BARTOLOMÉ DE LAS CASAS, AVVOCATO DELL’UMANITÀ ...........................................................1 La questione dell’affidabilità delle fonti........................................................................................................................................... 7
IL CONTESTO STORICO............................................................................................................................................................. 9 Ci possono essere degli esseri umani che non discendono da Adamo?.............................................................................10 Uomini a metà........................................................................................................................................................................................... 15 La metafisica del sangue e della razza........................................................................................................................................... 26 Il Requerimiento...................................................................................................................................................................................... 31
TUTTO CIÒ CHE ASCENDE, CONVERGE ......................................................................................................................... 33 Come si diventa Las Casas?................................................................................................................................................................. 35 Ingerenze umanitarie............................................................................................................................................................................ 43 La Disputa................................................................................................................................................................................................... 57 La dignità umana.................................................................................................................................................................................... 68 La libertà..................................................................................................................................................................................................... 75 Un’antropologia della speranza........................................................................................................................................................ 83 I diritti umani............................................................................................................................................................................................ 89 Il torturatore, o l’addomesticamento dell’uomo - parte prima........................................................................................... 90 Il mago, o l’addomesticamento dell’uomo - parte seconda................................................................................................... 97 Il Cristo razzista.................................................................................................................................................................................... 105 Un dio implacabile................................................................................................................................................................................ 110 La fine dei tempi.................................................................................................................................................................................... 115 Il Dominio - l’America, Sepúlveda e l’Armageddon................................................................................................................ 117 Utopia e sgomento nel Giardino dell’Eden................................................................................................................................. 123 Las Casas, Erasmo e Origene............................................................................................................................................................ 127
IL PARADISO RICONQUISTATO........................................................................................................................................ 133 BIBLIOGRAFIA......................................................................................................................................................................... 137 LESSICO...................................................................................................................................................................................... 140
BARTOLOMÉ DE LAS CASAS, AVVOCATO DELL’UMANITÀ Per voi è meglio se io me ne vado. Perchè se non me ne vado non verrà da voi il Paracleto [lo Spirito che vi difende, il Consolatore]. Ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò. Giovanni 16:7 Giovanni definisce così lo Spirito Santo, dicendolo paracleto, che significa appunto avvocato; e ugualmente dice di Cristo nella sua lettera che egli è avvocato presso il Padre per i nostri peccati. Origene, “Commento al Cantico dei Cantici” La scoperta dell’America coincise con la scoperta di un Mondo Nuovo e di un’Umanità Nuova, diversa, sconcertante. Francisco Lòpez de Gòmara (1511-1566), ecclesiastico e storico spagnolo, riconobbe nella scoperta dell’America il più grande evento della storia dopo la venuta del Cristo. Per l’umanità del Nuovo Mondo fu quasi certamente il più grande evento in senso assoluto. Gli indigeni presero coscienza del nuovo ordine quando ormai il loro servaggio si era trasformato in una condizione irreversibile. Alcuni credettero che i nuovi arrivati fossero dèi o semidèi, altri, pur essendosi resi conto di avere a che fare con degli esseri umani provenienti da terre molto distanti, rimasero prigionieri del preconcetto che ogni civiltà sufficientemente avanzata da attraversare un oceano doveva per forza essere benevola. La maggior parte degli indigeni cessò di vivere troppo in fretta per potersi fare un’idea chiara di ciò che stava accadendo. Fortunatamente, tra gli Europei, ci furono anche persone di buona volontà e 1
lucida coscienza, come Bartolomé de Las Casas, che usarono il Nuovo Mondo come uno specchio che poneva in evidenza il putridume e le brutture della civiltà del Vecchio Mondo e si cimentarono nell’impresa di porvi rimedio. Le opinioni sono ancora divise sulla figura di Bartolomé de Las Casas. “Nonostante la mole di documenti e di studi che attestano il contrario, rimangono ancora pregiudizi e riserve verso un semplice clerigo che non aveva mai fatto studi regolari e forse nemmeno raggiunto la licencia (laurea) in teologia, la cui opera non risponde ai canoni accademici ed è totalmente finalizzata alla sua attività pratica, quindi facilmente tacciabile di parzialità, di apologetismo e propagandismo o nel, migliore dei casi, di umanitarismo e messianismo evangelico privo di mediazioni culturali. Non contribuisce certo a far apprezzare l’opera del Procuratore degli indios il suo stile complicato, farraginoso, prolisso, discontinuo, poco elegante, lontano dalla chiarezza e dalla sistematicità degli scolastici come De Soto e De Vitoria, come pure dall’eleganza della retorica di un Sepúlveda” (Tosi, 2009). Chi è dunque Bartolomé de Las Casas e perché qualcuno dovrebbe essere interessato a leggere una sua biografia? A mio giudizio è una figura a dir poco straordinaria e, come tante personalità eccezionali, dei tratti caratteriali spigolosi hanno nuociuto alla sua immagine ma hanno anche permesso ai suoi biografi di poter lavorare su materiale intrinsecamente stimolante. Il Nostro non amava i compromessi, se questi comportavano un maggior carico di sofferenza per i suoi protetti, gli indigeni americani. Non accettava di fare passi indietro quando era convinto di essere nel giusto, ossia quasi sempre. Molti lo consideravano spocchioso ed arrogante, e forse lo era, specialmente quando riteneva che i suoi avversari fossero pavidi, o ignoranti, o in cattiva fede e dunque complici di un genocidio. Difficile non dargli ragione: chi si mostra timido di fronte al male non è meno colpevole di chi lo commette. Numerosi furono i politici, amministratori, imprenditori, esploratori, militari di professione e rappresentanti del clero che, per così dire, se la legarono al dito. Nel 1543 un inviperito cabildo (consiglio coloniale cittadino) di Santiago del Guatemala scrisse al sovrano che “in realtà siamo allibiti di come la vostra Casa, fondata dai vostri avi cattolici…venga improvvisamente sovvertita da un monaco illetterato e privo di senso religioso, invidioso, vanitoso, passionale, agitato e non privo di cupidigia, colpevole per di più di suscitare scandalo! Tutto ciò a tal punto che dovunque abbia abitato in queste Indie egli ha dovuto essere espulso, non lo possono soffrire in nessun monastero, non accetta di obbedire a nessuno e non dimora mai a lungo nello stesso luogo” (Mahn-Lot, 1985, p. 144). Come Gesù il Cristo, Las Casas, di estrazione non agiata e per di più autodidatta, scandalizza i suoi contemporanei con gli insegnamenti, le azioni, le prese di posizione, la prodigiosa vitalità ed energia, l’asprezza delle sue polemiche, il rifiuto del patriottismo e dell’ortodossia quando mascherano l’ingiustizia. Come Gesù, è invidiato, temuto, disprezzato, braccato, è pietra di scandalo. Un giorno esclama: “Signore, tu vedi che cosa cerco in tutto ciò e che non ci guadagno che fame, stanchezza, sete e odio da parte di tutti. Se sbaglio, è per il tuo Vangelo, illuminami affinché io non sia più per il mondo uno scandalo”. Drammatizza. Non è profeta in patria, ma la Corona lo sostiene, perché lui, scaltramente, intuisce di potersi rendere utile alla corte di Spagna nel suo tentativo di imbrigliare i Conquistadores che, troppo lontani dalla madrepatria, la fanno da padroni nel Nuovo Mondo. Anche una parte importante del mondo accademico 2
fortunatamente, almeno in quella fase, egemone – lo appoggia, perché i suoi nemici sono anche i loro nemici. Quasi ogni sua iniziativa è però destinata al fallimento. Las Casas è un perdente della storia, ma un vincente della memoria e della coscienza umana, che lo hanno premiato. Troppo in anticipo sui tempi, le sue idee risultano francamente donchisciottesche nel loro contesto, sebbene all’osservatore odierno possano apparire come eminentemente ragionevoli e sensate. Con il suo zelo pesta troppi piedi. Commenta il vescovo del Guatemala Francisco de Marroquín: “Da quando padre Bartolomé ha ricevuto la mitra ha dato libero sfogo alla sua vanità; quando si dà prova di zelo, occorre unirvi l’umiltà”. Las Casas non è umile, non ha né il tempo né la disposizione ad esserlo. Deve salvare quante più vite sia possibile, deve proteggere le culture e le comunità locali, “non perché io [sia] un cristiano migliore degli altri, ma per la compassione che [provo] istintivamente nel vedere questa gente subire simili ingiustizie”. Il suddetto vescovo riconosce che “è molto dolce e sempre tale resterà, ma…ha cominciato a recalcitrare”. Marianne Mahn-Lot osserva molto giustamente che “gli spagnoli di Ciudad Real erano credenti a modo loro, ma non potevano sopportare il fatto che il vescovo esigesse da loro una trasformazione tanto repentina e radicale del proprio stile di vita”. È intransigente, è moralizzatore, è schietto, è audace. “Questo parlare è duro: chi lo può ascoltare? Ma Gesù, conoscendo in se stesso che i Suoi discepoli mormoravano di ciò, disse loro: Questo vi scandalizza?” (Gv. 6, 60-61). Il “Difensore degli Indiani”, storico, antropologo, politologo, filosofo morale, teologo autodidatta, consacrò la sua vita alla difesa dei deboli, degli oppressi e dell’umanità in generale, al di là di interessi e vicissitudini storiche. Fu un moderno Sisifo, lottò per anni, in ogni suo scritto ed in ogni sua orazione, contro un cinico realismo che aveva già dichiarata persa la battaglia degli Indios, che non ci credeva più e anzi, vedeva in una struttura organizzativa neofeudale l’unica alternativa all’estinzione degli autoctoni. Molti tra i suoi avversari, in fondo, disprezzavano quell’umanità inferiore. Las Casas fu un novello Sisifo perchè il macigno che faceva rotolare (lo skandalon) era enorme e ponderoso, la salita era aspra e gli sforzi sembravano futili in una società che accumulava detriti sulla cima per allontanare la meta e che irrideva chi spingeva la roccia della dignità e dei diritti umani, tacciandolo di stolto idealismo o di labilità mentale. Il missionario francescano Toribio de Benavente, detto Motolinía, scriveva all’imperatore: “Non so come Sua Maestà abbia potuto soportare un uomo così pesante, irrequieto, importuno, turbolento, litigioso, agitato, maleducato, offensivo, senza pace”. Era in corso un contrasto tra domenicani e francescani sulla maniera di evangelizzare gli autoctoni e Motolinía, che pure aveva a cuore le sorti dei medesimi, accusava Las Casas di eccessivo idealismo, di causare turbative del Nuovo Ordine, di essere un anti-colonialista. “Se hanno perseguitato Me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la Mia parola, osserveranno anche la vostra.” (Gv. 15, 20). Eppure, ogni giorno, quest’apostolo della libertà e della giustizia – e non è facile retorica, come avrò modo di dimostrare – si risvegliava e riprendeva a sospingere, perché la sua vita non avrebbe avuto senso altrimenti. Come il Sisifo di Albert Camus, la sua azione fu una rivolta contro l’assurdo della Conquista, contro la disumana insensatezza di una realtà senza Cristo, di fronte alla quale non si poteva non levare la voce in protesta, se si intendeva rimanere umani e cristiani. 3
La protesta di Las Casas fu ampia, intensa e lungimirante, abbracciando diversi campi del sapere e non mancò di influenzare Voltaire ed altri intellettuali illuministi. Questo pensatore-militante, a tratti contradditorio, a tratti proiettato in una dimensione irrealistica, si rifà agli autori canonici ed alle Sacre Scritture, ma supera i primi per passione, impegno civile ed umanità ed emula Gesù il Cristo nel suo carattere sovversivo, universalista e messianico. Dialoga con profitto con la punta di diamante della teoria giuridica europea, gli esponenti della Scuola di Salamanca Francisco de Vitoria, Domingo de Soto e Melchor Cano, ma se ne discosta per il maggior ruolo che affida al magistero della Chiesa e per l’opposizione alle ingerenze umanitarie armate ed alla dottrina dei “doveri naturali” degli Indios verso gli Spagnoli. Semmai, per Las Casas, erano gli Spagnoli ad aver contratto doveri ben precisi verso gli autoctoni al momento della scoperta. Crede energicamente nell’unità della specie umana e nei suoi attributi intrinsici di dignità, uguaglianza, socievolezza, razionalità e libertà, che permettono a ciascun essere umano di godere di diritti inviolabili ed inalienabili. Crede che ogni società ed ogni uomo possano realizzare il loro potenziale attraverso l’educazione ed il pieno godimento della loro libertà. Per lui il perfezionamento, fine ultimo dell’umano, si ottiene tramite la luce dell’intelletto che, anche autonomamente, può condurre alla conoscenza naturale di Dio; un evento spontaneo, visto che , ne è convinto, non esistono esseri umani che non tendano al divino, in modi e forme diverse e proprie. È un paladino del rispetto delle usanze, credenze, leggi e costumi degli altri popoli, anticipando di quattro secoli il relativismo epistemologico della professione antropologica. Non ritiene che la barbarie – che pure considera tale – di certe pratiche possa diventare un pretesto per imbarcarsi in crociate di imperialismo civilizzatore. A più riprese sottolinea come l’arretratezza di una cultura o civiltà in certi suoi aspetti – giudicata in base ai summenzionati principi-cardine della natura umana – si sormonta persuadendo le persone con ragioni solide, facendo appello all’intelletto, al buon senso, alla volontà, senza l’impiego di imposizioni e violenza. Solo così la specie umana può maturare in armonia con la sua natura. La via della pace, della concordia e del rispetto è quella indicata dal Cristo ed è l’unica da seguire. Il sistema di sfruttamento ed asservimento neofeudale delle encomiendas (servizi di corvé coloniali imposti agli indigeni) è in diretta contraddizione con l’essenza della natura umana, è un peccato contro l’anima e contro Dio che dilapida la stessa vita umana. Ancora una volta con impressionante lungimiranza. Las Casas insiste che il potere di sovranità risiede nella gente, nel popolo, non nella sommità della piramide sociale. Senza la base non esiste alcuna società e da essa procedono il diritto ed i diritti. Nessuno può governare una nazione senza il consenso dei governati. L’autorità si deve costituire con libere elezioni che includano l’intera cittadinanza, uomini e donne: il principio del suffragio universale democratico, teorizzato a metà del Cinquecento! Il fine ultimo dei governanti dev’essere quello di garantire il bene comune, inteso come giustizia, libertà, prosperità e concordia. Il limite dell’azione di governo è stabilito dai diritti dei cittadini e dalla legge. Più sorprendente ancora è la richiesta che ogni autorità legittima recepisca la volontà popolare tramite un vero e proprio referendum, quando le circostanze sono drammatiche e le decisioni comportano conseguenze importanti per l’intera comunità. In pratica, nella visione lascasiana, un sovrano – o per meglio dire un presidente, o un supremo delegato – non può dichiarare guerra a nessun altra nazione o intraprendere una politica coloniale senza 4
il consenso dei sudditi/cittadini. Il grado di perfezione di una comunità si misura in funzione della libertà di cui godono i suoi cittadini. Questo è un criterio prettamente liberale, concepito circa duecento anni prima che il liberalismo prendesse piede in Europa, e con buona pace di chi, con una lettura altamente selettiva delle sue opere, focalizzata sulla prima metà della sua attività pubblicistica, lo ha accusato di essersi prestato unicamente a servire il ruolo di agente attivo e partecipe dell’imperialismo ecclesiastico e coloniale europeo (Capdevila, 1998; Castro, 2007). L’originalità e forza anticipatrice di Las Casas non si fermava qui. Il carattere innovativo delle sue proposte e raccomandazioni non va ricercato nelle premesse – già ben delineate da diversi teorici umanisti spagnoli, italiani e fiamminghi – ma nella radicalità delle sue conclusioni, frutto di una creatività speculativa alimentata dall’amarezza e disgusto per un presente inumano e dal sogno di un mondo realmente migliore e non confezionato ad uso e consumo dei soverchiatori e prevaricatori. Così, ad esempio, il vescovo del Chiapas teorizzava che il sovrano non deteneva beni di proprietà per diritto di nascita, ma solo in relazione alla volontà popolare; questi beni potevano anche essere alienati in caso di malgoverno. Di conseguenza le encomiendas perpetue erano illegittime, i servi indoamericani dovevano essere emancipati e le ricchezze redistribuite, in quanto sottratte illegalmente. I popoli trattati ingiustamente e tirannicamente avevano il diritto di ribellarsi ed anche di usare la forza Allo stesso tempo, però, certi vizi in seno ad una comunità dovevano essere tollerati se il tentativo di risolverli rischiava di provocare conseguenze maggiormente dannose rispetto alla loro sussistenza. Non ci fu nessun Las Casas a proteggere i nativi nordamericani e gli schiavi neri di quelli che diventeranno gli Stati Uniti. I più celebri evangelizzatori puritani non ritennero mai che questi esseri umani avessero la medesima dignità dei coloni e li videro come un intralcio al Destino Manifesto della loro civiltà. L’espressione del Potere, in Nordamerica, non trovò seri antagonisti in grado di contenerlo e frammentarlo e il risultato fu lo sterminio degli autoctoni. Quel che rimase fu un assordante silenzio di fronte al male che, come si è detto, equivale a complicità. Quanto alla disputa teologico-antropologica di Valladolid tra Las Casas e la sua nemesi, il filosofo di Cordoba Juan Ginés de Sepúlveda, prima ancora di essere una controversia sui diritti dell’uomo, essa concerne la natura umana, tocca una pluralità di discipline e rivela i machiavellissimi che rischiano di oscurare la verità dietro una cortina di fumo fatta di ragionamenti capziosi e circolari, manipolazioni semantiche e simboliche ed appello alla massimizzazione dell’utile. Essa ha comunque gettato le fondamenta per la teoria dei diritti umani e legittimato i fini del movimento indigenista. Personalmente ritengo che sia uno dei più importanti dibattiti della storia della teologia, del diritto e dell'antropologia politica e che abbia anticipato di secoli le attuali polemiche sulla bioetica e sul globalismo. Da una parte c'è il campione del naturalismo neopaganeggiante (e, paradossalmente, di un’ortodossia inflessibile), dello sciovinismo militarista-imperialista, del feticismo della diversità (che diventa fine a se stessa e gerarchizzata). Dall’altra un ammiratore di Erasmo da Rotterdam, un paladino dei diritti umani universali, di una globalizzazione equa, egalitaria, giusta, rispettosa, pacifica, dell'idea che ogni essere umano dev'essere messo nelle condizioni di determinare il proprio destino e non va trattato come un infante o uno “schiavo di natura”. 5
Di conseguenza questo è anche un saggio sul contatto tra una civiltà tecnologicamente avanzata, rapace e moralmente degradata (l’Impero spagnolo) ed una civiltà decadente e violenta, isolata, devastata dalle pandemie, sadomasochisticamente prigioniera di attese apocalittiche (l’Impero azteco). Ci fu chi, tra gli emissari della prima, difese nobilmente la dignità della seconda di fronte agli invasori, riscattando almeno in parte le nefandezze della propria. Tra questi, il più illustre fu Bartolomé de las Casas, una figura purtroppo non sufficientemente nota, nonostante un’esistenza abbondantemente vissuta e che ha lasciato un segno nella storia – oltre cinquant’anni di luci della ribalta tra Vecchio e Nuovo Mondo ed una decisiva influenza su ben quattro tra re ed imperatori dell’epoca d’oro spagnola. L’originalità di questa biografia risiede nella prospettiva, che non è esclusivamente storica ma anche socio-antropologica, filosofica, giuridica e politologica e rimarca l’attualità del pensiero di una persona “aiutata” da imprevedibili esperienze di vita a trasformare certi suoi difetti caratteriali in virtù e a dare il meglio di sé, ad essere all’altezza della sfida decisiva, a servire da modello anche a distanza di secoli. Dopo una prima sezione dedicata ad una disamina del contesto storico ed una seconda che esplora la vita di Las Casas, mi soffermo sul tema dell’appropriazione del Cristo. Entrambe le parti – avversari e difesori degli indigeni – se ne appropriarono, ma solo i primi ne sovvertirono il messaggio. Lo scenario prospettato dai critici di Las Casas è quello di una crociata di Fratelli Maggiori, giunti nel Nuovo Mondo per decisione del Buon Pastore, il Salvatore che avrebbe condotto il gregge all’ovile. La visione dello stesso Las Casas e degli indigenisti non era troppo dissimile, se non in un punto cruciale, che sta alla base della civiltà contemporanea: il libero arbitrio unito al rispetto della dignità umana ed al consenso informato, quest’ultimo inteso nell’accezione più ampia di una relazione in cui completezza, trasparenza ed onestà permettono alle persone di essere pienamente consapevoli di quali siano le ramificazioni del loro beneplacito. Per gli avversari dei lascasiani, non di ovile si trattava, ma di una catena di montaggio. Lo slogan ufficiale era quello dell’avvento della civiltà dell’amore, della pace e del benessere, dopo il terrore azteco, ma la realtà era ben diversa. I nuovi signori soffrivano di un’illimitata bramosia di beni materiali e manodopera gratuita. Le invocazioni ad amarsi ed a vivere in pace con i conquistadores seguendo l’esempio di Gesù erano dunque ingannevoli, perché miravano ad imporre una certa visione del mondo, inducendo un’autolesionistica mansuetudine irriflessiva nei sudditi. Esisteva un’enorme discrepanza tra le parole ed i fatti. La predicazione dell’amore e della pace si accompagnava a misure di radicale intolleranza verso i non-allineati, verso una società definita senza Dio e irrimediabilmente corrotta, che richiedeva un vasto sacrificio collettivo per essere rifondata sulla base dei dieci comandamenti, il più importante dei quali è l’assoluta e completa obbedienza e sottomissione al vero Dio. Contro tutto questo si scagliò Las Casas, contro la marcia ipocrisia di quelli il cui unico Dio era – ma quanti di loro l’avevano davvero capito? – l’universo materiale, ma si proclamavano razzialmente e spiritualmente superiori, appellandosi alle parole di Gesù e dei Maestri della Chiesa. Contro chi non sapeva cosa farsene dell’Amore e formava caste dominanti che esigevano venerazione, onore, lealtà, sottomissione, conversione al loro culto e timorata idolatria, non amore. Las Casas obiettò all’ingiunzione di adorare ed onorare la presunta volontà di Dio e di rispettare le sue leggi, se ciò comportava l’annullamento di ogni libera 6
volontà ed istanza critica. Obiettò alla segregazione degli indigeni nelle encomiendas e repartimientos – “un governo di tirannia molto più ingiusto di quello al quale furono soggetti gli Ebrei dal faraone egiziano” –, alla ritualizzazione della fede e della quotidianità, perché questa ottundeva le menti e facilitava il compito di quelli che chiamava “tiranni”, scatenando la furia di Cortés e Pizarro. In questo nuovo ordine instaurato dai conquistadores, chi disobbediva era punito nei modi più atroci perché il perdono e la tolleranza erano merce rara. L’idea di peccato mortale acquistava un significato letterale in un clima culturale da età del bronzo. I nuovi fedeli erano infantilizzati e si affermava che Dio – per mano e per bocca dei suoi inviati – si era assunto l’incarico di sistemare le cose, perché i nativi avevano dimostrato in modo definitivo la loro inettitudine, abiezione e pericolosità per se stessi continuando a farsi la guerra e a sacrificare i prigionieri. Las Casas capì che molti colonialisti e cortigiani non vedevano nella predicazione un veicolo di illuminazione spirituale ma un pretesto per mantenere l’oscurantismo e l’ignoranza ed il dominio sulla mente, il corpo e lo spirito dei sottoposti. In un paradosso orwelliano, ogni opposizione indigena a questo stato di cose era bollata come ispirata da Satana, dall’Anticristo. Solo la voce autorevole dei missionari indigenisti e dei teologi umanisti rivelava che il re era nudo, cioè che la fede dei coloni era segnata da un’interpretazione monolitica, unilaterale e perversa – ma molto conveniente – della tradizione veterotestamentaria, fatta di violenza, risentimento, soprusi, tirannia, rancore e sanguinarietà. Anche qui, la centralità della celebre disputa di Valladolid è sancita dall’evidenza del fatto che nessuno, né prima né dopo, si era mai trovato a discettare di natura umana e destino della sua civiltà in seguito alla scoperta di un Nuovo Mondo e di traiettorie “evolutive” separate. L’unicità dell’evento e delle sue implicazioni è fuor di dubbio: una situazione analoga si realizzerebbe solo se fosse possibile retrocedere nel tempo fino al momento dell’incontro tra l’uomo anatomicamente moderno e il neandertal o se una civiltà extraterrestre prendesse contatto con la nostra. Prospettive che sono per il momento alquanto remote. La questione dell’affidabilità delle fonti Può essere rimasto uno spazio di saggezza in questa terra di avidità? Francisco Cervantes de Salazar, discorso del 25 gennaio 1553 Uno studio comparativo di realtà molto diverse deve partire dal “principio di umanità”, che presuppone uno schema di relazioni tra credenze, desideri e mondo che sia il più simile possibile a quello che usiamo quotidianamente. Ma quanto possiamo fidarci delle informazioni raccolte da cronisti e missionari europei? E, soprattutto, non rischiamo di incappare in grossolani fraintendimenti, applicando schemi d’analisi contemporanei a delle realtà del tutto estranee ad essi? Luciano Gallino è dell’avviso che “l’obiezione talvolta mossa ai lavori di storiografia dei sociologi è di forzare in uno schema categoriale derivato in prevalenza dall’analisi delle società contemporanee, gli eventi di società del passato. Obiezioni simili tradiscono la ricaduta in uno storicismo di pretto stampo diltheyano, per il quale soltanto le categorie dei soggetti degli eventi studiati sono valide per comprendere il passato. Di fatto, gran parte della storiografia e 7
della sociologia post-storicistiche hanno da tempo minato alla base l’ipotesi che coloro che partecipavano agli eventi si trovino in condizioni di privilegio per spiegare o per comprendere o interpretare gli eventi stessi, elaborando una serie di concetti strutturali la cui funzione preminente è di porre il contemporaneo in condizione di spiegare eventi del passato assai meglio di quanto non abbiano potuto fare coloro che parteciparono ad essi” (Gallino, 1993: 664). Allo stesso modo, l’antropologia moderna ha da tempo posto in rilievo come la definizione che la fonte dà della sua realtà socio-culturale è generalmente inficiata da un processo cognitivo di auto-rappresentazione ideale. Che fare allora? Ho cercato di illustrare quale fosse la definizione lascasiana di verità e di realtà ed i limiti della sua percezione soggettiva. Bartolomé de las Casas non imparò mai le lingue indigene e non raccolse materiale etnografico, perché non idolatrava le culture, ma amava le persone in carne ed ossa e, per aiutarle, si spostò incessantemente. Poiché viveva in una società in cui il valore di una persona era commisurato alle sue realizzazioni culturali, si trovò a dover magnificare le virtù civili ed intellettuali degli indo-americani. Per contrastare le descrizioni grottescamente menzognere degli indigeni da parte di cronisti visceralmente razzisti ed in combutta con i coloni e gli schiavisti, Las Casas si sentì obbligato ad invertirle di segno e finì per idealizzare ed esagerare i meriti dei nativi, omettendo gli aspetti più sgradevoli della loro civiltà; li trasformò nella pietra di paragone della perfezione, in “nobili selvaggi” di fine intelletto, vasta spiritualità, robusta costituzione e valore guerriero. Giunse perfino ad indicare i sacrifici umani di massa come indice di vitale religiosità nativa. In questo modo traslò i soggetti della sua analisi verso un piano di irrealtà che rischiava di mortificare comunque la loro umanità e quotidianità e di cancellare con un tratto di penna la disumanità precedente alla Conquista. Francesco Surdich, docente di Storia delle esplorazioni e scoperte geografiche a Genova, è dell’opinione che Las Casas abbia idealizzato strumentalmente il mondo indigeno, rendendolo di più ardua decodificazione, perché più interessato a difenderli che a farli conoscere (Surdich, 2002). Questo tipo di discorso, ispirato da una sensibilità postmodernista, a mio avviso lascia però il tempo che trova. Bisogna tenere a mente le circostanze storiche in cui si trovò ad operare, ossia un’epoca in cui non esisteva un’opinione pubblica attenta e i pregiudizi etnocentrici erano percepiti come dogmi. I suoi antagonisti nel Nuovo Mondo erano spesso persone di scarsa cultura e di vasta ambizione e cupidigia, quelli nel Vecchio Mondo erano eruditi privi di una conoscenza diretta della realtà coloniale. Nel frattempo i nativi morivano letteralmente come mosche, senza che lui potesse in alcun modo arrestare quest’apocalisse, se non perorando la causa indigena alla corte di Spagna con passione ed eloquio, ma anche con astuzia, destrezza e diplomazia. Non si accontentò mai di confutare le tesi degli avversari, ma fece attivismo politico, cercando di influenzare il processo legislativo, di far approvare piani per l’istituzione di comuni utopiche per i nativi convertiti, per fermare le guerre, “giuste” o “ingiuste” che fossero, per abolire la schiavitù e screditare e condannare quegli sfruttatori rapaci che erano gli encomenderos. Se Las Casas peccò di etnocentrismo e benevolo paternalismo nelle sue azioni e prese di posizione, lo si può giudicare con una certa magnanimità e clemenza. Possiamo certamente preferirlo a chi, come Bernardino de Sahagun e José de de Acosta, 8
consigliava vivamente di apprendere le culture indigene, le superstizioni e gli errori per poterli curare, come si era fatto con i pagani greci e romani. IL CONTESTO STORICO Il prete [Las Casas], irato, va contro di loro riprendendoli aspramente per ostacolarli, ed essi, che lo rispettavano un poco, cessarono quello che stavano per fare, e corì restarono vivi quaranta indios, ed i cinque se ne andarono ad ucciderne dove gli altri uccidevano. E poiché il prete rimase fermo nell’ostacolare la morte dei quaranta, che erano giunti lì come portatori, quando andò avanti, trovò una catasta di morti, che avevano fatto con i corpi, che era una cosa certamente da far spavento. Quando lo vide Narváez, il capitano, gli disse: “Cosa sembra a Sua Signoria di questi nostri spagnoli? Che hanno fatto?”. Gli rispose il prete, vedendo davanti a sé tanti fatti a pezzi, molto turbato dall’avvenimento così crudele: “Vi mando, sia Lei sia loro, al diavolo” Bartolomé de las Casas, Historia de las Indias Las Casas fu, come tutti, un uomo del suo tempo, cioè legato al suo ambiente culturale, sociale e politico. Bisogna dunque tenerne conto per poter valutare la sua figura, senza per questo cedere alla tentazione di attribuire alla sua vita ed al suo insegnamento quegli attributi di unicità, incomparabilità ed incomunicabilità che impedirebbero allo studioso ed ai suoi lettori di trarne delle lezioni utili per la loro esistenza, in un’epoca per molti versi differente ma per altri inquietantemente simile. Infatti è mia opinione che le guerre sante, il fanatismo religioso, il Gott mit uns hanno una radice comune nell’iniquità della Conquista e nella pretesa mai sopita di accelerare con ogni mezzo l’unificazione del mondo nell’unico ovile e sotto l’unico pastore profetizzato nella Bibbia – unum ovile et unus pastor –, l’obiettivo dell’omologazione culturale finale ad un unico modello superiore e prevalente. Al tempo di Las Casas, ipocritamente, non si usò spesso il termine “schiavitù”, perché la giurisprudenza spagnola la contemplava solo per i prigionieri di guerra. Esso fu presto sostituito dall’istituto dell’encomienda, una schiavitù di fatto, mascherata da contratti di derivazione medievale. Affermare che si era peccatori perché si sfruttavano gli Indiani era tanto sconcertante quanto affermare che lo si era perché si sfruttavano gli animali da soma. In quell’epoca sfruttare gli indios ed essere cristiano e prete non era considerata una contraddizione in termini. Ce lo racconta Las Casas nella sua Historia: “Rimasero tutti meravigliati e anche spaventati da ciò che egli disse loro, e alcuni compunti e altri come se lo sognassero, ascoltando cose tanto nuove come il dire che non potevano avere gli indios al loro servizio senza peccato; e non ci credevano, come se dicessero che non si potevano servire delle bestie del campo”. Lo stesso presidente del Consiglio delle Indie – istituzione alla quale Las Casas rivolse diversi appelli –, Juan Rodrìguez de Fonseca, che era vescovo a Burgos, si vantava di possedere molti schiavi indios. Per questo il vescovo del Chiapas fu costretto ad assaltare le trincee ideologiche dei suoi oppositori partendo dal basso. I pregiudizi erano saldissimi e robusti e le orecchie spesso tappate dalle esigenze erariali e da più prosaiche mazzette dei coloni, che volevano garantirsi lauti profitti, e delle multinazionali del tempo, come la corporazione bancario-assicurativa della famiglia Welser, che si era impadronita di una fetta del 9
Venezuela con i suoi mercenari, guidati dal conquistador tedesco Nikolaus Federmann. Quella delle infamie perpetrate dal capitalismo colonialista fu un’altra delle questioni di cui Las Casas si occupò in prima persona, scrivendo una lettera di denuncia al Consiglio delle Indie: “E come non vedevano le Vostre Signorie lo sfruttamento cui i tedeschi avrebbero sottoposto quella terra e i suoi abitanti nel tempo che gliela aveste concessa? Non si adopereranno a sfruttarla e a distruggerla per ricavare ciò che hanno prestato ed è costato loro? Poiché affermo che, nei quattro anni in cui dicono debba durare loro (la concessione), potranno rubare tanto per comprare tutta la Germania. Perché, signori, concedete così generosamente ciò che non conoscete, né sapete ciò che offrite, né ciò che potete dare, con sì grande danno di Dio e del prossimo?”. Questa è invece una felice sintesi del muro di gomma contro cui si trovò a cozzare: “Tutti costoro, o alcuni di loro, furono i primi…che a corte infamarono gli indios, dicendo che non sapevano governarsi o che avevano bisogno di tutori; e questa cattiveria crebbe sempre, tanto che li umiliarono fino a dire che erano incapaci di fede – che non è una piccola eresia – e a renderli uguali alle bestie, come se in tante migliaia di anni dacché queste terre sono popolate, piene di popoli e genti, con i loro re e signori, vivendo in tutta pace e tranquillità, in tutta abbondanza e prosperità – quella che la Natura richiede affinché gli uomini vivano e si moltiplichino in inmenso – avessero avuto bisogno della nostra protezione. […]. E così iniziarono per tutto questo orbe a infamare e dire quanti mali si potevano credere negli indios e, principalmente, che erano bestie, fannulloni e che amavano l’ozio e che non si sapevano governare, per fingere necessità che sembrasse opportuno possederli e servirsi di loro in quell’infernale schiavitù in cui li misero, dicendo di civilizzarli e per farli lavorare” (Historia de las Indias). Così le richieste del Nostro furono spesso respinte, sebbene il suo eroismo ed il suo spirito indomito non mancassero di portare dalla sua parte diverse figure di non poco prestigio e di influenzare alcune decisioni sovrane sulla politica coloniale spagnola. Ci possono essere degli esseri umani che non discendono da Adamo? Adolph Bandelier, un insigne archeologo svizzero che esplorò l’America centrale e meridionale a cavallo tra il diciannovesimo ed il ventesimo secolo, riassunse, in un interessantissimo ed esaustivo articolo apparso nel 1905, le diverse tradizioni peruviane che menzionavano una qualche sorta di leggendario sbarco di stranieri sulle coste sudamericane. Egli segnalava che l’origine delle genti che avevano popolato il Nuovo Mondo era stato forse il primo dei problemi che si erano trovati ad affrontare gli Europei in seguito alla scoperte delle Americhe. Come vedremo, in genere la posizione prevalente fu quella monogenetista, che tendeva a prediligere un’interpretazione elastica delle Bibbia. I nativi sarebbero stati i discendenti dei popoli protagonisti delle migrazioni conseguenti al crollo della Torre di Babele o, più raramente, delle tribù d’Israele scomparse in seguito alla deportazione in terra di Babilonia in un periodo successivo. Bandelier fece notare che per gli Spagnoli del tempo della Conquista fu molto facile interpretare le leggende locali come prove storiche a sostegno di questo assunto. Egli stesso mette in guardia chi intenda impegnarsi nella disamina delle suddette leggende: “ciò che desidero si tenga nella massima considerazione è il pericolo che le tradizioni 10
orali indiane siano state “arricchite” da chi le ha raccolte, in modo da fornire sostegno ad una particolare teoria” (Bandelier, 1905, p. 251). Il clima culturale e dottrinario del periodo influenzò dunque pesantemente i cronisti della prima fase dell’”ispanizzazione” della futura America Latina. Questo capitolo esamina alcune delle teorie più in voga sull’origine delle popolazioni americane, elementi di un furioso dibattito che si era scatenato in Europa all’indomani della scoperta del Nuovo Mondo e dell’umanità che lo popolava. Da dove provenivano queste genti? Erano figli del demonio o avevano ricevuto in una qualche misura il messaggio evangelico da ipotetici predicatori giunti in America prima di Colombo? Potevano essere considerati di pari dignità rispetto ai conquistatori europei oppure schiavi di natura? Bandelier raggruppò in tre grandi categorie le molteplici tradizioni riguardanti l’arrivo di “predicatori caucasoidi” nel Sudamerica in un’epoca precedente allo sbarco degli Spagnoli. La prima comprende quelle narrazioni che accennano alla comparsa di esseri umani di fisionomia diversa da quella indigena. La seconda annovera quelle che fanno menzione di antichi insediamenti americani costituiti da genti provenienti da regioni oltreoceano. Infine nella terza troviamo le leggende che narrano di sbarchi avvenuti sulla costa nord-occidentale dell’America meridionale. Dalla Corónica moralizada del Orden de San Agustin en el Peru di padre Antonio de la Calancha veniamo a sapere che uomini bianchi e barbuti, dopo essere sbarcati sulle coste brasiliane ed aver attraversato l’Amazzonia, erano giunti sul Titicaca predicando alla maniera di missionari. Là uno di loro era stato ucciso, mentre l’altro aveva proseguito il suo cammino fino ad arrivare sulle coste del Pacifico, dove era scomparso. In Colombia, presso i Muisca ed i Chibcha, incontriamo Bochica, predicatore dalla lunga barba, scalzo e vestito con una specie di tunica. Questa categoria di leggende in genere fa riferimento alla figura di Wiracocha, una specie di semidio predicatore, che fu presto adottato come prova decisiva dai promotori della tesi secondo cui il Nuovo Mondo era già stato visitato dagli apostoli di Cristo, come ad esempio San Tommaso, o da anonimi discepoli in un periodo posteriore. Pr la seconda categoria ci sono pervenute le relazioni dei frati agostiniani sulla regione di Huamachuco, elaborate tra il 1552 ed il 1561, che hanno trascritto la credenza locale nell’esistenza in un remoto passato di insediamenti di stranieri che si sarebbero in parte estinti con il passare del tempo ed in parte sarebbero emigrati senza più fare ritorno. Secondo Cieza de Leon (Cronica del Perú), un capo indigeno un giorno si diresse vero il Titicaca e trovò “sull’isola maggiore di quella palude delle genti di pelle bianca e barbute con le quali si scontrò, sterminandoli”. Nell’Historia del Perù y varones insignes en santidad, Anello Oliva, un gesuita italiano vissuto tra il XVI ed il XVII secolo, riferisce che un numero imprecisato di stranieri sbarcarono lungo la costa del Venezuela, nei pressi di Caracas, per poi spingersi nell’interno, fino a raggiungere Santa Elena nell’Ecuador e poi, per mezzo di una lunga navigazione costiera, nel Perù meridionale ed in Cile. Oliva sostiene che i dati in suo possesso testimoniano come questo popolo non fosse nativo del Nuovo Mondo ma provenisse dalla Tartaria, la Cina di allora. Oliva fu il portavoce di un movimento gesuita clandestino che cercava di tutelare la dignità dei nativi in qualunque modo possibile, anche avvalendosi di tradizioni arbitrariamente modificate. Tuttavia queste credenze esistevano anche nel nord del paese, più precisamente tra i Chimù, ed era diffusa una tradizione incaica che collegava la genesi del mondo al cammino “demiurgico” di una 11
specie di antenato totemico peruviano divinizzato, tale Apu Kon Tikse Wiracocha (o Koniraya Wiracocha), il quale, supremo artefice dell’universo, non si negò una lunga peregrinazione attraverso le terre da lui create, con la relativa assegnazione ad ogni popolo del suo proprio territorio di stanziamento e luogo di culto. Come segnala Mario Marchiori, “il fatto che in questo mito si parli di luoghi che furono incorporati nell’impero incaico relativamente tardi lascia supporre che questa versione sia il risultato dell’incorporazione, operata dagli Inca stessi per consolidare il loro impero, di miti originariamente locali” (Marchiori, 1999, 175). Nella cronaca di Oliva, basata sui racconti di Catari, uno degli ultimi sapienti inca (quipucamayoc), ritroviamo alcuni dei motivi presenti nelle fonti messicane: l’arrivo in America susseguente al Diluvio Universale (Pachakuti), la coesistenza di umani e giganti (alti tra i 4 ed i 5 metri) che li tiranneggiavano, il pellegrinaggio di predicatori di aspetto europeo, la stretta connessione tra potere imperiale e culto del sole. Oliva fece parte di un ristretto e piuttosto riservato circolo di gesuiti dediti allo studio delle culture locali nell’intento di rendere loro giustizia. Carlos Galvez Peña, nella sua introduzione alla cronaca di Oliva, scrive che “alla base della sua opera si situa la convinzione nella dignità umana degli indiani” che condivide con “un altro umanista del suo stesso ordine, padre José de Acosta”. Alcune dichiarazioni del gesuita italiano gli guadagnarono l’aperta ostilità di alcuni potenti gesuiti spagnoli, molto preoccupati a causa della “cattiva” influenza dei gesuiti italiani in Perù. Sempre Peña osserva che nell’opera di Padre Vargas “Biblioteca peruana”, si fa riferimento a un clima agitato e per nulla “fraterno”. È in particolar modo sul tema della valutazione della dignità umana degli indigeni americani che si consuma la frattura fra i gesuiti italiani e umanisti (gesuiti e non) spagnoli. Nessuno stato o signoria italiana aveva il benché minimo interesse nelle Americhe, a causa della posizione geografica decentrata della nostra penisola, che si trovava separata dall’Atlantico proprio da quelle potenze coloniali iberiche che si sarebbero divise la futura America Latina. Il papato invece si trovava impegnato nell’organizzazione del programma di evangelizzazione delle nuove terre. La creazione della Compagnia del Gesù (1534) fu così approvata da papa Paolo III (1540) ed incaricata di fare opera di proselitismo in Estremo Oriente e nel Nuovo Mondo. All’inizio del XVII secolo si formarono due fazioni gesuite divise proprio dalla provenienza dei propri simpatizzanti. Da una parte troviamo gesuiti italiani come Oliva e Giovanni Antonio Cumis, o Matteo Ricci e Martino Martini in Cina, e dall’altra soprattutto quelli spagnoli. In verità non esistevano confini netti, ma solo dei poli di attrazione contrapposti, che riproducevano nel contesto gesuita il dissidio tra latifondisti e missioni, specialmente in Messico, scaturito fin dall’inizio della colonizzazione a causa di una diversa visione della dignità ed umanità dei vinti. Da una parte erano schierati i coloni, fautori delle encomiendas, cioè di una forma di schiavitù legittimata dalla necessità di condurre gli indigeni sulla retta via. Già il 30 novembre del 1511 il frate Antonio de Montesinos si rivolgeva in una predica ai coloni, con queste parole: “Questi, non sono uomini? Non hanno anime razionali? Non siete obbligati ad amarli come voi stessi?”. Fu proprio questa predica a trafiggere la coscienza di Las Casas, avviandolo alla sua vocazione: la difesa dell’umanità e dignità degli oppressi. La giustificazione di questo sistema di asservimento era ricercata nella teoria politica di Aristotele, che godeva di un vero e proprio rinascimento di interesse in quegli 12
anni, e nel pensiero dell’Aquinate, che aveva distinto due tipi di dominio, uno “reale”, che consisteva nel “governare uomini liberi e sudditi per il loro bene e utilità”, e l’altro “dispotico”, che “è come da signore a servo”. Il licenziato Gregorio applicò questo secondo modello agli indios, che ritiene giusto, dal momento che “si applica verso coloro che per natura sono servi e barbari, quelli che mancano di giudizio e di comprendonio, come sono questi indios, che secondo l’opinione di tutti, sono come animali che parlano” (AA.VV., 1984, p. 95). L’encomienda divenne dunque un “mezzo molto più conveniente [rispetto alla libertà] per ricevere la fede e continuare a perseverare in essa”. L’aspetto più sgradevole di questa disputa fu che un sotterfugio per ottenere manodopera gratuita si trasformò in un pregiudizio duro a morire anche per gli stessi ecclesiastici, molti dei quali conclusero che non valeva la pena di sprecare delle energie per degli esseri che non erano del tutto umani, quindi non adatti ad accogliere il messaggio e tantomeno i sacramenti. Così, mentre negli ambienti coloniali colti dilagavano concezioni poligeniste del popolamento del mondo, secondo cui gli Indios non erano discendenti di Adamo, ma di altro ceppo umano, e quindi non avevano la medesima dignità, oltre che le stesse potenzialità, degli Europei, dall’altra parte della barricata si sviluppava un acceso dibattito monogenista. Questo cercava di dare una risposta al quesito posto dall’esistenza di culture evolute in zone così distanti dal mondo civile e che allo stesso tempo progettava nuove forme di inculturazione degli indigeni tramite le reducciones, soprattutto ad opera dei missionari italiani che non erano invischiati negli interessi economici dei coloni. Fu in questo stesso periodo che si consumò anche una parziale frattura tra gesuiti italiani ed umanisti italiani. All’interno dell’ordine gesuita esistevano perciò delle correnti di pensiero che si distaccavano, talora in maniera drammatica, da quello che doveva essere l’indirizzo ufficiale, stabilito dalle alte gerarchie dell’ordine stesso. Alcuni gesuiti subirono la reazione dei loro superiori a causa di atteggiamenti non sempre “consoni” ai loro incarichi. Nel 1989, la scoperta in una collezione privata di Napoli del cosiddetto “Manoscritto di Napoli”, raccolta di scritti di alcuni gesuiti, tra i quali Oliva, Cumis e Pedro de Illanes, confermò come all’interno dell’Ordine esistessero delle correnti di pensiero in contrasto con la politica filo-spagnola del Padre Generale Aquaviva e che furono costrette alla clandestinità dal rigore di quest’ultimo. A Cumis fu impedito il trasferimento in Cina, mentre ad Oliva non fu concessa la pubblicazione della sua prima opera. Pedro de Illanes operò in un periodo posteriore, quando l’Ordine cominciava già a risentire delle pressioni politiche dei regni cristiani, sempre più insofferenti verso le continue intromissioni dei gesuiti nei loro affari interni e i superiori avevano problemi ben più gravi della disciplina di missionari recalcitranti. Eppure Illanes esprime opinioni del tutto affini a quelle dei gesuiti che redassero il manoscritto e per molti versi in consonanza con le più intime convinzioni di Las Casas. In un passo del sopracitato documento, in cui Illanes s’interroga sull’identità degli autori del manoscritto sulle origini degli Inca e del loro sistema di scrittura, leggiamo: “Chiunque egli sia, ha scritto una pagina di storia veramente drammatica: è poco, senza dubbio, ciò che resta dell’antica Gerusalemme sulla quale passarono, violenti e devastatori, i Conquistadores. Dio ne abbia misericordia…”. Dunque per Illanes, che scriveva nel 1737, era ancora del tutto naturale l’eretica associazione tra il l’Impero Inca (Tawantisuyu) e la “Città di Dio” agostiniana. Rimane da citare il misterioso Blas Valera, del quale Giovanni Antonio 13
Cumis dice che “per l’intero popolo dei Piruani, essendo egli meticcio, fu non solo guida spirituale, ma soprattutto loro difensore…il quale ebbe molti fastidi dai suoi stessi confratelli, per il fatto che s’era schierato contro le torture della queshua che gli Spagnoli praticavano per estorcere l’oro…non voleva che alcuni di essi (i sacerdoti cristiani), falsamente col nome di Gesù Cristo sulla bocca, accusassero di idolatria il popolo…in quanto la religione da esso professata era molto simile a quella Cattolica”. Lo stesso Oliva dichiara che “tutte le religioni hanno fondamenta comuni”. In un importante brano, dedicato alla figura di Huayna Capac, undicesimo Inca, Oliva esprime la sua convinzione che il vangelo sia stato in qualche modo percepito dagli indigeni anche prima dell’arrivo dei missionari. È il fol.74v., dal quale apprendiamo che l’Inca si era permesso di non piegare la testa di fronte al padre Inti, il Sole, motivando questa sua condotta sacrilega con un ragionamento tanto arguto che era stato in grado di convincere il Gran Sacerdote. Nessun suddito poteva costringere l’imperatore a fare alcunché. Stando così le cose solo un essere più potente poteva obbligare il Sole a seguire costantemente la traiettoria celeste ad esso assegnata; di qui l’inutilità di mostrare devozione verso un servo. Oliva commenta questa argomentazione dell’Inca affermando che, se i missionari fossero giunti a quel tempo, sarebbero certamente riusciti a convertirlo alla vera fede, dato che il seme era stato già gettato dalla divina provvidenza. Il miraggio di una comunità umana unita da una stessa credenza pervadeva questi confratelli, al punto da far loro intravedere la possibilità che le sue fondamenta fossero già state in qualche modo gettate prima dell’arrivo dei Conquistadores. Questo per merito delle riflessioni di alcuni individui particolarmente ispirati, o per una predicazione diretta da parte di cristiani spintisi fin laggiù secoli addietro. Ma torniamo alla domanda centrale che ci si pose al momento del Contatto, che è poi quella formulata da Agostino: ci possono essere degli esseri umani che non discendono da Adamo? Secondo Giuliano Gliozzi l’appartenenza degli Americani al genere umano non fu mai seriamente messa in discussione nella Spagna del primo Cinquecento, ligia alle consegne papali (Gliozzi, 1977). Per il gesuita José de Acosta, autore della Historia natural y moral de las Indias era irrilevante il modo in cui Dio aveva popolato il Nuovo Mondo; ciò che contava era la fondamentale unità dell’umanità. Tommaso Campanella, sebbene monogenista in accordo con le Sacre Scritture, era fautore della tesi della progressiva corruzione della stirpe noachica approdata in America e quindi della giustezza della punizione degli Indios da parte degli Spagnoli che, umiliandoli, divenivano strumenti della volontà provvidenziale. Campanella sosteneva che le Sacre Scritture menzionavano il Nuovo Mondo: Mosé, a suo parere, aveva tramandato che i figli di Javan avevano raggiunto le isole; Gesù, sempre a suo parere, affermava di voler raccogliere con sé anche “le altre pecore, che non sono di quest’ovile”. Infine Esdra che, ispirato dall’Altissimo, parlava dello stretto che si deve oltrepassare per regnare sopra il vasto mare (Gliozzi, 1977). Nella prospettiva monogenetista, che dominava gli ambienti ecclesiatici del tempo, intensamente impegnati a replicare alle teorie poligenetiste “libertine”, era naturale che le Americhe non potessero essere intese come un mondo assolutamente estraneo a quello biblicocristiano. Ciò avrebbe significato abdicare dalla missione suprema del suo completo inglobamento realizzato con l’evangelizzazione e con la costituzione di una monarchia 14
universale cattolica. Di conseguenza per Campanella l’unica famiglia umana, che ha come capostipite Adamo, fu distrutta da Dio con il diluvio universale che separò, come testimonia Platone, il Vecchio dal Nuovo Mondo. Questo fu ripopolato da Noè, che provvide a mandarvi “colonie […] per la China ed il Giappone, ed empì di abitatori tutto il paese sin a Baccalaos e tutto il Perù” (Ghiozzi, op. cit.). Questi discendenti non ebbero la possibilità di ricevere la parola di Cristo, e per questo continuarono a peccare. Antonio de la Calancha (1584-1684), monaco agostiniano e antropologo ante litteram, sosteneva l’ipotesi tartara perché anche lui non era rimasto immune alla “fascinazione” europea verso l’estremo Oriente. Uno dei primo estensori delle cronistorie indigene, il padre gesuita Miguel Cabello de Valboa, malagueño di nascita e giunto in America a partire dal 1556, era noto per la precisione delle sue ricerche, redatte dopo aver minuziosamente esplorato gli altipiani e la foresta vergine dell’Ecuador e del Perù settentrionale, ma anche per essersi formato una pervicace convinzione riguardo all’origine dei nativi. Von Hagen (Von Hagen 1987, p. 117) annota che “frate Juan de Orozcomán, un erudito francescano che in molti suoi scritti aveva già avanzato ipotesi sulle “origini”, così rispose a Cabello, avido di sapere: gli indiani erano Ebrei; essi discendevano “da Noè attraverso Sem ed attraverso Ofir pronipote di Noè”. Padre Cabello adottò questa tesi. Mentre era a Quito, aveva persino eseguito una mappa, ora perduta, per rappresentare queste migrazioni; egli si lanciò a dimostrare per mezzo dell’indagine che quegli indiani discendenti da Ofir avevano raggiunto il Sudamerica passando per le isole sparpagliate nel Pacifico, tra l’India e le due Americhe. Per concludere, la testimonianza di Francesco Guicciardini, che così commentava la scoperta del Nuovo Mondo nel capitolo nono del libro sesto della “Storia d’Italia”: “Né solo ha questa navigazione confuso molte cose affermate dagli scrittori delle cose terrene, ma dato, oltre a ciò, qualche ansietà agl’interpreti della Scrittura sacra, soliti ad interpretare che quel versicolo del salmo, che contiene che in tutta la terra uscì il suono loro, e nei confini del mondo le parole loro, significasse che la fede di Cristo fosse per la bocca degli Apostoli penetrata per tutto il mondo: interpretazione aliena dalla verità, perché, non apparendo notizia alcuna di queste terre, né trovandosi segno o reliquia alcuna della nostra fede, è indegno di essere creduto, o che la fede di Cristo vi sia stata innanzi a questi tempi, o che questa parte sì vasta del mondo sia mai più stata scoperta, o trovata da uomini del nostro emisferio” (Guicciardini, 1963). Molte idee e tutte poco chiare. Per completare la descrizione del clima ideologico nel quale si svilupparono le teorie sul popolamento del Nuovo Mondo, sarà ora necessario concentrarsi sulla nozione di razza come stava prendendo forma all’epoca della Riconquista, ossia della cacciata dei Mori dal suolo iberico, avvenuta nel 1492, poco prima della scoperta dell’America, quasi che l’impulso espansionistico della corona di Castiglia non potesse arrestarsi sulle coste del Mediterraneo. Uomini a metà Il sott’uomo, questa creatura, con le sue mani, i suoi piedi, quel suo tipo di cervello, con i suoi occhi e la sua bocca, una creatura che sembra appartenere alla stessa specie di quella umana. Tuttavia se ne 15
discosta completamente: una creatura orribile, una parvenza di uomo, con tratti simili a quelli dell’uomo, ma situata, in virtù del suo spirito, della sua anima, al di sotto dell’animale. All’interno di questa creatura vi è un caos di passioni selvagge, senza freni: un’indicibile volontà di distruzione, messa in atto dagli appetiti più primitivi, un’infamia senza pudore. Ufficio centrale delle SS per la razza e la colonizzazione, testo di propaganda contro gli Ebrei (1942) Nel secolo presente i neri sono creduti di razza e di origine totalmente diversi da’ bianchi, e nondimeno totalmente uguali a questi in quanto è a diritti umani. Nel secolo decimosesto i neri, creduti avere una radice coi bianchi, ed essere una stessa famiglia, fu sostenuto, massimamente da’ teologi spagnuoli, che in quanto a diritti, fossero per natura, e per volontà divina, di gran lunga inferiori a noi. E nell’uno e nell’altro secolo i neri furono e sono venduti e comperati, e fatti lavorare in catene sotto la sferza. Tale è l’etica; e tanto le credenze in materia di morale hanno a che fare colle azioni Giacomo Leopardi, Pensieri LXVI Atrocità, genocidi e schiavitù sono inevitabili? Non per Las Casas, che si sforzava di trovare un modo per prevenire la prepotenza dei forti sui deboli, raccogliendo tutte le ragioni che potessero sostenere la sua campagna umanitaria. Non si opponeva all’idea che alcuni popoli fossero effettivamente barbari ma faceva rilevare come “queste genti delle Indie, come noi le stimavamo barbare, così anch’esse, non comprendendoci, ci consideravano tali” (Apologética Historia II, 435). Ribadiva inoltre che tutti gli esseri umani sono stati creati ad immagine e somiglianza di Dio e quindi vanno considerati fratelli, redenti dal sacrificio del Cristo. Senza questa credenza nella creazione autoriflessa la servitù naturale sarebbe stata più facilmente difendibile. Bisogna però pure ammettere che l’assunto cristiano da essa derivato dell’identico valore di tutte le anime umane potrà anche aver influenzato positivamente il pensiero giuridico europeo, ma non ha impedito che la schiavitù nei paesi cattolici sia rimasta in vigore per quasi 1900 anni (Cuba abolì la schiavitù nel 1880 ed il Brasile nel 1888), ossia per circa il 95 per cento della storia della Cristianità stessa. Gregorio XVI, nella bolla In Supremo (1839), denunciava questa nefandezza in termini inequivocabili: “Ma poi, e lo diciamo con immenso dolore, sono sorti, nello stesso ambiente dei fedeli cristiani, alcuni che, accecati dalla bramosia di uno sporco guadagno, in lontane e inaccessibili regioni ridussero in schiavitù Indiani, Negri e altre miserabili creature, oppure, con un sempre maggiore e organizzato commercio, non esitarono ad alimentare 1’indegna compravendita di coloro che erano stati catturati da altri”. Nonostante ciò, il suo successore, Pio IX, nelle sue istruzioni del 20 giugno 1866 pochi mesi dopo l’entrata in vigore del tredicesimo emendamento, abolizionista, della Costituzione degli Stati Uniti d’America, il 6 dicembre 1865 - dichiarava che: “La servitù in quanto tale, considerata nella sua natura fondamentale, non è del tutto contraria alla legge naturale e divina; possono esserci molti giusti diritti alla servitù e sia i teologi che i commentatori dei canoni sacri vi hanno fatto riferimento. Non è contrario alla legge naturale e divina che un servo possa essere venduto, acquistato, scambiato o regalato” (cf. Martina, 1985). Per l’intero corso della storia umana, l’istinto della prevaricazione e l’ideologia dell’oppressione hanno continuato a dividere l’umanità in due categorie: la specie degli 16
uomini autentici e la specie dei semiumani, sottoumani o primati superiori, passibili di assoggettamento. Fortunatamente il filosofo britannico John Locke (1632 –1704), paladino della proprietà privata, fu l’ultimo dei grandi pensatori europei a produrre argomentazioni in favore della schiavitù perpetua. Possiamo dunque sperare che eventuali future inversioni di rotta, come durante il nazismo, siano solo episodiche. Mentre nel Nord Europa si dibatteva sulla possibilità che diversi ceppi della specie umana si fossero sviluppati in diversi punti del globo, la disfida dialettica tra Las Casas e i suoi avversari orbitò piuttosto intorno al tema della pari dignità in contrapposizione alla condizione di servitù naturale. In un certo senso gli schiavisti ispanici utilizzavano le argomentazioni del pensiero razziale e solo in rari casi manifestavano pubblicamente il riduzionismo teriomorfo del nazismo, che combatteva Ebrei e Rom come specie antiariane e perciò sub-umane ed anti-umane. Non era ammessibile farlo, specialmente dopo la bolla Sublimis Dei del 1537, in cui Paolo III affermava che i nativi americani erano esseri umani come tutti gli altri e perciò perfettamente idonei all’ammissione alla comunità dei fedeli. Non solo, il pontefice sferrava un attacco devastante alle opinioni di tutti coloro che giudicavano semi-umani o sotto-umani gli indiani, associandoli a Satana: “Il nemico del genere umano, che sempre si oppone alle opere buone affinché gli uomini periscano, inventò un mezzo fino ad oggi inaudito per impedire che la Parola di Dio fosse predicata alle genti per la loro salvezza e ispirò alcuni dei suoi sottoposti che, desiderando compiacerlo, non hanno esitato ad affermare che gli Indiani occidentali e meridionali e le altre genti di cui in questi tempi abbiamo avuto conoscenza, devono, con il pretesto che ignorano la fede cattolica, essere condotti alla nostra obbedienza come se fossero animali e li riducono in schiavitù, affliggendoli con quelle violenze che si usano con le bestie. Noi quindi che, benché indegnamente, facciamo in terra le veci di Nostro Signore e che con ogni sforzo cerchiamo di condurre al suo ovile le pecore del suo gregge che ci sono state affidate e che stanno fuori del suo recinto, considerando gli stessi indiani come i veri uomini che sono, che non solo sono capaci di ricevere la fede cristiana, ma che, secondo le nostre informazioni, accorrono prontamente ad essa, e desiderando intervenire con rimedi opportuni, facendo uso dell’Autorità apostolica determiniamo e dichiariamo attraverso le presenti lettere che detti Indiani, e tutte le genti di cui in futuro i cristiani verranno a conoscenza, benché vivano fuori della fede cristiana, possono usare, possedere e godere liberamente e lecitamente della loro libertà e del dominio delle loro proprietà; che non devono essere ridotti in schiavitù e che quanto sia fatto contro di ciò è nullo e senza valore; che detti Indiani e le altre genti devono essere invitati ad abbracciare la fede di Cristo attraverso la predicazione della Parola di Dio e con l’esempio di una santa vita, non essendovi nulla in contrario”. Pensieri espliciti e categorici, ma purtroppo pronunciati in un sistema mondiale non regolato dal diritto internazionale e dai mezzi per farlo rispettare. La quasi totale indifferenza dei partecipanti al Concilio di Trento nei confronti della questione dell’evangelizzazione degli Indios e il fatto che entro la metà del sedicesimo secolo il governo spagnolo aveva già nominato autonomamente ventidue vescovi ed arcivescovi sul suolo americano, dimostrano lo scarso ascendente papale in queste faccende.
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Le cronache, le relazioni e le corrispondenze mostrano che molti Spagnoli non ebbero alcuno scrupolo e credevano sinceramente che la falcidie degli indios causata dalle epidemie fosse una punizione divina e quindi la prova che Dio stava dalla loro parte. Si stima che, nel 1496, l’isola di Hispaniola (gli attuali stati di Santo Domingo ed Haiti) avesse una popolazione di oltre 3 milioni e mezzo di abitanti. Dopo soli 22 anni il numero di indigeni era calato fino a 16.000, dopo 44 anni ne erano rimasti 250. Secondo una stima complessiva, al momento del contatto, la popolazione messicana era di circa 25 milioni. Dopo un secolo era scesa ad un milione. In Perù si passò da oltre 30 milioni a 5 milioni di indios in 28 anni di occupazione. La causa del collasso demografico non va ricercata solo nelle epidemie e migrazioni. Il calo continuò anche quando la situazione si era ormai stabilizzata. Quel che avvenne fu che il crollo delle strutture socio-culturali indigene aveva ucciso la speranza in un futuro migliore e non si facevano più bambini, ci si suicidava, ci si lasciava morire di inedia, o si moriva per esaurimento fisico da sfruttamento eccessivo (Traboulay, 1994). Sia padre José de Acosta, peraltro un uomo generalmente tollerante e comprensivo, sia Bernal Díaz del Castillo, esploratore, conquistador e cronista, stabilivano un parallelo tra Tenochtitlan e Gerusalemme e tra gli Indios e gli Ebrei condannati dal Dio cristiano. Gregorio García, nell’Origen del los Indios del nuevo mundo, legittimava la guerra santa facendo riferimento alle piaghe bibliche che avevano imperversato nel Nuovo Mondo per punire gli indigeni. Il missionario francescano Toribio de Benavente, detto Motolinía, che pure in diverse occasioni fustigava la violenza e l’arroganza dei conquistatori, era dello stesso avviso e cominciò la sua Historia elencando le dieci piaghe inviate da Dio a punire il Nuovo Mondo. La guerra era un castigo, la servitù un’espiazione, la distruzione di culture, simboli e stili di vita era ipocritamente elevata a principio di libertà trascendente e redenzione. Un sinistro e terribile esempio di nichilismo teologico-morale: bisognava disprezzare la vita terrena per potersi guadagnare quella ultraterrena. Convinti del fatto che Dio fosse dalla loro parte, gli Spagnoli trasformarono il Messico in un vero e proprio lager, dove gli indigeni morivano come mosche, dovendo persino pagare di tasca proprio per il materiale da costruzione che erano costretti ad usare per costruire la città dei nuovi signori, mentre i loro campi non venivano coltivati, condannandoli a morire di fame. Gli schiavi che lavoravano nelle miniere recavano sul volto i segni dei vari padroni che li avevano posseduti. Alla fine alcuni visi divenivano irriconoscibili. I neonati venivano fatti divorare dai cani per “diletto” o per sfamarli. I trasferimenti uccidevano una gran parte di questi schiavi. Innumerevoli testimoni assistettero a stupri di massa, pire di prigionieri ancora vivi e massacri completamente gratuiti, con terribili amputazioni e torture, per il puro piacere di farlo, perché era possibile farlo senza incorrere in alcuna punizione, come in Bosnia, come in Ruanda, come a Nanchino, come nell’Europa nazista. C’era chi si sentiva immune da ogni potere esterno, perché nessuno lo avrebbe incriminato per le sue azioni. Troppi esseri umani trovano gratificante violare le norme morali più basilari. I conquistatori più crudeli non si comportarono a quel modo solo perché erano avidi e volevano diventare ricchi nel più breve tempo possibile, giacché l’oro conquista titoli, onorificenze, prestigio, status, ecc. Lo fecero anche perché si divertivano a farlo, altrimenti non avrebbe avuto senso distruggere la forza lavoro che permetteva loro di arricchirsi. Si esaltarono nel loro istinto di morte, nel Bemächtigungsbetrieb, l’istinto di 18
dominio, di sopraffazione. Una società di maschi guerrieri, arrivisti, ingordi, brutali, stolti, pavidi, rinnegatori di se stessi, parvenu, leccapiedi privi di coscienza e di scrupoli, sadici che godevano nel torturare e massacrare gli avversari domati. Ma anche di amministratori coloniali modello, che portavano a termine il proprio compito senza esaminare il suo contenuto, senza interrogarsi sulla sua eticità, che amavano un lavoro ben fatto in quanto tale. Tutto questo condusse ad un’anestetizzazione della sensibilità. Né Cortés né Pizarro, né molti altri sterminatori si sentirono mai veramente responsabili di nulla, anche se avevano fatto qualcosa di così enorme che non potevano non riconoscerlo. La guerra di sterminio spagnola sovvertì l’ordine sociale locale e pervertì quello della madrepatria ma il tutto avvenne in una parentesi temporale, in un Nuovo Ordine di un Nuovo Mondo dove le regole del vecchio non valevano più, o molto limitatamente. Un intervallo di tempo sospeso, al di fuori della storia, non una cesura – anche se per gli indigeni fu la più devastante delle cesure. Una liberazione dalle costrizioni della vita quotidiana in un sistema chiuso, una scatola nera ermeticamente sigillata rispetto all’esterno, dove l’anormalità diventava la norma, le convenzioni non valevano più e mancava una reale presa di coscienza di quel che si stava facendo. Un senso di finalità, di irreversibilità, di apatia ed intorpidimento morale conquistò tanti conquistatori, che non riuscivano a provare alcuna compassione se non per se stessi ed i compagni d’arme. Vivevano alla grande, erano diventati ricchi, andavano a letto con la pancia piena, senza preoccupazioni per il futuro. Ognuno aveva ricavato un profitto e si era lasciato alle spalle gli inconvenienti della miseria, le norme sociali della madrepatria e i principi fondanti della religione. In molti casi è assai probabile che non percepissero di avere una vera e propria esistenza individuale e non la riconoscessero alle vittime, esattamente come queste ultime – gli Aztechi ed i loro alleati – non l’avevano riconosciuta ai popoli sottomessi. Qualcuno doveva recitare la parte della vittima e qualcun altro quella del persecutore trionfante. Poi c’era il riduzionismo zoologico. In ogni genocidio si animalizzano le vittime. Più remoto ed alieno il nemico, più calamitoso il massacro: con l’espandersi degli orizzonti, l’esotismo degli incontri, l’indebolirsi delle leggi e l’allontanarsi delle forze dell’ordine, tutto è permesso. Ci si convince che Dio non ha nulla a che vedere con le vittime, anzi, è favorevole alla loro distruzione. Senza questi elementi di certezza morale, distanza psicologica e fatalismo biologistico e teologico, senza il carattere assoluto di questo progetto, è difficile immaginare che la Conquista si sarebbe realizzata così brutalmente. Esaminiamo meglio questo aspetto teriomorfizzante. Nel 1556 il cronista Gonzalo Fernández de Oviedo diede alle stampe la Historia general y natural de las Indias, che descriveva con abbondanza di particolari le usanze indie, a volte in modo abbastanza obiettivo, e talora persino con paragoni piuttosto favorevoli rispetto a Greci e Romani. Tuttavia, pur non riducendo gli indiani al rango di cavalli o asini, li collocava da qualche parte tra i materiali da costruzione e gli altri oggetti inanimati. “Dio provvederà presto a distruggerli tutti”, tuonava, sicuro che “l’influenza di Satana scomparirà quando la maggior parte degli indiani sarà morta…chi può negare che l’uso della polvere da sparo contro i pagani equivale alla combustione dell’incenso in onore di Nostro Signore?”. Concludeva poi che gli Indiani sono “codardi sozzi e mentitori che si suicidano per noia, solo per danneggiare gli Spagnoli con la loro morte; non hanno alcun desiderio o capacità di lavorare” e l’idea di farne dei Cristiani equivaleva a “martellare il ferro quando 19
è freddo” perché le loro teste erano così dure che quando combattevano contro di loro gli Spagnoli dovevano stare attenti a non colpirli in testa con le spade, per non spezzarle. I sovrani indiani, continuava lo storico e naturalista spagnolo, non avevano alcuna pietà e governavano con l’intento di incutere il terrore, non facendosi amare. Adoravano il diavolo, ma non per sincero amore, ma perché lo temevano. Essi spiegavano ai cronisti che se non lo avessero fatto lui avrebbe inviato la grandine a distruggere i loro raccolti. Oviedo assicurava che gli uomini erano pigri, mandavano le donne e i bambini a lavorare mentre loro battevano la fiacca e passavano le giornate ad ubriacarsi. Vivevano in povertà per l’eccessiva tassazione dei sovrani aztechi e se non riuscivano a pagare le tasse erano venduti come schiavi. Fu l’unico cronista ad essere citato da Sepúlveda nella Disputa di Valladolid a supporto della tesi dell’intrinseca depravazione ed inferiorità degli Indiani. Las Casas ribattè che il cronista di corte aveva questa pessima opinione degli indios perché lui stesso aveva preso parte alla Conquista: il suo giudizio era distorto dalle nefandezze che aveva a sua volta commesso o autorizzato. Accanto a queste asserzioni se ne possono enumerare altre che presentavano gli indiani come esseri semi-umani. Invero, la maggior parte dei commentatori europei accettava l’idea che i nativi fossero umani, ma era indecisa sul loro grado di umanità. Altri non riuscivano a trattenere il loro disprezzo per gli autoctoni; gli Indios erano una via di mezzo tra le scimmie e gli uomini, creati da Dio per servire l’uomo o comunque come ostacoli da sormontare nell’avanzata lungo la scala naturae, al fine di forgiare lo spirito e l’intelletto. L’umanista aronese Pietro Martire d’Anghiera ed il filosofo politico Giovanni Botero si trovavano d’accordo nello sminuirne l’umanità per la presunta assenza di leggi e di una vera e propria classe dirigente. Il viceré Francisco de Toledo, ottimo amministratore delle risorse minerarie del Perù quanto fu un pessimo gestore di quelle umane, asseriva che “prima di divenire cristiani, gli indios devono diventare uomini”. Il giurista Diego de Covarrubias, in seguito un abolizionista, li definiva “stolidi, dementes, obtusi, hebeti” e “di ingegno animale”. Persino l’educatore francescano fiammingo Pieter van der Moere (Pedro de Gante), che si considerava un padre per i suoi discenti, scrisse a Filippo II, nel 1585, che erano “animali senza ragione, indomabili, che non possiamo portare in seno alla Chiesa”, salvo poi dare un importante contributo allo sradicamento delle tradizioni locali. “I nativi di questa terra sono…adatti a ricevere la nostra santa fede. Ma hanno lo svantaggio di essere di condizione servile, perché non fanno nulla se non li si costringe…non hanno appreso a fare nulla per amore di virtù, ma solo per timore e paura. Tutti i loro sacrifici, cioè uccidere i propri figli o mutilarli, lo facevano per la paura, non per amore degli dèi” (cf. Thomas 1994, p. 463) José de Acosta, antropologo ante litteram e naturalista gesuita, nell’Historia natural y moral de las Indias aveva denunciato il pregiudizio di chi credeva che gli indiani fossero dei bruti, notando come, al contrario, chi li aveva studiati ed aveva appreso la loro storia era rimasto assolutamente “stupito di come ci siano stati così tanto ordine e raziocinio tra loro”. Ciò nonostante ebbe a dire degli indigeni non associati in forme statuali che “a tutti costoro, che a malapena sono uomini, o sono uomini a metà, è opportuno insegnare a essere uomini e istruirli come bambini. E se attraendoli con carezze si lasceranno istruire, tanto meglio; ma se resistono, non per questo bisogna abbandonarli. […] Ma bisogna costringerli con la forza ed il potere opportuni, ed obbligarli ad abbandonare la selva ed a riunirsi in villaggi e, anche in certo modo contro la loro volontà, far loro forza 20
perché entrino nel regno dei cieli”. Il domenicano Domingo de Betanzos li chiamava “bestias”. Nel 1528 disse che la loro barbarie condannava i Nativi Americani ad una rapida e certamente meritata estinzione, salvo poi, nel 1549, sul letto di morte, sconfessare tutto quello che aveva detto sugli Indiani, dichiarandolo frutto di un equivoco dovuto alla scarsa conoscenza della lingua autoctona ed alla sua ignoranza in generale. Il giurista spagnolo Juan de Matienzo li considerava “più schiavi dei miei negri”. Il dominicano Tomás Ortiz scriveva al Consiglio delle Indie che gli autoctoni erano cannibali, sodomiti, non conoscevano la giustizia, giravano nudi, non rispettavano l’amore, la virginità e la verità, salvo quando andava a loro vantaggio. Erano anche scimuniti, instabili, imprevidenti, ingrati e volubili, brutali, si dilettavano nell’esagerare i propri difetti, erano disubbidienti, insubordinati ed irrispettosi. Si rifiutavano o erano incapaci di apprendere il giusto modo di vivere. Le punizioni non servivano da deterrente con loro. Mangiavano insetti e vermi, osavano affermare che il messaggio cristiano era adatto agli Spagnoli, ma non necessariamente a loro; non volevano cambiare le loro usanze. Più vecchi diventavano, peggio si comportavano: da ragazzini sembravano avere una parvenza di civiltà, da vecchi diventavano delle bestie. “Devo dunque affermare che Dio non ha mai creato una razza tanto radicata in vizi e bestialità, senza alcuna presenza di bontà e civiltà”. Il francescano Bernardino de Sahagún va apprezzato non solo per aver studiato rispettosamente la lingua franca del Messico centrale, il nahuatl e la cultura Nahua dei Mexica, ma anche per la lodevole iniziativa di aver preservato i Colloquios y doctrina christiana, i sermoni dettati dai primi francescani giunti in Messico agli ultimi filosofi nahua. Da questi apprendiamo però che la visione comune era che l’indio, in quanto omuncolo, poteva essere ucciso o asservito, ma non solo, era necessario che accettasse questa sua condizione attraverso lo strumento di persuasione del terrore. Quando l’umanità indigena non fu più messa in discussione e la tesi della loro schiavitù naturale fu respinta, si escogitò l’inghippo della servitù paternalistica (schiavitù legale), cioè della presa in consegna di terre, risorse e popolazione in forza del principio della res nullius (area legittimamente appropriabile in quanto libera da vincoli proprietari), dello ius belli (il diritto di guerra) in una “guerra legittima” (bellum iustum), dello ius predae (diritto al bottino) e dell’imperativo della buona amministrazione di popoli immaturi (incapacità giuridica). Vale la pena di segnalare che questi stessi criteri di liceità furono quelli che consentirono agli statunitensi di impadronirsi delle terre indiane e di segregare i nativi americani nelle riserve. Anche in quel caso una delle ragioni addotte fu l’incapacità razziale di assolvere la missione morale di mettere a frutto le risorse naturali. Ancora nel 1945 il giudice della Corte Suprema Robert H. Jackson, che fu anche il procuratore capo americano al processo di Norimberga, commentava come segue la sentenza di “Northwestern Bands of Shoshone Indians v. United States” 324 U.S. 335 (1945): “Il senso del possesso, che sta alla base del diritto reale fondamentale [di proprietà], è una conquista esclusiva dei popoli civili”. In pratica, gli Europei avevano scoperto la terra, anche se questa era abitata da tempi ancestrali, e quindi se la potevano tenere (con acclusa l’umanità ivi dimorante), perché erano signori e padroni di natura, in quanto dotati di quelle facoltà intellettive e di quella saggezza che mancavano agli altri popoli. 21
Nel 1524 Cortés in persona si rivolgeva al sovrano per difendere lo status quo: “Conviene che Vostra Maestà ordini che gli Indiani di queste parti si affidino agli Spagnoli perpetuamente perché in questo mondo si avrà cura di ognuno come di una cosa propria, un’eredità che dovrà succedere ai discendenti”. Nel 1595, il gesuita Luis de Molina (1535-1600) pubblicò il primo volume di De Iustitia et Iure, affrontando il problema posto dalla tratta degli schiavi per la sensibilità e coscienza cristiana. Rigettava l’argomento della schiavitù naturale ma sosteneva che, almeno provvisoriamente, si dovessero agevolare “gli schiavisti pii”, quelli cioè disposti a donare agli schiavi la fede cristiana, strappandoli così ad una vita barbara ed empia, “sebbene tutto ciò si accompagni alla miseria della schiavitù perpetua”. È forse una delle prime formulazioni dell’ideologia del fardello dell’uomo bianco, costretto dalla sua compassionevole coscienza a prendere sotto tutela l’umano inferiore. Argomentazioni analoghe sarebbero poi state avanzate dai gesuiti Alonso de Sandoval e Diego de Avendaño, qualche decennio dopo Molina. In Noticias históricas de la Nueva España (1589), Juan Suárez de Peralta, figlio di un encomendero e lontano parente di Cortés, scriveva che gli indiani se la passavano molto meglio rispetto a prima della conquista. Si domandava argutamente anche come mai nessun attivista umanitario si fosse speso per la difesa dei diritti dei neri come lo avevano fatto per gli indios. Ogni argomento usato per gli uni doveva necessariamente valere anche per gli altri. Infatti, fatta eccezione per la pelle più scura, nient’altro li distingueva: erano cannibali, praticavano la schiavitù, l’idolatria ed i sacrifici umani e non avevano attaccato per primi gli Spagnoli, ma erano stati invasi. Eppure gli Spagnoli di ogni ordine e grado, inclusi vescovi, preti e persino frati, possedevano schiavi neri. Perché i due pesi e due misure? Fino al diciottesimo secolo, non ci fu mai un serio dibattito sulla condizione degli Africani e sulla loro uguale umanità. Per lungo tempo Las Casas fu uno dei pochi a pentirsi non solo dell’omissione della denuncia ma della perorazione dello schiavismo (André-Vincent, 1980). Infatti nel 1516 e 1518 aveva suggerito l’importazione di schiavi africani, fisicamente più resistenti ed immuni alle malattie europee, e nel 1544 aveva ottenuto una licenza per la loro importazione. Questa presa di posizione, che sconvolge la sensibilità dei lettori contemporanei, veniva incontro all’esigenza manifestata dai coloni di impedire che l’emancipazione degli indigeni bloccasse lo sviluppo delle colonie. In pratica, si rendevano necessarie delle concessioni, in cambio di una contropartita: la liberazione dal giogo dei nativi americani. Di qui la richiesta dei frati missionari di passare all’importazione di schiavi guineani, o bozales. Nel 1518 il sovrano concede la licenza di trasporto di quattromila schiavi africani nelle Americhe. Las Casas non fu direttamente coinvolto in questa decisione ma non la avversò, anche perché frate Pedro de Córdoba, in una missiva, lo esortava a dare per persa la popolazione caraibica, ormai virtualmente estinta, concentrandosi invece su quella del continente. Il comportamento lascasiano va dunque valutato alla luce di un frangente davvero catastrofico, in cui un processo di colonizzazione ed evangelizzazione giudicato realisticamente irreversibile è causa di un tracollo demografico inaccettabile sia in termini pratici, sia in termini cristiani. Nel luglio del 1519 Las Casas redige un progetto che prevede che ciascun colono disponga di sette schiavi e schiave per poter operare in modo tale da mantenersi ed arricchire le casse reali. Las Casas, molto realisticamente, non perde mai di vista la 22
necessità di perorare ogni sua causa giustificandola con l’interesse del monarca ad espandere le sue disponibilità finanziarie. Questo suo progetto non comportava la cattura di persone libere, ma il trasferimento dalla Spagna alle Americhe di prigionieri di guerra, bianchi o neri. Il suo errore più grave fu quello di non essersi interrogato sulla reale origine di quegli schiavi e sulla legittimità stessa della schiavitù di guerra. Nonostante le sue raccomandazioni, la quota di schiavi importati, che non doveva eccedere le quattromila persone, fu superata molto presto. Solo nel 1544, e specialmente a partire dal 1547, dopo la sua ordinazione a vescovo, Las Casas modificò in maniera sensibile la sua posizione sulla schiavitù africana, tanto che il rivoluzionario francese Danton, rivolgendosi alla Convenzione nazionale, che avrebbe approvato l’abolizione della schiavitù il 4 febbraio del 1794, lo indicava come un precursore dell’abolizionismo ed un modello da prendere ad esempio (Beuchot, 1994). Sostando a Lisbona prima di tornare nelle Americhe, apprese dai domenicani locali la realtà della tratta negriera e scoprì che altri uomini di chiesa portoghesi avevano raccolto le sue invettive contro il servaggio indio per applicarle agli Africani. Fu probabilmente allora che gli si aprirono gli occhi e vide che gli schiavi non erano prigionieri di guerre “giuste” ma vittime di rapimenti e deportazioni. La sua prima severa critica del traffico di schiavi portoghese e la netta sconfessione dei suoi precedenti convincimenti arrivarono nel capitolo 129 del terzo volume della Storia delle Indie, che però fu pubblicata integralmente solo tra il 1875 ed il 1876. Questa porzione della Historia de las Indias fu completata tra il 1555 ed il 1556. Si tratta dei capitoli che vanno dal 17 al 27, quelli di cui Pérez Fernández curerà un’edizione separata sotto il titolo di Brevísima relación de la destrucción de África. In essi il domenicano illustra e denuncia la conquista portoghese delle Canarie, delle Azzorre e della costa occidentale africana e spiega che nei primi anni del suo apostolato diversi coloni si rivolsero a lui per ottenere la licenza di sfruttamento di schiavi neri (algunos negros esclavos) promettendo che in cambio avrebbero liberato gli indigeni, ormai consunti. Nella sua petizione al re Las Casas non distingueva tra schiavi neri e bianchi e specificava una provenienza spagnola, non africana (esclavos negros y blancos de Castilla). Era convinto che gli schiavi fossero pirati turchi e saraceni catturati nel corso delle scorrerie o delle rappresaglie, dunque persone che dovevano sapere a che pena rischiavano di andare incontro. Nel testo chiamò “tratta infernale ed esecrabile” la schiavitù dei neri, ammettendo di aver “visto e compreso che ridurre in schiavitù i neri era tanto ingiusto quanto nel caso degli indios…e non è chiaro se l’ignoranza nella quale [lui] versava in questa materia e se la sua buona fede gli potranno servire come scusa dinnanzi al giudizio di Dio”. La sua identificazione della causa india con quella degli schiavi africani, per quanto relativamente tardiva, gli è comunque valsa il titolo di “primo difensore dei neri”, da parte di Ángel Losada (1970). A mio avviso è perciò corretto concludere che la leggenda di un Las Casas peroratore dell’istituzione schiavista fu dovuta alla lentezza con la quale si provvide a pubblicare la Historia de las Indias, che conteneva la suddetta nettissima e meditata presa di distanza dalle sue posizioni iniziali e la piena, convinta adesione alle posizioni abolizioniste. ***** 23
Le radici di queste controversie vanno ricercate agli albori della ricerca etnografica. Quando missionari ed esploratori cominciarono a spingersi verso i quattro angoli del globo incontrando popolazioni esotiche e “primitive”, scoprirono che in molte lingue il vocabolo usato per indicare gli esseri umani era anche il nome della tribù dell’interlocutore. In altre parole, i membri della tribù erano etnocentricamente esseri umani, gli altri no. Una forma primigenia di razzismo. In antropologia si definisce razza un gruppo di popolazioni appartenenti alla stessa specie che differisce in almeno alcune caratteristiche fisiche da un altro gruppo di popolazioni della medesima specie. Il razzismo è invece l’atteggiamento di chi giudica e tratta le persone in funzione della loro razza perché ritiene che un sostrato biologico determini la natura delle differenze culturali tra gruppi umani. Oggi la categoria razza non pare avere più alcuna utilità scientifica. Da tempo gli antropologi non compiono studi razziali ed anche i genetisti hanno marginalizzato questa tematica così scottante, questo perché non esistono studi empirici che siano riusciti a tracciare una linea netta e definita tra gruppi di popolazioni. Infatti certi tratti somatici o genetici più diffusi all’interno di un dato gruppo umano si possono incontrare in un altro gruppo che risiede in un continente diverso. Come sottolinea Luca Cavalli-Sforza (Cavalli-Sforza, 1996), quando si divide una linea continua lo si fa solo in modo arbitrario, e questo è precisamente ciò che avviene quando si separa la specie umana in razze. Il concetto moderno, cioè a dire “biologico”, di razza apparve a partire dal quindicesimo secolo della nostra era nella penisola iberica (Sweet 1997). In precedenza musulmani e cristiani avevano ridotto in schiavitù le popolazioni sub-sahariane senza porsi troppo il problema di una giustificazione scientifica delle loro azioni. Ma la necessità di separare i marrani spagnoli (ebrei convertiti) dai “veri cattolici” per poi cacciarli rese indispensabile l’adozione di criteri biologici. Successivamente, con l’ascesa del metodo scientifico, nel diciottesimo secolo, rinomati naturalisti come Linneo, Buffon e Blumenbach cominciarono a raggruppare assieme le popolazioni umane in funzione della loro posizione geografica. Ma si era ancora distanti dalla mania gerarchizzatrice del secolo successivo, quello che vide il trionfo del positivismo. Quando le ambizioni espansionistiche dei governi e della classe mercantile prevalsero la scienza non trovò mai particolarmente arduo confermare i sospetti del pubblico europeo, e cioè che se altre civiltà erano arretrate ciò dipendeva dall’inferiorità biologica dei suoi membri. Questa deriva cognitiva e ideologica della scienza antropologica e medica impose una concezione gerarchica delle differenziazioni razziali basata su premesse “naturalistiche”. La scala naturae, che nel linguaggio teologico rappresentava la catena che univa gli esseri viventi più semplici su su fino agli esseri umani, agli angeli per arrivare infine a Dio, fu rivista in modo tale da poter essere impiegata per rappresentare i rapporti gerarchici che intercorrevano tra le razze e le civiltà umane. Questa grande catena dei viventi formava una scala sulla quale si posizionavano gruppi e specie a seconda del loro livello qualitativo, in basso gli inferiori ed in alto quelli di elevato valore intrinseco. La sua origine storica può essere fatta risalire alle speculazioni dei filosofi politici della Grecia classica che s’interrogavano sulla miglior conformazione possibile della polis. La città ideale, come sostenevano fra gli altri Platone ed Aristotele, avrebbe dovuto strutturarsi in modo tale che gli schiavi, che erano inferiori di natura, occupassero per sempre i gradini più in basso. Quando questa visione dell’umanità si fuse con una lettura finalistica 24
dell’evoluzione, quella secondo cui le razze bianche erano destinate fin dal principio a dominare il mondo, nulla poté ostacolare le campagne imperialistiche delle grandi potenze europee in Asia e Africa e degli Stati Uniti nella loro espansione verso l’Oceano Pacifico. La distinzione tra classificazione tassonomica e giudizio di valore rimase estremamente confusa, mentre la variabilità culturale fu progressivamente ridotta ad una questione di diversità biologica, dunque inalterabile. L’anatomista scozzese Robert Knox, nel 1850, dichiarò che “la razza o la discendenza ereditaria sono tutto, esse marchiano l’uomo” (Hudson 1996, p. 248). In questo modo si radicava anche in Europa una dottrina, l’ereditarismo, per molti versi affine a quella karmica. Infatti, a differenza di quanto generalmente si crede, il karma non è esclusivamente inteso come un qualcosa di astratto ed impalpabile, come il peccato originale, ma anche come una sostanza che può essere trasmessa attraverso i fluidi corporei, alla stregua di un virus. Nell’originale sistema karmico ogni individuo è punito non solo per i propri peccati e manchevolezze, ma anche per quelli degli antenati e parenti (Keyes e Daniel, 1983). Le prime avvisaglie di ereditarismo risalgono al concetto medievale di noblesse de race (e del seme), ovverosia quella commistione di biologismo e moralismo, razzismo e fissazione per i lignaggi che permeava l’ideologia endogamica dell’aristocrazia feudale europea e che potremmo anche chiamare genealogismo. Spiega Giuliano Gliozzi che “a cavallo tra la biologia e la morale, il concetto di purezza del sangue apparteneva… all’ideologia nobiliare: la pratica endogamica della nobiltà spagnola e tedesca si giustificava implicitamente o esplicitamente con l’assunto che le virtù nobiliari si ereditassero col sangue” (Gliozzi 1993: p. 246). Fondato sul principio che solo i nobili natali, e perciò la purezza del lignaggio, potevano assicurare la nobiltà dello spirito e dell’intelletto, esso influenzò pesantemente la formazione del sistema castale latino-americano imposto dai Conquistadores (Gliozzi, 1986). Non intendo insinuare che il principale avversario di Las Casas, Juan Gines de Sepúlveda, avesse aderito entusiasticamente a questo tipo di sviluppi teorici e, di conseguenza, ai relativi corollari politici. Non è possibile dimostrarlo, perché Sepúlveda non avrebbe mai osato esprimersi pubblicamente in questi termini ma, come mostrerò, certe affermazioni contenute nelle sue opere e nella corrispondenza privata sembrano in effetti alludere ad un orizzonte mentale e morale non sufficientemente distante da questi orientamenti e in contrasto con la sua formazione umanista. Altri cronisti della Conquista furono certamente molto più espliciti di lui, perché non temevano l’autorità papale e confidavano nel fatto che la Corona spagnola avrebbe chiuso entrambi gli occhi, pur di evitare “complicazioni” nella sua politica coloniale. Lo sterminio degli indigeni fu reso possibile dall’accettazione di premesse che andarono ben oltre il razzismo più sfacciato, arrivando in certi casi a sfiorare i dogmi dell’arianesimo nazista, un caso esemplare di materialismo deterministico radicalizzato. Abbiamo visto e vedremo che vi fu non solo il rifiuto di intendere gli individui quali soggetti autonomi ed indipendenti, che hanno valore per quel che fanno e per il fatto di essere membri della stessa specie. Fu l’appartenenza alla medesima specie ad essere messa in dubbio. Molti commentatori dell’epoca della Conquista manifestavano una certa resistenza a considerare i nativi come esseri interamente umani. Ciò che avvenne nel nazismo ed in una porzione tutt’altro che insignificante dell’ideologia della Conquista fu un cortocircuito logico, un annebbiamento delle facoltà cognitive che impedì di vedere nell’Altro un proprio simile. Come per i nazisti gli Ebrei 25
erano una minaccia per l’intero ordine che intendevano erigere, così per certi Spagnoli gli indigeni che si rifiutavano di convertirsi o fingevano di farlo per poi continuare a pregare i propri dèi costituivano un’offesa alla Verità, alla Giustizia, alla Provvidenza divina. Uno dei tanti meriti di Las Casas fu quello di porsi come ostacolo di fronte a questa deriva, minando alle fondamenta l’archetipo dell’uomo precivile ed infantile, in un perenne stato di minorità, dunque bisognoso di ricevere tutela e sacrificabile, se riottoso. Lo fece con perizia ed avvedutezza. Questo è un esempio di una sua denuncia, esplicita ed inoppugnabile: “Hanno trovato il modo di nascondere la loro tirannia ed ingiustizie e per giustificare le proprie azioni ai loro occhi. Ecco come hanno fatto: hanno affermato falsamente che gli Indiani erano così privi della ragione comune a tutti gli uomini che non erano in grado di governare se stessi e perciò abbisognavano di tutori. E l’insolenza e follia di questi uomini è diventata così grande che non hanno esistato ad insinuare che gli Indiani erano bestie o quasi come bestie, diffamandoli pubblicamente. Poi hanno sostenuto che era giusto sottometterli alla nostra autorità con la guerra, e cacciarli come prede e ridurli in schiavitù. Così potevano fare uso degli indiani a loro piacimento” (De unico vocationis modo omnium infidelium ad veram religionem, 1530). Si tratta ora di capire la natura delle affinità tra il fanatismo di certi conquistadores e una metafisica del sangue e della razza che ha attraversato i secoli fino a raggiungere la “dignità” di dottrina di stato sotto il Nazismo. I nazisti credevano in una mistica della biologia, l’ideologia neo-pagana della metagenetica, l’idea che l’eredità/lascito biologico e spirituale di una persona o di un popolo fossero ontologicamente identici e trascendessero lo spazio e il tempo. La disuguaglianza tra razze era di ordine biologico e spirituale. Per questo, secondo Hitler, l’Ebreo era alieno all’ordine naturale. Si può ipotezzare che, per le stesse ragioni, secondo Juan Gines de Sepúlveda, la nemesi di Las Casas, gli Spagnoli avevano non solo il diritto ma il dovere di sottomettere con la forza i nativi americani al fine di riallinearli spiritualmente, moralmente e culturalmente alle sacre leggi di natura. La metafisica del sangue e della razza C'è soltanto una nobiltà di nascita, una nobiltà del sangue. […]. Là dove si parla di "aristocrazia dello spirito", di solito non mancano motivi per celare qualcosa: come è noto, questa è una locuzione comune fra gli ebrei ambiziosi. Lo spirito da solo, infatti, non nobilita; ci vuole piuttosto, prima, qualcosa che nobiliti lo spirito. Di che cosa c'è bisogno a tale scopo? Del sangue Friedrich W. Nietzsche, La volontà di potenza Il concetto di razza proviene dall’idea di una macchia incancellabile (macula) che si trova nella tradizione biblica dell’impurità e nell’ideologia aristocratica del lignaggio, che impone misure di protezione e perpetuazione del sangue nobile, il “sangue buono”, attraverso la pratica dell’endogamia e l’accurata compilazione di tavole genealogiche. Nel corso del tempo questo criterio è stato esteso ai popoli e razze. La forza misteriosa e incomprensibile del genos e del sangue sedusse anche Friedrich Schlegel: “In una vera nazione, ossia una comunità che assomiglia ad una famiglia molto unita, i cittadini dovrebbero essere tenuti uniti dal sangue”. L’antichità e la purezza della corrente di sangue che attraversa le generazioni garantisce la persistenza dei costumi 26
tradizionali e milita contro le influenze esterne. Il sangue, come simbolo di adesione eterna alle sorti della nazione, opera verticalmente (trascendendo le epoche e proiettandosi verso il futuro) ed orizzontalmente (trascendendo le vicende personali). “Solo il plasma germinale, non l’anima, è immortale. L’uomo che muore senza discendenza pone fine all’immortalità dei suoi antenati. Riesce ad uccidere i suoi morti”, afferma l’antropologo francese Georges Vacher de Lapouge (Les selections socials, 1896). Il lignaggio, non la vita sociale, determina il carattere: tutto si eredita, l’eredità è tutto. Nel nazismo si arriverà alla logica conclusione di questo tipo di impostazione: il Volk è l’eterna catena di sangue che unisce una generazione all’altra. L’individuo è una forma momentanea di una grande corrente ereditaria che giunge dal passato e va nel futuro. Ciascuno è solo un anello nella catena della corrente del sangue dei nostri avi, che giunge dall’eternità e deve andare verso l’eternità. Compito di un popolo o di una razza è fare in modo che questa corrente di sangue non si esaurisca. Per Alfred Rosenberg sangue e carattere, razza e anima sono soltanto differenti designazioni della stessa entità. Il determinismo del sangue non lascia spazio a conversioni ed assimilazioni. Esistono solo due leggi naturali: l’endogamia e la selezione. Il nazismo diventa allora una missione cosmica, macro-storica, che ingloba l’origine delle civiltà, del pianeta. L’obiettivo è quello di ritornare all’universo olistico e solipsistico della tribù, con il suo esclusivismo e la sua morale brutale, ma questo all’interno di uno schema apocalittico/millenaristico che coinvolge l’intero globo, l’intera specie umana. Il nazismo è stato sconfitto, ma non molti anni fa il filosofo politico conservatore statunitense Russell Kirk (1918-1994) credeva ancora in un grande ordine eterno dove il compito dell’uomo è quello di “venerare la misteriosa unione sociale dei morti, dei viventi e dei nascituri”. L’inquisizione papale che precedette quella spagnola aveva già disposto che gli eretici non incarcerati o eliminati indossassero delle croci gialle sui loro vestiti. Nella Spagna dell’Inquisizione fu richiesto ai medici di determinare il grado di purezza razziale di imputati sospettati di essere ebrei falsamente convertiti, come doveva poi avvenire nella Germania nazista, quando la figura del medico genetista (Erbarzt) fu investita del compito di stabilire la proporzione di “ebraicità” di certi cittadini tedeschi. Questa problematica riguarda da vicino la vita e le scelte di Las Casas, che era nipote di ebrei convertiti, allos tesso modo in cui un numero sproporzionato dei più ispirati paladini dei diritti dei nativi americani era discendente di ebrei convertiti. Tra questi, Francisco de Vitoria e molti dei suoi colleghi alle università di Valladolid e Salamanca. Evidentemente l’appartenenza a due mondi in conflitto influenzò drasticamente la visione del mondo di questi umanisti. La Spagna della Riconquista e dell’Inquisizione fu perciò un laboratorio sperimentale di omologazione e soggiogamento etnico alimentato dal fanatismo religioso e dal realismo politico-giuridico. Come notava acutamente Cristoforo Colombo, la decisione di cacciare gli Ebrei dalla Spagna fu presa lo stesso mese in cui si accolse la sua richiesta di partire alla ricerca di una rotta occidentale per le Indie. In pratica nello stesso, fatidico anno, il 1492, si verificarono l’espulsione di Ebrei e Mori, la conquista di Granada e la scoperta dell’America. L’unità dei Cattolici doveva essere realizzata a qualunque costo e quindi serviva uno stato forte ed autoritario, una politica aggressiva ed una campagna di disumanizzazione dei nemici. Successivamente, per imbrigliare quegli 27
Ebrei che non erano fuggiti e si erano convertiti fittiziamente, furono emanati gli statuti di purezza del sangue, che impedivano agli infedeli di intraprendere una carriera nel settore pubblico, nell’esercito e nel clero. In realtà già nel 1348 le leggi “Las Siete Partidas” designavano gli Ebrei una nazione straniera in Spagna. Furono seguite da persecuzioni più o meno violente ed ufficiali. Nel 1449 il Concilio di Toledo adottò il primo statuto, che fu subito rintuzzato da una bolla di Nicolò V che ribadiva la forza redentrice del battesimo e proibiva di discriminare i nuovi cristiani. Ciò non impedì che altri statuti fossero approvati in altre città, ma mai a livello nazionale. In Spagna i medici funsero da consulenti per gli inquisitori impegnati ad epurare i falsi convertiti, fornendo una legittimazione “scientifica” alle loro pratiche nella forma di tre argomenti principali, che saranno poi talvolta riapplicati agli indigeni americani: (a) gli Ebrei sono intrinsecamente depravati ed inferiori; (b) la loro inferiorità e immoralità non risulta da fattori esterni ma dall’essere membri di una razza distinta; (c) non ci può essere alcuna redenzione per loro, perché queste caratteristiche sono costituzionali ed ereditarie. I nuovi cristiani, i marrani, i convertiti dalla fede ebraica, dovettero essere inseriti in una griglia di classificazione del meticciato ordinata su venti categorie, mentre l’ortodossia della fede finì per coincidere con la purezza della genealogia, cioè del sangue (limpieza de sangre) (Dedieu 1992). La griglia fu recuperata e re-impiegata nelle colonie americane per distinguere le appartenenze castali in base ai gradi di meticciamento. Questo processo di biologizzazione della fede ebbe inizio nel quindicesimo secolo, quando la discriminazione sociale verso quelli che non erano originariamente cristiani si trasformò in discriminazione razziale (Kamen 1997). Si sosteneva infatti che al momento del concepimento il feto avesse già acquisito i tratti dei genitori e che l’odio giudeo verso i cristiani era un’infezione che sarebbe stata trasmessa di madre in figlio. A questo riguardo lo storico spagnolo Julio Caro Baroja (cf. Gracia Guillén 1984, p. 338) ha sottolineato come la mentalità inquisitoriale era “così impregnata di biologismo che si riteneva che il latte di una madre ebrea giudaizzasse il figlio”. La valutazione della purezza di una persona si effettuava verificando il proprio albero genealogico e le deposizioni sotto giuramento di parenti e testimoni. I convertiti, o nuovi cristiani (“marrani” se precedentemente ebrei e “morischi” se precedentemente musulmani) non potevano ricoprire cariche pubbliche o emigrare nelle colonie americane. Tuttavia molti aggirarono i divieti e riuscirono a rifarsi una vita nel Nuovo Mondo, costringendo l’Inquisizione ad estendere la sua longa manus anche oltreoceano, il 25 gennaio del 1569. Sebbene i nativi americani non rientrassero ufficialmente nella giurisdizione dell’inquisizione coloniale, essi furono comunque assimilati ai convertiti da un punto di vista giuridico, perché anche a loro fu vietato di congiungersi con gli spagnoli. Il risultato di questa patologia morale e culturale fu l’assurda proliferazione di portatori sani di sangue impuro. Questi statuti crearono una casta di paria che infettava tutti quelli coi quali aveva degli intercorsi. Ma questa non era una casta riconoscibile da caratteristiche esteriori e perciò nessuno poteva immaginare che, entrando in una famiglia o accogliendo qualcuno nella sua famiglia, stava compromettendo per sempre l’onorabilità del suo nome con una macchia indelebile. È tuttavia importante tenere a mente che il corpo legislativo nazionale spagnolo – come quello francese e degli stati italiani –, erede della giurisprudenza romana che separava rigidamente ius naturale e ius civile, rifiutò recisamente di adottare parametri 28
biologici per la definizione della persona giuridica. Gli statuti di limpieza de sangre spagnoli furono avversati persino da numerosi inquisitori, che usavano la verifica del sangue solo per corroborare altre prove. Di conseguenza essi vennero raramente adottati, ed ancor più raramente osservati, servendo soprattutto per risolvere le lotte di potere tra famiglie altolocate e sopprimere ogni velleità meritocratica e di mobilità sociale. Rimane il fatto che fu proprio questa fissazione per il sangue che rese accettabile la classificazione e separazione degli esseri umani nelle colonie. Fu proprio questo il paradigma contro cui Las Casas si battè gagliardamente: l’immanentismo razzista che assegna ad una data comunità il compito di riprodurre continuamente la sua presunta essenza, perché essa è, di natura, una comunità di essenza condivisa. Il razzismo della Conquista fu, come tutte le sue manifestazioni, una forma di determinismo materialistico, il sintomo di un modo di pensare, piuttosto che la sua causa. Il sintomo della volontà di prevalere, di separare e gerarchizzare gli esseri umani dalla nascita. Come abbiamo visto il nocciolo simbolico del razzismo spagnolo fu lo schema genealogico, l’idea di filiazione che trasmette di generazione in generazione una sostanza biologica e spirituale, indice del possesso delle virtù necessarie al comando ed alla supremazia. Le parole chiave sono l’immutabilità e l’inalterabilità. Questa ideologia era all’origine della “banalità del male” della Conquista. Senza dubbio non tutti i coloni erano uniformemente reazionari, bigotti, ignoranti, meschini, irrazionali, patologici. Nel Nuovo Mondo giunsero anche persone aperte, intelligenti e abbastanza beninformate. Ciò nonostante, il linguaggio della purezza del sangue come veicolo di fede autentica e nobili virtù dell’animo o, al contrario, di vizi morali trasmessi di generazione in generazione, finì per condizionare la vita sociale delle colonie americane iberiche fino al diciannovesimo secolo. Era un paradigma severo, categorico, anche spietato nelle sue applicazioni più rigide. A livello teorico, non avrebbe potuto ammettere gradazioni di purezza, ma già nel corso del diciassettesimo secolo ci si era resi conto del fatto incontrovertibile che gli statuti stavano mandavano in rovina l’impero, economicamente e demograficamente, e molti si opposero a questa pratica denunciando la sua inconciliabilità con il diritto canonico e civile e con la tradizione neotestamentaria. Ma la discriminazione castale, sebbene abbandonata nella pratica, terminò ufficialmente solo nel 1773, mentre l’inquisizione sopravvisse fino all’inizio del secolo successivo. Nelle Americhe le cose furono più complicate, perché la realtà locale era estremamente eterogenea. Spagna e Portogallo vietarono l’immigrazione coloniale di Ebrei, Mori, Gitani ed eretici, inclusi i loro figli, ma la crisi demografica causata da epidemie ed oppressione costrinse i sovrani a più miti consigli. La metafisica del sangue fu presto estromessa dal discorso giuridico-legislativo e le unioni con gli indigeni non furono proibite. Tuttavia, o forse proprio per questo, le nozioni di razza ed etnicità continuarono a pervadere le società locali. I meticci nascevano quasi sempre da relazioni extraconiugali o casuali – da cui il proverbio colombiano “la palabra de mestizo se entiende de ilegítimo” – ed erano estremamente malvisti, perché di non facile classificazione e perché generalmente ritenuti inaffidabili, rimestatori delle gerarchie naturali. In pratica la contrapposizione con un Altro più esotico servì a ricompattare la società coloniale europea. Questo processo si intensificò con l’afflusso degli schiavi africani, che subirono l’impatto più drammatico del materialismo biologico assurto a 29
codice di organizzazione socio-economica. Mentre dopo tre generazioni il sangue spagnolo cancellava la “macchia” del sangue indio, quella nera era indelebile. Quasi nessuno, oltre a Las Casas, obiettava all’idea della schiavitù dei neri. Di conseguenza la società spagnola, e specialmente quella andalusa, rimase una società schiavista. Nel sedicesimo secolo, gli schiavi costituivano ben il quattordici per cento degli abitanti di Granada. Siamo ben lontani dalle percentuali dell’Atene classica, ma non si può dire che l’umanesimo cristiano spagnolo abbia affrontato questo paradosso con il dovuto impegno ed una sufficiente lucidità. In America Latina la concentrazione di maschi europei era tale che non si sarebbe potuta mantenere in vita una società castale di tipo indiano, o una qualche forma di apartheid che anticipasse quello sudafricano. A differenza di quel che avveniva in Nord America – dove si trasferivano intere famiglie nord-europee per sfuggire alle persecuzioni religiose –, le politiche coloniali relative alla purezza di sangue furono piuttosto elastiche, ma non lo furono le pratiche sociali, perché l’ideologia castale non tollera gradienti e sfumature tra i tipi umani. I confini devono essere netti e devono comportare significative variazioni di status. I Conquistatori e le donne dell’aristocrazia indigena potevano sposarsi, anzi, ciò poteva meglio garantire la stabilità del Nuovo Ordine, ma i meticci non formavano un’unica categoria tassonomica. C’erano gli españoles, i creoli, i castizos, i mulatti, i morischi, gli albini, i zambos e persino gli Inca. Oltre una dozzina di categorie, ciascuna a sua volta suddivisa in parti, a seconda della percentuale di sangue “impuro” di una persona. L’élite coloniale trattò diversamente i nuovi meticci rispetto ai discendenti di meticci che per alcune generazioni non si erano “contaminati”. Le persone la cui condizione sociale, sangue e persino latte di balia “concordavano” potevano anche essere considerate inferiori, ma almeno erano pure. Anche i creoli, gli ispanici nati nelle colonie americane e quindi per ciò stesso diversi da quelli nati e cresciuti nella madrepatria, erano in qualche modo macchiati se erano stati allattati da balie indie o africane. Ai meticci era fatto divieto di intraprendere una carriera militare, accademica o ecclesiastica. In Perù non potevano ereditare encomiendas. Altrove il codice penale li distingueva dai creoli, punendoli più severamente. La loro capacità di fungere da ponte tra indigeni e coloni li rendeva pericolosi per il Nuovo Ordine, potenzialmente sovversivi. Questa profezia si compì nel 1780, quando la vigorosa rivolta indigenista di Túpac Amaru II vide un massiccio coinvolgimento di meticci ai quali non era stato permesso di integrarsi nella società coloniale. Con il passare del tempo e la complessificazione dei rapporti sociali dovuta alla globalizzazione del colonialismo e dei commerci internazionali, le genealogie di stampo feudale vennero abbandonate ed il colore della pelle e la fisionomia del volto (tratti somatici) divennero i nuovi parametri di classificazione. Non bastava dimostrare di essere “Spagnolo”, si doveva essere “bianco” (blanco) o “biondo” (rubio). Possiamo dire che una delle grandi intuizioni di Las Casas fu quella di capire che per avere un impatto prolungato, un’ideologia deve rispecchiare certi valori e simboli che esercitano una decisiva influenza in una società. Dunque per abbattere il razzismo si dovevano creare le premesse per una proficua convivenza tra i gruppi etnici, ossia un’interdipendenza in grado di annullare la percezione di un divario radicale tra esseri umani. Las Casas comprese che il feticcio del sangue poteva essere sconfitto solo con il meticciato ed il feticcio della civiltà superiore solo con la Buona Novella di Gesù il 30
Cristo. Già nel suo Memorial de los Rimedios dell’aprile del 1516 aveva proposto che Spagnoli ed Indiani “si sarebbero dovuti mescolare dando in sposi i figli degli uni alle figlie degli altri”. Serviva un’encomienda indivisa, un gemellaggio permanente, una grande famiglia: “Gli uni sposeranno gli altri, e da loro si formerà una sola repubblica, una delle migliori e magari persino la più cristiana e pacifica del mondo”. Sarebbe stato sufficiente per estirpare la logica circolare di chi affermava che certi modi di fare e considerare una cosa erano giusti perché naturali e se erano naturali allora dovevano essere veri e validi, che è poi la tendenza a conficcare gli esseri umani in caselle, condannandoli a ripetere deterministicamente gli stessi pensieri, gli stessi comportamenti, le stesse emozioni, in un eterno ritorno dell’identico a se stesso che congela ogni possibilità di mobilità sociale. Il Requerimiento La Corona spagnola cercò sempre un compromesso tra le esigenze di un umanitarismo compassionevole e quelle del realismo più becero e letale, con risultati contradditori se non addirittura incomprensibili. Ad esempio nel 1512 furono promulgate le Leggi di Burgos (Leyes de Burgos), concepite per regolamentare i rapporti tra conquistatori e conquistati e per definire lo status degli Indigeni. Essi erano considerati uomini liberi e tuttavia sottoposti alla sovranità spagnola, che aveva il compito di evangelizzarli e consentiva il loro sfruttamento a patto che non fosse immoderato – uno spagnolo non poteva detenere più di 150 schiavi. Tra le varie disposizioni vi era anche quella, molto lungimirante ed avvertita, secondo cui “nessuno poteva picchiare o frustare o chiamare cane un indio, o usare qualunque altro nome che non fosse il suo”. È tuttavia facile notare che queste ordinanze, nella loro applicazione, preservavano sostanzialmente lo status quo, perché erano soggette ad intepretazioni del tutto soggettive. Per di più queste includevano anche il ricorso alla forza in caso di resistenza all’evangelizzazione, che quindi comportava una guerra giusta. Era una beffa per tutti quei predicatori e laici che avevano protestato pubblicamente contro la tirannide che si stava instaurando nel Nuovo Mondo a pochi anni dalla sua “scoperta”. L’aspetto tristemente ironico della faccenda era che si stabiliva che una popolazione stava resistendo all’evangelizzazione in base alla sua reazione al cosiddetto Requerimiento, un’ingiunzione indirizzata agli indiani che era stata redatta nel 1514 da uno dei migliori giuristi spagnoli del tempo, Palacios Rubios, per venire incontro all’esigenza di regolare una conquista piuttosto caotica. Veniva letta agli indigeni in castigliano, il che evidentemente ne impediva la comprensione. La sua utilità era dunque quella di placare le poche coscienze non invase dal cinismo e dalla cupidigia. Doveva essere letto agli indigeni ma serviva in realtà a convincere gli Europei che la Conquista era legittima. Las Casas si sarebbe poi scagliato contro quest’ingiunzione, spiegando che affermazioni come: “Dio ha scelto San Pietro come guida dell’umanità…affinché stabilisca la sua sede in tutte le parti del mondo e governi su tutti i popoli, siano essi cristiani, mori, ebrei gentili o qualunque altra setta” erano solo esempi di un’indecente e grossolana ipocrisia. Il Requerimiento non faceva altro che confermare che le comunità native potevano autogovernarsi ma che la loro autorità doveva comunque piegarsi alle esigenze dell’evangelizzazione e dello Stato. Mi si consenta di citare ampi stralci di questo documento, perché questo stesso tipo di retorica 31
fintamente benevola è moneta di facile reperimento nella politica internazionale di oggigiorno, sotto mentite spoglie pseudo-umanitarie. “Da parte del re Don Ferdinando, e di Donna Giovanna, sua figlia, regina di Castiglia e Léon, di Aragona, delle Due Sicilie [...] dominatori delle nazioni barbare, noi loro servitori Vi notifichiamo e rendiamo noto al meglio delle nostre possibilità, che…[…]…riconosciate la Chiesa come Governante e Superiore del mondo intero, e il sommo sacerdote chiamato Papa, e in suo nome il Re e la Regina Donna Giovanna nostri signori, in sua vece, come superiori e signori di queste isole e di questa Terra Ferma in virtù della detta donazione, e che consentiate e diate luogo che questi padri religiosi debbano dichiarare e predicare alla vostra volta la sopradetta parola. Se farete in questo modo, farete bene e ciò che voi siete obbligati a fare nei confronto delle loro Altezze, e noi in loro nome vi riceveremo con tutto l’amore e la carità e vi lasceremo, con le vostri mogli e figli e terre, liberi, senza servitù, sì che voi possiate disporre di essi e di voi stessi liberamente e nel modo che vi piaccia e riteniate meglio, ed essi non vi costringeranno a farvi Cristiani, a meno che voi stessi, una volta informati della verità, non vogliate convertirvi alla nostra Santa Fede Cattolica, come quasi tutti gli abitanti delle restanti isole hanno fatto. E, oltre a questo, le loro Altezze vi accordano molti privilegi ed esenzioni e vi conferiranno molti benefici. Ma, se voi non fate questo e con malizia frapponete ritardi, io vi dichiaro che, con l’aiuto di Dio, noi faremo ingresso con la forza nel vostro paese e vi faremo guerra in tutti i modi e maniere che potremo e vi assoggetteremo al giogo e all’obbedienza della Chiesa e delle loro Altezze; vi prenderemo le vostre mogli e figli e ne faremo degli schiavi e come tali li venderemo e ne disporremo come vogliano ordinare le loro Altezze, e vi prenderemo i vostri beni e vi faremo tutto il male e i danni che possiamo, come a vassalli che non obbediscono e rifiutano di riconoscere il loro Signore, e gli resistano e lo contraddicano; e dichiariamo che le morti e le perdite che da questo deriveranno sono vostra colpa e non delle loro Altezze o nostre, né dei cavalieri che vengono con noi”. La premessa era che Gesù Cristo, signore del lignaggio umano e sovrano supremo con giurisdizione sull’intero universo, aveva trasmesso il suo potere a Pietro e da questo esso era stato trasferito ai papi ed ai sovrani di Spagna e Portogallo. In questo modo si potevano schiavizzare altri esseri umani nel nome di una religione universalista ed egualitaria. La “scelta” degli autoctoni era quella tra diventare volontariamente schiavi convertendosi, oppure diventarlo da superstiti. Com’è noto, il commento di Las Casas fu che “[non sapeva] se ridere o piangere dinanzi all’assurdità [di tale ingiunzione]” e non poté fare a meno di domandarsi se nella prospettiva indigena “tutto questo non doveva sembrare delirio o cose fuori di ragione e fuori strada, tutti vaneggiamenti e spropositi, soprattutto quando veniva loro detto che erano obbligati ad assoggettarsi alla Chiesa”. Gustavo Gutiérrez ha opportunamente segnalato che “Cristo e la libertà umana sono i due grandi assenti dalla teologia del Requerimiento: il primo non viene menzionato e la seconda non è riconosciuta veramente agli indios. Si tratta di cattiva teologia, almeno quanto alla formulazione teorica, perché sul piano delle inevitabili conseguenze pratiche è necessario piuttosto dire che vi è una totale assenza di teologia, vale a dire di riflessione sulla fede in un Dio d’amore che sfoci nell’amore per il prossimo” (Gutiérrez, 1995, p. 159).
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TUTTO CIÒ CHE ASCENDE, CONVERGE Uccidere un uomo non è difendere un’idea, è uccidere un uomo Sébastien Castellion (1515-1563) I Conquistadores non furono secondi a nessuno in quanto a doppiezza: con una mano propagavano i principi della loro santa fede, che invitava alla sobrietà, alla moderazione ed alla semplicità, mentre con l’altra depredavano i nuovi credenti coatti. La loro bramosia di ricchezza si mascherava da pietà, la loro fanatica ambizione da devozione patriottica, la crudeltà adottata come strumento di conversione e civilizzazione dei pagani, l’asservimento come unica speranza di salvezza. “La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza”, orwellianamente. Il totalitarismo azteco trovò la sua degna prosecuzione in quello spagnolo. “Guardatevi dai falsi profeti i quali vengono verso di voi in vesti da pecore, ma dentro son lupi rapaci. Li riconoscerete dai loro frutti” (Matteo 7:15-16). Las Casas era diverso perché non pensava che la politica e la predicazione avrebbero potuto trasformare la natura umana degli indigeni – non ce n’era bisogno –, ma piuttosto che sarebbero dovute servire a riscattarli dalla tirannide e dall’ignoranza. La sua intenzione era quella di aiutare chi non era nella posizione di aiutare se stesso, di proteggere chi non aveva i mezzi per farlo, opponendosi alla religione della potenza ed alla teologia del potere messe in campo dagli Spagnoli; promuovendo contemporaneamente l’esercizio della libertà consapevole e la presa di coscienza indigena della propria dignità, del proprio essere stati creati spiritualmente ad immagine e somiglianza di Dio, della verità che tutti gli esseri umani sono amati dal Creatore allo stesso modo e nella stessa misura, anche quando sbagliano, ed infine liberandoli dell’errore di credere che il fine dell’esistenza umana è l’obbedienza fine a se stessa o il risarcimento di un debito pregresso contratto con Dio. Las Casas era sicuro che l’umanità stesse ascendendo, stesse percorrendo un tragitto di perfezionamento spirituale e morale, stesse convergendo verso Dio, sebbene lungo strade diverse. L’importante era conoscere la parola del Cristo, che reindirizza gli sforzi di miglioramento di ciascun individuo e popolo, senza interferire con la loro volontà. La sua nemesi, Juan Ginés de Sepúlveda, era più incline a credere che l’universo e la vita fossero brutali, spietati e violenti, che la natura umana fose spregevole e corrotta (tranne quella dei “migliori”) e che non v’era rimedio, eccezion fatta per l’imposizione della volontà pacificatrice del più forte e illuminato dalla fede. Nella sua prospettiva la massa degli umani era priva di vera grandezza, non era destinata alla gloria ma alla sopravvivenza meccanica, seguita da un’anonima estinzione. Era dunque nell’ordine delle cose considerare quasi tutte le persone come ingranaggi di un meccanismo – l’Impero Spagnolo – perfettamente oliato dalla teologia cristiana, come anelli di un’indistruttibile catena della necessità. Sepúlveda non si faceva scrupolo di appoggiare con la sua eloquenza e la sua erudizione i progetti di chi utilizzava le cose dello spirito per fini egoistici e materialistici, di chi si poneva al posto di Dio, giudicando sommersi e salvati. Las Casas sapeva, per esperienza di vita, avendo avuto modo di incontrare un numero enorme di popoli e persone, dalle Fiandre fino al Perù e da Roma al Messico 33
centrale, che nessuno può prevedere con certezza che cosa è e che cosa è destinato a diventare qualcuno, nel bene e nel male. Nessuno può realmente capire cosa passi per la testa di ciascun altro, come questi percepisca ed interpreti il mondo. A differenza di Sepúlveda, Las Casas era capace di e disponibile a fare ammenda, ammetteva di aver commesso errori e non cercava alibi. Il suo pregio era quello di aver riconosciuto l’esistenza di un oceano interiore di spiritualità e fede che si espandeva e si contraeva a seconda della sollecitudine che riceveva. Cura che comportava il sottoporsi ad un costante esame di coscienza, all’introspezione, all’esplorazione di sé stessi e del mondo, per estendere i confini del proprio sapere e quindi dell’autocoscienza, diventando sempre più consapevoli della vastità di quest’oceano e dell’amore di Dio. Credo che da ciò dipendesse un suo atteggiamento che molti critici hanno imputato ad arroganza e superbia. Nessuno di noi era presente e può parlare a ragion veduta ma, a me pare che, tranne qualche rara eccezione, nei suoi scritti Las Casas non dia l’idea di essere borioso e non mostri di essere minimamente interessato alla fama, alla gloria, ai beni materiali. Quanto alle sue azioni, avendo la possibilità di diventare vescovo della prestigiosa e ricchissima diocesi di Cuzco, preferì quella semisconosciuta e problematica del Chiapas. Dopo il disastro del suo primo esperimento di convivenza tra indigeni e spagnoli, non insistette e dedicò lunghi anni alla ricerca delle cause del suo fallimento, che era costato la vita a decine di nativi e ad alcuni confratelli. Cercò di capire dove aveva sbagliato leggendo i resoconti dei cronisti, scambiando opinioni con altri missionari, interrogando la sua coscienza in solitudine. La visione del mondo e la personalità di Sepúlveda erano drammaticamente diverse. Le sue osservazioni denotavano una personalità egotista, un’irragionevole e smisurata attenzione verso se stessi che non era guidata e sostenuta dall’introspezione autocritica e dall’empatia e quindi non poteva arrivare a comprendere che la logica che governa il creato e ciascun individuo è la medesima, secondo la volontà di Dio. Non era interessato a scoprire gli universi altrui, accecato com’era dall’orgoglio, dalla vanità e dalla bramosia. Il suo era un atteggiamento aggressivo e predatorio nei confronti del prossimo e del Nuovo Mondo. Riconoscibilissimi, come vedremo in seguito, sono il suo narcisismo, il pessimismo antropologico, la megalomania ed un’inestirpabile insoddisfazione di fondo, unita all’invidia nei confronti dei successi altrui. Considerava l’ordine sociale esistente come uno specchio dei talenti innati dei singoli; di conseguenza gli interessi ed i sentimenti altrui avevano meno valore dei suoi, emanazioni di un intelletto e di una personalità superiori. Naturalmente questo è ciò che s’imponeva di credere, con uno zelo pari solo alla ferocia con la quale lo tormentavano l’insicurezza ed il sospetto di non essere speciale, sentimenti che lo spinsero a scrivere un pamphlet intitolato Propossiçiones Temerarias, Escandalosas y heréticas in cui accusava Las Casas di essere uno sfacciato mentitore ed un eretico per aver smascherato la sua ipocrisia e per aver essenzialmente preannunciato le intuizioni fondamentali che stanno alla base della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, la quale stabilisce che “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti” (art. 1), “senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione” (art. 2). Las Casas si sarebbe trovato in pieno accordo con questo riconoscimento della comune appartenenza alla specie umana, del valore e della dignità del singolo individuo in quanto tale e del diritto di ciascuno di essere messo nelle 34
condizioni di potersi sentire ed essere libero, materialmente, psicologicamente e spiritualmente. Enunciati irricevibili per Sepúlveda che rimaneva invece legato alle tesi agostiniane e tommasiane dell’organicità del rapporto individuo-comunità, fondato sul presupposto dell’imperfezione della persona e perfezione della comunità, sulla dialettica dell’ordinare ed essere ordinato e sul sacro dovere dell’obbedienza ad un ordine piramidale e paternalista. Come si diventa Las Casas? Quando verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera. Giovanni 15, 13 Bartolomé de Las Casas fu senza dubbio la figura centrale di quel movimento che si attivò per tutelare i nativi americani Indiani nel corso del sedicesimo secolo. A dire il vero, non è azzardato definirlo una delle più straordinarie figure della storia. Se gli eroi sono tutte quelle persone che, di fronte all’oppressione ed all’ingiustizia si spendono personalmente, mettendo a repentaglio la propria incolumità, per porvi rimedio, fronteggiando forze soverchianti, allora Las Casas fu un eroe. Las Casas si trovò nel posto giusto al momento giusto e seppe fare la scelta giusta, quella della verità in luogo della menzogna, della giustizia in luogo del sopruso, del coraggio in luogo della pusillanimità, della libertà in luogo della tirannia. Ebbe la fortuna di nascere in un periodo ed in circostanze tali che gli permisero di frequentare alcune tra le menti più rimarchevoli del suo tempo proprio quando un nuovo mondo e nuove civiltà furono scoperte dagli Europei. Eloquente, devoto, caritatevole, tenace, vigoroso, inflessibile, fervente, a volte fin troppo fervente, molto attento ai rapporti umani. Pio e saggio, disposto al sacrificio, ma anche impregnato di una furiosa indignazione che non gli dava pace. Forse non potè mai essere diverso da quel che sentiva di dover essere. La sua non fu una vera scelta. Furono la sua coscienza e la sua indole a scegliere al posto suo. Disinteressato ai beni materiali ed al prestigio, rifiutò sempre donazioni personali e avanzamenti nella gerarchia della Chiesa. Conobbe Ferdinando, Filippo il Bello, Carlo V e Filippo II ed ogni volta, dopo aver assistito all’ascesa e declino di notabili e signori, si trovò costretto ad intraprendere nuovamente la stessa battaglia per convincere la nuova generazione di dirigenti ed amministratori della giustezza della sua causa. A 82 anni, poco prima di morire, ancora nel pieno possesso delle sue facoltà, si trovava al cospetto dei ministri di Filippo II per invocare la concessione ai Guatemaltechi di una corte di giustizia autonoma, come da promessa. Per tutta la vita lottò per un unico obiettivo, quello del riconoscimento della dignità e del rispetto dell’umanità e la difesa di popoli massacrati ed umiliati, contro i capricci e le pretese di re, principi, schiavisti, coloni, generali, alti prelati, ed in generale contro una civiltà che si presumeva superiore mentre spianava come uno schiacciasassi tutto ciò che le si opponeva. Fu in grado di vedere le cose diversamente dalla norma contingente perché viveva diversamente. Risiedeva nel mondo in maniera attenta e consapevole e, così facendo, seppe superare le restrizioni epistemologiche che impediscono a chi fa
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parte di una certa classe, gruppo o comunità umana di immedesimarsi in chi non ne fa parte. Alcuni secoli più tardi, Dietrich Bonhoeffer avrebbe esortato le persone a contemplare i grandi eventi della storia dal basso, adottando la prospettiva di chi è maltrattato, marginalizzato, svilito, sofferente. Fu l’ottica di Las Casas, che comprese rapidamente che era il profitto ad aguzzare l’ingegno ed anestetizzare la coscienza degli Spagnoli, non l’ignoranza. Indipendentemente da qualunque sforzo di sensibilizzazione, gli encomenderos non erano disposti a cambiare stile di vita e visione del mondo, convinti che in fondo la situazione avrebbe beneficiato gli uni e gli altri, nel lungo termine. Fu questa sua ottica più organica, più obiettiva che lo differenziò da chi si occupò solo di rimediare alle sofferenze degli indigeni senza sviluppare una proposta di riforma che inibisse gli abusi, o da chi, oltreoceano, edificava meravigliose strutture giuridiche e filosofiche in difesa dell’umanità, senza preoccuparsi di renderle applicabili alle realtà specifiche. Las Casas non si fissò mai su una particolare teoria o pratica: si servì volentieri di tutto quel che poteva tornare utile agli indios (Ruston, 2004). Le sue denunce furono ammirate da chi guardava con compassione alla sorte degli indigeni, detestate dai Conquistadores e dai nazionalisti spagnoli – specialmente ai tempi della dittatura franchista, ma ancora fino ai nostri giorni – e manipolate dalle altre potenze coloniali che le trasformarono nella “Leggenda Nera” anti-spagnola. Ad esempio, il futuro liberatore dell’Olanda dal giogo spagnolo, Guglielmo d’Orange, citava Las Casas per dimostrare la “naturale predisposizione” degli Spagnoli alle crudeltà. Per la prima volta un impero doveva badare a come le iniziative dei propri coloniali si riflettevano sulla propria immagine internazionale. I fautori dei diritti umani lo considerano generalmente un loro antesignano, altri pongono in risalto le numerose contraddizioni del suo pensiero e gli aspetti più oscuri della sua iniziale visione utopicoteocratica. Resta il fatto che, dal punto di vista di popolazioni ormai sottomesse e martoriate, fu un dono del cielo. Indubbiamente non fu l’unico a denunciare le atrocità spagnole. L’esploratore e scrittore italiano Girolamo Benzoni descriveva analoghe vicende nella sua Storia del Nuovo Mondo (1565) e in quegli stessi anni circolavano altre descrizioni dei massacri perpetrati dagli Spagnoli ai danni dei calvinisti francesi in Florida, che corroboravano l’impressione che questi fossero i veri nuovi barbari. Las Casas però non si limitò a denunciare, fece tutto quel che era umanamente possibile fare per sistemare le cose e per prevenire future prevaricazioni. Per la prima volta, cercò di collocare al centro del dibattito politico-giuridico la nozione basilare di dignità intesa come diritto di non essere umiliato, e solo in quanto tale fondamento di ogni altro diritto inalienabile, non conferito da un sovrano ma patrimonio naturale dell’intera specie umana, indipendentemente dall’aspetto, dalla cultura, dalle credenze e dalle pratiche sociali. Il suo fallimento non è ragione sufficiente per continuare ad escluderlo dal pantheon del pensiero politico e giuridico mondiale. Bartolomé nacque nel 1484 a Siviglia, una città strappata ai Mori nel 1248, che svolse un ruolo fondamentale come trait d’union tra le colonie americane ed i territori europei dell’impero spagnolo. Era figlio di conversos, ossia di Ebrei che avevano rinunziato alla propria fede pur di non essere costretti all’esilio, e questo quasi certamente influenzò il 36
suo modo di porsi nei confronti dei popoli oppressi. Ancora ragazzino, era presente al momento del ritorno trionfale di Colombo dal Nuovo Mondo e rimase colpito dai sette Tainos che l’Ammiraglio delle Indie portava con sé. Nel 1493, suo padre, Pedro, assieme ad alcuni dei suoi zii, s’imbarcò per il Nuovo Mondo con la seconda spedizione di Colombo. Pedro rientrò in patria solo nel 1498 recando un regalo per suo figlio, un giovane servo taino, di nome Juanico. Aveva fatto fortuna e poté garantire al figlio un minimo di istruzione. Nel 1498 accompagnò suo padre nel Nuovo Mondo assieme a Colombo, ritornando a Cadice nel 1500. Nel 1502 vi ritornò per restarci, al seguito della spedizione di Nicolás de Ovando, che doveva assumere il titolo di governatore di Hispaniola. La sua partecipazione gli valse il conferimento del diritto di sfruttare un lotto di indigeni nella forma dell’encomienda. Nel 1507 fu ordinato sacerdote a Roma. Una volta tornato nelle Americhe, pur vestendo l’abito talare, acquistò terreni e schiavi e condusse una vita prospera ed apparentemente serena, senza nutrire particolari remore per il fatto che il suo benessere derivava dallo sfruttamento di altri esseri umani. Nella sua autobiografia ricordava quel giorno ad Hispaniola (le odierne Haiti e Santo Domingo), quando un frate domenicano si rifiutò di confessarlo. Gli chiese ragione del rifiuto e procedette poi a confutare gli argomenti del frate, fornendo contro-prove frivole e contenenti, a suo dire, solo una parvenza di ragionevolezza e verità. Ad un certo punto il frate lo interruppe dicendo: “sono arrivato alla conclusione, padre, che la verità ebbe sempre molti nemici e la menzogna molti aiuti”. Las Casas ricorda che “il chierico [Bartolomé] subito gli diede ragione, per la riverenza e ossequio che gli si doveva, perché il religioso era una veneranda persona e uomo molto dotto, più del prete; ma per quanto riguarda liberare gli indios non si curò della sua opinione” (Historia). Eppure, con il passare del tempo la sua prospettiva comincò a cambiare, per via dell’accumularsi di esperienze che segnarono profondamente la sua coscienza, non ultima la partecipazione come cappellano militare alla conquista di Cuba, che si risolse in un bagno di sangue del tutto gratuito, visto che la maggior parte degli indigeni non era intenzionata a ricorrere alla resistenza armata. Las Casas riferì poi di aver visto “crudeltà su una scala che nessun essere vivente aveva mai visto o si aspettava di dover vedere”. Dopo aver assistito a questi insensati massacri, si risvegliò in lui una sensibilità sopita. Fu un kairos, un intervallo di crisi e presa di coscienza, che l’avrebbe condotto ad una tappa radicalmente nuova della sua esistenza. Ne nacque un sentimento di rigetto nei confronti del sistema e di ciò che comportava l’accettarlo così com’era, passivamente. Si rese quindi conto che l’unica scelta moralmente decente era quella della difesa degli indigeni contro i suoi compatrioti e correligionari. Così l’encomendero Las Casas si convertì nella nemesi degli encomenderos e la storia della sua vita si confuse con quella della lotta per l’emancipazione degli indiani. In questo fu assistito dal buon Pedro de la Renteria, un laico con l’animo di un monaco: solitario, generoso e benevolo, contemplativo al punto da essere quasi completamente indifferente alle brame del materialismo. La svolta decisiva – non la conversione di un peccatore, ma la rivelazione della sua vocazione di profeta – giunse con la lettura di un passo del Libro del Siracide (34, 18-22) in preparazione del sermone pentecostale: “Sacrificare il frutto dell'ingiustizia è un’offerta da burla, i doni dei malvagi non sono graditi a Dio. L’Altissimo non gradisce le offerte degli empi e per la moltitudine delle vittime non perdona i peccati. Sacrifica un figlio davanti al proprio padre chi offre un sacrificio con i beni dei poveri. Il pane dei 37
bisognosi è la vita dei poveri, toglierlo a loro è commettere un assassinio. Uccide il prossimo chi gli toglie il nutrimento. Versa sangue chi rifiuta il salario all’operaio”. La crisi di coscienza che lo attanagliò trovò poco dopo uno sbocco costruttivo grazie ad un potente, vibrante ed indignato sermone di padre Antonio de Montesinos, che Las Casas ebbe l’opportunità di ascoltare ad Hispaniola il 4 dicembre del 1511 e che riporta nei suoi scritti. Montesinos esortava a riconoscere l’umanità dei nativi con queste parole: “Vivete nel peccato mortale per le atrocità che avete imposto tirannicamente a questa gente innocente. Ditemi, che diritto avete di schiavizzarli? In base a che autorità avete fatto loro la guerra quando vivevano in pace nei loro territori e li avete uccisi in modo che non si erano mai sentiti prima? Come potete opprimerli e non curarvi di curarli e nutrirli, e farli lavorare fino alla morte per soddisfare la vostra avidità? E perché non vi curate della loro salute spirituale, affinché possono arrivare a conoscere Dio, che siano battezzati e che possano ascoltare la messa e santificare i giorni di festa? Non sono forse degli esseri umani? Non hanno forse un’anima razionale? Non siete forse obbligati ad amarli come amate voi stessi? …Potete star sicuri che, in quanto a Salvezza, la vostra condizione non è migliore di quella dei Mori o dei Turchi che rifiutano la fede cristiana” (Iannarone, 1992, pp. 99-100). Prevedibilmente, queste parole, ed i sermoni successivi, che pure contribuirono alla promulgazione delle Leyes de Burgos a tutela degli indigeni, produssero non poco sconcerto ed irritazione alla corte di re Ferdinando, che era di tutt’altra pasta rispetto alla moglie Isabella. La regina, finché rimase in vita, insistette che gli indigeni fossero considerati e trattati come uomini liberi. Lui era un cinico realista, più interessato all’oro che all’evangelizzazione, ed autorizzò la deportazione di intere popolazioni per rinsanguare le regioni disabitate in seguito alle epidemie. Il sovrano convocò Montesinos in Spagna per chiedere ragione della sua condotta. Nel 1514 Las Casas aveva già deciso che tutto ciò che era stato commesso ai danni degli Indiani era “ingiusto e tirannico” e che la cosa migliore da fare sarebbe stata muoversi come un pendolare tra Vecchio e Nuovo Mondo prestando il proprio servizio come un avvocato dei diseredati. Così, nel 1515, Las Casas colse l’occasione e ripartì per la Spagna assieme a Montesinos, per parlare col re ed ottenere finanziamenti per ultimare la costruzione di un monastero domenicano. Ebbe così modo di prendere contatto per la prima volta con gli ambienti di corte che avrebbe frequentato assiduamente negli anni a venire per perorare la causa dei nativi americani. Nel corso di questo viaggio presentò il suo Memorial de remedios, in cui elencava venti ragioni per cui gli indiani non dovevano essere consegnati agli Spagnoli in encomienda, vassallaggio o risarcimento e poté incontrare il cardinale Francisco de Ximenes e Adriano di Utrecht, futuro papa Adriano VI e precettore di Carlo I (che sarà intronato con il nome di Carlo V), il quale viveva ancora nelle Fiandre. Questi simpatizzavano per la sua causa e fecero in modo che, nel 1516, ricevesse il titolo di “Procurador o protector universal de todos los indios de las Indias”, conferitogli dal cardinal Cisneros assieme al compito di tenere informata la corona riguardo all’implementazione delle disposizioni previste dalle leggi a tutela degli indios. Fu autorizzato a portare con sé quegli uomini di chiesa che giudicava più idonei. Gli insegnamenti morali del Siracide e il sermone di Montesinos convinsero dunque Las Casas che bisognava passare all’azione, affrancando i propri schiavi e predicando affinché gli altri coloni facessero lo stesso e rinunciassero all’encomienda. Ma questo non 38
gli poteva bastare. Aveva in mente qualcosa di molto più rivoluzionario, la concretizzazione del sogno utopico di una società ideale in cui la dignità umana fosse salvaguardata ed il messaggio di Cristo potesse essere insegnato senza l’impiego di metodi di coercizione. Trascorse gli anni tra il 1516 ed il 1522 tentando in tutti i modi di istituire una comunità cristiana sperimentale a Cumanà, nel nord del Venezuela, dove coloni spagnoli e indigeni avrebbero convissuto in pace e concordia, come fratelli spirituali di pari dignità. L’imperatore lo autorizzò a portare con sé dei coloni spagnoli, che ribattezzò “I cavalieri dello sperone d’oro”, per infondere un senso di romantico eroismo. Las Casas aveva persino disegnato un’uniforme per loro – una veste bianca con una croce rossa sul petto – ma fu così onesto da ammettere in seguito che fu l’unico ad indossarla. L’idea era quella di far vivere assieme indigeni e spagnoli affinché i primi apprendessero la parola di Dio e le tecniche agricole per emulazione. I lavoratori indigeni sarebbero stati salariati, avrebbero appreso nuove tecniche di coltivazione dai contadini spagnoli e avrebbero avuto accesso agli ospedali. Entro un anno, nel 1521, i nativi si erano già ribellati per via delle scorrerie degli schiavisti che avevano rapito 35 indiani dopo essere passati per la missione (rendendola complice agli occhi degli indigeni). Le continue frizioni tra coloni in cerca di guadagni facili ed indigeni tutt’altro che pacifici causarono l’uccisione di due frati. La rappresaglia spagnola non si fece attendere: furono tutti schiavizzati. L’intera impresa fallì miseramente, perché tra i desideri degli idealisti e la realtà quotidiana si frappongono i vizi della natura umana, che è come è e non come i riformatori vorrebbero che fosse nei loro progetti più radicali. I detrattori di Las Casas usarono subito questo fiasco per dimostrare che la conversione e pacificazione degli Indiani poteva essere ottenuta solo con la forza e la violenza. Tuttavia, come spesso avviene, non tutto il male vien per nuocere. Lo scacco costrinse il frate ad un profondo esame di coscienza e ad un attento riesame delle sue strategie. L’esperienza fu una salutare lezione di umiltà e concretezza che lo avviò su un percorso più produttivo, quello dell’accettazione dei difetti umani e del rifiuto dell’hybris artificialistica, cioè a dire dell’idea che sia non solo possibile ma necessario fare tabula rasa dell’esistente per ricrearlo minuziosamente dalle sue fondamenta, facendo in modo che la variabile umana non interferisca con i piani dell’utopista. Da quel momento in poi Las Casas insisterà su motivi come l’adesione naturale, lo slancio spontaneo e la libertà responsabile di una scelta informata che erano agli antipodi rispetto ai progetti di ingegneria sociale dei suoi avversari, intenti a costruire una società dominata dalla volontà e rapacità del più forte in una cornice di astrazioni discriminanti, rigide asimmetrie castali, uniformità dispotiche, programmazioni mirate alla meccanizzazione dell’umanità indigena, in un’ipertrofia di ingordigia e razionalità inesorabile ed indifferente. Las Casas reagì scomparendo dalla scena pubblica, in un monastero domenicano a Santo Domingo, nel 1523, non prima però di aver affrontato dialetticamente, nel 1519, l’aristotelico Juan Quevedo, vescovo del Darien. A Barcellona, davanti al giovane imperatore Carlo V, Las Casas liquidò Aristotele come “un gentile che brucia all’inferno, la cui dottrina non va necessariamente seguita a meno che non sia conforme alla verità cristiana”. A Quevedo riservò un trattamento non dissimile: “E voi Signore, avete peccato mille e più volte perché non avete rischiato la vostra vita per le vostre pecore, per sottrarle alle mani dei tiranni che le sterminano”. Quanto agli Indios, il domenicano dovette ammettere che il re aveva accettato, perché malconsigliato, che esseri umani 39
razionali fossero trattati alla stregua di pezzi di legno da costruzione o come greggi di pecore o come qualunque altro animale che possa essere spostato indiscriminatamente, “e che se anche morissero per strada non sarebbe una gran perdita”. A Santo Domingo Las Casas potè continuare i suoi studi teologici, meditare sul da farsi e lavorare alla stesura della Historia de las Indias, pubblicata nel 1561, e del primo trattato di missiologia della storia, il De unico vocationis modo omnium infidelium ad veram religionem (“Dell’unico modo di attrarre tutti i popoli alla vera Religione”), che vide la luce tra il 1527 ed il 1530 (ma fu pubblicata in spagnolo solo nel 1942) e fu messo alla prova alcuni anni più tardi a Tuzultlán, nel Guatemala. Tra il 1536 ed il 1538 la sua opera di evangelizzazione pacifica non rispose pienamente alle sue attese né in Nicaragua né in Guatemala ma, a parziale consolazione, il risultato non fu neppure catastrofico come in Venezuela; tant’è che fu possibile ribattezzare “Verapaz” (Vera Pace) la regione guatemalteca che inizialmente era stata chiamata “Tierra de Guerra” (Tuzultlán), per il carattere spartano della società indigena. In seguito visitò il Perù e tornò in Europa, nel 1539, per reclutare nuovi missionari ed incontrare il sovrano. Durante la sua permanenza scrisse la celebre Brevísima Relación de la Destrucción de las Indias, che completò nel 1552, ma che fu distribuita solo nel 1566, dopo la sua morte e tradotta in olandese nel 1578, in francese nel 1579, in inglese l’anno seguente, in latino nel 1598 ed infine in tedesco entro la fine del secolo. Presentò quest’opera, ancora abbozzata, al Concilio delle Indie nel 1541, in vista della riforma legislativa del 1542. Era un trattato che intendeva fornire prove testimoniarie e scioccanti di ciò che stava avvenendo nelle colonie spagnole americane. In questa relazione Las Casas accusava i coloni spagnoli di sterminio sistematico e stabiliva una peraltro forzata dicotomia tra cattivi spagnoli ed indiani buoni, “pazienti, umili, pacifici”. Ne aveva comunque ben donde. Mentre nelle alte sfere si discettava di quieta diplomazia, gli Indios si stavano estinguendo ed i Conquistadores badavano solo ad accumulare ricchezze. Nelle encomiendas i mariti erano separati dalle mogli e i genitori dai figli e mandati a lavorare lontano dalle loro comunità. I coloni si comportavano da nemici, non da insegnanti, e d’altra parte gli indiani non avevano bisogno di tutela, sapendo già cavarsela bene da soli nelle interazioni sociali. C’era solo bisogno di qualcuno che insegnasse loro la dottrina cristiana, nulla più di questo. Ed in piena libertà, perché “la libertà è il più prezioso e più elevato di tutti i beni di questo mondo”, andava ripetendo Las Casas, mentre nell’encomienda la condizione degli indigeni era quella degli schiavi. I nativi erano ridotti a “pure bestie”, distrutti come “sale nell’acqua” in un mondo in cui il loro consenso e libero arbitrio non contavano nulla. L’encomienda, continuava Las Casas, era assolutamente illegale, perché non aveva ricevuto “il consenso di tutti quei popoli che non erano stati chiamati, sentiti o difesi…come richiesto dalla legge naturale, divina, canonica e imperiale”. Tra le affermazioni che generarono più controversia ci fu quella secondo cui “fin dall’inizio gli Spagnoli non si sono presi la briga di predicare la fede cristiana a queste genti più che se si fosse trattato di cani ed altri animali” e l’accusa che l’opera dei frati era ostruita “perché si temeva che la diffusione del Vangelo si sarebbe interposta tra loro e l’oro e le ricchezze che bramavano”. Ammoniva le autorità: se le encomiendas non fossero state abolite, il Nuovo Mondo sarebbe rimasto spopolato. Se invece se gli indigeni fossero stati trattati come liberi vassalli sotto la diretta giurisdizione della corona le colonie avrebbero potuto garantire grande prosperità alla Spagna. Il 40
domenicano, assennatamente, toccava il tasto dei benefici concreti che sarebbero derivati agli Spagnoli rimasti in madrepatria a discapito degli emigrati, non particolarmente leali nei confronti della stessa. Altrimenti, concludeva minacciosamente, “Dio manderà orribili punizioni e forse distruggerà la Spagna”. Nel 1542 apparvero le Veynte Razones (“Venti Ragioni”) in difesa delle libertà dei nativi, proprio in coincidenza con l’emanazione delle Leyes Nuevas, da lui fortemente volute, che restringevano l’arbitrio degli encomenderos e ribadivano certi diritti degli Indios. Queste Nuove Leggi seguivano in gran parte le sue indicazioni e prevedevano l’abolizione della schiavitù tranne che per gli schiavi acquistati legittimamente in precedenza, la liberazione degli indigeni dalle encomiendas di proprietà privata e la soppressione di quelle illegittime, in vista della graduale eliminazione di questo istituto. “Disponiamo e ordiniamo che d’ora in avanti nessun indiano sia fatto schiavo per alcun motivo, né di guerra, né di ribellione o riscatto; ma siano trattati come quello che sono, cioè sudditi della Corona di Castiglia”. In un’altra disposizione leggiamo che: “Nessuno potrà servirsi degli indiani come persone al proprio servizio né in alcun altro modo contro la loro volontà”. Non aveva però efficacia retroattiva (de aquì en adelante). Si sanciva altresì che gli esploratori avrebbero dovuto ottenere una licenza e si dovevano fare accompagnare da ecclesiastici che ne avrebbero mitigato gli eccessi. I nativi dovevano infine essere trattati con rispetto. Più chiaro di così. Eppure, fatta la legge trovato l’inganno: il servizio personale obbligatorio fu sostituito da quello volontario, che lo era solo formalmente. In teoria, dunque, le leggi abolivano interamente le encomiendas, ma furono aggirate in molti modi – tra i quali cospicue donazioni al sovrano – e la schiavitù non fu di fatto abolita. Il primo vicerè del Perù, Blasco Nùñez de Vela, che cercò di rendere effettive le Nuove Leggi, provocò una sommossa e finì decapitato, la sua testa attaccata ad una corda e trascinata in giro. Il 20 ottobre 1545 la forza di queste stesse leggi fu limitata drasticamente con la revoca del capitolo XXX e solo nel 1562 Filippo II decise di non assegnare le encomiendas in perpetuità. La successiva legislazione non risolse nulla e servì semplicemente ad esaltare il ruolo degli Spagnoli come pacificatori invece che conquistatori. L’istituzione dell’encomienda scomparve solo al principio del diciottesimo secolo, con decreto abolitivo del 23 novembre 1718. Queste leggi servirono comunque a comunicare ai coloni ispanoamericani che i loro soprusi non avrebbero incontrato la compiacenza della monarchia spagnola. Per il suo ruolo nella formulazione di queste leggi Las Casas fu minacciato di morte da chi aveva interesse a mantenere le cose come stavano. Nel 1543 rifiutò di diventare vescovo di Cuzco, perché l’offerta serviva unicamente ad allontanarlo, ma nel 1544 accettò il seggio episcopale del Chiapas, dove si diresse assieme a 45 frati dominicani e 7 assistenti laici come guide ed interpreti. Nel frattempo le Nuove Leggi avevano causato un inasprimento delle tensioni tra coloni e monarchia. In Perù era in corso una vera e propria insurrezione contro la madrepatria, capitanata da Gonzalo Pizarro, uno dei fratelli minori di Francisco Pizarro, il conquistatore del Perù. Fu domata solo nel 1548, dopo che le Nuove Leggi furono parzialmente abrogate, proprio in quei punti più determinanti per la sorte degli indigeni e più devastanti per le rendite dei coloni. Ciò fece infuriare Las Casas che, a Ciudad Real del Chiapas, aveva già dovuto subire una continua serie di minacce e di piccole vendette da parte delle autorità spagnole, culminata in un complotto che doveva concludersi con il suo assassinio. 41
La sua prima mossa per evitare lo scacco fu quella di replicare con il suo Confessionario (Avisos y Reglas Para Confesores). In esso ingiungeva ai predicatori di rifiutarsi di assolvere gli schiavisti e i venditori d’armi. L’assoluzione poteva seguire solo la restituzione del maltolto e della libertà. In punto di morte i coloni erano così costretti a firmare un atto con cui distribuivano i loro beni agli indigeni sfruttati o ai loro discendenti, in cambio dell’assoluzione. La resistenza e le proteste a queste “direttive” di Las Casas, che godeva del favore di moltissimi evangelizzatori, furono violente. Gli encomenderos erano venuti dalla Spagna con pochi soldi in tasca e tutto quel che avevano guadagnato lo dovevano alla manodopera gratuita degli indigeni. Per di più i loro eredi non avrebbero ricevuto nulla. L’efficacia del Confessionario non fu duratura e fu essenzialmente ristretta alla regione andina, ma servì quantomeno a moderare l’avidità dei conquistatori. In esso si riaffermarono due principi fondamentali: l’emancipazione degli indios e la restituzione del maltolto e compensazione delle vittime. Juan Ginés de Sepúlveda, la nemesi di Las Casas, definì questo scritto “scandaloso e diabolico”. La Corona lo interpretò come un’implicita critica al suo operato e chiese ragione di queste accuse, mentre diverse figure tramavano affinché fosse accusato di alto tradimento. Tornò in Spagna nel 1547, un anno dopo la morte di Francisco de Vitoria, e fu immediatamente coinvolto in tre dispute. La prima in difesa delle nuove leggi, sotto attacco da parte degli encomenderos e dei loro alleati nel clero. Poi si dovette difendere dalle accuse rivoltegli dai medesimi per la sua proibizione di assolverli prima che avessero risarcito gli Indios. Infine la celebre disfida di Valladolid, contro Sepúlveda. Las Casas rimbeccò i suoi denigratori con i “Trenta Proponimenti” in cui spiegava che la missione europea nel Nuovo Mondo era quella di predicare il messaggio di Cristo, non di perseguitare altri esseri umani. Las Casas sosteneva che la bolla papale di donazione Inter Caetera (4 maggio 1493) di Alessandro VI, quella che divideva il mondo ad occidente delle Colonne d’Ercole tra Spagna e Portogallo, era stata concepita per sollecitare i sovrani iberici ad espandere e proteggere la fede e convertire gli infedeli. Dunque i fini materiali, pur importanti, non potevano avere la precedenza su quelli spirituali, per il buon nome stesso della Corona. Di conseguenza i governanti indigeni non potevano essere privati dei loro titoli di sovranità in accordo con la legge naturale e la legge delle nazioni. Altrimenti si sarebbe data via libera all’esproprio arbitrario e violento ed alla tirannia. L’idolatria non era certo una ragione sufficiente per perpetrare il latrocinio ai danni di chi se ne macchiava. Gli indigeni non avevano mai avuto l’opportunità di ascoltare il vangelo e quindi non avevano colpe. Gli unici che andavano puniti erano quelli che ostacolavano deliberatamente la predicazione. Las Casas avrebbe poi rivisto il suo giudizio anche su questo punto, sostenendo che persino in questo caso la violenza era ingiustificata. Le premesse erano già chiare in questo testo. Infatti il Nostro prevedeva che, una volta convertiti, i capi locali avrebbero riconosciuto la sovranità spagnola ma – e questo era un ragionamento particolarmente audace, per quei tempi – anche il rifiuto di convertirsi non era ragione sufficiente per punirli. Le conquiste armate non avevano perciò alcuna validità giuridica ed erano e rimanevano “ingiuste, inique e tiranniche”. Per quel che riguardava il sistema di lavoro coatto, la sua opinione era che il diavolo in persona non avrebbe potuto inventarsi un metodo più efficace dell’encomienda e del repartimiento per distruggere il mondo dei nativi americani, perché questi costringevano gli Indiani a lavorare nelle miniere e come portatori su 42
lunghissime distanze, dividendo le famiglie. Las Casas concludeva rammentando al sovrano che questi aveva la responsabilità di proteggere le leggi ed i costumi locali quando erano in armonia con le leggi e la moralità spagnola, cambiando solo quelle che non lo erano ed aiutando i nativi a rimediare ai difetti dei loro sistemi di governo. In quegli anni Las Casas completò ben nove trattati, tra i quali la già citata Brevissima relazione della distruzione delle Indie, che forse non era stata pensata per essere pubblicata ma solo per servire da canovaccio. Irritò molte figure influenti. Nella sua Storia delle Indie ridicolizzò Gonzalo Fernández de Oviedo definendolo “il peggiore nemico degli Indiani”, un uomo che cercava solo il suo profitto personale, e chiamò mentitore López de Gómara. In cambio López de Gómara lo chiamò lunatico e, nella sua Historia General, si rifece all’autorità di Sepúlveda per legittimare la conquista. Motolinía accusò a sua volta Las Casas di essere un falso profeta ed un ipocrita che distruggeva la reputazione internazionale della Spagna. Per Motolinía la conquista era un evento provvidenziale, divino e legato all’avvento del Millennio. Egli insinuò altresì che Las Casas era troppo impegnato a rimestare nel torbido in Spagna per occuparsi del suo vescovato del Chiapas. Nel frattempo il consiglio municipale di Città del Messico fece diverse donazioni a Sepúlveda affinché continuasse la sua opera di difesa delle sue prerogative. Las Casas si mosse abilmente perché ribadì l’innocenza della Corona e incolpò di tutto coloni avidi e privi di coscienza. In questo modo offrì al re l’opportunità di rimettere in riga i suoi sudditi americani che cercavano di ritagliarsi una sempre maggiore autonomia. La sua destrezza è ulteriormente testimoniata dal fatto che fu in grado di creare attorno a sé una rete di simpatizzanti che esercitava una notevole influenza a corte. Per fare un esempio dell’efficacia del suo attivismo e lobbismo basti pensare che Bernal Díaz, un encomendero favorevole ai massacri preventivi come monito per gli indigeni insubordinati o belligeranti, pur detestando Las Casas, cercò di servirsene, rivolgendosi a lui per farsi aiutare in diverse occasioni – ad esempio per consolidare la sua posizione professionale, ora che era “attempato e con una famiglia numerosa”. Questo perché “so che dovunque Lei ponga mano, ottiene dei risultati, che è proprio come dev’essere”. Las Casas ignorò le sue richieste. Persino il vicerè della Nuova Spagna, Luis de Velasco, si rivolse a lui per ottenere un aumento di stipendio dal re.
Ingerenze umanitarie L'idea di un uso della forza non più collegato alla pura e semplice potenza nazionale, ma messo al servizio del bene comune dei popoli, comporta molti rischi in termini di vite umane, ma è un classico esempio giusto di globalizzazione dei diritti e dei valori assolutamente irrinunciabile, come recita la Costituzione. Se la vita umana diviene l’obiettivo essenziale delle imprese militari, allora esse sono imprescindibili per la pace nel mondo. Se poi ciascuna forza armata lega il proprio compito ad una missione umanitaria che non appartiene più, di fatto, al solo interesse sovrano dello Stato di cui è parte, allora abbiamo una funzione nazionale che si amplia fino a diventare un’istituzione etica globale. Joaquín Navarro-Valls, “Gli eserciti globali”, La Repubblica, mercoledì 10 novembre 2010.
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E se il giogo di Cristo è tanto soave ed il suo carico tanto leggero che prendendolo sulle spalle, le anime trovano refrigerio e piacere, perché consentite si addossi loro un peso sì doloroso, insopportabile, un giogo così amaro e fonte di tanta disperazione? Las Casas, Lettera al Consiglio delle Indie Las Casas condusse un’esistenza lunga ed attiva, morendo a 82 anni. Juan Ginés de Sepúlveda non lo sconfisse nell’arena della retorica, ma lo riuscì a superare in longevità. Nacque nel 1490 nei pressi di Cordoba, città dove morì nel 1573, a 83 anni, quasi fosse simbolicamente legato al suo rivale. Studiò inizialmente ad Alcalà e Sigüenza, per poi trasferirsi in Italia, paese che avrebbe amato appassionatamente, grazie ad una borsa di studio per il Colegio de San Clemente a Bologna, dove affinò la sua preparazione sotto il famoso, sebbene teologicamente discusso, filosofo Pietro Pomponazzi, grande amante della filosofia greca. L’altro suo patrono fu Alberto Pio, principe di Carpi, nipote di Pico della Mirandola e frequente visitatore del suddetto collegio. Questi apprezzò molto la statura intellettuale di Sepúlveda e lo tenne a lungo con sé presso la corte di Carpi, tra il 1522 ed il 1525. In Italia l’umanista spagnolo assistette al Sacco di Roma del 1527 ed all’assedio di Napoli del 1528. Per l’incoronazione ad imperatore di Carlo V, scrisse L’esortazione a Carlo V a muovere guerra ai Turchi (1529) contro la minaccia ottomana, “perché se non lo si arresta in tempo, gravi saranno il rischio ed il pericolo incombenti sulla nostra sicurezza e libertà”. Poi, in seguito al decesso del suo patrono papale, Clemente VII, seguì in Spagna l’imperatore, per diventare suo cronista e cappellano. Era stato lontano dalla Spagna per 20 anni. Traduttore dal greco al latino delle opere di Aristotele, era un grande ammiratore della Roma imperiale. Era invece ostile, come lo fu Alberto Pio, alle teorie di Erasmo da Rotterdam e dei suoi estimatori, tra i quali proprio il nostro Las Casas che, pur non essendo un erasmiano, aveva conferito evidenti accenti erasmiani alle sue opere, promuovendo un cattolicesimo non conformista, in un’epoca in cui pure tirava una brutta aria per i difensori spagnoli di Erasmo. Il teologo sivigliano si lasciò coinvolgere in continue polemiche con gli erasmiani ma, nei loro confronti, i suoi toni furono quasi sempre molto civili e cortesi. È degna di nota la sua contrarietà al pacifismo erasmiano che, osservava con una certa inquietudine, stava facendo proseliti anche a Bologna. Per Erasmo l’imperialismo romano era un esempio perfetto dei pericoli di un’illimitata autocrazia e per questa stessa ragione era estremamente sospettoso nei confronti del suo erede, il Sacro Romano Impero, che tassava i suoi compatrioti olandesi con una forma di parassitismo che appariva senza limiti, senza fine e senza ritegno. Erasmo soleva anche criticare severamente quegli educatori che istillavano nei prìncipi il desiderio di emulare Giulio Cesare, un leader a suo avviso tutt’altro che glorioso, ma anzi “pestifero”. Gli erasmiani esaltavano l’unità e la concordia della razza umana in sintonia con l’originale insegnamento di Gesù il Cristo e condannavano i fattori di divisione e discordia, inclusa la de-umanizzazione dei nativi americani. In risposta a questi proclami pacifisti ed anti-romani, Sepúlveda scrisse Gonsalus (1523), un’apologia della rincorsa della gloria, che secondo lui equivaleva alla ricerca del bene comune. In seguito scrisse altre tre opere in favore della giusta guerra. Quella del 1529, alla quale abbiamo già accennato, per controbattere alla posizione di Lutero che negava il diritto dei Cristiani di fare guerra ai Turchi. Una nel 1533, il 44
Democrates primus, o De conuenentia militaris disciplinae cum christiana religione dialogus per riaffermare la compatibilità tra la guerra e l’essere cristiani, in risposta all’influenza di “quelli che si abbandonano al desiderio di novità di fronte alle nuove idee”. Infine il “Trattato sulla giusta guerra nelle Indie” (Democrates segundo o de las justas causas de la guerra contra los indios) del 1544, riassunto poi nell’Apologia pro libro de iustis belli causis, che apparirà il 1 maggio del 1550 e servirà per la Disputa di Valladolid. Las Casas, molto tempestivamente, redigerà immediatamente la sua replica, l’Apología contra los adversarios de los indios, che non fu mai diffusa. Sepúlveda chiama a sostegno delle sue tesi sulla guerra giusta Sant’Agostino: “Cos’è che non ci sta bene della guerra? Che qualche volta muoiono quelli che devono morire affinché quelli che devono vincere dominino in pace. Deplorare questo è da uomini timidi e poco religiosi”; San Gerolamo: “chi colpisce i mali in quelli che sono malvagi e possiede strumenti di morte per uccidere i peggiori, è ministro di Dio”; e infine Sant’Ambrogio: “Quando per ingiunzione divina insorgono i popoli per castigare i peccati, come fece il popolo ebraico per occupare la terra promessa e distruggere le genti peccatrici, si può spargere il sangue dei peccatori senza incorrere in alcuna colpa, e ciò che possiedono ingiustamente passerà debitamente sotto il controllo dei buoni”. Alla fine del 1531 Sepúlveda scoprì suo malgrado che il pacifismo umanista si era insinuato persino tra gli studenti spagnoli del suo collegio a Bologna, ora più che mai determinati a difendere la tesi secondo cui non si può essere allo stesso tempo un soldato ed un buon cristiano. Questo movimento di vera e propria contestazione studentesca pacifista esercitò un’influenza piuttosto estesa, geograficamente e temporalmente. Un esempio importante è quello di Alberico Gentili, umanista italiano emigrato in Inghilterra perché protestante, che pubblicò intorno al 1588 il De iure belli, una confutazione dell’esistenza delle guerre sante. Gentili era dell’opinione che la religione non potesse essere un motivo sufficiente per dichiarare una guerra perché essa riguarda il rapporto tra l’uomo e Dio e nessun uomo può perciò lamentarsi con qualcun altro di essere stato insultato per via di una divergenza nelle credenze religiose. Un altro argomento sollevato era quello dell’inesistenza degli schiavi di natura, “perché, al contrario, siamo tutti naturalmente fratelli…e non esiste una ripugnanza naturale dell’uomo verso l’uomo…Se i desideri umani sono sconfinati e non c’è sufficiente gloria e potere per soddisfarli, quella non è una legge di natura, ma un difetto”. Tantomeno sussisteva il diritto di far la guerra ad un popolo perché si rifiutava di ascoltare il vangelo: “Anche se sta scritto “Andate in tutto il mondo a predicare il vangelo ad ogni creatura” (Mc 16,15) non ne consegue che ogni creatura che si rifiuti di ascoltare debba essere costretta a farlo con la forza della guerra e delle armi. Queste sono assurdità”. Dal punto di vista delle élites tradizionali la diffusione del pacifismo tra i giovani studenti avrebbe potuto creare una generazioni di “obiettori di coscienza” di fronte alla minaccia islamica. Sepúlveda sminuì l’importanza della considerazione che nel Nuovo Testamento non si parlava di fare guerra, ribattendo che, se si voleve prendere Gesù a modello, visto che lui non condannava l’adultera, allora si sarebbe dovuto fare altrettanto, ma non ci sognavamo di farlo. Mettere a confronto l’adulterio e la guerra, in riferimento ad una rivelazione che era universalmente associata alla pace, alla concordia, alla fratellanza, alla carità ed all’amore per il prossimo, era una scelta argomentativa quantomeno curiosa, ma Sepúlveda non se ne diede conto, la minaccia era troppo grave. 45
Gli intellettuali pacifisti indebolivano il fronte comune contro il nemico: “Dicono che i cristiani dovrebbero vincerli non con la violenza, ma con la pazienza; voci queste che, come altre opinioni eretiche, sono sicuro non procedono da errori della mente, da depravazioni del pensiero o da ambizione, ma dal sacrilegio criminale ed insidioso di chi, corrotto dai Turchi con doni e promesse, mette in grave pericolo la libertà dei Cristiani”. È in questo contesto che nacque l’anti-erasmiano Democrates primus, pubblicato a Roma, che s’imperniava sulla celebrazione del codice cavalleresco: se gli altri non si sanno difendere, allora meritavano di essere vinti e soggiogati. La sconfitta ed il soggiogamento costituiranno la giusta punizione per i loro crimini collettivi contro la natura e per il loro fallimento nel creare una società civile. Questo manoscritto sarà seguito dal più famoso Democrates secundus (o Primus Alter), la cui stesura fu sollecitata da un membro del Consiglio delle Indie per minare alla base i principi che informavano le Nuove Leggi del 1542 ed il rifiuto dei missionari di assolvere i coloni. Questo manoscritto incorporava il dibattito sul Nuovo Mondo e sulle Nuove Leggi, ispirate agli scritti e discorsi di Las Casas e mirate alla restrizione del potere dei nuovi signori locali sugli indigeni. Il Democrates secundus ricapitolava i temi centrali del primo: le guerre giuste sono autorizzate dalla legge di natura e ciò che è consentito dalla legge di natura è parimenti permesso dalla legge divina. Un soldato non deve mai chiedersi se una guerra sia giusta o no, deve solo obbedire in buona fede, contando sul fatto che la responsabilità non ricadrà su di lui. Una regola di vita che fu adottata da Adolf Eichmann e dal giurista nazista Hans Frank, con le loro personali formulazioni dell’imperativo kantiano: rispettivamente “agisci come se il principio delle tue azioni fosse quello stesso del legislatore o della legge del tuo Paese” e “agisci in maniera tale che il Führer, se conoscesse le tue azioni, le approverebbe”. Nel periodo intercorso tra la prima opera ed il suo seguito, Sepúlveda aveva aggiornato il suo pensiero. Aveva capito che gli Aztechi erano guerrieri, non “educande”, e che i Mexica erano convinti che Cortés fosse un emissario del dio Quetzalcoatl, identificato con il lontano sovrano spagnolo. Positivamente impressionato da questa rivelazione nei suoi aneliti autoritari, – perché la personalità autoritaria onora sempre un nemico sconfitto ma valoroso, quando la sua resistenza ha messo in risalto il valore del vincitore – aveva ammorbidito i toni. Esaltava l’audacia della loro difesa finale e ne minimizzava i vizi, arrivando ad attribuire ai Mexica una conoscenza intuitiva dell’immortalità dell’anima e l’aspirazione alla salvezza. Si registra una crescente moderazione nei suoi giudizi, che continua con l’Apologia del 1550, che descrive la società Mexica in termini relativamente positivi, un giudizio però non esteso alle altre società indigene. Evidentemente l’amicizia con Cortés – che, secondo lui, nel Nuovo Mondo aveva “agito da apostolo” – e con diversi cronisti della Conquista aveva mutato la sua opinione. In fondo, come recita il detto, “molti nemici molto onore”. Non si poteva certo sminuire l’impresa spagnola. Ma, ancora una volta, il suo giudizio sulla restante barbarie disorganizzata non si discostava molto dai giudizi precedenti. Così scriveva nel Democrates Alter: “Sono così ignavi e timidi che a mala pena possono sopportare la presenza ostile dei nostri, e spesso sono dispersi a migliaia e fuggono come donnette, sbaragliati da un numero così esiguo di spagnoli che non arriva neppure al centinaio. [...] Così Cortés, all’inizio, per molti giorni tenne oppressa e terrorizzata, con l’aiuto di un piccolo numero di spagnoli e di pochi indigeni, una immensa moltitudine, 46
che dava l’impressione di mancare non soltanto di abilità e prudenza, ma anche di senso comune. Non sarebbe stato possibile esibire una prova più decisiva o convincente per dimostrare che alcuni uomini sono superiori ad altri per ingegno, abilità, fortezza d’animo e virtù, e che i secondi sono servi per natura”. Sepúlveda non cambiò mai idea sulla mancanza di strutture politiche atte all’autogoverno e rimase convinto di tre cose: (a) che tutte le azioni sono il risultato di una decisione divina o di una sua autorizzazione; (b) che ci sono certe azioni che si realizzano miracolosamente per disegno divino; (c) che la Provvidenza illumina i leader prescelti rendendoli consci di compiere una missione divina. L’orizzonte mentale che affiora dalla lettura dei suoi scritti e della sua corrispondenza è, come detto, quello di una personalità autoritaria: semplice, rigido, dualistico, chiaramente delimitato. Noi, gli amici, e Loro, i nemici. Vi è un elevato grado di subordinazione alle autorità, di aggressività (anche solo verbale) nel nome delle autorità, e di convenzionalismo-conformismo: tutti devono seguire le norme e pratiche stabilite dall’alto. Credeva che, al fine di mantenere la pace, i sudditi dovessero tenersi anche i capi più incompetenti o moralmente deprecabili, perché le leggi erano fatte per essere osservate, non per ribellarvisi. Tipicamente, Sepúlveda è giustizialista verso i diversi e permissivo verso i potenti e verso chi aggredisce qualcuno che è il bersaglio delle autorità. La punizione divina o umana del criminale lo fa sentire bene, lo fa sentire puro, perché è intimamente persuaso che l’universo sia intrinsecamente giusto e che le cose cattive succedono alle persone cattive e che se ciò non avviene è per un qualche imperscrutabile disegno divino che va accettato. In pubblico si autocontrollava, appariva gentile, socievole, piacevole, amichevole – riaffermava l’assenza di avversione personale nei confronti di Las Casas, che considerava una persona iraconda e pericolosa, “di intenzioni migliori dei suoi giudizi”, verso il quale dichiarava però di non nutrire alcuna ostilità e di limitarsi a “pregare che Dio gli concedesse una mente più serena, affinché arrivasse a preferire le quiete riflessioni ai progetti turbolenti” (Epistola ad Melchiorem Canum). In privato era un vulcano che attende di eruttare in tutta sicurezza e con l’approvazione del potere. Se si fosse trovato dall’altra parte, se cioè fosse nato azteco o inca, è presumibile che si sarebbe comportato nella stessa maniera, con la stessa foga e zelo, anche se a ruoli invertiti. Non si può ignorare la soddisfazione che traspare quando l’autore distingue e discrimina, come se ciò lo potesse far sentire più vivo. Come l’ideologo reazionario statunitense del ventesimo secolo Leo Strauss, Sepúlveda era persuaso che le masse abbisognassero di comando e disciplina, non di governo (perché sono politicamente troppo incompetenti) ed andassero frenate, represse, confinate (perché troppo dissolute e volgari). Coltivava il mito dell’autorità politica e di quelle strutture di potere in cui chi comanda gode di enorme discrezione e si autogratifica con abbondante liberalità, mentre chi è comandato è relegato in rigidi binari morali. Ecco come poneva a confronto la condizione degli autoctoni prima e dopo l’arrivo degli Spagnoli: “Prima della venuta dei cristiani avevano il carattere, i costumi, la religione e i nefandi sacrifici che abbiamo descritto; ora, dopo aver ricevuto col nostro dominio le nostre lettere, le nostre leggi e la nostra morale ed essersi impregnati della religione cristiana, coloro – e sono molti – che si sono mostrati docili ai maestri e ai sacerdoti che abbiamo loro procurato, si discostano tanto dalla loro prima condizione quanto i civilizzati dai barbari, i dotati di vista dai ciechi, i mansueti dagli aggressivi, i pii dagli 47
empi e, per dirla con una sola espressione, quasi quanto gli uomini dalle bestie” (Demócrates segundo). Sepúlveda era profondamente colto e scriveva elegantemente, ma i suoi ragionamenti non si dipanavano con scorrevolezza. Forse perché, come insinuava lo studioso ellenista Juan Pérez de Castro, nei suoi scritti non si riusciva a capire veramente cosa intendesse dire, perché non era un uomo di principio. In effetti i ragionamenti degli autoritari tendono ad essere falsati da pregiudizi, salti logici, compartimentazione della conoscenza, omissioni, doppiopesismo, ipocrisia, mancanza di autocritica, rimozioni, inferenze erronee, etnocentrismo e dogmatismo. La logica e l’evidenza empirica non potevano cambiare le sue opinioni. Questo è precisamente ciò che avvenne nello scambio di opinioni con Las Casas. L’esperienza in presa diretta del domenicano non fu mai sufficiente a modificare il punto di vista di Sepúlveda, prigioniero in una gabbia di erudizione che gli impediva di rendersi conto della realtà della sofferenza di milioni di esseri umani. Grande amante del pensiero aristotelico ed uno dei più apprezzati traduttori e commentatori spagnoli di Aristotele del sedicesimo secolo, Sepúlveda sottoscriveva i pareri espressi nei seguenti brani della Politica di Aristotele: “Quale sia la natura dello schiavo e quali le sue capacità, è chiaro da queste considerazioni: un essere che per natura non appartiene a se stesso ma a un altro, pur essendo uomo, questo è per natura schiavo: e appartiene a un altro chi, pur essendo uomo, è oggetto di proprietà: e oggetto di proprietà è uno strumento ordinato all’azione e separato”. E ancora: “Ora gli stessi rapporti esistono tra gli uomini e gli altri animali: gli animali domestici sono per natura migliori dei selvatici e a questi tutti è giovevole essere soggetti all’uomo, perché in tal modo hanno la loro sicurezza. Cosí pure nelle relazioni del maschio verso la femmina, l’uno è per natura superiore, l’altra inferiore, l’uno comanda, l’altra è comandata – ed è necessario che tra tutti gli uomini sia proprio in questo modo. Quindi quelli che differiscono tra loro quanto l’anima dal corpo o l’uomo dalla bestia (e si trovano in tale condizione coloro la cui attività si riduce all’impiego delle forze fisiche ed è questo il meglio che se ne può trarre), costoro sono per natura schiavi, e il meglio per essi è star soggetti a questa forma di autorità, proprio come nei casi citati”. Fedeli a questo modello, gli Aristotelici difendevano una nozione gerarchica del valore umano che vedeva alla sommità della piramide i maschi adulti dotati di raziocinio, con in fondo le donne e i bambini dei popolo più selvaggi. L’umanista spagnolo non citava esplicitamente questi passi dello Stagirita, già abbondantemente dibattuti, ma è evidente che il suo argomento che il “più perfetto” è sempre superiore al “meno perfetto” derivava direttamente dalla Politica di Aristotele. “Un singolo principio e dogma naturale: il governo ed il dominio della perfezione sull’imperfezione, della forza sulla debolezza, della virtù sul vizio”, scriveva il pensatore cordobese: gli Indios erano destinati a servire gli Spagnoli, “de ingenio más elegantes”. Nel Tratado sobre las justas causas de la guerra contra los Indios, che generò la controversia di Valladolid, citava esempi biblici di guerre giuste, condotte con obiettivi nobili e sacrali e ribadiva che la legge di natura stabilisce una gerarchia tra signori perfetti e schiavi imperfetti (preludio a Nietzsche). Gli Spagnoli, nonostante il sacco di Roma, secondo lui esemplificavano la virtù e la grazia. Il suo punto di vista è articolato in maniera inequivocabile: “È per questo che le belve sono domate e sono sottoposte all’autorità dell’uomo. Per questo motivo l’uomo comanda alla donna, l’adulto al fanciullo, il padre al figlio: cioè, i più forti e i perfetti prevalgono sui 48
più deboli e sugli imperfetti. Questa stessa situazione si riscontra tra gli uomini; perché ve ne sono di quelli che sono per natura signori di altri che per natura sono servi. Quelli che superano gli altri per prudenza e per saggezza, anche se non prevalgono per la forza fisica, quelli sono, per la stessa natura, i signori; al contrario, i pigri, i tardi di mente, anche se hanno le forze fisiche per compiere tutti i lavori necessari, sono per natura dei servi. Ed è giusto ed utile che essi siano servi, e noi lo vediamo sanzionato dalla stessa legge divina, perché sta scritto nel libro dei Proverbi: “Lo stolto servirà il saggio”. Tali sono le nazioni barbare e inumane, estranee alla vita civile e ai costumi tranquilli. E sarà sempre giusto e conforme al diritto naturale che queste genti siano sottomesse all’autorità di principi e nazioni già colte ed umane, di modo che, grazie alla virtù di quest’ultimi ed alla prudenza delle loro leggi, essi abbandonino la barbarie e si conformino ad una vita più umana ed al culto delle virtù. E se essi rifiutano questa autorità, si può loro imporla per mezzo delle armi e questa guerra sarà giusta come lo dimostra il diritto naturale. [...] In conclusione: è giusto, normale e conforme alla legge naturale che gli uomini probi, intelligenti, virtuosi ed umani dominino tutti quelli che non hanno queste virtù”. Altrettanto illuminante è questo suo rifarsi direttamente a quel passaggio della Bibbia – “Lo stolto servirà il saggio” – che era stato citato favorevolmente da Tommaso d’Aquino, ed all’esempio dei Romani, “il cui dominio sugli altri popoli era giusto e legittimo”. Sepúlveda menzionò anche il coraggio di Cortés nella conquista del Messico come prova dell’innata superiorità degli Spagnoli, in contrasto con la natura servile degli indigeni. Stiamo parlando di quello stesso Cortés che si era gloriato del fatto che nell’assedio di Tenochtitlan erano morti più Indiani che Ebrei nell’assedio di Gerusalemme. Sepúlveda definiva gli indiani “homunculi” (sic!) immeritevoli di una qualche forma di autodeterminazione, ma al contrario tenuti a servire i nuovi signori e padroni. Ignorava la distinzione tra pagani, che non avevano mai potuto ascoltare la parola di Cristo, ed infedeli come i Musulmani e gli Ebrei che, pur avendo avuto accesso ad essa, la rifiutavano. Metteva a confronto la “magnanimità, la temperanza, l’umanità e la religione” degli Spagnoli “con quelle degli homunculi nei quali non rimane quasi alcuna vestigia di umanità” [“Compara ahora estas dotes de prudencia, ingenio, magnanimidad, templanza, humanidad y religión, con las que tienen esos hombrecillos en los cuales apenas encontrarás vestigios de humanidad, que no sólo no poseen ciencia alguna, sino que ni siquiera conocen las letras ni conservan ningún monumento de su historia sino cierta oscura y vaga reminiscencia de algunas cosas consignadas en ciertas pinturas, y tampoco tienen leyes escritas, sino instituciones y costumbres bárbaras”. Demócrates segundo, 309]. Concedeva che, “con il passare del tempo, quando saranno diventati più umani…” allora sarebbe stato possibile accordare loro maggiori libertà. Una volta costretti ad abbandonare le loro pratiche innaturali, la pace e la giustizia sarebbero prevalse. Ma era difficile immaginare che ciò sarebbe avvenuto in tempi ragionevoli. Infatti, sempre secondo il nostro, come tutti i barbari, gli Indios non conoscevano il senso della misura, si davano agli eccessi, mentre “in medio stat virtus”. Queste genti, la cui religione era un’inversione della pietà cristiana, si comportavano davvero “come maiali con gli occhi sempre fissi sul terreno”. La pubblicazione di quest’opera fu inizialmente approvata dal consiglio di Castiglia, ma poi, tra il 1547 ed il 1548, il libro dovette essere riesaminato da una commissione di teologi alle università di Salamanca e Alcalà, che lo 49
condannarono. Sepúlveda imputò alle interferenze di Las Casas il mancato via libera e decise di inviare un sunto del testo alla corte papale, che lo approvò e lo fece pubblicare nella forma di un’Apologia. Tuttavia tutte le copie che giunsero in Spagna furono bruciate per ordine del sovrano. In realtà nessuno dei suoi scritti polemici fu mai pubblicato in Spagna mentre lui era in vita, inoltre le pressioni censorie di Salamanca ed Alcalá, oltre a quelle dell’Ordine dei Domenicani, furono sufficienti ad evitare che la sua opera arrivasse nelle Americhe (se non clandestinamente) e rafforzasse le pretese dei coloni. L’impressione generale era che Sepúlveda fosse ben lontano dal corrispondere all’immagine dell’umanista illuminato tipica di una certa vulgata storiografica. Alcuni giudicavano certe sue asserzioni isteriche o comunque irragionevoli. L’erudito ellenista Juan Páez de Castro, confessore di Filippo II, lo bollò come l’opera di un uomo “non sani capitis” (non sano di mente), forse sulla scorta di un scambio espitolare con l’autore, che si era lamentato dell’imposizione dell’obbligo di lanciare degli avvertimenti preventivi a degli idolatri quali erano gli indiani. Nei tempi biblici, osservava Sepúlveda, non c’erano stati avvertimenti ed inoltre era piuttosto evidente che “nessun popolo abbandonerà mai la religione dei suoi avi se non per la forza delle armi o per miracolo”. Altri recensori avevano trovato irritante lo stile letterario con cui aveva scritto il Democrates Alter. Ma il suo intento era quello di farsi leggere da un vasto pubblico, non da un gruppo di specialisti. Questi teologi si atteggiavano a guardiani dello stile, ostili a chi si permetteva di varcare le giurisdizioni disciplinari senza avere i titoli per farlo. Sepúlveda, come Erasmo, era visto come un impudente outsider. Va comunque precisato che la visione del mondo di Sepúlveda non era agli antipodi rispetto alla teologia “politicamente corretta”: cercava di non dare troppa enfasi alla sua fede nel determinismo biologico e ribadiva che, alla lunga, gli indigeni potevano essere civilizzati e che questo era l’obiettivo di Dio. Prima però dovevano essere sottomessi. Secondo lui il passo del Vangelo di Giovanni (10:16) in cui Gesù riferiva di avere “altre pecore, che non sono di questo ovile; anche quelle devo condurre, ed esse ascolteranno la mia voce, e diverranno un solo gregge, un solo pastore” poteva alludere ai nativi americani, anche se più probabilmente le pecore in questione erano un’allegoria dei popoli limitrofi nonEbrei. Sorprendentemente, in tutto questo i suoi ragionamenti non si differenziavano poi molto da quello di Francisco de Vitoria, “il pinnacolo del pensiero umanista spagnolo di quell’epoca”, celebrato ancora oggi come uno dei padri della dottrina dei diritti umani. Per farsi un’idea della sua importanza, al momento della sua morte, nel 1546, quasi trenta dei suoi studenti erano già docenti universitari. Nelle sue lezioni universitarie Vitoria aveva difeso i nativi americani, il loro diritto alla proprietà privata e perfino quello a non farsi convertire con la forza al cattolicesimo. Ma leggiamo il punto di vista di quest’ultimo sugli indiani: “Anche se questi barbari non sono del tutto pazzi, non sono neppure troppo lontani dall’esserlo…Non sono capaci, o non lo sono più, di governarsi da soli più di quanto lo saprebbero fare dei folli o delle bestie ed animali selvatici, visto e considerato che il loro cibo non è più gradevole e per nulla migliore di quello degli animali selvatici”. Inoltre la loro stupidità è “maggiore di quella dei bambini e pazzi in altri paesi”. Non che ci fosse alcunché di inerentemente sbagliato in loro, è solo che erano stati sottoposti alle influenze sbagliate. Se potevano sembrare insensati e stolti 50
(insensati et hebetes) era per colpa della cattiva educazione. Conferme provenivano dalle osservazioni del teologo Alonso de la Veracruz che viveva a Città del Messico e riferiva che gli indiani che risiedevano in città si comportavano in modo perfettamente civile. Il francescano Juan de Silva era dell’avviso che gli indiani dovevano essere educati a capire ciò che altri esseri umani potevano cogliere intuitivamente. Bisognava renderli consapevoli del fatto che erano davvero “uomini razionali con un’anima sensibile, razionale ed immortale”. Analogamente, per Vitoria, l’indio, come il povero villano europeo, era forse un essere umano inferiore, ma rimaneva un “homo sapiens”. Non schiavo naturale, ma infante naturale, una creatura razionale in potenza, ma non in atto. Era perciò lecito intervenire per esercitare il diritto di tutela a beneficio degli indigeni e delle loro menti non inferiori, ma semplicemente immature, che dovevano essere plasmate e quindi richiedevano una costante tutela. In questo modo si anticipava l’argomento di Pufendorf che se qualcuno è capace di apprendere, anche retrospettivamente, che qualcosa è nel suo interesse, si può dire che vi abbia acconsentito anche se è evidente a tutti che non ha esercitato alcuna effettiva libera scelta. La legge naturale e Dio avevano così decretato: il contratto sociale non poteva essere modificato, i sudditi non avevano voce in capitolo su chi li comandava, ma si governava comunque con il loro consenso. Allo stesso modo gli Indios dovevano accettare volontariamente la loro sottomissione, perché questa li avrebbe avvantaggiati. Finché gli Indios fossero rimasti nella condizione infantile gli Spagnoli si sarebbero presi cura di loro (accipere curam illorum). Dunque Vitoria, un altro umanista che ragionava per sentito dire, dietro la maschera del rispetto del diritto internazionale, offriva in pratica, più o meno consapevolmente, un perfetto pretesto per una politica coloniale non troppo diversa dall’odierna pax americana. Legato a doppio filo, come molti altri colleghi, alle speculazioni aristoteliche, nel 1539 Vitoria lesse De Indis Relectio Posterior, sive de iure belli, uno dei testi seminali del diritto internazionale, all’università di Salamanca, ma commise un errore tanto ingenuo quanto evidente nel reinterpretare arbitrariamente la posizione di Aristotele, invece di rifiutarla recisamente. Il risultato fu un trattato che razionalizza l’impiego della guerra in determinate circostanze e con cristiana moderazione, dopo un’elencazione delle fonti scritturali che invece la condannano. Ora, poiché Vitoria era un intelletto di grandissimo spessore ed esperienza, è lecito sospettare che il suo obiettivo fosse quello di legittimare l’imperialismo spagnolo, cercando però nel contempo di salvare l’essenza del messaggio evangelico. Un’impresa moralmente discutibile e tecnicamente irrealizzabile, se non facendo uso di contorsioni logiche e riprovevoli omissioni. Sia come sia, contro ogni evidenza testuale, Vitoria affermò di ritenere che Aristotele non credesse veramente all’esistenza di una schiavitù di natura, ma fosse piuttosto orientato a giustificare la tutela degli uomini superiori su quelli inferiori, fino a quando questi ultimi non fossero maturati a sufficienza da potersi emancipare. In fondo, come altri ebbero occasione di sottolineare, lo stesso Agostino d’Ippona non era stato contrario alla schiavitù, perché questa offriva l’opportunità di sviluppare le virtù dell’umiltà, perdono, modestia, obbedienza e pazienza, ossia parte del programma divino per la rigenerazione della razza umana. In questa maniera si salvava il costrutto teorico aristotelico purgandolo di ogni implicazione biodeterministica – “sei schiavo e la tua natura non può essere modificata”. 51
Una posizione perlomeno stravagante, visto che se il filosofo greco avesse voluto indicare la reversibilità o alterabilità della condizione di schiavo non avrebbe certo insistito sul concetto di stato naturale. Il risultato di questa acrobazia concettuale fu un’imbarazzante giustificazione della tirannia che avrebbe avuto un notevole successo nei secoli a venire. Per di più questa proveniva da un difensore dei diritti umani ed era fondata su una revisione del pensiero dello stagirita che poteva essere confutata con una facilità disarmante, citando anche solo un paio di estratti dalla Politica in cui il filosofo esplicitava il favore con cui vedeva l’idea di schiavitù naturale permanente. Vitoria cercò insomma di far passare Aristotele per un difensore della dignità umana, andando anche oltre le “correzioni” di Tommaso d’Aquino, che pure procedevano in quella stessa direzione. L’Aquinate, infatti, si era almeno peritato di precisare che homo homini obbedire non tenetur, sed solum Deo – gli uomini devono rispondere solo a Dio delle azioni che riguardano la loro sfera personale. Questo punto di contatto tra i due intellettuali, Vitoria e Sepúlveda, non deve comunque oscurare i meriti della Relectio de Indis, che riconosceva comunque, tra le altre cose, la dignità umana degli indios, il diritto di proprietà ed il diritto dei popoli di difendere la propria sovranità (dominium). Questo in base alla seguente considerazione: (a) che non è vero che il peccato impedisce di possedere delle terre in quanto questo dominio è conferito per grazia divina e quindi il peccatore non la può ricevere. Per l’Aquinate gli esseri umani razionali esercitano il dominio e gli indios hanno dimostrato con le loro realizzazioni che sono razionali. Sarebbero colpevoli di peccato mortale se rifiutassero la parola del Signore presentata da cristiani dalla condotta morale impeccabile e dagli argomenti dimostrabilmente ragionevoli. Ma purtroppo le cose non stavano ancora così; (b) che “una persona è padrona dei suoi atti quando può scegliere questo o quello”; (c) che gli indios “hanno a modo loro l’uso di ragione”, perché “è evidente che seguono un certo ordine nelle loro cose: hanno città debitamente governate, matrimoni ben definiti, magistrati, nobili, leggi, professori, industrie, commercio; tutto ciò richiede l’uso di ragione. Inoltre hanno anche una certa forma di religione e non sbagliano nemmeno nelle cose che sono evidenti ad altri, cosa che è un indizio dell’uso di ragione. Dio e la natura non li abbandonano in ciò che è indispensabile per la specie; la facoltà principale nell’uomo è la ragione ed è inutile la potenza che non si riduce in atto”. Infine Vitoria sottolineava che Gesù aveva affermato esplicitamente che il suo regno non era di questo mondo, e di conseguenza la pretesa papale del dominus totius orbis era invalidata; al pontefice non spettava alcun potere temporale né per diritto naturale, né per diritto umano e neppure per diritto divino. Inoltre, “anche ammettendo che il Sommo Pontefice avesse questa potestà politica su tutto l’orbe, non potrebbe trasmetterla ai prìncipi secolari” e “anche se i barbari non volessero riconoscere nessun dominio del Papa, non si [potrebbe] per questo far loro guerra, né impossessarsi dei loro beni e dei loro territori”. Parole magnificamente rivoluzionarie, queste, che però si arrestarono ad un passo dal traguardo che sarà varcato solo da Las Casas: il rifiuto di considerare legittima un’ingerenza umanitaria non richiesta dai suoi presunti beneficiari. Come abbiamo visto, Vitoria e Sepúlveda erano d’accordo nel ritenere che certi popoli barbari fossero a malapena in grado di autogovernarsi e necessitassero di assistenza, o per meglio dire di una tutela paternalistica che poteva anche comportare una guerra giusta, nel caso in cui 52
fossero state vittime di tirannia, idolatria e abusi: “Un altro titolo – spiegava Vitoria – può essere la tirannia degli stessi barbari o le leggi tiranniche a danno degli innocenti, come quelle che ordinano il sacrificio di uomini innocenti o l’uccisione di uomini senza colpa al fine di mangiarli”. In questi casi esisteva un obbligo morale di intervenire: “Ne è la prova il fatto che Dio abbia mandato ognuno a prendersi cura del suo prossimo e tutti questi sono il nostro prossimo”. Vitoria demolisce le giustificazioni correnti delle guerre condotte in America, ma ritiene tuttavia che delle guerre giuste siano possibili, quando sia violato il “diritto naturale di socievolezza e comunicazione”, oppure qualora l’intervento sia compiuto per proteggere degli innocenti contro la tirannia dei capi e delle leggi e pratiche indigene. Non vi è alcuna nozione, neppure in fieri, di una vera eguaglianza fra spagnoli e indiani, come si evince dalla giustificazione ultima della guerra nelle Americhe: “Benché questi barbari non siano affatto pazzi, non sono tuttavia lontani dalla follia […]; Non sono più capaci di governarsi da sé di quanto lo siano i pazzi, gli animali e le bestie feroci, visto che il loro cibo non è più gradevole ed è appena migliore di quello delle belve”. Era dunque lecito intervenire nel loro paese per esercitarvi un diritto di tutela, impeccabile base legale per delle guerre imperialiste. È importante ricordare che questo giudizio non era condiviso dall’intero spettro dei giuristi spagnoli. Per esempio, se da un lato Juan de Solórzano y Pereyra si rifaceva allo ius ad subiciendum eos, il diritto a sottomettere gli indigeni, assicurando che “non v’è nazione così barbara, così stupida che, se educata e istruita correttamente, non si liberi dalla barbarie”, dall’altro Vasco de Quiroga, magistrato, membro della Seconda Audiencia che amministrò la giustizia in Nuova Spagna tra il 1531 ed il 1535 e primo vescovo di Michoacán, era recisamente contrario a progetti di addestramento e rieducazione finalizzati all’addomesticazione dell’indio. Egli denunciò ripetutamente un sistema di potere che aveva bisogno di mantenere gli indiani in una condizione degradante per potersene servire come “bestie prive di ragione”. Melchior Cano, che nel De dominio indiorum aveva categoricamente escluso la possibilità dell’esistenza di esseri umani servi di natura – “nullus homo est natura servus” –, aggiungeva che, se si interveniva in difesa di innocenti, non si doveva andare oltre il necessario per garantire la loro tutela. Certamente ciò non comportava spoliazioni e tributi vessatori come risarcimento. Gli Spagnoli erano andati in America “non come pellegrini, ma come invasori, a meno che uno non voglia chiamare quello di Alessandro un pellegrinaggio”. Diego de Covarrubias, discepolo di Vitoria e Cano, superò la posizione di Vitoria, sostenendo che gli indiani avevano il diritto di vietare il passaggio anche agli Spagnoli esclusivamente interessati al commercio perché, una volta entrati, la loro supremazia militare avrebbe causato la rovina degli indigeni. Il giurista Francisco Falcòn, “procurador general de los indios” e rappresentante dei cacicchi peruviani al secondo Concilio provinciale di Lima del 1567 dichiarò, arditamente, in quell’occasione: “se Sua Maestà è sovrana delle terre del Regno di Castiglia, per averle conquistate secondo giusta guerra, la stessa cosa non la si può dire per questi regni [le Nuove Indie], perché non li ha avuti con giusta guerra; […] sarebbe [piuttosto] da ritenersi tirannia”. Il giurista progressista Fernando Vázquez de Menchaca (1512-1569), che accompagnò Filippo II al Concilio di Trento, non fu meno esplicito e denunciò la teoria della schiavitù di Aristotele come un esempio di come le persone cerchino di dissimulare le loro guerre dietro la maschera della giustizia e di “quel rilassamento dello spirito umano che è quasi sempre causato dall’influenza e dall’opera di 53
quelli che desiderano compiacere i principi illustri e potenti”; forse un velato riferimento a Sepúlveda. Proseguiva poi ancor più esplicitamente: “La dottrina di queste autori è una tirannia bella e buona, introdotta in guisa di amicizia e saggi consigli, per il sicuro sterminio della razza umana e dispotismo sui superstiti. Per poter praticare in tutta libertà questa tirannia, saccheggiando città e usando violenza, cercano di giustificarla con nomi fittizi, descrivendola come una dottrina vantaggiosa per chi subisce vessazioni, mentre in realtà non si è mai sentito o visto nulla di più lontano dal vero e più meritevole di essere sbeffeggiato e vilipeso”. Nei primi anni del sedicesimo secolo gli erasmisti spagnoli erano stati spinti in un angolo ed alcuni avevano optato per una virtuale clandestinità, mentre i guerrafondai dominavano il dibattito. Lo stesso Vitoria in una lettera al suo amico Frate Miguel de los Arcos si lamentava del fatto che durante gli accesi dibattiti a corte si rischiava di essere giudicati sleali nei confronti dell’imperatore. Ma, grazie anche a queste figure, gli anni a cavallo della metà del secolo servirono ad attenuare l’impatto della Conquista. Poi, purtroppo, il pendolo oscillò nella direzione opposta, perché il movimentismo teologicogiuridico progressista metteva in dubbio la liceità delle imprese coloniali, e questo fin dall’inizio. Leggiamo per esempio cosa scriveva a questo proposito il teologo domenicano Domingo de Soto, già nel 1535: “Abbiamo stabilito che l’imperatore in nessun modo detiene il dominio sull’intero mondo. Con quale diritto, dunque, possediamo noi l’impero oltremarino appena scoperto? Io davvero non lo so”. Las Casas la pensava esattamente allo stesso modo e, in una lettera del 1549, raccomandava irrealisticamente a Soto di pretendere dal re una condanna pubblica ed ufficiale della Conquista. Quella stessa lettera, però, ci istruisce su di un aspetto cruciale dell’intera questione. Anche le personalità più sensibili alla causa indigena erano disinformati o, in alternativa, usavano estrema cautela nel sollevare certe questioni con il sovrano. Infatti Soto, confessore di Carlo V, in una lettera precedente indirizzata a Las Casas aveva spiegato di non sentirsi abbastanza informato per poter fornire una sua opinione di carattere teologico-politico, figuriamoci per protestare presso l’imperatore. Bartolomé Carranza, che insegnava al collegio di San Gregorio a Valladolid, presenziò assieme all’imperatore al concilio di Trento e si schierò dalla parte di Las Casas nella famosa Disputa di Valladolid, non fu così fortunato o forse si spinse troppo oltre nell’ammissione pubblica del suo erasmismo, senza poter godere di appoggi sufficientemente influenti a corte. Nominato arcivescovo di Toledo nel 1558, un incarico estremamente prestigioso, l’anno successivo fu comunque incarcerato dall’Inquisizione a Valladolid per il reato di eresia. Las Casas lo aiutò in ogni modo, testimoniando in suo favore e denunciando durante il processo il conflitto di interessi dell’inquisitore, il quale temeva che se le opinioni di Carranza avessero trovato ascolto a corte i suoi affari (compravendita di latifondi) avrebbero subito un duro colpo. La Spagna del tempo non poteva tollerare alcun tipo di religiosità interiorizzata e men che meno mistica, come quella ammessa da Carranza. Nel 1576 fu condannato formalmente da papa Gregorio XIII e gli si ordinò di abiurare sedici opinioni eretiche contenute nel suo catechismo. Morì poco tempo dopo. A dispetto di queste voci, tutt’altro che isolate, l’umanissimo ufficiale coloniale Rodrigo de Albornoz dovette commentare amaramente che sebbene ci fossero 400 difensori degli Indiani per ogni indiano, la schiavitù ed il commercio umano 54
non furono mai aboliti. Eppure, “non ho trovato nella legge di Cristo che la libertà dell’anima debba essere pagata con la schiavitù del corpo”. Ricapitolando, a quell’epoca si era assistito ad un vasto recupero della sapienza aristotelica, che poteva però anche essere adoperata – e fu proprio ciò che avvenne – per puntellare un modello di società in cui una vasta massa di servi permetteva ad una minoranza di signori di indulgere in una vita edonistica, o nel migliore dei casi contemplativa. Questi schiavi naturali non potevano pensare da sé e provvedere per sé. Tuttavia, come gli animali addomesticati a contatto con i padroni affinano le proprie capacità, così anche loro si potevano riscattare, col passare del tempo. Vitoria aderiva all’idea di Tommaso d’Aquino che l’umanità costituisse un corpo mistico spirituale e temporale e che il destino del mondo cristiano non poteva essere separato dal destino dell’umanità. Se una nazione non era capace di autogoverno doveva intervenire qualcuno dal di fuori, prendere in mano la situazione e rieducarla, facendola ragionare. Entrambe le prospettive legittimavano la presenza spagnola nel Nuovo Mondo in quanto braccio terreno per la realizzazione del disegno provvidenziale della conversione dell’umanità alla cristianità. Gli indigeni erano così immobilizzati in uno schema di storia provvidenziale a loro alieno ed in un sistema politico-amministrativo aristotelico-cristiano per loro difficilmente intelligibile. L’egemonia del diritto di origine romana nella giurisprudenza iberica comportò il graduale superamento della nozione di schiavitù naturale – ossia l’intersecarsi della dottrina ciclica dell’eterno ricorso (gli esseri umani sono una mera espressione di lignaggi ancestrali più o meno puri) e della concezione teleologica naturale della storia (la biologia è un destino personale e collettivo). Ciò nonostante, all’estensione lineare delle leggi naturali nella sfera sociale, si sostituì l’opposizione fondamentale (culturalista) tra il cristiano e il non cristiano come pretesto per costringere quest’ultimo a cambiare. Da schiavi naturali (permanenti) gli indigeni divennero schiavi socio-culturali e provvidenziali, l’affrancamento dei quali era rinviato a data da destinarsi. Nel corso della Disputa di Valladolid arrivò il benservito ad Aristotele da parte di Las Casas ed il rinsaldamento del legame con il messaggio originario di Gesù Cristo: “Addio Aristotele! Il Cristo, che è verità eterna, ci ha lasciato questo comandamento: ‘Amerai il tuo prossimo come te stesso’. (…) Benché fosse un filosofo profondo, Aristotele non era degno di essere salvato e di giungere a Dio attraverso la conoscenza della vera fede” (Apología, 3). Egli contrastò sempre l’idea che le forme culturali potessero essere l’espressione di disposizioni innate, ma la lucida forza e perspicacia della posizione di Las Casas risiedeva nella sua capacità di asserire vigorosamente e senza riserve ed esitazioni che un regalo non può essere un compito, un favore non può essere un incarico, la disponibilità non può essere una pretesa. L’umanismo “umanitario” della correctio fraterna di Sepúlveda era quello che faceva dire a H.D. Thoreau: “Se sapessi con sicurezza che c’è un uomo che sta venendo a casa mia con il piano consapevole di farmi del bene, scapperei a rotta di collo”. Las Casas, avendo vissuto di persona in circostanze che rivelavano la spudorata ipocrisia di questa ideologia, aveva ben compreso che la regola aurea nelle relazioni con il prossimo – “Fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te” – andava completata, nel senso dell’imperativo di trattare gli altri come loro, in primo luogo, vorrebbero essere trattati; cioè ascoltare il loro punto di vista, le motivazioni più 55
profonde, capire le loro esigenze ed aspettative ed agire di conseguenza. Anche se questo poteva significare non battezzare nessuno che non avesse ben compreso cosa significasse e che non avesse fornito il suo consenso informato. Una logica diametricamente opposta a quella di quei francescani che si limitavano a battezzare meccanicamente, come in una catena di montaggio, senza verificare se i nuovi cristiani avevano realmente capito a che cosa si stavano sottoponendo. Si compiacevano di aver battezzato la strabiliante cifra di quattro milioni di pagani in dodici anni di attività, con un picco di 15 mila indiani in un sol giorno. Uno di loro, Juan de Tecto (Jan Dekkers), scrisse l’Apología del bautismo Administrado a los gentiles Mexicanos con solo el agua y la forma sacramental, in cui difendeva il metodo del battesimo di massa argomentando che la fine del mondo era prossima e, sostanzialmente, non bisognava guardare per il sottile. La conversione degli indigeni avrebbe accelerato il compimento delle profezie chiliastiche. Ai nostri giorni l’arcivescovo emerito di Milano, Carlo Maria Martini, si muove sulla stessa lunghezza d’onda di Las Casas quando invita a seguire l’esortazione di Gesù ad amare il nostro prossimo perché è come noi, ossia plurale, eterogeneo, fluido. Non si può enfatizzare a sufficienza la grandezza ed attualità dell’intuizione lascasiana, che ha una valenza universale. Questa riecheggia nelle parole del filosofo inglese Peter G. Winch, quando afferma che “trattare una persona con giustizia vuol dire prendere seriamente la sua concezione di sé stessa, i suoi attaccamenti e predilezioni, la sua comprensione della sua situazione e di che tipo di comportamento le è richiesto in quelle circostanze” e in quelle del filosofo neo-confuciano Li Zhi, quando scrive che: “è da se stessi, non dagli altri, che bisogna innanzitutto esigere l’onestà, lo zelo e l’intrepidezza; queste virtù, quando le possediamo, cessano molto rapidamente di sembrare amabili se pretendiamo troppo dagli altri”. Non basta donare tanto per donare, o mettersi al servizio del prossimo in risposta ad un complesso di colpa esistenziale che ci attanaglia, facendoci pensare che dobbiamo qualcosa al prossimo ed al cosmo e prima li risarciamo meglio è. In quel caso è come prendere. Purtroppo, a differenza di Las Casas e di non molti altri, diversi “indigenisti” aiutarono i nativi per motivi fondamentalmente egoistici, come ad esempio per rincuorarsi nella certezza di una ricompensa divina, o per ricevere segni tangibili di apprezzamento. Insomma lo fecero per migliorare la propria immagine agli occhi degli altri, di se stessi e soprattutto di Dio. Nel farlo violarono sistematicamente il libero arbitrio degli autoctoni e quindi tradirono lo spirito del messaggio di Gesù il Cristo. Il Las Casas delle sperimentazioni di ingegneria sociale venezuelana rientrava in questa categoria di benefattori compulsivi. L’astuzia di molti conquistatori, imprenditori ed autorità coloniali fu quella di far leva su questo umanitarismo interessato per realizzare i propri obiettivi, in ultimo distruggendo il corpo che li nutriva, come dei parassiti infinitamente voraci, eternamente insoddisfatti, insaziabilmente a caccia di ricchezze materiali, risorse, potere, controllo sul prossimo, incapaci di accettare limiti e di apprezzare il senso della misura. In questo senso il mondo dei Conquistadores era un mondo di fantasie e grandiosi sogni di successo e ricompense, segnato da un forte desiderio di dominare o di essere dominati che non poteva non attirare Sepúlveda. Questi era un uomo che, stando al ritratto di Àngel Losada, che pure è un suo apologeta, fu “dominato dal desiderio di incrementare le sue proprietà” e trascorse la vita impegnato in compravendite di terreni ed immobili. “Non fece altro nella sua vita che comprare, vendere, affittare ed accumulare rendite ecclesiastiche” ed 56
ispezionare la sua tenuta ed i suoi amati alveari, dall’osservazione dei quali, si può presumere, trasse spunto per le sue teorizzazioni politologiche. Un uomo che, pur di vedersi dar ragione, non esitava a millantare credito presso chi non gliene avrebbe dato, al punto che tre ecclesiastici scrissero a Las Casas per lamentarsi del fatto che Sepúlveda avesse affermato pubblicamente e falsamente che loro erano dalla sua parte. La stoccata del domenicano non si fece attendere: “La smetta di nascondere i suoi errori dietro i nomi di così tanti uomini e cominci a sostenere la causa di Cristo, come si conviene ad uno studioso”. La Disputa Nel 1550, l’anno in cui si svolse il confronto dialettico con Sepúlveda, Las Casas aveva 66 anni. Le opinioni erano divise e il re convocò alla corte di Valladolid una giunta di teologi e giuristi per dirimere la questione se sia lecito fare la guerra a popoli le cui “colpe” risalgono a quando erano infedeli. Furono convocati i due rivali, in un confronto destinato a trascendere l’oggetto del contendere per cristallizzare nelle due trattazioni i due possibili approcci politici al problema dell’altro, del diverso: quello delle piramidi oligarchiche e castali e quello democratico, universalista ed egalitario. Las Casas aveva lasciato il Nuovo Mondo nel 1547 ed era determinato a dedicare gli anni che gli rimanevano da vivere all’attività di avvocato difensore dell’umanità americana. Sebbene per estrazione sociale fosse un popolano, Las Casas era tutt’altro che un sempliciotto. Gli studi e la passione per l’apprendimento l’avevano reso un erudito della letteratura teologica-scolastica e del diritto canonico (Parish, 1992). L’esperienza di vita e la pratica della dialettica avevano affinato la sua arte retorica. Fu moderno nel reperire nella matrice dell’economia di profitto e rapina le radici dell’ideologia coloniale e nell’insistere che il benessere materiale e la sopravvivenza degli indigeni dovevano venire prima di ogni altra cosa, persino della conversione. Solo una conversione per amore era valida, mentre il comportamento tirannico e distruttivo degli Spagnoli era “uno scandalo agli occhi di Dio”. Analizzò la civiltà azteca, quella degli sconfitti, nell’Apologética Historia, composta tra il 1527 ed il 1550, che però rimase inedita per oltre tre secoli. Questa vera e propria ricerca etnografica si basava sulle sue esperienze personali, sulla sua estesa corrispondenza e su manoscritti altrui. Lo scopo era quello di dimostrare che gli indiani soddisfacevano tutti i requisiti aristotelici della buona vita. Erano semplicemente rimasti isolati dal resto del mondo e non avevano potuto fruire della circolazione della conoscenza e della verità. In breve avrebbero potuto recuperare il tempo perduto perché facevano parte di un’unica umanità, dotata delle medesime facoltà. Questo, naturalmente, a patto che nella loro educazione si impiegasse il metodo giusto, fatto di “amore, gentilezza e premura”. La disputa fu equilibrata. Sepúlveda eccelleva nella cultura classica e nel latino, Las Casas possedeva una fervida eloquenza - invidiabile e da molti invidiata - ed un’esperienza sul campo estesissima, maggiore di chiunque altro, cosa che fece pesare nel dibattito, quando ad esempio insinuò che il suo rivale “aveva scritto il suo libretto velocemente e senza soppesare adeguatamente il materiale e le circostanze”. Nel corso della disputa Sepúlveda si limitò sostanzialmente a riassumere i punti principali della sua 57
posizione “rigidamente ortodossa ed altamente sciovinista” (Pagden, 1989) che, comprensibilmente, non poteva essere elaborata ulteriormente in un contesto come quello della madrepatria, che in generale non vedeva di buon occhio proclami biodeterministici (la natura come destino) che ponevano limiti alla Divina Provvidenza. Las Casas invece approfittò dell’occasione per illustrare la condizione dei nativi e lesse estratti dalla sua apologia per diversi giorni. Entrambi si autoproclamarono vincitori, ma la commissione non espresse alcun giudizio. Al centro del conflitto tra i due “colossi” c’era il principio di separazione contrapposto a quello di unità. Sepúlveda riusciva a vedere – o dava mostra di vedere – solo differenze, disparità, gerarchie, identificando in ogni diversità la cifra dell’inferiorità ed una conferma che gli Spagnoli avevano il diritto-dovere di imporre il bene. “Sepúlveda crede che non l’eguaglianza, ma la gerarchia sia lo stato naturale della società umana” (Todorov, 1992). Las Casas enfatizzava le analogie, le affinità e la condivisione paritaria, ossia quei principi nutritivi che hanno alimentato la quercia dei diritti civili e dei diritti umani. Secondo Sepúlveda i nativi amerindiani potevano usufruire del diritto alla libertà, ma non nei medesimi termini degli Europei cristiani. La libertà dei primi era fortemente attenuata dalla loro natura specifica ed inferiore, ciò che lo induceva a ritenere che non si sarebbe mai veramente raggiunta una condizione di uguaglianza e che quindi la sovranità spagnola non sarebbe mai stata seriamente messa in discussione nei secoli a venire. In pratica, la posizione dell’umanista di Cordoba è l’adattamento più estremo delle speculazioni aristoteliche sulla diversità umana che si potesse accettare in un contesto giuridico e teologico generalmente ostile al concetto di inferiorità e schiavitù naturale, ma tollerante nei confronti dell’aggiogamento dei prigionieri di guerra a fini di conversione e civilizzazione. Un’impostazione radicalmente anti-cristiana ed anti-umana agli occhi del domenicano che, nella Brevissima relazione della distruzione dell’Africa, condannava queste pratiche senza mezzi termini: “Come se Dio fosse un violento ed iniquo tiranno e gradisse e approvasse, per la parte che gliene offrono, le tirannie”. Sepúlveda diede l’avvio alle sue argomentazioni usando come caso emblematico l’impero azteco, ritenuto la civiltà più sviluppata del Nuovo Mondo. Il comportamento di Montezuma (Motekwmatzin, in lingua Nahuatl), che avrebbe potuto schiacciare i pochi invasori ma si limitò a dissuaderli dall’avvicinarsi alla capitale, per poi accoglierli senza offrire resistenza, è indicato come prova della codardia, inanità, mancanza di spirito degli Aztechi. Nessun aspetto della civiltà era davvero degno di nota: commercio, edifici, vita sociale erano solo necessità naturali che sorgono automaticamente e spontaneamente, senza merito alcuno da parte di chi ne fa uso. La loro esistenza dimostrava solo che “non sono orsi o scimmie e non sono completamente privi di ragione”. D’altra parte non avevano sapienza, né scrittura e archivi storici, ma solo immagini pittografiche. Non avevano leggi scritte ma solo usanze e costumi barbari; soprattutto non conoscevano la proprietà privata. Che avessero accettato questo stato di cose senza ribellarsi confermava lo spirito meschino e servile di questi barbari che andavano sottomessi per il loro bene. Le loro terre sarebbe state meglio gestite da chi se ne intendeva e non commetteva peccati così infamanti; il pontefice non avrebbe avuto nulla da ridire. Las Casas rispondeva che il papa non aveva una giurisdizione punitiva universale e, se l’avesse avuta, questa si sarebbe dovuta estendere fino a includere la fornicazione, il 58
furto e l’omicidio. Inoltre Israele non si era mai impadronito delle terre dei vicini perché erano non credenti o idolatri o perché commettevano peccati contro natura. Ciò detto, pur domandandosi con quale autorità questo papa assegnava terre che non gli appartenevano e mettendo in discussione la validità giuridica dell’espropriazione dei beni indigeni, non negava che le cose più imperfette dovessero cedere il passo a quelle più perfette quando le incontravano, “come la materia dinnanzi alla forma, il corpo dinnanzi all’anima ed il sentimento dinnanzi alla ragione”, ma non quando queste caratteristiche appartenevano a soggetti distinti. Perciò la gerarchizzazione nei rapporti tra coloni e soggetti era illegittima: “Nessun popolo libero può essere costretto a sottomettersi ad un popolo più educato, anche se questa sottomissione dovesse dimostrarsi di grande vantaggio per il primo”. Qui Las Casas si rifaceva al principio cardine dello jus gentium, il consenso volontario dei soggetti. Anche lui aveva studiato il suo Aristotele, ma lo usava solo per confermare le Scritture, non per reinterpretarne il senso. Dopo tutto, lo stesso Stagirita non aveva mai indicato chiaramente come distinguere uno schiavo da un uomo libero. Tra i due esisteva un forte divario etico ed esistenziale: uno metteva al centro l’uomo ed i deboli, l’altro il ceto e la nazione (i ricchi e i potenti). Sepúlveda cedeva alla passione per l’economia politica, al limite dell’eresia, con argomentazioni che mal si conciliavano con il diritto canonico e la teologia e che celavano un sostrato pagano e naturalista. Le sue tesi erano in contrasto con la missione evangelizzatrice della Conquista ma non con quella sfruttatrice dei Conquistadores. Per questo non erano ben accolte a Corte, mentre erano molto ben viste in America. Per certi versi il pensiero di Sepúlveda fu l’espressione massima della coscienza sociale e politica dei conquistatori. Lo jus gentium, che regolava i rapporti tra i popoli, secondo lui altro non era che uno sviluppo del diritto di guerra. Poneva così la violenza e la sopraffazione all’origine del diritto, in diretto conflitto con il Nuovo Testamento. Inoltre, insistendo sull’autonomia della sfera sociale e politica da quella religiosa, si collocava ad una distanza piuttosto ridotta da Lutero, al quale, oltre venticinque anni prima, aveva rivolto una severa critica. Sepúlveda dichiarava che si era tenuti a sottomettere con le armi, se non fosse stato possibile farlo diversamente, quei popoli che per condizione naturale dovevano obbedire ad altri e rifiutavano il loro fato. Ogni disuguaglianza era naturale e, in quanto naturale, era tale per decreto divino. Questo assunto non era però ricevibile dai giuristi spagnoli, che da tempo avevano accettato l’idea che lo stato di diritto non avrebbe lasciato spazio a rapporti di sfruttamento servile, prediligendo la forma di contratto sociale tra individui giuridicamente liberi. Per questa ragione il sistema di schiavitù di fatto che esisteva nelle colonie americane non fu mai sancito giuridicamente. Come al giorno d’oggi la tortura, il lavoro nero e lo sfruttamento della prostituzione, pur non dovendo esistere, la schiavitù esisteva, e nessuno poteva farci nulla. Così si ideò l’istituzione neo-feudale dell’encomienda, fingendo ipocritamente che ciò non fosse in contrasto con lo spirito delle leggi dell’impero. Sepúlveda aveva un’idea ben definita del nuovo ordine che doveva essere costruito nelle Americhe: il diritto doveva rispecchiare il sistema di potere e le strutture gerarchiche imposte dai vincitori. Il discrimine tra civile e barbaro era la proprietà privata, fino ad allora sconosciuta nel Nuovo Mondo. La Conquista era un’opera di 59
civilizzazione non tanto perché divulgava le parole di Cristo, ma perché esportava il modello capitalista-mercantilista e pedagogico europeo. Un’anticipazione della retorica del fardello dell’uomo bianco, ufficialmente tollerato in quanto atto caritatevole. Un governo autonomo e rispettoso dei suoi cittadini spettava esclusivamente ai popoli avanzati, quelli inferiori – privi di sangue cristiano e dominati dalle passioni e dai vizi – necessitavano di governi autoritari che li avviassero su un cammino di rettitudine, anche se ciò comportava il disprezzo dell’uomo per l’uomo. I nuovi signori avrebbero agito come strumenti di redenzione e rigenerazione, vicari di Dio in terra. Quattro furono le motivazioni addotte per dar conto di questa posizione: (a) la gravità dei delitti degli indiani, soprattutto la loro idolatria e i loro peccati contro natura; (b) la grossolanità della loro intelligenza, che ne faceva una nazione servile, barbara, destinata ad essere sottomessa all’obbedienza da parte di uomini più avanzati, quali gli spagnoli; (c) le esigenze della fede, poiché il loro assoggettamento avrebbe reso più facile e rapida la predicazione; (d) il male che si facevano tra loro, uccidendo degli uomini innocenti per offrirli in sacrificio. La prima giustificazione dell’asservimento degli Indios era formulata come segue: “Così il motivo per porre fine a questi atti criminali e mostruosi e per liberare gli innocenti dalle azioni ingiuriose commesse contro di loro, potrebbe già da solo concedervi il diritto, peraltro già assegnatovi da Dio e dalla Natura, di sottomettere i barbari al vostro dominio…a ciò si aggiunga l’intento di garantire ai barbari molte cose utili e necessarie…una volta che questi beni siano stati offerti e che le mostruosità che spaventano per la loro empietà, siano state soppresse dallo sforzo, lavoro e valore della nostra gente, e che la religione cristiana e le sue ottime leggi sia stata introdotta, come potrebbero questi popoli ripagarci di tanta abbondanza, varietà ed immortalità di doni?”. In questa prospettiva la missione civilizzatrice arrecava solo benefici ai colonizzati, che dovevano essere eternamente grati ai loro nuovi signori. L’autorità di usare la forza traeva origine dalla superiorità del sistema di valori e forma di governo dei colonizzatori. La civiltà non era il regalo della Spagna al mondo ma di Dio all’umanità; la Spagna era solo un veicolo della volontà di Dio. Sepúlveda esprimeva con cinica franchezza l’idea che l’inferiore è universalmente responsabile per la sua condizione. Gli indios obbedivano all’arbitrio e non si curavano della loro libertà: “Tale comportamento spontaneo e volontario, senza essere oppressi dalla forza delle armi, è un segno evidente dell’animo servile e vile di questi barbari […]. Tali erano insomma l’indole e i costumi di questi omuncoli, tanto barbari, incolti e disumani, prima dell’arrivo degli Spagnoli”. Il dovere dei padroni-educatori non era quello di coltivare la personalità dei singoli, come unità indipendenti, ma di adattarli minuziosamente alla loro umile funzione di ingranaggi nella megamacchina dell’Impero, in nome di un fine più elevato, il Bene Comune, l’Armonia Superiore, la realizzazione della Volontà di Dio in terra. A dispetto delle giustificazioni addotte dai suoi sostenitori, la visione sociale di Sepúlveda era inumana e cerebrale, ostile agli Indios nella loro realtà concreta, perché si prefiggeva degli obiettivi irrealistici, rispetto ai quali non avrebbero mai potuto essere all’altezza. Si indicava la possibilità che la natura umana indigena, seppur distinta da quella euro-cristiana, potesse essere modellata ed adattata al sistema grazie ad una corretta pedagogia, ad un’organizzazione politico-sociale dirigista e a maglie strette e ad 60
una pianificazione preveggente. La diffidenza totale nei confronti dell’Altro era alla base di quest’apologia del Nuovo Ordine. Leggere le tesi dei sostenitori della Conquista riporta alla mente il tema dell’”accusa del sangue”, così ben delucidata da Furio Jesi. Gli Indios, come gli Ebrei, erano visti come “una popolazione che, pur mascherandosi ipocritamente sotto parvenze di civiltà, era di fatto, e per sua incancellabile natura, diversa come i selvaggi erano diversi dagli uomini civili. […]. Negli Ebrei, popolo “sacrificatore ed antropofago” si riconosceva dunque una singolare commistione di civiltà e di natura selvaggia, di cultura e di impulsi cannibalici”. Ipocritamente ed esteriormente civilizzati, dall’animo “crudo, feroce e sanguinario”, non sono “selvaggi allo stato puro, ma selvaggi mascherati, quelli che non astuzia e ipocrisia sono riusciti a fingere di essere civili” (Jesi, 2007). La distopia del Nuovo Ordine Cristiano doveva essere protetta dal peccato, dal sincretismo, dall’idolatria mascherata, persino dai più reconditi pensieri dei sudditi, appannaggio del peccato, perché troppo iniqui, troppo fragili, troppo vulnerabili rispetto alle passioni. Mentre per Las Casas l’indio era un essere umano come lui, per Sepúlveda l’indio era una risorsa ed un ostacolo in un ordine dove tutto doveva essere in perfetta sintonia con la volontà degli encomenderos. L’umanità era svalutata perché incompiuta ed imbarazzante e persino l’elemento spagnolo doveava guardarsi dalla contaminazione che sempre segue il contatto con l’impuro. Non era il cristiano che si macchiava delle più atroci scelleratezze con perfida innocenza, era l’autoctono che gli aveva forzato la mano, con la sua indocilità e stoltezza. La coscienza di quest’ultimo andava colonizzata come si fa con le aree geografiche, denaturata come da indicazioni del Grande Fratello orwelliano: “Ti spremeremo fino a che tu non sia completamente svuotato e quindi ti riempiremo di noi stessi”. L’indio doveva essere reso docile, duttile, doveva capire che la volontà dei suoi signori-tutori era espressione della forza della necessità, dell’indispensabilità, che si sbagliava se credeva di essere diretto surrettiziamente in una certa direzione: la sua era una scelta libera (sic!) che conseguiva alla sua maturazione civile, alla sua debarbarizzazione. Sepúlveda si era costruito una stravagante concezione dell’autonomia e dell’emancipazione. Gli indigeni sarebbero stati pronti all’autodeterminazione quando fossero stati in grado di agire nel senso voluto da chi li aveva educati, dai suoi demiurghipedagoghi. Questo sistema, in cui si era pienamente liberi se ci si inchinava, se si dimostrava la propria innocenza, in cui i signori si riservavano il privilegio di far sentire liberi e uguali i servitori a loro piena discrezione, era un simulacro di libertà, una burla estremamente dolorosa per chi se ne avvedeva. È stupefacente osservare come le prescrizioni di “ingegneria comportamentale” di Sepúlveda coincidano talora con quelle della pedagogia di Gor'kij – “Solo nella sofferenza l’anima umana è bella” – e Makarenko – “La crudeltà è la più alta forma di umanesimo perché costringe l’individuo a cambiare anche controvoglia”. Ma è ancora più sorprendente constatare la somiglianza con il Grande Inquisitore sivigliano di Ivan Karamazov. Sepúlveda esortava gli Spagnoli a “sradicare le turpi nefandezze e il grave crimine di divorare carne umana, crimini che offendono la natura, così come continuare a rendere culto ai demoni piuttosto che a Dio […] e salvare da gravi ingiustizie molti innocenti che questi barbari immolavano tutti gli anni”. Dio era con loro e nessuno avrebbe potuto arrestare la loro opera redentrice, poiché “per molte cose e molto gravi, 61
questi barbari sono obbligati a riconoscere il dominio degli spagnoli […] e se rifiutano il nostro dominio potrebbero essere obbligati con le armi ad accettarlo, e questa guerra, con l’autorità di grandi filosofi e teologi, sarà una guerra giusta per legge naturale”. L’uso della violenza e della guerra giusta era giustificato anche dalla parabola evangelica (Lc 15,15-24) di quel signore che, dopo aver invitato molti a nozze, alla fine obbliga i poveri a partecipare al banchetto. L’umanista si richiamava all’interpretazione di Sant’Agostino il quale, riferendosi ai primi, osservava che li si invita ad entrare, mentre i poveri sono obbligati. “Questi, barbari, quindi, che violano la natura, sono blasfemi ed idolatri, perciò sostengo che non solo li si può invitare, ma anche obbligare (compellere), costringere affinché, ricevendo l’imposizione del potere dei cristiani, ascoltino gli apostoli che annunciano loro il Vangelo”. Questo argomento conseguiva alla tesi centrale del Democrates Alter: si poteva ottenere più in un mese con una conquista che in un secolo di predicazione. Non servivano miracoli, perché i mezzi umani che godevano di sanzione divina ottenevano gli stessi risultati. La guerra era insomma necessaria e giusta e se si insegnava ai nativi senza terrorizzarli, questi sarebbero rimasti testardamente aggrappati alle loro tradizioni secolari. Nulla di strano che il domenicano Melchor Cano, subentrato a de Vitoria, trovasse in quest’opera passaggi che suonavano “offensivi per le orecchie pie”. Sepúlveda sembrava affascinato dai vincoli di servitù (vinculum serviendi) e dal patriarcalismo che compenetrano l’Antico Testamento. Non amava la libertà e forse non la capiva. La nozione di giustizia parimenti gli sfuggiva. Secondo Carlo Maria Martini “la giustizia è l’attributo fondamentale di Dio. Nel giudizio universale Gesù formula come criterio di distinzione tra il bene e il male la giustizia, l’impegno a favore dei piccoli, degli affamati, degli ignudi, dei carcerati, degli infermi. Il giusto lotta contro le disuguaglianze sociali”. Se questo è vero, Dio non era con Sepúlveda quando, rifacendosi alle ingiunzioni divine contenute nel Deuteronomio, affermava che la Spagna era autorizzata a muovere guerra a qualunque nazione di religione diversa. Non gli era accanto nemmeno quando, sempre nel Democrates Alter, dichiarava che “il fatto che qualcuno di loro abbia un’intelligenza per certe cose meccaniche non significa che abbiano una maggiore saviezza, perché vediamo come certi animali come le api e i ragni facciano cose che nessuna mente umana potrebbe ideare”. È cristiano il mondo visto come un intero ordinato in cui l’ordine è strettamente gerarchico e opera meccanicamente, in cui il valore della natura e dell’umanità inferiore corrisponde al suo valore d’uso, in cui l’obiettivo dei dominatori è ottenere il libero consenso delle vittime al loro supplizio, in modo da potersi scagionare preventivamente? Per fortuna l’antagonista di Sepúlveda sapeva il fatto suo. Nella sua difesa Las Casas si avvalse della sua Apología e della Apologetica História Sumária, la sua opera più antropologica, completata dopo il 1551. Intendeva guadagnarsi un pubblico più ampio, non solo gli esperti della commissione, e voleva altresì dimostrare al più vasto numero di persone possibili che gli indiani erano membri di pari dignità della comunità umana e che le loro società erano sostanzialmente mature e civili, a dispetto della diversità di tradizioni e costumi. Voleva corroborare la tesi che “dietro le evidenti differenze culturali tra i popoli umani esisteva un medesimo sostrato di imperativi sociali e morali” (Pagden, 1989). Guardate alle cose che abbiamo in comune, non a quello che ci divide! Ammirate le splendite città azteche e inca! Nel confronto con Greci e Romani gli 62
Aztechi vincevano a livello tecnologico, architettonico, artigianale ed artistico; specialmente nell’uso decorativo delle piume, con le quali riuscivano a comporre ritratti e rappresentazioni che potevano competere con l’arte rinascimentale e per di più cangiavano i colori a seconda della prospettiva dell’osservatore. “Non abbiamo alcuna ragione di meravigliarci dei difetti, delle usanze non civili e sregolate che possiamo riscontrare presso le nazioni indiane, né abbiamo ragione di disprezzarle per questo. Infatti, tutte o la maggior parte delle nazioni del mondo furono molto più pervertite, irrazionali e depravate, e fecero mostra di molto minor prudenza e sagacia nel loro modo di governarsi e di esercitare le virtù morali. Noi stessi fummo molto peggiori al tempo dei nostri antenati e su tutta l’estensione del nostro territorio, sia per l’irrazionalità e la confusione dei costumi, sia per i vizi e le usanze bestiali” (Apologetica História). Per non parlare della loro modestia e mitezza. Quanto al sacrificio umano, sicuramente i sacrifici indigeni reclamavano meno vittime della Conquista: “Non è vero affermare che nella Nuova Spagna si sacrificavano ogni anno ventimila persone, né cento, né cinquanta, perché, se così fosse, non troveremmo tante infinite genti come ne troviamo. Tale affermazione altro non è che la voce dei tiranni, per scusare e giustificare le loro arbitrarie violenze e per opprimere, depredare e tiranneggiare gli indios... E questo pretendono coloro che dicono di essere dalla loro parte, come il dottore e i suoi seguaci…Il dottore ha contato malissimo, perché possiamo con maggiore verità e meglio dire che gli Spagnoli hanno sacrificato alla loro dea amatissima e adorata, la cupidigia, ogni anno della loro permanenza nelle Indie una volta entrati in ogni provincia, più anime di quante in cent’anni gli indios in tutte le Indie ne avessero sacrificato ai loro dei”. Inoltre gli indigeni non avevano avuto sentore di alcuna alternativa prima dell’arrivo degli Spagnoli: “Tanto coloro che volontariamente permettono di essere sacrificati, come i semplici uomini del popolo in generale, quanto i ministri che li sacrificano agli dèi per ordine dei principi e dei sacerdoti, agiscono sotto gli effetti di una ignoranza invincibile, e il loro errore dev’essere perdonato anche se arrivassimo a supporre l’esistenza di un giudice competente che possa punire tali peccati” (Apología). Non erano dunque in cattiva fede e, finché i cristiani non fossero riusciti a dimostrare coi fatti che la loro religione era ispirata da Dio, “essi sono senza dubbio tenuti a difendere il culto dei loro dèi e la loro religione, e ad uscire con le loro forze armate contro chiunque cerchi di privarli di tale culto o religione, o di recare loro offesa o impedirne i sacrifici; contro di essi sono così tenuti a lottare, a ucciderli, catturarli ed esercitare tutti quei diritti che sono corollario di una giusta guerra, in accordo con il diritto delle genti” (ibid.). Mai si era udita una tesi così ardita, che ritorce i principi della scolastica contro chi li impiegava per giustificare l’imperialismo. Angél Losada, nell’introduzione all’Apología, ha così riassunto l’innovativa interpretazione lascasiana del tomismo: “se i cristiani fanno uso di mezzi violenti per imporre la loro volontà agli indios, è meglio che questi rimangano nella loro religione tradizionale; anzi, in tal caso sono gli indios pagani a trovarsi sulla buona strada, e da loro devono imparare i cristiani che si comportano così”. Questo argomento si riaggancia alla strategia di confrontare civiltà americane e civiltà classiche. Quale società non ha praticato sacrifici nel suo passato? Non facevano sacrifici umani anche gli Spagnoli, i Greci e i Romani? In seguito però erano diventati 63
popoli civili. Lo stesso Abramo aveva offerto in sacrificio suo figlio a Dio. Eppure non riteniamo questi popoli depravati ma devoti, sebbene non ancora illuminati dalla Grazia. Un tempo il sacrificio era importante per venerare Dio. Arrivavano persino a sacrificare se stessi per Dio: una devozione più appassionata di questa non la si può immaginare! Las Casas, esibendo un’impressionante ed anticipatrice capacità di distacco relativistico dall’oggetto della sua analisi comparativa, completava il ragionamento facendo rilevare che il sacrificio umano non era in contrasto con la ragione naturale, era piuttosto un errore intrinseco della ragione naturale. Gli indoamericani non erano umani difettosi. Originariamente, a suo giudizio, erano monoteisti, come dimostrano i miti del dio creatore e civilizzatore diffusi in tutte le Americhe. Fu soltanto in seguito che l’isolamento li aveva esposti all’azione subdola e corruttrice del demonio, spingendoli verso il politeismo. Ora li si dovevano aiutare a rinunciare ai sacrifici con la forza delle argomentazioni e mostrando esempi di alternative migliori, non con quella delle armi. “Se questi sacrifici offendono Dio spetta a Dio punirli, non certo a noi”. Non era stato forse San Paolo, nella Prima lettera ai Corinzi, a chiarire una volta per tutte questo punto? “Spetta forse a me giudicare quelli di fuori? Non sono quelli di dentro che voi giudicate? Quelli di fuori li giudicherà Dio”. La Chiesa doveva forse oltraggiare Dio ergendosi a giudice degli esseri umani quando lo stesso Gesù il Cristo, stando a Luca (12, 13), aveva obiettato: “O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?”. Infatti, sempre rifacendosi al Nuovo Testamento, “Cristo non è venuto per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Giovanni 3, 17). Gli Indios dovevano essere messi nelle condizioni di accettare sinceramente e liberamente la cristianità, non indotti a farlo slealmente o coercitivamente. La pedagogia azteca insegnava ai figli ad essere ordinati, sensibili, prudenti e razionali: non certo il segno di una società che non avrebbe saputo autogovernarsi. L’unico tratto barbaro era l’ignoranza delle Scritture, ma a questo si poteva presto porre rimedio. A questo punto la trattazione si fece allegorica. Le varie manifestazioni dell’umano che s’incontravano nel mondo erano eterogenee. Alcune assomigliavano a dei campi non coltivati. E proprio come un campo abbandonato produceva solo spine e cardi ma, se coltivato, dava frutti, così ogni essere umano, per quanto apparentemente barbaro e selvaggio, era dotato dell’uso della ragione e poteva apprendere e generare i frutti dell’eccellenza. Al richiamo alle terribili punizioni divine descritte nel Vecchio Testamento, replicò che esse andavano contemplate con meraviglia, non imitate. Quanto alla rozzezza degli Indiani, egli poteva produrre innumerevoli prove a sostegno della tesi inversa. Alla questione della maggiore rapidità delle conversioni dopo una conquista, si poteva obiettare portando ad esempio l’opera dei missionari domenicani. La quarta tesi, quella del male minore – una guerra causa meno morti dei sacrifici di massa –, fu contrastata appellandosi al comandamento “non uccidere”, più efficace dell’imperativo di “difendere gli innocenti”, specialmente se ciò comportava una guerra indiscriminata che non poteva che far detestare la vera fede agli indigeni. “Quando io parlo della forza delle armi, parlo del peggiore di tutti i mali”. Sui soldati della Conquista Las Casas era irremovibile: “Essendo stati educati all’insegnamento di Cristo, non possono ignorare che non si deve arrecare danno alle persone innocenti. Chi manca di questo discernimento è reo di un gravissimo crimine verso Dio ed è degno di una condanna eterna”. Las Casas accettava che ci potessero 64
essere danni collaterali a cose e persone, ma ribadiva che l’uso della forza non doveva avere un obiettivo preventivo ed offensivo. Neppure la liberazione di innocenti poteva giustificare la messa a rischio dell’incolumità di un gran numero di altri innocenti. Per questo precisava che, “sebbene sia vero che uccidere un tiranno, che è una pestilenza per la repubblica, è un’azione buona e meritoria, lo stesso non si può dire nel caso in cui il suo assassinio dia origine ad una ribellione o grave tumulto che raddoppi i mali della suddetta repubblica”. L’intero ragionamento di Sepúlveda era contraddittorio e avrebbe arrecato infiniti danni alla causa dell’evangelizzazione: “Come potranno amarci queste persone, e fare amicizia con noi (condizione necessaria affinché possano ricevere la nostra fede) se i figli si vedono orfani delle proprie madri, le mogli perdono i mariti, i padri perdono i loro figli ed amici; se vedono i loro cari feriti, tenuti prigionieri, spogliati delle loro proprietà e l’innumerevole moltitudine di cui facevano parte ridotta ad uno sparuto gruppo?”. Nel Nuovo Testamento non si potevano trovare appigli che permettessero di sostenere una simile bestialità: “Citi dunque Sepúlveda un solo passaggio in cui il Cristo o i Santi Padri ci abbiano insegnato che i pagani debbono essere soggiogati mediante la guerra prima che gli si predichi il vangelo!”. Non sarebbe stato possibile, infatti, “quando Cristo mandò i suoi discepoli a predicare, non li armò certo con spade e bombarde”. Se il sacrificio era l’unico modo conosciuto dai nativi per onorare Dio, non si poteva impiegarlo come pretesto per assoggettarli. D’altronde anche i Romani li compivano, ma quando fondarono l’impero non punirono i popoli dediti ai sacrifici, si limitarono a proibirli per decreto. Volgendo poi l’attenzione a Luca 14,15, dove il compelle intrare, interpretato da Agostino come un’esortazione a costringere ad entrare nell’ovile della Chiesa, sembrava portare acqua al mulino di chi gradiva l’uso delle maniere forti, Las Casas ribatteva che la costrizione doveva essere di origine interiore, come confermato dall’analisi della medesima parabola effettuata da Tommaso d’Aquino, che parlava di “efficace persuasione”. Imporre il vangelo con le armi era solo un pretesto per depredare i nativi: “Che temano Dio, vendicatore della macchinazioni perverse, quelli che, con il pretesto di propagare la fede, con la forza delle armi invadono le proprietà altrui, le saccheggiano e se ne appropriano”. Il processo di conversione poteva solo funzionare se si fosse usato Cristo ed il suo messaggio come modello. L’uso della violenza coattiva nel nome della verità assoluta poteva solo smascherare la natura perversa di chi proclamava di rappresentarlo. Citava sant’Ambrogio: “Quando gli apostoli vollero chiedere il fuoco dal cielo, perché bruciasse i samaritani che non avevano voluto ricevere Gesù nella loro città, egli, voltatosi, inveì dicendo loro: non conoscete lo spirito al quale appartenete, il figlio dell’uomo non viene per mandare in rovina le anime, ma per salvarle”. Inoltre, una volta che il vaso di Pandora della violenza fosse stato scoperchiato, quest’ultima avrebbe finito per ritorcersi contro i suoi perpetratori, in forza della giusta punizione divina. Ancora più incisivamente, cercando la stoccata decisiva: “Il dottore fonda questi diritti [del re di Spagna sul Nuovo Mondo] sulla superiorità delle armi e sulla maggiore forza fisica. Questo serve solo a porre i nostri sovrani nella posizione di tiranni. Il loro diritto si basa sull’estensione del Verbo nel Nuovo Mondo e sulla loro buona amministrazione delle Indie. Negare questa dottrina significa adulare ed ingannare i nostri monarchi e mettere in pericolo la loro stessa salvezza. Il dottore perverte il naturale ordine delle cose, trasformando i mezzi in fini e ciò che è secondario in 65
fondamentale. È secondario il vantaggio temporale, è fondamentale la predicazione della vera fede. Chi ignora questo ha una conoscenza ben limitata e chi lo nega non è più cristiano di Maometto”. In verità, purtroppo, Las Casas era abbastanza isolato in questa sua presa di posizione in Spagna. Lo stesso Soto, che ricapitolava brillantemente le argomentazioni dei duellanti ebbe a dire: “sembra che il signor vescovo – se non mi sbaglio io – sia caduto in un errore, perché una cosa è che li possiamo costringere a lasciarci predicare, il che è opinione di molti dottori, altra cosa che li possiamo obbligare ad assistere alle nostre prediche, il che non è altrettanto chiaro”. In altre parole la forza non poteva essere usata per costringere alla conversione ma era legittima se venivano posti ostacoli all’evangelizzazione, in virtù dello jus defendi nos, che ci riporta alla bizzarra nozione che gli Spagnoli, se in buona fede, erano automaticamente dalla parte giusta, di chi difendeva se stesso e il Cristo dalle ingiurie e gli assalti dei non-credenti. L’umanista di Cordoba vide che il domenicano si era scoperto ed assestò un fendente: “per l’opinione secondo cui gli infedeli non possono essere giustamente forzati ad ascoltare la predicazione, si tratta di una dottrina nuova e falsa, e contraria a tutti coloro che nutrirono una diversa opinione. Il Papa infatti ha il potere – anzi il comando – di predicare egli stesso e per mezzo di altri il Vangelo in tutto il mondo, e questo non si può fare se i predicatori non vengono ascoltati; perciò egli ha il potere, per mandato di Cristo, di costringere ad ascoltarli”. Gustavo Gutiérrez (Gutiérrez 1995) parla molto a proposito di “teologia elaborata nella prospettiva del potere”. Las Casas era assolutamente persuaso che si dovesse scongiurare il “pericolo del cancro velenoso” che il contraddittore voleva diffondere. “Che uomo di sano intelletto – si chiedeva, esagerando retoricamente le virtù dei suoi protetti – approverebbe una guerra contro uomini che sono innocui, ignoranti, gentili, temperati, disarmati e privi di ogni difesa?”. Insisteva, poi, riportando il discorso nei binari del buon senso: “Sarebbe impossibile trovare nel mondo un’intera razza, nazione o regione che è così tonta, imbecille, scellerata o comunque priva in gran parte di un livello sufficiente di conoscenza e capacità naturale da non sapersi governare autonomamente”. Sepúlveda, lo abbiamo visto, non era dello stesso avviso: “In buon senso, talento, virtù ed umanità sono tanto inferiori agli Spagnoli quanto i bambini lo sono nei confronti degli adulti…come le scimmie lo sono a confronto degli uomini” [Bien puedes comprender ¡Oh Leopoldo! se es que conoces las costumbres y naturaleza de una y otra gente, que con perfecto derecho los españoles imperan sobre estos bárbaros del Nuevo Mundo e islas adyacentes, los cuales en prudencia, ingenio, virtud y humanidad son tan inferiores a los españoles como los niños a los adultos y las mujeres a los varones, habiendo entre ellos tanta diferencia como la que va de gentes fieras y crueles a gentes clementísimas, de los prodigiosamente intemperantes a los continentes y templados, y estoy por decir que de monos a hombres, “Demócrates segundo”, 305]. Las Casas metteva in dubbio la competenza del rivale: “Non è andato a rileggersi le scritture con diligenza, o sicuramente non ha compreso a sufficienza come applicarle perché, in quest’epoca di grazia e carità, cerca di applicare i rigidi precetti della Vecchia Legge che erano stati dati in circostanze speciali e quindi apre la porta a tiranni e saccheggiatori, a crudeli invasioni, oppressioni, violazioni e il crudo asservimento di nazioni inoffensive”. In pratica, non aveva senso credere che fosse giusto fare agli Indios quel che Dio aveva comandato agli Ebrei di fare agli egiziani e cananiti. 66
Sepúlveda era d’accordo sul fatto che la missione principale era convertire gli indiani ma, in linea con lo spirito del Requerimiento, ribadiva che la conquista militare avrebbe facilitato questo compito. Gli indiani si meritavano tutto quello che gli era franato addosso perché erano culturalmente e moralmente barbari, la civiltà europea era superiore e ad essa dovevano sottomettersi per il loro bene. Si rifaceva non solo alla nozione aristotelica di schiavitù naturale ma anche alla definizione agostiniana di schiavitù come punizione per i propri peccati. L’idolatria, i sacrifici umani ed il cannibalismo erano colpe evidenti e prove della giustezza della sua posizione. Esisteva un diritto (legitimus titulus) di intervento bellico in difesa degli innocentes, cioè delle vittime di sacrifici, antropofagia, tirannia dei sovrani indigeni e delle loro leggi, aberranti norme religiose dei popoli indigeni, ecc. Le stesse ragioni che legittimano le “guerre umanitarie” contemporanee. Sepúlveda era schiettamente ma elegantemente razzista, ed in perfetta buona fede, poiché la sua mente era dogmatica, ideologica. La ricezione negativa della sua opera in Spagna era in parte dovuta anche al fatto che aveva scelto la forma espositiva del dialogo, in luogo della trattazione classica. Il dialogo aveva enfatizzato le differenze tra conquistatori e indigeni fino a renderle caricaturali, indebolendo così la cogenza delle argomentazioni. Per lui i nativi sarebbero anche potuti diventare amici dei nuovi dominatori, ma non prima di essere stati soggiogati. Mentre i loro talenti avrebbero potuto gradualmente sorpassare quelli delle scimmie e degli orsi, i loro limiti mentali fisiologici avrebbero impedito loro per lungo tempo di trascendere “le capacità delle api e dei ragni”. A suo avviso la maggior parte degli indiani non era pienamente umana, mostrava solo una parvenza di umanità. Lo dimostrava la discrepanza tra il coraggio, la magnanimità e le virtù civili degli Spagnoli e la natura selvaggia dei nativi americani, che rifiutavano le norme e usanze della vita civile. Si valutino i temperamenti dei rispettivi leader, esclamava ancora una volta: Hernan Cortés era nobile e coraggioso, Montezuma era un codardo. Per questo gli Spagnoli erano moralmente e politicamente giustificati nelle loro pretese di dominio assoluto. Vitoria aveva sostenuto che il livello di maturità civile e morale di alcune delle culture native era pari a quello dei contadini europei e che era la cultura che aveva causato la divergenza nei percorsi di sviluppo, non una naturale condizione di schiavi. Sepúlveda sottoscriveva questa prospettiva, ma naturalizzava la cultura. Non poteva esserci un vero margine di sviluppo umano attraverso un processo civilizzatore che non comportasse l’estirpamento delle culture locali. Chi non voleva capirlo si faceva partecipe di una farsa ipocrita. Al che Las Casas non poteva esimersi dal chiedersi quando gli indigeni cristianizzati a milioni sarebbero stati giudicati degni di vivere da uomini e donne libere? Non arrivò al punto di affermare che dovevano essere lasciati completamente in pace, perché era pur sempre un evangelizzatore, ma ribadì che la tolleranza era una precondizione della conversione, mentre per Sepúlveda le necessità del realismo politico e della dottrina cristiana non lasciavano spazio alla tolleranza che, al massimo, poteva seguire la conversione completa. Pur ammettendo che c’erano state violenze ed atrocità, egli riteneva che il fine giustificasse i mezzi quando invece, come abbiamo visto, Las Casas ammoniva che tradurre i mezzi in fini ed i fini in mezzi era una disastrosa fallacia logica e morale. 67
La commissione che valutò la disputa, composta da giuristi e studiosi della scuola di Salamanca e del Consiglio di Castiglia e delle Indie non possedeva alcun potere formale o legale oltre quello di offrire consulenza al monarca. I due non si incontrarono mai nella stessa stanza. Questo consiglio non lasciò alcun documento pubblico in cui fossero registrate le loro preferenze. Alcuni non erano stati convinti da Sepúlveda ma nessuno si pronunciò a favore di Las Casas. In effetti la giunta non si pronunciò a favore di nessuno dei due contendenti, ma la monarchia decise che il trattato di Sepúlveda De justis belli causis era troppo pericoloso e lo bandì dal Nuovo Mondo. L’autore, piccato, accusò il suo avversario di oscurare la verità e la giustizia con un’eloquenza, una circospezione ed una perizia che “a confronto l’Ulisse di Omero era inerte e balbettante”. Gli addebitò la responsabilità di aver provocato “un grande scandalo ed infamia contro i nostri sovrani”. Nella sua apologia Las Casas rispose che il suo rivale aveva “diffamato questi popoli di fronte al mondo intero”. Il grande cardinale tedesco Josef Höffner, coltissimo, anti-nazista e “Giusto tra le Nazioni”, un giorno scrisse che “tra gli Spagnoli, fu il nobile Las Casas che comprese più profondamente lo spirito del Vangelo di Cristo”. La dignità umana Gli Indios sono nostri fratelli e il Cristo ha donato la sua vita per loro. Perché li perseguitiamo con una crudeltà inumana, senza che ci abbiano fatto nulla per meritare un trattamento del genere? Bartolomé de Las Casas È importante riconoscere che la prosecuzione della vita umana fisica non è di per sé il principio primo e assoluto. Sopra di esso sta quello della dignità umana, dignità che nella visione cristiana e di molte religioni comporta una apertura alla vita eterna che Dio promette all’uomo. Possiamo dire che sta qui la definitiva dignità della persona… La vita fisica va dunque rispettata e difesa, ma non è il valore supremo e assoluto. Carlo Maria Martini Nelle loro rispettive Relectiones, Vitoria e Soto sintetizzarono efficacemente quali erano gli interessi e le questioni al centro della Disputa, cioè cosa c’era in ballo: “Con quale diritto gli indios sono stati assoggettati al dominio spagnolo”, “quale sia la potestà temporale e civile dei reali di Spagna sugli indios” e “se sia giusto che un uomo possa essere signore di un altro uomo”. Sono vertenze che hanno accompagnato l’intera storia della maturazione politica e civile dell’umanità. L’universalismo che sostiene la moderna teoria dei diritti umani risale all’ideale greco di paideia, a quello cosmopolita degli Stoici, all’umanitarismo “giudeocristiano”, all’antropocentrismo umanista del Rinascimento ed alla nozione di individualità democratica che cominciò ad affermarsi con l’Illuminismo. Un cammino progressivo che ha incontrato innumerevoli ostacoli. Sappiamo che i nazisti assegnavano valori diversi alle persone e sulla base di questo criterio arbitrario le amavano o odiavano, lavoravano per la loro schiavizzazione, eliminazione o integrazione nella razza ariana. Chi assegna un valore arbitrario alle persone finisce per amare solo quelli che 68
fanno di tutto per compiacerlo e per detestare quelli che non la pensano come lui. La ricetta perfetta per un disastro. Quegli Indios che resistevano furono macellati e torturati. Un destino inevitabile, questo, secondo Sepúlveda, che nel Democrates Alter giustificava la guerra contro quelli “la cui condizione naturale richiede che debbano obbedire ad altri, qualora rifiutino tale imperio e non rimanga altra via”. Di contro Las Casas contribuì a formare i rudimenti della teoria dei diritti umani universali, che trae origine dalle nozioni di dignità metafisica dell’essere umano e di unitarietà della specie umana; queste trascendono criteri quantitativi, qualitativi e somatici, per riaffermare il valore incontestabile ed assoluto dell’umano prototipico, ideale, che va al di là delle preferenze soggettive. La lungimiranza e genialità di Las Casas in questo campo è testimoniata dal cosiddetto Piano Las Casas-Cisneros, ideato nel 1516 per salvare le comunità indigene caraibiche trasferendole dalle encomiendas a villaggi autonomi (corregimientos), ma mai portato a compimento per la morte del cardinal Francisco Jiménez de Cisneros, che peraltro non godeva dei favori del nuovo imperatore, Carlo V, giunto in Spagna dalle Fiandre nel 1517. Questo programma sanciva la validità di quasi tutti quei principi che, dopo diversi secoli, sarebbero serviti a tracciare le linee guida della dottrina dei diritti umani: la razionalità degli Indoamericani; il diritto alla vita ed all’integrità fisica; il diritto alla sicurezza personale; il diritto alla dignità; il diritto alla tutela della propria cultura; il diritto di associazione ed il diritto di parola e di consultazione in faccende che rigurdano la propria condizione giuridica. Principi che non necessitano di alcuna dimostrazione, come sancito nella Dichiarazione d’Indipendenza Americana del 4 luglio del 1776: “Noi consideriamo come autoevidenti queste verità, ossia che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono stati dotati dal loro Creatore di sicuri diritti inalienabili, e che tra questi sono la vita, la libertà ed il perseguimento della felicità”. Con la stessa convinzione, nell’Historia, Las Casas dichiarava: “Tutte le nazioni del mondo sono uomini, e di tutti gli uomini e di ciascuno di essi una sola è la definizione, ed essa è che sono razionali: tutti hanno comprensione e volontà e il loro libero arbitrio, essendo formati a immagine e somiglianza di Dio; tutti gli uomini hanno i loro cinque sensi esterni e i loro quattro interni, e ciascuno di essi si muove secondo il suo oggetto; tutti hanno i principî naturali o semi per intendere e per apprendere e sapere le scienze e le cose che non sanno, e questo non soltanto in quelli di buona inclinazione, ma si trovano anche in quelli che per costumi depravati sono malvagi, tutti si rallegrano del bene e sentono piacere di ciò che è gustoso e allegro e tutti respingono e aborrono il male e si irritano dello sgradevole e di ciò che nuoce loro”. Il merito di Las Casas e di altri teologi versati nella teoria politica e giuridica fu quello di capire che non si poteva fondare un giudizio di valore su un valore che non sia ultimo, non ulteriormente fondabile e quindi oggettivo, pena la creazione di una concatenazione infinita, e che questo valore non poteva essere un’interpretazione arbitraria della volontà di Dio o di quella papale. Prima di tutto c’era l’umano, che si autofondava. Le dottrine totalitarie come quella dei Conquistadores sono antiumanistiche perché, a differenza della filosofia umanistica, considerano superabile la persona umana. Al contrario, secondo Las Casas ed i giuristi di Salamanca, l’uomo non rientrava nella categoria di ciò che è sottoponibile alla potestà o facoltà di appropriazione per l’uso di qualcun altro. L’intuizione fondamentale e non razionalizzabile era che la 69
persona non ha un valore in base a quello che ha o che fa, ma possiede una dignità assoluta ed è per questo meritevole del nostro assoluto rispetto. La vita umana è sacra perché ciascuno ha un valore pari alla somma di tutte le vite umane, passate, presenti e future. Questa dignità non deriva esclusivamente da uno status privilegiato nell’universo. Sussisterebbe ugualmente in quanto la vita umana è una creazione di chi la vive. L’umanità adatta ciò che la circonda, non vice versa, come è invece il caso degli altri animali. Per questo Las Casas, come altri grandi credenti della storia, assegnava un’importanza monumentale alla libertà, inclusa la libertà di culto. Egli aveva compreso che i due tipi di dignità, quella fondata sull’universalmente comune (la dignità umana, quella dell’essere umano) e quella che nasce dall’universalmente differente (la dignità della persona), s’incontrano, si congiungono e si coniugano nel libero arbitrio. In questo senso la teoria umanistica dei diritti presuppone una dottrina della dignità umana, della sua preziosità e sacralità che non può essere facilmente dissociata dalla credenza in Dio o almeno da una visione del mondo spirituale/religiosa in un senso profondamente metafisico. Il diritto ha sempre ammesso che la persona possa non essere autonoma, ma ha riconosciuto capacità giuridica, cioè titolarità di diritti, ai minori ed ai minorati che pure hanno una ridotta capacità di agire. La dignità rimane intatta, perché essere persona è qualcosa di più profondo e comprensivo dell’essere autonomi. La lezione di Las Casas e dei Salmantini è che la condizione dell’umano non può essere ridotta o degradata a quella degli animali irruenti, delle macchine, delle cose/strumenti o di bambini indocili o di malati cronici in costante bisogno di assistenza, come volevano far credere Sepúlveda e quelli come lui. La nostra dignità deriva in parte anche dalla nostra capacità di essere creativi ed audaci nell’uso della nostra libertà d’azione, di pensiero e artistica, di essere responsabili di noi stessi e di essere un proprio progetto e non un manufatto o la creatura di qualcun altro. Questo, per Las Casas, era il dato di partenza e non ritenne mai di doversi sfiancare in un tentativo di difenderlo analiticamente. La sua esperienza personale era più che sufficiente. L’umanità è partecipe di una medesima condizione e non esiste una migliore incarnazione dell’umano rispetto alle altre. Di qui la sua tolleranza – se gli uomini sono essenzialmente uguali è possibile ammettere che possano continuare ad essere superficialmente diversi – e di qui la sua perentoria dichiarazione in una lettera al principe Filippo, datata 1544, che “Le leggi e le regole naturali e i diritti degli uomini sono uguali in tutte le nazioni, cristiane e gentili, qualunque sia la loro setta, legge, stato, colore e condizione, senza alcuna differenza”. Quando gli esseri umani non sono oggetto di abusi e degrado hanno sempre dimostrato di meritarsi rispetto, comprensione e affetto. Nella sua Fondazione della metafisica dei costumi (1785), Immanuel Kant distinguerà tra esseri razionali e cose. Secondo Kant tutto ha un prezzo oppure una dignità. Le cose hanno un prezzo, un valore equivalente di qualche genere e possono essere scambiati. Gli esseri con dignità non hanno prezzo e non possono essere scambiati. Per Kant l’uomo non può disporre di sé stesso perché non può essere nello stesso tempo persona e cosa, proprietario e proprietà, perché questa sarebbe un’insanabile contraddizione; ne conseguirebbe la sua mercificazione e la liceità giuridica della schiavitù. Di qui l’imperativo kantiano: “Agisci in modo da trattare l’umanità sia nella tua persona che nella persona di ogni altro sempre nello stesso tempo come un fine, e mai semplicemente come un mezzo”. Ebbene Las Casas, più di due secoli prima, aveva compreso questa verità, che è frutto di 70
un’intuizione morale che ha quasi certamente percorso l’intera traiettoria esistenziale dell’Homo Sapiens, non essendo una mera conseguenza logica di un freddo calcolo razionale. Quando Las Casas affermava che la sua libertà è la medesima di quella degli indigeni, intendeva anche dire che se questi ultimi non sono esseri umani come lui, cioè se non sono persone di pari dignità, allora proprio non esistono delle persone e si deve negare l’idea di umanità. Anche i più deboli, malati, morenti, mentalmente carenti, ignoranti rimangono persone per la legge come per quel senso comune che ancora tanto comune non era e tornerà a non esserlo nel tragico ventesimo secolo. Las Casas si rifiutava di descrivere il valore della vita umana come una convenzione legata ad una nozione soggettiva di legge naturale e di natura umana, perciò inapplicabile nel caso degli indigeni che, non essendo pienamente umani, non erano “coperti” da essa. Questo tipo di logica era semplicemente contrario alla sua e ad ogni esperienza umana di che cosa abbia valore. Il valore della sua e dell’altrui vita era intrinseco, senza altre qualifiche. Ciò che era dovuto a lui per il semplice fatto di essere umano era dovuto anche agli Indios. La Sublimis Dei non lasciava dubbi in materia quando enunciava: “Considerando gli stessi indiani come i veri uomini che sono”. In un certo senso, la religione cristiana di Las Casas era, come quella delle origini, un’autentica religione dell’umanità, la base minima e non-negoziabile per costruire e far funzionare una società in cui valga la pena di vivere. L’aspetto rivoluzionario, in tutto questo, è che Dio non giocava un ruolo decisivo. Cristo era il suo referente principale, il modello esemplare. L’antropologia filosofica e politica di Las Casas accettava l’ipotesi di un Dio che, pur essendo onnipresente ed onnipotente, concedeva all’uomo la facoltà di seguire o non seguire il messaggio di suo figlio, di lavorare con Lui direttamente e deliberatamente, oppure indirettamente ed inconsapevolmente, come fu per Adamo ed Eva. La sua filosofia morale, incentrata su un profondo rispetto della vita che superava le nozioni di razionalità e legge naturale/divina, trovava il suo fondamento teorico nel concetto di condivisione della vita, nel senso di fratellanza, comunanza e compassione, nella consapevolezza della nostra mortalità, vulnerabilità e finitezza e nella convinzione che il principio fondamentale della moralità sarebbe dovuto essere quello secondo cui ciascun individuo va capito attraverso l’amore, secondo l’insegnamento di Gesù il Cristo. Dio non era responsabile né del bene, né del male, era un testimone inattivo, ma partecipe, degli accadimenti. Las Casas scriveva non per esaltare Dio e la sua opera, ma per rischiarare un mondo così impoverito di retroterra metafisico che i Conquistadores ed i coloni spagnoli, sebbene “cristianissimi”, di fatto si trovavano privi di altra guida morale che non fosse la volontà di potenza, magari dissimulata dietro tradizioni e citazioni teologiche. Scriveva per ricordare ai suoi contemporanei le parole del Cristo, il suo esempio, la sua volontà di capire la realtà dell’altro attraverso un’opera d’amore, di giustizia e di compassione, sentimenti che diventavano forme di comprensione piuttosto che mere precondizioni o presupposti che facilitavano l’intendimento reciproco. Scriveva per esprimere il suo sdegno verso chi predicava bene e poi sguazzava nella realtà materiale che invece da sola non basta, verso chi si beava dei suoi castelli speculativi ed era incapace di raggiungere un’autentica, piena comprensione di quel che è fondamentale per la vita umana, ciò che ci spinge ad attenerci ad una condotta morale, perché la cercava nella direzione sbagliata, nelle definizioni e nelle citazioni dotte. Molte di quelle definizioni, come il domenicano s’impegnò a dimostrare nella Disputa ed in 71
innumerevoli altri scritti, non sarebbero rimaste in piedi ad un’attenta analisi. Quel che importava era il fatto, non la sua definizione e ancor più pressanti erano la comprensione e la sensibilità, perché la percezione della vulnerabilità e mortalità che ci accomuna, ci rende più inclini alla tolleranza ed alla premura e sollecitudine verso il nostro prossimo. Non a caso la “conversione” di Las Casas all’umanitarismo fu accelerata grandemente dalla partecipazione a spedizioni sanguinarie e dalla visione dell’abbrutimento di migliaia di esseri umani proprio come lui. È assai probabile che la personalità di Sepúlveda fosse strutturalmente incapace di comprendere il senso più profondo degli argomenti del suo antagonista. In una lettera all’inquisitore Martín de Oliva, datata 1 ottobre 1551, si lasciava andare ad una serie di recriminazioni: “Come si può vedere, le mie prove erano molto più convincenti delle sue, senza contare il fondamento della mia argomentazione, senza dubbio più solida di quella dei miei avversari. Essi, è vero, maneggiavano la falsa dialettica con un’abilità sorprendente: abituati come erano alle polemiche scolastiche, fornivano le più strane ed ingegnose interpretazioni delle Sacre Scritture e delle testimonianze dei Santi Padri, distorcendo completamente il loro senso e offuscando la verità piuttosto che lasciarla risplendere” (cf. Di Liso, 2007, p. 152). Sospetto che quella di Sepúlveda fosse una forma di alienazione dal linguaggio dell’amore, della tolleranza, della comprensione e del rispetto. Ai suoi occhi il Nuovo Mondo era e doveva essere ingiusto, come il Vecchio, il cinismo era l’unico vero realismo ed un linguaggio analitico-pragmatico era razionalmente più attraente e plausibile. Per lui non esisteva una comune umanità, non sussistevano legami invisibili di carattere non utilitaristico che intessevano la trama sociale, quel misterioso potere che abbiamo di influenzarci l’un l’altro in modi imprevedibili che incoraggia l’interdipendenza, il mutuo supporto e la disponibilità a partecipare a progetti comuni. Per lui, presumibilmente, solo la razionalità e l’utile sociale erano di per sé degni di rispetto, mentre per Las Casas il linguaggio dell’utilità razionale era sempre parassitario rispetto a quello dell’amore e minava alle fondamenta la possibilità di riconoscere agli indigeni una dignità morale indipendente dalla loro capacità di contribuire al bene dell’Impero. Coerentemente, Las Casas ripudiava la schiavitù o la servitù estorta, perché scambiare un indio per denaro corrompeva il suo valore, che apparteneva ad una sfera diversa, più alta, spirituale e divina, ed assegnava un valore sproporzionato al denaro. La sorprendente modernità di Las Casas, che non era un umanista di formazione, ma lo diventò col tempo, da autodidatta, fu la comprensione che la libertà sospinge ogni forma di uguaglianze e l’uguaglianza promuove ogni tipo di libertà. La libertà e l’uguaglianza comportano la rivendicazione di un’umanità comune e la dignità dell’individuo, che appartiene a se stesso e non ad altri, è architetto della sua vita e della sua anima, non di quella altrui, è immaginifico e creativo e la sua pelle non può essere indossata da altri. “Nell’arringa finale, il Vescovo del Chiapas elegge a criterio fondamentale di giustizia globale l’autonoma soggettività delle popolazioni indigene e il común consenso de toda la República y de todos los particulares. È un pensiero davvero radicale che tende ad affermare, per un verso, l’uguaglianza naturale di tutti gli uomini e di tutti i popoli e l’unità del genere umano e, per un altro verso, la libertà (civile, economica, culturale, religiosa politica) e la piena sovranità delle comunidades e dei “regni” indigeni all’interno di un’organizzazione federativa e sopranazionale. Nel quadro di una teocrazia 72
pontificia radicalmente svuotata di poteri temporali e riconvertita alle pure esigenze evangeliche, è garantita la libertà di coscienza, di religione e di culto degli indios, anche di fronte ai predicatori e alla Chiesa evangelizzatrice” (Di Liso 2007, p. 64). Si potrebbe ipotizzare, e lo si è fatto, che l’unico merito di Las Casas sia stato quello di aver applicato le più avanzate teorie giuridiche spagnole del tempo al caso indiano. Ma questa interpretazione ha il grave difetto di obliterare la causa prima della sua militanza in favore dei diritti umani e della dignità umana. Las Casas si comportò a quel modo perché toccò con mano l’orrore di un mondo che non intendeva riconoscere questi principi, come i posteri avrebbero toccato con mano l’orrore del nazismo e dei vari totalitarismi di destra e di sinistra. Esperienze che rammentano all’umanità come sarebbe il mondo senza questi valori, il più nobile prodotto dell’ingegno e della civiltà umana. Un mondo dove il mito fa apparire una contingenza disumana come eterna ed inesorabile, dove un’immaginazione o curiosità perniciosa votata al male, alla viziosità ed all’impulso di morte è “maestra dell’errore”, un gelido mostro che genera una virulenta e repellente tendenza a vivisezionare la realtà e, letteralmente, le persone. Si leggano, a questo proposito, le testimonianze di chi aveva visto i Conquistadores, cristiani di nome ma non certo di fatto, eviscerare e mutilare donne e bambini indigeni. Questo mentre un’immaginazione indolente diffonde lassitudine morale, crudele indifferenza e disinteresse e cieca, conformistica obbedienza. Un universo parallelo in cui il disprezzo irato verso il diverso, verso ciò che è “contro natura”, è corrivo con la logica del carnefice, dettata dall’odio organizzato e da ideali che, moralisticamente ed ipocritamente, si proclamano nobili, in piena adesione ai principi del bene, ma abbrutiscono chi li professa e chi li subisce. Una dimensione dominata dall’estetica manichea della dualità, che si abbatte feroce sulla dignità ed alterità dei singoli, da un culto del sublime, delle linee nette e precise, i confini ben tracciati, i colori ordinatamente disposti sulla tavolozza, tipico di chi crede che la bellezza sia una, ordinata e prevedibile e non tollera ciò che gli appare come brutto, sformato, caotico, sciatto, scialbo, improvvisato, incoerente, fluido e mediocre. E anche dalla disciplina paternalistica, tanto cara ai misantropi autoritari, quelli che vedono solo bruttezza e degradazione naturale nell’umano non addomesticato, non inquadrato in una composizione ben regolata e magari anche esteticamente attraente, non pedina, preda, o bestia da soma. La lettura delle cronache delle trucidazioni di massa nella Nuova Spagna richiama alla mente la barbarie nazista. Vorrei riportare un passo di Mario Spinella, tratto da “Memoria della Resistenza” (1995, p. 137), perché mi sembra emblematico della mentalità della Conquista contro cui si batté Las Casas: “E mi domandavo per quale mostruosa logica i tedeschi credessero di dover cercare una giustificazione per trucidare i russi. Avrebbero potuto prenderli a caso, ma forse il solo fingere che si trattava di ebrei, serviva loro da pretesto metafisico, li assolveva davanti al loro Signore”. R.D. Laing l’avrebbe chiamato un “sistema di fantasia sociale”, ossia una visione della realtà in cui un gruppo crede fermamente anche se non corrisponde alla realtà fattuale. Las Casas era esecrato dai colonialisti proprio perché le sue denunce producevano crepe in questo sistema inerziale e le sue descrizioni degli orrori costringevano l’immaginazione di chi risiedeva in madrepatria ad uscire dalla modalità selettivamente inattiva in qui era stata confinata, sempre in nome dell’utile sociale e del bene dell’Impero. Una modalità che, prima di Montesinos e Las Casas e pochi altri uomini di fede e di umanità, era riuscita a 73
rendere assente il presente e presente l’assente, costruendo una realtà parallela su cui si potevano fare progetti come se questa fosse l’unica autentica, come se la realtà tangibile fosse assente, o inesistente, o fosse un minuscolo pezzetto della realtà che si voleva fosse vera, una sua caricatura. Come se gli indigeni fossero davvero numeri, unità, quantità, materiale da costruzione o di scarto, strumenti o impedimenti. Allora i Conquistadores lottavano con tutte le proprie energie per barricarsi in queste finzioni impedendo lo zampillamento di schizzi o getti di realtà, compartimentando la propria esistenza. La verità era estirpata e sostituita con la credenza, con il costrutto mentale, il pregiudizio, la congettura, la fantasticheria, l’ubbia, il capriccio, il fantasma del reale. La destinazione finale era l’inimmaginato, che per gli Indios e gli Ebrei fu l’inimmaginabile, la tentata pianificazione di un’estinzione. Non v’era spazio per l’immaginazione benigna, quella morale, che ci permette di riconoscere nel prossimo un nostro fratello. La crisi esistenziale e morale di Las Casas, invece, gli permise di neutralizzare quel meccanismo innato dell’umanità che impediva a troppi suoi compatrioti di assegnare agli altri un grado di realtà uguale al proprio. Come Eichmann, che non era privo di idee, ma era posseduto da idee fisse perché il suo piccolo sé agognava significati, linearità, chiarezza, ordine, comandi, laboriosità, la sottomissione appassionata ad un’estetica dominante, intossicante e virulenta (come una conversione religiosa) che depriva la persona della capacità di tener conto delle considerazioni morali. I quotidiani della Repubblica Sociale Italiana annunciavano: “Non si può vivere senza ideali, i nostri ideali sono i più alti”. Difficile distinguerli dai Conquistadores che, come loro, uccidevano perché sentivano di possedere un codice morale intatto, perché erano sviati dalla volontà, anzi dalla necessità di credere, una rozza forma di autoinganno che distrugge l’integrità delle persone, trasformandole in vacui ed opachi strumenti di mendacità e di immoralità. Leggiamo direttamente da Las Casas, in Brevissima relazione della distruzione delle Indie, l’impatto di queste fantasie sociali, o miopie selettive, sulla dignità umana: “Perniciosissima è sempre stata la cecità che hanno avuto coloro cui è affidato il governo delle Indie. [...]. Tale offuscamento ha raggiunto il colmo quando sono state escogitate, comandate e messe in pratica certe intimazioni da fare agli indiani, con le quali si ingiunge loro di adottare la fede e di rendere obbedienza ai re di Castiglia, pena la guerra a fuoco e a sangue, la morte e la schiavitù. Come se il figlio di Dio, che si è pur sacrificato anche per ognuno di loro, col dire, a proposito della sua legge, euntes docete omnes gentes, avesse ordinato di fare tali ingiunzioni agli infedeli che vivono pacifici e tranquilli nelle loro terre; come se avesse comandato che poi, senza predicazione alcuna né dottrina, se questi non si fossero piegati subito a osservarla e non si fossero dati corpo e anima alla signoria di un re mai visto né conosciuto, a un re dai sudditi e dai messaggeri tanto crudeli, spietati e orribilmente tirannici [...] Dovessero per castigo perdere i beni e le terre, la libertà, le donne e i figli insieme alle lor vite, tutti. E una cosa assurda, stolta, degna d’ogni ludibrio e vituperio: dell’inferno”. Nella filosofia, come nella vita, tre sono le distinzioni che contano: tra vero e falso, tra adeguato ed inadeguato e tra libero e servo. È su questa base che ciascuno può giudicare se stesso ed è, immagino, questo il senso di un’importante riflessione di Las Casas, che a sua volta si rifà a Seneca: “lo spirito umano vuole essere persuaso e non costretto, in quanto ha in sé qualche cosa di elevato e di sublime che non sopporta costrizioni ma si compiace di ciò che è rispettabile e virtuoso, perché lo ritiene in grado 74
di confermare la propria dignità”. Autenticità, verità, integrità ed adeguatezza si realizzano solo attraverso il libero arbitrio di una mente non offuscata. Recuperando una sapienza antica, Las Casas riaffermava il principio che il fine dell’umano è essere libero, libero di essere onesto con se stesso e con gli altri, di pensare con la propria testa senza doversi ogni volta chiedere cosa gli altri pensino, di vivere pienamente ed abbondantemente, cioè autenticamente. La libertà La prescrizione opera in favore della libertà e mai contro la libertà. La libertà, al contrario, non si può mai perdere per prescrizione Bartolomé de las Casas Ulpiano aveva riassunto in poche formule gli imperativi etici universali che dovevano governare le questioni umane: honeste vivere (vivere onestamente); alterum non laedere (non danneggiare gli altri); suum cuique tribuere (dare a ciascuno il suo, ciò che si merita). Las Casas non avrebbe avuto nulla da eccepire, ma non avrebbe neppure esitato a porre in cima a questa lista “essere libero e non schiavo”. Las Casas ripeteva insistentemente che l’uomo è libero “di forma costitutiva” e che la libertà religiosa è un corollario necessario del fondamentale valore antropologico della libertà e della dignità umana. In questa sua determinata adesione al principio della tolleranza si scorge la più alta comprensione della vicenda umana e del messaggio evangelico, diametralmente opposta alla sciagurata interpretazione agostiniana del compelle eos intrare (Lc 14, 23). Questo suo sconfinato attaccamento alla libertà lo ricavò probabilmente dal suo essere discendente di conversos: non si converte nessuno con la paura, perché la fede dev’essere autentica, altrimenti non ha alcun valore. Il rifuto della fede non poteva in alcun modo comportare l’adozione di misure punitive. Coerentemente, Las Casas risolse diplomaticamente la questione della rivolta (1519-1533) di Enriquillo, sovrano cristiano dei Taíno indigeni di Hispaniola, riconoscendo le ragioni di questa insurrezione e proponendo soluzioni in grado di porre rimedio al malessere indigeno. Gli Spagnoli si dovevano limitare ad operare come “mediatori e coadiutori di Gesù Cristo per la conversione di così numerosi infedeli” (Historia de las Indias). Peraltro, “infedeli” è un termine che il domenicano usava sporadicamente e soprattutto a fini retorici. Per il resto la sua percezione degli Indios era certamente più simile a quella dei poveri del Vangelo, attraverso i quali Cristo comunica la Verità. Quello della libertà come attributo essenziale dell’umano è un dato che noi moderni diamo per scontato, ma non così gli antichi. L’insigne filologo tedesco Bruno Snell, ne La cultura greca e le origini del pensiero europeo (Snell, 2002) ha rilevato che nell’Iliade non si trovano decisioni personali. L’intervento degli dèi è determinante in ogni scelta e non c’è vera introspezione, consapevolezza della propria libertà, come non ci sono scrupoli, rimorsi e ripensamenti. Tutto avviene perché così deve avvenire, al di là del bene e del male, del giusto e dello sbagliato. Nelle saghe nordiche riscontriamo il medesimo motivo (Gurevich, 1995). Il destino è installato nell’eroe come un software. L’eroe rispetta i suoi dettami e produce le condizioni adatte alla realizzazione delle profezie. Il suo fato, la sua 75
misura di buona sorte e miserie è rivelato dal suo aspetto (in greco, kalokagathia: il bello e il buono, assumendo forma corporea, diventano veri) e dalle sue imprese o fallimenti. Le azioni dell’eroe sono meccaniche, automatiche, inevitabili, perché decretate dall’ordine cosmico, che si riflette nell’ordine clanico, dove il personale ed il sovrapersonale sono indistinguibili ed inseparabili. Non vi è coscienza personale, ma solo coscienza di gruppo. Non si può dire che una cosa è sbagliata, ma solo: “la gente ritiene che questa cosa sia sbagliata”. Non esistono parametri etici universali ma solo costumanze claniche e copioni di ruolo tramandati dalla notte dei tempi, cioè coordinate socio-culturali da interiorizzare. La mitologia greca offre numerosi esempi di eroi che dichiarano di essere nati per compiere un destino preordinato e per difendere il proprio nome, la propria reputazione. Nelle saghe nordiche, come nelle epopee greche, è arduo incontrare eroi che disobbediscano al mandato divino o alle leggi della propria città per salvare una comunità (MacEwen, 2006). L’eroe greco, quello germanico e quello giapponese non possono fare a meno di misurare il proprio valore in funzione del soddisfacimento delle prerogative associate al proprio status e lignaggio, oltre che del conseguimento della gloria personale. La civiltà azteca non si discostava da questo modello iper-fatalistico. A partire da Montezuma, che ammoniva: “Ed io voglio metterti in guardia; senza alcun dubbio, tutti saremo massacrati da questi dèi e il destino dei sopravvissuti sarà di diventare schiavi e vassalli”. Gli Aztechi insistevano ossessivamente sulla copertura di metallo degli Spagnoli, trattandoli come esseri sovrannaturali, “dèi-venuti-dal-cielo”. Le loro navi erano “opera, certo, più di dèi che di uomini”. Cortés era Quetzalcoatl redivivo, di cui si attendeva messianicamente il ritorno. Lui ne approfittò per sottometterli. “È la novità, l’insolito aspetto, la diversità che, insieme con la superiorità delle competenze tecnologiche, induce l’assunzione dei nuovi venuti al rango di dèi” (Todorov & Baudot, 1988, p. XXIV). Invece di contrastare la loro avanzata, li veneravano. Decimati dalle epidemie, interpretate come punizioni divine, tra gli indigeni lo stupore lasciava il posto alla rassegnazione ed all’accettazione: “Non ci è dato sottrarci ai decreti del destino”, “ciò che è stato deciso, nessuno può scongiurarlo”, “non si può sfuggire a ciò che deve accadere”, “queste cose si compiranno. Nessuno potrà impedirle”, “chi non saprà comprendere, morrà; chi capirà, vivrà”. È ancora Todorov a commentare lucidamente l’accaduto: “Gli Indigeni non furono sconvolti dal timore di perdere le loro terre, i loro regni o i loro averi, ma dalla certezza che il mondo ormai era giunto al suo termine, che tutte le generazioni dovevano, ormai, scomparire e perire, giacché gli dèi erano discesi dal cielo e ad altro non si poteva pensare che alla fine, alla rovina e alla distruzione di tutte le cose”. Lo stesso fatalismo e determinismo avvinceva gli Spagnoli, che leggevano i segni e cercavano nelle Sacre Scritture un annuncio profetico delle loro imprese. Las Casas non ne era immune, ma la straziante realtà della megamacchina mortifera e schiavista della Conquista lo scioccarono ad un punto tale da non consentirgli più di restare indifferente e passivo. In lui teoria e pratica erano indissolubilmente interconnessi. Da quel momento in poi la difesa e caldeggiamento del libero arbitrio, la rivendicazione di una sfera di libertà inviolabile nell’essere umano divennero la cifra delle sue parole ed azioni. È degno di nota il fatto che, forse intuitivamente o forse inconsciamente, Las Casas colse la perniciosità della fusione di pessimismo, fanatismo e determinismo bio-culturale (l’ordine esistente riflette innate proporzioni di talento ed intelligenza) e si fece un punto 76
d’onore e di principio di demolire ogni singolo pilastro portante di quest’edificio antiumano ed anti-cristiano, così idoneo a far emergere ed irrobustire le peggiori pulsioni dell’animo umano. Egli ripudiava il desiderio e l’illusione di appartenere ad un’élite privilegiata – una razza spirituale dominante –, l’imperativo di svuotarsi della propria coscienza, personalità e libero arbitrio, l’infantilismo imposto agli indigeni, le relazioni strenuamente gerarchizzate, la fobia del diverso, il prevalere dell’idea astratta sulla persona, dell’obbedire sul pensare, del servire sull’amare, del vegetare sul vivere, dell’umiliazione sull’umiltà, del conformismo spirituale sulla vita dell’anima, delle ripetizioni a pappagallo sulla consapevolezza, del fine di plasmare il prossimo invece di aiutarlo fiorire. Abbiamo detto che il suo credo politico era incentrato sul principio di libertà. Per Las Casas Dio stesso è principio di libertà. In una lettera al principe Filippo, datata 20 aprile 1544, scrive: “Tutti gli indiani che vi si trovano devono essere considerati liberi: perché in verità lo sono, in base allo stesso diritto per cui io stesso sono libero”. Una considerazione profondamente in anticipo sui tempi. Poco meno di 400 anni dopo, un grande avvocato statunitense, Clarence Darrow, era ancora costretto a spiegare alla giuria ciò che avrebbe dovuto essere auto-evidente, e cioè che “potete proteggere le vostre libertà a questo mondo solo se proteggete la libertà altrui. Potete essere liberi solo se io sono libero”. Le ramificazioni di questo assunto a livello socio-politico avrebbero potuto essere dirompenti, se fossero state recepite in Europa. Per Las Casas, la gente doveva poter vivere in comunità politicamente organizzate, essendo soggetta al minimo controllo necessario a farle funzionare. Non era lecito usare il pretesto della riottosità per imporre regimi di dispotismo illuminato. La libertà dei singoli doveva essere l’obiettivo finale, perché senza la libertà la ragione, che fa propendere le persone per una vita sociale pacifica ed armoniosa, non avrebbe potuto ricercare il bene ed evitare il male senza incontrare restrizioni. Ogni restrizione era un passo verso il male. Se il libero esercizio della ragione costituiva un diritto umano fondamentale per gli Europei, lo stesso doveva valere per i nativi americani. Nemmeno il papa poteva revocare questo diritto, neppure a beneficio dell’evangelizzazione, perché il pontefice non aveva alcuna autorità sui nonCristiani e non poteva autorizzare la punizione dei loro peccati o ordinare la rimozione dei loro capi. Ogni conversione doveva essere libera e volontaria, nessun uso della forza poteva essere condonato. “Gli Apostoli facevano appello alla sola persuasione. Gesù non li ha mai autorizzati a costringere coloro che non volevano ascoltare o ad infastidire chicchessia. Dovevano invece armarsi di una grande pazienza, poiché le anime si conquistano soltanto con la dolcezza della voce, il volto umile e l’affabilità…Essi dovevano testimoniare il loro disprezzo dei beni temporali, e la loro condotta doveva essere buona e i costumi irreprensibili…Gli Apostoli non furono mai visti persegitare o uccidere un essere umano, nemmeno i loro nemici”. La predicazione doveva dunque avvenire “quietamente, tranquillamente e dolcemente, utilizzando un modo calmo e soave, rogativo ed attraente, ed in intervali di tempo successivi, affinché si possa prima di tutto pensare sulle affermazioni che vengono proposte ed inferire se crederle e dare il consenso….In conclusione, è indipensabile disporre di tempo sufficiente per ascoltare, pensare, discorrere e deliberare su ciò che viene proposto così da conoscere se sono veritiere o false, se sono degne od indegne le cose alle quali prestiamo il nostro assenso” (De unico vocationis modo omnium infidelium ad veram religionem). Rifacendosi al pensiero di 77
Vitoria, Las Casas ribadiva che se una comunità indiana si rifiutava di ascoltare la parola del Signore o di osservare leggi diverse dalle sue non li si poteva costringere a farlo. Juan de la Peña, studente di Cano e Carranza e legatissimo a Las Casas, condivideva l’opinione di questo suo amico fraterno: la fede è un dono soprannaturale, nessuno può essere costretto a riceverlo, altrimenti è tirannia. Mentre secondo Sepúlveda gli schiavi africani stavano meglio da schiavi che da uomini liberi in Africa, de la Peña replicava che solo in una condizione di completo caos sociale e violenza generalizzata si poteva dire una cosa del genere e non era certo il caso né degli Africani né degli Indiani. Quanto alla distinzione tra superiori ed inferiori, il giurista salmantino chiedeva retoricamente se il re di Spagna avrebbe avuto il diritto di intervenire in Francia se si fosse stabilito che gli Spagnoli erano superiori in intelligenza. Per entrambi, il vescovo del Chiapas ed il giurista, gli indios avevano il diritto naturale di formare la società che preferivano ed in America non sarebbe stato illegale per dei Cristiani essere soggetti, volontariamente, a non-Cristiani, visto che la sovranità indiana sulle proprie terre era legittima e l’intervento spagnolo era illegale quando comportava l’espropriazione di terre. La supremazia spagnola sarebbe stata autorizzata solo da una libera scelta da parte di una maggioranza degli indigeni. Nel preambolo alla sua opera più importante dal punto di vista della teoria politica, il De regia potestate, pubblicato postumo a Francoforte nel 1571 e summa del suo pensiero negli ultimi tre anni di vita, Las Casas dichiarava solennemente: “Dall’inizio del genere umano tutti gli uomini sono liberi per diritto naturale e per il diritto dei popoli. La libertà è uguale per tutti”. Quest’opera è, sostanzialmente, un trattato politico sulla libertà delle persone e dei popoli in un mondo in cui il pontefice esercitava una potestà ecumenica ma esclusivamente spirituale e il sovrano non aveva alcun potere che non fosse stabilito sulla base del consenso dei sudditi – nulla subiectio imposita fuit sine consensu populi. Il popolo, scriveva Las Casas, è la causa efficiente e finale di ogni autorità legittima e la legge ha lo scopo di fungere da garanzia della libertà dei cittadini contro l’arbitrio dei forti e prepotenti. Sulla stessa linea, alcuni secoli dopo, si muoverà il pensiero del religioso e politico francese Jean-Baptiste Henri Lacordaire (1802 – 1861), uno dei fondatori del cristianesimo moderno, che parafrasando Rousseau, sentenziava: “Tra il debole e il forte, tra il povero e il ricco, tra il servo e il padrone, è la libertà che opprime ed è la legge che affranca”. Per Las Casas la società ideale era quella dove i cittadini eleggevano i propri dirigenti – per liberam electionem – e, nel farlo, non perdevano la propria libertà. Chi andava al potere non si doveva sentire autorizzato a costringere le persone ad agire a detrimento proprio o del bene comune al di fuori della cornice legislativa e del diritto naturale. Questo era un diritto originario, universale e necessario, indivisibile, che accomunava tutti gli esseri umani nella stessa misura ed era imprescrivibile. Seguendo la lezione stoica, con riferimento esplicito a Cicerone, Las Casas sosteneva che tutte le nazioni ed i popoli, per il semplice fatto di esistere, a prescindere dalle loro credenze e costumanze, erano liberi e dovevano rimanere tali. Non avrebbe avuto senso, e sarebbe stato contrario al diritto naturale, credere che dopo la venuta di Cristo i non-credenti fossero stati privati dei loro diritti, trasferiti istantaneamente ai credenti, come se questi fossero gli unici, veri uomini. Furono numerosi i missionari che, pur denunciando l’infamia del sistema neofeudale e gerarchico dell’encomienda, conclusero che forse quello era un male minore, 78
l’unica maniera per porre rimedio al disastro, prima che acquistasse un carattere definitivo. Confidavano nel fatto che, con alcuni correttivi, nel Nuovo Mondo la forza dei signori sarebbe stata temperata dai doveri verso i sottoposti e da una tutela paternalistica illuminata. Las Casas non fu mai di questo avviso. Accusato di avere in mente una teocrazia sacerdotalista anacronistica, in realtà il radicalismo cristiano di Las Casas avrebbe demolito qualunque struttura piramidale; seguendo l’esempio di Gesù il Cristo, appunto. Non avversava gli encomenderos ma l’encomienda. Era pronto a redistribuire le ricchezze restituite ai coloni ricchi anche ai coloni poveri, che avrebbero comunque potuto continuare a ricevere una parte dei profitti di un lavoro indiano libero da vincoli di sfruttamento padronale, in un regime di equa spartizione delle risorse. Non era un fanatico indigenista, ma un sincero cultore della giustizia e della libertà, libertà che non avrebbe avuto senso in una condizione di miseria e disperazione, dove non sarebbe possibile una genuina adesione alla verità, un sincero atto di fede. D’altra parte per Las Casas un diverso grado di sviluppo civile e benessere economico non minacciava l’unità fondamentale del genere umano. Un’uguaglianza ontologica, radicata nella legge naturale e divina, fondava l’uguaglianza giuridica degli uomini. La nozione di un diritto che esisteva nella natura, poteva essere riconosciuto dall’umanità e veniva prima delle leggi specifiche era un’idea piuttosto diffusa nella cristianità e nell’umanesimo del tempo. Las Casas però, come altri, si augurava che il Nuovo Mondo diventasse il luogo deputato ad un esperimento nuovo: la possibilità di disfarsi della frenesia mercantile e di mettere il pratica il messaggio del Cristo. Scrive Las Casas: “Aiuta molto queste terre ad essere felicissime e fertilissime l’aria tanto clemente e le mutazioni del clima tanto opportune e favorevoli, così che pur col pochissimo lavoro che queste genti compivano, moltissimo avanzava a tutti, e in ogni parte avevano il necessario. Non si è mai vista tra loro la fame se non dopo che ci arrivammo noi cristiani, che in un giorno gli mangiavamo e sperperavamo tutto quello che a loro bastava per mantenere le loro famiglie per due mesi. In quest'isola Ispaniola, e in quella di Cuba e in quella di San Juan e Giamaica, vi erano infiniti villaggi, con le case vicine e con molti abitanti uniti di diversi parentadi. E poichè in quest'isola era consolidata la pace e l'accordo tra alcuni popoli e regni e gli altri, non ebbero necessità di unirsi in molta gente e di formare centri abitati assai vasti: così vi erano comunemente villaggi di cento, duecento e cinquecento abitanti: dico case in cui dimoravano dieci e quindici abitanti con le loro donne e i loro figli. E questo è assai notevole e sicuro argomento della bontà naturale, mitezza, umiltà e amor di pace di queste nazioni, che in una casa di paglia la quale avrà trenta quaranta piedi di vano, benchè rotonda, e che non ha ritirata né luoghi appartati, possono vivere dieci quindici abitanti per tutta la vita, senza che i mariti con i mariti, nè le mogli con le mogli, nè i figli con i figli abbiano litigi o contese, più che se fossero tutti figli di un padre o di una madre. È chiaro che se ne avessero tra loro e non vivessero in pace, d'amore e d'accordo, non si potrebbero sopportare, e per conseguenza sarebbe necessario che uno degli abitanti, per vivere in pace, si allontanasse dall'altro: sappiamo bene quante volte accade tra noi che figli e genitori non possano vivere uniti nella stessa casa” (Apologetica Historia). L’idealizzazione dell’umanità indigena è chiaramente intesa ad irrobustire in se stesso e nel lettore la fede nella realizzabilità del disegno divino come era stato delineato nel Nuovo Testamento, in vista del Millennio, del ritorno del Cristo, un evento in cui Las Casas credeva fermamente. Ecco un altro brano che svela l’irrealistico utopismo 79
lascasiano: “Tutte queste universe e infinite genti d’ogni razza o nazione, Dio le ha create semplici, senza malvagità nè doppiezze, obbedientissime ... e più di ogni altre al mondo umili, pazienti, aliene da risentimenti, da risse, da liti, da maldicenze, senza rancori, odi, desideri di vendetta. Sono d’intendimento chiaro, libero e vivace, assai capaci e docili per apprendereogni buon insegnamento ... Tra questi ... giunsero gli spagnoli ... e altro non hanno fatto, da quarant’anni a questa parte ... che straziarli, ammazzarli, angustiarli, tormentarli e distruggerli con crudeltà straordinaria”. Noi oggi sappiamo che gli indigeni sapevano essere tanto feroci quanto gli Spagnoli, ma in quel momento il vescovo del Chiapas doveva per forza alterare la realtà per contrastare altre e più letali contraffazioni della verità confezionate dai Conquistatori, impegnati a minimizzare responsabiltà e placare coscienze. Ma, allora, cosa distingueva l’estetizzazione della realtà indigena operata da Las Casas dalla demonizzazione xenofobica dei suoi avversari? Il fatto che le sue intenzioni erano benevole? Di buone intenzioni sono lastricate le strade che conducono all’inferno. Posto che le Sacre Scritture sono state impiegate per giustificare guerre imperialiste, torture, crociate, cacce alle streghe, sacre inquisizioni, ecc. credo si possa dire che solo un estetismo benevolo può dar conto della legittimatà dei diritti umani. L’empatia, il fondamento della dignità umana, è una simpatia immaginativa, un accrescimento di vita. Solo la persona empatica è realmente viva ed ogni limitazione alla simpatia immaginativa è un impulso di morte, l’impulso a restringere i margini di libertà della vita. Las Casas, quando raggruppò coloni e indigeni nella sua comunità sperimentale venezuelana, chiese loro di fare in modo che le loro differenze e pregiudizi non determinassero le loro interazioni. Questo è il nucleo centrale del pensiero democratico: le persone non sono uguali per natura, ma lo sono nella società e, per i credenti, agli occhi di Dio, spiritualmente. O, nelle parole di Simone Weil, “la virtù soprannaturale della giustizia consiste nel comportarsi esattamente come se ci fosse uguaglianza quando uno è più forte in un rapporto diseguale”. Di conseguenza, Las Casas dedicò la sua vita alla lotta alle concezioni antropologiche deterministiche che negano il libero arbitrio e la coscienza e quindi legittimano l’imposizione del “bene”, ufficialmente la principale missione della crociata iberica nel Nuovo Mondo. Las Casas era contrario ai guardiani della fede. Credeva in Dio e in Cristo e nella missione ecumenica ed evangelizzatrice della Chiesa, ma non intendeva prendere il controllo delle vite degli indigeni professando autoingannevoli motivazioni umanitarie: se gli indigeni non volevano abbracciare il Verbo, solo Dio avrebbe potuto deliberare sulla sorte delle loro anime. Piuttosto, la sua impostazione di umanesimo cristiano e Respublica Christiana era per molti versi affine a quella della dottrina sociale della Chiesa e fu avversata da una parte dell’establishment ecclesiastico fin dai tempi del Concilio di Trento. Ancora nel 1832 Gregorio XVI scomunicava Lamennais per aver propugnato la libertà di coscienza, un’idea che il pontefice qualificava come “delirio”. Solo nel 1965, con un ritardo di circa 400 anni rispetto a Las Casas, la dichiarazione Dignitatis humanae del Concilio Vaticano II approvava quel medesimo “delirio”: “Questo Concilio Vaticano dichiara che la persona umana ha il diritto alla libertà religiosa. Il contenuto di tale libertà è che gli esseri umani devono essere immuni dalla coercizione da parte di singoli individui, di gruppi sociali e di qualsivoglia potestà umana, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità ad essa. 80
[…] Inoltre dichiara che il diritto alla libertà religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana. […]. L’esercizio della religione, per sua stessa natura, consiste anzitutto in atti interni volontari e liberi, con i quali l’essere umano si dirige immediatamente verso Dio: e tali atti da un’autorità meramente umana non possono essere né comandati, né proibiti”. Las Casas è un pensatore compiutamente ed autenticamente anti-totalitario, forse uno dei primi, forse uno dei grandi. Non sogna vere e proprie utopie perché la sua è un’esperienza in presa diretta. Sa di cosa hanno bisogno gli indigeni, conosce i loro problemi, capisce i loro desideri. Interagisce con persone in carne ed ossa, persone che ama, nelle quali riesce ad identificarsi empaticamente. Qual è allora l’alternativa proposta da Las Casas? L’idea è quella di “propagare la sua [di Dio] santa Chiesa e forse trasferirla del tutto di là” (Historia), cioè lontana dalle tentazioni e corruzioni del Vecchio Mondo, per ripartire da zero, come i primi Cristiani. Non è immune da paternalismo, come si desume da una lettera in cui dichiara che “bisogna strappare questa terra al potere dei padri snaturati e darle un marito che la tratterà in modo ragionevole e secondo i suoi meriti”. Però non stabilisce sistemi di gerarchie e di potere pronti a plasmare un’umanità ideale in una società ideale. Non vi è alcuna sincronizzazione di corpi, menti ed atti per conseguire una produttività ottimale. La regolamentazione statale non è per nulla invadente, anzi, abbiamo visto che credeva fermamente che il fine ultimo di ogni istituzione dove essere la libertà delle persone. Las Casas è stato accusato di far ricomparire la costrizione alla conversione surrettiziamente sotto forma di indottrinamento e di incentivi morali. Questo era probabilmente vero nel primo Las Casas, quello che non era ancora stato sconfitto dalla realtà; il Las Casas maturo è cambiato. Mi pare che Carlos Castillo abbia replicato più che soddisfacentemente a queste critiche (1993, p. 29), elencando le idee centrali della teologia politica lascasiana: “Quella di libertà totale, cioè la libertà degli indios in tutti i sensi della vita umana, come condizione precedente all’accettazione della fede: libertà di vivere, di riprodursi di essere popoli, di essere persone, di autogovernarsi, di mantenere i propri costumi, perfino di credere nei propri dèi. Quella di conversione, non solo come cambio di religione al cristianesimo, ma anche come nuova comprensione della fede, partendo dalle cose positive dei propri costumi. Quella dell’atteggiamento evangelizzatore, dove il predicatore è soprattutto qualcuno che deve comportarsi come “suddito” degli indios che evangelizza. Quella di difesa naturale, per mezzo della quale riconosce che gli indios non sono ribelli perché non sono sudditi di nessuno. Si difendono soltanto e naturalmente perché sono attaccati”. Per molti versi Las Casas aspira ad una società libera, in cui si deve permettere che le cose procedano da sé, con moderazione e misura, perché l’ordine divino si prenderà cura di tutto e le norme di condotta predicate dal Cristo sono sufficienti a far funzionare la società in modo equo, armonioso e solidale. Ecco cosa scrive nell’Historia: “Il vero rimedio non era altro che di lasciarli nelle proprie terre native e paeselli che avevano, per pochi che fossero, e concedere loro tutta la libertà, affinché sapessero che non dovevano servire mai più gli spagnoli, e di tanto in tanto facessero loro visita i religiosi per insegnare la dottrina cristiana, e così riprendessero a moltiplicarsi come conigli…sì che fossero certi di doversi godere la propria libertà e che i loro lavori non dovessero 81
goderseli i loro capitali nemici, che tanto disonestamente li avevano eliminati dalla faccia della terra”. Il divario tra quest’utopia e la maggior parte delle utopie umaniste del suo tempo va ricercato evidentemente nell’esercizio del potere e del controllo. Non può esistere un vero controllo se ci sono solo persone disponibili a controllare. Serve anche una maggioranza di persone, di indigeni, che desidera essere controllata. L’apparato deve coltivare una fantasia di soggiogamento volontario e spontaneo che comincia con l’infanzia e che mantiene la popolazione in uno stato di infantilismo prolungato. È questo lo spirito delle proposte di Sepúlveda, molto simile al dispotismo come l’aveva profetizzato Alexis de Toqueville nel 1840: “Più esteso, meno violento e degraderebbe gli uomini senza torturarli. La violenza avverrà, ma solo in periodi di crisi, che saranno rari e passeggeri…Al di sopra di questa folla vedo innalzarsi un immenso potere tutelare, che si occupa da solo di assicurare ai sudditi il benessere e di vegliare alle loro sorti. È assoluto, minuzioso, metodico, previdente e persino mite. Assomiglierebbe alla potestà paterna, se avesse per scopo, come quella, di preparare gli uomini alla virilità. Ma, al contrario, non cerca che di tenerli in un’infanzia perpetua”. Una tirannia mascherata da utopia che amministra una giustizia inflessibile e spietata, ossia l’emanazione della virtù ed espressione della volontà sovrana della casta dominante. Un “autismo collettivo”, un monismo che mantiene gli inferiori in uno stato di servilismo e subordinazione, come dei burattini, dei semi-idioti. Purtroppo per molti indios del nostro tempo, questo incubo si è avverato, ma Las Casas fece davvero tutto quello che era in suo potere per evitare il presente degrado della loro condizione. Fino all’ultimo. Nel 1565, a pochi mesi dalla sua morte, impossibilitato a parlare di persona, inviò il suo ultimo memoriale al Consiglio delle Indie, dove riassunse per sommi capi le conclusioni di mezzo secolo di avvocatura in difesa degli indigeni e del genere umano: “Tutte le guerre, che chiamarono conquiste, furono e sono in giustissime e proprie dei tiranni. Tutti i regni e domini delle Indie li abbiamo usurpati. Le encomiendas o repartimientos di indios sono più che iniqui e di “per sé” cattivi, e così pure arbitrari, e questo modo di governo tirannico. Tutti coloro che le concedono peccano mortalmente, e coloro che le detengono sono sempre in peccato mortale e, se non le lasciano, non si potranno salvare. Il re, nostro signore, che Dio renda prospero e conservi, con tutto il potere concessogli da Dio, non può giustificare le guerre e i furti fatti a queste genti, né i suddetti repartimientos o encomiendas, più di quanto possa giustificare le guerre e i furti che fanno i turchi al popolo cristiano. Tutto quanto l’oro e l’argento, perle ed altre ricchezze giunte in Spagna, e che nelle Indie si mercanteggiano tra i nostri spagnoli, sono furti con pochissime eccezioni. Se coloro che lo hanno rubato ed oggi rubano con le conquiste e con i ripartimientos o encomiendas e coloro che di esso partecipino non lo rimborsano, non si potranno salvare”. Questa è l’utopia di Las Casas: un popolo libero di cittadini liberi, sovrani sulle loro terre e beni, che maturano con i loro tempi e nei loro modi e che hanno la possibilità di farlo anche grazie alla parola di Gesù il Cristo. Ci vollero secoli prima che questi principi basilari del diritto internazionale e delle missioni evangeliche fossero recepite dai più. E ancora adesso rimane il timore che da un giorno all’altro i nostri beneamati diritti e principi possano essere messi seriamente in discussione dal prossimo autocrate e dalla prossima oligarchia dispotica. 82
Un’antropologia della speranza Gli scritti di Las Casas non formano un’unica opera filosofico-antropologica strutturata. Il suo intento era diverso, cioè quello di rimbeccare ogni assalto teorico alla natura umana e pari dignità dell’indio. Per questo le ripetizioni e le contraddizioni abbondano e si deve anche ammettere, con onestà, che il suo argomentare è tutt’altro che limpido e lineare. La veemenza e la prolissità rendono i suoi trattati di non facile lettura, per un lettore contemporaneo. Richiedono una costante attenzione per non fraintendere il senso di un ragionamento non sempre ben articolato, che talora pecca di semplicismo, scarsa chiarezza, ingenuità, limitata organicità, coesione e sistematicità. Si può ipotizzare che gli ambienti in cui esponeva le sue tesi non si sarebbero accontentati dei semplici resoconti della sua inchiesta antropologica e investigativa e che ciò lo abbia costretto ad improvvisarsi saggista e cronista. Eppure rimane la netta impressione di un’onesta coerenza concettuale e morale. Las Casas non temeva le conseguenze delle sue requisitorie perché era sicuro di essere dalla parte della giustizia e della Provvidenza, di lottare contro la stessa iniquità denunciata da Gesù il Cristo. Si poneva a viso aperto, senza ipocrisie, tentennamenti, ripensamenti, astuzie che mal si conciliavano con la sua visione dell’umano e della sua missione universale: l’uomo desidera il bene ed evita il male, se ne è consapevole, perché questo è il fine per cui è stato creato da Dio. Come Pitagora, Socrate e Boezio, Las Casas era convinto che “nel cuore dell’uomo è infuso un naturale anelito per il vero bene”, cosicché alla fine giunge quasi sempre a destinazione “come l’ubriaco che non sa per che strada sia riuscito ad arrivare a casa” (De unico vocationis modo omnium infidelium ad veram religionem). Il Male è un’assenza di Bene, di sapienza, un ammanco, non un’aggiunta di qualcosa. Le facoltà razionali umane, se ben coltivate con l’educazione, non potevano che dare buoni frutti, “sani e benefici” (sanos y provechosos). Come si vede, quella di Las Casas era un’antropologia positiva, ottimistica, riformatrice, anti-reazionaria e libertaria; era l’“antropologia della speranza” di un uomo contemplativo che tenne sempre gli occhi spalancati di fronte alla realtà. Padre Vicente de Couesnongle (1916-1992), anche lui domenicano, ha descritto con rara maestria il dono dello sguardo antropologico-contemplativo: “Non si tratta di passeggiare distrattamente in mezzo alla gente, ma di mantenere lo sguardo attento su tutto quel che ci circonda: queste persone, i loro volti, il loro passo, la povertà dei loro vestiti o l’insolenza della loro pettinatura…Saper cercare, indovinare quel che non si vede: fallimenti, sofferenze, aspirazioni. Scoprire poco a poco ciò che tutto questo significa nella vita di tutti questi uomini, di tutte queste donne, di questi giovani, per loro stessi e agli occhi di Dio”. Uno sguardo che “sa sempre rendere attuale quello al tempo stesso divino ed umano del Cristo – il più contemporaneo di tutti gli uomini – sulla folla, sui malati, tutti quelli che sono posseduti dal male; il denaro, le ingiustizie, una sessualità esacerbata, il potere illimitato, l’odio. In questa folla, chi è Maddalena, chi Zaccheo, i pubblicani, il sacerdote ed il levita che vanno da Gerusalemme a Gerico? Chi solo quelli che agognano di sentire Gesù, magari anche senza essere consapevoli di lui? […]. A imitazione di ciò che è Cristo nel suo essere e nella sua orazione, questa contemplazione 83
deve essere il punto di unificazione privilegiato, nella nostra vita, tra la fede ed il mondo”. È in forza di un’analoga ispirazione che Las Casas dichiarava che all’uomo poteva e doveva essere concessa piena libertà di disporre della sua persona e della sua coscienza in conformità alla sua volontà e discrezione perché in ogni caso la ragione, Dio, la rivelazione cristiana e la sua naturale socievolezza e religiosità avrebbero provveduto a guidarne i passi, per quanto esitanti e riottosi. La forza vitale della natura, inclusa quella umana, era senza macchia, incorrotta. Trovo molto bella e acuta una considerazione di Fernando Mires (1991, p. 199) sulla passione quasi maniacale di Las Casas per la natura: “Nelle dettagliate, a volte noiose, a volte bellissime descrizioni della natura che ci offre Las Casas, troviamo lo scienziato che cerca le componenti esatte tra l’ambiente naturale e l’essere sociale e, al tempo stesso, il credente che vive un profondo amore per tutti gli oggetti della “creazione”, com’è dimostrato nelle descrizioni dei tipi di pane che mangiavano gli Indios, degli alberi, delle pietre, dei fiori. In tutti gli oggetti vede una rivelazione dei misteri della Provvidenza e nei legami tra oggetti ed esseri umani trova la rivelazione dei misteri dei rapporti sociali, politici e culturali degli Indios. Teologia e antropologia, fede e scienza; sono parti inseparabili del metodo di analisi di Las Casas”. Il nostro chierico era estremamente curioso. Voleva capire ciò che non conosceva, voleva esplorare la Creazione per individuare i segni del divino. Molto correttamente, il giurista tedesco Wolfgang Griesstetter che curò l’edizione tedesca di De Regia Potestate (1571) lo definiva nella sua prefazione come “un uomo versato in ogni scienza”. Era anche uno spirito contemplativo, magari persino un mistico. “Un nuovo tipo di mistico, di enorme portata pratico-riflessiva e creativa. Un mistico, però, la cui esperienza della gratuità di Dio diede alla sua azione il valore e libertà della profezia, la lucidità del giurista, la sistematicità del teologo, la perspicacia del politico, la prospettiva e capacità di concretizzare proposte dello stratega e del riformatore” (Castillo, 1993, p. 35). Nella Historia, scriveva questo di sé: “Vedendo tutto ciò mi mossi, non perché fossi un cristiano migliore di altri, ma per una compassione naturale e pietosa che ho avuto nel vedere genti, che giammai lo meritarono, sopportare tante offese ed ingiustizie; ed è così che giunsi in questi regni per informare il Re Cattolico di questo stato”. L’empatia di Las Casas è molto accentuata e non c’è vita morale senza empatia. L’empatia richiede emozioni, condivisione di patimenti e di gioie. La grande forza del “male” risiede invece nell’indifferenza, nella carenza di introspezione e di capacità di immedesimazione, di riconoscere e di identificarsi con i sentimenti e le necessità degli altri. Adler sosteneva che l’empatia è la chiave per realizzare la trasformazione dell’identità. Vedere con gli occhi di un altro, ascoltare con i suoi orecchi, sentire con il suo cuore, fino ad estendersi ed includere animali, piante ed esseri inanimati, e poi il cosmo. È possibile che Las Casas costituisca un esempio di questo processo. Husserl parlava di empatia trascendentale, ipotizzando l’esistenza di una sola cornice psichica per tutte le anime. Non esiste alcuna prova che dimostri che era questo che sentiva Las Casas, ma lui stesso, nel suo testamento, rivolgendosi all’umanità ed a Dio, constatava di aver speso oltre cinquant’anni di vita “senz’altro movente che l’amore di Dio e la compassione che provo nel veder morire queste moltitudini di creature razionali, così pacifiche, così umili, dolci e semplici”. Las Casas era un uomo giusto, ed il concetto di giustizia nasce perché gli esseri umani sono capaci di provare risentimento e simpatia. 84
L’afflizione, l’empatia, l’indignazione ed il risentimento sono fondamentali per ciò che concerne il giusto e lo sbagliato, sono le precondizioni necessarie per l’esistenza stessa dell’idea di bene e di male, giusto e sbagliato. E questo è possibile se la nostra è una risposta spontanea, un atteggiamento istintivo che deriva dall’automatico riconoscimento del fatto che gli altri esseri umani sono come noi, che i loro patimenti non sono meno significativi dei nostri. Las Casas si rapportava agli Indios ed agli Spagnoli più umani o più bisognosi con empatia e amore perché nel prossimo, anche nella persona più ordinaria, vedeva un riflesso della Verità e dell’Amore e tendeva ad espandere il proprio senso del sé, in un processo unitario, di assimilazione. Las Casas avrebbe condiviso il giudizio di Dostoevskij che “l’amore per l’umanità è inconcepibile, incomprensibile e persino impossibile senza la credenza nell’immortalità dell’anima”. Lui stesso scrive nell’Apologética Historia: “Essendo la nostra anima uno spirito immateriale, i corpi non possono produrre né bene né male nelle cose immateriali. […]. E l’anima, nell’istante della sua infusione, rimane determinata nei suoi gradi di bontà, o di qualità non tanto buona rispetto al naturale (non dico al morale, bensì al naturale). E da ciò deriva che dalla capacità del corpo si può misurare la capacità dell’anima, sicché alcuni uomini hanno l’anima più perfetta o meno perfetta di altri. […]. Il limite della natura dell’anima negli uomini è proporzionale alla capacità del corpo”. Per Las Casas l’unità del genere umano non traeva origine da un’uniformazione astratta, ma dalla sua unitarietà trascendentale. Insomma, gli esseri umani erano uguali sebbene diversi perché le loro anime discendevano dall’unità del divino, che le informava. Come abbiamo appena appreso, ciò non significava che le anime umane fossero identiche. Sempre nell’Apologética Historia leggiamo che “secondo la capacità del corpo si misura la capacità dell’anima e alcuni uomini hanno un’anima più o meno perfetta di altri”. In pratica il corpo mediava tra anima ed intelletto e siccome questo varia da persona a persona, allora anche la comunicazione dell’anima al corpo sarebbe stata qualitativamente diversa. “E questa è la ragione per cui possiamo vedere che alcuni uomini ci appaiono più acuti e lucidi di altri e meglio provvisti delle virtù naturali”. Ma sempre di anime si trattava, e quindi di pari dignità, giacché “ogni anima rimane sempre la medesima, a seconda della sua specie”. Alle variazioni individuali si sommavano quelle climatiche, l’influenza dell’alimentazione, dell’educazione e della cultura, che per Las Casas era una seconda natura, ma pur sempre seconda, ossia modificabile. A prescindere dalle cattive azioni dei membri di una data popolazione, ogni singolo essere umano poteva essere convinto ad abbracciare una vita moralmente e spiritualmente sana, cioè quella in cui non pecca contro la sua anima; questo per opera del dialogo e dell’uso della razionalità. Perché, come ci spiega nel De unico vocationis modo omnium infidelium ad veram religionem, “Dio ha provvisto l’anima umana di una luce intellettuale, con la quale le ha fornito una certa conoscenza di se stessa, che è il principio di conoscenza nell’ordine della fede…inoltre ha instillato in tutti gli esseri naturali i principi germinali di tutti gli effetti che dovranno produrre. Per questo l’uomo può raggiungere da lontano una qualche conoscenza di Dio per mezzo della ragione naturale”. Un altro evidente riferimento alla tradizione socratica, passando per Agostino: la conoscenza di sé è la via maestra per la conoscenza del divino. La natura, a maggior ragione quella umana, è un riflesso della sapienza divina, verso cui tende finalisticamente. Dio risiede nell’intimo di ciascuno, ne dipendiamo esistenzialmente, siamo il punto di convergenza delle forze 85
cosmiche che da esso emanano. Di conseguenza gli indios potevano vivere in armonia con la verità anche se l’avevano vista e compresa solo parzialmente; era sufficiente che si fidassero dei loro impulsi più profondi, più naturali, che certamente li avrebbero avvicinati alle Sacre Scritture. La fiducia di Las Casas in se stesso e nei nativi americani era dunque una vasta, incontenibile fiducia nell’uomo e nella sua sintonia con la Verità, con il Divino. Si trattava solo di far emergere questa sintonia, questo desiderio di Bene e di Vero, con una prassi evangelica che, ancora una volta, a mio avviso, assomigliava dappresso alla maieutica socratica. In questa stessa ottica gli Spagnoli erano ancora distanti dal traguardo. Ogni universo culturale umano era in ritardo, non avendo realizzato la sua vocazione naturale e storica. L’imperativo era quello di realizzare il proprio potenziale di perfettibilità che, d’altronde, era un’esigenza intrinseca alla natura propria dell’umano ed andava rispettata e promossa dai governanti con ogni mezzo possibile, dando priorità all’evangelizzazione cristiana, nel pieno rispetto della volontà dei singoli. Ma come si poteva garantire che ciò avvenisse? Non certo conservando forme di esercizio del potere assoluto, ma stabilendo libere elezioni in un regime di democrazia diretta. “Come se tutti fossero liberi e non uno più signore di un altro…ma che invece tutti o la maggior parte di loro si radunassero e si accordassero, scegliendo o eleggendo qualcuno che sia generalmente riconosciuto come più prudente o irrobustito dalla natura in una qualche grazia o virtù speciale…e vi si sottomettano di loro propria volontà e consensualmente”. In piena ascesa dell’assolutismo monarchico il vescovo del Chiapas proponeva l’istituzione del suffragio universale maschile e femminile nella cornice di un governo repubblicano e liberale, dichiarava che un regime politico sarà più perfetto quanto maggiore sarà la libertà che concede ai cittadini, ribadiva che “i sudditi non sono sottoposti alla potestà del re, ma a quella di una legge giusta” e asseriva che “il potere di sovranità procede dal popolo, senza alcuna mediazione” e che chi governava rimaneva un delegato, ossia un servitore della comunità (intesa nel senso moderno di persona giuridica), e del bene comune. “Nessuna sottomissione, nessuna servitù, nessuna imposizione si può dettare ad un popolo senza che questo, che deve sopportarla, dia il suo libero consenso”. Il fondamento del principio di giustizia, che per lui era preminente, visto che, per citare Isaia, “la pace sarà opera della giustizia” e “la vera e propria politica, secondo i filosofi e la filosofia morale, consiste nella giustizia, che si realizza quando ogni vicino o cittadini o membro di una repubblica è contento di ciò che ha e coltiva una disposizione conforme alla sua condizione ed alle sue mansioni, agendo secondo quanto ci si attende da lui, e vivendo in pace ed amore con gli altri, senza offesa o danno al prossimo” (Apologética Historia). Da ciò ne conseguiva che la giustizia si sarebbe compiuta solo se si fosse ascoltato il parere dei cittadini. Infatti, in un memoriale inviato a Filippo II nel 1556, Las Casas ricordava all’imperatore che un sovrano non rende più giusto per legge ciò che per la legge di natura è ingiusto e lo invitava a sondare le opinioni dei sudditi, inclusi gli indigeni, giacché “secondo la legge naturale e divina devono essere…avvisati, ascoltati ed informati in merito ai loro diritti (de lo que conviene a su derecho)”. Nel De regia protestate il Nostro insisteva che “nelle questioni che possono avvantaggiare o colpire tutti, è necessario agire in accordo con il consenso generale. Per questa ragione in ogni genere di affari pubblici si deve chiedere il consenso di tutti gli uomini liberi…di tutto il popolo”. 86
È piuttosto sorprendente che riflessioni così avanzate come quelle contenute nel De regia protestate e nel suo compendio, il Derecho Público, non siano quasi mai state segnalate da politologi e storici e che rimangano confinate a ristretti circoli di esperti del periodo della Conquista e delle opere lascasiane. Nasce il sospetto che la sua fedeltà alla Chiesa Cattolica, la pubblicazione postuma, l’identificazione dell’autore unicamente con le denuncie delle atrocità della Conquista e la sua prossimità alle più luminose stelle del firmamento della teoria politica dell’epoca come Erasmo, Vitoria, Machiavelli e Hobbes abbiano oscurato la potenza visionaria e lungimirante delle sue formulazioni. Nel modello lascasiano agli indios mancava solo una conoscenza adeguata della vera religione per diventare esseri umani modello: la parola del Cristo si sarebbe innestata su un’ottima base di partenza e avrebbe espulso i gravi peccati della loro tradizione (antropofagia, sacrifici umani, idolatria, ecc.), il primo passo verso una completa rivoluzione dell’umano che, partendo dalle Americhe e per tramite della fede, avrebbe interessato il mondo intero, riconducendo l’umanità allo stato adamico primigenio, quello precedente alla cacciata dal Paradiso Terrestre. Gustavo Zagrebelsky (1992, p. 141) ha perfettamente ragione quando sostiene che “tutte le dottrine dei diritti nel senso dell’umanesimo laico si giustificano solo nell’ambito di un’antropologia positiva” e che “ogni antropologia negativa (come quelle dell’uomo quale la più feroce tra le bestie feroci o della natura umana degradata da una colpa originaria) è piuttosto la premessa delle teorie dei doveri”. Non c’è uguale dignità e comunanza di intenti ed aspirazioni senza empatia e fiducia nel potenziale umano. Las Casas attraversò l’Atlantico dieci volte per diffondere, ogni volta più veementemente e con argomentazioni più stringenti, la sua antropologia della speranza, tutta incentrata sul potenziale degli indiani e non sui loro difetti, sulla loro dignità intrinseca ed uguaglianza rispetto agli Spagnoli, sull’uguaglianza di tutti gli esseri umani in Cristo. Laddove i suoi critici sminuivano le virtù degli autoctoni e li indirizzavano verso un processo di adattamento meccanico al Nuovo Ordine, lui sottolineava la loro immaginazione e creatività. Diversi studi sociologici, confermando il senso comune, indicano che chi ha una visione positiva della natura umana è più tollerante verso la libertà d’espressione e di sperimentazione. Chi invece reputa che le persone siano guidate da egoismo, cupidigia ed altre passioni distruttive appoggia misure liberticide. Las Casas, evidentemente, andrebbe inserito nella prima classe di persone. Egli credeva negli indigeni e negli Spagnoli, credeva nella possibilità di una fondamentale e durevole solidarietà nata dalla comunanza degli scopi, dei successi, delle paure, delle sconfitte. Nel Nuovo Mondo il domenicano aveva intravisto un paradiso possibile, uno scorcio di quello che sarebbe potuto essere il Regno di Dio dopo il secondo avvento di Cristo, una forma più alta di civiltà a portata di mano se solo lo si fosse voluto con tutta la forza e la sincerità necessarie, se si fosse fatto lo sforzo di vincere pregiudizi, egoismi, sfiducia e diffidenza. Las Casas si rifiutava di credere che il destino dell’umano fosse determinato da un ordine naturale/divino che prescriveva come sistema politico-sociale ideale quello del branco di lupi o dell’alveare, dove non c’era alcun perché – Hier ist kein warum, come spiegava un guardiano di Auschwitz a Primo Levi. L’amore di Las Casas per la libertà scaturiva dalla comprensione antropologica della maniera ideale di effettuare la promozione e crescita delle capacità umane, di portare l’umano alla sua piena espressione, l’emancipazione da forze e circostanze che lo oggettificano, che lo rendono passivo, prevedibile, meccanico, 87
impotente. Mentre gli oggetti hanno cause, i soggetti hanno motivazioni e ragioni complesse e talora contraddittorie, hanno un peculiare carattere trasformativo che Las Casas aveva scoperto in sé, negli indigeni e negli stessi Spagnoli. Forse, ancora una volta, la sua origine da una famiglia di conversos lo aveva reso più sensibile all’esigenza di essere giudicati per ciò che si è e si fa qui e ora, non per un passato sul quale non si ha voce in capitolo. Gli Indios avevano fatto degli sbagli, questo era fuori di dubbio, ma non avevano mai ascoltato le parole del Cristo, non avevano mai conosciuto alternative praticabili al loro sistema di vita. Las Casas era sicuro che la natura è buona quando emerge dalle mani di Dio ed il suo ordine e bellezza non sono intaccati dai peccati umani. Gli schiavi di natura sarebbero dei mostri, ma i mostri sono creazioni umane, non naturali. La legge naturale vivificata dall’evangelizzazione doveva costituire il volano del cambiamento, della liberazione dalle strutture oppressive della Conquista e di una parte della tradizione indigena che non era conforme alla legge naturale ed all’insegnamento di Cristo. I tempi e i modi sarebbero stati affidati alla discrezione dei sovrani indiani sotto una guida apostolica che si sarebbe attenuta al principio, definito nei suoi Remedios del 1516, che “gli Indios sono uomini liberi e devono essere trattati simultaneamente come uomini e come uomini liberi”. Come Thomas Paine, Las Casas lottò per i diritti dei vivi, affinché questi non fossero defraudati dall’autorità dei morti, ossia da una tradizione incartapecorita. L’umano doveva avere la precedenza, perché solo così, elevandosi, si sarebbe realizzata la convergenza di tutti gli esseri umani verso Dio, in una vasta fraternità elettiva. Il libero consenso informato costituiva la via maestra per questa trasformazione millenarista. A differenza di moltissimi altri missionari, lui non aveva avuto alcun problema ad affermare pubblicamente di preferire “un indiano pagano vivo e libero” ad “un convertito morto o schiavo”. Per Las Casas un’umanità universale aveva doveri universali verso i suoi membri. Come specificava Sant’Agostino, “Quando si dice ama il tuo prossimo, è chiaro che ogni uomo è il nostro prossimo” e come affermava Ovidio, “L’uomo non è un lupo per l’uomo, ma un uomo”, altrimenti nessuna società sarebbe in grado di sopravvivere. Se vogliamo, il suo atteggiamento verso gli indoamericani era, più o meno consapevolmente, all’insegna dell’integrità morale ed intellettuale socratica, come mezzo per ridurre l’ingiustizia nel mondo, non strumento per maltrattare ed approfittarsi degli altri. Un’integrità che si nutriva di fede umanitaria, nobiltà di cuore, vitalità, spontaneità, tenerezza, sincerità, fierezza ed empatia. Ma anche dell’impeto dell’indignazione di fronte all’ingiustizia più smaccata, il rifiuto di accettare che gli indios si piegassero e si abbandonassero ad una vita indegna di loro, in quanto esseri umani. C’è tutto il Camus del “mi rivolto, dunque siamo” nello sdegno di Las Casas contro un mondo sottosopra, dove il male è chiamato bene ed il bene è isolato. Las Casas non provava solo indignazione ma anche vergogna per quegli Spagnoli come lui, quei Cristiani come lui che lo imbarazzavano o lo insultavano con il loro comportamento. Rifiutava la complicità nei loro malaffari. Diceva no, per sé, per gli Indios, ma anche per gli stessi Spagnoli. “Vostra Maestà farà a tutti gli spagnoli che si trovano nelle Indie un’incredibile ed inestimabile grazia, liberandoli dai grandissimi peccati di tiranni, latrocinio, violenza e parricidio che commettono ogni giorno opprimendo e ammazzando quelle genti” (Memoriale a Filippo II). In lui c’era la tenace convinzione 88
che chi crede sinceramente in Cristo sarà salvato da questo inferno in terra, sarà reso immune dalle malattie dell’anima, dalla bestialità dilagante, dall’inerzia morale, dall’intorpidimento psicologico e mentale che si sono impadroniti di vittime e carnefici, intrappolati in questo particolare ordine di esistenza. Sarà reso padrone del proprio destino e libero dal contagio anti-cristiano delle brame materialistiche e dei vili egoismi riduzionistici caratteristici di una mentalità mercantile, tesa esclusivamente all’appropriazione ed all’accaparramento. Non sarà più un essere umano come gli altri, ma un eletto. I diritti umani [L’oppressione degli indigeni] è contro l’intenzione di Cristo e contro la forma di carità che nel suo Vangelo ci ha tanto raccomandata, e contraddice completamente, a ben guardare, tutta la Sacra Scrittura Bartolomé de las Casas Il significato di “diritti umani” è molto semplice: gli stessi diritti per ogni essere umano. Sono fondamentali perché sono quelli che tutelano i deboli dall’arbitrio dei forti, i poveri da quello dei ricchi, le minoranze da quello delle maggioranze. In un mondo segnato da enormi sperequazioni ce n’è un disperato bisogno ed andrebbero inseriti in una cornice legale indissolubile che permetta di contrastare la bigotteria, santimonia, pregiudizi, debolezze, soverchierie di quegli esseri umani che esercitano una qualche forma di autorità, potere o controllo su di noi. Senza di loro, le persone che bramano il potere di per se stesso avrebbero mano libera. Nessuno dovrebbe sentirsi sufficientemente sicuro senza questo tipo di tutela, quando la storia, anche la storia presente – si vedano i dibattiti sul Patriot Act negli Stati Uniti e sulle libertà civili nel Regno Unito, la nazione che, assieme a Singapore, è la più monitorata del mondo – ci insegna quanto sia fin troppo facile abolire certi diritti che sono costati sangue e sacrifici alle generazioni precedenti. I diritti umani devono venire prima di ogni altro dovere, perché altrimenti non sono più tali e vengono subito sacrificati nel nome di qualche fine “più alto”. Hannah Arendt sottolineava che i diritti umani garantiscono che gli esseri umani non vengano de-umanizzati, ridotti a meri corpi che non sono altro che macchine per soffrire. Per Simone Weil esiste una verità primordiale della nostra natura alla base dell’etica e del diritto ed è che “c’è in noi un obbligo verso ogni essere umano per il solo fatto che è un essere umano…Quest’obbligo non si fonda su nessuna situazione di fatto…su alcuna convenzione…Quest’obbligo è eterno. Risponde al destino eterno dell’essere umano”. Secondo il filosofo morale australiano Raimond Gaita, l’amore per le persone, specialmente quelle più difficili da amare, è alla base dei diritti umani universali (Gaita 1991). Gaita sostiene che “se non fosse per i molti modi in cui gli esseri umani si amano l’un altro – dall’amore sessuale a quello imparziale dei santi – non credo che avremmo un senso della sacralità degli individui o dell’inalienabilità dei loro diritti e dignità” (Gaita, 2000). Credo che interpreti benissimo il pensiero giuridico-morale di Las Casas che, nei Principia Quaedam del 1551-1552 tratteggiava una teoria dei diritti civili ed umani, applicata al caso indiano, non ancora sistematica, ma certamente incisiva, sebbene 89
inadatta ad un’epoca come la nostra, di spiritualità panteista o ateismo materialista: “Poiché queste genti indiane sono, per natura, umilissime, molto pusillanimi e, nella maggior parte, pacifiche e miti, per cui possono facilmente essere maltrattate ed oppresse dagli spagnoli. Per la stessa ragione i re di Spagna sono obbligati, come condizione necessaria alla loro salvezza, a difenderle da quelli, non come si vuole, ma efficacemente, con l’amministrazione della giustizia ed altri opportuni rimedi; a ordinare, regolare e disporre il loro regime in modo tale che, vivendo questi popoli in pace e tranquillità, conservando i loro beni e diritti, liberandosi da tutti gli impedimenti esterni, abbraccino gradatamente, liberamente e facilmente, la fede cattolica; assimilino i buoni costumi e, credendo in Dio, loro vero creatore e redentore, raggiungano il fine proprio della creatura razionale, ossia la felicità eterna, che è allo stesso tempo l’obiettivo e l’intento di Dio”. In questa esortazione scorgiamo, in nuce, i diritti fondamentali contemporanei (Kateb, 2011). Per Las Casas non esistevano diritti naturali dissociabili dalla Provvidenza Divina. Essi si irradiano dall’Amore, dalla Giustizia, dalla Grazia e dalla Verità di Dio. Chi li vuole intendere li intenderà, gli altri rimarranno invece sordi e ciechi. Lui stesso racconta di uno spagnolo che aveva seviziato un’india che gli si era rifiutata, per poi bruciarla viva. Fu condannato al pagamento della risibile somma di 5 castellanos: Las Casas sa che Dio non si dimenticherà di lei, perché proprio le vittime innocenti dei persecutori gli sono più care. “Chi, se ha cuore di carne e viscere umane, potrà soffirire che vi sia una crudeltà così inumana? Quale memoria di quel precetto della carità “amerai il tuo prossimo come te stesso” ci sarebbe mai dovuta essere allora in coloro che, a tal punto dimentichi di essere cristiani e persino di essere uomini, trattavano così – in quegli uomini – l’umanità?” (Historia). Il torturatore, o l’addomesticamento dell’uomo - parte prima [L’autorità] non invano porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi opera il male Paolo, Romani 13:4 Chi potrebbe dubitare che è certo meglio condurre gli uomini all'amore di Dio con l'istruzione e la persuasione, piuttosto che costringerveli con il timore e con il dolore del castigo? Ma per il fatto che gli uni sono mezzi migliori, non ne segue che i secondi debbano essere trascurati; infatti è utile a molti prima essere scossi dal timore e dal dolore, per poi essere disposti a venir istruiti Agostino di Ippona Nessuno ha il diritto di trattare qualcuno altro crudelmente a fini pedagogici o di intrattenimento. Dio non avrebbe mai creato l’universo semplicemente per insegnare qualche lezione morale o teologica del tipo “non infliggere delle sofferenze non necessarie”. Un dio del genere, amante di astute seduzioni, “edificanti” tormenti e complotti ben elaborati ai danni di esseri umani ignoranti, piuttosto che malvagi, sarebbe nemico del messaggio di Cristo e dell’umanità stessa. Il suo comportamento sarebbe infantile, sadico e manipolatore, psicopatico, indegno di Dio. Le torture, incluse quelle 90
psicologiche e mentali non sono mai giustificabili, per nessun motivo o fine. Molti tra i simpatizzanti dei metodi spicci di certi evangelizzatori della Conquista non sarebbero stati d’accordo. Il fine era “nobile” – la crescita della consapevolezza civile degli indigeni ed il bene dell’Impero –, la mortificazione ed il degrado dell’umano solo una fase transitoria ed inevitabile. In fondo, senza vaste crisi, questa la logica retrostante, non ci si libera dall’inerzia dei propri abiti mentali. La questione più attuale e fondamentale è naturalmente se sia lecito manipolare gli altri, sottoporli magari ad una certa misura di sofferenza psicologica, per il loro bene, per aiutarli a correggere i loro comportamenti ed abitudini. Sepúlveda rispondeva affermativamente, Las Casas negativamente. Molti francescani si schierarono, idealmente, dalla parte di Sepúlveda, i domenicani, al contrario, concordarono in gran parte con Las Casas. Cerchiamo di capire perché, partendo da una provincia coloniale dello Yucatán, Maní, amministrata dai francescani. Nel 1561, Vasco de Quiroga, il compassionevole ed illuminato vescovo del Michoacán (oggi uno stato messicano collocato tra la Cordigliera e la costa pacifica centrale), denunciò i soprusi ai quali i frati di diversi ordini sottoponevano gli indigeni che erano stati affidati loro. La descrizione delle violenze e degli abusi era così sconvolgente che non furono in molti a prenderlo sul serio. Persino numerosi storici hanno rinunciato ad investigare questa ed altre denunce, quasi che non fosse opportuno macchiare l’immagine degli ordini mendicanti. La realtà, purtroppo, è che i frati sono esseri umani come gli altri e, in quelle circostanze, non furono sempre all’altezza dei principi ispiratori dei rispettivi ordini. La loro “caduta”, però, ci aiuta a comprendere meglio uno dei punti deboli più gravi della nostra concezione del processo civilizzatore, il paternalismo redentivo (Clendinnen, 2010). Oggi sappiamo che Vasco de Quiroga parlava a ragion veduta ed era molto ben informato. In quegli anni era pratica comune tra gli ordini mendicanti quella di “trasferire” migliaia di indigeni a fini didattici. Sovente, non ci si premurava di fornire un minimo preavviso. Le famiglie ricevano la visita di frati e dei loro coadiutori e venivano sfollati, le loro case date alle fiamme, i loro poveri beni distrutti. Alcuni dei deportati morivano di privazioni, altri si lasciavano morire per la disperazione. Il palo delle fustigazioni al centro delle nuove comunità (reducciones) era il simbolo del potere ed un costante ammonimento a non violare le regole. Le feste erano bandite e vigeva il coprifuoco. Non esistevano più case comuni ma solo abitazioni monofamiliari. Anche questo accorgimento doveva servire a sfibrare il tessuto sociale tradizionale, allentando i legami clanici. Qualche mese dopo il j’accuse di Quiroga, i francescani di Maní – tra una quindicina ed una ventina di confratelli – istituirono un regno del terrore che sconcerto e traumatizzò non solo molti coloni, ma persino gli altri francescani che arrivarono ad ispezionare le comunità coinvolte quest’opera di epurazione violenta del paganesimo. I frati disciplinatori rimasero però persuasi fino alla fine di stare facendo non solo ciò che era giusto, ma soprattutto ciò che era indispensabile. Tanto che protestarono veementemente contro le denunce dei confratelli, chiamandoli traditori ed invocando inchieste ai loro riguardi. Cosa avvenne? Nel maggio del 1562, dopo diciassette anni di predicazione, i francescani di Maní si accorsero di essere stati ingannati dai loro protetti quando, ispezionando una caverna, vi trovarono idoli e teschi umani. Inizialmente si erano 91
limitati a minacciare gli indigeni con la promessa della collera divina se non avessero rinnegato i loro dèi. Ma, vista la loro ostinazione, la suddetta scoperta divenne la goccia che fece traboccare il vaso, scatenando un’isteria collettiva nei predicatori, che passarono alle maniere forti, alle punizioni corporali. Da quel fatale istante si verificò un’escalation nell’uso della violenza disciplinare e correttiva. La tortura, questa pratica infernale, divenne uno strumento di disciplinamento e di didattica. Convinti che le confessioni estorte sotto tortura potessero essere plausibili, non esitarono a credere ad un quadro desolante: sacrifici umani, cuori ancora pulsanti strappati dal petto, crocifissioni di bambini. Non possiamo decisamente escludere che certe pratiche avessero ancora luogo, ma la bestiale rappresaglia che lanciarono contro l’intera popolazione e che si autoalimentò proprio a causa delle fantasie estratte da bocche tormentate, non si distingueva in nulla dalle costumanze indigene che loro stessi ritenevano demoniache. In seguito, i frati si rifiutarono finché poterono di rinunciare a questo metodo “educativo” che avevano individuato ed applicato così scrupolosamente; anche se violava le leggi dell’Impero, anche se era agli antipodi degli insegnamenti evangelici. Si verificarono arresti di massa, fustigazioni e torture indiscriminate, con l’uso della strappada (dall’italiano “strappata”), la tecnica di tortura usata nel Castello del Buonconsiglio contro gli Ebrei accusati di aver sacrificato il Simonino, nel 1475. Consisteva nell’issare il malcapitato legato a delle funi tramite una carrucola, per poi mollare improvvisamente facendo slogare le articolazioni delle vittime. Frate Diego de Landa coordinava l’inquisizione locale, facendo le veci di un vescovo che non era mai stato nominato. Diego de Landa (1524-1579) meriterebbe un volume a parte. Giunto in Messico a soli 24 anni, fu un torturatore, schiavista e, nel luglio del 1562, il responsabile della distruzione di ventisette rotoli manoscritti maya – se si considera che ce ne sono pervenuti solo quattro è come se avesse bruciato la Biblioteca di Alessandria messicana. Nonostante questo, gli fu permesso di diventare il secondo vescovo dello Yucatán. Il suo zelo paranoico e “salvifico” non si fermava di fronte a nulla ma non gli impedì di scrivere una “Relazione sulle cose dello Yucatan” che è uno dei pochi documenti che permette a storici ed antropologi di gettare uno sguardo sulla cultura e la società maya. Il problema, però, è che gli studiosi sono costretti a fidarsi di una trascrizione abbreviata di un testo scritto da un cronista che solo pochi anni prima era intenzionato ad annientare completamente qualunque “satanica” fonte primaria, che omette di menzionare il rogo dei manoscritti e la tortura degli indigeni e che, nella sua analisi della lingua maya, commette errori grossolani. Landa, insoddisfatto dei risultati raggiunti nella prima fase dell’inquisizione, la estese alle due province adiacenti di Sotuta e Hocaba Homun, con metodi sempre più stravaganti ed esiti terribili. L’inchiesta ufficiale del 1565, coordinata da Sebastian Vazquez, rivelò che oltre 4500 uomini e donne furono torturati, più di seimila frustati o rapati per punizione. 157 persone morirono per le conseguenze dell’interrogatorio, almeno una dozzina si suicidò prima di finire tra le mani dei torturatori. Di altri diciotto non si trovò traccia e si pensò che si fossero uccisi. Un numero imprecisato di persone rimase menomato, con i muscoli delle spalle irrimediabilmente lesionati e le mani paralizzate. L’inquisizione impiegava la tortura in tutte le colonie, ma in modo molto selettivo e regolato. Non si era mai visto, né si vide mai, nulla del genere. In queste tre province, 92
Landa e gli altri francescani decretarono che tutti gli indiani erano idolatri e che non si poteva sottoporli a processo uno dopo l’altro, perché vagliare ogni caso avrebbe richiesto decine di anni, mentre la minaccia era immediata. Quindi si optò per la colpa collettiva, il reato preferito dai nazisti per giustificare le loro sanguinarie rappresaglie di massa. Ci furono coloni spagnoli che cercarono di intervenire per interrompere il Terrore, ma rischiarono la loro stessa incolumità senza riuscire peraltro ad ottenere alcun risultato concreto. Solo l’arrivo del vescovo, un altro francescano, frate Francisco de Toral, spezzò l’infernale sortilegio che aveva trasformato una missione evangelizzatrice in un cuore di tenebra dell’onnipotenza. Toral pose fine al massacro dichiarando che le confessioni estorte sotto tortura erano invenzioni che le vittime avevano offerto ai loro carnefici in cambio della fine dei supplizi e che la prosecuzione di alcune delle loro idolatrie era del tutto naturale in un popolo che aveva appena incontrato la vera fede. Accusò Landa di aver reagito in modo assolutamente sproporzionato a dei crimini minori, spinto da rabbia, arroganza e crudeltà. Lorenzo de Bienvenida, pioniere delle missioni francescane dello Yucatán, fu sconvolto nello scoprire che persone deputate alla tutela degli indigeni si erano trasformati nei loro giudici, torturatori e boia. Entrambi furono però denunciati all’ordine dai francescani di Maní, con l’accusa di tradimento. A tre mesi dal suo arrivo, Toral rimase isolato. Anche quando Landa fu convocato dal Consiglio delle Indie per essere processato, i francescani suoi complici continuarono a difendere la bontà del loro operato. È tempo di cercare una spiegazione per questo comportamento disumano. L’ordine francescano aveva stabilito che lo status degli indigeni era quello di bambini ed i figli si educavano anche con le percosse ed il terrore. Al contrario i domenicani, più versati nel diritto e nella teologia, erano riluttanti ad usare la forza per costringerli a credere alla sacre scritture. Secondo i francescani, la naturale docilità degli indigni li aveva resi più vulnerabili alla subdola azione del demonio. Erano troppo impressionabili e volubili e con la stessa facilità con cui aderivano alla cristianità rischiavano di allontanarsene, per questo andavano sorvegliati e castigati diligentemente. Per questi predicatori la condizione infantile non era una fase transitoria ma uno stato permanente, come permanente sarebbe stata la loro tutela. La furia punitiva dei francescani forse assomigliò a quella di un genitore autoritario tradito (Clendinnen, 2010). La slealtà indicava che quella terra e la sua gente erano dannate e la loro innocenza doveva essere rigenerata attraverso la sofferenza espiatoria. Lo stupefacente grado di narcisismo, mitomania e brama di onnipotenza di questo nucleo di francescani fece in modo che si persuadessero che sotto i colpi della frusta gli adulti indigeni sarebbero stati nuovamente restituiti alla loro “naturale” condizione di bambini inermi, dolenti, frignanti, plasmabili. Senza una mano ferma gli indiani sarebbero invece stati ingovernabili, come gli animali della foresta non addomesticati. Grazie a questi “metodi spicci” potevano ritornare ad una fede semplice e pura. La loro relazione speciale con gli indigeni giustificava ogni intransigenza. Quella che gli altri giudicavano crudeltà gratuita era invece rigore appropriato e proporzionato. Gli astratti principi della legge nulla potevano contro lo zelo riparatore e redentore di persone che avevano fatto della salvezza di esseri umani riottosi l’unica causa degna di essere perseguita. I nativi dovevano essere guidati, salvaguardati dalla loro debolezza, dovevano delegare la propria volontà a coloro che, essendo più saggi, erano in grado di condurli 93
per mano alla Salvezza. Dovevano collaborare nel loro addomesticamento. I francescani di Maní misero in piedi un’organizzazione che, consapevolmente, ripristinò il progetto millenarista dell’addomesticamento dell’umano. L’addomesticamento è il modello archetipico di ogni tipo di subordinazione sociale, il culmine di ogni esperimento totalitario. L’anno della sua morte, lo zoologo francese Isidore Geoffroy Saint-Hilaire (1805 – 1861) fece in tempo a pubblicare un libro sull’addomesticazione degli animali e distinse tre possibili stati in cui l’uomo può ridurre gli animali per subordinarli al suo volere: ingabbiati, addomesticati e domestici. I primi, se liberati, tornerebbero in libertà senza essere segnati dall’esperienza. I secondi sono stati domati e non devono essere tenuti prigionieri. La loro idea della vita ideale è stata radicalmente trasformata e stanno bene dove sono. Gli animali domestici sono una specie che ormai riproduce ad ogni generazione la condizione di addomesticamento. Non è più una condizione di subordinazione interiorizzata a livello individuale, ma collettivo. Non hanno più una volontà indipendente da quella dei loro padroni. Questo era anatema per Las Casas, come lo sarebbe stato per Gesù, che non controllava le persone, si limitava ad invitarle a seguirlo ed a seguire il suo esempio, liberamente. Al contrario, questi predicatori francescani, come Sepúlveda, si erano prefissati precisamente l’obiettivo di addomesticare e poi addestrare ed gli indigeni. Ci pare di poter dire che non ebbero mai ripensamenti in merito alle loro azioni ed alla moralità del progetto. Anche questa mancanza di turbamenti ed esitazioni merita la dovuta attenzione. Gerónimo de Mendieta (1525-1604) fu un missionario francescano nella Nuova Spagna (Messico) che riuscì a conciliare nella sua coscienza due identità: quella di intransigente ingegnere sociale di una nuova utopia che doveva anticipare l’avvento del Regno di Dio e quella, direi “lascasiana”, di difensore degli indigeni dallo sfruttamento, dalla violenza, dall’umiliazione, dalla brutalità dei loro compatrioti. Mendieta aveva sviluppato un’interpretazione mistica della conquista, marcata da profetismo e messianismo. Credeva, come Sepúlveda, che occorresse usare la forza per convertire gli infedeli, ma non una forza illimitata. In accordo col confratello Motolinía, Mendieta affermava che essa doveva servire solo per abbattere i regni locali e per distruggere il paganesimo. Un uso eccessivo sarebbe stato controproducente nella fase della predicazione, perché avrebbe alienato le simpatie dei nativi. La relazione paterna tra predicatori ed indigeni sarebbe invece stata sufficiente. Abbiamo visto che esisteva una divergenza di vedute tra francescani – empiristi, pratici, carenti in cultura umanistica – e domenicani, che avevano spesso ricevuto un’educazione accademica. Mendieta ripudiava l’assunto lascasiano che esiste un solo metodo per convertire tutti i popoli del mondo e che questo metodo non può prescrivere la violenza. Sepúlveda sottolineava il fatto che la Chiesa non poteva comportarsi allo stesso modo prima e dopo Costantino (criterio cronologico), Mendieta osservava che maggiore era la distanza dalle fonti della fede, maggiore doveva essere l’esercizio di pressioni coercitive (criterio spaziale-geografico). Mendieta credeva che la Spagna fosse stata prescelta da Dio come nuova Israele per portare la sua parola ai quattro angoli del mondo, unificando la terra in vista del secondo avvento. Questo doveva essere ormai prossimo, visto che, a suo parere, ormai tutte le terre emerse ed i popoli del mondo erano stati scoperti e si sarebbero presto convertiti alla fede cristiana. 94
La Spagna era una teocrazia messianica, i sovrani degli apostoli tra gli infedeli, i primi missionari della monarchia universale. Il loro compito era quello di diffondere il vangelo tra i pagani ed i loro eserciti erano le armate del signore, destinate a vincere perché Dio le favoriva (Gott mit uns, dicevano i nazisti). Anche Las Casas credeva che i monarchi di Spagna fossero stati investiti di una sacra missione, ma non arrivò mai a credere che il successo di questa missione evangelica potesse essere l’unica lente attraverso cui osservare la realtà locale, l’unico parametro etico in funzione del quale si doveva decidere quali dovessero essere le regole di condotta nei confronti degli indigeni. All’opposto, questa fu proprio la strada imboccata da Mendieta, la cui mentalità era spiccatamente veterotestamentaria. Per lui Filippo II era il Messia, il Re del Mondo che doveva convertire l’umanità alla vigilia del Giudizio Universale. C’era tra i francescani chi, come Pedro de Azuaga, vedeva gli indios diversamente da Mendieta. Per lui non erano degli esseri umani spogliati di tutto il superfluo e ridotti al denominatore essenziale dell’umanità, l’innocenza infantile, come pensava Mendieta, sicuro che proprio per questa ragione sarebbero stati più facilmente convertibili e perfettibili rispetto agli altri esseri umani. Azuaga interpretava la prontezza con quale si inchinavano alla fede cristiana come manifestazione di mero opportunismo, ipocrisia e timore delle possibili rappresaglie in caso di diniego. La presenza militare spagnola doveva servire a prevenire un ritorno al vecchio ordine, con l’espulsione dei coloni e dei frati. Mendieta invocava al contrario una completa segregazione degli indigeni da tutte le altre razze presenti nel Nuovo Messico, per tutelarli dall’influenza corruttrice del Nuovo Mondo: “nel dubbio, bisogna sempre presumere che lo spagnolo sia il reo e l’indiano la vittima”. Con un’efficace metafora: “è un fatto notorio ed evidente che quando si mescolano grandi e piccoli pesci, i primi divoreranno molto presto tutti gli altri” (Phelan, 1970). Tuttavia, per la stessa ragione, anche il diritto romano, quello a cui si appellava Las Casas per difendere i nativi, non doveva essere applicato nel Nuovo Messico: troppo complicato per le loro menti semplici, troppo inadatto alla loro primordiale innocenza. Al suo posto, si sarebbe istituita una disciplina pedagogica e paternale. I frati dovevano esercitare un controllo illimitato sui nativi, per il tramite del vicerè, fondato non sulle leggi umane ma su quelle della natura. Essendo uomini naturali, la relazione più naturale doveva essere quella padre-figlio, in un regime di adozione reciproca. In ossequio al magistero del teologo francescano Duns Scoto, l’autorità monarchica doveva essere onnipotente e deteneva la prerogativa di promulgare ed abrogare qualunque legge, nonché confiscare qualunque bene di proprietà, ridistribuendolo a suo piacimento. La visione di un tiranno assoluto, plasmatore dei corpi e delle coscienze umane, piaceva molto anche a Motolinía e a Sepúlveda, quest’ultimo dell’avviso che ogni forma di vita inferiore dovesse essere naturalmente subordinata a quella ad essa superiore, attraverso una tutela legale, come per i minori in affido temporaneo che, però, nel caso degli indigeni, si profilava come un affido permanente. Tuttavia, a differenza di Sepúlveda, Mendieta spiegava che quell’inferiorità era in effetti un vantaggio che avrebbe reso gli indigeni più autenticamente cristiani dei supposti cristiani del Vecchio Mondo.
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Ricapitolando, l’ipotesi che spiega più plausibilmente la condotta dei francescani nello Yucatán chiama in causa l’intersezione di attese messianiche e di una spiccata tensione paternalista ed utilitarista, fondamentalmente ed inevitabilmente avversa alla dignità umana Infatti la logica dell’utile non può che accettare che si commettano delle atrocità e si assoggettino le persone, se ciò può aumentare le opportunità di salvezza personale e collettiva sia delle vittime, sia dei disciplinatori. A ben guardare, l’insegnamento principale che fu impartito ai nativi americani dai coloni e da molti evangelizzatori (non solo quelli di Maní) fu: se siete diligenti, obbedienti e lesti nell’apprendere le lezioni e metterle in pratica, sarete degni di integrarvi nel nuovo ordine coloniale, in una posizione subordinata. Si può ben capire come mai gli indios non fossero così entusiasti di abbandonare le loro tradizioni e di sognare un ritorno al passato. In questo capitolo abbiamo scoperto che c’erano francescani che non mettevano in dubbio la giustezza del postulato che sia giusto sottoporre un essere umano a pressioni coercitive, stimoli dolorosi e persino tortura psicologica o fisica se il fine ultimo è quello della sua illuminazione e maturazione. La tortura poteva avere fini didattici, se serviva ad individuare le mele marce nella cesta, le pecore nere nel gregge. La violenza psicologica era un passaggio centrale dell’iniziazione, il senso di onnipotenza l’attributo caratterizzante gli iniziatori. Nulla poteva essere lasciato al caso o all’improvvisazione, in questo esperimento di induzione di una catarsi collettiva, perché il demonio era sempre pronto ad interferire, a tentare, a spingere dalla sua parte le pecorelle smarrite. L’impressione che di questa vicenda si è fatto chi scrive è che il feticismo delle idee è nocivo per la dignità delle persone, che la vocazione assolutista di chi vive di idee rischia di sfociare nel disprezzo per le persone comuni. Mi domando quanti evangelizzatori siano riusciti ad astenersi dal manifestare pubblicamente una certa boria e sdegno nei confronti dei “discepoli”, dato che le loro realizzazioni non corrispondevano mai alle idee pure, ai progetti ideali che avevano formulato nelle loro menti. La discrepanza tra realtà e immaginazione era tale che possiamo immaginare che non furono pochi quelli che non riuscirono a sopprimere un moto di disgusto per ciò che stonava, per quegli esseri umani “fuori luogo”. Mi chiedo anche se dietro l’ardore di un Diego de Landa o di un Juan Ginés de Sepúlveda non fossero celati dei bisogni narcisistici insopprimibili che li spingevano a chiudersi autisticamente nel loro bozzolo di certezze, nel loro personale universo di determinismi, semplificazioni, autoritarismi, fantasie di dominio e bramosie demiurgiche, che li deresponsabilizzavano, spostando il fardello della colpa sui difetti congeniti dei pagani. Un autoinganno che bollava come minaccia tutto ciò che contaminava la purezza dell’idea fissa, l’estetica dell’ordine ideale come se l’erano immaginati. Il Cuore di Tenebra di Maní non fu forse un’epidemia di narcisismo tradottosi in fanatismo religioso? Il narcisista, se privato della sua sorgente di conferme e rassicurazioni – i coscienziosi indigeni – si sente vuoto e depresso, inutile, senza scopo, amorfo, ansioso ed insicuro. Soffre di considerevoli oscillazioni nell’autostima e può arrivare a credere che la vita non sia degna di essere vissuta. Per evitare questo tragico epilogo sente l’impulso di aggrapparsi ad una qualche figura o idea dominante che fornisca un sostegno solido. Molti binomi padrone-servo potrebbero essere tranquillamente invertiti, 96
perché entrambi sono narcisi ed hanno bisogno di quel tipo di rapporto patologico più di quanto necessitino di un certo status. È il vuoto interiore, l’inautenticità, la perdita di senso, l’incertezza del futuro che paventano più di ogni altra cosa. La superficialità non è un problema, il narcisista è in ogni caso antropologicamente pessimista, il suo pensiero non è mai profondo, né lo è la sua stima nei confronti degli altri esseri umani, che non sono mai suoi simili. Non ho la pretesa di poter spiegare in termini puramente psicologistici quel che accadde nel 1562, l’anno in cui Las Casas, ormai in età avanzata e prossimo alla morte, inviava l’ennesimo memorandum per il Consiglio delle Indie, in cui dichiarava, senza mezzi termini, che gli indios “hanno il diritto di condurre una giusta guerra contro di noi e di spazzarci via dalla faccia della terra”. Mi domando solo se questo attributo, che è patologico in alcuni, ma è anche un’inclinazione più o meno forte in ciascuno di noi, possa avere svolto un qualche ruolo nell’estrema radicalizzazione dell’impegno missionario. Magari lo sconcerto, la demoralizzazione, la frustrazione, il risentimento che seguirono alla scoperta della grotta pagana, infiammarono gli animi di questi francescani, spingendoli lungo la china di chi vede negli altri esseri umani del materiale da rimodellare per renderlo compatibile con una certa concezione di società ideale, a propria immagine e somiglianza, in una spasmodica ricerca di purezza, autenticità e senso. Il mago, o l’addomesticamento dell’uomo - parte seconda Il potere non spezza, ma ammollisce, piega e dirige le volontà; non distrugge, non tiranneggia, ma ostacola, comprime, snerva, spegne, inebetisce tutti gli uomini, riducendoli come un branco di animali timidi e laboriosi, di cui lo Stato è il pastore. Alexis de Tocqueville, “La democrazia in America” (1840) Durante la sua vita terrena, Gesù Cristo ha rifiutato la strada del potere temporale, preferendo una vita umile, dolce, pacifica e povera. Las Casas Il popolarissimo storico della Conquista Francisco López de Gómara assicurava i suoi lettori che se volevano farsi un’idea chiara ed affidabile della situazione nelle Indie dovevano consultare Sepúlveda, il cronista imperiale, che aveva illustrato tutto ciò che era necessario sapere nel suo elegantissimo latino. “Ne rimarrete completamente soddisfatti”, concludeva. Oggi questa nota di approvazione fa rabbrividire i fautori della democrazia. La società ideale di Sepúlveda era verticale, piramidale; certe categorie, pur non godendo degli stessi diritti di altre più privilegiate, erano zavorrate da molti più doveri. Alcune classi di esseri umani potevano essere asservite o recluse in caste, non possedendo il medesimo valore intrinseco delle altre. È da questo ordinamento rigidamente gerarchico, neo-feudale – che colloca su una scala i cittadini, con la massima concentrazione di diritti in cima e la loro rarefazione in fondo – e dalla mentalità che lo contraddistingue, che discendono le contemporanee argomentazioni in favore della pena di morte, della tortura, delle “guerre umanitarie”, delle segregazioni interetniche e 97
contrarie al basilare rispetto per la persona umana, che non va mai concepita come uno strumento ma sempre come un fine, mai come una fotocopia o un ingranaggio sostituibile, ma come un unicum di valore inestimabile. Bernal Díaz del Castillo, nella Conquista della Nuova Spagna, condensava eccellentemente il senso della crociata della Conquista: “Al servizio di Dio e di Sua Maestà e per illuminare chi giace nell’oscurità – e anche ottenere quella ricchezza che molto uomini bramano”. La scoperta del Nuovo Mondo offrì a molti la possibilità di rifarsi una vita, di migliorare la propria posizione. Ad altri dischiuse nuovi scenari di riforma sociale. Ci fu chi, come i missionari indigenisti, fu solleticato dall’idea di poter finalmente edificare quell’utopia cristiana che i movimenti monastici non erano riusciti a realizzare nel Vecchio Mondo. Ma ci fu anche chi, più o meno consapevolmente, colse l’occasione per rinverdire l’eredità patriarcale e feudale, con un Nuovo Ordine costruito attorno a certi valori e principi che erano in netto contrasto con quelli umanisti che dominavano il dibattito teologico-politico nella madrepatria. Principi come quello secondo cui il disordine e la guerra erano la condizione naturale dell’umano e che salde gerarchie erano necessarie per costringere gli esseri umani a rispettare le leggi e la dottrina. Questi imprenditori della morale non erano animati dal desiderio di elevare la condizione umana, ma piuttosto da quello di porsi alla sommità della piramide sociale e degradare chi si trovava sotto. Intendevano controllare il gregge umano autoctono, come santi, angeli o dèi, sottomettendolo ad un regime di vassallaggio permanente e ad un’energica campagna di correzione sociale, sulla base di una lettura selettiva dell’Antico Testamento. Il loro intransigente moralismo non ammetteva compromessi e, miscelandosi al cieco rispetto per l’autorità e a forti venature razziste e misantropiche, produsse un composto altamente instabile, perché tendeva costantemente a sospingere verso l’alto chi si trovava già in alto, e verso il fondo chi sosteneva la piramide in basso. Se fossero riusciti a prevalere, le loro procedure di governo sarebbero state all’insegna della paura, dell’autoritarismo, della tortura, della mortificazione, della menzogna, dell’imbarbarimento, della negazione del diritto di ciascuno di essere padrone della propria esistenza e del proprio corpo, ossia della schiavitù, intesa come “spontanea” sottomissione alla volontà della Providenza e dei suoi strumenti in terra. In pratica l’istituzionalizzazione di quello che sarebbe stato chiamato Darwinismo Sociale, pur avendo ben poco a che fare con Darwin. E questo in nome di Dio e della Croce. Come si può facilmente intuire, non c’era nulla di edificante e pedagogico nelle loro intenzioni. Non erano lì per insegnare agli indigeni a superarli per virtù ed ingegno, ma per indottrinarli al Nuovo Ordine. Giocavano a fare il dio punitivo e redentore di un popolo degenerato e malvagio, che necessitava di lezioni di buona condotta. Sognavano una dittatura pedagogica, soccorrevole ma severa, rigida e punitiva, che diffidava dei “discenti” e si prefiggeva il compito demiurgico di addestrarli, addomesticarli, plasmarli, rendendoli mentalmente rigidi, rispettosi, integerrimi ed incondizionatamente, automaticamente obbedienti, funzionali alle esigenze ed all’armonia dell’Impero. Questa distopia si sarebbe autoperpetuata attraverso la suddetta “pedagogia nera” costrittiva, la “pedagogia dell’Anti-Cristo” o “del Grande Inquisitore”. Per ottenere un’adeguata obbedienza filiale (o, per meglio dire, l’obbedienza dell’anima) i nuovi padroni dovevano incutere timore negli autoctoni, tramite punizioni fisiche, sadismo, profferte subito 98
smentite. Qualunque manifestazione di volontà autonoma sarebbe stata rimpiazzata da abnegazione e diniego. L’amministrazione coloniale non sarebbe stata molto dissimile dal modello spartano e del totalitarismo del secolo scorso: intrinsecamente morale e moralizzatore, educativo e formativo, “pastorale” e patriarcale, motivato dalla missione di creare la società ideale ed il suddito ideale. Le sue prescrizioni ed arbitrati sarebbero state inoppugnabili proprio in virtù della sua intangibilità morale, derivata dall’imperatore, dalla Santa Madre Chiesa e da Dio. Il potere avrebbe stabilito ciò che era giusto e virtuoso. Per via di questa miscela di moralismo, responsabilità collettiva, utilità sociale ed ambizioni tecnocratiche, il Nuovo Ordine prefigurato da Sepúlveda e dagli altri commentatori ed analisti di mentalità autoritaria, sarebbe stato incline a considerare la diversità come un impedimento al corretto funzionamento della Megamacchina imperiale. Non vi poteva essere alcuno spazio di libertà, e di autodeterminazione individuale o di popolo, perché la vera libertà, in quest’ottica, è quella di piegarsi ai valori dei padroni, senza che siano posti ostacoli alla più completa adesione. La libertà delle marionette che sono soddisfatte delle cordicelle che le manovrano e del loro efficace ricondizionamento mentale. Questo era precisamente il destino degli Indios: mansuetudine o estinzione. Gli intenti di questi ingegneri sociali ed imprenditori morali erano, ai loro occhi, nobili e lodevoli, perché finalizzati alla crescita della “consapevolezza” civile e religiosa degli indigeni. Ai nostri appaiono come sadistici e crudeli, dettati da un ignobile complesso di onnipotenza divina. Le proteste dei nativi sarebbero state interpretate come il risultato di un autoinganno: vedono questo mondo come manipolativo e brutale perché è al di là della loro comprensione, ma noi l’abbiamo creato per il loro bene! Ecco, la potente intuizione che Dostoevskij pone in bocca a Aljòsa: “Il tuo inquisitore non crede in Dio, ecco tutto il suo segreto!” Al che Ivàn Karamazov, di rimando: “Infine tu hai indovinato. È proprio così, è ben qui soltanto che sta tutto il segreto…Al tramonto dei suoi giorni egli acquista la chiara convinzione che unicamente i consigli del grande e terribile spirito potrebbero instaurare un qualche ordine fra i deboli ribelli, “esseri imperfetti e incompiuti, creati per derisione”. Ed ecco che, di ciò convinto, vede come occorra seguire le indicazioni dello spirito intelligente, del terribile spirito della morte e della distruzione, e, all’uopo, accettare la menzogna e l’inganno, guidare ormai consapevolmente gli uomini alla morte e alla distruzione, e intanto ingannarli per tutto il cammino, affinché non possano vedere dove sono condotti, affinché questi miseri ciechi almeno lungo il cammino si stimino felici. E nota: l’inganno è compiuto in nome di Quello nel cui ideale il vecchio ha per tutta la sua vita così appassionatamente creduto!”. Marionette, automi, gli indigeni trasformati in una galleria di pupazzi da narcisisti megalomani che aspiravano ad esercitare un controllo completo sugli altri, decidendo quali regole valevano per loro e quali no, esercitando l’autorità di Dio. Come nel Processo di Kafka, dove il protagonista affronta un potere implacabile ed invisibile ed alla fine muore senza aver capito cosa gli sia successo e perché. Come il Grande Inquisitore di Dostoevskij, lo storico Gonzalo Fernández de Oviedo, il giurista Juan de Matienzo, il vicerè del Perù Francisco de Toledo, il domenicano Tomás Ortiz, l’ormai familiare Juan Ginés de Sepúlveda, Pedro de Alvarado, responsabile dell’eccidio di Tenochtitlán, Hernán Cortés, responsabile di 99
quello di Cholula e Francisco Pizarro, responsabile di quello di Cajamarca, erano quasi certamente convinti che gli indigeni avrebbero un giorno capito quale immensa benedizione era toccata loro. Avrebbero potuto pronunciare loro le parole del Grande Inquisitore, fiducioso della sua rettitudine: “Essi ci ammireranno e ci considereranno come altrettanti dèi, per aver consentito, dopo esserci messi alla loro testa, a prendere sulle nostre spalle il carico della libertà, della quale essi hanno avuto paura, e per aver consentito a dominarli; tanto tremendo finirà col sembrar loro l’essere liberi!…Per l’uomo rimasto libero non esiste una preoccupazione più assillante e tormentosa che quella di trovare al più presto qualcuno davanti al quale prosternarsi”. Servi di natura, come propugnato dai sofisti Gorgia e Trasimaco, secondo i quali “la natura vuole padroni e servi”, la giustizia naturale essendo “l’utile del più forte”, o servi per cultura, ma comunque servi. Per un breve periodo si erano ribellati, per poi ammansirsi nuovamente. “Ma il gregge di nuovo si radunerà e di nuovo si sottometterà, e stavolta per sempre. Allora noi gli daremo una quieta, umile felicità, una felicità di esseri deboli, quali costituzionalmente essi sono. Oh, noi li persuaderemo, alla fine, a non essere orgogliosi, giacché Tu li hai sollevati in alto, e così hai insegnato loro a inorgoglirsi: dimostreremo loro che son deboli, che non son altro che dei poveri bambini, ma che in compenso la felicità bambinesca è la più soave di tutte. Essi si faranno timidi e s’avvezzeranno a girar gli occhi a noi e a stringersi a noi tutti spaventati, come pulcini alla chioccia”. Paul Tillich soleva dire che gli unici pensatori genuinamente profetici del nostro tempo sono quelli che hanno dedicato la propria esistenza a misurarsi con la subdola eloquenza del Grande Inquisitore dostoevskijano. Las Casas lo fece con alcuni secoli di anticipo e, se non ne uscì vincitore, poiché fu sconfitto in quasi tutte le iniziative che intraprese, come succede quasi sempre ai visionari nati prima del tempo, riuscì comunque a porre un argine alla piena della Conquista e a rispedire Sepúlveda ai suoi libri ed alle sue compravendite. È ancora il Grande Inquisitore a parlare: “Sì, noi li obbligheremo a lavorare, ma nelle ore libere dal lavoro daremo alla loro vita un assetto come di gioco infantile, con canzoni da bambini, cori e danze innocenti. […]. Ed essi non ci terranno nascosto assolutamente nulla di loro stessi. Noi permetteremo loro, o proibiremo, di vivere con le loro mogli e amanti, di avere o non avere figli, sempre regolandoci sul loro grado di docilità, ed essi si sottometteranno a noi lietamente e con gioia. Perfino i più torturanti segreti della loro coscienza, tutto, tutto porranno in mano nostra, e noi tutto risolveremo, ed essi si affideranno con gioia alla decisione nostra, perché questa li avrà liberati dal grave affanno e dai tremendi tormenti che accompagnano ora la decisione libera e personale. […] in silenzio essi morranno, in silenzio si estingueranno nel nome Tuo, e oltre tomba non troveranno che la morte. Ma noi manterremo il segreto, e per la loro stessa felicità li culleremo nell’illusione d’una ricompensa celeste ed eterna. Infatti, seppure ci fosse qualcosa nel mondo di là, non sarebbe davvero per della gente simile a loro”. Sono dei selvaggi e l’unica libertà adatta a loro è l’innocenza incosciente degli animali addomesticati che si concentrano sulla sopravvivenza e sull’obbedienza. Leggendo i testi della disputa di Valladolid non ho potuto fare a meno di pensare che, proprio lì, in quei giorni, si stava svolgendo, simbolicamente, l’eterno confronto tra 100
Cristo ed il suo antagonista, il cosiddetto Anticristo, che predica il totalitarismo eudemonistico/utilitaristico, il governo di un’oligarchia pseudo-cristiana, quella dei Conquistadores, coi loro miracoli, la loro autorità ed i loro misteri. Non avevano mai goduto di alcuna libertà, gli indios, e non avrebbero saputo che farsene. Sarebbe stato un fardello eccessivo, irritante. “Si convinceranno pure che non potranno mai nemmeno esser liberi, perché sono deboli, viziosi, inetti e ribelli. […] Essi sono viziosi e sediziosi, ma alla fine saranno proprio loro che diverranno obbedienti”. In fondo sono i veri beneficiari di tutto ciò che è stato fatto. “Noi diremo che obbediamo a Te, e che dominiamo nel nome Tuo”. E le punizioni, le torture, le persecuzioni, i massacri, la schiavitù? Tutto meritato: “La tua condotta e le tue azioni ti hanno causato tutto ciò. Questo il guadagno della tua malvagità; com’è amaro! Ora ti penetra fino al cuore…” (Geremia 4,18). Chi oserebbe obiettare alla volontà di semidèi che esprimono il giudizio di Dio? “Il censore dell’Onnipotente vuole ancora contendere con lui? Colui che censura Dio ha una risposta a tutto questo?” Come Giobbe, gli Indios dovevano solo accettare la loro sorte e ringraziare il Cielo di essere vivi e di avere l’opportunità di riscattarsi. “Ecco, io sono troppo meschino; che ti potrei rispondere? Io mi metto la mano sulla bocca. Ho parlato una volta, ma non riprenderò la parola, due volte, ma non lo farò più” (Giobbe 40,5). C’è un’illuminante annotazione di Vladimir Sergeevic Solov’ev che può servire a comprendere meglio le dinamiche psicologiche di questi tiranni inconsapevoli di esserlo: “L’Anticristo credeva in Dio, ma nel profondo del suo cuore preferiva se stesso”. Non credo vi sia una migliore definizione di certi Conquistadores (o dei Nazisti). L’emblema perfetto per queste stirpi di crociati è l’uroboro, il serpente che si morde la coda. Una forma di vita attaccata alla terra ed alla materialità, indifferente alla spiritualità ed alla trascendenza, tossica per sé e per gli altri, imprigionata nella propria gabbia di brame, gelosie ed egoismi. Non è il Sole di Cristo che li illumina, ma piuttosto un Sole Nero, la “fantasia dell’Uomo Malvagio”, l’avrebbe chiamata William Blake. Il Nuovo Ordine instaurato dai Conquistadores e difeso da Sepúlveda era un neofeudalesimo predatorio in cui una casta di signori al vertice della piramide sociale tiranneggiava e spogliava le masse degli inferiori, beandosi del potere come di un afrodisiaco, provando piacere nel senso di dominio e di appropriazione. Sepúlveda chiuse gli occhi davanti a tutto questo. Gli fu più facile dopo aver ricevuto le generose regalie dei suoi sostenitori della Nuova Spagna. Las Casas, al contrario, comprese che non sarebbe mai riuscito a vivere con se stesso se non avesse fatto quanto in suo potere per combattere questo regime diabolico, dove l’intelligenza era al servizio dell’insensatezza, dell’ingordigia, dell’ipocrisia, del sovvertimento delle consuete relazioni di causa effetto, dello sfruttamento dell’uomo come bene sostituibile - una volta morti tutti gli Indios sarebbero rimasti pur sempre i neri, e poi tutti gli altri non-bianchi noncristiani. La razionalità di cui Sepúlveda si fece paladino non era il Logos, ma l’espressione di un’intelligenza che aspira ad un’unica libertà, quella di nutrirsi letteralmente del prossimo. L’intelligenza di un guerriero crociato, di un cacciatore d’uomini: dura, implacabile, insensibile, indifferente, che trascende emozioni e valori, vittimizza l’inferiore e il debole, che sente la sua mascolinità minacciata dal caos e dall’indefinitezza delle emozioni umane come l’empatia, la simpatia e la pietà; che deve combattere per sopravvivere o non è più se stesso, che intellettualizza l’abuso e la prevaricazione, che 101
ama i gesti radicali come simboli di potere e conquista, che confonde l’amore con il possesso. Con le sue parole Sepúlveda si cimentò nello sdoganamento di una violenza sadica che cercava di negare tutto ciò che era considerato impuro, una violenza votata alla distruzione di ciò che può essere distrutto. Alexander von Humboldt aveva ogni ragione di osservare amaramente che “nel paradiso delle foreste d’America, l’esperienza ha insegnato a tutte le creature che la benevolenza di rado si accompagna al potere”. La teologia e la filosofia umanista del cordobese avevano come unico, esplicito scopo quello di conferire potere a chi già lo possedeva, intendeva proteggerlo ad ogni costo e, se possibile, ne desiderava ancora di più. Ricordiamoci dell’ammonimento di R.W. Emerson a non dare “arnesi affilati in mano ai bambini. Non si dia all’uomo, per amore del cielo, più potere di quanto già non disponga, finché non ha imparato a usare questo un po’ meglio. Quale inferno non sarebbe questo mondo, se potessimo fare ciò che vogliamo!”; è piuttosto paradossale che valesse infinitamente di più per gli Spagnoli che per i tanto bistrattati indigeni. Sepúlveda e chi la pensava come lui enfatizzò la Rangordnung tra esseri umani, la differenza morale ed ontologica tra persone a prescindere dalle loro azioni. L’unica vera libertà, una libertà prettamente nietzscheana, risiedeva nella spontanea sottomissione dei deboli al dominio dei forti e nel naturale esercizio del dispotismo da parte di questi ultimi, che hanno il dovere di proteggere la propria specificità ed eccellenza, non di porvi delle restrizioni. La teologia diventava allora un mero alibi, non una motivazione. Gott mit uns, Dios está con nosotros. Per affermare la mia dignità devo mortificare quella altrui, devo esigere che la vittima sia consenziente. Il mio spazio di libertà si commisura a quello del mio arbitrio nell’esercizio del potere: sono tiranno con chi mi sta sotto, schiavo di chi mi sta sopra. Sono libero perché sono in grado di comprendere il disegno divino e di adeguarmicisi. Sepúlveda non vede, perché non vuole vedere che il nobile apostolato spagnolo è segnato dall’inganno, dall’ingiustizia, dallo sfruttamento spropositato, dal consumo smodato e da un controllo patologico. E tutto questo in modo sistematico, quasi inconscio, perché provvidenzialmente legittimo e perché le sue cause culturali e psicologiche sono radicate ed inveterate. È il trionfo del virilismo, dell’aggressività predatoria, dell’essere sempre al limite delle proprie capacità e magari oltre, del desiderare di possedere più di quanto spetta, come se la vera soddisfazione si trovasse oltre la mera soddisfazione, vedere il potere come un’opportunità di trasgressione e prevaricazione, il rifiuto del limite e della proporzione. L’antagonismo tra noi e loro come ordine cosmico, il bisogno di prendere invece di dare, di sfruttare invece che accordarsi. Un’aggressiva tecnocrazia mentale, meccanomorfa, che si fregia di raffinate e mistificatorie corone di ragionamenti che celano assunti non solo indimostrabili, ma umanamente indecenti. “Io dico che i barbari devono essere dominati, non soltanto perché ascoltino i predicatori ma anche perché alla dottrina e ai consigli si aggiungano le minacce e si infonda il timore. […]. Grazie al terrore unito alla dottrina, hanno ricevuto la religione cristiana, quegli stessi che con la sola predicazione l’avrebbero respinta” (Democrates Alter). Sepúlveda non dubitò mai per un solo istante della validità di tali assunti, centrati su ciò che era normativamente permissibile, ed insensibile al tema di ciò che è buono. In questo senso la sua filosofia analitica, che lui considerava risolutamente apolitica e quindi neutra ed obiettiva, acquistava caratteri non meno politici dell’antropologia filosofica di 102
Las Casas. L’umanista liquidava risolutamente l’elemento emozionale delle argomentazioni dell’avversario come irrilevante. Ciò che contava in un’epistemologia che era indifferente alle ragioni della dignità umana non era il dato esperienziale ma la coerenza argomentativa, la lucidità del processo di analisi, tematizzazione, quantificazione ed espressione. L’unica irruzione in questo circolo autoreferenziale era quella della volontà dell’autorità prevalente, degli interessi consolidati di chi esercitava il potere, personificazione della Provvidenza. Era il suicidio della ragione, lo sprofondamento del pensiero razionale nell’irrazionalismo, nell’egoismo che si autogiustifica, nella filosofia che ha come unico scopo quello di fungere da dolcificante, rendendo appetibile ciò che in precedenza era stato giudicato spregevole, e da solvente di ogni obiezione di natura morale. Ci stupisce la cecità di chi accusava Las Casas di petulante arroganza, senza accorgersi della trave nei propri occhi, un ego dilatato al punto da non saper dire dove finisce il credente e comincia la divinità. Cosa ha a che vedere con l’etica predicata dal Cristo l’ethos del Conquistador, fatto certamente di audacia, disposizione eroica, nobiltà, orgoglio, forte senso dell’onore, lealtà, senso del dovere e del sacrificio, ma anche e soprattutto da un senso di superiorità, da esuberante egotismo, gioia sensuale, disprezzo della mitezza (vista come debolezza), aggressività, ambizione, disciplina, moralismo ipocrita e presuntuoso, energia sovrabbondante e robusta volontà di potere? Molto poco. Anche i tratti che avvicinano questa “moralità dei padroni” a quella cristiana sono indirizzati alla realizzazione di un progetto antitetico a quelli di Gesù il Cristo: umiliare l’umano, addomesticarlo e trascinarlo a fondo. Con tutto ciò, Sepúlveda dava l’impressione di credere che ovunque fossero avanzate le armate spagnole ci poteva solo essere carità ed amore, e quand’anche ciò non fosse accaduto, sarebbe stata solo una questione di tempo, fino a quando non si fosse riusciti a domare la fauna umana locale. Il Conquistador, avendo una sorta di connessione diretta con un imperativo categorico che determinava le sue azioni e la sua visione del mondo, non si sarebbe mai comportato deliberatamente in modo barbaro e crudele e, d’altra parte, non ci poteva essere un bene più grande, per un Servitore della Rettitudine, di una guerra giusta. L’umanista si collocava dalla parte di chi cura l’odio con altro odio. L’uno dibatteva per la schiavitù, per il dominio dell’uomo sull’uomo, per il dispotismo, per l’oscurità, per il passato, e quindi per la tortura, l’inquisizione, la condanna a morte per eresia e persino per reati minori, i pogrom, la caccia alle streghe, le guerre di religione, l’imperialismo, ecc.; l’altro per la libertà, la dignità, l’emancipazione, lo sviluppo umano, la luce. Raramente ci fu una distinzione più netta ed evidente, che fu oscurata solo dalle insistite proteste del teologo e cronista di corte, che non si dava pace di essere mal interpretato, negando di aver mai affermato ciò che aveva dato alle stampe. Las Casas non trascorse il suo tempo nelle biblioteche o con gli agenti immobiliari. Voleva essere a contatto con le persone perché amava sinceramente gli esseri umani. Leggeva sì molto, ma si portava dietro la sua biblioteca personale, per poter essere vicino alle vittime o a chi poteva aggiogare i carnefici. Non fu un uomo perfetto, tutt’altro, ma bisognerebbe apprezzare il bene che fece e non accentuare irragionevolmente le sue debolezze. Fu un essere umano come gli altri e come tale soggetto a miriadi di fallacie e manchevolezze, in un curioso intreccio di astuzia e coraggio, generosità e irascibilità, premura ed irruenza, onestà e tendenza ad esagerare. Quest’ultimo difetto è forse il più 103
scusabile. Quando scrisse la lettera al consiglio delle Indie del 20 gennaio 1531, assicurando che “mai si videro, in altre epoche o presso altri popoli, tanta capacità, tanta disposizione e facilità per questa conversione. (…). Non esistono al mondo nazioni così docili e meno refrattarie, più atte o meglio disposte di queste a ricevere il giogo di Cristo” o quando, nella prefazione alla Relación, insisteva che “tutti questi popoli, innumerevoli e di vario genere, sono stati da Dio creati estremamente semplici, senza cattiveria né doppiezza, obbedientissimi e fedelissimi ai loro signori naturali e ai cristiani di cui sono al servizio; sono i più umili, i più pazienti, i più pacifici e tranquilli uomini che vi siano al mondo, senza astio né baccano, senza liti né violenze, senza rancore, senza odio, senza desiderio di vendetta”, Las Casas sapeva di non potersi semplicemente appellare all’Amore, per non fare la figura dell’ingenuo idealista. Realisticamente, giocò la carta del popolo innocente e puro, che avrebbe quasi certamente avuto più chance di sedurre sovrani e pontefici. Aveva infatti un cervello di prima qualità ed un grande cuore che lo spinsero ad amare e servire gli esseri umani con sincerità, lealtà e tenacia. Fu anche così coraggioso e audace da non rendersi conto di esserlo, e con un tale livello di empatia che non sembra azzardato sospettare che potesse avvertire la sofferenza e l’agonia altrui come se fosse la sua, cioè fisicamente, nella sua pelle e nella sua coscienza; un tratto caratteristico di quelle persone che si fanno influenzare da ogni vita che incontrano e a loro volta la influenzano. Odiava la superficialità e si rifiutava di conformarsi tanto per conformarsi. Assieme alla libertà, un principio particolarmente caro a Las Casas fu quell’indefinibile qualità che gli uomini chiamano giustizia e di cui ancora oggi si sa abbastanza poco. Ma prima di tutto poneva l’amore e la pietà, le uniche virtù che possono realmente migliorare questo mondo. Coerentemente, nel suo Entre los remedios (1542), il domenicano spiegava che non solo non era lecito lasciar morire migliaia di persone per la salvezza di una sola persona, ma anche che la vita di un uomo era più importante della sua stessa salvezza. Siamo ad una distanza siderale dall’altra fazione, quella inebetita dalla mania della ricchezza che si era impossessata di loro, come una malattia, o un caso di possessione demoniaca, incurabile, della quale si sarebbero liberati solo distruggendo se stessi. Quella libera da ogni scrupolo, che si sentiva al di sopra della legge, anzi, che pretendeva di incarnarla, che aveva il diritto di uccidere in quella grande industria del massacro che fu la Conquista, perché aveva il potere di farlo. Nell’Historia Las Casas rovesciò scaltramente le accuse dei Conquistadores: “Di fronte alla nostra smaniosa e incontenibile ansia di accumulare ricchezze e beni temporali, dovuta alla nostra innata ambizione e alla nostra insaziabile cupidigia, questi indiani – lo concedo – potrebbero essere tacciati di oziosi; ma non secondo la ragione naturale, la legge divina e la perfezione evangelica, che lodano e approvano il fatto che ci si accontenti del puro necessario”. Quell’umanità, dicevo, che aveva appreso solo la dottrina dell’odio e della paura e pensava davvero che ci fosse un solo modo per tener buone le persone, terrorizzarle in una misura tale da estirpare l’idea stessa di potersi “comportare male” disobbedendo alle leggi del Nuovo Ordine. “La guerra spagnola – tuonava Las Casas – è violenta e crudele perché non ha alcun diritto di fare le cose profondamente inique e nefande che fa […] Il potere che si acquista con la forza delle armi, è tirannico e violento”. Chiedeva vita, comprensione, carità, bontà per sovrastare la crudeltà e l’odio, come chi ha simpatia per i suoi consimili e che odia la povertà non perché sia povero ma perché altri lo sono. Questo secondo un principio universale ed unificante della moralità 104
umana che esorta alla sollecitudine per ognuno, a prescindere da legami parentali e sociali, al desiderio di recare beneficio, all’avversione al nuocere ad altri, all’attribuzione agli altri dello stesso valore che attribuiamo a noi stessi. Las Casas sapeva, avvertiva nell’intimo, che il futuro sarebbe stato dalla sua parte e che la Corona non avrebbe rivolto il suo sguardo verso il passato. Il Cristo razzista Badate bene, badate bene; perché temo e dubito per la vostra salvezza Bartolomé de las Casas Credo di poter dire che Las Casas sia in errore quando sostiene che “non da altro mossi, i cristiani hanno ammazzato e distrutto tante e tali anime, in numero incalcolabile, non da altro guidati che dalla sfrenata brama di oro, dal desiderio di empirsi di ricchezze e di elevarsi ad alte posizioni, assolutamente sproporzionate alla qualità della loro persona” (Brevissima relazione della distruzione delle Indie). Non dobbiamo mai perdere di vista l’evidenza dei fatti che la Chiesa Cattolica non fu in grado di cancellare le correnti anti-semite e razziste che la percorrevano. Poté solo tenerle sotto controllo. È ben vero che la Spagna, neppure al tempo degli statuti di limpieza de sangre, conobbe un antisemitismo paragonabile a quello più comune nell’Est Europa e che la campagna contro Mori ed Ebrei era guidata da interessi di bottega. Ma è altrettanto vero che il legame tra sangue impuro ed “indesiderabilità” fu stabilito allora, che oltre due terzi degli Ebrei furono espulsi, e che ad Ebrei e conversos fu impedito di migrare nel Nuovo Mondo. E poi c’erano i pogrom, come quello terribile del 1391 che, benché generati dall’inasprirsi delle condizioni economiche dei contadini spagnoli, non possono, a mio parere, essere tenuti interamente distinti da quelli est-europei e nazisti, anch’essi, peraltro, legati alle oscillazioni del ciclo economico ed ai capricci del tempo. A questo proposito, Maurizio Giretti, nella Storia dell’antigiudaismo e dell’antisemitismo, scrive: “L’intolleranza verso le minoranze, ebraica e musulmana, continuò con fasi alterne. I motivi dello scoppio di una sorta di fobia per il diverso si spiegano…con ragioni di ordine politico, di rivalità socioeconomiche, ma anche con una violenta campagna alimentata dai domenicani. Via via che il potere regio per intrinseca debolezza o per spregiudicato calcolo politico allentava la sua protezione, essi aizzavano il fanatismo popolare che poi si sfogava con violenti attacchi contro i quartieri ebraici e musulmani” (Giretti, 2007). Poi, quando Ebrei e Mori si fecero battezzare a migliaia ed ebbero così accesso alle più alte cariche istituzionali, affiorarono le tendenze cripto-razziste. “Tutto si è svolto come se un paese che aveva solo tardivamente preso coscienza di se stesso avesse avuto bisogno di questo elemento negativo – l’ebreo – per scoprirsi e si fosse trovato nella necessità di reinventarlo, una volta espulso o convertito. Senza di che la sua esistenza interna si sarebbe trovata minacciata” (Jean Delumeau, 1979, p. 465). L’anti-semitismo, in Spagna ed altrove, fu il prodotto dell’intersecarsi delle paure ataviche di massa con le paure riflesse, quelle che “sgorgano cioè da un atteggiamento d’indagine sulla sofferenza guidato dai direttori di coscienza della collettività, quindi anzitutto dagli uomini di Chiesa. […] Essi stesero l’inventario dei mali che (Satana) è capace di provocare e la lista 105
dei suoi agenti: i Turchi, gli Ebrei, gli eretici, le donne (specialmente le streghe)” (ibidem, p. 37). Questa fu una modalità di espressione del razzismo biologico. L’idea di razza è un caso di pensiero collettivista, moralmente parassitario. È il rifiuto di immaginare che l’altro, il singolo, possa esistere in quanto tale e non come membro di un qualcosa di più vasto. Prende forma quando la cultura è ridotta alla biologia, resa dipendente da questa, o quando viene essenzializzata ed ogni elemento culturale si auto-giustifica in quanto parte di una tradizione statica. Vi è una negazione categorica della volontà di tollerare ibridazioni e contiguità, della possibilità di contemplare una realtà in cui ogni identità è plurale, porosa, mista, eterogenea e mutevole. Giuliano Gliozzi precisa che “il concetto di razza si presenta non di rado, fino alla metà dell’Ottocento, scevro di molti elementi che caratterizzano il razzismo: o perché l’”altro”, concepito come separato da noi, non per questo è ritenuto inferiore; o perché la sua inferiorità, riconosciuta, è però attribuita a cause esterne rimovibili; o ancora perché, pur attribuendo all’inferiorità un’origine genetica, se ne auspica l’abolizione mediante la miscela razziale”. Nella Spagna della Riconquista e della Conquista questi elementi sono presenti, anche se in una condizione di sudditanza rispetto alla vulgata giuridico-teologica dominante che, per la buona sorte degli autoctoni di quella che diventerà l’America Latina, appoggiava Las Casas. Il razzismo “ispano-americano”, come ogni altro razzismo, passò dalla teoria alla pratica solo in virtù del differenziale di potere tra le parti e, in seguito, della minaccia che i meticci potessero prendere il potere, sostituendo la casta padrona. Fu ostacolato dalla mancanza di un terreno politico e morale favorevole a livello istituzionale, che però non poté impedire che esso fungesse da coagulante per l’identità spagnola nella madrepatria e nel Nuovo Mondo. Di qui la diffusione di pratiche, spesso illegali o comunque ritenute inopportune dalle autorità, di meccanismi di esclusione, dominazione e discriminazione che alla fine permearono la società coloniale. Vale l’annotazione di Alexander von Humboldt: “in Spagna è un tipo di titolo di nobiltà non discendere da Ebrei e Mori. In America, la pelle, più o meno bianca, è ciò che determina la classe che un individuo occupa nella società”. Ora si tratta di capire perché questo problema dovrebbe sollecitare una serie di ponderate riflessioni sulle vicende contemporanee e, in primis, l’appropriazione del Cristo per fini di propaganda politica. Tutto cominciò col contatto. Le relazioni che pervennero in Europa convinsero Hegel che “questi popoli di debole cultura scompaiono quando entrano in contatto con i popoli di cultura superiore e più profonda” e che “gli Americani vivono come bambini che si limitano ad esistere, ben lungi da tutto ciò che rappresenti pensieri e fini elevati” (Hegel, 2003 [1837]). Abbiamo già avuto modo di familiarizzarci con il genere di denigrazioni alle quali erano sottoposti, più o meno in buona fede, i nativi. Lo storico e sociologo cileno Fernando Mires, nel bel In nome della croce (1991), ha raccolto una serie di giudizi crudi e perentori che aiutano a comprende l’infervoramento lascasiano. Juan de Quevedo (1450-1519), il vescovo col quale Las Casas incrociò dialetticamente la spada a Barcellona, inizialmente non era particolarmente entusiasta di evangelizzare i nativi perché “non diventeranno mai uomini…sono convinto che sono nati per la schiavitù e soltanto con essa li potremo rendere buoni. […]. Se in qualche tempo alcuni popoli meritarono di essere trattati con durezza, sono nel presente gli Indios, più simili a bestie 106
feroci che a creature razionali”. Sorprende che la stessa persona che poi aderì alla “crociata” umanitaria di Las Casas, tanto da ottenere la sua approvazione per un progetto di tutela degli Indios, abbia potuto altresì chiedersi “che cosa perde la religione con tali soggetti?” e concludere che senza l’istituto schiavistico “invano si lavorerebbe per condurli alla vita razionale di uomini e mai si riuscirà a renderli buoni cristiani” (Mires, p. 62). Quevedo era un frate francescano e vescovo del Darien (Istmo). Possiamo solo immaginare cosa potessero pensare gli encomenderos. Bernardino Mesa, primo vescovo di Cuba, intravedeva negli indios “tanta piccola disposizione della natura e abitudine che per portarli a ricevere la fede era necessario tenerli in qualche modo in schiavitù, per meglio disporli e per costringerli alla perseveranza, e questo è conforme alla bontà di Dio” (Mires, p. 63). Gli oidores (magistrati) di Santo Domingo, Espinoza e Suazo, non si danno cura di ammorbidire i toni, quando insinuano che “sembra che Dio nostro Signore venga servito meglio da queste genti di indios con il loro completo sterminio, o per i peccati degli antenati o loro, o per altre cause a noi occulte” (op. cit., p. 64). Dal canto suo il francescano Pedro de Azuaga, vescovo di Santiago del Cile, scrive nel “De iure obtentionis regnorum Indiarum questiones tres”: “L’occupazione violenta della Nuova Spagna fu giusta per l’infedeltà e per i vizi dei naturali; era necessario castigare l’ingiuria che questi facevano a Dio con la loro “apostasia”. Si trattava di alberi infruttuosi che dovevano essere tagliati e bruciati. Dal momento che avevano rifiutato l’invito di convertirsi al cristianesimo, la guerra che si fece loro era stata lecita e ugualmente lo sarebbero state le guerre future” (op. cit., p. 64). Infine merita di essere riportata la posizione radicale di un laico, il cartografo e navigatore concittadino di Las Casas Martín Fernández de Enciso (c. 1470 - 1528): “Le conquiste spagnole erano legittimate dalla donazione del pontefice Alessandro VI, che in virtù del suo supremo potere sulla terra, dove occupava il posto di Dio, poteva castigare il peccato di idolatria degli indios – adoratori di dèi falsi con l’oblio assoluto del loro Creatore condannandoli, come in effetti li condannava, alla perdita dei loro regni, a capo dei quali collocava i re cattolici di Spagna, perché questi, con tutti i mezzi a loro disposizione, procurassero la conversione di quei barbari” (op. cit. p. 66). Un’idea di fondo che accomuna questi sproloqui razzisti è quella ottimamente condensata in uno slogan da uno degli antagonisti di Las Casas, il missionario francescano Toribio de Benavente, detto Motolinía: “Vale di più buono per forza che cattivo per volontà”. Credo che all’origine di questa feroce intolleranza vi siano problemi di natura psicologica. Molti Conquistatori, a prescindere dall’estrazione sociale e dalla formazione e professione, sembrano esibire dei tratti abbastanza definiti. Tutto ciò che allietava i pensieri di Las Casas, il calore umano, l’amore, la fluidità delle situazioni, delle personalità, delle identità, il femminile in tutte le sue espressioni, era visto come spiacevole se non addirittura indecoroso. Molti Nuovi Signori non erano preparati per questo ruolo, non sapevano come esercitare il potere con equilibrio e moderazione. Erano tanti ego mascolini che indossavano armature di ferro o di idee fisse, che temevano che una perdita di potere potesse significare la loro disintegrazione e frammentazione. Cercavano solidità nei corpi-macchina, nelle uniformi, nelle spade, nei pregiudizi, della deferenza e nella desensitivizzazione. Las Casas invece, nelle sue visioni riformiste, pensava a strutture sociali senza confini netti, senza gerarchie definite, senza certezze monolitiche (fatta eccezione per la Verità del Cristo), dove Europei ed 107
Americani potessero convivere, amarsi, figliare, apprendere il meglio dell’altro. Il Paradiso Terrestre sarebbe diventato di nuovo realtà. Las Casas preferiva parlare di anime, razionalità e sentimenti, oltre che di giustizia sociale. Anche se si sforzava di accattivarsi le simpatie dei potenti, gli unici che potevano fermare la distruzione delle Indie, diffidava del potere e di ciò che fa agli uomini: “Mai si deve far potere a uomini poveri o avidi che ambiscono solo ad uscire dalla povertà, e molto meno a coloro che anelano, sospirano ed hanno per fine di esser ricchi, poiché la natura mai invano lavora ed opera”. Lui si faceva pecora tra i lupi, i suoi avversari, spesse volte, lupi tra le pecore. Erano ossessionati dal potere ed affascinati dal sangue: “Vedono nel sangue versato il liquido benedetto che permetterà la cristianizzazione del Nuovo Mondo” (Mires, 1991, p. 73). La loro struttura mentale, una miscela di istinto agonistico, intransigente moralismo, razzismo (“nessuna riabilitazione è possibile per certe classi di umani”), nazionalismo (“la Spagna è innocenza e purezza incarnata”) autoritarismo e tradizionalismo (“i reati contro l’ordine coloniale sono crimini contro l’ordine divino; ogni deviazione da questo modello sociale è una caduta nel peccato”), spiace dirlo, fa parte a pieno titolo della nostra natura ed è sempre a disposizione del politico scafato, del leader populista, della dottrina autoritaria, del guru millenarista. Il sangue puro ed il sangue versato dal Cristo nobilitano lo spirito e la Verità si testimonia con il sangue, meglio ancora se quello di qualcun altro. “Tutta la concessione e la sua causa – ricorda Las Casas in una lettera alla Corte del 1535 – dei re di Spagna e del dominio che hanno su queste terre e genti è stata ed è per la loro vita, e per la salvezza e conversione delle loro anime, e sono state invece trasformate in morte molto anticipata e miserabile, e perdizione finale”. In un’altra lettera, questa volta indirizzata al Consiglio delle Indie del 1531, leggiamo: “A quelle misere genti bastava andare all’inferno con la loro infedeltà, poco a poco e da sole, senza che quelli che avrebbero dovuto salvarle, i nostri cristiani, venissero a toglierle dal mondo in così pochi giorni, per sola avidità, con nuove e inaudite maniere di crudeltà e tirannia andandosene così con loro nelle tenebre e nei lamenti senza fine”. Non c’è compassione per gli afflitti, i pagani, i barbari che, in quanto servi disobbedienti del Signore, non hanno diritto di proprietà né sulle loro terre, né sulle loro vite. Nell’Historia Las Casas denuncia questa situazione: “E volevano piena libertà per trionfare sugli indios e su tutta l’isola, su signori e sudditi, per godere nei propri vizi senza che neppure ci fosse chi li moderasse e senza cercare motivi e pretesti per giustificare e dissimulare la loro ribellione, disobbedienza e iniquità”. In verità li cercavano eccome, e per questo “assoldarono” Sepúlveda proprio come una multinazionale stipendia un team di avvocati e di spin doctors (manipolatori di immagini e simboli) per mettersi al riparo dalla giustizia e da un eventuale giudizio negativo dell’opinione pubblica. Il teologo di Cordoba era l’uomo giusto perché credeva nella superiorità morale ed intellettuale di chi comanda. “Se ha raggiunto il potere una ragione ci dovrà pur essere”. Non credeva che tutti gli Spagnoli fossero superiori. Nutriva disprezzo per la plebe ignorante e sordida e non avrebbe sprecato un pensiero per ciò che giudicava volgare. Ma non aveva dubbi che la classe dirigente spagnola fosse la crema dell’umanità del suo tempo. Chi stava in alto non doveva render conto a nessuno delle sue decisioni e chi stava in basso doveva solo obbedire. Leggiamo nel Democrates Alter: “In una repubblica [da intendersi come “società”, “comunità”, NdR] ben 108
amministrata…non sta certo al volgo decidere degli affari di stato…questo deve solo obbedire gli ordini ed i decreti del principe e degli alti magistrati…perché laddove il volgo si arroga l’autorità di ponderare importanti questioni di governo non si ha più una repubblica ma la sua aberrazione; questa forma di governo, detta “popolare”, è sia ingiusta sia deleteria per il bene comune”. Più oltre: “Non c’è nulla che sia più in contrasto con la giustizia redistributiva (contra iustitiam distributivam appellatam) dell’attribuzione di uguali diritti a persone disuguali e della parificazione in favori, onori o diritti di quelli che sono superiori per dignità, virtù e merito rispetto a quelli che gli sono inferiori”. Questa era la sua concezione della società spagnola, figuriamoci cosa pensava dei rapporti tra conquistatori e nativi conquistati. Per loro aveva già in mente “una combinazione di autorità paterna e servaggio, come richiesto dalla loro condizione e circostanze”. E se i nativi se la fossero presa? Improbabile, la felicità non è uguale per tutti. C’è chi è felice quando ordina, perché è stato “creato per comandare” e chi lo è quando è comandato. Ognuno ha un ruolo ed una posizione che gli competono nella gerarchia socio-politica, e questa è determinata dalla natura. Perciò l’indigeno e lo schiavo africano potevano essere quanto e persino più felici dell’encomendero spagnolo e dello schiavista portoghese. Sepúlveda non temeva il risentimento della masse nei confronti dei signori. Las Casas aveva ben compreso il perché di tanta indifferenza. Gli encomenderos seminavano pusillanimità: “Essa è il principale espediente dei tiranni per sostenersi nei loro regni usurpati: opprimere ed affliggere di continuo i più potenti e i più saggi, perché, occupati a piangere e gemere le loro calamità, non abbiano tempo né animo per pensare alla loro libertà, e così si impauriscono e degenerano in animi timidi e paurosi”. Alla fine l’intera società india era ostaggio di una “pusillanimità immensa, scoramento profondo, annichilazione della stima del proprio essere umano, meravigliandosi e dubitando di se stessi, se erano uomini o animali” (Historia). Esseri umani o animali, esseri viventi o oggetti, risorse? La cultura della vita di Las Casas, almeno per quel che è dato di capire leggendo le sue opinioni, trascendeva l’aspetto biologico-organico: “Con l’uomo abbiamo una natura non semplice, bensì composta, ancorché armonica”. Nell’Apologética leggiamo che “Dalla luce impressa nell’animo degli Indios si conosce che vi è Dio”. La cultura della vita di Las Casas valorizzava il reticolo di significati, azioni, pensieri e conversazioni di uomini che “sono fratelli, in quanto figli dello stesso Padre che li [invita] alla sua dimora celeste”. Si riscontra qui il radicale contrasto con chi descrive gli Indios come “non-ancorapersone” che non hanno diritto di parola riguardo alla loro sorte e che se muoiono è per volontà di Dio. Gli Indios erano in parte muti anche per Las Casas, che essendo continuamente in viaggio, aveva rinunciato ad apprendere le lingue dei vari popoli che incontrava. Anche lui metteva parole in bocca agli indigeni senza minimamente sapere cosa avrebbero detto se fosse stato loro concesso di esprimersi nella loro lingua. Eppure gli stessi autoctoni lo nominarono loro rappresentante. Potevano non essere d’accordo con tutto ciò che affermava, ma gli riconoscevano la buona fede e l’impegno generoso. Sapevano che lui amava la vita, inclusa la loro, che parteggiava per eros, che integra ed unisce, contro thanatos, che disgrega, smembra e separa (diavolo viene dal greco diaballein, dividere). Sapevano che lui insisteva costantemente su un 109
punto nodale della sua prassi teologica: il missionario doveva pensare e vivere “come se fosse un Indio”. Un dio implacabile Da queste miti pecore…giunsero gli Spagnoli, che naturalmente furono riconosciuti come lupi. Bartolomé de las Casas Cristo è severo ed implacabile Josef Goebbels Nella sua Apologia, Sepúlveda dichiarava che a Gesù Cristo era stato affidato il potere sui cieli e sulla terra e questo potere era stato poi delegato al suo rappresentante in terra, il pontefice, il quale dunque era sovrano su ogni terra. La sua giurisdizione non si estendeva solamente alla predicazione del vangelo ma anche all’imposizione dell’osservanza della legge di natura a tutti i popoli. Imposizione che, lo affermava esplicitamente, doveva comportare anche le “guerre giuste”, cioè le crociate punitive e redentrici. “La guerra giusta è causa di giusta schiavitù”. Questo enunciato era piuttosto condiviso nell’Europa dell’epoca, tant’è che una parte degli schiavi che vivevano in Spagna erano stati ottenuti combattendo contro i Mori. Ma rimaneva in contraddizione con il messaggio di Cristo e persino Marcelino Menéndes Pelayo, suo traduttore e commentatore, nonché feroce critico di Las Casas, dovette riconoscere che “gli sforzi che Sepúlveda fa per conciliare le sue idee con la teologia ed il diritto canonico non bastano per nascondere il loro strato pagano e naturalista”. Nel 1895 Menéndez Pelayo portò avanti la battaglia di Sepúlveda definendo Las Casas un “fanatico intollerante” e la Brevísima Historia un “mostruoso delirio”. Un suo studente, il filologo medievalista Ramón Menéndez Pidal, era dell’avviso che il domenicano fosse infermo di mente e che gli eccidi dei Conquistadores ai danni di quegli “indios preistorici, residui del Neolitico”, fossero stati giustificati dalla necessità di contrastare le trame di Montezuma. “Possiamo ben credere – scrive Menéndez Pidal, convenendo con l’approccio di Sepúlveda – che Dio abbia fornito chiari indizi del bisogno di sterminare questi barbari, e non mancano dottissimi teologi che tracciano un parallelo con i Cananei e gli Amorrei, sterminati dal popolo ebreo”. A detta di Sepúlveda, “le cause della guerra non nascono dalla probità degli uomini, né dalla loro pietà e religione, ma dai crimini e dalle nefande concupiscenze di cui è piena la vita umana”. Tuttavia, invece di ricavare da questa deduzione una riflessione più generale sulla follia della guerra, come abbiamo visto lo studioso cordobese, esibendo una considerevole dose di cinico “realismo”, stabiliva che la violenza è la fonte stessa del diritto, quando la giudica inevitabile per la pacificazione di popoli che non avevano mai interferito in alcun modo con gli affari europei e che avevano fin da subito preferito le vie diplomatiche rispetto allo scontro frontale. Abbiamo già toccato il tema del carattere autoritario delle passioni civili di Sepúlveda, ma tale è la loro pertinenza ed attualità, che un saggio sulla filosofia morale e l’antropologia politica di Las Casas deve indugiarvi a lungo. Il teologo andaluso era un umanista elitario, uno di quelli che giudica volgare tutto ciò che non è eroico, altolocato 110
ed esclusivo. Tutto ciò che riguarda il volgo è per definizione volgare e indegno della sua attenzione. Se poi questo volgo è somaticamente e culturalmente differente dalla sommità della civiltà europea, l’élite spagnola, come lo sono gli indo-americani che, a suo dire, non conoscono il commercio, la letteratura e la moneta, allora si può ben capire che il suo approccio nei loro confronti non potrà che essere sussiegoso e sbrigativo. Nel Democrates Alter si precisava che gli indiani non dovevano essere oppressi in misura eccessiva perché avrebbero potuto reagire “tentando di disfarsi del giogo spagnolo”. Se era ben vero che gli Spagnoli s’impossessavano del loro oro e argento, era anche vero che in cambio davano ferro, bronzo e animali d’allevamento, più utili agli indigeni. Per non parlare dell’inestimabile dono della dottrina cristiana. Naturalmente è necessario capire che cosa intenda Sepúlveda per dottrina cristiana. È piuttosto evidente che la distanza che separa Las Casas dal suo avversario è la medesima che separa il Vecchio dal Nuovo Testamento. Gesù il Cristo non chiedeva di fare a meno di ciò che era venuto prima di lui – ed infatti Las Casas si affida all’Ecclesiaste ed ai Proverbi – ma è evidente che diversi passaggi dell’Antico Testamento risentono del periodo e delle circostanze in cui furono elaborati e sono incompatibili con il messaggio del Cristo. Così Las Casas accusava il suo contendente di “non aver esaminato le scritture con sufficiente determinazione”. Secondo il domenicano, in quest’epoca di “grazia e pietà”, il suo avversario rimaneva ostinatamente impantanato “nella sua inflessibile applicazione dei rigidi precetti del Vecchio Testamento”, un grave errore ermeneutico che aveva come unico risultato quello di agevolare “l’oppressione, lo sfruttamento e la schiavizzazione di nazioni innocenti”. Diversi studiosi di Sepúlveda hanno provato a minimizzare la gravità di certe sue asserzioni ma se Gesù il Cristo è la fonte teologica più autorevole – “Io sono la Verità” – ed è universalmente risaputo che il suo è un messaggio di amore, tolleranza, sapienza e soprattutto giustizia, allora gli sforzi sepulvediani di realizzare la quadratura del cerchio, trasformando quest’insegnamento in un culto proto-nietzscheano del superuomo e della casta dei signori, non solo non possono essere presi sul serio, ma devono essere contrastati in ogni modo, come fece Las Casas quand’era in vita. Sepúlveda giudicava l’Antico Testamento superiore al Nuovo, perché conteneva leggi la cui solidità aveva permesso loro di pervenire fino a noi, prova del fatto che erano leggi naturali. L’insegnamento di Gesù era complementare; le aveva perfezionate ma non abolite. Erano già buone e naturali di per sé. Le esortazioni di Gesù servivano a migliorare la propria esistenza, ma chiaramente non erano applicabili alla sfera politica. Non è che avesse qualcosa da ridire su di esse, ma non le riteneva vincolanti, perché sarebbe stato impossibile metterle in pratica nella vita reale e perché contravvenivano alle leggi di natura. Infatti nell’Antico Testamento si vedeva chiaramente che agli Ebrei era consentito combattere una guerra quando la legge di natura lo decretava necessario. Poiché le leggi di natura erano state definite da Sant’Agostino come espressione della volontà di Dio, che aveva stabilito che l’ordine naturale doveva essere conservato intatto, allora qualunque cosa fosse compiuta in accordo con la legge di natura sarebbe stata in accordo con l’autorità divina. Si noti che questo tipo di ragionamento, sebbene non applicato al Dio cristiano com’è generalmente inteso, era comune nella Germania nazista. Adolf Hitler si appellava invariabilmente alle leggi naturali decretate dal “Creatore dell’Universo”. Le leggi eugenetiche servivano a plasmare un’umanità quale “l’Onnipotente Creatore stesso aveva 111
creato”. In un discorso del 1922, Hitler definì Gesù “il vero Dio”. In seguito lo chiamò “il nostro più grande leader ariano”. Secondo Hitler il movimento nazista avrebbe completato “il lavoro che Cristo aveva iniziato, ma non poté completare”. Infatti “il vero messaggio” della Cristianità poteva essere trovato proprio nel Nazismo. Cristo aveva combattuto gli Ebrei e loro l’avevano liquidato. La sua religione è la cosiddetta “Cristianità Positiva” ossia il Cristianesimo tradizionale spogliato di ogni cosa che non gli piacesse. La divinità di Hitler non era un deus otiosus ma un dio attivo, chiamato Creatore o Provvidenza che aveva creato l’universo ed un mondo in cui le varie razze dovevano combattersi per la sopravvivenza. Per il Führer, esattamente come per Democrates, uno dei due interlocutori dell’omonimo trattato di Sepúlveda, “i dieci comandamenti sono un codice di condotta irrefutabile. Questi precetti corrispondono agli irrefragabili doveri dell’anima umana; sono ispirati dal migliore spirito religioso”. Anche il sinistro Martin Bormann invocava le leggi di natura, come fonte di verità ed autorità in ogni campo dell’esistenza: “Il potere della legge di natura è ciò che chiamiamo l’onnipotente forza di Dio. […]. Noi Nazional-Socialisti pretendiamo da noi stessi di vivere nel modo più naturale possibile, ossia in accordo con le leggi della vita e della natura. Più precisamente le comprendiamo e vi ci atteniamo, più agiamo nel rispetto della volontà della forza onnipotente”. Heinrich Himmler parlava della volontà del Grande Spirito in toni assolutistici: “Esiste un solo grande spirito e noi individui siamo le sue temporanee manifestazioni. Siamo eterni quando eseguiamo la volontà del Grande Spirito, siamo condannati quando lo contestiamo nel nostro egotismo ed ignoranza. Se obbediamo, viviamo. Lo sfidiamo e siamo gettati nel fuoco inestinguibile”. Adolf Eichmann spiegò al pastore evangelico William Hull, che lo voleva convertire prima della sua esecuzione, che “nella mia concezione, Dio, per via della sua onnipotenza, non è un punitore, non è un Dio irato, ma piuttosto un Dio che abbraccia l’intero universo, l’ordine nel quale sono stato collocato. Il suo ordine regola tutto. Tutto l’essere e il divenire – incluso me – è soggetto al suo ordine”. A mio giudizio la fissazione di Sepúlveda per la legge di natura celava una credenza panteista come quella esplicitata dalle citazioni dei gerarchi nazisti: la credenza in un Dionella-natura onnipotente che libera l’uomo da ogni costrizione morale. Il teologo insisteva con protervia che lui non stava difendendo la schiavitù naturale ma trovava una certa difficoltà nel dimostrare di non essere un fautore di quella civile, per di più semipermanente, e quindi essenzialmente naturale. Provava ad aggirare il problema parlando di dominium, lo stato di subordinazione imposto dai Romani ai popoli assoggettati, ma non nascondeva la sua convinzione dell’esistenza di un “bisogno naturale” che i popoli e gli individui intellettualmente e culturalmente meno dotati si sottomettano volontariamente alla volontà dei più dotati. Necessità che, sempre secondo lui, era suffragata dal parere di Sant’Agostino nella sua lettera al vescovo scismatico Vincenzo, in cui giustificava le maniere forti contro gli eretici: “Ma io penso che sono stati castigati per amore e non per odio. Tu però devi considerare tante persone, il cui ravvedimento ci procura ora tanta gioia. Se infatti ci limitassimo a spaventarli senza ammaestrarli, ciò avrebbe l'apparenza d'uno spietato dispotismo. D'altra parte, se ci limitassimo ad ammaestrarli senza spaventarli, incalliti come sono nella loro inveterata abitudine, comincerebbero ad incamminarsi troppo pigramente sulla via della guarigione. […]. Quando però ad un utile spavento si unisce un salutare insegnamento, in modo che 112
non solo la luce della verità scacci le tenebre dell'errore, ma che anche la forza del timore spezzi i lacci di una cattiva abitudine, allora ci rallegriamo - come ho detto - della guarigione di molti”. Sepúlveda era irremovibile su questo punto: quando gli indiani resistevano alla volontà ed all’autorità degli Spagnoli, si ribellavano alla volontà della natura, e quindi a Dio. Per questo andavano puniti e corretti ed i loro beni potevano essere legittimamente sottratti. Non potevano permettersi di rifiutare i doni degli Europei, cioè i doni di Dio. Altri teologi e politici, come Sepúlveda, ricorrevano alle Sacre Scritture per legittimare la Conquista e la conversione manu militari, citando l’episodio di Gerico, Matteo 10:34 (“Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada”), il già citato Luca 14:23 (“E il signore disse al servitore: Va’ fuori per le strade e lungo le siepi, e costringili ad entrare, affinché la mia casa sia piena”). Las Casas rispondeva accostando il comportamento dei Conquistadores a quello descritto in Zaccaria 11: 4-5: “Così parla l’Eterno, il mio Dio: “Pasci le mie pecore destinate al macello, che i compratori uccidono senza rendersi colpevoli, e delle quali i venditori dicono: Sia benedetto l’Eterno! Io m’arricchisco!”. Citava Isaia 32:17: “Il frutto della giustizia sarà la pace, e l’effetto della giustizia, tranquillità e sicurezza per sempre”. Annunciava sciagure a chi si fosse macchiato di colpe imperdonabili. Rimandava ad Ezechiele 34:2-4, peraltro già usato da Montesinos alla corte di Castiglia: “Guai ai pastori d’Israele, che pascono se stessi! I pastori non dovrebbero forse pascere il gregge? Vi nutrite di latte, vi rivestite di lana, ammazzate le pecore più grasse, ma non pascolate il gregge. Non avete reso la forza alle pecore deboli, non avete curato le inferme, non avete fasciato quelle ferite, non avete riportato le disperse. Non siete andati in cerca delle smarrite, ma le avete guidate con crudeltà e violenza”. Ricorreva a Giacomo 5:1-6: “E ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che vi sovrastano! Le vostre ricchezze sono imputridite, le vostre vesti sono state divorate dalle tarme; il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si leverà a testimonianza contro di voi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni! Ecco, il salario da voi defraudato ai lavoratori che hanno mietuto le vostre terre grida; e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore degli eserciti. Avete gozzovigliato sulla terra e vi siete saziati di piaceri, vi siete ingrassati per il giorno della strage. Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non può opporre resistenza”. Infine, nel suo testamento teologico-politico, Tratado de las doce dudas (1564), pronunciava la condanna definitiva e proponeva a Filippo di abbandonare le Indie: “Hanno gravemente macchiato il nome di Gesù Cristo e la nostra religione cristiana, creato degli ostacoli fatali alla propagazione della fede e arrecato dei danni irreparabili all’anima e al corpo di questi popoli innocenti. E sono convinto che come punizione di tali azioni, empie, scellerate ed ignominiose, tanto tirannicamente e selvaggiamente perpetrate, Dio fulminerà la Spagna con il suo furore e la sua ira”. Las Casas non dubitava della veridicità delle profezie sulla fine del mondo, ma le impiegava con astuzia, perché sapeva che, malauguratamente, le menti semplici di molti Conquistadores erano più facilmente smosse dalla paura piuttosto che dalla compassione e dalla ragione.
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Se ho intrapreso questa ricerca è perché, personalmente, mi trovo più a mio agio con la teologia politica di Las Casas, che prende le mosse dalla realtà della situazione come la vive un popolo, i Nativi Americani nel suo caso, e non un’élite, per poi seguire la strada di un’opzione umanista ed umanitaria più equa, giusta e cristiana di quella che ha sotto gli occhi. L’operazione lascasiana, se messa a confronto con quelle sopra descritte, è altrettanto semplice: si appoggia al Cristo “storico” ed al cristianesimo primitivo per esaltare il punto di vista antropocentrico degli oppressi, non per giustificare gli oppressori. L’opzione di Sepúlveda e di chi fa uso dell’immagine del Cristo sferzante ed implacabile è quella di chi sostiene la bontà e necessità di tendenze esclusiviste, settarie e fatalistiche, di chi proclama l’incommensurabilità, l’irriducibile pluralità e diversità ontologica di culture chiuse, distinte, omogenee e separate, opponendo al diritto all’eguaglianza il diritto ad una differenza gerarchizzata, non equa ed unitaria. Quello che chiamo il “Cristo Implacabile” – una caricatura del Cristo, la sua negazione – è un Crociato Cosmico che persegue gli interessi suoi e dei suoi fedeli a discapito dei diritti umani e che assegna le persone al posto che gli spetta nell’ordine naturale e sociale, sulla base di arbitrarie attribuzioni di valore intrinseco. È un Cristo inestricabilmente associato ad un peccato originale onnipotente ed insopprimibile, al mito dell’immutabile natura ferina ed egoistica umana che ne determina le azioni, e della vita come carosello di iniquità, ingiustizia e violenza. Dato questo stato di cose, gli avversari di Las Casas insistevano sulla necessità di plasmare la cristianità in una religione di stato, una religione civile che ingiungesse ai cittadini il retto sentire ed il retto agire, in accordo con la natura e con gli interessi di un Impero sacralizzato. Chi invece si schierava con Las Casas era ricattato moralmente, esposto alla riprovazione di chi lo accusava di essere un egoista, un folle e un traditore del bene comune, con un livore che non scema neppure dopo diversi secoli. Ancora nel dopoguerra Ramón Menéndez Pidal tacciava Las Casas di paranoia: “Non era né santo, né impostore, né malevolo né folle; era semplicemente un paranoico”. Il Cristo di Las Casas è un Cristo d’Amore. Per lui che l’indio sia cristiano o meno fa sempre parte del corpo di Cristo. Al licenziato Aguirre, un suo ammiratore, confida: “Ho lasciato, nelle Indie, Gesù Cristo flagellato, tormentato, sferzato e crocifisso, non una, ma milioni di volte”. Coerentemente, sostiene che i non credenti possono comunque essere attivi partecipanti nel corpo di Cristo attraverso la grazia salvifica di Dio che è presente in ogni essere umano. L’Indio è Gesù Cristo, lui stesso è Gesù Cristo e chiunque faccia qualcosa a loro lo fa a Cristo (Matteo 25, 40). È un ritorno alla paleocristianità, la cristianità delle origini, quella di Alessandria, di Clemente e di Origene, quest’ultimo una figura grandemente ammirata da Erasmo da Rotterdam. Las Casas non cita Origene, perché è un gigante del pensiero cristiano che, con il passare del tempo, è diventato scomodo. Compenetra il pensiero di molti riformatori cristiani, ma lo si cita di rado, per evitare di mettersi nel mirino dell’Inquisizione. Las Casas preferisce ritorcere contro i detrattori degli indo-americani i versi più forti del Vangelo, come quando cita il commento di Sant’Agostino a Matteo 25: “se il fuoco eterno è il premio per chi ha visto Gesù nudo e non lo ha coperto che posto all’inferno sarà riservato per quelli a cui è stato detto “ero vestito e tu mi hai spogliato”?” Il sivigliano, ormai cittadino del mondo, ritiene che se uno vuole seguire l’insegnamento di Cristo lo deve fare fino in fondo, non accontentarsi di verità parziali, ma prendere a modello chi ha incarnato la Verità. Il che 114
però non impediva agli altri credenti della Conquista, quelli più “agguerriti” e meno tolleranti di prenderlo a modello solo per quel che li autorizzava a piegare l’indio alla loro volontà. È qui che Bartolomé non sente ragioni. Lui vede il nativo, l’altro, come uno dei poveri del vangelo, come Cristo stesso, appunto, e vede nei Conquistadores i suoi persecutori: “Quando predichiamo agli Indiani l’umiltà e la povertà di Gesù Cristo, e come ha sofferto per noi, e come Dio ha a cuore i poveri e gli ultimi, loro pensano che stiamo mentendo”. L’unica condotta moralmente degna diventa allora quella di Mosé; si deve sfidare l’ira del faraone per liberare il suo popolo dalla schiavitù, un paragone che ricompare più volte negli scritti lascasiani. Realizzare un mondo di libertà e giustizia, questa era, secondo Las Casas, la volontà di Dio, il cui figlio “non era morto per l’oro”. Altri, come Sepúlveda, prediligevano un mondo di obbedienza e sudditanza, di avidità e sopraffazione, in cui l’uomo “infine è prigioniero e schiavo del denaro, e deve fare quel che gli comanda il suo padrone, è sempre preoccupato e diligente e si impegna per essergli gradito e ricercarlo, poiché da lui si attende ogni conforto, il suo bene, al fine dei suoi desideri e tutta la sua beatitudine” (Las Casas, El octavo remédio). Il loro era un dio diverso, non certo quello di cui parla Gesù il Cristo e che Cristoforo Colombo aveva voluto far conoscere in America. Per Las Casas Colombo era un uomo della Provvidenza. Lo indicava il nome stesso – “Ma quell’uomo illustre, rinunciando al nome consacrato dall’uso, volle chiamarsi Colón, ripristinando il vocabolo antico, non tanto per questa ragione, ma in quanto mosso, dobbiamo credere, dalla volontà divina che lo aveva prescelto per realizzare ciò che il suo nome e cognome significavano. [...] Per questo egli era chiamato Cristóbal, cioè Christum ferens, che vuol dire portatore di Cristo, e così firmò molto spesso; perché, in verità, egli fu il primo a schiudere le porte del mare Oceano per farvi passare il nostro Salvatore Gesù Cristo, fino a quelle terre lontane e a quei regni fino ad allora sconosciuti. [...] Il suo nome fu Colón, che significa ripopolatore; un nome che ben si conviene a chi, con i suoi sforzi, ha permesso che fossero scoperti quei popoli, quelle innumerevoli anime che, grazie alla predicazione del Vangelo, [...] sono andate e andranno ogni giorno a ripopolare la città gloriosa del Cielo” (Historia, I, 2). Invece Hernán Cortés e quelli come lui erano messaggeri di rovina, iniquità ed ignominia. L’unica maniera di fermarli, come raccomandava nel Dell’unico modo di attrarre tutti i popoli alla vera Religione, era sforzarsi di “vivere una vita pura e santa, essere di esempio con le proprie parole, maniere, carità, fede, castità, di modo che nessuno abbia a disprezzare [noi predicatori]”. Non basta chiamarsi cristiani per esserlo. Un autentico cristiano è uno che si comporta come tale, non come un automa, una macchina, o un lupo travestito da agnello. Uno che ripudia le guerre e le torture, non le considera strumenti per esportare fede e “democrazia”, visto che la fede, come ripete Las Casas, proviene da dentro di sé, da una mente e da un cuore che si aprono a Dio, e non può in alcun modo essere imposta dall’esterno. La fine dei tempi Se questo è il tempo della Salvezza nascosto nei secoli passati, come ha detto l’Apostolo, perché si tramuta in un tempo di tribolazione, vendetta, ira, afflizione, dissipazione, crudeltà e morte? Lettera di Las Casas al Consiglio delle Indie, 1531 115
Gesù Cristo non ha fissato un limite di tempo per la conversione degli uomini, ha lasciato loro tutta la vita Bartolomé de las Casas Il già citato Motolinía, uno dei primi dodici missionari a raggiungere le Americhe, in una lettera a Carlo V del 1555, interpretava la Conquista del Messico come l’avvento del quinto regno, o quinta era della storia umana, preludio alla parusia del Cristo. Un regno che riempirà di sé l’intero pianeta e di cui l’imperatore sarà leader (caudillo) e capitano. Nella lettera il missionario implorava l’imperatore di “impiegare tutta la diligenza possibile” affinché questo regno si realizzi. Anche Bartolomé de las Casas credeva che il Giudizio Universale fosse ormai alle porte. Inoltre, lo abbiamo appena visto, era persuaso che Cristoforo Colombo fosse l’Uomo della Provvidenza che aveva raggiunto la Terra Promessa – “scelse il divino e sommo maestro tra i figli di Adamo che in questi nostri tempi vivevano sulla terra, quell’illustre e grande Colombo, al quale affidare una delle più egregie imprese che in questo secolo volle nel suo mondo fare” (Historia de las Indias). Ne era persuaso perché sia lui sia Colombo, del quale era un sincero ammiratore, avevano ricavato dalla lettura della Bibbia l’impressione che Isaia aveva profetizzato la scoperta dell’America. Per l’Ammiraglio, l’America era Ofir, la sede delle famose miniere di re Salomone. “La scoperta delle nuove terre è, per Colombo, un evento previsto e profetizzato nelle scritture sacre. La predicazione del vangelo si estenderà finalmente a tutto il mondo e l’opera degli apostoli sarà completata grazie agli strumenti che la provvidenza divina ha preparato a tale scopo: in primo luogo lui, Colombo, e i sovrani di Castiglia e d’Aragona. A questi ultimi è riserbata la conquista di Gerusalemme e l’universale conversione delle genti al cristianesimo. In questo modo si manifesta la volontà divina di abbreviare i tempi dell’ultima fase della storia del mondo, risparmiando sofferenze agli eletti secondo la promessa evangelica” (Prosperi, 1976, p. 7). Per Las Casas l’undicesima ora del mondo era scoccata proprio grazie a Colombo ed ora la Spagna poteva recitare una parte decisiva nel dipanarsi della missione di Cristo, in vista del kairos apocalittico, il tempo di Dio. “È cosa di certo credibile che [il papa] rendesse lodi e ringraziamenti immensi a Dio, datore dei beni, perché nei suoi ultimi giorni aveva visto aperto il cammino per il principio dell’ultima predicazione del Vangelo e per l’appello o conduzione degli operai oziosi alla vigna della Santa Chiesa, già alla fine del mondo, che è, secondo la parabola di Cristo, l’ora undicesima” (Historia). Malauguratamente, come si rese presto conto, il “popolo eletto” spagnolo, invece di facilitare la redenzione dei nativi e la salvezza del genere umano, stava trasgredendo la sua missione. Allo stesso tempo, non esitava a suggerire l’ipotesi che molti degli eletti da Dio sarebbero stati indo-americani. “E potrà essere che costoro, che in tanto disprezzo abbiamo avuto, si trovino, più di noi, nel giorno del giudizio alla destra del Padre; e questa considerazione dovrebbe mantenerci notte e giorno in gran timore” (Historia). Di conseguenza tutti gli indigeni dovevano essere rispettati e tollerati, anche solo per evitare il rischio di ferire o uccidere uno degli eletti. Queste sue convinzioni spiegano però solo in parte il suo attivismo solidaristico. In nessuno dei suoi scritti dà l’impressione di essere stato condizionato da questa credenza, 116
peraltro molto diffusa negli anni della Scoperta dell’America e capace di affascinare persino Newton, uno dei patroni della scienza moderna. Las Casas non fa quello che fa perché anela lo scontro finale tra il bene e il male, una trasformazione epocale che premi gli eletti e danni i malvagi. Non crede che il mondo stia inabissandosi nel peccato, nella corruzione, nell’abiezione. Non crede che un Dio castigatore sia in procinto di prendere il controllo della situazione ormai sfuggita di mano agli esseri umani. Las Casas ha fiducia nella sua specie, ha fiducia nel potere dell’educazione e del Verbo. La sua visione del mondo e della storia umana, anche dopo aver assistito a stragi e persecuzioni, rimane angelica, non catastrofista. Vede, soffre e denuncia le malefatte dei singoli, senza fare di tutte le erbe un fascio. Non giudicando il mondo ormai al di là di ogni possibile redenzione, non auspica l’impiego di misure terribili e tracotanti, conseguenti alla “corrispondenza automatica tra massimo grado di abiezione e massima probabilità della sua eliminazione” (Placanica 1990). È un gradualista. Sa che tutto cambia, che le persone maturano e così le civiltà e che la rivelazione cristiana fa sì che tutto ciò che è accaduto prima e dopo l’avvento di Cristo sia progresso spirituale, morale e civile. La violenza sarebbe controproducente, giacché “il movimento o modo con cui la divina sapienza guida tutti gli esseri creati, e soprattutto gli esseri razionali, al conseguimento del loro bene naturale o soprannaturale, è dolce, delicato e soave. Quindi il modo di chiamare gli uomini al seno della vera religione, mediante la quale devono raggiungere il bene soprannaturale eterno, deve essere un modo delicato, dolce e soave, in una misura molto maggiore di quello del modo che corrisponde agli altri essere della creazione” (Dell’unico modo). Paradossalmente, per uno che crede nell’imminenza della fine dei tempi, la mentalità lascasiana è anti-catastrofista. Laddove il catastrofista vede solo un mondo dominato dalle forze del Male e si affida alla speranza, alla fiducia, all’obbedienza ed all’attesa come unica via di salvezza per se stesso, lui insiste che il progresso umano non può essere slegato dalla razionalità, dalla comprensione e soprattutto dalla collaborazione. Nel summenzionato manuale di evangelizzazione, precisa che “portare gli uomini alla conoscenza della fede e della religione cristiana è simile al modo di portarli alla conoscenza della scienza” e che il predicatore non può permettersi di razzolare male: “La predicazione sia perlomeno utile ai predicatori”, affinché l’evangelista offra un modello di comportamento ed “insegni più con le sue opere che con le parole”. L’apocalittico fornisce un’interpretazione del male del mondo e del destino umano che in fondo solleva gli uomini da ogni responsabilità e giustifica l’immobilismo. Las Casas ripudia questa visione cripto-gnostica: ognuno farà semplicemente quel che è chiamato a fare, indipendentemente da ciò che accadrà al pianeta ed all’umanità nell’approssimarsi del giudizio universale. “Qualunque nobiltà, qualunque eccellenza e virtù che in qualunque cosa creata per i segni divini si trova, non è altra cosa…se non un vestigio e impronta molto sottile della divina perfezione” (Apologética Historia). Il Dominio - l’America, Sepúlveda e l’Armageddon Fanno libagioni in onore di Baalí, cioè dell’idolo peculiare di quanti si comportano in quel modo e che li domina, li tiene in soggezione e li possiede; è questo, in altre parole, il desiderio di dominare, la 117
smisurata ambizione di ricchezze che non è mai sazia e mai finisce, e che è anch’essa idolatria. Perché – secondo san Girolamo – Baalí significa il mio idolo, colui che mi possiede. Tutto ciò si addice a ogni ambizioso, o avido o avaro e, in particolare a simili predicatori, o piuttosto a questi miserabili e infelici tiranni Bartolomé de Las Casas (Dell’unico modo). Negli ultimi decenni ogni sondaggio effettuato negli Stati Uniti indica che oltre il cinquanta per cento dei cittadini americani crede nella veridicità della visione contenuta nell’Apocalisse di Giovanni. La politica mediorientale degli ultimi anni è stata fortemente condizionata dall’attesa dell’Armageddon, del ritorno del Cristo o del Mahdi e dell’instaurazione del suo Regno. “Fedele alle dottrine apocalittiche dell’ayatollah Mesbah Yazdi, il presidente [Ahmadinejad] si dice convinto che l’era dell’ultimo Imam, il dodicesimo Imam messianico, il Mahdi occultato da Dio per oltre 1100 anni stia per riaprirsi, con il ritorno del Mahdi. Tutte le apocalissi, anche quelle ebraiche e cristiane, sono rivelazioni che presuppongono tempi torbidi, in cui il male s’intensifica. Anche per la scuola Hakkani, che Yazdi dirige e cui appartengono gli Hezbollah iraniani, il male va massimizzato per produrre il Bene finale. L’ayatollah ha insegnato a Ahmadinejad l’uso del messianesimo a fini politici, non teologici. I politici messianici in genere parlano di Apocalisse non perché credono nella Rivelazione, ma perché nell’Apocalisse il dialogo con Dio è diretto (nell’Apocalisse di Giovanni scompaiono i templi) e il capopopolo non ha più bisogno del clero come intermediario. L’apocalisse serve a escludere il clero dalla politica e forse anche la religione” (Spinelli, 2009). Un analogo messianismo, formalmente cristiano ma nei fatti anti-cristiano, ha dominato la destra americana dai tempi della prima guerra nel Golfo ed è andato al potere con George W. Bush. È piuttosto curioso che gli Stati Uniti siano attualmente l’unico paese al mondo assieme all’Iran sciita dove sia sorto un millenarismo di massa (Tonello, 1996). Ma non sorprende che siano anche la nazione, assieme alla Germania, dove la caccia alle streghe è stata più intensa e dove il maccartismo è riuscito per un attimo a far precipitare una democrazia trionfante in una società di delatori, persecutori e vittime. Nella sua forma più virulenta, chiamata Dominionismo, quest’ideologia intollerante e radicale si affanna a conquistarsi margini di potere politico ed economico sempre più ampi, fino a trasformare gli Stati Uniti, per il momento uno stato laico, in una “nazione cristiana” – una sorta di “democrazia Herrenvolk”, della stirpe eletta –, modello per tutte le altre nazioni, in cui ogni istituzione sarà governata in accordo con le Sacre Scritture, o comunque con un’interpretazione dominante delle stesse. Al momento attuale oltre 35 milioni di Americani (più di uno su dieci), aderiscono al “cristianesimo dominionista”, un’escatologia che insegna che il mondo si riscatta “sporcandosi le mani” con la politica, cioè prendendo il potere, prima dell’arrivo del Cristo. L’elezione di George W. Bush ha rappresentato per la Teologia del Dominio un segno del favore divino, il primo di una serie di presidenti che, da “ministri di Dio in terra”, avrebbe preparato l’America al ritorno del Cristo. Gli obiettivi di questa teologia politica non hanno quasi nulla a che fare con quello che molti pensano sia l’insegnamento di Gesù il Cristo. Si parla di edificare una teonomia (ossia non una teocrazia ma una repubblica governata non 118
direttamente da Dio, ma secondo le sue leggi), di sopprimere sindacati, diritti civili, lo stato sociale (perché ci si deve rivolgere a Dio, non a Washington), le scuole nonreligiose, di punire i nemici dell’America, che sono per definizione nemici di Dio, di ridimensionare l’influenza delle donne nella sfera pubblica americana, negare la cittadinanza ai non-Cristiani, discriminare gli omosessuali. È bene segnalare che la presidenza di Ronald Reagan fu caratterizzata dalla sensazione di un imminente Armageddon, tanto che il movimento ecologista si sentì rispondere che non aveva senso preoccuparsi dell’ambiente visto che il mondo sarebbe terminato prima che le sue risorse si fossero esaurite. Sono gli stessi argomenti messi in campo negli ultimi anni dai Dominionisti che, anzi, si augurano che la crisi ecologica globale riduca i tempi di attesa del Regno di Dio (Hendricks, 2005). Il bersaglio è la società laica, che facilita le opere di Satana. Abbatterla significa fornire assistenza a Gesù, che presto tornerà a regnare e si aspetta che la Nuova Israele sia governata secondo le leggi bibliche e gli editti cristiani – Sola scriptura, Sola gratia, Sola fide, Solus Christus, Soli Deo Gloria, cioè i cinque sola della riforma protestante – del nuovo presidente, come da ingiunzione di San Paolo nella Lettera ai Romani (13: 1-6): “Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono si attireranno addosso la condanna. I governanti infatti non sono da temere quando si fa il bene, ma quando si fa il male. Vuoi non aver da temere l’autorità? Fa il bene e ne avrai lode, poiché essa è al servizio di Dio per il tuo bene. Ma se fai il male, allora temi, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi opera il male. Perciò è necessario stare sottomessi, non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza”. I Dominionisti, che organizzano campi di addestramento per giovani militanti e milizie di mercenari come la famigerata Blackwater (oggi Xe Services LLC) e sostengono i teorici della tortura giustificata e della Guerra al Terrore permanente, appoggiano con tutta la loro forza mediatica e lobbistica ogni pretesa sionista. Questo perché credono che il loro “Cristo-Rambo” vendicativo e giustiziere non possa tornare sulla terra prima che si compia la profezia dell’Apocalisse e si verifichi l’Armageddon, la distruzione di Israele; un secondo Olocausto in seguito al quale i veri Cristiani ascenderanno al cielo (The Rapture) e siederanno al fianco di Dio (assieme agli Ebrei che si saranno sinceramente convertiti e dunque si salveranno prima della loro eliminazione). È decisamente sorprendente che la destra sionista israeliana accolga con favore questo sostegno. D’altra parte le colombe, in Israele, sono spesso considerate alla stregua di traditori. Il Dio compassionevole e benevolo che parla per bocca del Cristo nel Discorso della Montagna è eclissato, esiliato. Non c’è posto per miti e mansueti, per giusti e misericordiosi, per puri di cuore e pacifisti. Oggi come ai tempi della Conquista, quando Hernán Cortés, citato da Sepúlveda nella sua Cronica Indiana, si rivolgeva alle sue truppe con queste parole: “Spesso io stesso ho rimuginato nei miei pensieri tali difficoltà e confesso che alcune volte questo pensiero mi rendeva vivamente inquieto. Però riflettendo da un altro punto di vista, mi vengono in mente molte cose che mi rianimano e mi stimolano. In primo luogo, la nobiltà e la santità della causa; infatti combattiamo per la causa di Cristo quando lottiamo contro gli adoratori degli idoli, che proprio per 119
questo sono nemici di Cristo, dal momento che adorano demoni malvagi invece del Dio della bontà e onnipotenza, e facciamo la guerra sia per castigare coloro che continuano nella loro ostinazione, come per permettere la conversione alla fede di Cristo di coloro che hanno accettato l’autorità dei cristiani e del nostro Re”. Ancora una volta è Sepúlveda ad offrire un ritratto articolato, accurato e completo delle radici storiche e dottrinali del dominionismo e della sua vocazione alle guerre giuste e preventive. Nella sua logica circolare autoreferenziata – le premesse contengono in sé le conclusioni – non c’è nulla che sia più in armonia con la legge naturale che sforzarsi in ogni maniera di impedire a chi intende negare le gerarchie e l’ordine naturale delle cose decretato da Dio di mettere in pratica le proprie intenzioni. In questo caso la guerra non è solo permessa, ma necessaria. Infatti non contravviene alla legge divina quando la si fa per una giusta causa, e non c’è, appunto, miglior causa di quella di difendere i disegni della Provvidenza. Così non ci può essere vera pace ed armonia, non ci può essere un mondo privo di armi, finché l’iniquità e la malvagità non saranno bandite dai cuori dei violenti, siano essi compatrioti o stranieri. Fino a quel momento i giusti dovranno combattere guerre giuste per consentire ai loro discendenti di vivere in pace, virtù ed equanimità. Nel caso degli indios, “per mezzo di una guerra giusta cerchiamo anche di istituire un imperium su quelli il cui benessere ci sta a cuore, affinché i barbari – una volta che siano stati privati della licenza di peccare, che le loro consuetudini contrarie alla legge di natura siano state estirpate e che siano stati esortati a seguire uno stile di vita più umano attraverso un governo civile – siano mantenuti entro i ragionevoli limiti dei loro doveri”. Gli stessi schiavi africani dei Portoghesi vivono in una condizione migliore di prima. All’inizio non se ne sono resi conto, ma i teologi sanno che certe misure vanno prese per il loro bene, anche contro le loro resistenze, perché non ci si deve impensierire troppo riguardo agli empi desideri dell’uomo. Ciò che davvero conta è la recta ratio. Lo sostiene anche il Deuteronomio (20: 10-15): “Quando ti avvicinerai a una città per attaccarla, le offrirai prima la pace. Se accetta la tua offerta di pace e ti apre le sue porte, tutto il popolo che vi si trova pagherà i tributi e ti servirà. Ma se non vuole far pace con te e ti vuole far guerra, allora la stringerai d’assedio. Quando poi l’Eterno il tuo Dio, te la darà nelle mani, passerai tutti i maschi a fil di spada; ma le donne i bambini, il bestiame e tutto ciò che sarà nella città, tutto quanto il suo bottino, li prenderai come tua preda; e mangerai il bottino dei tuoi nemici che l'Eterno, il tuo Dio, ti ha dato. Così farai per tutte le città che sono molto lontane da te e che non sono città di queste nazioni”. L’umanista chiosa che “è assolutamente chiaro che per legge naturale e divina quelli che combattono una guerra giusta possono uccidere il nemico, spogliarlo delle sue proprietà, metterlo ai ceppi, distruggere i suoi villaggi e città, devastare i suoi campi ed infliggere ogni tipo di calamità su di lui finché la vittoria non sia assicurata; dando per scontato, naturalmente, che tutto ciò sia fatto con le migliori intenzioni e con la pace come obiettivo ultimo”. Successivamente, Democrates, l’alter ego di Sepúlveda, che non fa distinzioni tra indigeni pacifici e bellicosi in quanto sono comunque tutti idolatri e cannibali, mitiga questa posizione, precisando che non ha senso opprimere ed indebolire fatalmente i propri sudditi. Sarebbe svantaggioso nella logica di una politica coloniale a lungo termine. L’importante è asservirli, il che è nell’interesse di entrambe le parti. 120
Leopoldo, l’interlocutore, si chiede che cosa intenda Democrates con l’espressione servi natura. La risposta è che quando un popolo si rifiuta di assolvere i suoi obblighi naturali allora può essere sottoposto ad una guerra giusta e diventare bottino. I vinti saranno convertiti in “stipendiares et vectigales” (stipendiari e tributari), “come si conviene alla loro natura e condizione”. Il solito vezzo dei parallelismi con i precedenti d’epoca romana, unito ai cavilli da leguleio che oscurano ciò che altrimenti sarebbe ovvio. Il “diavolo” ha molti causidici e pennivendoli, la verità molti nemici. Quel che sorprende è che questo ragionamento palesemente fallace sia stato ritenuto degno di udienza e considerazione. Riflettiamo bene su ciò che si sta affermando. Il fondamento giuridico della guerra giusta e dell’asservimento degli indiani deriva dall’atto stesso di combatterli e sottometterli. Infatti se non si ribellassero non ci sarebbe bisogno di ucciderli ed imprigionarli. Se collaborassero spontaneamente non si dovrebbero costringere a servire nelle encomiendas. Ma poiché la loro stessa esistenza è un’offesa all’ordine naturale, un attacco alla volontà di Dio, allora la guerra imperialista è una guerra difensiva e perciò giusta. Allo stesso tempo, però, la resistenza degli Indiani agli invasori non è una guerra giusta ma una motivazione aggiuntiva e decisiva per la loro conquista e soppressione. È arduo capire come ci sia chi stima un pensatore che adorna edifici speculativi fondati su premesse così manifestamente insostenibili e mistificatrici, o per meglio dire tragicomiche. Ancora una volta, l’enfasi su ciò che è normativamente permissibile adombra ciò che è eticamente buono. Qui però manca persino la coerenza argomentativa della filosofia analitica; la stessa pretesa tipica del realismo di stabilire cosa sia naturale e quindi corretto era contestata già a quei tempi. Nell’apologia dello status quo di Sepúlveda, poco importa che ne sia consapevole oppure no, c’è l’idea che gli indiani non abbiano diritti perché questi sono il frutto delle predilezioni della civiltà più avanzata. Il resto sono superstizioni oppure consigli evangelici per una condotta di vita più soddisfacente. Non esistono diritti naturali per chi si oppone alla natura, ossia all’interpretazione che di essa ne danno i vincitori. Il diritto è l’espressione oggettiva degli interessi consolidati e della volontà di potenza della civiltà che prevale; e questa è la pragmatica sorgente della morale egemone, o per meglio dire unica. Nessuna metafisica, nessuna trascendenza, se non un conveniente riferimento ad un Dio creato ad immagine e somiglianza di chi deve giustificare un crimine di massa. Solo l’utilità sociale. Le buone leggi imposte dai conquistatori renderanno buoni i colonizzati e ciò andrà a vantaggio di tutti. Una realtà multidimensionale è ridotta alla sua forma bidimensionale. Sepúlveda se la prende con i suoi critici, specialmente con Las Casas, accusandoli di ipocrisia, ignoranza, parzialità e presunzione, ma è indiscutibile che le sue argomentazioni danno adito al sospetto che stia difendendo pregiudizi o compiacendosi di sfoggiare erudizione, o il presunto coraggio intellettuale del sedicente pensatore serio, quello vero, quello che non si ferma davanti a nulla quando pensa, che non ha paura delle conclusioni alle quali perviene, per quanto queste possano sembrare spiacevoli. Quello che dice pane al pane e vino al vino e che se c’è da dire che una parte dell'umanità è indecorosa e incompatibile con la legge naturale non si ritrae. Insomma uno scanzonato eroe del libero pensiero che si lamenta di essere vittima di una congiura di malevoli. 121
Non che peraltro qualcuno l’abbia costretto a pensare ciò che ha pensato e renderlo pubblico. Si badi bene, non ha offerto alcuna resistenza e l’unico suo cruccio pare sia stato l’accoglienza non particolarmente positiva che le sue idee hanno ricevuto in certi ambiti accademici. È più probabile che abbia provato il piacere iconoclasta prodotto da ciò che è “fascinosamente trasgressivo”, mentre si spacciava per un pensatore integro e realista. In realtà l’utilitarismo militante di Democrates sfocia nel relativismo, nell’indifferenza verso ciò che è giusto e ciò che è bene. Bene è relativo a ciò che è utile al più forte. La Conquista è moralmente giusta, in accordo con la recta ratio, e serve solo qualcuno che sappia massaggiare le opinioni di alcuni notabili e studiosi e di una parte del clero per rendere il tutto accettabile, anzi appetibile. La filosofia di Sepúlveda, che non è amore per il sapere ma “amore” per l’erudizione – quella passione tirannica che antepone le idee agli esseri umani –, è giustificativa, funge assieme da solvente, diluente e dolcificante che dovrebbe gradualmente produrre un ampio consenso: quel che è reale è razionale e quel che è razionale è morale. Ritroviamo il piglio fiero e superbo del Grande Inquisitore, il perfetto realista giuridico-politico, che ci assicura che (a) esistono dei fatti inconfutabili a proposito della natura umana e degli esseri umani, e quindi degli indios e degli spagnoli; (b) gli indios sono barbari e di conseguenza le loro azioni sono essenzialmente immorali o amorali; (c) non sono neppure capaci di soddisfare le proprie esigenze primarie ed interessi principali; (d) fortunatamente nella loro semplicioneria questi indigeni sono manipolabili (non godono di un vero e proprio libero arbitrio, è al di là della loro portata); (e) il potere conferisce il diritto, la legge sta dalla parte di chi ha il coltello dalla parte del manico, che ha il diritto di stabilire cosa sia congruente con il mondo in cui desidera vivere; (f) la giustizia non è altro che l’interesse del più forte che è evidentemente benvoluto e prescelto da Dio per portare avanti i suoi progetti terreni. Leopoldo azzarda una domanda: non è per caso possibile che la ragione stia da entrambe le parti e non sia assoluta? Democrates opina che non si dà mai il caso in cui le ragioni di entrambi siano simultaneamente giuste. Quel che avviene, invece, è che una parte, accecata dall’ignoranza, crede di essere nel giusto, ma si sbaglia. Democrates non è neppure sfiorato dall’idea che quella parte possa essere la sua. È nel giusto per definizione, perché la sua interpretazione delle leggi di natura e del volere divino è manifestamente corretta. La risposta lascasiana a questo genere di invasamenti castigatori è stata, e non potrebbe essere altrimenti, un richiamo all’esempio di Gesù il Cristo, che non ha chiesto sacrifici, ma misericordia (Matteo, 9:13), e non ha mai parlato di punizioni terrene: “Cristo non stabilì alcuna pena corporale per castigare in questo mondo, nemmeno per gli uomini che non accettassero la sua fede, cioè quelli che non credessero, bensì una pena eterna dopo questa vita” (“Dell’unico modo”). Il chierico, che come abbiamo visto al Vecchio Testamento preferisce il Nuovo, rifiuta la violenza che non sia puramente difensiva. Nell’opera succitata non lascia spazio ad equivoci: “[La guerra] è come un uragano e come un oceano, che tutto invade e distrugge. Essa apre la via alle azioni depravate, eccita odi e rancori. I poveri non hanno più nulla; i ricchi sono spodestati. Tutto si riempie di timore, le leggi sono abolite; ogni sentimento umano sparisce; non c’è più equità e religione; sacro e profano si confondono. Cos’è la guerra se non un omicidio?...è perdita delle anime, dei corpi e delle ricchezze”. Quanto alla conversione 122
coatta: “Il modo consistente nell’assoggettare i popoli infedeli per mezzo della guerra perché in seguito ascoltino la predicazione della fede e abbraccino la religione cristiana è contrario al modo che seguirono gli antichi santi padri in tutte le età, dalle origini del mondo fino alla venuta di Cristo. […] [La guerra] è contro il diritto divino…che non soltanto proibisce di provocare la morte del nostro prossimo, e principalmente degli innocenti; ma impone anche che non lo spogliamo dei suoi beni…che non lo calunniamo né lo opprimiamo; che non rendiamo testimonianza contro la sua vita; che non prendiamo ciò che è suo con la violenza”. E ancora: “[la guerra è sbagliata] perché distrugge la fede dovuta a Dio…ponendo ostacoli alla stessa pietà divina, all’onore e al culto divini, che si accrescerebbero con la diffusione della fede e con la conversione dei gentili che [invece] gli encomenderos scandalizzano, opprimono e uccidono”. È infine sbagliata perché i conquistadores “antepongono il loro utile particolare al temporale – cosa che è propria dei tiranni – al bene comune e universale” e perché “il potere che si acquista con la forza delle armi, o che in qualche modo si è acquistato contro la volontà dei sudditi, è tirannico e violento, e mai può essere duraturo”. In conseguenza di ciò, il pagano “si rifiuterà di credere alle verità della fede e disprezzerà colui che gliele insegna. Se lo si costringe ad ascoltare egli rifiuterà il suo assenso”. Utopia e sgomento nel Giardino dell’Eden Erano nudi, pacifici e semplici come degli agnellini. Stetti ad osservarli a lungo, soprattutto un vecchio dall’aspetto molto venerando, di alta statura, il volto allungato, l’aspetto imponente che suscitava rispetto. Mi sembrava di vedere in lui il nostro padre Adamo, quando era ancora nello stato di innocenza…quanti di quelli ce n’erano tra tante genti… Bartolomé de las Casas, Historia: Di fronte alla Scoperta dell’America ed al suo significato storico le reazioni di Las Casas e Sepúlveda sono state pressoché identiche. Entrambi hanno compreso di poter essere protagonisti di un’epopea della specie umana, di una congiuntura storica irripetibile che andava sfruttata appieno per riformare la società e riscattare l’umano nel senso da loro prediletto. La militanza politico-ideologica è stata intensa in entrambi, e così le aspirazioni palingenetiche. Ma le loro posizioni sono inconciliabili. “Posto di fronte alla drammatica realtà della Conquista e dei suoi meccanismi, nella prospettiva di liberare quella verità che egli vede incatenata e soffocata dagl’interessi economici, dall'inestinguibile sete di ricchezza, dalla cecità o dalle complicità morali, Las Casas vive e dichiara con estrema urgenza la necessità di una nuova dottrina, in grado di far fronte alla dimensione reale dei problemi posti dalla scoperta di un mondo nuovo, un mondo che avanza il diritto inalienabile di venire riconosciuto nella propria alterità” (Cantù, 1993). Il suo rivale o, se vogliamo, la sua nemesi, ha in mente qualcosa di profondamente diverso, un imperialismo universalista che, per certi versi, oltrepassa surrettiziamente quello che percepisce come il parrocchialismo del cristianesimo politico. L’umanista cordobese è al tempo stesso antico e moderno, pagano e cristiano perché, come Las Casas, assorbe da varie fonti ciò che più gli aggrada e che meglio serve il fine di definire un Nuovo Ordine per un Nuovo Mondo, alternativo a quella Koinonìa, comunità di spiriti 123
intimi, solidali e corresponsabili, erasmiana “Libera Fratellanza di Uguali” – del tipo “tutti per uno, uno per tutti” – che scaldava il cuore a Las Casas. Nel Democrates Alter Sepúlveda nega che l’esempio di Gesù il Cristo possa essere messo in pratica. Si può essere guerrieri di professione, amare l’opulenza ed essere nel contempo autentici cristiani. Al contrario, non si possono praticare “in buona coscienza” certe virtù cristiane senza entrare in conflitto con specifici doveri civici, che dovrebbero invece avere sempre la precedenza. Per lui la spiritualità è una minaccia per la stabilità sociale, la contemplazione e la saggezza divina degli intralci al “vivir bien”. La comunità nazionale è il vero bene ed il cittadino probo accetterà la secolarizzazione della virtù senza sprofondare nell’immoralismo machiavellico. Lo Stato Etico, la verdadera razón de Estado, infrange ogni velleità cosmopolita ed ecumenica. Esistono tre categorie d’uomini: quelli natura domini, quelli natura servi e gli altri, che “non eccellono né in intelligenza né in giudizio, anche se non ne sono del tutto privi”. Questi costituiscono la gran massa degli esseri umani. Di riflesso, esistono nazioni intelligenti e giudiziose ed altre che ignorano deliberatamente o inconsapevolmente la legge di natura. Queste ultime dovrebbero lasciarsi governare dalle prime, in modo da fruire di leggi ed istituzioni migliori. “Se si dovessero rifiutare di accogliere un governo che è buono e vantaggioso per loro, la legge naturale impone di costringerle a conformarsi. È sulla base di questo diritto che i Romani sottomisero i barbari”. Così il diritto della forza è consacrato come lo strumento legittimo di risoluzione delle questioni internazionali. Allo stesso tempo, l’enfasi è posta sul concetto di responsabilità sociale e morale. Gli indios posseggono in gran parte il libero arbitrio, ma lo usano male. È come se non ce l’avessero, mentre ciò che è dovuto va fatto. Non si fanno sconti. La funzione del regime coloniale illuminato è quella di eliminare o contenere i rischi che comporta la coesistenza con dei selvaggi antisociali che sfidano irragionevolemente l’autorità terrena e quella divina, che vogliono solo il loro bene. Sepúlveda non è interessato alle culture ed alle società autoctone, non s’interroga sulle loro ragioni e motivi. In questo modo, dopo aver fatto uscire la metafisica del male dalla porta principale, la fa rientrare dal retro, come eccedenza di realtà che non sa e non intende spiegare. L’ignoto, l’esotico, l’imprevedibile lo spaventano, ciò che è diverso va collocato in un luogo diverso: le encomiendas e i repartimientos. L’autoritarismo paternalista di Sepúlveda non consente mescolanze, non permette che la libertà divenga un pretesto per porre a rischio l’ordine, la regolarità, la calcolabilità e la classificabilità dei singoli. Singoli visti come unità, come nella classica distorsione dell’umanesimo che si fissa sull’Umanità a discapito degli umani in carne ed ossa, nella loro individualità e specificità. È curioso che un severo ed intransigente critico di Martin Lutero come lui finisca per condividere sostanzialmente il punto di vista del padre spirituale della riforma protestante, quando afferma che “Dio ha disposto che gli inferiori, i sudditi, fossero del tutto isolati, separati fra loro, e ha tolto loro la spada, e li ha gettati in carcere. Ma quando si sollevino, e si uniscano ad altri e infurino e prendano la spada, al cospetto di Dio sono meritevoli di condanna e di morte”. Sepúlveda sostiene che i nativi americani potranno essere educati, ma non in realtà non è mai stata concessa loro la possibilità di farlo nei loro modi e nei loro tempi. Non è accettabile, non è quasi concepibile che chi è restio a partecipare al nuovo ordine pedagogico, a rendersi utile all’imperatore e a Dio, a farsi collocare nella nuova gerarchia 124
di potere, in uno stato semi-servile, al fondo della piramide sociale. Il feticcio dell’astrazione: si astrae un tratto dal tutto, lo si esamina, si stabilisce essere disarmonico, si provvede a rimuoverlo. La sensibilità del filosofo e teologo spagnolo ci rimanda piuttosto all’integralismo puritano. È l’utopismo dell’”uomo senza petto” (cf. Men Without Chests di C. S. Lewis), uno che usa la testa per decidere ma non il cuore per guidare le sue decisioni, un giardiniere che estirpa le erbacce e toglie di mezzo le ramaglie che rovinano l’estetica del giardino e che, nei casi estremi, come quando si addomestica un popolo barbaro, ricorre alla.logica del bonsaista: si tagliano via quasi tutte le radici, tranne quelle più giovani e si confina la pianta nella prigione di un vaso. Questo per il suo bene, perché è della retorica del benessere che si ammanta l’umanesimo autoritario di Sepúlveda. Questi, scettico in merito alla possibilità dei nativi di vivere senza danneggiare il prossimo, contempla piani di armonizzazione sociale che inducano una qualche forma di rinuncia volontaria ai conflitti in nome del bene comune. La sacralizzazione dello Stato è solo il primo passo, ma è necessario, perché occorre stabilire come premessa di fondo l’impossibilità che il sovrano e la nazione possano essere ingiusti o nocivi per sudditi e cittadini. Serve l’immunità morale, l’intangibilità che è propria del sacro, ossia di ciò che incarna le forze del bene e l’unica verità possibile (recta ratio). Condivido l’opinione di Fernando Mires quando conclude che “ciò che caratterizza il pensiero rinascimentale di Sepúlveda è l’averlo messo al servizio di cause (stato, nazione, classe, ecc.) che non pongono al centro l’uomo”. Di fatto il filosofo totemizza e venera tutto ciò che non è umano, screditando la sua stessa formazione di umanista, appunto. In un’inavvertita autocastrazione morale ed intellettuale, la sua missione non è valorizzare l’umano ma promuovere il pragmatismo anemozionale della megamacchina burocratica imperiale. Come avrebbe poi scoperto Max Weber, “la burocrazia nel suo pieno sviluppo si trova anche, in senso specifico, sotto il principio della condotta sine ira ac studio. La sua specifica caratteristica, gradita al capitalismo, ne promuove lo sviluppo in modo tanto più perfetto quanto più essa si “disumanizza” – e ciò vuol dire che consegue la sua struttura propria, ad essa attribuita come virtù, che comporta l’esclusione dell’amore e dell’odio, di tutti gli elementi affettivi puramente personali, in genere irrazionali e non calcolabili, nell’adempimento degli affari di ufficio”. Una concezione del mondo e dell’umano che è, ancora una volta, agli antipodi di quella lascasiana, la quale predica che moralità e realizzazioni intellettuali non vanno a braccetto (ma poi elogia le imprese artistiche ed architettoniche dei nativi americani); celebra l’evidenza del fatto che tutti i gruppi umani fanno parte della medesima famiglia e che ciascuno dà il suo specifico contributo al progresso dell’umanità verso Dio; infine ammonisce che non si fanno riforme senza spirito autocritico e che quando questo manca, l’orgoglio superbo che rimane serve solo gli scopi di un imperialismo anticristiano. Dovendo scegliere, conclude Las Casas, “uno dovrebbe dare più peso all’osservanza della legge di Gesù Cristo che alla disapprovazione dei monarchi”. Las Casas non è per nulla propenso a dar vita ad una concordia totalitaria, che sembra invece essere l’aspirazione di Sepúlveda. Per lui l’addivenire ad “un solo ovile e un solo pastore”, ossia la conversione dell’intera umanità alla vera religione, è un evento che preannuncia il ritorno del Cristo, ma non può calpestare il dovere della tolleranza. Non è 125
tutto accettabile quando si persegue l’unità, anche quando questa garantisce il riconoscimento e la difesa della pari dignità morale degli indigeni. Non c’è dubbio che lo stesso disprezzo verso i popoli inferiori (che vanno sgrezzati ed addestrati) di Sepúlveda connota anche l’atteggiamento di Jonathan Swift, magnificamente esposto in tutta la sua virulenza da George Orwell: “Lo scopo, come sempre, è umiliare l’Uomo ricordandogli quanto è debole e ridicolo…e la ragione ultima, probabilmente, è un qualche tipo di invidia, l’invidia del fantasma per il vivente, di chi sa che non può essere felice per quelli che – teme – possono essere più felici di lui. L’espressione politica di questa prospettiva dev’essere o reazionaria o nichilista, perché la persona che la perora vuole evitare che la società evolva in una direzione in cui il suo pessimismo possa essere ingannato”. Qualcuno potrebbe obiettare che Sepúlveda difende il diritto dei nativi di ricevere qualche beneficio dalla Conquista e che il loro benessere è tutt’altro che marginale nelle sue argomentazioni, ma è difficile dissipare il sospetto che sia virtualmente indifferente alle crudeltà spagnole nel Nuovo Mondo, visto che le ritiene un male minore, o un mezzo spiacevole giustificato da un nobile fine e che per lui qualunque discorso inerente l’autodeterminazione degli indigeni è futilmente idealistico. Rileggiamo un brano emblematico della sua Apología: “è proprio dell’usanza e della natura umana che i vinti adottino con facilità i costumi dei vincitori e dominatori, e li imitino volentieri in ciò che fanno e dicono”. Nessun compromesso è previsto. Vincere è convincere. Di contro, Las Casas, fedele alla sua convinzione che ogni essere umano merita rispetto in quanto anima incarnata, ossia manifestazione terrena del divino, denuncia anche la pratica di ispanizzare i toponimi e i nomi propri degli indigeni, addirittura sostituendo con nomi spagnoli quelli delle figure più prominenti. Comprende immediatamente che, com’è poi avvenuto nell’Alto Adige fascistizzato, questo è uno passaggio chiave dell’espropriazione dell’identità autoctona, assieme alle proprietà indoamericane. È bene però non idealizzare eccessivamente la liberalità del domenicano. Nel 1516 aveva chiesto all’inquisitore Cisneros di trapiantare l’inquisizione nel Nuovo Mondo, per evitare che le coscienze suggestionabili dei nativi fossero corrotte da possibili influenze protestanti o eretiche. Inoltre il suo rispetto per i culti locali, talora persino eccessivo – come quando difende i sacrifici umani in un fremito post-modernista ante litteram –, è pur sempre finalizzato alla definizione degli stessi come propedeutici all’evangelizzazione della vera fede. In altre parole i nativi non hanno altra scelta se non quella di diventare cristiani, per il semplice fatto che Las Casas non può neppure concepire l’idea che una mente razionale, anche dopo lunghe disquisizioni, possa rifiutarsi di amare Gesù il Cristo, come questi amava gli esseri umani. “Tutte le nazioni del mondo sono umane” e “la nostra religione cristiana è la medesima e può essere adattata a tutte le nazioni del mondo e da tutte essa riceve in ugual misura, e non sottrae a nessuna la loro sovranità, né le soggioga”, scrive. Allora come si può pensare di rifiutare un dono, quando non si chiede nulla in cambio, se non apprezzamento e valorizzazione? Di qui il suo maggiore cruccio: “Loro [gli indigeni] che arrivano a detestare Dio stesso poiché lo considerano la causa di tutti le loro disgrazie…a tal punto che deducono che i loro dèi erano migliori del nostro Dio, poiché questo procura loro tanto male”. Ciò detto, e tenendo conto del fatto 126
che è pur sempre un uomo di Chiesa, è giusto elogiare la costanza e la lucidità con la quale il Nostro demolisce iconoclasticamente ogni motivo di vanto degli Spagnoli, incluso l’appellativo di “conquistadores”, a suo avviso “il più infame dei titoli, anche se loro lo considerano un grande onore”. La reazione di chi doveva difendere i propri interessi socio-economici dall’assalto di chi li giudicava giuridicamente e moralmente illegittimi non poteva che essere brutale. Las Casas è stato accusato di essere uno strumento del demonio dall’Anónimo de Yucay nel 1571 che si è lamentato della sua nefasta influenza e degli scrupoli che ha fatto insorgere nell’animo dell’imperatore e nei teologi spagnoli. Una manipolazione certamente d’origine diabolica, “era una scaltra opera del diavolo convincere il mondo così repentinamente di un tale inganno”. L’esploratore e cosmografo Pedro Sarmiento de Gamboa, nel suo prologo alla Historia de los incas, spiega che il diavolo, avendo riconosciuto il declino del suo culto nelle Americhe, si era servito dei suoi stessi nemici, frati come Las Casas, per mettere in discussione le leggi e la sovranità spagnola nelle Indie. I Conquistadores sono strutturalmente incapaci di comprendere che esiste un modello di società cristiana ideale che è radicalmente differente rispetto a quello spagnolo. Ciò li spinge a svalutare tutto ciò che incontrano e a sovrastimare i loro capricci e le loro fissazioni. L’utopia di Gonzalo Fernández de Oviedo è emblematica della voragine che si era aperta tra l’uno e l’altro schieramento. Mentre Las Casas sottolinea la dignità e preziosità di tutte quelle espressioni della civiltà umana che non ostacolano la diffusione della rivelazione di Gesù il Cristo e patrocina l’abolizione dell’encomienda, Oviedo elabora la sua risposta alla domanda su come sia possibile far cambiare i nativi in modo da tramutarli nel tipo umano che dovrebbero essere. Ovviamente l’encomienda, una “nobile istituzione”, rappresenta l’architrave di questa risposta. Il problema vero è che non tutti sono degni di gestirla, non tutti lo sanno fare come si deve. Dovrebbe essere concessa in usufrutto esclusivamente a caballeros y personas de mucha hidalguía e noble sangre, perché Non potest arbor mala bonos fructus facere, l’albero cattivo non può dare buoni frutti. Ritorna dunque il motivo dell’associazione di sangue puro ed aristocratico e superiore intelletto e padronanza che dovrebbe formare una gerarchia indeformabile ed armoniosa, garante di un ordine assoluto, pacifico ed industrioso. Se il Consiglio delle Indie inviasse anche solo cento cavalieri del glorioso Ordine di Santiago, la riforma diventerebbe realtà immantinentemente. Las Casas, Erasmo e Origene Cristo costituisce le ricchezze dell’anima e pertanto lui stesso è la sua redenzione Origene Trovo assolutamente stupefacente che una persona così solerte ed avveduta nell’approfondimento sistematico e ragionato della questione indo-americana sia la stessa che, da vescovo del Chiapas, decise di scrivere al principe Filippo una lettera di questo tenore: “Credo che Dio mi illuminerà su come agire…Dio vuole che io ricominci a riempire i cieli e la terra di grida, di pianti e gemiti davanti a questa Corte e in questo mondo finché Lucifero non uscirà dalle Indie, poiché egli vi regna e vi detta legge più che quando questa gente viveva nel paganesimo più totale…Il mio unico desiderio è che Dio mi dia la forza necessaria”. Las Casas era profetico, mistico ed idealista ed al tempo 127
stesso pratico e giudizioso. Non era un uomo di mezze misure e di temperamento contegnoso. Tutto questo lo rendeva un geniale innovatore, a tratti sovversivo, ma mai a sufficienza da divenire inviso ai vari sovrani ai quali si appellava. Non mi è parso che Las Casas abbia mai nominato quelli che sono i pensatori che lo hanno maggiormente ispirato, Erasmo da Rotterdam e Origene. Immagino che ciò sia da addebitarsi al fatto che entrambi erano presenze scomode nel pantheon intellettuale della Chiesa. L’origenismo non piaceva all’imperatore Giustiniano e la Chiesa post-costantiniana, col quinto concilio ecumenico di Costantinopoli, condannò gli origenisti (ma non Origene) per le loro influenze pitagoriche, platoniche e neo-platoniche. Ritengo tuttavia che sia assai probabile che Las Casas conoscesse piuttosto bene il loro pensiero e lo ammirasse. Infatti il Rinascimento vide un forte recupero dell’interesse per Origene, con la pubblicazione di numerose edizioni critiche delle sue opere. Ma anche se non avesse mai potuto leggere alcuno scritto originale, rimane pur sempre vero quel che sostiene Hans Urs von Balthasar in Geist und Feuer, ossia che “non c’è nessun pensatore della Chiesa che è così invisibilmente onnipresente quanto Origene”. Las Casas può aver assorbito l’origenismo da molte fonti. Erasmo non fu l’unico riformatore umanista ad esserne influenzato. Sono perciò indotto ad ipotizzare che il Nostro abbia cercato di applicare la loro lezione alla realtà americana e che alcune delle sue riflessioni più peculiari, dalla metafisica dell’anima al rifiuto di assolvere gli encomenderos indichino una chiara influenza in questo senso. Le personalità e mentalità di Erasmo e di Bartolomé erano particolarmente congruenti. Erano entrambi spiriti liberi ed indomiti, appassionati, sensibili, cultori dell’amicizia, insofferenti alle gerarchie, responsabili, perseveranti, giusti, pacifisti, scettici nei confronti di rituali e osservanze meccaniche, contrari a divisioni e confini, e perciò critici del patriottismo e del nazionalismo e cosmopoliti; e ancora amanti dei classici, cristocentrici e sospettosi di ogni verbosa complicazione teologica che rischiasse di oscurare la parola del Cristo, impegnati ad estendere alle relazioni tra i popoli e le nazioni le virtù da lui indicate come primarie. Erasmo, come Las Casas, credeva che i dieci comandamenti fossero passati in secondo piano rispetto alle Beatitudini, che la politica dovesse essere subordinata alla morale insegnata nei Vangeli e che una teologia della pace sarebbe stata anche una teologia della liberazione, perché la pace presupponeva la fratellanza e la solidarietà, senza le quali sarebbe irrealistico pensare di poter essere liberi (Halkin 1988). Per tutti e due la Chiesa non era un’istituzione piramidale ma il corpo mistico del Cristo. Las Casas, nel prologo all’Historia, così lo descriveva: “un necessario e cattolico principio, vale a dire, che non c’è né c’è mai stata generazione, né stirpe, né popolo, né lingua, fra tutte le genti create…da cui – tanto più dopo l’Incarnazione e la Passione del Redentore – non si debba raccogliere e comporre quella gran moltitudine che nessuno può contare, che san Giovanni vide nel capitolo sette dell’Apocalisse, e che è il corpo mistico di Gesù e Chiesa, o uomo perfetto”. Difficile immaginare che la teologia politica e l’antropologia filosofica di Las Casas, diciotto anni più giovane di Erasmo, non siano state influenzate dall’umanista olandese. Carlo V era nato a Gand (Gent), nelle Fiandre, e presso la sua corte Las Casas incontrò diversi influenti fiamminghi che lo presero in simpatia e continuarono a perorare la sua causa (Thomas, 1994). Tra questi, il cancelliere Jean le Sauvage, che era anche protettore di Erasmo ed aveva addirittura proposto quest’ultimo per un seggio vescovile in Sicilia 128
ed il cappellano del cancelliere, Pierre Barbier, che fu indicato come vescovo (senza obbligo di residenza) della diocesi di Paria y Cumaná, proprio quella dove Las Casas aveva miseramente fallito la sua sperimentazione sociale. È perciò abbastanza naturale che la sua famosa (o famigerata, per chi vi si opponeva) esortazione ad astenersi dall’assolvere gli oppressori come mezzo per liberare gli oppressi avesse un precedente illustre proprio in Erasmo che, nel trattato Querela Pacis (1517), invitava a non assolvere militari di professione morenti e a non seppellirli in terreno consacrato: “I preti consacrati a Dio non dovrebbero frequentare luoghi dove si fa la guerra, ma quelli dove la guerra ha termine”. Anche il pacifismo assennato di Las Casas aveva molto in comune con quello di Erasmo. Scriveva Las Casas nel Dell’unico modo: “è come un uragano e come un oceano, che tutto invade e distrugge. Essa apre la via alle azioni depravate, eccita odi e rancori. I poveri non hanno più nulla; i ricchi sono spodestati. Tutto si riempie di timore, le leggi sono abolite; ogni sentimento umano sparisce; non c’è più equità e religione; sacro e profano si confondono. Cos’è la guerra, se non un omicidio?...perdita delle anime, dei corpi e delle ricchezze”. Nell’Apología, un’avveduta condanna del calcolo utilitaristico nella deliberazione sulla giustezza di una guerra: “gli infedeli che commettano un crimine di questo genere, cioè a dire, che uccidano i bambini in sacrificio o li mangino, non vanno sempre combattuti con una guerra, sebbene sia in conformità ai compiti della Chiesa trovare dei rimedi che pongano fine a questo male; però, innanzitutto, occorre rifletterci bene, di modo che per impedire la morte di pochi innocenti non si causi quella di un’innumerevole moltitudine di persone che parimenti non lo meritano, non si distruggano interi regni, non s’infettino i loro animi con l’odio verso la religione cristiana e non desiderino mai più sentir parlare del nome del Cristo, né ascoltare la sua dottrina”. In un’occasione il domenicano difese l’umanista olandese dall’accusa di essere un disfattista in odore di eresia. È forse uno dei pochi rapidi accenni dedicati a questa figura che si possono trovare negli scritti ufficiali di Las Casas, quasi certamente perché Erasmo, a quel tempo, era “persona non grata” nel dibattito teologico spagnolo. Va rilevata comunque la comune enfasi sulla natura pacifica dell’insegnamento del Nuovo Testamento, sull’essenzialità del libero arbitrio e sulla bontà della natura spirituale dell’umano. “Tutte queste universe ed infinite genti, di ogni genere, Dio le ha create semplici, senza malvagità né doppiezze, obbedientissime e fedelissime ai loro signor naturali ed ai cristiani che servono; più di ogni altre al mondo umili, pazienti, pacifiche e tranquille, aliene da risse e da baruffe, delitti e maldicenze, senza rancori, odi né desideri di vendetta” (Brevissima relazione della distruzione delle Indie). A questo io aggiungerei quella che sospetto sia un’identica passione per l’origenismo. Erasmo era un pensatore impregnato di origenismo; affermava che “una sola pagina di Origene mi insegna più filosofia cristiana che dieci di Agostino e trovo più compassione in una pagina di Origene che in dieci di Agostino” (Godin, 1982, pp. 684-685). Arrivò ad associare Origene, il suo autore di riferimento in molti campi del sapere – incluso il tema del libero arbitrio: Erasmo basa le sue riflessioni sul Peri Archon di Origene –, a Venere, dichiarandolo senza confronti, rappresentante per eccellenza di ciò che lui chiamava la saggezza della prisca vetustas, la più venerabile antichità. Origene, che per H.U. von Balthasar, uno dei massimi teologi cattolici del secolo scorso, “resta il più geniale, il più grandioso interprete e amante della Parola di Dio” (cf. 129
Franco 2005), insisteva sempre sulla bontà di Dio – che non può essere causa del male – e sulla libertà dell’uomo, che ha generato il male: “Dio non ha prodotto la malizia, ma una volta prodottasi per la scelta volontaria di coloro che hanno piegato dalla via retta, non ha voluto toglierla del tutto, prevedendo che, anche se inutile a quelli che se ne servivano, egli poteva renderla tuttavia utile a coloro contro i quali era esercitata” (Origene, cf. Franco, op. cit. p. 140). Come Erasmo e Las Casas, Origene non credeva alle crociate contro il Male, perché presupponeva che le cose dell’universo fossero ordinate in un certo modo da Dio, che aveva in mente la Salvezza della Creazione. “Dobbiamo evitare in tutti i modi che si trovi in noi il male; negli altri dobbiamo sforzarci di vincerlo, non di sopprimerlo, poiché anche quelli nei quali c’è il male apportano un concorso necessario al mondo. Niente è inutile, niente vano davanti a Dio, poiché egli si serve del buon proposito dell’uomo per il bene, e del proposito cattivo per ciò che è necessario”. Per Las Casas, come per Origene e Erasmo, il determinismo fatalista e pessimista, nonché misantropico, che aveva parzialmente condizionato l’evoluzione della dottrina cristiana era insostenibile. Per tutti e tre il vero grande maestro era Cristo, ma Socrate e i filosofi neo-platonici erano giunti molto vicini a certe verità basilari. Concentrandosi ora sulle affinità tra Las Casas e Origene, queste si possono riscontrare già a livello antropologico. Origene dava immancabilmente la priorità ontologica all’anima sulla materialità del corpo perché la somiglianza con Dio (Genesi 1, 26) si spiega solo nella trascendenza, non certo nella mortalità fisica. Las Casas faceva lo stesso e traduceva questo principio in regole atte alla retta predicazione: “Lo spirito umano vuole essere persuaso e non costretto, in quanto ha in sé qualche cosa di elevato e di sublime che non sopporta ma si compiace di ciò che è rispettabile e virtuoso, perché lo ritiene in grado di confermare la propria dignità” (Dell’unico modo). Lassegue (1974) spiega che “Las Casas situa l’indio in un processo generale, in una marcia culturale dell’umanità. Più in là o più in qua: il luogo dell’indio secondo Las Casas è utopico, vale a dire che si tratta di un luogo proprio a nessuno e a tutti, luogo al quale l’umanità si vede spinta dal desiderio, dalla fame di felicità totale”. Las Casas, almeno ufficialmente, non abbracciò mai l’apocatastasi origeniana – e di Clemente Alessandrino, Gregorio di Nissa e Giovanni Scoto Eriugena –, cioè la credenza considerata eretica che la beatitudine diverrà realtà dopo l’avvenuta resurrezione del Cristo, quando l’aspirazione a ricongiungersi al Cristo e a Dio permetterà a tutte le anime, comprese quelle dannate, di raggiungere la meta e il giorno del giudizio i corpi fisici saranno trasformati in corpi spirituali. Una credenza che in pratica dichiara la funzione della Chiesa superflua, in contrasto con la massima “extra ecclesiam nulla salus”, ribadita dal Concilio di Trento. Tuttavia il Nostro poneva come unico limite temporale per la conversione il Giorno del Giudizio, opponendosi quindi alla smania convertitrice dei francescani fiamminghi – tra questi Pedro de Gande –, che avevano trasformato il battesimo in una catena di montaggio. Il domenicano non credeva che, senza battesimo, gli indios sarebbero stati automaticamente dannati. Abbiamo visto che mette in guardia gli Spagnoli dal credere di essere più benvoluti da Dio rispetto agli Indios. Dichiarava che non si sarebbe sorpreso di vedere quelle persone che erano state considerate subumane trovarsi in gran numero accanto a Dio. Contestando la validità del requerimiento, Las Casas lo descriveva come “un dileggiare la 130
verità e la giustizia e vituperare la nostra religione cristiana e la pietà e carità di Gesù Cristo, che tanto aveva sofferto per la salvezza di queste genti; che non potendo fissare loro un limite di tempi per convertirsi a Cristo – poiché egli a nessuno lo fissò ma diede tutto il tempo che ci fu e c’è dal suo principio fino al giorno del giudizio – gli dicono di concedere non ad una particolare persona, ma ad ognuno tutto lo spazio della vita della vita per convertirsi, usando la libertà del libero arbitrio” (Historia). Per Las Casas, come per Origene, la salvezza non era riservata a pochi e verteva sulla conoscenza consapevole del significato del messaggio cristiano e dell’amore di Dio. Non c’era invece salvezza in una fede sostenuta dalla paura di un dio vendicativo ed irascibile. Anche le anime degli indigeni americani, come ogni altra anima, erano cadute nel peccato per aver scelto di autoaffermarsi orgogliosamente, per essersi allontanate dal Bene. Ma per tutte valeva la parabola del Figliol Prodigo. “La fede consiste nel consenso che la volontà dà alle proposizioni che si credono, perché assentire è ciò che con proprietà si chiama credere” (Dell’unico modo). L’antropologia dei due pensatori cristiani era ottimistica perché, a differenza degli gnostici e di una parte della teologia cattolica e protestante, essi erano convinti che la volontà e l’amore divino compenetrano anche la sfera terrena, il livello materiale. Nulla di spirituale o materiale era separato da Dio e quindi – un punto al quale teneva molto Las Casas – la condizione dell’anima era strettamente legata a quella del corpo e vice versa. Un ulteriore corollario era che il diavolo non poteva essere un avversario indomabile condannato dalla sua natura ad indurre l’uomo in tentazione: il male si allontanava temporaneamente da Dio, ma non era una forza indipendente. Las Casas dedicava molto spazio alla figura del “Maligno” ed ai suoi poteri, specialmente nella Apologética Historia. Il diavolo non era solo ma veniva assistito dai suoi collaboratori con i quali rapiva gli esseri umani e li trasportava altrove, commetteva infanticidi, induceva comportamenti bestiali in certe persone predisposte, creava illusioni per ingannare i sensi umani, appariva in forma umana, ecc. Il suo obiettivo era quello di persuadere gli esseri umani ad agire contro la loro natura, cioè a scegliere un cammino che li avrebbe allontanati da Dio, e per farlo si serviva di riti e culti religiosi, cosicché l’inganno poteva amplificare esponenzialmente le scelleratezze umane. Tutte le attività demoniache erano implicitamente autorizzate da Dio, che aveva concesso all’intera creazione la libertà di errare e di indurre in errore. Satana ingannava e manipolava, ma non poteva violare il libero arbitrio, poteva solo influenzare le persone facendole sbagliare. “Non c’è bontà in ciò che non è libero”, scriveva Las Casas nel Dell’unico modo. L’uomo rimaneva libero di scegliere tra bene e male ma poteva scegliere il secondo scambiando una felicità mondana ed effimera per il Vero Bene. Era un travisamento, uno sviamento, come lo sono i sacrifici umani o i massacri in onore di Dio, ma non era un’adesione consapevole al Male. Non era il rifiuto della luce ma il classico equivoco tra lucciole e lanterne. Dunque non sarebbe stato irrimediabile, giacché nulla è irrimediabile. Dio è Bene ed Amore, come potrebbe creare qualcosa di malvagio? Da questo assunto di fondo s’ingenerava il relativismo culturale di Las Casas, che riusciva a tollerare gli errori dei nativi (cannibalismo, sodomia, idolatria, ecc.) perché li considerava episodi, parentesi in controcorrente lungo un percorso di evoluzione spirituale, prodotti di un consenso non-informato e disinformato, a sua volta figlio del libero arbitrio che era comunque una risorsa eccezionale: “poiché la libertà, un bene inestimabile, non si vende neppure a peso d’oro”. Nessun determinismo metafisico 131
originario verso il male, ma un fuoco di attrazione che, dalla destinazione finale dell’umanità, s’impegnava ad attrarre le anime verso il Bene e l’Amore, lasciandole libere di rispondere al richiamo oppure no. L’anima non aveva perso la sua libertà con la caduta. Tutti erano ancora liberi di scegliere Dio o di non farlo. Qualcuno ci sarebbe arrivato prima di altri, seguendo percorsi meno tortuosi, altri ci avrebbero impiegato di più. Dio è alla fine del “nostro” tempo e ci chiama a lui, non è all’inizio a predeterminare le nostre mosse. Origene riteneva che anche i demoni potessero scegliere la via più diretta a Dio. Questo non è un problema che Las Casas si pone, perché si occupa soprattutto di questioni pratiche, non di metafisica. Ciò nonostante egli concorda con Origene nel dire che il principio di libertà unificava la realtà; ogni singola cosa nel mondo, organica o non-organica era libera fin dalla sua origine e solo l’intervento umano aveva determinato l’insorgere della proprietà privata o collettiva. Per entrambi a maggiore razionalità corrispondeva un grado maggiore di libertà ma, in un rapporto intimamente relazionale, ognuno era dotato di ciò che era necessario a redimersi, perché tutto l’esistente era buono nella sua relazione con l’essere e la volontà di Dio. La funzione pedagogica di Cristo risiedeva nel modello di vita che aveva offerto e nei suoi insegnamenti. Cristo era la Verità e perciò aveva già indicato tutti gli elementi necessari per la salvezza di ognuno, primo tra tutti il corretto uso del proprio libero arbitrio. Las Casas, come Origene, enfatizzava l’unità di volontà, mente e spirito. Il loro era uno strenuo attacco contro ogni tipo di determinismo. Grazia e libero arbitrio non si escludevano a vicenda e senza libertà non ci sarebbe speranza; la loro è incontrovertibilmente un’antropologia della speranza. Un’altra premessa comune era che tutto ciò che Dio aveva creato aveva pari dignità, era uguale ai suoi occhi, con le stesse opportunità e potenziale. Tutti erano nati liberi ed uguali e in un rapporto diretto con Dio. Il libero arbitrio aveva fatto il resto, generando squilibri, disarmonie, divari e gerarchie. Per Origene il Logos si adattava molto bene alla mente ed alla vita dei singoli. Perciò non esisteva un’unica via che conduca a lui: qualcuna era più ottimale di altre, ma non sarebbe stato possibile saperlo in anticipo e si dovevano quindi considerare molte opzioni nella fede, poiché una di queste avrebbe potuto essere quella più giusta per la tal persona, quella che la portava più vicina alla verità divina. Las Casas non si spinse mai così lontano, ma sospetto il suo sentimento etico della vita e della politica lo avrebbe condotto necessariamente lì, in circostanze diverse. “Il suo essere cristiano si confonde con questo meravigliarsi dell’altro e si attua in base a codesto stupore. È, invece, nemico del rinchiudersi nella cecità dell’insensibilità” (Castillo, 1993, p. 12). Infine Origene prediligeva la cristianità dei piccoli gruppi, contrapposta alla campagna ed alla grande città. Similmente, i progetti di ingegneria sociale di Las Casas avevano l’obiettivo di costruire delle repubbliche indospagnole capaci di fondere le componenti più propizie e convenienti della vita di campagna (es. il senso comunitario) e di quella di città (es. ciò che al tempo si chiamava la “prudenza politica”), disfacendosi contemporaneamente di quelle più deteriori, come gli atavismi rurali e la frenesia acquisitiva delle metropoli (Mires, 1991). In chiusura di capitolo, vorrei riportare due validissime considerazioni di due biografi latino-americani di Las Casas che secondo me hanno colto pienamente nel segno. Una è del teologo della liberazione Gustavo Gutiérrez, secondo il quale il rifiuto 132
del Requerimiento da parte di Las Casas non era un anacronismo: “Las Casas è vissuto in quell’epoca, e perciò il suo ripudio non può essere più severo; e questo non perché egli precorra i tempi (elogio che piace allo spirito moderno) ma perché accetta le vecchie (e sempre nuove) esigenze evangeliche senza limiti e concessioni” (Gutiérrez, 1995, p. 163). Poi c’è l’osservazione di Fernando Mires che ritengo di importanza centrale: “L’attualità di Las Casas deriva anche dal suo tradizionalismo; egli era portatore e difensore di concetti antichi quanto la stessa società. Egli fu tradizionalista soprattutto perché nel mezzo della rivoluzione mercantile, per difendere l’indio, si trincerò sui valori più antichi, senza rinunciare alle nuove conoscenze culturali e scientifiche” (Mires, 1991, p. 184). IL PARADISO RICONQUISTATO Il cacicco [capo indigeno] dopo aver riflettuto un istante, domando al religioso se i cristiani andavano in cielo. Il religioso rispose di sì, ma che ci andavano quelli buoni. Il cacicco ribattè immediatamente che non era lì che voleva andare, ma piuttosto all’inferno, per non dover stare a contatto e vedere continuamente gente tanto crudele. Bartolomé de las Casas, “Historia de las Índias”, vol. III Io che ho cantato il giardino gioioso perduto per la disobbedienza di un solo uomo, canto ora il paradiso riconquistato per tutta l’umanità dalla tenace obbedienza di un solo uomo, messo alla prova fino in fondo da ogni tentazione; e il tentatore fallì in tutte le sue astuzie, sconfitto e respinto, e l’Eden sbocciò nello squallido deserto. John Milton, “Il Paradiso Riconquistato”. Las Casas fu un uomo eccellente quanto fu un pessimo cronista. Il Nostro ammucchia idee e parole, apre parentesi senza chiuderle, non si cura della punteggiatura, come se fosse in preda ad un flusso di coscienza. L’urgenza della denuncia prende il sopravvento. Privilegia la quantità sulla qualità, a scapito della chiarezza, della coerenza, della precisione e della leggibilità. Ciò, oltre ad essere irritante e snervante per il lettore contemporaneo, lo ha esposto ad un continuo fuoco di critiche. Molte di queste sono però completamente immotivate, dettate da pregiudizio, ignoranza e malafede, più che da una sincera attenzione al suo pensiero. Per la stessa ragione, la sua figura, così centrale e così scomoda, è stata anche oscurata da un certo numero di equivoci e di dicerie senza fondamento, che non sarebbero sorte se avesse dedicato più tempo alla cura della concisione, della comprensibilità e della nitidezza argomentativa. In questo capitolo finale, oltre a tirare le fila del discorso, possiamo provare a sfatare alcuni miti che lo circondano (Adorno, 1993). Il Sivigliano non fu mai un soldato: lo fu forse suo zio Francisco. Non possedette mai degli schiavi: l’attività familiare ad Hispaniola era di carattere commerciale. Non fu il primo prete del Nuovo Mondo: lo divenne a Roma, il 3 marzo 1507. Non fu l’iniziatore della tratta degli schiavi africani nel Nuovo Mondo: credeva, come molti, che fossero prigionieri di guerra giusta contro i mori e comunque re Ferdinando aveva già dato il via al commercio all’inizio del sedicesimo secolo. Non aggirò la censura inquisitoriale per pubblicare i suoi trattati. La sua Brevisima Relacion de la Destruccion de las Indias non fu immediatamente tradotta per 133
creare la “Leggenda Nera” anti-spagnola, ma dovette attendere fino al 1578, quando fu tradotta per il mercato dei Paesi Bassi, allo scopo di servire da ammonimento e da sprone nella lotta per l’indipendenza dall’impero spagnolo. Il suo contributo alla stesura delle Nuove Leggi fu decisivo, grazie alla sua competenza giuridica, che si era conquistata grazie a due specializzazioni in diritto canonico all’Università di Salamanca. È falso che non abbia proposto un modello socio-economico alternativo a quello dello sfruttamento capitalistico delle colonie: le sue pressioni sull’iter legislativo servivano proprio a promuovere le due idee riformistiche, sebbene certe affinità con le elaborazioni dell’anarchismo cristiano posteriore (cf. Tolstoj, Ellul) tradiscono il carattere utopico di alcuni suoi progetti. Las Casas è l’uomo del riscatto, il Giusto che salvaguarda la speranza in un’umanità possibile nel corso di una fase particolarmente atroce della storia della nostra civiltà. Non esito a paragonarlo a Dietrich Bonhoeffer e trovo sbalorditivo che sia ancora così relativamente poco noto. Las Casas anticipò i fondamenti filosofico-teologici dei diritti umani ed in particolare i loro due capisaldi: la dignità della persona e l’universalità (Entre los remedios, 1542; De regia protestate, 1571). In quest’impresa concettuale e morale fu influenzato in modo decisivo da Francisco Vitoria e Domingo de Soto, entrambi educati all’università di Parigi. Ma li superò per lungimiranza, modernità ed impegno. L’idea di dignità dell’uomo era un lascito dell’umanesimo rinascimentale, una scuola di pensiero che si era fatta sentire, seppur flebilmente, fino a Salamanca. Lui la applicò nella realtà del Nuovo Mondo, laddove serviva, strappandola alla sfera delle idealità astratte. Le basi del suo approccio nonviolento furono quasi certamente erasmiane, per il tramite della corte di Carlo V e forse anche del frate Diego de Astudillo, insigne teologo e filosofo al prestigioso Collegio di San Gregorio di Valladolid. La sua importante condanna dei sofismi manipolativi contenuta nel De unico vocationis modo (1530), che proponeva come alternativa le argomentazioni ragionevoli, i buoni esempi, le testimonianza dirette ed il dialogo non il monologo, potrebbe aver risentito del modello socratico. Las Casas era però anche un ammiratore di Cicerone. Ovviamente, la sua massima fonte di ispirazione furono i Vangeli. Non nutriva alcun dubbio: se gli indios avessero compreso a fondo la grandezza del messaggio di Gesù il Cristo non avrebbero potuto astenersi dal metterlo in pratica. Il loro buon senso ed intelletto li avrebbero spinti a farlo. Era sufficiente salvaguardare lo ius communicationis, ovverosia il libero interscambio di beni e di idee, altro principio fondante delle moderne democrazie. Sempre nel De unico vocationis modo, Las Casas ripudia la guerra e la violenza coercitiva, stabilendo che una conversione rassomiglia d’appresso all’avvicinamento di uno studente alla scienza. I pensatori antichi più savi, come pure i santi ed i padri della chiesa, hanno sempre proclamato la necessità di impiegare le argomentazioni e non la forza. Questa era la posizione di Gesù, che non sentì mai il bisogno di distinguere tra diverse modalità di evangelizzazione. Questa ritengo sia la filosofia dominante del cattolicesimo liberale e sociale dei nostri giorni. A questo proposito, a mio avviso, vi sono due intuizioni lascasiane che precorrono i tempi in una misura quasi stupefacente. Il primo è un passaggio dell’Apología lascasiana: “Nessuno deve essere forzato ad abbracciare la fede; nessuno deve essere castigato per il suo fardello di vizi, a meno che non sia sedizioso o arrechi danno alle persone ed alle 134
cose”. Questa formulazione fu reintrodotta nella filosofia politica occidentale – in maniera del tutto indipendente, a partire dal pensiero di John Locke (Due trattati sul governo, 1689), Samuel von Pufendorf (Sul dovere dell'uomo e del cittadino, 1682) e Thomas Jefferson (1743-1826) – dal filosofo britannico John Stuart Mill nel suo celebre “On Liberty”, nel 1859, ossia oltre trecento anni dopo. Altrettanto anticipatrice del pensiero liberale è la seguente intuizione contenuta nel De regia protestate: “L’autorità e la giurisdizione dei sovrani si applica esclusivamente per promuovere gli interessi collettivi del popolo, senza ostacolare ne pregiudicare la sua libertà”. Infine, in una lettera indirizzata a Bartolomé Carranza che risale al 1555, Las Casas formulò il principio che sarà poi alla base della Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America, no taxation without representation (sciopero fiscale senza un parlamento che difenda le nostre istanze): gli indigeni non sono tenuti a pagare le tasse alla monarchia spagnola senza il loro esplicito consenso [No serán obligados a pagar quintos o derechos a los Reyes de Castilla, si los reyes y los pueblos de las Indias no consintieren expresamente de su propia voluntad, en abdicar de sí y ceder todo el derecho que ellos tenían y se obligasen a pagar los dichos quintos a los Reyes de Castilla]. Il contrasto con la dottrina di Sepúlveda, che vede nella Conquista un benevolo atto emancipatorio che svincola l’indio dalla sua condizione selvaggia e nella violenza il giusto mezzo per castigare i nativi, colpevoli di essere sottosviluppati e non sufficientemente solerti nel farsi istruire al vivere civile, è a dir poco sconcertante. Sembra di assistere allo scontro tra due civiltà morali, antropologiche e giuridiche inconciliabili, che si sono sviluppate parallelamente ma in direzioni opposte e, nella Disputa di Valladolid, hanno cercato di stabilire a chi spettasse l’egemonia sul suolo americano e forse sull’intero pianeta. Per buona sorte degli indigeni, ma anche di noi tutti, Las Casas non fu lasciato solo. Oltre agli appoggi a corte e negli ambienti accademici, altri missionari si assunsero l’avvocatura dei popoli indigeni. Tra questi, meritano una menzione speciale Pedro de Córdoba, Antonio Montesinos, Bernardino de Sahagún e Vasco de Quiroga. L’avanzata età non fiaccò la perseveranza ed abnegazione di Las Casas. Chi era presente alle sue “concioni” non ricordava segni di spossatezza nel tono della sua voce. Ma possiamo immaginare che, dopo aver assistito alle crudeltà ed ingiustizie del mondo e dei suoi compatrioti in particolare e dopo averle subite in prima persona, perseguitato come qualunque uomo con un sogno che oltrepassa la visione ristretta dei suoi contemporanei, questi segni attraversassero il suo volto. Non si perse però mai d’animo e continuò, finché ne ebbe la forza, a ricordare a chi aveva una coscienza e le dava ascolto, che gli indios dovevano essere soggetti della loro stessa vita e che l’intera impresa coloniale “è contro l’intenzione di Gesù Cristo e contro la forma di carità che nel suo Vangelo ci ha tanto raccomandata, e contraddice completamente, a ben guardare, tutta la sacra Scrittura” (Historia). Nel 1562, in un memorandum per il Consiglio delle Indie, rompendo ogni indugio, ribadiva con forza e schiettezza ciò che era andato dicendo per quarant’anni, con toni meno apodittici, ossia che: “I nativi delle Indie… hanno il diritto di condurre una giusta guerra contro di noi e di spazzarci via dalla faccia della terra. Questo diritto durerà fino al giorno del giudizio”. Ciò non avvenne e, in verità, quando morì nel convento di Atocha a Madrid, si può tranquillamente dire che nessuna delle sue richieste e nessuno dei suoi desideri erano 135
stati esauditi. Da un certo punto di vista la vita di Las Casas fu una lunga serie di fallimenti: a partire dalla colonia ideale nel Venezuela (1521), seguita dall’esperimento di evangelizzazione unicamente pacifica del Guatemala (1537-1552), che non fu all’altezza delle sue attese, lo svuotamento di senso delle Nuove Leggi nel 1545 – quando gli encomenderos misero assieme milioni di pesos per “massaggiare” la volontà monarchica – l’esperienza nel vescovato del Chiapas in quegli stessi anni – i coloni e una parte del clero si coalizzarono contro di lui per cacciarlo –, la battaglia scolastica con Sepulveda, che finì in una patta, ma soprattutto la mancata abolizione dell’encomienda. Furono invece i suoi libri ed il suo esempio a decretarne l’ingresso nella storia: i suoi ammiratori continuarono la lotta anche dopo la sua morte. La vittoria della guerra era stata solo posticipata, ma la sensibilizzazione degli ambienti intellettuali europei alla questione dei diritti naturali fu certamente di per sé un contributo magnifico e fruttuoso. Possiamo immaginare che forse il suo più grande rammarico fu quello di non aver saputo evitare la polarizzazione tra chi lo vedeva come il fumo negli occhi e chi aveva inteso il senso più profondo della sua missione, quella cioè di riaffermare che le verità evangeliche dovevano essere messe in pratica senza compromessi ed esitazioni, che non si potevano inventare cavilli e furbizie per aggirare il significato della testimonianza di Gesù il Cristo. Una parte della Chiesa del suo tempo – e possiamo sospettare una parte della Chiesa contemporanea – non accettò lezioni di moralità e coerenza da questo profeta indigenista. Ma la colonizzazione pacifica del Messico settentrionale e delle Filippine si compì anche e soprattutto grazie all’azione dei movimenti indigenisti che prendevano esempio da Las Casas. Inoltre fu in gran parte il disperato bisogno di fondi di Filippo II che portò ad un costante incremento della tassazione e all’abolizione di ogni esenzione, che impedì ai progetti lascasiani di trovare un maggior seguito. Ciò non toglie che fu anche grazie a lui ed a chi simpatizzava per la sua causa che nel 1597 Filippo II emanò un decreto che restituiva i tributi raccolti ingiustamente dagli indigeni filippini noncristiani. Il decreto richiedeva un consenso volontario, non estorto, alla loro sottomissione alla Corona di Spagna. Così, tra i principi che guidarono la politica coloniale spagnola nel sedicesimo secolo, fecero la loro comparsa anche il consenso di chi è governato ed il potere legittimamente costituito. Non mi risulta che un’altra potenza coloniale abbia emulato la Spagna in questo. Solo la Spagna si fece degli scrupoli e s’interrogò sulla bontà delle sue iniziative. Las Casas certamente esagerò le responsabilità umane nel genocidio indigeno e minimizzò o ignorò il ruolo delle pandemie e fece così un favore ai nemici della Spagna che enfatizzarono le devastazioni coloniali tralasciando la lotta per la giustizia ed i diritti umani, che fu invece scorrettamente qualificata dalle altre potenze imperialiste come lotta contro l’imperialismo spagnolo. Certamente lui fu tra i primi a capire ed affermare che solo un attacco radicale all’intero assetto coloniale avrebbe potuto interrompere il genocidio in corso, ma quest’etichettatura ha oscurato la grandezza del sivigliano, restringendo indebitamente il suo campo d’azione ed i suoi meriti, oltre che quelli della stessa Spagna, giacché in pratica la stessa società che produsse gli aguzzini allevò anche i paladini delle vittime. Negli anni Ottanta José Alcina Franch, uno dei grandi etnografi e storici del periodo precolombiano, descriveva l’attivismo di Las Casas come la lotta di un Davide contro il Golia dei poteri oligarchici di stampo feudale, una “lotta titanica di un uomo impegnato a cambiare la realtà del suo tempo utilizzando ogni mezzo 136
disponibile…ma il cui pensiero era così precorritore dei tempi che solo ora lo stiamo raggiungendo. […]. Ancora oggi ci sono molte persone che non arrivano a comprenderlo. Come potevano comprenderlo i suoi contemporanei?” (Alcina Franch, 1985) In una Suplicación a Filippo II del 1565 Las Casas, ormai vecchio e malato, ricapitolò la vocazione di una vita e ammonì la Spagna che se non avesse cambiato la sua condotta la giustizia divina sarebbe stata tutt’altro che benevola nei suoi confronti. La lessero al Consiglio delle Indie: “con questa supplica che presento a Sua Maestà al termine della mia vita…credo di aver assolto il ministero che Dio mi ha assegnato: porre rimedio alle tante ingiustizie commesse in così gran numero prima che intervenga il Giudizio. A causa della mia negligenza, ho tuttavia ottenuto pochi risultati e temo che Dio abbia motivo di castigarmi”. Una vita spesa predicando un Dio d’Amore e Comprensione, per poi cedere proprio alla fine alla tentazione del dio irascibile, vanesio e castigatore, che occhieggia persino in quello che doveva essere il suo testamento spirituale. Una robusta indicazione della forza coercitiva di consuetudini ed abiti mentali duri a morire. Ciò detto, il suo esempio può servire ancora a riscaldare i cuori e ad incoraggiare i giusti ad operare nel senso di una trasformazione epocale di almeno una parte della società e della coscienza umana. Una rivoluzione nonviolenta all’insegna della dignità, della pace, dell’empatia, della giustizia, della libertà e della spiritualità, perché non siamo automi preposti alla perpetuazione di una Cultura, di un Genoma o di una Moda, ma essere umani con una pluralità di identità, attributi ed interessi e con un destino cosmico ancora in gran parte inesplorato. BIBLIOGRAFIA AA.VV., La etica en la conquista de América, Corpus Hispanorum de Pace, 25, Madrid 1984, 95. Rolena Adorno, “The politics of publication: Bartolomé de las Casas The Devastation of the Indies”, In «New West Indian Guide/ Nieuwe West-Indische Gids » 67 (3/4) (1993), pp.285-292. José Alcina Franch, Bartolomé de las Casas; obra indigenista, Alianza Ed., Madrid 1985. Philippe-Ignace André-Vincent, Bartolomé de las Casas, prophète du Nouveau Monde, Tallandier, Paris 1980. Adolph F. Bandelier, Traditions of Precolumbian Landings on the Western Coast of South America, in «American Anthropologist» 7(2) (1905), pp. 250-270. Marcel Bataillon, André Saint-Lu (a cura di), Las Casas et la défense des Indiens GallimardJulliard, Paris, 1973. Mauricio Beuchot, Los fundamentos de los derechos humanos en Bartolomé de Las Casas, Anthropos, Barcelona 1994 Nestor Capdevila, Las Casas : une politique de l'humanité : l'homme et l'empire de la foi, Editions du Cerf, Paris, 1998. Aldo Andrea Cassi. Ultramar : l'invenzione europea del nuovo mondo Laterza, Roma ; Bari 2007. 137
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Giovanni (Joan) Antonio Cumis (1537-1618). Gesuita calabrese. Encomienda, o repartimiento. Sinonimi, indicano la prassi della spartizione dei nativi, assegnati a diversi generi di corvée a seconda delle loro attitudini. Francisco Falcòn (1521-1587). Procuratore dei nativi del Perù. Pedro de Gante (Pieter van der Moere) (1480–1572). Missionario francescano di origini fiamminghe. Alberico Gentili (1552–1608). Giurista protestante italiano. Francisco López de Gómara (1511–1566). Storico, apologeta del conquistador Hernán Cortés. Francesco Guicciardini 1483–1540). Scrittore, storiografo e filosofo politico. Diego de Landa (1524-1579). Vescovo francescano dello Yucatán. Juan de Matienzo (1520-1579). Giudice coloniale e membro della prima Real Audencia del Nuovo Mondo. Fernando Vázquez de Menchaca (1512-1569). Giurista ed umanista spagnolo. Antonio de Montesinos (1475-1540). Missionario dominicano. Primo avvocato della causa indigena. Toribio de Benavente, detto Motolinía (1482-1568). Missionario francescano, uno dei primi 12 a giungere in Messico. Joan Anello Oliva (1574–1642). Gesuita napoletano. Tomás Ortiz (? -1538). Vescovo dominicano. Gonzalo Fernández de Oviedo (1476–1557). Storico e naturalista. Alberto Pio (1475-1530). Principe di Carpi, umanista e mecenate. Nipote di Giovanni Pico della Mirandola. Samuel von Pufendorf (1632-1694). Giurista e filosofo tedesco. Vasco de Quiroga (1470?–1565). Giudice e primo vescovo di Michoacán (Messico). Real Audencia. Alta corte di giustizia. Reducciones. istituzione gesuita. comunità di lavoro e preghiera. In casi estremi, come a Maní, centri di concentramento della popolazione indigena, che poteva essere più facilmente sorvegliata e castigata in queste città “carcerarie”. Matteo Ricci (1552–1610). Missionario gesuita in Cina. Matematico, cartografo ed esploratore del Celeste Impero. Palacios Rubios (1450–1524). Giurista spagnolo autore del requerimiento, un’ingiunzione di sottomissione che doveva essere letta agli indigeni per legalizzare il loro assoggettamento. Bernardino de Sahagún (1499-1590). Missionario francescano. Pioniere dell’antropologia. Francisco Cervantes de Salazar (1514?–1575). Letterato, uno dei primi accademici in Messico. Juan de Solórzano y Pereyra (1575-1655). Giurista spagnolo. Domingo de Soto (1494-1560). Teologo domenicano. Confessore di Carlo V e suo rappresentante al Concilio di Trento. Francisco de Toledo (1516-1582). Vicerè del Perù dal 1569 ed il 1581. Miguel Cabello de Valboa (1535-1608). Mercenario prima, missionario agostiniano in Sudamerica poi. Blasco Nùñez de Vela (1490–18 gennaio 1546). Esploratore e primo vicerè del Perù. Alonso de la Veracruz (1507-1584). Giurista e filosofo. Allievo di Francisco de Vitoria. 141
Francisco de Vitoria (1486-1546). Teologo dominicano. Uno dei padri del diritto internazionale.
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