La frontiera nascosta e gli studi di popolazione

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LA FRONTIERA NASCOSTA IL DIBATTITO SU EREDITÀ ED AMBIENTE NELL’AREA ALPINA 1865-1935

Spesso le teorie medico-scientifiche sono state impiegate per imporre determinate dottrine politiche e per garantire la coesione sociale e l’ordine pubblico. Per questa ragione si tende a concordare sul fatto che la formulazione di una teoria scientifica può talora tradursi in una dichiarazione di carattere politico. D’altro canto, giacché sarebbe irragionevole ritenere che gli scienziati siano immuni dall’influenza del contesto culturale nel quale si trovano ad operare, si è ipotizzato che gli “stili” di ricerca scientifica ed i paradigmi che informano le elaborazioni concettuali degli specialisti delle scienze biomediche possano variare al variare delle circostanze storiche e politiche. 1 Quest’articolo rappresenta il primo tentativo del quale io sia al corrente di vagliare quest’ipotesi per quel che riguarda la regione alpina e di verificare la possibilità che la catena delle Alpi abbia creato con la sua presenza un confine cognitivo tra Nord e Sud, e tra nature (eredità) e nurture (ambiente). Si badi bene, non è mia intenzione essenzializzare questa dicotomia, ma solamente evidenziare come una separazione fisica abbia potuto generare una separazione mentale ed ideologica e come quest’ultima abbia reso possibile l’emergere di determinismi ed astrazioni arbitrarie che poco avevano di scientifico ma venivano percepite come accettabili proprio in virtù di questo confine invisibile. In conseguenza di ciò, i rilevamenti antropometrici, biometrici e genetici che vennero effettuati sulle popolazioni alpine poterono talora servire a rinsaldare, naturalizzandole, le rigidità di certi attributi ed a de-istoricizzare certi processi culturali stocastici.

L’ANTROPOLOGIA FISICA E MEDICA DI FIN DE SIÈCLE: VERSO LA NATURALIZZAZIONE DEL SOCIALE

Il primo case-study che prenderò in considerazione è quello di una serie di ricerche antropologiche sull’origine razziale delle popolazioni trentino-tirolesi al tempo in cui queste facevano parte dell’impero asburgico. In un clima politico arroventato da dispute territoriali tra Austria ed Italia, il medico ed antropologo meranese Franz Tappeiner (1816-1902) ed i suoi collaboratori dichiararono che i dati in loro possesso comprovavano che una maggioranza di Trentini poteva essere classificata come “tipo germanico”. La supposta dolicocefalicità dei Trentini, che li assimilava alla “razza ariana”, era un dato fin troppo prezioso ai fini della salvaguardia dei confini austriaci e si inserisce mirabilmente in un’elaborazione teorica strettamente connessa al dibattito antropologico tedesco che avrebbe trovato la sua sintesi locale proprio in un altro saggio del Tappeiner, intitolato “Der europäische Mensch und die Tiroler“ 2. In esso l‘antropologo medico meranese sosteneva che, essendo ormai chiaro come non fosse possibile inferire dalle sole dimensioni del cranio l’intelligenza di una razza, l’unico criterio praticabile diventava allora il confronto tra le misurazioni craniometriche e le espressioni visibili dell’intelletto (manufatti). Seguendo questo accorgimento, Tappeiner assicurava il lettore che si era giunti ad un vasto consenso attorno alla tesi che l’Ariano, “l’Uomo Bianco”, era naturalmente predestinato a prevalere nel Kampf ums Dasein, la lotta per la sopravvivenza, e a dominare il mondo, mentre le altre razze si sarebbero avviate all’estinzione, a meno che non avessero 1 2

LEWONTIN 2001. GOULD 1981. ROSE, KAMIN, LEWONTIN 1984 TAPPEINER 1896

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optato per una vantaggiosa commistione con la razza ariana. Ciò sarebbe avvenuto grazie alle superiori virtù intellettuali e spirituali del cervello e della fibra degli Ariani che avrebbero garantito alle razze inferiori quel salto evolutivo da loro tanto anelato. Naturalmente questo tipo di retorica imperialista non poteva non suonare allarmante alle orecchie dei suoi colleghi italiani e trentini, che in generale avevano scelto più o meno dichiaratamente la via dell’irredentismo. Due di loro, Giovanni Canestrini (1835-1900), il “mastino italiano di Darwin”, e Lamberto Moschen (1853-1932) ribatterono che, stando all’evidenza scientifica da loro raccolta, i Trentini non potevano che essere classificati assieme ai loro vicini italiani. Entrambe le fazioni si rifiutarono di ammettere l’esistenza di evidenti somiglianze tra sud-tirolesi e trentini. Questo confronto tra “narrazioni” scientifiche contrastanti finalizzate all’appropriazione di un territorio e dei suoi abitanti diviene vieppiù affascinante se uno considera che entrambe le parti supportavano le loro tesi facendo ricorso a tassonomie locali reificate grazie ad una patina di scientificità e ad una rilettura in chiave deterministica della natura umana, e dichiarando che le indagini scientifiche hanno per oggetto la ricerca della verità e non possono trasformarsi in ancelle della politica 3. Noi oggi sappiamo che queste affermazioni così categoriche mal si conciliano con la realtà dei fatti e ci sembra più che evidente che i summenzionati scienziati erano preda delle loro personalissime verità. Ma non bisogna dimenticare che a quel tempo era ancora invalsa la convinzione che la scienza fosse posta a di là del Bene e del Male, e che quindi gli scienziati, compartecipi di questa neutralità quasi ultraterrena, erano nella posizione di dirimere con cognizione di causa questioni eminentemente politiche e sociali 4. Questo tipo di atteggiamento prende il nome di scientismo e, storicamente, lo scientismo ha fin troppo spesso avvilito il carattere umanistico della ricerca scientifica. E’ noto, infatti, che l’empirismo ed il naturalismo radicali dell’antropologia fisica e medica tedesca della fine del diciannovesimo secolo contenevano in sé i germi della sua degenerazione anti-umanista 5. Nate in contrapposizione agli studi storici ed umanistici ed al loro relativismo culturalista, essere adottarono una percezione statica dei Naturvölker, popoli “altri”, esclusi dai processi storici, i cui progressi tecnici e socio-culturali potevano solo avvenire per contatto e diffusione a partire dai Kulturkreisen coinvolti nei grandi processi storico-evolutivi. Alcuni di questi “fossili viventi”, rappresentanti di una natura umana preservatasi pura nel corso dei millenni, venivano esibiti nelle città tedesche tramite i Völkerschauen, veri e propri panopticon benthamiti. Per forza di cose, trattandosi di esseri umani con esigenze, aspettative, e finalità specifiche, gli “esemplari di umani allo stato naturale” talvolta si rifiutavano di recitare la parte loro assegnata dalle società antropologiche che organizzavano gli spettacoli pubblici e non erano sempre disposti a lasciare che i loro crani e tratti anatomici fossero misurati dagli antropologi tedeschi. Ma non è arduo immaginare che i margini di negoziazione non fossero particolarmente ampi, dato che l’obiettivo principale dei ricercatori era quello di raccogliere informazioni sulle tipologie umane primitive al fine di meglio comprendere gli stadi evolutivi della civiltà occidentale, ossia dei Kulturvölker, le “società calde” levi-straussiane, non certo quello di contrastare la brutalità dell’imperialismo europeo. Infatti gli antropologi di area tedesca rifiutavano l’evoluzionismo darwiniano nella misura in cui certe sue interpretazioni (Affenlehre) tendevano a rendere opaca la distinzione tra tutti gli esseri umani e i primati e non tra questi ultimi ed i “primitivi” naturalizzati o gli individui deformi e devianti. Proprio per questo motivo, persino professionisti di chiara fama e fede liberale o socialista potevano finire per promuovere una visione della variabilità umana fin troppo strettamente imparentata con l’ideologia della “white supremacy” dell’America segregazionista, della Germania nazista, dell’Apartheid sudafricano, ma anche dell’Australia e dell’Etiopia coloniali. In altre parole, la netta demarcazione dei tratti – naturali e culturali – destinati a formare l’auto-percezione degli Europei, e di quelli arbitrariamente selezionati e calcolati antropometricamente per definire la naturalità e l’autenticità dei primitivi, dei diversi, dei devianti, non potevano non avere un enorme potenziale anti-umanista. Tenuto conto di questo aspetto, e poiché la leadership dell’antropologia 3 4

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MAZZOLINI 2001 SCHIEBINGER 1990 ZIMMERMAN 2001

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fisica tedesca era affidata a specialisti delle scienze bio-mediche, non è per nulla strano che la dicotomia normale/patologico acquistasse forti valenze etiche e politiche. Naturalmente con ciò non voglio insinuare che l’intera disciplina fosse ineluttabilmente destinata a convergere verso le rozze e perniciose dottrine razziste. Al contrario figure prestigiosissime quali Rudolf Virchow e Felix von Luschan si batterono con la veemenza propria di chi è consapevole di trovarsi vicino ad un punto di non ritorno. Ma quando la craniometria, criticata da più parti per i suoi echi frenologici e per le strumentalizzazioni razziste di cui era oggetto 6, fu abbandonata a favore delle più moderne e promettenti tecniche della biologia, la tendenza all’essenzializzazione 7 del diverso - dell’”Ebreo”, del “Criminale Nato”, del “Degenerato”, o del “Demente” - ed alla formulazione di giudizi di valore sui suoi attributi somatici e culturali ricevette un ulteriore, poderoso impulso. Fu insomma il considerevole successo del paradigma ereditarista che segnò le sorti dell’antropologia fisica e medica tedesca. In quest’ottica le leggi dell’eredità, se ben comprese, avrebbero definito le modalità di trasmissione dei caratteri vantaggiosi e svantaggiosi e fornito alle autorità mediche e politiche gli strumenti per “sanare” la razza e per migliorarla, accelerando il processo di selezione naturale, a discapito delle razze più attardate lungo la scala evolutiva 8. L’antropologia medica indirizzò dunque i suoi sforzi verso la comprensione della variabilità razziale nelle predisposizioni ereditarie e gli studi di medicina tropicale, ematologia, epidemiologia, igiene, ecc. servirono a far luce su queste differenziazioni razziali. Il risultato fu l’emergere di una nuova frenesia positivista che distorse i lodevoli intenti delle scienze empiriche e naturali e ricondusse “civitas” e “civilitas” alle sue presunte componenti naturali. Questo processo gettò le basi per gli etologismi à la Lorenz ed i socio-biologismi à la von Uexküll, che si prestarono così docilmente alla promozione delle ideologie nazi-fasciste 9. Un’ulteriore conseguenza fu la riformulazione degli obiettivi della medicina (Fürsorge), che divenne sempre più medicina biologica preventiva (Vorsorge) e sempre più concentrata sul miglioramento delle prestazioni fisiche ed intellettuali dei sani e sul mantenimento dello status quo e sempre più indifferente verso le sorti dei malati cronici e costituzionali 10. In questo modo si realizzò la traslazione dei fenomeni societari e delle proposizioni morali dal piano socio-culturale a quello biologico e degli eventi umani in genere dal piano storico a quello naturale 11.

L’HOMO ALPINUS E L’IGIENE RAZZIALE

Jonathan Harwood e Kathy J. Cooke hanno ipotizzato che gli stili di ricerca scientifica varino a seconda della tradizione culturale dominante in una data nazione tubercolosi

. In altre parole, lo studio dell’eziologia di certe malattie come la

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, il gozzo, la pellagra, la schizofrenia, ecc. potrebbe essere stato influenzato dal paradigma concettuale

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prevalente in seno alla classe medico-scientifica di un certo paese in una certa fase storica. Pur tenendo conto delle numerose eccezioni 14, da tempo sospetto che, per quel che riguarda i paradigmi interpretativi e metodologici impiegati dai 6

COLAJANNI 1903 Si può forse ipotizzare che la cosiddetta “law of excluded middle” esemplificata dalla proposizione “A non può essere non-A” stia alla base del pensiero occidentale fin dai tempi dei pensatori ionici del VI secolo avanti Cristo, e che in un certo senso le sue aberrazioni siano dovute all’assolutizzazione di questo processo cognitivo, che può assumere i contorni del manicheismo tipico del razzista e del fanatico. In questo caso limite, il pensiero critico diventa una ricerca spasmodica dell’intrinseco, del fondamentale, delle presunte categorie dell’essere e delle universali leggi di natura. Lo scientismo altro non è che la pretesa di spiegare l’agire umano tramite le leggi di natura o le leggi economiche. In questo senso, ogni individuo, in quanto dotato di caratteristiche sue proprie, poteva trovare una sua precisa collocazione in una specifica tassonomia ed in un sistema di identità, differenze, e valori intrinseci. Non è altresì da escludere, come suggerito da Bertrand Russell, che questa ricerca dell’essenza delle cose nasca anche da un disperato bisogno di trovare un rifugio, una protezione di fronte alle contingenze e gli imprevisti della vita e della Storia (O’MALLEY et al. 1994; ESSED - GOLDBERG 2002) 8 MASSIN 1996 9 MÜLLER-HILL BENNO 1984 10 HARRINGTON 1996 11 BURGIO 1998; BURGIO 2000 12 HARWOOD 1993; COOKE 1998 13 GUILLAUME 1986; SMITH 1988 14 LÓPEZ-BELTRÁN CARLOS 2004 7

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rispettivi medici e scienziati, sia possibile identificare una chiara linea di demarcazione tra Paesi di tradizione latina e mediterranea e Paesi nordici ed anglo-sassoni. Ciò spiegherebbe perché l’approccio criminologico lombrosiano, che pure era nato in Italia, e quello eugenetico galtoniano e davenportiano, chiaramente improntati ad una lettura pessimistica e deterministica della trasmissione di ipotetiche predisposizioni genetiche al comportamento anti-sociale, 15 fossero ferocemente avversati dalla vasta maggioranza dei giuristi, scienziati sociali ed esperti di biomedicina in Italia, in Francia, in Spagna e nell’America Latina 16. Nelle parole di Rinaldo Pellegrini, co-direttore dell’ ”Archivio fascista di medicina politica”, in quei paesi sembra essersi diffusa la consapevolezza che le società umane siano troppo complesse ed irrazionali per essere concepite in termini medici 17. Di conseguenza l’adesione alla linea ufficiale “pan-latina” presupponeva un atteggiamento di netta opposizione verso le aberrazioni dell’eugenismo anglosassone e dell’igiene razziale tedesca. In particolare, la dottrina dell’igiene razziale (Rassenhygiene), si diffuse ben oltre i confini tedeschi, infiltrandosi nel dibattito eugenetico svizzero, austriaco, svedese, americano e persino islandese, mentre in Italia rimase estremamente circoscritta 18. Essa si contraddistingueva per una serie di enunciati che non tutti gli eugenetisti avrebbero condiviso 19: -

nel corso dei millenni diversi ceppi razziali si sono sviluppati, ognuno dei quali è perfettamente adattato alle condizioni naturali della sua dimora ancestrale;

-

la commistione dei membri di razze diverse ha reso più arduo, ma non impossibile, la determinazione dei tratti identificativi di una razza in un dato individuo;

-

alcuni di questi tratti sono vantaggiosi, altri sono svantaggiosi in termini di sopravvivenza della specie e di adattabilità e idoneità alla civiltà moderna. Questa è la distinzione cruciale tra Naturvölker e Kulturvölker, i primi condannati ad essere soggiogati dai secondi;

-

questi attributi possono essere somatici, caratteriali e “spirituali”, ma rimangono invariabilmente associati a livello di ceppo razziale; Naturalmente questo tipo di teorizzazioni razziali investirono anche la zona alpina e, fin dai suoi esordi, la divisione

tipologica delle razze europee incluse la categoria “Homo Alpinus”, che riprese i tradizionali stereotipi sul bon sauvage dalla superiore costituzione fisica superiore e realizzatore di un comunismo democratico o, come insinuò Heinrich Heine a proposito dei Sud-Tirolesi, troppo stupido per non essere sano

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o, secondo Chateaubriand, dedito al furto, al

contrabbando ed al bracconaggio 21. A questo proposito, è bene confutare certi argomenti speciosi di più recente formulazione, come quelli di chi ritiene che la pacifica coesistenza di etnie diverse in valli adiacenti abbia assicurato la vittoria della democrazia e della tolleranza su ogni tentativo di razzializzazione 22. Purtroppo nessun popolo alpino è riuscito a sopprimere le pulsioni xenofobe ed il razzismo biologico. Senza doverci soffermarci troppo sul caso Haider, il cui partito etno-populista fino alla fine degli anni Sessanta dichiarava ancora di voler perseguire il perfezionamento della razza attraverso l’ingegneria genetica, la stessa 15

Il termine eugenics (trad. it. eugenica o eugenetica) fu coniato nel 1883 da uno statistico e naturalista britannico, Francis Galton (1822-1911), cugino molto meno talentuoso e riflessivo di Charles Darwin ed erede della moderna tradizione di medicina bio-politica dell’illuminismo francese e del pragmatismo inglese. Il sostantivo “eugenetica” (o “eugenica”) deriva dall’inglese eugenics, a sua volta un adattamento del greco εύγενής, che significa “ben nato, di buona nascita” e stava ad indicare quella tecno-scienza volta al miglioramento della specie umana tramite la selezione dei caratteri positivi (eugenici) e l’eliminazione di quelli negativi (disgenici) . Nel corso della sua parabola storica, quello eugenetico continuò ad essere un movimento eterogeneo, ma in genere fu caratterizzato da quattro attributi: la convinzione che tutte le caratteristiche umane siano ereditarie e che il meccanismo di trasmissione possa essere scoperto; la convinzione che sia possibile identificare razionalmente i tratti desiderabili e quelli indesiderabili; la determinazione ad impedire che i portatori di caratteri dannosi potessero riprodursi (eugenetica negativa) ed a favorire la procreazione dei soggetti più idonei ad un’esistenza più “proficua” (eugenetica positiva); l’identificazione di alcune misure che avrebbero permesso di conseguire i suddetti scopi: certificati pre-matrimoniali di idoneità, il controllo delle nascite, la compilazione di pedigree umani, il blocco dell’immigrazione proveniente da Paesi “a rischio” , la sterilizzazione più o meno volontaria, la castrazione, la segregazione e, nella Germania nazista, l’eliminazione fisica degli “indesiderabili”. 16 LINDESMITH – YALE 1937; MARISTANY 1973; D'AGOSTINO 2002; NYE 1976; PICHOT 2000, SCHNEIDER 1982, CAROL 1995; POGLIANO 1984; STEPAN 1991 17 MAIOCCHI 1999 18 POGLIANO 1999 19 WEINSTEIN - STEHR 1999 20 Per i Romantici tedeschi la malattia poteva essere un mezzo di elevazione spirituale (Steigerung) e purificazione (Reinigung) 21 BOZONNET 1992 22 WALTER 1992

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Svizzera degli anni Trenta rivelava un pericoloso mélange di dottrina igienista e di sentimento di identità nazionale 23. D’altra parte fu proprio a Zurigo che il movimento della Lebensreform attrasse alcune figure centrali di quella che sarebbe diventata la dottrina dell’igiene razziale. Tra essi figuravano August Forel (1848-1931), Eugen Bleuler (1857-1939), Alfred Ploetz (1860–1940), Ernst Rüdin (1874–1952), Robert Ritter ed Emil Abderhalden (1877-1950). Essi furono accomunati da un prestigioso futuro professionale, da un orientamento apertamente razzista, dalla convinzione post-illuminista che fosse essenziale arrivare ad un controllo centralizzato sulla vita e la procreazione 24, e da una certa predilezione per una disciplina di recente formazione, l’economia umana, nata dalla fusione di economia politica e medicina biologica e genetica 25 e che aveva come scopo ultimo una radicale riforma della società. Questa spinta riformatrice si doveva configurare come la terza via tra capitalismo e comunismo 26 per giungere alla realizzazione dell’egualitarismo biologico, senza il quale, a loro modo di vedere, l’egualitarismo sociale non sarebbe stato assolutamente concepibile. La costruzione della moderna identità nazionale svizzera non può essere compresa senza fare riferimento a queste dottrine allora estremamente in voga e dal concomitante tentativo degli antropologi svizzeri di definire gli attributi razziali dell’Homo Alpinus Helveticus 27. Quello che forse fu il maggior fautore di questa ideologia fu l’antropologo fisico Otto Schlaginhaufen (1879-1973), il primo presidente della Julius Klaus Foundation per la ricerca sull’ereditarietà, l’antropologia sociale e l’igiene razziale, fondata a Zurigo nel 1922 allo scopo di pianificare tutte le riforme necessarie al miglioramento della razza bianca. Tra il 1927 ed il 1932 Schlaginhaufen ed i suoi assistenti eseguirono le misurazioni antropometriche di 35.000 reclute svizzere e ricavarono una mappatura razziale del territorio svizzero, per poter individuare l’Homo Alpinus Helveticus nelle sue espressioni più pure. Questo progetto fallì miseramente, ma quel che è importante sottolineare è che le nozioni di purezza razziale ed omogeneità linguistica si sovrapposero agevolmente a quella dell’incontaminata purezza degli ambienti alpini. Questo rimane un rischio molto attuale che nessun genetista di popolazione dovrebbe mai sottovalutare. Si prenda ad esempio lo Human Genome Diversity Project, lanciato nel 1991 da uno dei fondatori della genetica delle popolazioni, Luigi Luca Cavalli-Sforza, assieme ad altri colleghi americani e concepito come un colossale sforzo collaborativo internazionale che avrebbe dovuto integrare i risultati dello Human Genome Project tramite la raccolta di linee cellulari di popolazioni indigene sull’orlo dell’estinzione. I campioni raccolti sarebbero stati conservati negli istituti di ricerca genetica statunitensi e resi disponibili ai genetisti di tutto il mondo, in modo da rendere possibile lo studio approfondito della storia delle migrazioni umane, della frequenza e magnitudine delle variazioni e della mutazioni genetiche, della struttura delle popolazioni, oltre a permettere di meglio affrontare il problema dell’interazione di eredità ed ambiente 28. Il fuoco di fila dei critici ha però bloccato questa grandiosa iniziativa. Lasciando da parte le obiezioni tendenziose, bisogna prendere atto del fatto che i responsabili del progetto non si sono preoccupati di anticipare le implicazioni etiche, sociali, legali e politiche delle loro ricerche. Ancor più grave è la fragilità teorica dell’intera impresa. È infatti piuttosto rattristante che genetisti e biologi abbiano virtualmente ignorato gli insegnamenti di più di un secolo di ricerche etnografiche che comprovano la mobilità della specie umana, la sua propensione a riscrivere continuamente i confini tra gruppi umani e a costruire d’imperio norme e consuetudini che non hanno riscontro nel mondo animale. Essi hanno commesso un errore marchiano, la cosiddetta “fallacia classificatoria” (o “fallacia essenzialista”), confondendo le categorie artificiali, arbitrariamente costituite su basi culturali, storiche e geografiche, con quelle naturali. Hanno inoltre dimenticato che la diversità umana è “discordante” piuttosto che “concordante”, cioè a dire che nel corso dei millenni si sono delineate delle

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Nel 1929, il rapporto di una commissione extraparlamentare recitava: « Une Suisse sans un peuple montagnard fort et sain, moralement et physiquement, ne serait plus la Suisse au sens historique du terme » (WALTER, op. cit.) 24 HUONKER 2003; EHRENSTRÖM 1993; FREWER 2000; WEINDLING 1989 25 REPP 2000 26 KAPPELER 2000 27 MOTTIER 2000 28 CAVALLI-SFORZA 1991

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gradazioni di differenziazione così sottili che le somiglianze esterne tra due gruppi non sono indicazione di una qualche differenziazione biologica e fisiologica 29. La questione della “fallacia classificatoria”, ossia dell’indebita sovrapposizione di “nature” e “nurture”, può essere meglio compresa per mezzo di un case-study come quello della storia della ricerca medica e biologica del gozzismo, che cercherò di esporre in questa seconda sezione, anche se in modo necessariamente sommario.

L’EZIOLOGIA DEL GOZZISMO E DEL CRETINISMO

Nel 1848 Carlo Alberto, re di Piemonte e Sardegna, commissionò un’inchiesta sul gozzo e sul cretinismo all’interno dei confini del suo regno che rivelò come, su un totale di 81.232 abitanti della Valle d’Aosta, circa 6.000 ne erano affetti

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Queste proporzioni allarmanti non erano anomale nell’area alpina occidentale e lo studio dell’eziologia di gozzo e cretinismo era diventato uno dei capisaldi delle campagne di igiene sociale in tutte le nazioni che si estendevano sulle Alpi. Tuttavia, sebbene il fattore scatenante del gozzismo endemico, cioè la carenza di iodio, che rimane ancor oggi la causa più frequente di danni cerebrali, fosse stato identificato da J. B. Boussingault nel 1825, e un rimedio piuttosto efficace, l’ingestione di alghe e spugne marine, fosse già noto ai medici dell’antica Cina e venisse raccomandato anche dalla celebre scuola medica di Salerno, la proposta di Boussingault di aggiungere sale iodato alla dieta dei popoli montani fu raramente messa in pratica. Così, per esempio, nel 1921 solo il 6 per cento degli scolari del distretto di Berna aveva una ghiandola tiroidea che funzionava normalmente e ben un terzo di loro erano classificati come “gozzuti”. Trent’anni dopo, anche grazie ad una profilassi basata sulla somministrazione di iodio, più del 90 per cento degli scolari del medesimo distretto vennero giudicati in buona salute 31. Purtroppo il colpevole ritardo di questi interventi preventivi ebbe effetti sociali devastanti. Migliaia di individui che avrebbero potuto condurre un’esistenza normale furono condannati a forme più o meno severe di disabilità e discriminazione. Infatti, com’è spesso accaduto nel corso della storia, l’impotenza della scienza e della medicina di fronte ad una piaga sociale, condusse ad un fatalismo pernicioso che talora trasferiva la “colpa cosmica” di questa tragedia collettiva sulle pratiche immorali degli ammalati o sulla loro congenita inferiorità. Il primo e forse più formidabile caso di biologizzazione di questa categoria d’infermi fu quello dei cagots della regione pirenaica Francese e Spagnola. Variamente denominati Cagots, Gézitain, Chrestians, Gahets, Capots, Agots, questi sfortunati esseri umani furono trasformati in una sub-specie, una casta di intoccabili che vennero segregati ed ostracizzati dal resto della popolazione. Questo episodio della storia del razzismo è importante perché mostra che il razzismo biologico non era invariabilmente rifiutato nei Paesi Mediterranei ed è possibile che in qualche modo questo fenomeno fosse collegato al tentativo di biologizzare le differenze culturali di Mori ed Ebrei nella Spagna dell’Inquisizione. Sappiamo infatti che l’Inquisizione impiegò medici spagnoli per determinare il grado di purezza razziale degli imputati 32, e lo stesso avvenne nella Germania nazista, quando ai medici genetisti (Erbarzt) venne richiesto di stabilire la proporzione di “ebraicità” dei certi cittadini tedeschi. E’ tuttavia importante tenere a mente che il corpo legislativo spagnolo e francese, eredi della giurisprudenza romana che separava rigidamente ius naturale e ius civile, rifiutò recisamente di adottare alcun parametro biologico per la definizione della persona giuridica e che gli statuti di limpieza de sangre spagnoli furono avversati persino da numerosi inquisitori e che di conseguenza essi vennero raramente adottati, ed ancor più raramente osservati

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E’ possibile che il termine cagots possa essere emerso nel Medioevo a partire da un termine della parlata béarnais che stava ad indicare i lebbrosi. Dunque più che ad una tara ereditaria, esso si riferiva al rischio di contagio ad essi associato. 29

MARKS 2003 CUAZ 1994 31 MERKE 1984 32 ALCALÁ 1984 33 KAMEN 1998; BAUD 2001 30

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Tuttavia, sembra abbastanza certo che non di lebbrosi si trattasse, ma di reietti, gozzuti, ed asociali. La ragione principale di questa discriminazione è ancora dubbia, e la credenza popolare la faceva risalire ad una remota discendenza gotica, celtica o saracena, ossia ad una distinzione razziale che aveva reso possibile l’arbitraria creazione di una race maudite, a dispetto dei dubbi e delle obiezioni sollevati da un certo numero di medici, molti dei quali confessavano di non poter distinguere i cagots dai “normali”. Questo tipo di apartheid pre-moderno sarebbe durato per diversi secoli. I cagots non potevano frequentare i “normali” e potevano solo lavorare come carpentieri e pastori, essendo però costretti a lasciare i centri abitati al calar del sole. Non potevano portare armi e possedere terre, delle sezioni delle chiese erano loro riservate in modo da non porli in contatto con gli altri fedeli, dovevano portare sulle vesti dei contrassegni che li identificassero come cagots e non potevano essere seppelliti nei cimiteri ufficiali. Poi, a partire dalla fine del diciassettesimo secolo, i magistrati ed amministratori locali più illuminati

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cominciarono a prendere una posizione di netto rifiuto nei confronti di queste aberrazioni sociali, anche in

virtù delle dichiarazioni sempre più egalitarie ed anti-razziste di medici e chirurghi. Ciò nonostante, altri legislatori e giudici meno progressisti potevano affidarsi alle osservazioni “scientifiche” di altri medici e scienziati “segregazionisti” che si rifiutarono di ammettere che i propri giudizi erano mere congetture inficiate da pregiudizi. Così avvenne che alla fine del diciottesimo secolo il geologo e botanico francese Raymond de Carbonnières era ancora convinto che i cagots costituissero una razza a parte, vittime di un qualche fattore degenerativo

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e, nonostante non esistesse un vasto consenso su quali tratti

caratterizzassero i cagots, i medici C.F. Mylius e Joseph e Karl Wenzel erano concordi nel ritenere che questi dovevano sottostare ad un qualche meccanismo di trasmissione ereditaria. La lezione che dobbiamo trarre da questi episodi della storia della medicina e della scienza è che il confine tra normale e patologico è definito da criteri culturali e sociali che spesse volte tendono ad acquistare una più ampia legittimità tramite il ricorso a delle sedicenti leggi di natura. E’ superfluo dire che questo tipo di naturalizzazione delle specificità socio-culturali e storico-geografiche era ben più diffuso nel passato. Il trattamento medico e lo status giuridico dei gozzuti ne rappresentano uno degli esempi più clamorosi. Già nel 1789, il medico piemontese Vincenzo Malacarne aveva raccomandato di prendere delle precauzioni di tipo eugenetico contro l’incrocio di ceppi con una predisposizione ereditaria al gozzo e cretinismo ed in favore del celibato per chi venisse giudicato inadatto alla procreazione. Non ci è purtroppo dato di sapere quanto questa posizione così audace e discutibile fosse stata influenzata dai precetti dell’influentissimo medico austriaco Johann Peter Frank, il responsabile per la sanità delle province italiane dell’impero asburgico ed uno dei padri della nozione di “polizia medica”. Rimane il fatto che a partire dal 1779, Frank pubblicò il suo celeberrimo System einer vollständigen medicinischen Policey (“Sistema completo di polizia medica”) nel quale l’autore si occupava di ereditarietà, degenerazione, selezione e contro-selezione, procreazione eugenetica, demografia e prevenzione delle nascite per mezzo di sterilizzazione e raccomandava che fossero proibiti i matrimoni che non fossero preceduti da un accurato controllo medico 36. Sappiamo anche che Frank si occupò di gozzismo e cretinismo e che era un interlocutore di Malacarne, premurandosi persino di pubblicare un’edizione francese del suo trattato su gozzismo e cretinismo. In quegli anni, il filosofo sperimentale, geologo e botanico ginevrino Horace-Bénédict de Saussure (1740-1799) divenne uno dei primi scienziati a studiare metodicamente il gozzo endemico. Durante le sue escursioni in Val d’Aosta ammirò la bellezza degli scenari ma, una volta arrivato al villaggio di Villeneuve, s’imbatté in una tale affreuse quantité de crétins che si chiese se esistesse un solo paesano sano. Questa esperienza lo impressionò visibilmente, e Saussurre cercò di trasmettere ai suoi lettori le sensazioni che aveva provato di fronte a quello spettacolo deprimente. Da un lato quella “natura umiliata e degradata” alimentava un profondo senso di mortificazione causato dalla consapevolezza di appartenere alla stessa 34

Il grande filosofo Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu, era uno di questi (BÉRIAC 1990; KINGSTON 1996) MERKE, op. Cit. 36 FRANK 1830 35

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classe di esseri viventi. D’altro canto l’osservatore era preda dell’angosciante timore che un giorno lui stesso avrebbe potuto essere vittima dello stesso fato. Ciò lo spinse a cercare di individuare le cause del gozzismo e del cretinismo e dei possibili rimedi, al fine di esorcizzare queste paure e riscattare quegli esseri degradati che gli si erano parati di fronte, che lui stesso confessava di non riuscire a chiamare “umani”, anche se si rifiutava di definire “bestie”, preferendogli un più neutrale “individui” 37. Sulla scorta delle sue annotazioni, Saussure concluse che non tutti i gozzuti erano cretini ma tutti i cretini erano gozzuti, e che gozzuti e cretini tendevano all’indolenza ed all’apatia. I forestieri che si trasferivano in aree con un’alta incidenza di queste patologie non le sviluppavano nel corso della loro vita, ma i loro figli erano condannati. Poiché era arduo incontrare un cretino a grandi altezze e presso le pianure, ed il gozzo colpiva il Derbyshire inglese e Sumatra, dove non esistevano ghiacciai, egli dedusse che l’acqua in sé non poteva essere responsabile del gozzo endemico e che non poteva trattarsi di una differenza costituzionale tra popolazioni. D’altronde la situazione non variava sugli altri versanti alpini. Non potendo accusare la malnutrizione, perché non tutti i poveri del mondo soffrivano di gozzo, Saussure ipotizzò che una combinazione di aria stagnante e di insolazione potesse costituire il fattore scatenante, ma lui stesso ammise che non trovava questa spiegazione troppo convincente. Purtroppo per lui, la scienza del tempo non era ancora in grado di eseguire campionamenti sistematici del terreno per valutarne il contenuto relativo di iodio e quindi il geologo e glaciologo ginevrino continuò a brancolare nel buio. Altri scienziati, medici, esploratori e semplici turisti si trovarono al cospetto di questo ”orrore” conradiano. Alcuni espressero paura e repulsione, altri incolparono i nativi e la loro condotta di vita immorale per quella condanna cosmica e provvidenziale. L’arroganza alto-borghese di alcuni di questi visitatori giunse al punto da definire la Val d’Aosta la “Cornovaglia del Piemonte”, per i suoi meravigliosi paesaggi ed il pietoso stato dei suoi abitanti 38. Il lettore dei giorni nostri troverà difficile liberarsi dalla sensazione che molti turisti inglesi e tedeschi scegliessero di venire in Val d’Aosta precisamente per esperire “sensazioni forti” di fronte a questo “circo dei mostri umanoidi” (freak show). Persino i più riflessivi e liberi da preconcetti, quali James D. Forbes (1809-1868), fisico e glaciologo inglese, raccontarono nelle memorie dei loro soggiorni valdostani che il piacere provato al cospetto di tanta bellezza era rovinato dalle detestabili deformità dei suoi abitanti. Ad un certo punto lui ed i suoi compagni di viaggio si chiesero se esistessero degli esseri umani ragionevoli in quelle contrade. Nel seguito della sua narrazione Forbes si premurò comunque di spiegare che quello era un giorno festivo e che tutti gli abitanti sani si erano radunati altrove e di lodare la cortesia e disponibilità della locandiera che li ospitò e della giovane guida che li accompagnò a destinazione il giorno successivo. Il suo commento, che denota una certa onestà intellettuale fu che “in questo, come in altri casi del genere, le apparenze non devono essere prese alla lettera” 39. La vicenda che giudico più illuminante è comunque quella dell’alpinista britannico Edward Whymper che percorse queste terre nella seconda metà del diciannovesimo secolo. Nel 1942, mentre un allarmante numero di medici e scienziati tedeschi convalidavano le distopie razziali di Hitler, lo zoologo inglese John R. Baker stigmatizzò il pensiero del suo connazionale, Edward Whymper, un famoso alpinista che circa ottant’anni prima aveva conquistato il Cervino ed aveva descritto i valdostani in termini alquanto rozzi. Baker condannò la spietatezza con la quale Whymper esprimeva i suoi sentimenti di fronte ai gozzuti e cretini che aveva incontrato e auspicava che un giorno fossero radunati e spediti al fronte a cozzare contro altre armate di loro simili. Il commento di Baker fu che “le persone che pensano in questo modo fanno inorridire gli scienziati”40. L’ironia di questa nota di biasimo è che essa provenne da uno scienziato che circa trent’anni dopo pubblicò il suo testamento scientifico, intitolato “Race”, in cui tentò di dirimere la questione delle razze umane da un punto 37

DE SAUSSURE 1786 CUAZ, op. cit. 39 FORBES 1900: 269 40 BAKER 1942 38

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di vista zoologico, fisiologico e citologico e concluse che certe razze erano destinate a trionfare e che altre si sarebbero discostate ben poco dai primati. Purtroppo sono proprio le pretese di scientificità di certi studiosi che li inducono a pontificare su argomenti dei quali possiedono una conoscenza sommaria, rendendo le loro interpretazioni nulla più che pregiudizi espressi in una terminologia specialistica, ma non per questo più credibili. L’infausta separazione di antropologia fisica ed antropologia socio-culturale non può che aggravare questo stato di cose. Dal canto suo Whymper era tutto fuorché una persona amabile e diversi suoi colleghi disapprovavano la sua tendenza ad interpretare l’alpinismo come uno sfoggio di tecnica e forza, spogliandolo dei suoi aspetti romantici e spirituali. Col senno di poi, non è difficile capire come mai egli potesse disprezzare le popolazioni che abitavano quelle montagne che lui considerava solo come ostacoli da superare e avversari da soggiogare. Tuttavia il libro incriminato, Scrambles amongst the Alps in the years 1860-’69, che Whymper pubblicò nel 1871, svela sì l’alterigia, il narcisismo, e l’insensibilità di Whymper, ma in diverse occasioni dimostra anche la perspicacia, la diligenza e lo spirito di osservazione del suo autore, che non sarebbero stati fuori luogo in un giornale scientifico del tempo. Seppure è innegabile che l’alpinista britannico troppo spesso indulgesse in condanne morali e commenti sprezzanti, sarebbe profondamente sbagliato ignorarne le speculazioni, poiché esse possono affinare la nostra comprensione della “scienza amatoriale” vittoriana. In conseguenza della sua lunga frequentazione dei montanari, Whymper era desideroso di comprendere le cause del gozzismo e del cretinismo. Egli aveva notato che nelle valli laterali della Val d’Aosta era raro riscontrare tracce di queste malattie, che popoli razzialmente diversi che abitavano in aree ecologicamente affini mostravano analoghi tassi di morbilità e che quei gozzuti che avevano la possibilità di migrare verso regioni esenti da gozzo potevano migliorare considerevolmente la loro salute e vice versa. Allo stesso tempo, egli osservò che nonostante in generale i cretini erano gozzuti, non tutti i gozzuti erano destinati a diventare cretini. A quel tempo l’insorgere del gozzo e del cretinismo era stato imputato ad un’acqua chimicamente impura ma, anche se il gozzo era stato trattato con successo fin dal 1818 dal chimico francese Jean Baptiste André Dumas con una terapia a base di iodio ed i risultati dell’inchiesta di Carlo Alberto avevano indotto le autorità mediche ad intraprendere una campagna di profilassi tramite l’amministrazione di iodio, non si era ancora creato un ampio consenso sull’eziologia e la prevenzione del gozzo. Whymper rimase sorpreso dalla diversa percezione sociale del gozzo in Inghilterra e nelle Alpi. Mentre in patria i gozzuti venivano trattati con disprezzo, nelle Alpi i bambini gozzuti venivano accuditi teneramente e gli adulti si ritenevano fortunati perché ciò permetteva loro di evitare la chiamata di leva. Fu proprio quest’uso locale che spinse Whymper a fare quella dichiarazione che colpì così negativamente Baker 41: che formino reggimenti di gozzuti comandati da cretini. Pensate allo spirito di gruppo che svilupperebbero! Chi potrebbe fermarli? Chi potrebbe comprendere le loro tattiche? Ciò permetterebbe di risparmiare iodio e sarebbe un atto di giustizia nei confronti dei non-gozzuti. Ancora una volta possiamo notare l’eterno processo mentale che conduce dall’impegno per la soppressione di una malattia ad istinti omicidi nei confronti dei pazienti recalcitranti e malati cronici. Ma l’analisi di Whymper non si fermò lì. Egli cercò di chiarire la distribuzione di gozzismo e cretinismo tenendo conto della possibilità che un alto tasso di consanguineità potesse influenzarne la trasmissione. A suo modo di vedere, i nativi aostani non erano disposti ad abbandonare neppure temporaneamente la loro terra e sposarsi con forestieri, e la grande frequenza degli stessi cognomi ne era la più chiara testimonianza. Invece, le valli laterali erano così povere che i loro abitanti erano costretti ad andare altrove in cerca di lavori stagionali, il che garantiva una maggior “contributo di sangue nuovo”. Notando che quel tipo di malattia era più comune in aree circoscritte come le valli e le isole, Whymper ipotizzò molto correttamente che l’inaugurazione della linea ferroviaria Ivrea-Aosta avrebbe ovviato il problema. Detto questo, Whymper rivolse la sua attenzione a quelle precauzioni che riteneva necessarie al fine di tenere sotto controllo la propagazione di queste patologie. Presupponendo che l’ereditarietà del gozzo fosse fuor di dubbio e che per questo motivo esso si manifestava così spesso nelle famiglie, Whymper giudicò futile qualunque intervento medico. Questa conclusione segna il confine tra la medicina sociale continentale e quella anglo-sassone, quest’ultima essendo molto più ben 41

WHYMPER 1981: 130

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disposta verso la prevenzione biologica delle malattie ereditarie, ossia nei confronti dell’eugenetica 42. Secondo Whymper poiché solo i pazienti il cui cretinismo era meno accentuato potevano essere utili alla società, un approccio medico avrebbe richiesto diverse generazioni per produrre degli effetti apprezzabili, e comunque la malattia non sarebbe stata mai estirpata. Per questo raccomandò alle autorità locali di proibire ai gozzuti ed ai cretini di figliare, sterilizzando i malati più gravi. Ciò che sorprende di questa professione di fede eugenica è che essa seguì solo di sei anni la pubblicazione di ”Hereditary Character and Talent” (1865), un saggio di Francis Galton che riassumeva alcune convinzioni ereditariste emerse nel corso dei decenni precedenti in seno alla professione medica inglese. E’ possibile che Whymper sia stato influenzato più o meno direttamente da questo dibattito e che abbia persino conversato con Galton stesso, il quale era un membro del club alpino britannico. D’altra parte la richiesta di Whymper che fossero effettuate delle accurate ricerche genealogiche, motivate dal fatto che “la prova numerica è l’unica che possa permettere di comprendere la realtà”

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e la

superficialità della sua disamina delle implicazioni sociali ed etiche conseguenti alla divulgazione di dati personali, sembrano proprio riflettere lo spirito del pensiero galtoniano. In conclusione si può affermare che a dispetto dei suoi preconcetti e della sua relativa ignoranza delle problematiche medico-scientifiche, Whymper cercò di applicare il metodo scientifico alle sue speculazioni, e la precarietà delle sue conclusioni non fu minore di quella esibita da altri studiosi delle patologie della tiroide.

GOZZISMO E STUDI DI POPOLAZIONE IN ALTO ADIGE 1931-1935

Il prossimo studio che prenderò in esame, è quello condotto nella Val Venosta degli Anni 30 da Giuseppe Cantoni e Luisa Gianferrari, due genetisti medici dell’università di Milano. Negli anni Trenta Cantoni fu mandato in Alto Adige per eseguire una ricerca genealogica e clinica della popolazione venostana. Ciò che rende questo studio così significativo è il fatto che nel 1931, quando il suo studio ebbe inizio, l’Alto Adige era stato appena annesso all’Italia ed i suoi abitanti premevano per essere re-integrati nella madrepatria austriaca, mentre Mussolini aveva cominciato un piano di rimozione della tradizione culturale sud-tirolese, persuadendo migliaia di Italiani a trasferirsi nei grandi centri urbani dell’Alto Adige, proibendo l’uso del tedesco in pubblico e facendo tradurre toponimi e nomi di persona in Italiano. E’ evidente che, in tali circostanze, uno studio genealogico ed epidemiologico dei Sudtirolesi avrebbe avuto forti implicazioni politiche. Allo stesso tempo, per via dell’esistenza di analoghe indagini scientifiche condotte in Svizzera e Germania, Cantoni era fiducioso che questo suo impegno si sarebbe rivelato decisivo per la sua carriera ed una grande opportunità di mostrare all’estero le enormi potenzialità della genetica italiana. Cantoni si dedicò dunque allo studio dei tassi di consanguineità tra gli abitanti della Val Venosta (Vinschgau), al tempo circa 33.000, distribuiti in 6500 famiglie 44. Nell’introduzione alla sua ricerca, Cantoni osserva che il suo fu il primo tentativo di completare un’analisi sistematica dell’endogamia e delle sue conseguenze a livello biologico e medico nelle Alpi orientali italiane. Ciò che colpì Cantoni fu l’endemicità di povertà e carestie. I Venostani erano malnutriti fin dall’infanzia, anche a causa del costume locale di evitare l’allattamento al seno. Le conseguenze della cattiva alimentazione erano drammatici. La mortalità infantile era altissima, così come lo era la frequenza di malformazioni ossee, la debolezza costituzionale, la tubercolosi, il rachitismo, e diverse patologie cardio-vascolari, per non parlare delle proporzioni allarmanti di gozzismo, cretinismo e nanismo. Cantoni cercò di descrive gli effetti dell’ipertiroidismo nel modo più obiettivo possibile, ma a tratti vestì i panni del moralista, condannando i costumi e la promiscuità della popolazione locale. Tuttavia, ciò che sorprende è il fatto che, a dispetto di ciò, Cantoni non fosse riuscito ad identificare in maniera incontrovertibile un modello di trasmissione ereditaria 42

WALLER 2001 WHYMPER, op. cit.: 132 44 CANTONI 1935 43

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delle summenzionate patologie. Al contrario, fu proprio tra le comunità con valori di consanguineità più elevati che Cantoni incontrò i minori tassi di morbilità e ciò lo indusse a rivolgere alle autorità un appello affinché intraprendessero delle politiche di riforma sociale ed economica. Il suo approccio era dunque diametralmente opposto rispetto a quello di Charles Davenport e di altri genetisti americani con una forte propensione all’eugenismo che investigavano l’eziologia della pellagra e del gozzo proprio in quegli anni

45

e che tendevano a descrivere queste malattie come patologie di origine genetica che variavano su base razziale

.

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Senza dubbio, in un diverso contesto politico e culturale, descrivere la popolazione di lingua tedesca del Alto Adige come geneticamente ed irreparabilmente tarata, avrebbe potuto servire i fini delle politiche di genocidio culturale di Mussolini, ma una tale posizione avrebbe incontrato l’opposizione della maggior parte dei colleghi di Cantoni e persino di Mussolini stesso, che privilegiava un approccio culturale all’italianizzazione del Sud Tirolo, rifiutando il biologismo nazista. Di conseguenza l’analisi di Cantoni mi pare esemplare per la sua visione bilanciata dell’interazione di ambiente, cultura e società da un lato, ed un’ipotetica predisposizione ereditaria trasmessa per linea materna dall’altro, pur se le sue osservazioni sono inficiate da inesperienza, pregiudizi, e pura ignoranza. Tuttavia, man mano che si avvicina alla conclusione del suo articolo, Cantoni adottò uno stile sempre meno neutrale e sempre più allineato con le tesi del regime. Cantoni definì elementi tarati i malati da lui studiati ed inquinata la Val Venosta e denunciò l’entropia sociale conseguente ai costumi disgenici delle famiglie venostane. Le sue considerazioni finali sono un’amara testimonianza dei compromessi ai quali gli scienziati devono essere pronti a scendere in una società anti-democratica al fine di salvaguardare le proprie prospettive di carriera e i fondi necessari alle proprie ricerche: “in questa epoca nostra di realizzazioni imponenti, in tempi ove l’avvenire della razza non è più abbandonato egoisticamente al caso, ma è preoccupazione prima di chi regge i destini d’Italia, la bonifica umana di questi paesi gozzigeni ed un’intensa propaganda igienica, specialmente per quanto si riferisce all’alimentazione ed all’allevamento del bambino, dev’essere con fervida opera intrapresa, e sarà opera squisitamente demografica” 47. Che la demografia avrebbe giocato un ruolo centrale in questo tipo di studi non può sorprendere. Specialmente alla luce della gratitudine espressa da Cantoni al suo mentore, Corrado Gini, il demografo fascista per antonomasia, nonché uno dei confidenti di Mussolini. In piena coerenza rispetto a questa sua presa di posizione, Cantoni dedicò le righe conclusive del suo articolo ad un ben poco scientifico esercizio di retorica sulla moralità ed efficacia di una metodica medicalizzazione degli Alto Atesini, che era anche una richiesta indirizzata al regime, affinché esso applicasse con zelo e prontezza quelle misure di bio-politica che Cantoni riteneva sommamente necessarie: “Il gozzuto, l’ipotiroideo, è un minorato che può, che deve essere sanato; i caratteri che lo distinguono non hanno niente a che vedere con la sua struttura etnica, ma sono esclusivamente patologici….tutto questo può essere cancellato, come è già stata cancellata la pellagra…e ove oggi vegeta una popolazione ove troppi sono gli imbelli e i tarati, potrà essere in un prossimo radioso domani, una popolazione attiva e feconda, aperta al progresso, tesa nell’avvenire, scolta vigile ed intelligente con un saldo braccio, con aperto pensiero procederà nelle vie dei rinnovati destini di Roma” 48 In seguito Cantoni dedicò un articolo ad una valle laterale della Venosta, la Val Planol/Planeil 49. Il villaggio di Planeil mostrava dei tassi di nascite gemellari non comuni – circa il doppio della media italiana – associati ad un’alta mortalità infantile. Cantoni portò a termine una rapida perlustrazione dell’area al fine di identificare eventuali caratteri recessivi mendeliani che sarebbero stati più facilmente rintracciabili in una comunità così altamente omogenea come quella di Planeil. Il risultato del suo studio non si discostò da quelli dello studio precedente, giacché non riscontrò alcuna traccia di patologie 45

DAVENPORT 1932 JOSEPH 2002 47 CANTONI, op. cit.: 355 48 CANTONI, ibid. 49 CANTONI 1936b 46

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nervose e costituzionali che fossero chiaramente trasmissibili per via genetica. Tuttavia, una caratteristica di Planeil attrasse la sua attenzione. Questo piccolo paese era l’unico in tutta l’area venostana a non essere affetto dal gozzo tiroideo, a dispetto del fatto che l’ambiente circostante, la dieta e gli stili di vita fossero sostanzialmente i medesimi. Cantoni azzardò l’ipotesi che questo fenomeno fosse dovuto ad una costituzione fisica differente rispetto a quella delle popolazioni limitrofe e che tendeva a reagire alle sollecitazioni ambientali secondo modalità differenti. É degno di nota il fatto che egli non usò il termine “razza”, bensì “stirpe”. La xenofobia non era endemica in Italia e prima del 1938, anno in cui lo Stato fascista fu trasformato in uno stato razziale, Mussolini stesso aveva affermato che non credeva all’esistenza di razze pure, che anche gli Ebrei erano frutto di commistioni, e che la “razza” era un sentimento, non un dato di fatto. A suo avviso, la dottrina razziale non avrebbe mai attecchito in Italia perché l’orgoglio italiano non sapeva che farsene dei deliri della razza 50. Da parte sua Cantoni osservò che le comunità venostane trattavano gli abitanti di Planeil con evidente disprezzo, proibendo di contrarre matrimoni con loro e limitando per quanto possibile gli scambi commerciali. Egli aggiunse che la toponomastica della vallata indicava che esistevano delle profonde radici reto-romaniche. Ciò che non ritenne importante chiarire, ma che era un elemento in grado di inficiare le sue deduzioni, era il motivo per cui altre popolazioni reto-romaniche della Svizzera fossero invece ben note per la loro predisposizione al gozzismo. Per quel che riguarda la maggior frequenza di nascite gemellari, Cantoni fa riferimento agli studi condotti da von Verschuer e da Davenport negli anni Venti, ma solamente per rilevare ancora una volta l’importanza dei fattori ambientali e per sottolineare che la dominanza e la recessività non sono proprietà costanti dei geni, ma possono variare relativamente alle condizioni ambientali. Questa inossidabile fiducia nella predominanza dei condizionamenti ambientali fu anche incoraggiata dalle ricerche sul gozzismo endemico in Svizzera che dimostravano come i discendenti di individui affetti da gozzismo ma che risiedevano in regioni non colpite da questa malattia non l’avrebbero sviluppato, a differenza di coloro i quali, pur non avendo nessun caso di gozzismo in famiglia, vi soccombevano una volta insediatisi in aree ad alta morbilità 51. D’altra parte, come accennato in precedenza, sembra ormai chiaro che la medicina politica fascista era particolarmente ostile all’ereditarismo nordico ed anglosassone 52. La medicina sociale e l’igiene sociale (eutenica) prevalsero sull’eugenetica negativa dei vicini tedeschi e questo clima intellettuale certamente influenzò due ricercatori come Cantoni e Gianferrari i quali, molto probabilmente, in un diverso contesto, sarebbero stati inclini a spingersi più oltre nella sperimentazione della genetica medica. Così, per esempio, Gianferrari sottolineava il problema del divario nella fertilità delle popolazioni rurali e alpine da un lato, e di quelle urbane dall’altro. Poiché le prime tendevano a stabilirsi nei centri urbani e “diffondere i loro geni” senza che fosse possibile controllarne la distribuzione, Gianferrari riteneva essenziale che le autorità competenti prendessero delle misure adeguate al fine di “depurare” questi immigranti prima che raggiungessero le grandi città industriali. Gianferrari affermò che quella della “bonifica” delle popolazioni rurali ed alpine era una componente fondamentale della questione demografica che tanto assillava il regime e riassumeva come segue le sue convinzioni in materia 53: - La causa scatenante della questione demografica, l’insufficiente prolificità delle popolazioni urbane, era dovuta al loro egoismo edonistico; - Un elevato tasso di natalità poteva essere riscontrato solo al di fuori delle città, ma era precisamente nelle aree extra-urbane che ambiente e stili di vita tendevano a compromettere lo sforzo pro-natalista del regime; - Perciò la bonifica delle popolazioni rurali ed alpine era indifferibile; - l’unica soluzione efficace sarebbe stata una massiccia campagna di educazione centrata sull’importanza dell’igiene, dell’igiene sociale, e dell’eugenetica positiva. 50

BERNARDINI 1977 CANTONI 1938 52 POGLIANO, op. cit. 53 GIANFERRARI 1938 51

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L’uso del termine “bonifica” in un tale contesto rivela la considerevole influenza sull’autrice della retorica fascista del tempo che, in omaggio alle opere di drenaggio delle aree paludose laziali, ferraresi e sarde, aveva ampliato l’orizzonte semantico della parola. É da aggiungere però che nei suoi interventi pubblici la Gianferrari si mostrò ossequiosa nei confronti delle autorità ma non parve sposare la causa fascista. E’ possibile che le sue affermazioni più controverse fossero dovute a mero opportunismo, in frangenti nei quali solo la flessibilità e l’adattamento le avrebbero garantito i finanziamenti necessari a far funzionare il suo istituto e ad alimentare i suoi progetti più ambizioni in merito alla divulgazione della genetica ed alla sua applicazione nell’ambito della consulenza genetica. Di fatto, nell’immediato dopoguerra questi suoi obiettivi sarebbero stati perseguiti con mezzi che nulla avevano a che spartire con l’autoritarismo fascista e che invece si confacevano ad una democrazia avanzata54. Un discorso a parte meritano le affinità scientifico-intellettuali di Gianferrari e Cantoni con alcune figure controverse della scienza e della medicina d’oltralpe. Luisa Gianferrari aveva studiato ad Innsbruck dove si era laureata nel 1914 e si era poi trasferita prima a Berlino e poi a Uppsala, dove aveva completato i suoi studi, per poi iniziare la sua lunga e proficua carriera scientifica a Milano che terminò con il suo decesso, avvenuto in Liguria, nel 1977. Gli articoli scientifici di entrambi rivelano una forte propensione a prediligere le fonti di lingua tedesca, anche se conoscevano il francese e l’inglese. Non può essere certamente un caso che, per Cantoni, l’inaugurazione a Milano di un centro specializzato nello studio della genetica umana rientrasse in un più ampio progetto internazionale volto a combinare igiene sociale, medicina sociale, medicina genetica e genetica delle popolazioni. Da questo punto di vista i due ricercatori erano decisamente all’avanguardia. Ciò che li contraddistingue rispetto a gran parte del panorama medico-scientifico nazionale è la loro convinzione che l’ideale del perfezionamento morale e fisico della specie umana, di per sé pienamente condivisibile, sarebbe stato conseguito prendendo a modello l’Eugenics Record Office di Cold Spring Harbor negli Stati Uniti (sotto la direzione di Davenport), il KWI für Anthropologie, menschliche Erblehre und Eugenik a Berlino-Dahlem (diretto da Fischer), il Deutsche Forschungsanstalt (DFA) für Psychiatrie (KWI) di Monaco di Baviera (diretto da Rüdin), l’Institut für Erbbiologie und Rassenhygiene di Francoforte (diretto da von Verschuer), il laboratorio di biologia razziale norvegese fondato da Mjøen e l’analogo istituto di ricerca inaugurato da Lundborg ad Uppsala, nel 1922, che fu il primo istituto di ricerca della biologia razziale in Europa 55. L’impegno per la diffusione dell’igiene razziale di questi istituti era notorio. In questo senso, le relazioni professionali di Cantoni e Gianferrari erano estremamente problematiche. La loro ammirazione per alcuni dei più controversi genetisti del loro tempo getta un’ombra sinistra sulle loro ricerche. Così, ad esempio, nel loro Manuale di Genetica Umana 56, essi sostennero l’esistenza di una predisposizione genetica alla delinquenza ed alla turpitudine e che fosse possibile identificare dei ceppi di mentitori, truffatori e devianti sessuali, i quali avrebbero dovuto astenersi dalla procreazione per motivi di coesione sociale. Dal canto suo Gianferrari aveva già avanzato l’ipotesi che alti tassi di consanguineità potessero dar conto della riluttanza di Trentini e Sudtirolesi ad abbandonare i loro caratteri etnici distintivi 57. Personalmente trovo che le analogie con le teorie del già citato psichiatra e genetista svizzero-tedesco Ernst Rüdin e di un suo assistente austriaco, Frederich Stumpfl, che aveva intrapreso delle ricerche di genetica delle popolazioni in Tirolo alla fine degli anni Trenta 58, non siano casuali. Fin dagli esordi della sua carriera scientifica Ernst Rüdin aveva dichiarato di sentire il dovere morale di eliminare l’infelicità e la malattia. Ma dato non esisteva né esiste una formula magica per ottenere un tale risultato, seguendo una logica feroce nella sua crudezza, questo suo ingenuo entusiasmo giovanile si trasformò nella disponibilità ad escludere, e se necessario eliminare, chi non era all’altezza di queste sue aspettative irragionevoli 59. La somiglianza tra Rüdin ed il medico 54

WIDMANN 2003 CANTONI 1941 56 GIANFERRARI – CANTONI 1942 57 GIANFERRARI 1932 58 AMORT et al. 1999 59 HUONKER 2003 55

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ebreo Berthold Stauber, figura chiave del romanzo di Arthur Schnitzler “Der Weg ins Freie” (1908), è straordinaria 60. Dopo essere stato rampognato da suo padre, il quale gli rammenta che un buon medico non è tale solo per la sua perizia tecnica ma anche per la sua premura ed il suo amore per l’umanità, Berthold replica che, a suo modo di vedere, la pietà è sinonimo di debolezza, e quando i tempi sono duri non si avere alcuno scrupolo nel sacrificare il singolo per il bene comune. Nella sua visione meccanicistica ed ultra-utilitarista dei compiti della medicina, egli dichiara che un’igiene sociale veramente onesta e coerente presupporrebbe l’annichilimento dei malati, o quantomeno la loro esclusione dal consorzio civile, perché il futuro appartiene alle idee, non agli individui. Nel 1903, preannunciando questo tipo di degradazione della deontologia medico-scientifica, Rüdin annunciò in occasione di una conferenza internazionale che, poiché l’alcolismo deteriorava il “plasma germinale” 61 e minacciava il processo di evoluzione razziale, la segregazione degli alcolisti per evitare che si riproducessero era una misura che non poteva essere procrastinata 62. Dopo essersi trasferito all’università di Monaco di Baviera, stimolato dagli studi pionieristici di Hermann Lundborg in merito ai “pattern” ereditari di certe patologie nervose, Rüdin decise di affrontare la questione della possibile trasmissione mendeliana della schizofrenia, un problema che Gianferrari e Cantoni avrebbero studiato nella Val d’Ultimo, concludendo però che i condizionamenti ambientali impedivano di individuare una tale regolarità statistica 63. Come Gianferrari e Cantoni, Rüdin aveva richiesto dei finanzamenti per la creazione di una rete di banche dati

64

che

avrebbero permesso ricerche genetiche di altissimo livello sull’ereditarietà, l’identificazione di portatori sani di mutazioni geniche recessive e dannose per mezzo di screening di popolazione su vasta scala e la realizzazione di programmi nazionali di consulenza genetica. Dove le loro strade si divisero fu proprio nella fase applicativa degli studi genetici e nell’enfasi sulla razza così caratteristica del centro di studi bavarese, anche per quel che riguarda la ricerca sull’eziologia del gozzo. In occasione della prima conferenza internazionale sul gozzo, tenutasi a Berna nell’agosto del 1927 65, la contrapposizione tra questi due approcci divenne particolarmente evidente. B. Galli-Valerio, dell’università di Losanna, esprimendo il punto di vista dominante tra i relatori di lingua francese, italiana e spagnola, pur riconoscendo l’importanza del tasso di consanguineità e delle predisposizioni ereditarie nell’insorgere di gozzo e cretinismo, palesò il suo netto rifiuto dell’interpretazione deterministica e fatalistica della nozione di predisposizione, che veniva spesso identificata con il concetto di predestinazione e talvolta legata ad un presunto fattore razziale non ben definito. Al contrario i figli di cretini e gozzuto potevano essere persone dotate, ed egli aveva l’impressione che il termine “eredità” venisse usato con eccessiva leggerezza per spiegare anche i condizionamenti ambientali. Infatti, nel corso della stessa conferenza, Eugen Bircher dichiarava che il melting pot razziale americano aveva molto probabilmente alterato il “terreno costituzionale” degli Americani al punto che non si poteva più parlare della medesima endemia, ma di due tipologie diverse di gozzo. Lo studioso americano M. O. Shivers asseriva che, seppure non era stato possibile determinare uno schema di eredità mendeliana per quel che riguardava il gozzo, la frequenza di patologie della tiroide nelle figlie e nipoti di madri gozzute dimostrava l’esistenza di una qualche forma di predisposizione genetica. La relazione di Theo Lang, l’assistente di Ernst Rüdin che in seguito si dissociò dal nazismo ed accusò Rüdin di aver condotto esperimenti per la sterilizzazione degli Ebrei tramite la radioattività, fu ancor più radicale ed “audace”. Egli descrisse la ricerca demografico-genealogica che era stata intrapresa due anni prima dal suo dipartimento. Quest’inchiesta interessava la Baviera meridionale ed aveva lo scopo di chiarire l’eziologia di gozzo, 60

Tra l’altro Schnitzler stesso aveva esercitato la professione medica tra il 1886 ed il 1892 a Vienna La genetica moderna lo chiama “linee germinali” 62 WEINDLING 1989 63 CANTONI 1936c; GIANFERRARI-CANTONI 1936 64 quelle che oggi vengono chiamate “biobanks” 65 COMPTES-RENDUS DE LA CONFÉRENCE INTERNATIONALE DU GOITRE. Berne 24-26 août 1927. 1928. Berne: Hans Huber. B. GalliValerio, Lausanne. L’étiologie et l’épidémiologie de l’endémie thyroidienne : 336-351 ; Eugen Bircher, Aarau, Die geographische Verbreitung des endemischen Kropfes, 351371; M.O. Shivers, Maternal influence, an etiological factor in endemic goiter. Colorado Springs: 434-438; Theo Lang, Zur Epidemiologie und Aetiologie von Kropf und Kretinismus, München: 425-434 61

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cretinismo, sordo-mutismo e “labilità mentale”. Basandosi su dati incompleti, Lang e Rüdin videro una correlazione tra insorgere di queste malattie e ordine di nascita, dimensioni del corpo e persino brachicefalia. Di conseguenza, pur ammettendo che questa era una conclusione prematura, essi ritenevano possibile che le specificità razziali degli abitanti di aree ad alta incidenza di gozzo ricoprissero un ruolo importante nella sua epidemiologia. In questo senso, è opportuno sottolineare che nei loro studi sull’eziologia del gozzo Gianferrari e Cantoni non aderirono mai pubblicamente alla dottrina dell’igiene razziale ed anche il loro approccio all’eugenetica rimase abbastanza circospetto, se paragonato a quello di tanti altri colleghi stranieri. Pur essendo affascinati dai nuovi orizzonti dischiusi dalla genetica, essi si sforzarono di non adattare la loro ricerca scientifica alle credenze popolari al fine di guadagnare una maggior visibilità. Anche se in certe occasioni non dissimulavano certi orientamenti deterministici, è importante riconoscere che i loro articoli abbondano di osservazioni sulla contingenza delle interpretazioni che potevano essere assegnate ai loro dati e sull’incertezza che avvolgeva certe loro conclusioni. Questo conflitto tra lealtà personali e lealtà istituzionali sembra confortare l’ipotesi di Harwood che il clima intellettuale di una nazione determina in una certa misura il tipo di scienza che questa nazione produce 66. In Italia ed in Francia la genetica e l’antropologia medica conservarono un indirizzo più olistico, escludendo quasi sempre ogni tentazione deterministica ed ereditarista, forse perché in entrambi i Paesi esistevano pochi genetisti puri e la genetica era quasi sempre applicata alla biologia, alla medicina, alla zoologia ed all’antropologia. E’ persino possibile ipotizzare che se la genetica non avesse “parlato” inglese il dogma centrale della genetica classica

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non avrebbe forse mai preso piede 68. A mio avviso ciò

potrebbe spiegherebbe almeno in parte perché in Francia ed Italia l'ereditarismo non fu quasi mai preso in considerazione nello studio di pellagra, gozzo, sifilide, tubercolosi, alcolismo, ecc. Così, per esempio, nel 1932, mentre Gianferrari e Cantoni conducevano i loro studi di popolazione in Alto Adige, Raymond Turpin, uno dei più brillanti medici genetisti francesi del dopoguerra, eseguì alcune sperimentazioni sulle mutazioni del pelo dei conigli infettati con il batterio treponema che causa la sifilide e concluse che quest’ultima produceva delle alterazioni costituzionali geneticamente trasmissibili 69, in pratica recuperando la teoria neo-lamarckiana sull’ereditarietà dei caratteri acquisiti, un vero e proprio tabù della genetica moderna. Il summenzionato studio della schizofrenia effettuato da Gianferrari e Cantoni in Val d’Ultimo non si discostò da questo filone teorico così poco ortodosso. Alla luce degli studi gemellari di Hans Luxemburger, che provavano l’interazione di eredità ed ambiente, i due ricercatori analizzarono l’eziologia della schizofrenia 70. Notando che diverse ricerche nell’area alpina e sulle Alpi scandinave avevano rivelato che un certo numero di malattie legate alla consanguineità si erano propagate proprio nei decenni successivi alla peste manzoniana, essi confermarono che il primo eterozigote per la schizofrenia a San Pancrazio fu una donna nata nel 1690 e ritennero di poter asserire che la possibile mutazione che aveva favorito l’insorgere di una predisposizione genetica alla schizofrenia doveva aver avuto luogo tra il 1615 ed il 1690. Di fatto la peste aveva colpito duramente la Val d’Ultimo nel 1636, cosicché essi ipotizzarono che degli ignoti fattori ambientali-costituzionali erano stati attivati dalla peste provocando la mutazione in questione. Nel dopoguerra questo tipo di indagini fu totalmente abbandonato anche in Italia ed i genetisti italiani sposarono il riduzionismo del dogma centrale della genetica, a dispetto delle remore di due tra i più grandi genetisti italiani del tempo, Giuseppe Montalenti e Carlo Jucci 71.

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HARWOOD 1993 il dogma centrale, formulato da Francis Crick, uno degli scopritori della struttura del DNA, prevede che l’informazione biologica fluisca dal DNA (genotipo) alle proteine e cellule (fenotipo) e mai viceversa. Gli studi epigenetici più recenti sembrano provare che in risposta a segnali provenienti dall’esterno e dall’organismo l’informazione, alterata ed aggiornata in funzione di queste interazioni, può rifluire ( feedback) verso il DNA, modulando l’attivazione dei geni (gene expression), senza però modificarne la struttura. 68 BOWLER 1989 69 GAUDILLIÈRE 2000 70 CANTONI, op. cit.; CANTONI-GIANFERRARI, op. cit. 71 JUCCI 1934, MONTALENTI 1939 67

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CONCLUSIONI

Abbiamo visto che le teorie mediche e scientifiche, e le metafore ed analogie che le accompagnano, hanno implicazioni politiche. A partire dal periodo illuminista, le società occidentali sono state in parte definite da quelle concezioni del mondo che gli esperti di biomedicina hanno contribuito a creare attraverso le loro ricerche e teorie e che, amplificate dall’opinione pubblica, sono talvolta ritornate come un boomerang sotto forma di “folk-theories”. Il problema delle discipline biomediche, dell’antropologia fisica e delle scienze sociali è che sono chiamate ad assolvere delle funzioni sociali che presuppongono due premesse che non possono essere disgiunte da due precondizioni ostative: -

queste discipline devono essere percepite come misteriose, esoteriche, e riservate agli iniziati ma nel contempo devono possedere un enorme potenziale esplicativo;

-

il loro metodo deve trascendere le contingenze politiche, economiche e sociali e la finitezza ed incompiutezza umana, ma allo stesso tempo esse devono venire incontro alle esigenze cognitive ed emozionali collettive, che dipendono dalle preoccupazioni ed interessi caratteristici di un determinato periodo storico. Il presente articolo è nato proprio con l’intento di evidenziare questo paradossale scenario nel quale si trovano e si

troveranno ad operare i genetisti di popolazione, gli ingegneri genetici, i genetisti medici ed i consulenti genetici, nell’area alpina come altrove. Esso costituisce il primo bilancio di una ricerca nell’ambito degli studi storici e sociali della scienza e della medicina che ho recentemente intrapreso e che nelle mie intenzioni dovrebbe abbracciare l’intera regione alpina, realizzando quel confronto interdisciplinare che ritengo sia ormai pienamente maturo.

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