginario del vulcano è per tutti diverso, […] con la fotografia vedi il vulcano come quando sei piccolo forse, o come un’illustrazione. Pasquaretta mette in evidenza un aspetto non ancora emerso all’interno degli altri artisti, ossia il concetto di idea. Raffigurare in modo scultoreo un vulcano attraverso altri materiali, astraendone la forma perché divenga universale, permette alla fotografia di divenire il medium privilegiato per un’analisi diffusa di ciò che significa essere un vulcano. Tale atteggiamento si configura, sostanzialmente, come ironico e spontaneo, ma sottende una grande modalità (o espediente) perché il pensiero dell’osservatore possa costruirsi in modo creativo ed esclusivamente personale.

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Paola Pasquaretta, Vulcano 01, 2014, stampa inkjet, 49 x 35 cm

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Paola Pasquaretta, Vulcano 02, 2014, stampa inkjet, 49 x 35 cm

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S.C: Perché ti permette di mettere in gioco l’elemento della fantasia in chi guarda, si aprono altri mondi. P.P: E’ anche un po’ giocosa come cosa, perché mi immagino una persona che la vede. Il vulcano con la schiuma è un’immagine molto seria, anche la struttura è esteticamente grigia, però il tutto è molto giocoso. Tu ti immagini la persona che sta lì con le mani nel sapone a far come per le bolle di sapone. Tutto il lavoro è nato mentre mi stavo facendo la doccia, quindi è anche molto divertente come cosa. Per quello adesso, parlando, pensavo all’illustrazione che può essere anche molto seria - penso a quelle dei vulcani giapponesi - però anche molto libera e personale. Un riferimento chiaro si dirige, dunque, verso ciò che Pierre Sorlin chiama immagine sintetica. Si prenda in esame, ad esempio, l’illustrazione del Massacro degli Armeni ad opera dei Turchi: essa non mira a restituire esattamente i contorni di un oggetto o i dettagli di una scena, quanto a offrirne una rappresentazione coerente che ne colga l’idea senza necessariamente essere concreta. La sintesi dei fatti (ne avvengono diversi in una stessa scena, su livelli differenti) non solo è dinamica, ma anche simbolica. Accumula gli attributi di un oggetto o di una persona, facendo dell’effigie di Luigi XIV, l’immagine stessa della maestà regale. Da notare, infine, come questo disegno venne fatto in un periodo in cui la fotografia era ormai abbondantemente diffusa ma, a quanto pare, la stessa scena fotografata avrebbe avuto un significato diverso10. P.P: E’ anche immateriale, come lo è la schiuma. Forse anche il fatto di tenere un fondo così chiaro, di fare delle immagini quasi monocrome, è in relazione a questa idea, cioè che appunto l’immaginario del vulcano non è il 10  Cfr. Sorlin P., Op. Cit., pp. X-XII.

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Massacro degli Armeni ad opera dei Turchi (Anonimo, 1895)

vulcano stesso, e non è neanche una rappresentazione fisica o un modellino come gli altri che ho fatto. Inoltre, il fatto che l’artista abbia proposto due immagini, creando in questo modo un dittico, suggerisce di prendere le distanze dall’idea che esista una sola forma di vulcano; esse raccontano l’esistenza di più forme e dimensioni, costruendo un circuito aperto all’interno dell’opera. Continua Pasquaretta: Forse proprio in quest’idea c’è la forza della fotografia che può dare sensazioni che in altro modo non potresti avere: ti immagini l’idea di vulcano, mentre se vedi un vulcano, vedi un vulcano. Se vedi la scultura del vulcano ti 62


immagini altre cose, magari pensi al fatto che potrebbero sembrare delle isole, ti chiedi come sono fatti, se si tratta di una sezione, etc. Riprendendo le parole di Vilèm Flusser, è possibile affermare che le fotografie prese in esame in questo capitolo non sono finestre, ma immagini, ovvero superfici che traducono tutto in stati di cose; che hanno, come tutte le immagini, un effetto magico; e che inducono i loro destinatari a proiettare questa magia non decifrata sul mondo là fuori. Si può osservare ovunque il fascino magico delle immagini tecniche: possiamo vedere come esse carichino la vita di magia, come noi stessi viviamo, conosciamo, valutiamo e agiamo in funzione di queste immagini11. F.R: […] io credo che in alcuni casi l’immagine fotografica, in generale, abbia una potenza, soprattutto in questo periodo storico, molto superiore di quella che noi giudichiamo. L’occhio dell’uomo contemporaneo si è ormai abituato a vedere fotografie, talvolta le sovrappone alla realtà, altre volte non ci crede affatto. Il codice digitale permette di passare informazioni che in altri modi sarebbero impossibili, evocando pensieri o comunicando attraverso un linguaggio ben diretto. L’immagine fotografica, regolata da codici modificabili, non ha una struttura prestabilita né un formato specifico e comporta un potenziale indefinito di attualizzazioni, molte delle quali non saranno mai attualizzate. Essa è, insomma, sostanzialmente impalpabile, nella sua costruzione come nella sua esecuzione, e proprio per questo trascende la semplice interattività12. Questo significa che produrre un’immagine fotografica dovrebbe essere un’attività che pone delle questioni, non necessariamente consapevole fino in fondo ma, quantomeno, con un’intenziona11  Flusser V., Op. Cit., pp. 15-16. 12  Sorlin P., Op. Cit., p. XXII.

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Csilla Klenyànszki, Watercolor, dalla serie Water studies.

lità abbastanza sofferta.

3. L’abitudine di un punto di vista Riprendendo le parole di Lorenzo Giusti in merito alla mostra con cui si è aperto questo capitolo, e che continua a guidare la riflessione, è sempre più diffusa l’abitudine a realizzare lavori tridimensionali dei più vari materiali. Oppure a utilizzare oggetti, non tanto per essere esposti come 64


sculture, quanto per essere esclusivamente fotografati e quindi riproposti attraverso la propria immagine bidimensionale. Un’alterazione dei valori tradizionali della scultura – solidità, durata, persistenza, monumentalità – a cui rimanda anche il tentativo inverso di materializzazione dell’immagine fotografica, spinta in alcuni casi a tal punto da diventare essa stessa scultura attraverso l’utilizzo costruttivo di stampe, oppure tramite il suo accostamento a materiali solidi, come il legno, la pietra, il cemento13. Come considerare il concetto di abitudine appena espresso sopra da Giusti? In un primo momento esso spaventa, o quanto meno pone in allerta; abituarsi è spesso ritenuto un atteggiamento negativo, che frena una possibile spinta innovativa. Il reiterarsi di una medesima espressione artistica, o il diffondersi di una pratica sempre più democratica, sembrerebbe non essere giudicata in alcun modo, sia esso positivo o negativo, dal direttore artistico della suddetta mostra. Egli la cita evitando la preoccupazione del considerare il peso che può avere un termine del genere, quasi affine al campo semantico della moda. Per Giusti l’abitudine è un dato di fatto, ne prende atto; una precisazione, dunque, andrebbe in questa sede fatta per sgombrare il campo da equivochi. L’abituarsi di cui si parla (nonostante sia chiaro esso occupi una lievissima parte dell’intero discorso) considera una minima parte degli autori nel panorama contemporaneo. Esso può essere individuato come una ricerca poetica, in cui la scelta degli artisti contemporanei diviene un tentativo di dare alla dimensione ottica della scultura un privilegio assoluto. In altri termini: se il punto di vista è cosi cruciale per la scultura, perché infine non farne il protagonista unico? Perché non sbarazzarsi della scultura stessa? Liquidato l’oggetto, resta il punto di vista: la sua fotografia14. Intervistando gli artisti, l’idea di considerare il punto di vista in quanto scarto rispetto all’esibizione dell’oggetto in sé, è emersa più volte. Ad 13  Menegoi S., Op. Cit., pp. 9-10 . 14  Ivi., p. 19.

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esempio, Csilla Klenyànszki (1986, Budapest), motivando la scelta di presentare un’immagine rispetto alla scultura in carne ed ossa, afferma: c’è una grandissima differenza tra l’installazione, che viene fatta per un’immagine e tra una scultura site-specific, tridimensionale; la fotografia mostra solo una piccola porzione, il fotografo può decidere cosa vuole mostrare; appena l’installazione diventa pubblica, questo potere è perso, perché lo spettatore può vederla da tutti gli angoli, etc. Le fotografie di Csilla mi hanno subito colpito quando ne incontrai alcune, per caso, su Internet. Approfondendo la ricerca riuscii a rintracciarne l’autore, scoprii un corpus ben chiaro di immagini riconducibili ad uno stille esclusivamente Europeo. Colori delicati, composizioni di ampio respiro, semplici ma efficaci, scatti da sfogliare senza far rumore. Precarietà e sicurezza sembrano incontrarsi in un inusuale dialogo, in un ossimoro visivo concettualmente molto stimolante. Lavori come Two of a kind e Watercolor, ad esempio, mostrano quelle strutture di sostegno, scheletri fai da te che Rivetti, al contrario, diceva di voler nascondere nell’ottica di sostenere le sue onde di plastica. F.R: […] Mentre costruivo delle onde, tentando di modellare letteralmente con la plastica, costruivo dietro dei sostegni che, come immaginerai, erano delicatissimi, una struttura nascosta che riuscisse a tenere la plastica come la volevo io ma senza renderla eccessivamente rigida. Da una parte, dunque, si svela un meccanismo che dall’altra rimane celato. Le cannucce di connessione della Klenyànszki sono mostrate e diventano parte stessa del processo, così come congiunzioni in sughero o sostegni che permettono la riuscita dell’esperimento. Utilizzando le parole della Krauss, la Klenyànszki (così come gli altri) 66


seleziona frammenti di mondo attraverso l’obiettivo della macchina fotografica a seconda che scatti o no la foto15, estraendoli dalla realtà, liberando l’oggetto dalla sua guaina. Rivetti, tuttavia, riesce a descrivere meglio l’intenzione del punto di vista, aggiungendo dei significati in riferimento a ciò che trasmette tale approccio: […] io volevo che la scultura si vedesse così come volevo io. Quando prima mi chiedevi perchè non mostrassi la scultura, è perchè tu la veda come la intendo io, non come la vuoi tu. Poi chiaro che ognuno ne dà una propria lettura. Come già riportato nel precedente capitolo, Rivetti considera il punto di vista come necessario perché la magia possa essere trasmessa a partire dalla bidimensione. Essendo esso un elemento fondamentale del fare fotografico, nonché sua evidente caratteristica funzionale, l’artista lo riconosce come strumento espressivo. Rivetti fa del limite frontale ed esclusivo una modalità dal valore positivo e personale. A tale proposito, in un’ideale conversazione a più voci, Paolo Ventura propone la propria visione: […] Lavorare con la realtà ti limita: se vai in giro, quello che vedi lo puoi fotografare secondo il tuo punto di vista, ma rimarrà comunque qualcosa che tu non puoi modificare. Al contrario, puoi costruire un ambiente come vuoi tu. Ventura, nuovamente, insiste sul concetto del mondo immaginario come perfetta via d’uscita di fronte al limite. In effetti, come dirà più avanti Pasquaretta16, il documentatore della realtà riporta qualcosa che già si trova in un dato luogo, ed è qualcosa di molto diverso rispetto al suo modo di lavorare. Nonostante Ventura, a maggior ragione negli scatti in cui rico15  Krauss R., Op. Cit., p.54. 16  Cfr. p. 82 del presente volume.

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Erin O’Keefe, dalla serie Natural Disasters.

struisce mondi fantastici, abbia il vincolo del punto di vista, quest’ultimo, concettualmente, sparisce. O meglio, in questo caso parlerei di evanescenza in cui, dinnanzi all’immagine fotografica, non ci si rende conto della progressiva attenuazione, tesa a divenire indistinta ed inafferrabile, di un limite dato dall’apparecchio fotografico. L’atmosfera e la forza dei contenuti dello scatto sono tali, in Ventura, da fungere da traghetto per la mente, per il suo sguardo e pensiero. Per Erin O’Keefe, considerare il punto di vista fotografico è estremamente importante; oltre ad essere stimolo di riflessione, esso si pone come punto di partenza per la costruzione dello scatto. 68


E.O: Il mio è un processo molto aperto e reattivo, in modo particolare per la mia ultima serie. Di solito costruisco, dipingo e organizzo i pezzi provando a trovare un momento dove le immagini si comportano in un particolare modo per l’obiettivo. Fotografare una scultura, per Erin O’Keefe, significa innanzitutto cura della lente. Il momento in cui gli elementi che costituiscono la composizione appaiono interessanti agli occhi dell’artista, ecco che lo scatto acquisisce senso e valore. Un atteggiamento simile, dunque, ai pittori rinascimentali intenti nel riproporre su tela una prospettiva che spesso si presentava ingannevole, ma verosimile. Non a caso, O’Keefe dichiara che tra i propri artisti di riferimento fanno parte, tra gli altri, Giotto, Fra Angelico e Masaccio. Lorenzo Vitturi opera in un modo simile, con una sfumatura leggermente diversa. Dichiara l’artista: Sono sempre le sculture che esistono e vengono costruite avendo un punto di vista ben preciso, e questa è un’altra cosa che a me interessa molto: come il punto di vista condiziona il crearsi di una forma tridimensionale. Quando è arrivata a compimento, la scoperta della fotografia ha anche rappresentato un modo saliente per dare conto della moderna percezione del mondo dominata dal frammento: essa infatti cattura momenti temporali e punti di vista spaziali destinati a sparire17. Coerentemente al lavoro del tempo sulla materia, Vitturi individua nel punto di vista l’inizio di un’immagine fotografica, nonché sua continua trasformazione. Gli

17  Vettese A., Op. Cit., p.121.

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Lorenzo Vitturi, Droste Effect, Debris and Other Problems, vista dell’installazione in Viasaterna, Milano 2016.

elementi precari delle sculture di Dalston Anatomy fanno della fotografia lo strumento per indagare come esse occupino lo spazio, come varino nel tempo nel solco di una ricerca indirizzata verso nuove forme espressive. L.V: […] se vedi in Viasaterna, la palette era completamente diversa, a seconda del progetto la cambio, non voglio fissarmi su colore che diventa quasi uno stile, mi piace a seconda del lavoro cambiare totalmente le cromie. Infatti, il lavoro Droste Effect, Debris and Other Problems è molto meno ispirato all’idea di frammento e incontro di materie. Nonostante ciò, esso mantiene l’impronta scultorea in una maniera più delicata e meno espressionista nella gestualità.

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Francesca Rivetti, Black Wave #1, dalla serie I Want To Talk With Seymour Too, 2016, stampa inkjet su Baryta, 110x164cm.

Per concludere, tornerei sulle parole di Rivetti anticipate da quelle del poeta inglese Robert Browing, il quale faceva notare che una leggera deviazione, una sostituzione di lente bastano a far sì che l’erba il verme o la mosca assumano dimensioni straordinarie18. S.C: Tra l’altro, pensando a Black Wave #1, la fotografia ti ha permesso di cambiare scala, di rileggere le dimensioni della scultura creando un nuovo spazio. F.R: Assolutamente sì, anche se in realtà quelle onde non sono così piccole come potresti immaginare.

18  Sorlin P., Op. Cit., p. XIX.

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La scala pone il dubbio della cosa, l’assenza di riferimenti permette di ingigantire un sacchetto di plastica dieci volte, rendendo letteralmente impossibile un percorso a ritroso nell’obiettivo di individuare la grandezza reale dell’oggetto rappresentato. In seguito all’abitudine del punto di vista, non bisogna dimenticare come esso venga tradotto sulla stampa, considerando grandezze, cornici e spazio. La lente, elemento di riflessione il più delle volte sottovalutato, possiede una forza tale da permettere ad una scultura di apparire ogni volta differente. In connessione all’utilizzo consapevole della luce, in grado di variare la percezione delle forme in maniera estrema, il punto di vista permette di veicolare l’immagine dell’oggetto senza possibilità di fuga. Non solo una conseguenza diretta del mezzo dunque, ma anche, e soprattutto, consapevole scelta espressiva.

4. La certificazione del reale Il titolo di questo capitolo promette - e premette senza permetterne la veridicità – la possibilità di trasportare il dato reale su un nuovo supporto differente da quello su cui normalmente vive, ossia l’esperienza personale. Certificare il reale non vuole essere una verità: è per questo motivo che sento la necessità, per un attimo, di prenderne le distanze. Tuttavia, tale argomento è stato inserito poiché spontaneamente emerso nel corso delle interviste. A mio parere, tutto dipende dal presupposto cui si parte: è necessario mettere in discussione l’esistenza del reale? Le riflessioni qui di seguito si muovono tra i campi del poetico e dell’immaginario. Da sempre alla fotografia è stato attribuito un qualcosa di reale, ca72


ratteristica che ha contribuito ad amplificare la confusione che tutt’ora esiste su questa tematica e che, d’altra parte, è già stata sufficientemente sondata da semiotici ed esteti (si pensi ad U. Eco, De Saussure, R.Krauss che tra gli anni Settanta ed Ottanta hanno affrontato il tema dell’indicalità fotografica). Allo stesso modo di un’immagine di un defunto baciata con commozione, o di un turista sotto alla Tour Eiffel, la fotografia trasmette differenti sensazioni ed estrema fiducia. Essa, soprattutto con il digitale, aderisce sempre più alla realtà, così come le calze contenitive si avvicinano alla pelle cercando di scomparirvi all’interno; quella rimane sempre una fotografia, l’altra sempre una calza. Entrambe aderiscono, si confondono, ma falliscono nell’intento di sostituirsi all’altro. Nonostante tutto, la fotografia continua ad ingannare le percezioni e gli artisti citati in questo capitolo lo sanno bene. Gli stralci di intervista vengano letti, dunque, in quest’ottica; si tratta di una precisazione doverosa. Parlando con Ventura rispetto al limite della fotografia che obbliga a lavorare su quello che ci si trova di fronte, sulla realtà, egli afferma: […] Il limite della fotografia è anche un vantaggio, perché comunque ti farà sempre credere che quello che vedi esiste. Ora sul passaporto abbiamo una foto, perché evoca qualcosa di reale, forse un giorno avremo un video. […] La fotografia garantisce che il luogo c’è, o che in qualche maniera c’è stato. Che poi io ci sia stato con il sogno, con la fantasia, o fisicamente, è la stessa cosa. La fotografia certifica che quel mondo, da qualche parte, esiste. E con questa certificazione puoi lavorare tantissimo. Riletto all’interno della dicotomia scultura-fotografia, è chiaro come lo scatto fotografico si renda portatore di un’essenza reale custodita recentemente nell’oggetto scultoreo. Sul limite dell’idea di documentazione, certificare una presenza diviene un atto più universale che può anche non 73


nascere dall’autore, ma sorgere all’interno dell’osservatore. In modo più specifico, l’intento di Ventura non è la testimonianza di un qualcosa, ma il solo fatto che il suo lavoro si concretizzi nel supporto fotografico, lo rende sensibile alla lettura in questo differente significato. L’autore, come dice egli stesso, su questo limite ha lavorato moltissimo, anche se non sempre è stato facile. A livello di comprensione da parte del pubblico, infatti, egli mette in evidenza come fosse complicato, anni fa, accettare la fotografia della finzione, di storie immaginate come le sue. P.V: Qualche anno fa questo però non era accetto, la fotografia aveva il dovere di testimoniare il presente, […] nessuno ti avrebbe preso sul serio se avessi mostrato qualcosa di non vero. […] Mostrare la realtà era un dovere civico. Lungi dall’essere una ripetizione del visibile, la fotografia ha aperto territori che l’occhio non era in grado di sondare; piccolo, grande, infinitesimale, allargato. La lente della macchina fotografica ha contribuito più ancora a ridefinire la realtà che a fissarla in modo oggettivo; nelle parole di Rosalind Krauss, la realtà stessa ne è risulta ampliata e sostituita o soppiantata da quel supplemento supremo che è la scrittura: la scrittura paradossale dell’immagine fotografica 19. P.V: Adesso questa cosa sembra banale, tutti cuciono sulle foto, le modificano, e va benissimo, ma questa è la conseguenza del digitale. Prima che ci fosse il digitale, questa cosa non era permessa. Siccome il digitale ci ha dimostrato che non è così, perché la realtà la modifichi, ha permesso agli artisti di lavorare con la fotografia senza più far vedere cosa è la realtà, ormai è una forma d’arte con cui fai quello che vuoi. Ma dieci anni fa ti assicuro non era così. Tanta gente vedeva il mio lavoro 19  Vettese A., Op. Cit., p. 121.

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e diceva “Questa non è fotografia, non mi interessa il tuo mondo, la fotografia è reportage, paesaggio.” Non è stato facile all’inizio. Ventura, ricostruendo immaginari urbani e manichini dalle sembianze estremamente verosimili, lavora sul limite in cui la scultura si fa portatrice di elementi reali, quasi certificasse l’esperienza sensibile. Riprendendo le parole di Lorenzo Giusti, in riferimento a Camera’s Blind Spot, si può dire che al termine “scultura” viene affidato un significato molto più aperto, che include tutti i concetti e tutte le pratiche creative legate alla terza dimensione20. In quest’ottica, anche le composizioni di Erin O’Keefe, costruite in un intimo angolo dello studio, diventano delle vere e proprie sculture che, secondo le sue parole, la fotografia ha la capacità di rileggere in nuove dimensioni di senso. E.O: […] L’immagine, essendo indice di qualcosa, permette che ci sia sempre un riferimento ad una condizione reale; mi piace la continua tensione tra la comprensione che questa “cosa” deve esistere nel mondo, e l’aspetto confusionale dell’immagine. La scultura è davvero certa, indubbia. Le fotografie sono completamente incerte. Mi interessa molto l’incertezza. Con questa riflessione, O’Keefe mostra come l’immagine fotografica possa essere indice di qualcosa ma, allo stesso tempo, si smentisca rendendosi completamente dubbia. Conoscendo il suo approccio artistico, è chiaro cosa voglia intendere. Come già accennato in precedenza, attraverso giochi di luce, angolature inedite e tagli particolari, l’autrice americana riesce ad ingannare l’occhio umano proponendo una visione illusoria della scultura. Se si potesse vedere dal vivo, quella composizione sarebbe indubbiamente diversa: girarci attorno variando l’angolo visivo permetterebbe di 20  Menegoi S., Op. Cit., p. 9.

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Francesca Rivetti, Soldiers Playing On The Beach, dalla serie I Want To Talk With Seymour Too, 2016, stampa inkjet su Baryta, 45x30cm.

svelarne le profondità che l’obiettivo cela o amplifica, così come le ombre sembrano essere, talvolta, veri e propri elementi di struttura. L’incertezza di cui parla O’Keefe, dunque, diventa metafora sociale o, quanto meno, riflesso dell’atteggiamento dell’uomo. Mettere insieme tante cose diverse, rifuggire dalla bella unità che ostenta un quadro neoclassico o una scultura di Canova, significa mettere in evidenza che la vita, così come l’arte, si compone di cocci21. O’Keefe si pone in questo limbo in cui, da una parte, 21  Vettese A., Op. Cit., p. 25.

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mostra un’armonia di forme e colori, mentre dall’altra, spostando leggermente inquadratura, ecco che emergono fratture, asimmetrie, contrasti. Nonostante ciò, l’osservatore crede a ciò che vede. F.R: […] la fotografia ha questa cosa di magico che dà sempre un quid di reale alle cose, anche se non lo sono. L’immagine analogica ha aperto la strada a una diversa forma di riconoscimento e d’interpretazione del mondo22. Guardare una scultura fotografata non può permettere altro che far pensare al fatto che essa esista, seppur posta in uno spazio magico, quasi teatrale. Le fotografie di Rivetti (il riferimento è sempre all’ultimo lavoro I Want To Talk To Seymour Too) testimoniano l’effettivo assemblaggio di elementi recuperati dalle acque marine, ancora sporchi e mal tenuti. La dinamica della mente umana, alquanto sensazionale, crea quei collegamenti tali per cui si commenti l’onda di plastica e non l’immagine dell’onda di plastica. La presa di esattezza, oggettività, di cui gode l’immagine analogica discende dalla sua immediatezza: essa corrisponde a un oggetto o a un frammento dell’universo di cui reca una traccia e, contrariamente l’immagine sintetica, non accumula indizi o allusioni, non è stata concepita per dimostrare qualcosa. In quale misura le immagini, siano esse delle semplici copie oppure delle interpretazioni del mondo, influenzano i regimi percettivi23? Lontano dal voler trovare una soluzione razionale a questa sorta di problema, mi affido nuovamente alle parole di Rivetti, che suggeriscono una luminosa via d’uscita: Sai, i fratelli Coen dicevano che per raccontare qualcosa che sia credibile, raccontano la fantasia. Ecco, qualcosa del genere. 22  Sorlin P., Op. Cit., p. XVII. 23  Ivi., pp. XVIII-IX.

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Rudolf Schwarzkogler, documento di una performance, 1965.

5. Memoria e relazione La mostra di Menegoi racconta che, in fondo, la fotografia pone le sue radici nella materialità. Dall’importanza del supporto, ai processi chimici, alle modalità di trasferimento dell’immagine sensibile su carta o altri materiali. Il rapporto con la scultura nasce silenzioso in seno all’attrezzo tecnico ma, allo stesso tempo, la scultura è da considerarsi il punto cieco della fotografia. Questo equivale pressappoco a dire che il nudo femminile è il punto cieco della pittura moderna; è un modo di attirare l’attenzione sull’importanza e complessità del rapporto fra i due termini. Se la scultura 78


è il blind spot della fotografia non lo è per mancanza, ma per eccesso di informazioni; non è una zona oscura ma sovraesposta24. F.R: […] come faccio concettualmente a memorizzare una cosa che per me è importante? Creo un’immagine, “ne faccio una foto”. Rivetti rende nota la grande capacità della fotografia di permettere il ricordo di una data situazione. All’interno di un discorso più generico connesso con la scultura, questa idea assume maggior valore dal momento che essa, non sempre, vive a lungo nel tempo. Così come accade per una vacanza, per un defunto o un matrimonio, l’immagine del soggetto rievoca immediatamente il passato di un evento effimero e limitato. Nel caso di Rivetti, però, la riflessione non può concludersi a questo punto. Fotografare l’onda di plastica diviene strumento di ricerca, memoria di un’operazione artistica che può diventare la bozza di un lavoro più ampio. Nel momento in cui si sperimenta, la macchina fotografica potrebbe risultare un ottimo apparecchio di registrazione, per confrontare risultati valutandone le possibilità future in termini espressivi. Questa modalità si avvicina molto allo snapshot contemporaneo, per altro abbondantemente utilizzato da diversi artisti. Proseguendo nell’intervista, Rivetti torna nuovamente sull’argomento contestualizzandolo meglio, fornendo nuove chiavi di lettura: Anche un altro personaggio mi interessa molto e mi ha fatto pensare al mio rapporto con la fotografia: Schwarzkogler, uno degli azionisti viennesi. Su di loro c’è un grande dibattito, che si apre su diversi fronti, però quello che mi aveva molto colpito è che, a differenza di tutti gli altri artisti, egli faceva performance private di cui l’unica cosa che rimaneva era la fotografia. Aveva un rapporto con quello che faceva in qualche modo puro, intimo e vero al cento

24  Menegoi S., Op. Cit., p. 14.

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percento, dimenticandosi di tutto il resto. L’idea di presentare solo una scultura non mi convinceva, la scultura deve esserci, la scultura è anche percezione dello spazio, deve essere reale, però mi premeva riportare solo l’immagine. Fotografare come atto intimo, in cui ciò che si ritiene importante si tenta di tenerlo con sé il più tempo possibile. Alla pari di un partner, emerge l’idea di custodire il ricordo prezioso perché non sia confuso e dimenticato, ma ne venga mostrata la bellezza. A questo proposito, riporto una risposta di Angela Vettese rilasciata durante un’intervista a Pietro Nicoletti, in cui si rifletteva sull’impronta elitaria dell’arte contemporanea. In un senso completamente diverso, trovo normale che l’arte contemporanea sia una faccenda per pochi: è fatta per chi la elegge a propria amica del cuore e poi la studia, la segue, le fa omaggio delle proprie vacanze. Se io andassi allo stadio in curva ed esprimessi un’opinione, sarebbe giusto che mi cacciassero a pedate: non so uno straccio di regola e sugli spalti c’è chi vive di calcio. L’arte si merita almeno la stessa dose di attenzione, conoscenza, passione che la gente dà al proprio sport preferito25. Tralasciando la curiosa confessione della Vettese, ciò che interessa in questa sede è l’analogia dell’immagine in quanto ricordo e la relazione stretta umana, sia essa amicale o amorosa. Un’analogia tanto distante quanto estremamente connessa. All’interno di un’opera, l’artista inserisce inesorabilmente se stesso, seppur in modo inconscio, riporta dei modi di fare che appartengono al proprio vissuto, ma che si presentano all’osservatore in modo differente. Affermare che fotografare una scultura ne permette il ricordo, sottende 25  Tratto dall’intervista di Pietro Nicoletti riguardo il libro di Angela Vettese “Si fa con tutto, Il linguaggio dell’arte contemporanea”, rilasciata il 06/02/2012 su milanoartexpo.com .

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l’idea che quell’oggetto sia estremamente importante per l’artista. Esso trasmette una tale forza, curiosità, energia, connessione, che scattarne un’immagine permette un’empatia esclusiva, intima e segreta. Diventa un nuovo amico, o quanto meno compagno di strada, che non si vede l’ora di presentare al pubblico. Separarsene, proponendo uno scatto fotografico, permette di rileggerne i volumi mostrandolo in una forma diversa, ben distante da quella esclusiva che si è conosciuta all’interno del proprio studio fotografico. L’osservatore, tuttavia, ne vede solo una parte, rendendosi impossibile un effettivo e profondo scambio di contenuti. Memoria, dunque, non come un atteggiamento nostalgico o romantico, bensì come necessario per conservare e mantenere una relazione con quella determinata scultura. Allo stesso modo, il nido di memoria in fondo all’anima26 di cui parla Paolo Ventura riferendosi al paese natale dei propri mondi fantastici, diviene la residenza prediletta per le sculture fotografate di ogni artista. Nido come dimora sicura ma fragile, semplice ma calda, inaccessibile poiché nascosto in fondo all’anima, ma presente. E se la Krauss, attraverso il suo fare critico e pungente, afferma che la fotografia non è altro che uno specchio dotato di memoria27, Ives Maes fa un passo indietro, considerando l’aspetto sociale della questione: Oggi c’è un’amnesia collettiva, tutti si dimenticano di tutto, di quello che è successo nella storia, nulla sembra importante. Con questo non si vuole affermare la necessità di un’immagine fotografica per sopperire ad una mancanza, quanto per riconoscersi individui 26  Cfr. Intervista a Paolo Ventura, p. 138 del presente volume. 27  Krauss R., Op. Cit., p. 56.

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con dei bisogni specifici. In poche parole, l’artista ha chiarito l’origine delle sue pesanti sfere in titanio.

6. Documento e performance S.C: E sapevi già che non avresti utilizzato la fotografia per questo progetto? P.P: Penso di sì. Anzi, sì. Anche prima di sapere che lavoro avrei fatto. L’utilizzo della fotografia mi faceva pensare a una documentazione. Poteva non esserlo, cioè avrei potuto fare fotografie in mille modi diversi, ma pensando all’evento avevo veramente quasi paura di cadere nella documentazione di qualcosa che era successo. Questo frammento di intervista si riferisce all’ultimo lavoro di Paola Pasquaretta, Clap (2016), il cui significato e caratteristica di codifica da un medium all’altro è già stata recentemente esplorata28. Nonostante non sia un lavoro fotografico, bensì esclusivamente scultoreo, mi è sembrato interessante analizzarne i meccanismi interni procedendo in un ragionamento a ritroso: a partire dall’opera finale, comprendere cosa sarebbe successo se fosse stata utilizzata la fotografia. L’artista pone subito il problema della documentazione fotografica la quale avrebbe potuto relegare l’opera nei contorni di un qualcosa di minore importanza, o semplicemente di diverso, forse esulante dal discorso artistico. Proseguendo in questo solco, la stessa riflessione emerge per quanto riguarda Volcano 01, Volcano 02, permettendo di indagare ulteriormente la questione.

28  Cfr. p. 28 del presente volume.

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Paola Pasquaretta, Vulcano 01, Vulcano 02, Etna, Vulcano, Lipari, Panarea, Stromboli, Vesuvio, 2014, vista dell’installazione.

S.C: Quindi ti riferisci alle immagini considerandole come un documento di quella scultura? P.P: Sì, sono un documento della scultura di sapone però allo stesso tempo diventano anche “fotografia”. […] Appunto, è il documento di quello che ho fatto io in quel momento ma poi è l’oggetto fotografico quello che c’è veramente, 83


perché la scultura non esiste più, è scomparsa dopo due secondi. Non so, forse è una documentazione però documentazione è una parola che associo ad altre cose. E’ documentazione effettivamente di un evento - come la fotografia può essere sempre - però entrano in gioco altri elementi, come la scultura in sé ed il fatto che essa si perda e che sia in relazione ad altri elementi veramente scultorei. S.C: Quindi senti limitante chiamare quelle immagini documento perché aggiungono un significato diverso? P.P: No, non limitante però più che altro la parola documento di qualcosa mi riporta ad un altro genere di fotografia, quindi probabilmente sì, anche quella è una documentazione di quello che è successo, però non utilizzerei la parola documentazione perché forse non ti chiarisce bene le idee su quello che è veramente poi la fotografia finale. S.C: Specificheresti meglio il termine documentazione? Ti immagini, che ne so, un classico reportage di guerra? P.P: Sì ma non per forza, può essere anche la documentazione fotografica di una mostra. E’ come se tu fotografassi qualcosa che è già lì, mi da l’impressione che sei un documentatore della realtà. Invece nel mio caso l’atto fotografico era importante. Trovare una risposta a cosa significhi documentare non avrebbe alcun senso; sarebbe come definire il concetto di arte avvalendosi di speculazioni filosofiche che, in questa sede, non è necessario affrontare. Nonostante tutto, Pasquaretta dichiara l’importanza dell’atto fotografico come qualcosa di assoluta importanza, portatore di una valenza creativa (in riferimento all’idea di creazione effettiva) distante dall’atteggiamento del “documenta84


tore della realtà”. Sono atteggiamenti che pongono l’immagine fotografica su più piani, appartenenti a generi di comune matrice ma differenti nel risultato finale. Al contrario di Pasquaretta, altri artisti vedono nel proprio lavoro un’impronta documentaria. Questo il caso delle sculture legate all’universo marittimo di Rivetti: S.C: Quindi non è documento. F.R: No, il documento c’è e, in qualche modo, è l’immagine. Poi io ho ancora i reperti, alcune sculture le tengo gelosamente in studio. Documentare non viene visto, in questo senso, come un’attività differente di operare. Anzi, essa fa parte del lavoro senza porsi con prepotenza davanti alle ulteriori implicazioni concettuali, ma rimanendo in sottofondo, lontana. Un po’ come per la cheesecake: il biscotto è sul fondo, non è l’elemento principale dell’intero gusto, al contrario del formaggio, ma permette di dare quella croccantezza che non si riuscirebbe ad apprezzare assaporando solo la superficie della torta. A parte il paragone culinario, indice delle preoccupazioni notturne di chi scrive, considerazioni simili si possono fare in riferimento ad altri artisti come, ad esempio, la Klenyànszki. S.C: Consideri la fotografia come un atto documentario o c’è qualcos’altro al di là della rappresentazione di un gesto che bilancia diversi elementi? C.K: Come dicevo prima, mi sto muovendo attraverso le installazioni tridimensionali, quindi la fotografia sta diventando sempre più la documentazione delle installazioni che faccio.

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Csilla KlenyĂ nszki, On Hold, dalla serie Good Luck.

Lorenzo Vitturi, dalla serie The Balogun Particle, 2016-in corso.

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Simile è il caso di Vitturi. S.C: Quindi l’immagine non la vedi come un semplice documento? L.V: Un documento sì, perché documenta il mio intervento nello spazio e sulla scultura, però è anche una parte fondamentale del processo di realizzazione della scultura. Entrambi fanno rientrare la documentazione all’interno del proprio modo di operare. Da una parte la fotografia è utile per riportare installazioni tridimensionali, dall’altro per mostrare l’intervento di stratificazione nel tempo. In effetti, le immagini di Vitturi raccontano in modo evidente una gestualità ed un processo di cui, però, rimangono nascosti i promotori. A questo punto, se per Pasquaretta il documento era qualcos’altro, al contrario degli altri autori considerati, lo era solamente per una questione di significato e di definizione del termine. Parlare di documentazione, in questo caso, apre inevitabilmente il campo alla necessità di considerare quanto un atto del genere sia sensibile ad un’azione performativa, in cui il corpo umano, in relazione alla scultura, assume significati e valenze tutte nuove. Innanzitutto, già fotografando un corpo lo si pone in una condizione oggettuale. Ciò che verrà restituito, in definitiva, non sarà più una presenza umana, ma un fantasma, o proiezione. Il supporto cartaceo della stampa fotografica rende fisicamente l’uomo in un’altra materia mantenendo, concettualmente, la sua aurea magica. L.V: […] ho iniziato a raccontare la realtà in mezzo la strada, i venditori ambulanti, i materiali, il misto tra materia e umano. […] A Lagos non ho fatto sculture perché le ho già trovate realizzate nell’ambiente. Ho fatto una 87


Paolo Ventura, dalla serie Iraq, 2008.

serie di foto a persone, venditori, che si inventano ogni giorno degli accrochage su loro stessi, quindi sono già loro delle sculture. In Vitturi il corpo viene utilizzato, nel caso di The Balogun Particle, in quanto oggetto. In questo caso la presenza umana si fa un tutt’uno con gli oggetti, permettendo agli stessi di elevarsi allo status di scultura. Altre volte, il corpo fa parte di un discorso più ampio, come nel caso di Dalston Anatomy, in cui alcuni ritratti vengono affiancati ad una scultura, spesso riprendendone le cromie o le linee di forza. In questo caso, la fotografia permette la trasmissione di sensazioni ed impressioni che amplificano l’idea di mercato multietnico, ponendosi all’interno di un più ampio discorso 88


David Levinthal, da Hitler moves east, 1977.

d’ibridazione delle tecniche. Al contrario di Vitturi, per O’Keefe inserire un elemento umano sposterebbe la direzione del lavoro, allontanandosi dall’idea astratta che sempre accomuna le sue immagini. S.C: Perché non inserisci mai una presenza umana nei tuoi scatti, ma sempre oggetti astratti? E.O: Sono interessata nel trovare un linguaggio che incorpori oggetti e condizioni reali, con tutti i loro disordini, qualità tattili, e allo stesso tempo che riescano anche ad essere non rappresentativi, o “astratti”. Sto ancora cercando di capire cosa questa parola (astrazione) significhi davvero.

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Fotografare una scultura, quindi, non prevede l’idea di documento, ma di un guardare intensificato che induca lo spettatore ad esplorare tutti i limiti dell’immagine, le connessioni tra gli elementi, e le incongruenze spaziali. L’astrazione sarebbe effettivamente complicata ricercarla all’interno di un volto, se non attraverso operazioni di zoom o di ritaglio. La forza del lavoro di Erin O’Keefe, tuttavia, risiede in una reiterazione dei meccanismi percettivi attraverso una modalità quasi ossessiva, in cui la fotografia dimostra di avvicinarsi ai principi dell’architettura e del colore. In Ventura, il corpo si unisce nello spazio alla scultura, alle scenografie. Talvolta esso si sostituisce alla presenza umana attraverso il surrogato di un manichino, rendendo oggetto un corpo solo all’apparenza. Un atteggiamento molto simile lo si ritrova in David Levinthal, fotografo dalla minore celebrità, che nel 1977 pubblicò “Hitler moves east”, un libro unico e solitario nel panorama della fotografia. E’ direttamente Ventura a raccontarlo: […] egli ha fotografato dei soldatini che sembravano veri uomini, ma guardando con attenzione si poteva ben capire che erano personaggi di plastica. Quando ha iniziato a mostrarlo c’era molta resistenza, perché la fotografia ancora veniva vista come un modo per raccontare in maniera più o meno interpretata la nostra realtà. Un documento immaginato, in cui l’unico limite rimane l’immaginazione. Il progetto commissionato da un collezionista americano nel 2008, Iraq, ad esempio, centra completamente la problematica di questo discorso, mostrando come la presenza umana possa diventare indice e documento di un qualcosa di molto diverso, se ben contestualizzata. P.V: In contemporanea a chi lavorava in Iraq durante la guerra, io lavoravo a casa mia. I reportagisti avevano il limite di seguire i percorsi dell’esercito, 90


il mio limite invece era l’immaginazione. Se pensi anche dal punto di vista della censura, è lecito far vedere un soldato americano morto se è finto?

Infine, l’utilizzo del corpo nei lavori di Klenyànszki si configura dichiaratamente come la trasformazione dello stesso in oggetto, quasi assumesse la dimensione di una scultura, della quale si considerano i volumi, i colori, la propria relazione con lo spazio. E’ interessante notare, però, che questo atteggiamento esula da una riflessione sul piano morale. Brevemente, intendo dire che far coincidere il corpo con l’oggetto è spesso ritenuto, nella quotidianità, un’azione immorale e fuori da ogni razionale pensiero. Attraverso il gesto artistico tale problema viene superato, l’immagine si ripulisce da un possibile giudizio e il corpo rimane un insieme collaudato di forme e di linee apparentemente senza alcuna espressione. S.C: A volte inserisci una ragazza nelle tue foto, le cui pose sono sempre molto eleganti e mai troppo invasive. Perché vuoi connettere uno still life con la presenza umana? C.K: Uso un corpo femminile – che sono io – come parte delle installazioni. La combinazione tra il corpo femminile e gli oggetti dona un elemento performativo alle serie. Mi piace usare me stessa come un oggetto, anche se non mostro mai il viso, come se questo desse troppe caratteristiche personali alle immagini. Tendo a usare oggetti semplici, universali, che tutti possono riconoscere, quindi uso il mio corpo in questo modo. Sono interessata nelle relazioni tra gli oggetti e gli umani, e provare a sperimentarlo ed investigarlo il più possibile. Porre il corpo umano in pose impossibili, giocarci nello stesso modo che faccio con gli oggetti. Voglio conoscere le potenzialità del corpo come un oggetto. La grande sperimentazione dell’artista sposa la logica, di pascoliana 91


Lorenzo Vitturi, Yellow Chalk #1&2, dalla serie Dalston Anatomy, 2014

memoria, del fanciullino. Ritrovare il bambino che risiede in se stessi, riscoprirne i meccanismi di stupore, permette di indagare strade nuove che aprono a percorsi decentrati, lontani dal familiare. C.K: Come dico sempre, io approccio tutto come un bambino, senza pregiudizi, con occhi totalmente aperti. Si tratta di cercare le possibilità nascoste relative alla forma ed alla funzione. […] Il mio lavoro gioca con i limiti del non senso, che a volte inizialmente può apparire folle, ma che, alla fine, trova sempre il suo giusto posto. L’intero processo può essere visto come un gioco, dove i differenti tipi di elementi devono interagire, lavorando insieme. […] C’è sempre una sorpresa, un elemento surreale.

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Per concludere questa breve parentesi, a tratti romantica ed estendibile a ciascun artista fin qui considerato, propongo un pezzo di intervista con Ventura dal quale, per coincidenza, è emersa una simile considerazione. P.V: […] Crescendo si creano delle barriere per cui smetti di guardarti dentro per rivolgere lo sguardo verso il mondo esterno. S.C: Come se, ancora adesso, custodissi in te lo sguardo di un bambino. P.V: Sì poi, sai, i mondi immaginari non sono per forza dei mondi infantili, i miei sono un pochino più oscuri. Colloquiare con i propri mondi interiori è una capacità che uno può ritrovare e sviluppare nuovamente, in un certo senso allenandosi, ed è questo che io faccio.

7. Mostrare la tridimensione Parlare di tridimensione all’interno di un discorso fotografico è indubbiamente una grande sfida. Tra gli autori presi in considerazione nel corso di questo capitolo, è possibile rintracciare due differenti atteggiamenti artistici, mai ben distinti, talvolta sovrapposti. Spesso la tridimensione è stata nascosta, non mostrata appieno, quasi ci fosse il timore di tradire e superare le caratteristiche del medium fotografico. Un atteggiamento erotico, dunque, in cui vedere e velare sono in continua tensione; si osserva un’immagine bidimensionale ma non risulta chiaro se l’artista volesse davvero far emergere l’aspetto scultoreo della questione. Si pensi a Csilla Klenyànszki, le cui parole pongono già un problema del genere: Ad un certo punto io spero di muovermi al tridimensionale, all’installa93


zione site-specific, ma il mio lavoro non è ancora a questo punto.[…] I lavori sono ancora, fondamentalmente, fotografici, quindi esistono solo in una forma bidimensionale; voglio dire, entrambi (l’installazione in sé e l’immagine) sono equamente importanti. Essendo entrambe le parti importanti allo stesso modo, risulta quasi difficile chiarirsi le idee sull’intero lavoro. Il suo è un erotico allo stadio primigenio, vorrebbe tener nascosto ma non ha ancora scoperto la malizia del curiosare. A questo punto, il lavoro di Lorenzo Vitturi risponde a voce alta muovendosi su di un piano differente: […] ovviamente non sono interessato a realizzare delle sculture che rimangano tali, sono più affascinato dalla loro continua trasformazione. La produzione di fotografie passa in secondo piano per lasciare spazio a una narrazione del fotografico che mette in crisi le concezioni tradizionali dell’opera d’arte, provocando un cambiamento radicale della prospettiva: non più tentare di comprendere la fotografia in quanto arte, bensì percepire l’arte all’interno del suo “divenire fotografico”29. L’artista mostra la tridimensione suggerendo che il tempo agisce inevitabilmente sulla materia, modificandone l’aspetto e la percezione che l’uomo ha di essa. L.V: Poi magari sono sculture che hanno una vita molto breve, ma che nella loro trasformazione mi raccontano qualcosa, quindi ecco l’incontro tra la fotografia e la scultura. L’effimero rende impossibile mostrare l’oggetto in sé, per cui la foto-

29  Menegoi S., Op. Cit., p. 9.

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Csilla Klenyànszki, dalla serie Two Of A Kind.

grafia permette all’autore di restituirne una sensazione personale, che si potrebbe chiamare interpretazione. Dalle immagini di Vitturi emerge una grande forza, che racconta l’esistenza di un processo all’interno del fare scultoreo. Si tratta, dunque, di un atteggiamento pornografico nei confronti dell’operare artistico, opposto a ciò che succede all’interno dei lavori della Klenyànszki. C.K: Un altro aspetto è che le installazioni provano a mostrare un momento fragile – parlando del progetto dell’acqua o delle sculture in equilibrio – così a causa della loro natura, hanno bisogno di essere catturate; come al solito questo momento non è nient’altro che un solo secondo, e non potrebbe essere visto in un altro modo. Vitturi, al contrario, mostra al pubblico una scultura che è vissuta nel 95


tempo, senza remore riguardanti la consistenza dei materiali che spesso diventano fragili, cadendo letteralmente a terra. S.C: Concettualmente mi piace l’idea del lavoro del tempo che opera sulla materia. L.V: Sì, quello è l’aspetto fondamentale del mio lavoro. A me interessa molto l’intero processo, poi è ovvio che scelgo un’immagine. Anche quando lavoro nello spazio, con le mostre, cerco sempre di mettere in scena questo processo e renderlo esplicito anche al pubblico. Infatti non mi interessa un’immagine fine a se stessa, quanto piuttosto tutto l’insieme che si crea. S.C: Infatti, pensandoci, nella tua personale in Viasaterna avevi esposto anche delle sculture. L.V: Sì, in realtà molti dei pezzi che vedevi li avevo riciclati dalla mostra precedente alla mia. Io riciclo tutto quello che trovo (supporti, plint, scarti) e li trasformo, facendoli rientrare nel mio lavoro e nell’esposizione. Che poi è quello che faccio in strada, nei mercati, mi piace l’idea di trasformazione. Un riferimento estemporaneo che torna alla memoria è sicuramente l’edificazione del Chrystal Palace a Londra, che venne fotografata in ogni sua fase; ma anche il progetto a lungo termine (o infinito) di Roman Opalka, artista che fotografa se stesso ad intervalli regolare da anni. Entrambi questi esempi si rifanno all’idea di processo, all’azione del tempo sulla materia (si pensi a come possa essere possibile, in questo modo, osservare il cambiamento della fisionomia del volto di Opalka). Il processo diviene, in definitiva, metafora della presentazione al pubblico di un gesto tridimensionale, che trova sintesi e contenuto nell’immagine finale.

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Ives Maes, 51°58’56”N x 5°22’17”E, 2014. Stampa 3D in titanio, ø 10 cm.

La stessa idea di effimero, nuovamente nell’ottica di un’immagine eroticamente scultorea, è presente nel lavoro di Paola Pasquaretta, Volcano 01, Volcano 02. P.P: Era impossibile farli vedere in carne ed ossa perché veramente, anche per fotografarli, ho impiegato una vita perché un istante dopo che li fai sono già scomparsi, non stanno in piedi, e quindi l’unico modo per far vedere quella cosa era fotografarla. In questo caso, la fotografia si rende necessaria in quanto agisce in una modalità sconosciuta alla scultura; un medium fa vedere delle cose 97


che l’altro non è in grado di fare. Il fatto che un vulcano di schiuma non possa durare a lungo, diviene un limite concettualmente superabile grazie alla macchina fotografica. Tuttavia, questo non è sufficiente perché possa essere proclamata la presentazione della tridimensione. Per questo motivo, Pasquaretta ha aggiunto al lavoro un tavolo su cui sono esposti piccoli vulcani in sapone, adatti a riportare quelle caratteristiche manchevoli all’immagine fotografica, permettendo la restituzione di un’idea maggiormente fisica del vulcano. Insomma, la fotografia si sposa con l’installazione, così come auspicava recentemente la Klenyànszki. Racconta Pasquaretta: mi sono resa conto che molto spesso utilizzavo la fotografia, quindi mi sono detta che forse avrei dovuto studiare fotografia, e alla fine ho deciso di fare il master a Modena. Però, usando la fotografia, mi sono detta: “Perché devo usare solo la fotografia?” e quindi ho fatto anche sculture, installazioni, è stato sempre un mix di cose. In modo molto naturale e molto libero, non mi sono mai imposta un medium piuttosto che un altro. La fotografia, anche quando non è parte del lavoro finale, la utilizzo un po’ come tutti – penso- come mezzo di ricerca. Anche l’installazione diviene un modo per far emergere l’aspetto scultoreo della fotografia, presentando una tridimensionalità che mai le apparterrà. Come sostiene Massimiliano Gioni, l’installazione “è figlia di quel bombardamento di dati che dà forma alla fase matura della nostra società iper-informata. E’ un sintomo dell’estati della comunicazione: l’arte dell’installazione parte dalla constatazione sublime di essere un tassello nel flusso incessante di connessioni globali. E’ una forma di scultura esplosa, ciclopica nelle dimensioni: vastissima e frattale. E’ ancora un monumento, anche se eretto a celebrare un tempo fondato sull’immediatezza, sull’accumulo dell’istante”. In generale, le pratiche installative mettono i molti elementi di cui l’opera si compone in scena, in posizione, in uno stare tem98


poraneo ma definito; per tutto questo sono portatrici salienti, forse le più evidenti, del senso attuale per l’impermanenza e per la contemporaneità30. Con Ives Maes, invece, la fotografia prende consapevolezza di essere non solo portatrice di immagine, ma oggetto essa stessa, dotato di consistenza fisica. Egli spinge al massimo grado la materializzazione dell’immagine, conferendogli una massa che può anche eclissare l’immagine stessa31. In altre parole, la sua opera supera la retorica domanda costantemente posta a ciascun artista (cosa rende diverso presentare un’immagine rispetto alla scultura stessa), ponendosi al vertice di un’ipotetica piramide della pornografia visiva. Indirettamente, l’artista mostra un processo: un processo tecnico, certo, ma innanzi tutto concettuale. La sfera di titanio permette all’osservatore di immaginare ciò che è accaduto prima, da dove sia sorta quella forma, cercando di capire l’origine di quell’impressione materica. In questo senso, il lavoro si muove su di un binario parallelo a quello rappresentato dagli intenti di Vitturi proposti sopra. Durante l’intervista, Maes racconta in modo molto preciso il contesto entro cui questa sua ricerca è nata, riferendosi ad importanti avvenimenti storici: […] nel ‘86 c’era un ragazzo, Francois Willième che principalmente inventò la stampa e lo scanner 3D. E un altro ragazzo stava lavorando sulla stessa cosa, Etienne Jules Marey: anche lui stava facendo fotografie dalle sculture, l’esatta traduzione da un media nell’altro, e ciò continua fino ad oggi. Nel 1970 ci fu una grande mostra al Moma, “Photography into sculpture”. Quindi c’è questa idea di tradurre il media fotografico negli oggetti. E certamente ci fu la grande mostra “The Family of a Man”.

30  Vettese A., Op. Cit., p. 75. 31  Cfr. Menegoi S., Op. Cit., p. 22-23.

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Evitando di inoltrarsi troppo all’interno di una grande parentesi storica, gli studi di Maes forniscono numerosi spunti di riflessione, uno su tutti il fatto che le sperimentazioni di oggi provengono da studi non così tanto remoti. Già a partire dagli anni settanta si sentiva la necessità di provare a tradurre l’immagine fotografica in oggetti, applicando tale procedimento al fare artistico. L’artista, dicevo, mostra senza pudore l’intero scatto fotografico, rende il titanio una sfera al cui interno è possibile osservare il minimo dettaglio. Ispezionare l’immagine a trecentosessanta gradi impedisce il gioco del nascondino, permettendo allo spettatore di stupirsi. Lo stupore nei confronti di una scultura che è una fotografia, ma che torna ad essere scultura per poi annullarsi nuovamente, si manifesta attraverso la contemplazione e, di conseguenza, una postura rilassata. Ecco spiegato il fallimento del più famoso tra gli svaghi.

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Conclusioni

Considerare la scultura - intesa come elemento tridimensionale all’interno del discorso fotografico - permette di tornare al dato reale (fingendo per un attimo l’esistenza a priori della realtà) sempre meno tangibile nell’era digitale. Tanto nell’arte - quanto nella vita quotidiana - vivere nel presente, toccare con mano la materia scontrandosi con ciò che non sempre è fruibile nell’immediatezza, potrebbe essere una buona arma di sopravvivenza, seppur minima, per riconoscersi individui attivi e, prima d’ogni cosa, singolari. Lontano da una visione nostalgica del passato, o d’inchiesta riguardo la tecnologia contemporanea, è importante riconoscere l’analogia esistente tra il modo di fare dell’uomo (in questo caso il riferimento, all’apparenza generalizzato, è ai Paesi industrializzati) e la propensione di alcuni artisti nel cercare un incontro tra il dato digitale e la materia. Allo stesso modo, secondo le parole di Barbara Casavecchia, sembra che il progressivo “alleggerimento” delle immagini, la loro perdita di una sostanza e un valore stabile, dovuta all’inflazione senza freni che le vede riprodotte e distribuite all’infinito, in formati e pesi mutevoli, ci stia aiutando ricordare che un corpo, noi, l’abbiamo. Eccome. Magari simbionte e incline all’ibridazione, ma comunque protagonista1. Alle immagini digitali si concede la promessa di un peso, di una fisicità arrovellata tra sigle nuove, surrogate di grammi o litri, che tradiscono loro stesse una volta fuori dall’hardware. Non appena separato da loro, l’uomo torna a riconoscersi pesante, ricordandosi di possedere, lui, un corpo. 1  Menegoi S., Op. Cit., p. 40.

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E’ un po’ quello che accade agli astronauti, che rischiano di dimenticarsi della propria massa una volta in orbita, o delle fotografie che credono di riuscire a mostrare la gravità delle proprie rappresentazioni. Ti confesso, mi ha fatto impressione l’intervento di un astronauta durante una conferenza a cui ho assistito due settimane fa. Diceva che quando devono fare i bagagli per andare in orbita, naturalmente hanno un quantitativo massimo di cose da portare, e fare i bagagli non riguarda solo le cose concrete, non si può portare tutta la propria emotività sicura, bisogna lasciare qualcosa in terra se si vuole scoprire qualcosa di nuovo. Ogni volta che ci penso mi vengono i brividi, perchè è effettivamente quello che io penso in alcuni casi: per scoprire cose nuove bisogna fare dei salti, o delle cose che non sono estremamente chiare. La riflessione che propone Rivetti, al termine della sua intervista, sembra essere la perfetta conclusione del racconto di un personaggio tanto sicuro, quanto limitato. L’astronauta sogna lo spazio, lascia delle cose, s’aggroviglia per muoversi all’interno dell’abitacolo e, in definitiva, realizza la sua leggerezza. Allo stesso modo, la scultura potrà scoprire la leggerezza della carta – fotografica, si intende – solo se qualcuno, o molti, faranno un nuovo salto oltre un limite che il cartello di inizio volume dichiarava invalicabile. Qualche recente pagina suggeriva il nome di Fosbury, eccellente super-eroe dei limiti, ma gli artisti presi in considerazione nel corso delle riflessioni non sono certo da meno. La voce della Krauss ha ricordato che l’arte è sovversione, sfida, individuazione di alternative. E quindi anche violazione di divieti, scavalcamento che riporta in luce quanto era stato represso o rimosso. Un’operazione in direzione opposta a quella di ritorno, di regressione, di nostalgia nella creazione di un nuovo medium. E’ nel fuori moda che cresce la possibilità della reinvenzione e il germe dialettico del rinnovamento; è nell’obsoleto 102


che si compie quanto è trascurato dall’inseguimento delle mode o di uno sviluppo lineare, «darwiniano»1. Parlare di fotografia, come si è visto, apre inesorabilmente le porte ad una molteplicità di discorsi, trasversali, tangenti ed ortogonali che si rendono necessari, ora più di allora, per orientarsi sul territorio dell’arte. L’utilizzo dell’intervista mi ha permesso di venire in contatto con una molteplicità di autori che, inaspettatamente, si sono resi disponibili, non con poche difficoltà, per interviste e scambi di idee spesso divergenti rispetto al tema d’indagine ma, proprio per questo, estremamente interessanti. Dalla scultura alla fotografia, dall’illustrazione all’apnea, dalla carta al titanio fino al mercato dell’arte; un ampia polifonia di mezzi ed espressioni artistiche ha dipinto un quadro dalle intenzioni quasi universali. In un modo o nell’altro, ciascuno è al lavoro per sperimentare nuove possibilità, tendendo verso una rilettura delle potenzialità del medium. Definire un valore insindacabile alla totalità degli esempi risulta pressoché impossibile, o verosimile in un giudizio di valore. Nessuna teoria, dunque, ma un leggerissimo punto di partenza.

2  Cfr. R. Krauss, Op. Cit.

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Apparato di interviste integrali1

La maggior parte dei contenuti di questa tesi è emersa dalle parole dirette degli artisti. Ciascuno ha evidenziato elementi della propria pratica scultorea in connessione a quella fotografica a suo modo e seconda la propria sensibilità. Avendo dovuto selezionare i contenuti da inserire nei capitoli precedenti, presentare le interviste integrali diventa strumento esclusivo di approfondimento, nonché dispositivo di conoscenza universale.

1  Per le interviste di T. Demand, C. Klenyànszki, I.Maes e E. O’Keefe, si presenta la traduzione italiana a cura del sottoscritto.

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Thomas Demand Monaco di Baviera, 1964 Perché sente il bisogno di fotografare una scultura? Quali sono, secondo lei, le differenze tra vedere una scultura e la sua rappresentazione? Cambia il messaggio, la forza del lavoro? Ribatto con un’altra domanda: perché non mettere la Mona Lisa su una sedia del Louvre? Non capisco perché sia così difficile dimenticarsi che l’immagine di qualcosa non è la cosa in sé. La cosa in sé non c’è nelle mie immagini, è la sua rappresentazione, che è anche e nuovamente la rappresentazione di qualcos’altro. Mi piace molto il suo lavoro “Processo grottesco”, in Fondazione Prada (Milano) perché è pieno di magia e pone lo spettatore in un ambiente surreale, dove la percezione della realtà è totalmente persa, come se quella stanza fosse un piccolo sogno. Sono curioso di sapere perché ha scelto di mostrare il modello in cartone e la sua stessa immagine (se non sbaglio, si tratta di un’eccezione all’interno del suo modo di lavorare) perché, se da una parte questo approccio amplifica la sensazione di disorientamento, dall’altra mi sembra difficile comprendere la ragione di questa scelta coraggiosa: mostrare una rappresentazione (la fotografia) e il suo referente (il modello). Nessuna buona regola è senza eccezione, e Processo grottesco è l’eccezione. Inoltre, spesso le mie sculture sono come fantasmi vuoti da oggetti, ma nel caso di Processo grottesco, la scultura ha un volume molto importante. Inoltre, nota: l’oggetto si vede non accanto alla foto, la quale viene per prima, ma dopo il primo passo (preparazione); la scultura è solo il secondo passo: 3-1-2. Perché sceglie la carta per i suoi modelli, e non altri materiali? Perché è un materiale comune, che ha in sé molte connotazioni: un uso

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limitato nel tempo, è economica, fragile, molto conosciuta, tutti toccano la carta ogni giorno, più di una volta. Lei proviene dalla fotografia tedesca, dove tutto è sempre molto rigoroso, altamente studiato, senza eccessi di elementi, colori, decorazioni (sto pensando alla scuola di Dusseldorf, ad esempio). Perché, quindi, nei suoi lavori ci sono sempre piccole imperfezioni che rivelano il set illusorio? Dal tuo punto di vista provengo da quella scuola (non ho mai studiato fotografia), ma io non sono la scuola. Le imperfezioni permettono alla mente di lavorare. Le perfezioni fanno arrabbiare gli dei. Ora una domanda riguardo gli altri artisti. Quali sono i suoi riferimenti? Holbein, Manet, Magritte, Broodthears Conosce altri artisti che lavorano in un modo simile al suo? Magritte, Holbein, Broodthears, Manet 05.12.16 Via e-mail

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Csilla Klenyànszki Budapest, 1986 Perché senti il bisogno di fotografare una scultura? Quali sono, secondo te, le differenze tra vedere una scultura e la sua rappresentazione? Cambia il messaggio, la forza del lavoro? Ho un background in fotografia; il mio lavoro è ancora principalmente fotografico, ma il mio processo di lavoro è equilibrato tra l’installazione e la performance. Le sculture e le installazioni sono fatte per uno scopo fotografico. C’è una grandissima differenza tra l’installazione, che viene fatta per un’immagine e tra una scultura site-specific, tridimensionale; la fotografia mostra solo una piccola porzione, il fotografo può decidere cosa vuole mostrare; appena l’installazione diventa pubblica, questo potere è perso, perché lo spettatore può vederla da tutti gli angoli, etc. Ad un certo punto io spero di muovermi al tridimensionale, all’installazione site-specific, ma il mio lavoro non è ancora a questo punto. Mi piacciono molto i tuoi lavori “Two of a Kind” e “Watercolor”, in particolare le immagini che preferisco sono quelle in cui ci sono elementi che si connettono ad altri. Sembrano piccoli ed innocenti esperimento fatti da un bambino. Qual è il tuo approccio nel realizzare una fotografia? Come decidi di combinare gli elementi per metterli su uno sfondo neutro? Come dico sempre, io approccio tutto come un bambino, senza pregiudizi, con occhi totalmente aperti. Si tratta di cercare le possibilità nascoste relative alla forma ed alla funzione. Il lavoro si rifà ad oggetti comuni; ricercando le loro inusuali potenzialità, introduco loro una nuova funzione. Attraverso semplici tecniche e molta pazienza, costruisco con attenzione le immagini. Il mio lavoro gioca con i limiti del non senso, che a volte inizialmente può apparire folle, ma che, alla fine, trova sempre il suo giusto

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posto. L’intero processo può essere visto come un gioco, dove i differenti tipi di elementi devono interagire, lavorando insieme. Provo a fare immagini ed installazioni che sembrino familiari, ma inusuali allo stesso tempo; voglio dire, c’è sempre una sorpresa, un elemento surreale, che può essere fatto a mano con pazienti disposizioni. Ho bisogno di collaudare molte cose prima che funzionino davvero. Le immagini potrebbero sembrare semplici e fatte facilmente, ma c’è dietro un lungo lavoro di concentrazione. Consideri la fotografia come un atto documentario o c’è qualcos’altro al di là della rappresentazione di un gesto che bilancia diversi elementi? Come dicevo prima, mi sto muovendo attraverso le installazioni tridimensionali, quindi la fotografia sta diventando sempre più la documentazione delle installazioni che faccio. Tuttavia, alla fine i lavori sono ancora, fondamentalmente, fotografici, quindi esistono solo in una forma bidimensionale; voglio dire, entrambi (l’installazione in sé e l’immagine) sono equamente importanti. Un altro aspetto è che le installazioni provano a mostrare un momento fragile – parlando del progetto dell’acqua o delle sculture in equilibrio – così a causa della loro natura, hanno bisogno di essere catturate; come al solito questo momento non è nient’altro che un solo secondo, e non potrebbe essere visto in un altro modo. A volte inserisci una ragazza nelle tue foto (forse tu?) le cui pose sono sempre molto eleganti e mai troppo invasive. Perché vuoi connettere uno still life con la presenza umana? Uso un corpo femminile – che sono io – come parte delle installazioni. La combinazione tra il corpo femminile e gli oggetti dona un elemento performativo alle serie. Mi piace usare me stessa come un oggetto, anche se non mostro mai il viso, come se questo desse troppe caratteristiche personali alle immagini. Tendo a usare oggetti semplici, universali, che tutti possono riconoscere, quindi uso il mio corpo in questo modo. 108


Sono interessata nelle relazioni tra gli oggetti e gli umani, e provare a sperimentarlo ed investigarlo il più possibile. Porre il corpo umano in pose impossibili, giocarci nello stesso modo che faccio con gli oggetti. Voglio conoscere le potenzialità del corpo come un oggetto. Ora una domanda riguardo gli altri artisti. Quali sono i tuoi riferimenti? Conosci altri artisti che lavorano in un modo simile al tuo? Mi piace “One minute sculptures” di Erwin Wurm, gli ironici video di Lernert & Sander, i lavori di Melanie Bonajo e Elspeth Diederix.

03.12.16 Via e-mail

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Ives Maes Hasselt, 1976 Come è nato il tuo progetto Sunville? E’ una domanda semplice, ma molto grande. Ci sono cose diverse da dire. Sto anche lavorando ad un Dottorato in Arte, riguardo l’architettura in fotografia, quindi il suo aspetto scultoreo, dimensionale e fisico. Non più di tanto quello che c’è nell’immagine, ma come un’immagine è fatta in quanto oggetto; quindi la stampa, la cornice, etc. Inizia dalla carta fotografica e si va espandendo verso qualsiasi cosa possibile, come il design di interni, la scultura, anche l’architettura stessa. E questa idea viene dalla camera oscura, che di fatto è essa stessa un’architettura. Quindi l’invenzione della fotografia era possibile solo attraverso l’uso dell’architettura. Ed è qualcosa di cui nessuno scrive. Tutti scrivono sui principi della camera oscura, perché è stata molto importante per lo sviluppo della fotografia. Quindi ho iniziato il mio dottorato da questo punto, l’impatto dell’architettura sulla scultura, gli effetti in fotografia oggi, e c’erano già molte cose; come nel ’86 c’era un ragazzo, Francois Willième che principalmente inventò la stampa e lo scanner 3D. E un altro ragazzo stava lavorando sulla stessa cosa, Etienne Jules Marey: anche lui stava facendo fotografie dalle sculture, l’esatta traduzione da un media nell’altro, e ciò continua fino ad oggi. Nel 1970 ci fu una grande mostra al Moma, “Photography into sculpture”. Quindi c’è questa idea di tradurre il media fotografico negli oggetti. E certamente ci fu la grande mostra “The Family of a Man”. Sto lavorando tantissimo su ciò, e gli oggetti della stampa 3D sono basati sull’idea di Francois e Etienne, i quali provarono a tradurre la fotografia direttamente dentro un oggetto inventando i principi dello scanner 3D, e della stampa 3D, ma nel processo di traduzione usavano le mani, quindi scolpivano con un’interpretazione artistica. Oggi, abbiamo la possibilità di stampare direttamente senza alcuna interpretazione artistica e questo è il mio interesse. 110


Se tu scansioni un oggetto, lo metti in mezzo e ci giri attorno; quello che io faccio è stare nel mezzo e scattare una fotografia del paesaggio, e non è possibile scansionare un paesaggio perché è troppo lontano, ma se traduci una fotografia panoramica, a 360°, in una sfera, usando i programmi 3D, applichi un principio che traduce l’intensità della luce nella profondità. Il bianco e il nero hanno una diversa profondità di campo, quindi ottieni l’oggetto tridimensionale. Tutti i lavori che sto facendo, anche fotografie normali, sono connesse al mio villaggio d’origine, sto scattando molte fotografie ed applicando diverse tecniche e modi di esportare le immagini in un oggetto o in un contenuto architettonico. E perché sei così affascinato dal rapporto tra le forme bidimensionali e tridimensionali? E’ una cosa molto semplice. Ho studiato scultura e avevo un corso laterale di fotografia (ho fatto quattro anni di uno e dell’altro) e avevo sempre una grossa difficoltà nel relazionarmi ad entrambi. Perciò mi sono ritrovato a fare cose diverse, usando molto la fotografia per fare le installazioni delle mie sculture. Negli ultimi anni ho sviluppato un progetto sulle Esposizioni Universali, e mi sono trovato all’improvviso, e senza accorgermene, ad essere un fotografo di reportage. Ero frustrato dalla bidimensionalità dell’immagine e del fatto che non potevo utilizzare alcuna scultura o installazione. Quindi iniziai a sperimentare e da quel progetto mi nacque la grande domanda: come ibridare la fotografia con la scultura o con le installazioni? Appena iniziai a guardare alle cose accadute nel passato, realizzai che ci sono molte cose già fatte, ma sempre nei margini della storia dell’arte, della storia dell’architettura e, in definitiva, nella storia della fotografia. Quindi c’era davvero una grande apertura per fare ampi studi sulla storia, e per trovare una risposta alle mie domande, cercando di diventare un artista che lavora con entrambi i media per creare un nuovo insieme di lavori.

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Quindi ora nel tuo dottorato stai studiando proprio questa relazione. Sì, ci sto studiando dal 2012 e finirò all’inizio del 2018. Pubblicherò una grande serie di lavori in una mostra nel 2018, e un libro su questo argomento. Tornando al lavoro di prima, Sunville, lo intendi come un lavoro fotografico o scultoreo? E’ entrambi! Sunville è la traduzione inglese del nome del mio villaggio. E’ come se la città fosse stata fatta dai raggi del sole, è una cosa molto poetica. E quello su cui sto lavorando ora è fare la fotografia come una scultura, che è una stampa 3D. Utilizzo anche la fotografia in quanto tale, ma con una particolare attenzione alla carta specifica, alla cornice, e a tutte le cose relative alla fotografia. Ma sto facendo anche grandi installazioni e architetture con le fotografie. Dicevi che le tue sfere sono in titanio, perché hai scelto proprio questo materiale? E’ abbastanza semplice. La stampante al titanio è l’unica stampante che può riprodurre oggetti così dettagliati. Ed è estremamente precisa perché traduce molti punti e pixel da immagini ad alta risoluzione; le sfere sono molto difficili da stampare, anche perché sono rotonde. Questo tipo di stampante è utilizzata per sostituire le ossa nei corpi umani, quindi è estremamente precisa. Il materiale non è una vera e propria scelta, è più che altro un risultato di ciò che è possibile al momento, ma mi piace molto la stampa al titanio, perché ha un’elevata durata che le stampe in plastica non hanno, poiché hanno il limite di sparire negli anni. Quindi il titanio può resistere, e per me l’idea di avere qualcosa letteralmente forgiato da colpi e fusione del titanio ha un legame molto stretto con la scultura. E, dall’altro lato, c’è anche una connessione tra il titanio e i sali d’argento nella stampa fotografica.

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E le sfere sono molto piccole, giusto? Sì, ne ho prodotte sei fino ad ora perché sono molto costose: le più piccole, del diametro di 10cm, hanno bisogno di oltre ottanta ore per essere stampate, e la stampa si paga ad ore. Ne sto producendo alcune più grandi, però la dimensione dipende dalla grandezza della stampante. Le stampanti al titanio possono lavorare fino a 30cm3, ma l’ultimo anno sono state realizzate stampanti più grandi e con materiali diversi. Stavo pensando, hai mai pensato di utilizzare Google Street View per realizzare queste sculture? In fondo, anche questo programma ti permette di avere immagini panoramiche. Questo è vero, molto vero, ma prima di tutto non ci ho ancora mai pensato. Secondariamente, serve una macchina fotografica speciale sul cavalletto, che permetta di ruotare. Quindi il punto di messa a fuoco della lente deve essere sempre nello stesso punto, non è semplice. Il cavalletto che utilizzo si chiama Ninja, se lo cerchi in Google puoi trovare delle foto. E’ un metodo molto diverso da quello di Google Street View. Inoltre, sto scattando con macchine ad alta risoluzione, cosa non disponibile nel programma di Google. Più risoluzione ha l’immagine, più dettagliata sarà la stampa 3D. Ma perché sei così interessato ai dettagli? Se hai un’immagine pixelata - in bassa risoluzione - traducendola il tridimensione, vedrai i pixel; è semplice. Quindi non c’è una relazione tra il materiale (il titanio) e il paesaggio, giusto? Voglio dire, c’è uno scopo d’attivista nel tuo lavoro? No, il titanio rende possibile la mia idea. Certo, non vorrei mai farle in plastica, perché non mi piace. Sono contento del titanio. Ma c’è anche un altro dettaglio curioso. Di aziende che stampano questi oggetti in 3D ce ne sono solo due in Belgio, e una di queste è nel villaggio dove sono nato, per pura coincidenza. Lo trovo molto bello e poetico. Si chiamano Melotte 113


Digital Manufacturing, hanno accettato di stampare i miei oggetti anche se non è così semplice perché per sei stampe sono necessarie quasi sei settimane, ma loro ci guadagnano molto. Se potessi scegliere, userei il bronzo per essere il più vicino possibile alla scultura tradizionale. Ed ora non è possibile? Non ancora. Al momento non ci sono stampanti per il bronzo, ma solo alcune che utilizzano la plastica con della polvere di bronzo. E’ come se sentissi il limite della bidimensionalità, ma questo ti permette di lavorarci molto. Quindi il limite diviene un elemento positivo all’interno della tua ricerca? Sì, perché testimonia che in questo caso la fotografia è una scultura, e la scultura una fotografia, quindi i due media sono uniti insieme perché non puoi affermare che siano solo una o l’altra cosa, sono entrambi. Vorrei dire che questa è la prima volta nella storia del mondo - sono abbastanza sicuro di questo - che è stato creato un oggetto che è entrambe le cose allo stesso tempo. Questo per la mia ricerca è una cosa grandissima. Dall’altra parte, penso anche di aver raggiunto il limite, non sono sicuro di sapere come andare oltre la forma, e per il mio lavoro lo trovo molto più interessante rispetto al tornare alla fotografia su carta, per fare un’installazione. Quali sono i tuoi riferimenti, gli artisti a cui guardi? Beh, la mia ricerca ha individuato venti casi che ritengo molto importanti nella storia della fotografia, scultura e architettura, ma tra i più importanti artisti contemporanei c’è, per esempio, Simon Starling. Egli è molto interessato nella ricerca tra fotografia e scultura, ha fatto anche stampe 3D da fotografie. Sembra molto simile a ciò che faccio, ma ha un background diverso, ha fatto stampe 3D dai sali d’argento usati da Henry Moore per fotografare le sue sculture, le ha ingranditi centinaia di milioni di volte, e ne ha fatto delle sculture molto simili a quelle di 114


Moore. Poi c’è Robert Heinecken, mi piace molto. E’ uno dei principali fotografi inseriti nella scultura, e penso sia stato il responsabile negli anni ’70 per la rinascita dell’oggetto fotografico. E forse anche Charlotte Perriand che è una designer degli anni ’30 francese. Ha lavorato molto con le installazioni fotografiche, è stata molto importante. E poi certamente ci sono i due ragazzi François Willème Etienne e Jules Marey. Oggi c’è un’amnesia collettiva, tutti si dimenticano di tutto, di quello che è successo nella storia, nulla sembra importante. Ma penso che se guardi a certe personalità dell’800 o ‘900, facevano lavori molto più contemporanei di ciò che altri fanno oggi, specialmente nell’idea del lavoro. 07.12.16 Via Skype, Treviglio - Anversa

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Erin O’Keefe New York, 1962 In un’intervista su Artspace, affermi : “Per il soggetto dei miei scatti realizzo composizioni scultoree ma, sebbene durante il modo di operare siano coinvolti altri mezzi, il prodotto finale è sempre una scultura”. Perché senti il bisogno di fotografare una scultura? Quali sono, dal tuo punto di vista, le differenze tra vedere una scultura e vederne una rappresentazione? Le composizioni sono sempre costruite per l’occasione, ad hoc, e sono temporanee (come una scenografia, sono destinate a creare una determinata impressione da un punto di vista fisso). Fotografare questi oggetti e questi spazi mi permette di esplorare le differenze tra la cosa e l’immagine della cosa, lo spazio e l’immagine dello spazio. L’immagine, essendo indice di qualcosa, permette che ci sia sempre un riferimento ad una condizione reale; mi piace la continua tensione tra la comprensione che questa “cosa” deve esistere nel mondo, e l’aspetto confusionale dell’immagine. La scultura è davvero certa, indubbia. Le fotografie sono completamente incerte. Mi interessa molto l’incertezza. Da dove proviene il tuo interesse per la percezione dello spazio? Penso che l’interesse nello spazio e nella capacità della fotografia di distorcerlo ed appiattirlo, è qualcosa che provenga direttamente dalla mia formazione di architetto. C’era sempre un’enorme differenza tra lo spazio e l’immagine dello spazio, e sfruttare quella distanza percettiva era per me davvero stimolante. Perché non inserisci mai una presenza umana nei tuoi scatti, ma sempre oggetti astratti? Sono interessata nel trovare un linguaggio che incorpori oggetti e condizioni reali, con tutti i loro disordini, qualità tattili, e allo stesso tempo che riescano anche ad essere non rappresentativi, o “astratti”. Sto anco116


ra cercando di capire cosa questa parola (astrazione) significhi davvero. Mi piace molto il tuo nuovo lavoro “Book of days”, queste immagini sono molto pittoriche, mi rimandano ai quadri cubisti, ed alle sperimentazioni di inizio secolo. Perché questo titolo? Il titolo in realtà si riferisce al modo in cui ho lavorato alla serie. E’ stato un processo lungo per il quale sono semplicemente stata in studio, senza un chiaro obiettivo, provando a vedere cosa potesse succedere tra l’allestimento di un semplice still life e la mia macchina fotografica. Il mio compagno di studio, che era anche un grande amico, venne tragicamente ucciso, e fu molto difficile tornare nello studio dopo questo fatto, per cui questa serie divenne davvero un modo per tornare a mettersi al lavoro, come fosse una pratica giornaliera dopo la sua morte. Qual è il tuo approccio quando decidi di scattare un’immagine? Il mio è un processo molto aperto e reattivo, in modo particolare per la mia ultima serie. Di solito costruisco, dipingo e organizzo i pezzi provando a trovare un momento dove le immagini si comportano in un particolare modo per l’obiettivo. La mia speranza è che diventino spazialmente incoerenti, cadano un po’ a pezzi, così come accade per il cubismo e per la pittura purista. In che modo decidi di combinare gli elementi, e quali materiali usi per la maggior parte? Per la serie “Book od Days”, i materiali sono cartone e pittura (e la luce). Per le serie precedenti, “The Flatness” e “Things As They Are”, ho usato plexiglass colorati, bastoncini dipinti, tavole dipinte e fotografie. Consideri la fotografia come un atto documentario, o c’è qualcos’altro oltre la rappresentazione di una struttura regolare con colori ben combinati? Penso alla fotografia come un guardare davvero intensificato. Mi piace che si basi sulla reale parola, non è inventa117


ta come la pittura. Trovo questa limitazione molto potente. Hai sempre uno specifico messaggio da trasmettere? Non so se avere un qualche messaggio, a parte l’immagine in sé la quale, se riesco nel mio intento, invita lo spettatore a pensare e guardare in modo critico. Ora una domanda riguardo altri artisti. Quali sono i tuoi riferimenti? Per la maggior parte guardo ai pittori, di qualsiasi età, o forse mi faccio ispirare dall’architettura, dalla scultura, o da un film che ha incrociato il mio sentiero molto inaspettatamente. Mi sento più affine ed interessata nella pittura del rinascimento italiano, Giotto, Fra Angelico, Masaccio, ma sono anche attratta dai pittori cubisti e puristi, e da più artisti contemporanei - Fred Sandback, Rachel Whiteread, Tomma Abts, James Turrell. C’è così tanto da cui lasciarsi ispirare! Conosci altri artisti che lavorano in un modo simile al tuo? Penso che ci siano tantissimi fotografi ora che stanno facendo un lavoro in studio, e penso che sia uno sviluppo molto interessante che di certo aprirà il medium a nuove possibilità, sperando di espandere la definizione di ciò che è una fotografia! 09.11.16 Via e-mail

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Paola Pasquaretta San Severino Marche, 1987 Mi racconti come è nato Clap? Clap è nato all’inizio di quest’anno perché un curatore, Andrea Bruciati, mi aveva chiesto di partecipare ad una mostra che avremmo fatto in Friuli, a Villa Manin, per i quarant’anni del terremoto che c’è stato qui nel settantasei, quarant’ anni fa. La mostra era una sorta di retrospettiva su questo evento, divisa in varie sezioni, di cui una dedicata ai giovani artisti che provavano a riflettere su questo tema, quindi sono stata chiamata anch’io e siccome vivo in Friuli è una cosa che mi toccava abbastanza da vicino anche se non sono friulana. Il lavoro è nato da un luogo che si chiama Portis che è un paese distrutto dal terremoto, ma che non è stato mai ricostruito o meglio, al contrario di tutti paesi che sono stati terremotati e ricostruiti nello stesso posto, questo è stato ricostruito da un’altra parte cioè leggermente spostato perché ricostruirlo nello stesso punto poteva essere pericoloso: essendo sotto a una montagna poteva comunque subire nuovamente dei danni. E quindi sono andata a visitare questo paese perché lo conoscevo, ne avevo sentito parlare, c’ero già stata, son tornata e ho trovato delle case degli anni sessanta-settanta distrutte però lasciate lì così come erano il giorno dopo, con le crepe, puntellate; è rimasto quasi un paese fantasma. Cercando di lavorare su questo posto alla fine ha deciso di raccogliere un sasso che ho trovato lì, che sarà grande venti centimetri per venti circa, e ho riprodotto lo stesso identico sasso usando una macchina particolare. Tecnicamente, ti spiego, si esegue una scansione 3D tramite delle fotografie che viene poi inserita all’ interno di una macchina che è una fresa robotica, cioè un braccio a sette assi che si muove riuscendo a ricopiarlo identico a quello reale, ma ingigantito. Il sasso è in polistirolo, quindi non è una stampa 3D, ma proprio una fresatura, quindi dal cubo di polistirolo è venuta fuori la forma. Ho scelto quel sasso lì perché è un masso che molto

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probabilmente faceva parte delle montagne e c’era ancora un po’ di malta attaccata sopra, quindi sicuramente è stato utilizzato o per un muretto di recinzione o per qualche altro edificio. Però l’ho trovato a terra come un sasso qualsiasi e quindi mi piaceva anche il fatto che una parte della montagna fosse diventata un elemento costruttivo in un periodo e poi, a causa del terremoto o per altri motivi, è ritornata ad essere sasso. Se tu vai in questo paese e stai un attimo in silenzio, senti ancora i sassi che cadono dal monte. Cioè, probabilmente non dovuto a scosse sismiche di terremoto, ma al movimento della montagna. Anche durante le intemperie, piogge, come per tutte le montagne, senti proprio il rumore dei sassi che cadono. Questa macchina che hai usato per il sasso di polistirolo, solitamente per cosa viene utilizzata? Io l’ho fatta fare in una ditta che lavora solo polistirolo per vari tipi di utilizzi, dal polistirolo per isolamento, a parti di polistirolo che servono per montaggio di elementi, finestre, stand; è una macchina un po’ particolare, non ce ne sono tantissime, anche perché sono molto costose. Viene utilizzata per le scolpire vari materiali, in questo caso qui loro la utilizzano per il polistirolo però permette di riprodurre qualsiasi disegno molto particolare, quindi non c’è il problema dei sotto squadra, che è il problema della scultura quando si fa una fusione. Ovviamente non avendo lo stampo, ma avendo una macchina che taglia il polistirolo, si riesce a fare qualsiasi forma. Fondamentalmente, questa in particolare, ha un movimento ampissimo e riesce a muoversi in tutte le posizioni, quindi sei libero di creare qualsiasi cosa e soprattutto è gestita da un programma. Quindi da una forma qualsiasi che hai, può essere un disegno .cad o scansione, poi riprodurre l’oggetto identico, ingigantito o rimpicciolito, puoi modificarlo puoi darle tutti gli input che vuoi per farlo; è un robot. Ed è una macchina precisa e dettagliata nella riproduzione? Sì è perfetta, più è precisa l’immagine che dai al programma e più riesce a 120


farla identica. Nel mio caso, guardando il sasso da vicino vedi delle righine, perché questa fresa gira come un trapano velocissimo. Parte andando a sbozzare il polistirolo, quindi prima toglie le parti grandi e poi ripassa sempre su se stessa a creare sempre più dettaglio fino arrivare a tre millimetri di distanza da un passaggio all’altro. Continui a vedere le linee del passaggio che io ho voluto lasciare perchè mi interessava la tecnica utilizzata; però in alcune parti, tipo la base, vedi proprio la forma quasi intera della fresa perché è il primo passaggio che lei ha fatto. La macchina parte piano piano, toglie pezzi, inizialmente sembra poco simile al risultato finale, poi sempre meno, sempre meno, fino a farla identica. Ovviamente non ha la materialità del sasso reale, perché è in polistirolo, ma è identico alla scansione dell’oggetto iniziale. Quindi il polistirolo per quale motivo l’hai scelto? Innanzitutto per le caratteristiche tecniche, sia perché è abbastanza facile da modellare, sia perché è leggero. Mi interessava proprio il contrasto, perché la forma è evidente che è quella di un sasso, e anche molto grande, però contrasta perché vedi che è polistirolo; c’è uno scarto fra quello che rappresenta e quello che è realmente, quindi se ti immagini un sasso, anzi un masso, di quella dimensione, di quella grandezza, sarebbe sicuramente più pesante. Essendo in polistirolo, si vede la finzione della cosa. E questa finzione ti interessava? Sì, ma ovviamente le cose son venute pian piano, anche facendo, comunque è una tecnica che non ho mai utilizzato, era la prima volta quindi anche sperimentando e provando ho capito anche tutti questi passaggi. Il tuo lavoro Clap è quindi solo il masso? Ho visto in una recente mostra anche delle stampe che rappresentavano forse dei render. Sì, quelle sono degli studi sul lavoro che ho esposto in un’altra mostra a Reggio Emilia durante Fotografia Europea. In quel caso abbiamo fatto una mostra collettiva io con alcuni altri ragazzi che abbiamo partecipato al 121


master e un nostro amico, che da diversi anni fa delle mostre durante Fotografia Europea, stava curando una mostra di Paolo Monti, un suo amico. Quindi ha deciso di farla in questo edificio con vari piani, molto grande, e abbiamo partecipato come una sorta di collettivo. Il tema della mostra era “posto fisso” perché comunque era fatto in un ex ufficio dell’ Aci, e per altre varie motivazioni. Posto fisso era abbastanza divertente come anche il gioco di parole, di significati; poteva essere il posto fisso lavorativo ma anche stare in un punto fermo o al contrario muoversi, spostarsi. Quindi lavorando su questo tema ho portato tre immagini della scansione 3D del sasso, è un trittico perché mi interessava quel movimento. Perché comunque lavorando con le scansioni 3D e con i programmi di lettura dei render 3D, tu puoi muoverti all’interno di questo spazio senza limiti, senza riferimenti e quindi mi piaceva anche il fatto che il sasso rotolasse in qualche modo in questo spazio. Per l’occasione sarebbe stato bello creare un modo per far vedere un vero e proprio programma 3D e muovere il sasso all’interno di questo spazio, però per l’occasione mi sono detta che magari facendo un trittico comunque si sarebbe capito che era un movimento dell’oggetto all’interno del vuoto. Quindi sì, una sorta di studio, ma anche un lavoro parallelo alla quello ufficiale - tra virgolette - che è il sasso in polistirolo. Il titolo Clap da dove arriva? Clap perché in friulano significa “sasso”, molto semplicemente. Il dialetto friulano è una lingua molto sentita qui, è una parte fondamentale della cultura del posto, e poi perché è abbastanza divertente la traduzione Clap. Se uno anche non lo sa, è nato tutto dal terremoto che c’è stato qui in Friuli, non sa che quella è lingua friulana però comunque ha quel titolo e quel rimando alla cultura. Io me l’ero immaginato come il suono del sasso che rotola, come per sdrammatizzare la questione. Anche, effettivamente sì perché il clap si associa al suono quindi sì, ci 122


può stare. Curiosità: hai preso solo un sasso? Ni. O meglio, sono stata lì una giornata a guardarli, a scegliergli, poi ce n’era uno che mi aveva colpito in particolar modo, mi piaceva proprio la forma, tutto. Ne ho portati a casa tre o quattro, giusto per pensarci un po’ su, però alla fine ha vinto lui. E sapevi già che non avresti utilizzato la fotografia per questo progetto? Penso di sì. Anzi, sì. Anche prima di sapere che lavoro avrei fatto. L’utilizzo della fotografia mi faceva pensare a una documentazione. Poteva non esserlo, cioè avrei potuto fare fotografie in mille modi diversi, ma pensando all’evento avevo veramente quasi paura di cadere nella documentazione di qualcosa che era successo. Quindi son partita già con l’idea di non fare foto, poi ho fatto foto anche nel posto ed in altri luoghi che ho visitato con degli amici che abitano in zona per valutare e vedere, per farmi delle idee, però forse lo sapevo già che non l’avrei usata. Ti immagino che molto spontaneamente, affascinata dai sassi, cerchi tra i tanti quale potrebbe ispirarti maggiormente. Però quello che poi hai restituito allo spettatore è stato un processo in cui tu hai fatto un passo indietro, e fisicamente il lavoro l’ha realizzato qualcun altro. E’ vero, in tanti lavori realizzati sono io in prima persona a fare. Penso alle sculture dei vulcani, che hai visto anche tu, in quel caso era importante che fossi io a costruirlo; in un certo senso, più per me che per il lavoro stesso. In questo caso, invece, la cosa più importante era avere il massimo del dettaglio e quindi, sapendo di non avere la possibilità fisicamente e manualmente di poterlo produrre, ho deciso di farlo fare ad altri. E poi comunque era importante utilizzare questa tecnica sperimentale, quindi è venuto tutto quasi da solo. Ho pensato un po’ se era il caso di far vedere il sasso originale. O meglio, un po’ mi dispiaceva perché ci ero affezionata, però ovviamente una volta deciso di farlo con quella tecnica, e visto l’ef123


fetto finale, ho deciso di lasciarlo in polistirolo semplice senza nessun tipo di copertura, o lavorazione ulteriore; in definitiva, era scontato non farlo vedere, aveva già di per sé tutto quello che doveva dire. Come dicevamo prima, spesso utilizzi diversi medium per l’espressione artistica. Quando, più o meno, hai iniziato a sentire la necessità di ibridare le tecniche? Ma in realtà è come fosse stato il contrario. Ho iniziato a studiare facendo l’istituto d’arte, non facevo fotografia, cioè c’era un corso a scuola di un professore, però non lo facevamo come proprio una disciplina. Facevo foto ma così, niente di particolare. Poi ho fatto lo IUAV, la triennale a Venezia, lì avevo storia della fotografia ma non avevo nessun vincolo; non è come l’Accademia che devi scegliere che mezzo utilizzare, io potevo utilizzare qualsiasi mezzo. Quindi ero altrettanto libera di fare altre cose, però alla fine mi sono resa conto che molto spesso utilizzavo la fotografia, quindi mi sono detta che forse avrei dovuto studiare fotografia, e alla fine ho deciso di fare il master a Modena. Però, usando la fotografia, mi sono detta: “Perché devo usare solo la fotografia?” e quindi ho fatto anche sculture, installazioni, è stato sempre un mix di cose. In modo molto naturale e molto libero, non mi sono mai imposta un medium piuttosto che un altro. La fotografia, anche quando non è parte del lavoro finale, la utilizzo un po’ come tutti – penso- come mezzo di ricerca. Riprendo un’intervista rilasciata su exibart.com, affermi: […] Composizione, materia, dinamismo, peso, sono elementi chiave della pratica scultorea che con l’istantaneità della fotografia partecipano alla creazione di una nuova visione d’insieme. Lavorare con due media così diversi mi permette di creare nessi di senso proprio nello scarto che c’è fra le specifiche dell’uno e dell’altro». Nel lavoro dei vulcani fatti con il sapone Volcano 01.., hai associato alla parete delle immagini degli stessi fatti con della normalissima 124


schiuma. In cosa consiste in questo caso lo scarto di cui parli tra fotografia e scultura? A parte la complessità del testo che ho scritto (ride), partiamo dal presupposto che ogni media ha le sue caratteristiche. Quindi la fotografia, la scultura e la pittura hanno anche pregi e difetti e nel momento in cui i lavori con unico mezzo selezioni il mezzo migliore a seconda di quello che vuoi dire. Nel caso specifico dei vulcani, lo scarto fra i mezzi è il lavoro stesso. O meglio, la fotografia fa una cosa che la scultura non può fare e di conseguenza la scultura fa vedere delle cose che la fotografia in quel caso non può fare. Nel dettaglio, mi riferisco alle due fotografie che rappresentano due sculture di schiuma di sapone a forma di vulcano. Era impossibile farli vedere in carne ed ossa perché veramente, anche per fotografarli, ho impiegato una vita perché un istante dopo che li fai sono già scomparsi, non stanno in piedi, e quindi l’unico modo per far vedere quella cosa era fotografarla. Questa è una delle caratteristiche fondamentali, storiche, della fotografia, puoi fermare l’istante o far vedere qualcosa che solo tu, in un certo modo, vedi in quel momento. D’altra parte, solo quello non dà l’idea fisica di cosa siano i vulcani, o il sapone, quindi la scultura porta queste altre caratteristiche che erano importanti per il lavoro, tra cui la mia manualità, cioè il creare da zero una forma del vulcano. Quindi mi interessava anche questo contatto fisico col sapone, che è una cosa molto quotidiana. Quindi ti riferisci alle immagini considerandole come un documento di quella scultura? Sì, sono un documento della scultura di sapone però allo stesso tempo diventano anche “fotografia”. Per esempio, ho ragionato molto sul fatto di metterne due così che si creasse un dittico, non so se è la cosa più importante di questo lavoro, però comunque ho scelto che fossero due fotografie perché mostrando solo un vulcano con la schiuma di sapone, avrebbe potuto sembrare che si fosse una sola forma; attraverso il dittico, racconto l’esistenza di un vulcano, più uno, più uno, etc, potrebbero esserci mille vulcani diversi mille forme diverse. 125


Quindi è un po’ la rappresentazione dell’idea del vulcano, ma l’immaginario del vulcano è per tutti diverso. Appunto, è il documento di quello che ho fatto io in quel momento ma poi è l’oggetto fotografico quello che c’è veramente, perché la scultura non esiste più, è scomparsa dopo due secondi. Non so, forse è una documentazione però documentazione è una parola che associo ad altre cose. E’ documentazione effettivamente di un evento come la fotografia può essere sempre - però entrano in gioco altri elementi, come la scultura in sé ed il fatto che essa si perda e che sia in relazione ad altri elementi veramente scultorei. Quindi senti limitante chiamare quelle immagini documento perché aggiungono un significato diverso? No, non limitante però più che altro la parola documento di qualcosa mi riporta ad un altro genere di fotografia, quindi probabilmente sì, anche quella è una documentazione di quello che è successo, però non utilizzerei la parola documentazione perché forse non ti chiarisce bene le idee su quello che è veramente poi la fotografia finale. Specificheresti meglio il termine documentazione? Ti immagini, che ne so, un classico reportage di guerra? Sì ma non per forza, può essere anche la documentazione fotografica di una mostra. E’ come se tu fotografassi qualcosa che è già lì, mi da l’impressione che sei un documentatore della realtà. Invece nel mio caso l’atto fotografico era importante. Però, trasportando la realtà fisicamente sulla stampa, oltre a diventare qualcos’altro, restituisce delle sensazioni totalmente diverse. Anche qui c’è un ulteriore scarto. Sì, è l’idea del vulcano. E’ anche immateriale, come lo è la schiuma. Forse anche il fatto di tenere un fondo così chiaro, di fare delle immagini quasi monocrome, è in relazione a questa idea, cioè che appunto l’immaginario 126


del vulcano non è il vulcano stesso, e non è neanche una rappresentazione fisica o un modellino come gli altri che ho fatto. Forse proprio in quest’idea c’è la forza della fotografia che può dare sensazioni che in altro modo non potresti avere: ti immagini l’idea di vulcano, mentre se vedi un vulcano, vedi un vulcano. Se vedi la scultura del vulcano ti immagini altre cose, magari pensi al fatto che potrebbero sembrare delle isole, ti chiedi come sono fatti, se si tratta di una sezione, etc. Con la fotografia vedi il vulcano come quando sei piccolo forse, o come un’illustrazione. Perché ti permette di mettere in gioco l’elemento della fantasia in chi guarda, si aprono altri mondi. E’ anche un po’ giocosa come cosa, perché mi immagino una persona che la vede. Il vulcano con la schiuma è un’immagine molto seria, anche la struttura è esteticamente grigia, però il tutto è molto giocoso. Tu ti immagini la persona che sta lì con le mani nel sapone a far come per le bolle di sapone. Tutto il lavoro è nato mentre mi stavo facendo la doccia, quindi è anche molto divertente come cosa. Per quello adesso, parlando, pensavo all’illustrazione che può essere anche molto seria - penso a quelle dei vulcani giapponesi - però anche molto libera e personale. Mentre il tuo interesse per la geologia da dove nasce? In molti lavori emerge questo tema. Non è una passione, perché io ne so molto poco, però mi piace molto. Una delle prime foto le ho fatte alla frana della diga del Vajont, che c’è stata negli anni sessanta e da lì ho iniziato a lavorare sulla geologia perché comunque mi interessa molto la natura in generale. Questi eventi creano dei disagi, degli sconvolgimenti che poi fanno parte del mondo in cui viviamo, e che tante volte ci dimentichiamo. Quindi sono degli eventi talmente assurdi che mi piacciono, mi attirano e mi fanno pensare, perché c’è sempre in gioco una forza un po’ oltre a quella umana; è un buono spunto anche per riflettere su quello che siamo noi. Per i terremoti ho una specie di trauma da bambina, è un evento eccezio127


nale e come tale l’uomo reagisce in diversi modi. Quindi quando tu affronti argomenti quali terremoti, o eventi naturali del genere, il tuo interesse non va verso il sociale, ma verso il paesaggio. Sì, perché comunque la catastrofe e le conseguenze (nel caso del terremoto, quanti paesi sono stati distrutti e come si è reagito a questa cosa, come si sta lavorando per la ricostruzione, quanti morti ci sono stati), sono tante cose che sentiamo tramite le notizie, giornali, news ed eventi. Forse tutta questa confusione che si crea dopo l’evento fa un po’ dimenticare cosa c’è all’apice, all’inizio di tutto questo, che poi è l’evento stesso. Quindi mi interessa proprio analizzare l’aspetto naturalistico, poi ovviamente le persone entrano in gioco, magari non direttamente. Però per me è interessante guardare un po’ alle cose da fuori, forse per non cadere nella retorica. E’ difficile lavorare su una catastrofe, infatti lavorare sul terremoto è stato per me difficilissimo. Ci sono delle persone che hanno subito delle perdite, hanno dovuto costruirsi la casa, ho visto delle cose assurde, quindi lavorare direttamente con loro è molto interessante, ma anche molto difficile. Ci sono degli aspetti che magari non si notano e che potrebbero essere interrogati, come la geologia. Dopo la vincita del premio Fabbri, hai qualche nuovo progetto in corso? Sì, adesso sto facendo un progetto con la Spinola Banna e la GAM di Torino. La Fondazione Spinola Banna per l’ arte è una fondazione che nasce nella famiglia Spinola Banna, che da una decina d’anni ormai organizza due volte all’anno dei workshop con degli artisti internazionali selezionando artisti per il workshop. Quest’anno, dopo un po’ di assenza di questa fondazione, è stato proposto un progetto un po’ diverso da quello che avevano fatto fino ad ora. Il progetto, tenuto da Elena Mazzi che è un’altra artista abbastanza giovane, ha qualche anno in più di me, si chiama “Atlante Energetico”, una riflessione molto generica sull’energia. Allo stesso tempo è anche in relazione al paesaggio delle zone del Torinese-Vercellese, che fondamentalmente sono le risaie. Sono stata selezionata insieme ad 128


altre quattro persone, abbiamo fatto già un primo workshop, ed ora stiamo lavorando per una pubblicazione e una mostra tra marzo e aprile. Quindi per adesso questo è quello a cui sto lavorando, poi ci sono sempre altri progetti in mente; mi piacerebbe continuare a lavorare sui vulcani però vorrei fare dei viaggi prima, andare fisicamente a vederli per poi pensare a come sviluppare le idee. 21.12.16 Via Skype, Treviglio - Codroipo

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Francesca Rivetti 1972, Milano Mi racconti come è nato “I Want To Talk To Seymour Too”, il tuo ultimo lavoro? Per spiegartelo parto dal lavoro precedente, “Breath Keepers”, con cui ho cercato di restituire un’immagine evocata alla società contemporanea. Ci sono immagini di questo periodo storico che, secondo me, raccontano in modo ineluttabile e drammatico chi siamo, come purtroppo nel terribile evento dell’11 settembre, in particolare mi riferisco a quelle immagini, ormai icone, che mostrano persone che si buttano dai palazzi del WTC. Purtroppo mi hanno molto colpito perché riescono a metter insieme tantissime cose di questa epoca: la crisi, la spettacolarizzazione, la decadenza, fino al fatto che qualcosa letteralmente stia bruciando, crollando. In modo molto coincidenziale, stavo lavorando a progetti in cui cercavo di raccontare lo spazio fisico, in qualche modo non completamente materico, che cercasse di raccontare qualcosa di spirituale, anche se potrebbe sembrare una parola impropria in questa circostanza. Poi per diversi frangenti, mi sono ritrovata sott’acqua e ho trovato un mondo che ho sempre cercato, così ho iniziato a documentarmi. Nel tempo ho conosciuto diversi gruppi di apneisti professionisti, di cui ora per passione faccio anche parte, e ho capito questa cosa incredibile: per riuscire ad andare sott’acqua per i primi 10-15 metri deve vincere la resistenza, la spinta d’Archimede, poi si entra letteralmente in un altro mondo, a testa in giù, i polmoni e l’aria all’interno si comprimono, qui si inizia a cadere in profondità. Le immagini che ho scattato rappresentano persone a testa in giù, che cascano a peso morto, nell’arco di tempo di un solo respiro. Mi colpiva molto, allora ho iniziato a girare, autofinanziandomi, il mare dei Sinai, dei Caraibi, ed alcuni punti del Mediterraneo. Gli apneisti hanno un po’una filosofia di vita, data anche dal fatto che per scendere devi cercare la fase alfagenica, quella dimensione pre-sonno, sogno ma reale concreto.

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Si scende tra sogno e realtà. Realmente un paradosso. Ho sempre avuto un grandissimo rapporto con l’acqua che, oltre ad essere la parte più affascinante ed importante di noi, è l’ambiente meno conosciuto e forse più trascurato sulla terra. Conosciamo più la luna che il nostro oceano. Dall’acqua poi, sai, è facile il passaggio con Jung. Ed il mare per me è effettivamente il mondo di sotto, legato all’inconscio come all’origine. Le leggi fisiche sono diverse da quelle sulla terra, sono governate da un altro sistema. Queste cose mi hanno ipnotizzato e ho quindi iniziato a fare questo lavoro. Pian piano che mi immergevo in diverse acque ho iniziato a raccattare alcuni pezzi di plastica che si trovano purtroppo ormai in profusa quantità in mare. Mi avevano colpito i pezzi di plastica lavorati dal mare, sottili, penso abbiano un certo fascino. Certo, sembrano portatori di una storia tutta loro. Hanno una storia pazzesca, allora pian piano li ho collezionati e li ho portati in studio, come fossero degli amuleti. Mi ricordo ancora la lattina, quella viene dal Sinai, l’ho imbottita bene per trasportarla perché avevo paura si rovinasse. Effettivamente, la natura ha questa componente stupenda sugli oggetti e su di noi che va al di là, nulla o nessuno può fare quel lavoro che fa la natura. Quindi mentre tu praticavi l’apnea hai iniziato ad accorgerti degli elementi di scarto sui fondali. Non solo mentre facevo apnea, ma nei mari in cui andavo pian piano ho raccolto. A volte dopo l’immersione, altre direttamente in acqua, raccoglievo qualche reperto che portavo via con me. Poi hai fatto una selezione di tutti questi oggetti? Sì, alcuni sono stati abbastanza semplici e rapidi, come la lattina di cui ti parlavo prima. Poi il lavoro è nato contestualmente a Breath Keepers cioè, finito questo, 131


mancandomi l’elemento mare (a Milano non ce n’è), in studio una volta mi sono detta “Ma vediamo cosa potrebbe succedere se...” e ho provato a costruire il mare modellando i sacchetti di plastica che avevo recuperato; ho provato a fare delle onde e da lì in poi è iniziato il processo, mi sono accorta che iniziava a funzionare perché raccontava diverse cose, partendo per esempio dal rapporto con la natura, e queste plastiche lavorate dall’acqua mi catalizzavano sempre di più. Mentre costruivo delle onde, tentando di modellare letteralmente con la plastica, costruivo dietro dei sostegni che, come immaginerai, erano delicatissimi, una struttura nascosta che riuscisse a tenere la plastica come la volevo io ma senza renderla eccessivamente rigida. Quindi, nel tuo modo di lavorare, che differenza trovi tra il presentare direttamente una scultura e, al contrario, la sua immagine fotografica? Definendolo scherzosamente, il mio a tratti cerca di essere un linguaggio ad ideogrammi. Ho cercato di allestire delle scene, teatro di un vissuto all’interno di un set, in qualche modo mi riporta allo spazio magico del teatro. Il teatro è sempre stato uno spazio magico, in cui le cose sono tra la realtà e la fantasia. Ma tutto oggettivamente vero. Questa cosa mi è sembrata sempre stupenda. Anche un altro personaggio mi interessa molto e mi ha fatto pensare al mio rapporto con la fotografia: Schwarzkogler, uno degli azionisti viennesi. Su di loro c’è sempre stato un grande dibattito, che si apre su diversi fronti, però quello che mi aveva molto colpito è che, a differenza di tutti gli altri artisti dell’azionismo, egli faceva performance private di cui l’unica cosa che rimaneva era la fotografia. Aveva un rapporto con quello che faceva in qualche modo puro, intimo e vero al 100%, dimenticandosi di tutto il resto. L’idea di presentare solo una scultura non mi convinceva, la scultura deve esserci, la scultura è anche percezione dello spazio, deve essere reale, però mi premeva riportare solo l’immagine. In primo luogo, la fotografia ha questa cosa di magico che dà sempre un quid di reale alle cose, anche se non 132


lo sono. Secondariamente, come faccio concettualmente a memorizzare una cosa che per me è importante? Creo un’immagine, “ne faccio una foto”. L’idea dello spazio magico di cui parli la condivido a pieno, di fronte alle tue immagini percepisco la medesima cosa. Quindi la scultura è fondamentale, ma è solo il punto di partenza. E’ estremamente importante, è la cosa che per me in quel momento esprime ciò che avevo in mente. La fotografia è funzionale a come voglio trasmettere quella scultura, la percezione che voglio attribuirgli. La fotografia ha quel potere. Anche solo il fatto che la fotografia sia frontale, non ha vie di fuga, è quella e basta. Alcuni la possono trovare limitante, io la trovo, forse, stoica, non ci puoi girare attorno, la vedi forzatamente in modo frontale. Poi un’immagine vive meno con il resto, poiché riporta un’atmosfera che è stata in un altro ambiente, è meno contagiabile. In questo caso, quello che io volevo, è che la persona si trovasse frontale a queste mie sculture create in un ambiente per me magico. E’ esattamente come l’idea del teatro, o di alcuni luoghi che sono deputati ad avere la possibilità di mischiare diversi elementi in modo unico, sia la realtà che la fantasia. Questa relazione mi è sempre interessata, quindi più che la scultura o la fotografia, quello che ricerco è ibridarle in questo senso. O forse anche fare vedere la scultura è già un altro modo e annulla il concetto di untouchable, invece qui si tratta sempre di una scultura che è esistita, ma tu non sai dove si trova. Quindi non è documento. No, il documento c’è e, in qualche modo, è l’immagine. Poi io ho ancora i reperti, alcune sculture le tengo gelosamente in studio. Però è indubbio che, in questo tuo caso, esporre un’immagine ha una forza totalmente diversa che entrare nel tuo studio e vedere la scultura. Cioè, quella strana vitalità che ti lega quando guardi un’opera, sarebbe 133


proprio differente. Ne avresti un’altra percezione. Sarebbe assolutamente diverso, sono d’accordo. Forse su questo, per spiegarlo meglio, ci dovrei ancora un po’ riflettere, la bellezza è che è sempre tutto in evoluzione. Però, ovviamente, sono due forme estremamente differenti. Ripeto, io credo che in alcuni casi l’immagine fotografica, in generale, abbia una potenza, soprattutto in questo periodo storico, molto superiore di quella che noi valutiamo. Nella mostra esponi anche una serie di grottesche, che rapporto c’è tra loro e il mezzo fotografico? La serie delle grottesche non la considero un lavoro fotografico; in questo caso la fotografia è totalmente funzionale al lavoro ed il lavoro è l’oggetto in sè. L’idea era di riportare un altro punto di vista, di queste grottesche; attraverso un’immagine antica, la cornice ed il passpartout di plastica e spostandole dal loro contesto, levandogli datazione o origine, per dare più importanza all’assemblamento che definisce qualcos’altro. E che relazione hai voluto creare tra le grottesche e la serie delle sculture? Mi interessava che l’intero lavoro avesse, in qualche modo, anche solo concettualmente affinità con l’acqua. L’acqua ha il potere di rendere tutto unico, particolare e universale, mischia gli elementi indifferentemente, muta costantemente. In questo caso sono io l’acqua. L’idea di mischiare, come l’onda o come la mareggiata che porta e riunisce sulla riva qualsiasi cosa, l’organico, l’inorganico: è questo secondo me una delle cose potentissime dell’acqua. La considero come un dispositivo vivente, e strumento di conoscenza emotiva impressionante, ricopre tutto in modo indifferenziato. Sono partita dall’onda costruita con la plastica (Black Wave #1) e lì mi sono resa conto che stavo andando verso la direzione che avevo in mente, nel senso che ho sempre considerato la fotografia, quasi pretestuale alla mia necessità di usarla per “disegnare”. Le grottesche, nate come arte decorativa, hanno permesso una libertà di fantasia inimmaginabile. Hanno simbologie di difficile interpretazione, sono 134


simbolismi che non possiamo definire, non ci sono testi che le spiegano fino in fondo. Mischiano fantasia e realtà, uomo e animale, organico ed oggetto. Quindi, un po’ come l’azione dell’acqua, effettivamente non c’è un filo logico preciso fra i diversi segmenti, ma spero si percepisca. Tra l’altro, pensando a Black Wave #1, la fotografia ti ha permesso di cambiare scala, di rileggere le dimensioni della scultura creando un nuovo spazio. Assolutamente sì, anche se in realtà quelle onde non sono così piccole come potresti immaginare. Comunque certo, io volevo che la scultura si vedesse così come volevo io. Quando prima mi chiedevi perché non mostrassi la scultura, è perché tu la veda come la intendo io. Poi chiaro che ognuno ne dà una propria lettura. Per quanto riguarda le cornici e le stampe, in base a cosa hai fatto le tue scelte? Innanzitutto io ho una passione smodata per le cornici. Per alcune ho scelto un legno dipinto di un colore non troppo definibile, che sembra virare a seconda della luce, delle cromie dell’immagine o di chi osserva. Poi per la stampa ho utilizzato una semplice Baryta, perché mi piaceva l’idea di dare una certa asimmetria tra la plastica delle immagini e il supporto cartaceo. Le cornici per le grottesche, invece, le ho realizzate io a mano. Non è stato semplice, il PVC si muove mentre lo tagli. E come ti dicevo prima, nell’ottica di immaginarmi come l’acqua, in un tentativo quasi di onnipotenza, queste grottesche sono per me ancestrali, come il profondo del mare. Poi nel complesso, cerco sempre di fare dei lavori che siano un po’ bipolari, così come per le sculture. Ho realizzato un progetto “Rotti” (2008) in cui le immagini sembrano leggere ma, nel significato, al contrario non lo sono. E anche se la serie di queste sculture potrebbe sembrare giocosa, in realtà la mia intenzione è una nota più inquietante, e in modo che non sia chiaro 135


a cosa si alluda esattamente. Quello che emerge e che si sente, dal mio punto di vista, è uno spostamento. C’è quella cosa che mi fa percepire la presenza di qualcos’altro. E’ un discorso chiaro da una parte, poi girando l’angolo si trova una grottesca che spiazza. Mi piace come tu abbia saputo trovare una chiave diversa per inserire qualcosa di estremamente personale, non esplicitamente chiaro al pubblico. Sì, mi fa piacere, questo per me è importante. La cosa che mi interessa molto è che una certa parte del lavoro non possa essere spiegato, almeno non da me. Cercavo una frattura; non un completo percorso unico, organico. [Visitando insieme la mostra Due mondi, in Viasaterna, Rivetti propone delle riflessioni su alcune sue immagini]. In Old Plate c’è un’altra cosa che lega di sottofondo, la lastra fotografica. Questo perché ho scoperto che la plastica, che ci sta in qualche modo divorando, è ciò che ha permesso di trasportare l’emulsione da un supporto rigido a quello morbido della pellicola, in modo che fosse di largo uso e trasportabile; i negativi sono fatti generalmente di poliestere. E’ una cosa che ho scoperto studiando un po’ sul tema della plastica, e l’ho trovata molto curiosa. Per cui a volte ho inserito anche elementi non trovati direttamente in mare, perché, proprio come ti dicevo, ho agito in modo analogo alle proprietà dell’acqua. Bottle #1, che è una tra le prime, era nata anche con una sensazione forse di violenza; però cerco sempre di raccontare le cose in maniera accettabile. I fratelli Coen dicevano che per raccontare qualcosa che sia credibile, raccontano la fantasia. Ecco, qualcosa del genere. Nelle tue immagini trovo sempre una relazione tra la precarietà delle sculture e l’armonia generale, che vedo nei colori, nella composizione, 136


nell’allestimento della mostra. E’ una relazione evidentemente di contrasto tra i contenuti dell’immagine, che permette, a mio parere, di muovere il pensiero. Sì, ti ringrazio, questa è una cosa a cui ho sempre tenuto tantissimo. Partendo proprio da “Abbastanza Vuoto” (1997-2002) e “Meteore” (2005), la mia ostinazione ad usare poco dell’immagine, ma usarla, mettendo le persone sempre al margine, è per dare questa sensazione di estremamente precario. Nel senso, la fotografia ha qualcosa di molto vero, come dicevamo prima, è nata così, anche se io la sento più legata alla necessità di disegnare meglio, piuttosto che rappresentare la realtà meglio. Mettere le persone ai margini sono il simbolo dell’instabilità, quindi ne emerge l’idea di lavorare in maggior modo sul paradosso e fisicamente sul limite, sul confine. Che poi la fragilità, così come altre dinamiche che si muovono nel mare dell’inconscio, per ricollegarmi ai tuoi lavori, fanno parte dell’essere umano. Secondo me questo è bellissimo perché torna tutto, vedo le cose molto collegate tra loro, mi piace il fatto che tu abbia molte idee, e che sia tanto sicura quanto insicura su come stai lavorando. E nonostante tutto hai quella passione che vince. Penso che la sicurezza sia importante, ma non è tutto. Ti confesso, mi ha fatto impressione l’intervento di un astronauta durante una conferenza a cui ho assistito due settimane fa. Diceva che quando devono fare i bagagli per andare in orbita, naturalmente hanno un quantitativo massimo di cose da portare, e fare i bagagli non riguarda solo le cose concrete, non si può portare tutta la propria emotività sicura, bisogna lasciare qualcosa in terra se si vuole scoprire qualcosa di nuovo. Ogni volta che ci penso mi vengono i brividi, perché è effettivamente quello che io penso in alcuni casi: per scoprire cose nuove bisogna fare dei salti, o delle cose che non sono estremamente chiare. E questo è un po’ il mio punto. 02.11.16 Incontro in Viasaterna, Milano 137


Paolo Ventura Milano, 1968 In cosa consiste nel tuo modo di lavorare lo scarto tra fotografia e scultura? In altri termini, che differenza fa mostrare la scultura in sé, o la sua riproduzione fotografica? Perché non hai mostrato direttamente il manichino costruito da te sul set scenografico? Cambia il messaggio, la forza del lavoro... ? Nel mio caso sì. Le mie sono sculture spesso di ambientazioni urbane per cui, se fai vedere la scultura, limiti il contesto di questo oggetto, perché si trova in una stanza, su un piedistallo, mentre fotografandola e ambientandola allarghi confini, gli puoi costruire qualcos’altro ed andare oltre quello che è lo spazio. Se io dovessi esporre una scultura, come ho fatto una volta, avrebbe un impatto molto diverso rispetto al mio lavoro, rispetto a quello che voglio far vedere, mentre fotografandole il limite si espande perché posso costruire degli orizzonti, delle altre quinte. Però anche l’immagine in sé, a livello di stampa, si può intendere come limitata. Sì certo, però il foglio evoca degli spazi più ampi. Quello che a me interessa è costruire ed evocare un mondo che si ha intorno a questo oggetto, funzionale alla fotografia. Che dopo l’oggetto in sè assuma una sua forza ed una sua caratteristica è un altro discorso, però è secondario rispetto alla fotografia. Il mio bisogno è di costruire un mondo attorno all’oggetto, l’oggetto in sè a me interessa relativamente, mi interessa perché mi è funzionale in questo discorso. Io costruisco un mondo immaginario, che non esiste, mettendo insieme dei pezzi che costruisco. La scultura è un punto di partenza. Leggevo in un’intervista rilasciata qualche tempo fa: “Non mi intressa costruire scenografie vere, ma mondi fantastici, atmosfere”. Da dove 138


nasce questo interesse? Bella domanda! Sai che non lo so? Dice un pagliaccio nei “Pagliacci” di Leoncavallo: “Un nido di memoria in fondo all’anima”. Viene da lì. E quando hai scoperto questo nido? Il nido lo scopri quando sei piccolo, quando hai possibilità di colloquiare con l’anima. Crescendo si creano delle barriere per cui smetti di guardarti dentro per rivolgere lo sguardo verso il mondo esterno. Come se, ancora adesso, custodissi in te lo sguardo di un bambino. Sì poi, sai, i mondi immaginari non sono per forza dei mondi infantili, i miei sono un pochino più oscuri. Colloquiare con i propri mondi interiori è una capacità che uno può ritrovare e sviluppare nuovamente, in un certo senso allenandosi, ed è questo che io faccio. Spesso torna nel tuo lavoro l’idea di limite: i limiti dello spazio nella costruzione della scena, i limiti del tempo (sospeso, un po’ metafisico) e della fotografia in sé, intesa come un limite in quanto obbliga a fotografare quello che si vede, a lavorare sulla realtà. Quindi il limite, nel tuo lavoro, è inteso come un aspetto positivo di ricerca? Il limite è una cosa che uno sposta dove vuole. Puoi darti dei limiti più o meno ampi. La fotografia in sé è un limite perché lavori con un oggetto meccanico che contiene quello che fai dentro di sé, e non te lo lascia vedere subito, una volta dovevi anche estrarlo fisicamente. Poi ti limita perché devi fotografare quello che c’è, se no lo disegneresti, ma questo limite lo puoi spostare ricostruendo quello che fotografi. Lavorare con la realtà ti limita: se vai in giro, quello che vedi lo puoi fotografare secondo il tuo punto di vista, ma rimarrà comunque qualcosa che tu non puoi modificare. Al contrario, puoi costruire un ambiente come vuoi tu, e a quel punto il limite viene spostato molto avanti rispetto a quello che era andare in giro con la macchina fotografica. Quindi il limite della fotografia è anche un 139


vantaggio, perché comunque ti farà sempre credere che quello che vedi esiste. Ora sul passaporto abbiamo una foto, perché evoca qualcosa di reale, forse un giorno avremo un video. Quindi la fotografia è un limite, ma non è un limite. Riprendendo il concetto di certificazione del reale di cui parli, mi viene in mente un’ intervista in cui dicevi “La foto finale, invece, serve a testimoniare che in quel luogo ci sono stato veramente. La fotografia, infatti, ha ancora questo ruolo di testimonianza. Non voglio che il luogo sia finto, deve essere vero”. Può specificare meglio cosa intendi con questa affermazione? Cioè, vuoi dire che la sensazione di illusione data dal set viene riconosciuta reale attraverso l’immagine fotografica? La fotografia garantisce che il luogo c’è, o che in qualche maniera c’è stato. Che poi io ci sia stato con il sogno, con la fantasia, o fisicamente, è la stessa cosa. La fotografia certifica che quel mondo, da qualche parte, esiste. E con questa certificazione puoi lavorare tantissimo. Qualche anno fa questo però non era accetto, la fotografia aveva il dovere di testimoniare il presente. L’unica persona che ha lavorato in questi termini è stato David Levinthal, fotografo ormai sconosciuto, che negli anni ‘70 ha pubblicato “Hitler moves east” (1977), un libro unico e solitario nel panorama della fotografia. Egli ha fotografato dei soldatini che sembravano veri uomini, ma guardando con attenzione si poteva ben capire che erano personaggi di plastica. Quando ha iniziato a mostrarlo c’era molta resistenza, perché la fotografia ancora veniva vista come un modo per raccontare in maniera più o meno interpretata la nostra realtà. Adesso questa cosa sembra banale, tutti cuciono sulle foto, le modificano, e va benissimo, ma questa è la conseguenza del digitale. Prima che ci fosse il digitale, questa cosa non era permessa, nessuno ti avrebbe preso sul serio se avessi mostrato qualcosa di non vero. Mostrare la realtà era un dovere civico. Siccome il digitale ci ha dimostrato che non è così, perché la realtà la modifichi, ha permesso agli artisti di lavorare con la fotografia senza più far vedere cosa è la realtà, ormai è una forma d’arte con cui fai quello che vuoi. Ma dieci anni fa ti 140


assicuro non era così. Tanta gente vedeva il mio lavoro e diceva “Questa non è fotografia, non mi interessa il tuo mondo, la fotografia è reportage, paesaggio.” Non è stato facile all’inizio. Adesso se vai a vedere le mostre d’oggi, le fotografie sono tutte modificate, non c’è nulla che rappresenta il reale. Poi è arrivato Thomas Demand, lui è stato sempre in contatto più che con il mondo della fotografia con quello dell’arte contemporanea. In che senso? Perché distingui le due parti? Beh, il mondo dell’arte è diviso in settori, solo adesso stanno iniziando a dialogare, ad ibridarsi. Ci sono ancora musei, gallerie, istituzioni che si occupano esclusivamente di fotografia. Quindi tu ti senti più in riferimento alla fotografia o all’arte contemporanea? Non è quello che mi sento io, è quello che ti dice il mercato. Ti dice che ci sono istituzioni che si occupano solo di fotografia (aperture, camera,...), mentre l’arte contemporanea è un altro discorso. Poi ci sono musei che mescolano le due realtà, ma sono dinamiche molto complesse. Quello che tu ti senti importa poco al mercato, il mercato tende a darti dei limiti, fai fotografia, scultura, grafica, design. Alcune cose sono tue scelte, altre parti del tuo lavoro sono dovute ad altro. Quindi come vedi la fotografia contemporanea, ora? Il panorama della fotografia contemporanea in questo momento è molto complesso. Perché mentre la fotografia si è liberata da certi limiti che aveva in passato, rimane comunque arginata in certi ghetti. Siamo in un momento di passaggio, la fotografia è una cosa recente, e da poco si è liberata da questi vincoli. A volte è ancora tenuta in ghetti (musei, gallerie), che non le permettono di entrare a pieno titolo nell’arte contemporanea. E’ ancora un percorso che sta facendo. Cosa vuol dire ormai fotografia? Cosa lega Penelope Umbrico e Martin Parr? Nulla. Però ancora la fotografia li tiene insieme in questo ovile 141


La fotografia si intende a livello più ampio, si tratta di immagine. E’ ovvio che è una cosa che non durerà per molto perché è una contraddizione, è uno sciocco limite. Però, essendoci dietro un mercato molto forte, è chiaro che in qualche maniera dice la sua, quindi non vuole che la fotografia si inserisca senza protezione all’interno del mondo dell’arte contemporanea, con il rischio di essere violentata. Ci sono regole in fotografia che non valgono nell’arte contemporanea. Tra pochi anni queste forme di protezionismo nei confronti di un media saranno completamente anacronistiche, cambieranno le cose. Non so in che direzione, ma cambierà qualcosa. Mi interessa molto il progetto “Iraq”. Sono immagini che si rifanno ad altre immagini, quelle dei reportage di guerra e, per quanto mi riguarda, al primo impatto mi sembrava davvero il classico reportage fotografico. Come è nata l’idea? E’ da leggere come una critica verso i new media? Questo progetto mi è stato commissionato da un collezionista americano che voleva facessi un lavoro apposta per lui, un lavoro che non avevo voglia di fare, l’ho fatto poco volentieri però, sinceramente, avevo bisogno di soldi. Infatti si discosta molto dal tuo modo di fare, per questo mi interessava approfondirlo con te. Certo, si discosta completamente. Però a volte, come vedi, funzionano anche le cose così, commissionate. Certo, penso sia sempre e comunque stimolante. Sì, a volte arrivano richieste per cui all’inizio sei indeciso e poi scopri che ti danno un riscontro molto positivo. In contemporanea a chi lavorava in Iraq durante la guerra, io lavoravo a casa mia. I reportagisti avevano il limite di seguire i percorsi dell’esercito, il mio limite invece era l’immaginazione. Se pensi anche dal punto di vista 142


della censura, è lecito far vedere un soldato americano morto se è finto? Quindi non lo senti davvero tuo? No, lo sento mio eccome, se no non l’avrei fatto. Mi sento molto legato a questo lavoro, penso mi sia uscito bene. Semplicemente non mi interessava in quel periodo alzare alcun tipo di polemica in quel senso, però avendolo fatto mi ha posto delle domande a cui non do risposta; è stato comunque interessante. 08.11.16 Studio di Paolo Ventura Milano

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Lorenzo Vitturi Venezia, 1980 Pochi giorni fa sei tornato da Lagos, in cui sei andato per lavorare a The Balogun Particle. Mi daresti qualche anticipazione su questo tuo nuovo progetto? Come sei arrivato in Nigeria e in che direzione sta andando la tua ricerca? The Balogun Particle è un lavoro che è ancora in corso, penso di riuscire a finirlo il prossimo anno. Non dico che è una continuazione di Dalston Anatomy, il lavoro di Londra, perché quello aveva raccontato la storia del quartiere East London, trasformato da un processo di gentrificazione molto forte. A Lagos sono stato invitato da una fondazione d’arte, che aveva visto il mio lavoro a Londra, e lì ho trovato una situazione totalmente opposta. In realtà in questo caso, devo dirti, la scultura ha una parte minore, non così preponderante come in Dalston; ho utilizzato più il collage e altre tecniche, anche se rimane sempre presente il rapporto con la scultura. Ho deciso di lavorare ancora sul mercato, Balogun Market, uno dei più grandi mercati del West Africa: in mezzo c’è una torre, un grattacielo di ventisei piani, che era il centro di tutto il quartiere finanziario di Lagos. Negli ultimi dieci anni, questo mercato è cresciuto così tanto attorno alla torre, che l’ha totalmente occupato e in qualche modo distrutto a livello economico. Proprio la mole di gente, il caos creato dal mercato sulla strada, ha fatto fuggire tutte la attività all’interno della torre. Una storia trovata casualmente, opposta a Dalston. A Lagos, è il mercato rionale ad aver occupato un centro finanziario. Ci lavoro già da un anno, ho iniziato a raccontare la realtà in mezzo la strada, i venditori ambulanti, i materiali, il misto tra materia e umano; ho anche fotografato l’interno di questo edificio, che ora è totalmente deserto, ci sono solo le tracce delle attività sparite. Sto preparando un libro, quindi adesso ho trasportato tutti i materiali raccolti nello studio qui a Londra, e sto realizzando la parte più scultorea, di still life.

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Quindi quando dici che la scultura è meno presente è perché devi ancora realizzarla o perché stai andando in un’altra direzione? Di solito il mio processo è sempre funzionale al progetto. In Dalston è la parte principale, perché mi sono concentrato su delle sculture effimere per raccontare il mix di culture trovato, in cui la fotografia è l’unico modo per documentarlo. Nell’altro caso, a Lagos, non ho fatto sculture perché le ho già trovate realizzate nell’ambiente. Ho fatto una serie di foto a persone, venditori, che si inventano ogni giorno degli accrochage su loro stessi, quindi sono già loro delle sculture. Per fatalità, le forme trovate sulla strada erano simili a quelli fatte in studio per Dalston, quindi ho trovato una sintonia formale per cui mi sono concentrato su collage, metafotografia (foto di foto), ma non ho abbandonato definitivamente la scultura. Se dobbiamo confrontare i due lavori, Lagos è più fotografico e meno scultoreo. Mi immaginavo il rischio di ripetere una cosa già fatta. Cioè, lavorare nuovamente sul mercato non ti potrebbe portare a reiterare uno stesso approccio, già sperimentato in Dalston? All’inizio c’era quel rischio, però ora c’è un uso dello still life completamente diverso, c’è una continuità ma è molto diverso. E sul tuo sito, riguardo questo progetto ho trovato pochissime foto. Certo, perché come ti dicevo è ancora in corso, non è pubblicato. Ho presentato un’anteprima al Lagos Photo Festival, ma non è concluso. E sai, le foto che ti potrei far vedere oggi, fra due mesi potrebbero essere totalmente trasformate. Io sull’immagine ci lavoro con stratificazioni nel tempo, quindi per il momento non le mostro. Quindi a Lagos hai uno studio tuo? Sì, la fondazione mi ha dato uno spazio, ma ho creato anche degli studi all’interno dell’edificio abbandonato, in cui chiedevo alle persone di partecipare agli scatti, quindi le fotografavo direttamente lì. Uno studio on the road. 145


E in Dalston, come hai fatto a fotografare le persone? Le chiedevi di posare sul momento, le portavi in studio, le ritraevi senza dire loro niente? Tutte le persone sono consapevoli di essere fotografate. Le fermo, le racconto il progetto, mi danno i pochi minuti necessari e poi fotografo. Eppure alcune non sembrano così immediate, anzi, appaiono ben studiate. Sì, non sembrano immediate perché uso sempre lo stesso approccio, o se vuoi visione, ma sono tutti ritratti fatti per strada. Ovviamente cerco sfondi ben precisi, so già dove porre la persona rispetto il luogo. E poi pensa che è un luogo molto caotico, non hai molto tempo. Invece quando prima mi raccontavi il tuo approccio all’immagine, mi dicevi che ci lavori su molto (parlavi di collage, di meta fotografia, sovrapposizioni), leggevo anche che intervieni in modo pittorico sulla stampa. Sì, su Dalston ho lavorato più con le materie e i pigmenti, non con la pittura. In realtà, in Droste Effect Debris and Other Problems, ho usato la pittura, e quindi c’è un incontro tra pittura, fotografia, collage e scultura. E penso che lo applicherò anche adesso, sulle ultime immagini di Lagos. La pittura mi serve per completare il processo. Io arrivo, come formazione, dalla pittura, ho sempre cercato un modo di inserirla nel mio processo artistico, e quindi in Droste Effect è usata per completare in modo formale gli still life e le foto di foto. In cosa consiste nel tuo modo di lavorare lo scarto tra fotografia e scultura? In altri termini, che differenza fa mostrare la scultura in sé, o la sua riproduzione fotografica? Cambia il messaggio, la forza del lavoro? Sì è una domanda cruciale, e ci sono diverse risposte, a livello formale e di contenuto. La più importante è che uno dei miei soggetti principali è 146


rappresentare attraverso il mio lavoro l’effetto del tempo sulla materia, un continuo divenire, così come vedo la vita: un processo inarrestabile continuo di trasformazione. Voglio, con delle stratificazioni e con un dialogo tra fotografia e scultura, ricreare questo mio divenire, che ritrovo in Dalston nel quartiere in trasformazione. Cerco sempre delle situazioni vicine alla mia poetica, quindi ovviamente non sono interessato a realizzare delle sculture che rimangano tali, sono più affascinato dalla loro continua trasformazione. Poi magari sono sculture che hanno una vita molto breve, ma che nella loro trasformazione mi raccontano qualcosa, quindi ecco l’incontro tra la fotografia e la scultura. Poi a livello di processo, il dialogo tra le due parti è continuo: quando io inizio a realizzare una scultura, la realizzo perché venga fotografata, non perché esista a 360°. Sono sempre le sculture che esistono e vengono costruite avendo un punto di vista ben preciso, e questa è un’altra cosa che a me interessa molto: come il punto di vista condiziona il crearsi di una forma tridimensionale. E questo viene dalla mia esperienza nella scenografia, ho iniziato a lavorare nel cinema a Roma e quindi tutto il senso della scenografia è questo, hai delle forme, degli spazi che devono apparire tridimensionali e realistici, quando invece sono solo delle illusioni. Una forma illusoria che da l’idea di una scultura ma in qualche modo è un ibrido tra un l’elemento bidimensionale e una forma tridimensionale, anche a livello concettuale, qualcosa che appare in un certo modo e in realtà è un altro. E mi sembra anche rappresentativo del nostro tempo, del valore che diamo all’apparenza, che in ogni campo è molto importante. Quindi l’immagine non la vedi come un semplice documento? Un documento sì, perché documenta il mio intervento nello spazio e sulla scultura, però è anche una parte fondamentale del processo di realizzazione della scultura. Perché non è che io faccio la scultura e poi la fotografo subito, come Thomas Demand che ricostruisce degli ambienti, mettendoci anche un mese e poi scatta. Io, al contrario, inizio a fotografare la scultura da zero, e nella serie di scatti, se vedessi le fotografie, ti renderesti conto 147


dell’effettivo dialogo tra fotografia e scultura, proprio in un rapporto di simbiosi tra le due discipline. Concettualmente mi piace l’idea del lavoro del tempo che opera sulla materia. Sì, quello è l’aspetto fondamentale del mio lavoro. A me interessa molto l’intero processo, poi è ovvio che scelgo un’immagine. Anche quando lavoro nello spazio, con le mostre, cerco sempre di mettere in scena questo processo e renderlo esplicito anche al pubblico. Infatti non mi interessa un’immagine fine a se stessa, quanto piuttosto tutto l’insieme che si crea. Infatti, pensandoci, nella tua personale in Viasaterna avevi esposto anche delle sculture. Sì, in realtà molti dei pezzi che vedevi erano pezzi che avevo riciclato dalla mostra precedente alla mia. Io riciclo tutto quello che trovo (supporti, plint, scarti) e li trasformo, facendoli rientrare nel mio lavoro e nell’esposizione. Che poi è quello che faccio in strada, nei mercati, mi piace l’idea di trasformazione. Leggevo in un’intervista rilasciata su Arte: “La mia pratica è una continua lotta con la piattezza della fotografia. Sono al tempo stesso frustrato e affascinato dai limiti delle due dimensioni”. Quindi il limite, comunemente inteso come un freno, tu, all’opposto, lo vedi come un aspetto positivo della tua ricerca, come uno stimolo? Sì, è un limite che diventa stimolo. E’ una frustrazione che per me è essenziale, sono comunque attratto dalla bi-dimensione dell’immagine, però questa mi sprona ad esplorare altre discipline e renderle parte del processo. Quindi sì, il limite diventa proprio un invito ad altro. Invece, in generale, se io penso alla fotografia italiana, faccio fatica ad inserirti. I tuoi contrasti, le tue cromie, la tua materialità, si allontanano dai colori pastello, dalla pulizia e dal silenzio delle immagini di 148


chi ha fatto la storia della fotografia italiana. Mi viene da chiederti: è per questo che sei volato a Londra? Ma infatti, che palle i colori pastello, basta! (ride). Allora, a me è sempre piaciuta Londra, mi sarebbe piaciuto studiarci anche se non ho potuto, mi è sempre rimasta la voglia di venire a vivere qui. Anche perché mi piaceva molto di più l’approccio anglosassone alla fotografia, alle arti visive, rispetto quello italiano. Nonostante ammiri molto Ghirri, Giacomelli, autori puramente italiani, ero molto attratto, soprattutto quando avevo vent’anni, ma ancora oggi, dalla scena americana ed in particolare californiana, dove, anche in modo più spinto rispetto all’Inghilterra, non c’è alcun blocco al colore, è una fotografia molto visiva. Poi in Dalston il colore è un degli elementi fondamentali perché sono gli stessi trovati nel mercato. Su di essi ho sincronizzato la mia palette di colori. Però se vedi in Viasaterna, la palette era completamente diversa, a seconda del progetto la cambio, non voglio fissarmi su colore che diventa quasi uno stile, mi piace a seconda del lavoro cambiare totalmente le cromie. Però si, hai ragione, in generale le cromie della fotografia italiana sono tra il bianco e nero e pastelli desaturati: da là è difficile smuoversi. 23.11.16 Via Skype, Treviglio - Londra

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Fonti 1. Bibliografia Celant G., Fotografia maledetta e non, Feltrinelli, Milano, 2015. Flusser V., Per una filosofia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano, 2006. Galimberti U., Miti del nostro tempo, Feltrinelli, Milano, 2009. Grontert S., a cura di Lothar S., La Scuola di Düsseldorf: fotografia contemporanea tedesca, Johan & Levi, Milano, 2009. Krauss R., a cura di Elio Grazioli, Reinventare il medium: cinque saggi sull’arte d’oggi, Bruno Mondadori, Milano, 2005. Krauss R., Sotto la tazza blu, Bruno Mondadori, Milano, 2012. Sorlin P., I figli di Nadar: il secolo dell’immagine analogica, Piccola biblioteca Einaudi, Torino, 2001. The Cameras’ Blind Spot III, la CAMERA. Sulla materialità della fotografia, guida all’omonima mostra, a cura di Simone Menegoi. (29 gennaio – 28 febbraio 2016), Palazzo De’ Toschi, Bologna. The Camera’s Blind Spot sculpture-photography recent examples, catalogo dell’omonima mostra a cura di Simone Menegoi e Lorenzo Giusti, (23 marzo – 26 maggio, 2013) Museo Man, Provincia di Nuoro, Nero publishing, 2013. Vettese A., Si fa con tutto: il linguaggio dell’arte contemporanea, Laterza, Roma, 2010. 151


2. Sitografia http://www.arte.it/calendario-arte/milano/mostra-lorenzo-vitturi-effettodroste-detriti-e-altri-problemi-25361 http://www.artribune.com/attualita/2013/01/dialoghi-di-estetica-parola-adangela-vettese/ http://atpdiary.com/simone-menegoi-la-camera/ http://www.bancadibolognaeventi.it/mostra-arte-la-camera/ http://www.exibart.com/notiziaasp?IDCategoria=245&IDNotizia=43577 http://milanoartexpo.com/2012/02/06/angela-vettese-si-fa-con-tutto-illinguaggio-dellarte-contemporanea-laterza-2012-recensione-di-luca-pietronicoletti/ http://www.stilearte.it/brancusi-fotografo-le-immagini-scattate-dal-grandescultore/ http://www.strozzina.org/manipulatingreality/demand.php#content http://www.telegraph.co.uk/culture/photography/8383931/Thomas-DemandOne-I-Made-Earlier.html http://www.tempi.it/blog/intervista-simone-menegoi-racconta-la-materialitadella-fotografia#.WAnlLvmLTDc http://www.themammothreflex.com/around/2016/01/04/sulla-materialitadella-fotografia-scultura-e-fotografia-in-mostra-a-bologna/ http://www.vogue.it/en/photography/interviews/2015/01/22/lorenzovitturi/ 152


Indice dei nomi

Adams, A. 39 Atget, E. 39

Fra Angelico 69, 117 Fusini, N. 34

Becher, B. 35, 40 Becher, coniugi 35, 37, 39, 40 Becher, H. 35, 38 Brancusi, C. 6 Brassai 6 Bresson, H.C. 39 Browing, R. 71

Gabellone, G. 41 Galimberti, U. 34 Gioni, M. 99 Giotto 69, 117 Giusti, L. 64, 65, 75 Greenberg, C. 26 Gursky, A. 40

Casavecchia, B. 101 Coen, fratelli 78 Coleman, J. 24

Hofer, C. 40 Hutte, A. 40

Debord, G. 57 Demand, T. 8, 23, 43-45, 47, 54, 56, 104 Dorfles, G. 40 Duchamp, M. 26 Eco, U. 73 Feuerbach L. 57

Karasawa, K. 17 KlenyĂ nszki, C. 23, 55, 66, 67, 85, 91, 94-96, 98, 106 Kosuth, J. 47 Krauss, R. 21, 24-26, 67, 73, 74, 81, 102 Maes, I. 28-30, 32, 34, 20, 55, 61, 81, 99, 100, 108 Magritte R. 47, 105 153


Mapplethorpe, R. 6 Marey, E.J. 100, 109 Masaccio 69, 117 Menegoi, S. 41, 43, 78

Vettese, A. 7, 8, 13, 17, 21, 80 Vitturi, L. 14-16, 19, 20, 22, 42-44, 57, 69, 70, 87, 89, 94-96, 99, 144

Nicoletti, P. 80

Willième, F. 100, 109

O’Keefe, E. 22, 48, 49, 68, 69, 75-77, 89, 90, 115 Pasquaretta, P. 32-34, 57, 58, 62, 67, 82, 85, 87, 98, 118 Pollock, J. 24-26 Rivetti, F. 12, 13, 16-19, 47-49, 54-56, 66, 67, 71, 77, 79, 85, 102, 129 Rosso, M. 6 Ruff, T. 40 Ruscha, E. 26 Sandback, F. 48, 117 Saussurre, F. De 73 Schwarzkogler, R. 78, 79, 131 Seneca 12 Sorlin, P. 32, 61 Struth, T. 40 Turrel, J. 48, 117 Ventura, P. 8-11, 23, 50-53, 55, 67, 68, 73-75, 81, 90, 91, 93, 138 154


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