Laptop, lederhosen e intangibilità morale nell'area alpina

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“L’EUROPA COME DOVREBBE ESSERE” LAPTOP, LEDERHOSEN ED INTANGIBILITÀ MORALE NELL’AREA ALPINA di Stefano Fait Centre for the Anthropological Study of Knowledge and Ethic University of St. Andrews, Scotland ABSTRACT Cerco di coniugare antropologia e scienze politiche (antropologia politica) per mettere a fuoco le magagne della società in cui vivo. Analizzerò, in modo necessariamente sommario, due problematiche che influiscono profondamente sulle dinamiche del populismo e della convivenza in una società pluralista, essendo all’origine del deficit democratico dell’area alpina: (a) la narcisistica ed autoreferenziata persuasione di essere tecnicamente, socialmente e moralmente all’avanguardia, che legittima la democrazia consociativa e della concordanza così diffusa in ambito alpino, alimentando propensioni tecnocratiche ed illiberali, incoraggiate da un senso di immunità morale, che a loro volta generano reazioni populiste anti-elitarie ed anti-tecnocratiche; (b) il fastidioso equivoco che impedisce la piena comprensione del ruolo del conflitto in una democrazia sostanziale e non solo formale, cioè quello secondo cui il principio della libertà d’espressione presuppone il rispetto per le opinioni altrui, quando invece il significato originale e più vero di questo principio è quello di permettere alle convinzioni di essere messe in discussione, anche con veemenza, ed essere demolite, se non sono in grado di reggere al vaglio critico. Mi preme innanzitutto sottolineare che questo mio intervento, come quello precedente che deplorava l’etnopopulismo alpino, non è un attacco indiscriminato ad una parte politica o alla classe politica regionale e alpina in generale. La mia impressone è che le responsabilità siano collettive e che, in linea di massima, vanno imputate alla diffusa acquiescenza di cittadini troppo spesso impreparati ad esercitare il loro diritto di critica e di indirizzo nei confronti di una dirigenza politico-amministrativa che in questo modo è disincentivata a prestare ascolto alle istanze della società civile (sindrome della casta). In secondo luogo, dato che sarò costretto dall’impostazione comparativa a indulgere in generalizzazioni che faranno storcere il naso a qualcuno, è importante che sottolinei che non postulo l’esistenza di un Volksgeist1 transalpino o di un vero e proprio Sonderweg alpino alla modernità – troppa è la diversità culturale in questa vasta regione – ma propongo piuttosto di parlare di una pluralità di discorsi in seno al contesto socio-culturale rurale e, in misura minore, urbano alpino. Alcuni di questi discorsi per gran parte del tempo rimangono in sottotraccia e possono essere “attivati” in tempi di crisi (reale o percepita) e per fini politico-elettoralistici. Infine qualcuno potrebbe sospettare che il mio generoso utilizzo di neologismi sia dovuto al fatto che quello di cui parlo esiste solo nella mia mente. Questo è un rischio che corre ogni studioso e sta al pubblico decidere se sia davvero così oppure no. La situazione appare in tutto e per tutto analoga a quella delle metropoli texane e bavaresi, progressiste, “assediate” da un elettorato “ostile”. Ostile alle idee come a chi se ne fa portavoce. Viene in mente il reverendo puritano John Cotton che nel 1642 inveì contro l’alfabetizzazione: “Più intelligente e sveglio sarai, più sarai pronto ad agire per conto di Satana”. A quel tempo, il desiderio di conoscere, capire, formarsi un’opinione e discuterne era bollato come intellettualismo, diabolico scetticismo, elitismo, svuotando di ogni significato il motto “che sia la gente a decidere”. Ostile alle idee come a chi se ne fa portavoce. Viene in mente il reverendo puritano John Cotton che nel 1642 inveì contro l’alfabetizzazione: Più intelligente e sveglio sarai, più sarai pronto ad agire per conto di Satana. A quel tempo, il desiderio di conoscere, capire, formarsi un’opinione e discuterne era bollato come intellettualismo, diabolico scetticismo, elitismo, svuotando di ogni significato il motto che 1

carattere di popolo


sia la gente a decidere! “Diabolico” dal greco diaballein, ciò che si mette in mezzo, che separa, che calunnia, che crea attrito, che va espulso dalla polis per salvaguardarne l’integrità.

INTRODUZIONE [Queste riflessioni prendono spunto dai risultati, sconfortanti, di un’importante ricerca etnografica intrapresa dal Centro di Ecologia Alpina di Trento]. Inizierò con tre citazioni che riassumono la sostanza del mio intervento. La prima è un passaggio della deposizione al processo di Norimberga di Karl Brandt, medico personale di Hitler e responsabile del “Progetto T4” per la soppressione dei Tedeschi “inadatti alla vita”: Posso, come individuo, separarmi dalla comunità? Posso rimanere fuori e farne a meno? Posso, come parte della comunità, eluderla dicendo che voglio vivere in questa comunità, ma non voglio fare alcun sacrificio per essa, fisico o spirituale che sia? […]. Noi, quella comunità ed io, siamo in un certo senso la stessa cosa. La seconda è tratta da un opuscolo distribuito dal Sennereiverband Südtirol (Federazione Latterie Alto Adige) e correda la fotografia di due bambini biondi su un prato che bevono latte di montagna: Ogni uomo ha una patria (Heimat, nell’originale) ed è tenuto ad amare ed onorare il lembo di terra su cui è nato. Questa didascalia è un reperto di archeologia culturale, un brandello di storia sopravvissuto all’avanzare della modernità, un cimelio da conservare. Chi ha redatto l’opuscolo non si è interrogato sulla bontà del messaggio. Nel suo orizzonte di significati l’inno alla Heimat è rituale, quindi innocente. La terza è invece una citazione di Immanuel Kant, da uno dei manifesti dell’Illuminismo, il “Sapere Aude”: La pigrizia e la viltà spiegano perchè un così grande numero di uomini, dopo che la natura li ha da un pezzo emancipati, rimangono tuttavia volentieri per tutta la vita sotto tutela; e perché ad altri riesce così facile il dichiararsene i tutori. È così comodo essere minorenne. Se io ho un libro che comprende le cose al posto mio, una guida spirituale alla quale delegare la mia coscienza, un medico che decide la dieta giusta per me, e così via, io non devo più preoccuparmi. Se pago, non ho più bisogno di pensare: c’è chi se ne occupa in mia vece. Nella regione alpina l’autonomia di giudizio dell’individuo esaltata da Kant e mortificata dal medico nazista e dalle latterie sudtirolesi è, a mio avviso, messa a dura prova da un clima tendenzialmente comunitarista e, in apparente contraddizione, insieme libertario, dove il denaro, e non la maturità civile, permette all’individuo di raggiungere un certo grado di autodeterminazione. Insomma un comunitarismo smagliato che abbraccia anche molti individui egoisticamente ripiegati su se stessi. In Trentino la forbice ideologica tra centri urbani liberal-progressisti e valli comunitarielibertarie si sta allargando. Alle elezioni come al secondo referendum costituzionale del maggio 2006 i residenti dei maggiori centri della Provincia di Trento hanno espresso un orientamento politico riformista, mentre la gran parte delle valli ha preferito un indirizzo più conservatore. 2 La situazione appare in tutto e per tutto analoga a quella delle metropoli texane e bavaresi, progressiste, assediate da un elettorato “ostile”. E’ probabile che il recente benessere abbia sconvolto i vecchi meccanismi omeostatici che regolavano il funzionamento delle comunità locali, senza che si sapesse trovare un nuovo punto di equilibrio per far fronte alle sfide della globalizzazione. Uno degli esiti di questo sconquasso è descritto in toni addolorati ed indignati dal giornalista Franco De Battaglia: quell’aria ormai falsa e stantia di troppe nostre valli, dove gente ricca fa finta di essere povera, dove tanti si compiacciono, nelle càneve profanate, di un qualunquismo appagato, crogiolato nel berlusconismo sprezzante, egoista e bugiardo, proprio dei servitori, di chi ama sedersi alla tavola imbandita dei padroni. Io da trentino... mi vergogno ormai di questo Trentino che sta diventando servo di chi se lo compera. Segue una possibile interpretazione di questo fenomeno.

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http://www.questotrentino.it/2006/13/Referendum.html


SENSIBILITA’ BIEDERMEIER, MITOLOGIA DEL TERROIR On ne croit plus à ces sociétés de bergers qui passent leurs jours dans l’innocence. On sait que ces honnêtes bergers se font la guerre entre eux pour manger les moutons de leurs voisins (Chateaubriand) Lo stile decorativo Biedermeier, il cui nome deriva da un personaggio fittizio che compariva in una rivista satirica bavarese a significare una persona convenzionale (Bieder = convenzionale; Maier o Meyer = cognome molto comune) che ebbe uno straordinario successo durante il periodo della Restaurazione (prima metà del diciannovesimo secolo) fu caratterizzato da un design semplice, pratico, geometrico ed astratto, non pretenzioso, rassicurante, per nulla rivoluzionario. Nell’architettura e nell’arredamento domestico, essenzialità, nettezza, ed un’estetica funzionalista rispecchiarono gli imperativi morali dominanti: rettitudine, sobrietà, austerità ed igiene. Dunque la nozione di “sensibilità Biedermeier”, per come intendo impiegarla qui, esprime una predilezione tipicamente borghese per l’ordine, la moderazione, l’autodisciplina, la pulizia e per quell’ideale di confortevolezza offerto dal focolare domestico e dalla coesione sociale che è incapsulato nel termine tedesco Gemütlichkeit. Da un punto di vista strettamente antropologico, lo sporco è disordine, un’offesa all’ordine, e i tabù contro lo sporco sono più forti in quelle società che si preoccupano maggiormente di demarcare i confini e delimitare le soglie con grande precisione (es. il Muro del Pianto ed il Muro dei Territori Occupati). In queste società, come ha mostrato l’antropologa britannica Mary Douglas (Douglas, 2006), ripulire, decorare, rassettare non è una semplice operazione igienica ma un’azione simbolica e psicologica: espellendo lo sporco si ristabilisce l’ordine nell’ambiente in cui si vive e la purezza nella propria esistenza. Nel farlo, implicitamente, si consolida e giustifica l’ordine delle cose, lo status quo, e si dimostra a se stessi la propria capacità di tenere a bada i cambiamenti ed i condizionamenti esterni: mentre la chiarezza pertiene alla sfera cognitiva, la purezza ricade in quella della coerenza morale. Le lustrazioni post-comuniste nell’Europa dell’Est rientrano in questa categoria di riti purificatori e, in teoria, riconciliatori, e non è accidentale che siano cominciati proprio in coincidenza con l’ingresso nell’istituzione sopranazionale che è l’Unione Europea. I successi di Haider sono anch’essi giunti in concomitanza con l’adesione dell’Austria all’UE. Quando queste ingiunzioni morali permearono la politica, come in Scandinavia e nella regione alpina, che per lungo tempo non furono investite dall’onda lunga degli ideali universalistici dell’umanesimo rinascimentale e dell’Illuminismo, i concetti di popolazione sana e natura incontaminata finirono per convergere con quello di popolazione omogenea e cultura autentica e non adulterata. Malattie e deficienze, indizio di decadenza e degradazione, furono inserite d’ufficio nel novero delle colpe morali e ciò inevitabilmente favorì la diffusione della dottrina eugenetica, che predicava un’evoluzione artificiale dei popoli tramite l’imposizione di richieste di autorizzazione alle nozze (per coppie non perfettamente sane), sterilizzazioni e castrazioni. Così, il discorso alla base della costruzione dell’idea di nazione moderna subì la transizione dall’igiene personale all’igiene razziale e dallo sconforto del disordine all’autoritarismo ed alla discriminazione razziale (Mottier, 2005). Così, tra gli anni 20 e la fine della seconda guerra mondiale, mentre in Svizzera ed in molti paesi nordeuropei e nordamericani venivano promulgate le prime leggi per la sterilizzazione non consensuale degli “inadatti alla procreazione”, l’antropologo svizzero Otto Schlaginhaufen tentò in tutti i modi, ma invano, di definire i tratti salienti dell’Homo Alpinus Helveticus (Mottier, 2000). Contemporaneamente il paesaggio montano – saldo, stabile, puro – si andò via via trasformando in uno dei pilastri della coscienza nazionale e regionale delle popolazioni alpine, della loro identità ed orientamento valoriale. Oggi questo motivo riaffiora nell’estetica e nella retorica del terroir, degli effetti che l’ambiente locale esercita sui prodotti agricoli ma anche sui suoi abitanti, sul loro carattere e personalità, che sono unici come il territorio nel quale affondano le radici e sono minacciati dal consueto spauracchio dell’americanizzazione del globo, dalla globalizzazione di una civiltà non sedimentata, di innato cattivo gusto, massificata, standardizzata, utilitaristica, in una parola, “impura”. Più incerta sarà la sorte degli Stati nazionali, accusati di essere la causa di ogni efferatezza e sperequazione, più frequenti saranno le mobilitazioni populiste in nome della lealtà al proprio terroir e non a confini astratti ed arbitrari.


Questa è la prima delle costellazioni di motivi ideologici, tutt’altro che residuali nelle culture alpine, che fa sì che la questione descritta nell’introduzione rimanga ancora attualissimo. La seconda costellazione è quella che, per comodità ed economia di linguaggio, normalmente chiamo la “Legge di Jante”e che ho già descritto schematicamente nel mio precedente contributo agli Atti SPEA. Riguarda la tendenza, rilevata in Svizzera (Lüthy, 1962) ma già presente nella democrazia ateniese (Spitz, 1975) e a mio modo di vedere generalizzabile all’intero arco alpino, a non pensare in termini di libertà personale ma di libertà al plurale, dei gruppi, dei cantoni, della nazione, e non in termini di diritti umani, ma di diritti collettivi conferiti ad una comunità per consentirle di badare ai propri affari. LA LEGGE DI JANTE E LA SOPPRESSIONE DEL CONFLITTO La Legge di Jante si riferisce alla tendenza, rilevata in Scandinavia, ma già presente nella democrazia ateniese e nelle assemblee vichinghe, e probabilmente generalizzabile all’intero arco alpino, a non pensare in termini di libertà personale ma di libertà al plurale – della famiglia, delle comunità, delle etnie –, non in termini di diritti umani, ma di diritti collettivi di autodeterminazione, non in termini di confronto aperto, ma di comunione spirituale che possa rendere superflua la mediazione. La Janteloven, nata dalla fantasia dello scrittore danese Aksel Sandemose, originariamente stava ad indicare la società paesana scandinava del diciannovesimo secolo, formalmente egalitaria che, tormentata dallo spettro delle privazioni passate, sentiva l’esigenza di mantenere la coesione e la stabilità nelle comunità rurali. Questo anche a costo di sacrificare l’originalità, la varietà, l’ambizione e l’iniziativa personale, in breve, il pluralismo e la crescita socio-economica. Essa trova numerosi riscontri nelle valli alpine di oggi. Nelle Alpi, come in Scandinavia, la ricerca (estorsione?) del consenso è il valore imperante. Per questo risulta difficile da un lato accettare il disaccordo e lo scostamento dal codice etico collettivo, e dall’altro dare il giusto peso alle istanze private che abbiano una rilevanza generale, laddove la nozione stessa di sfera privata è quantomai precaria ed il livellamento sociale è la norma. Da ciò deriva la forte staticità della società e la trascuratezza con la quale si provvede a distinguere tra gruppo di appartenenza ed individui, questi ultimi inchiavardati in un destino predefinito ed incapaci di percepire se stessi come possessori di un’identità separata dalla società nella quale vivono. La rimozione di ogni discrimine tra i vari membri della comunità tradizionale significa in ultima analisi che non possono esistere interessi qualitativamente differenti dei quali è necessario tener conto. Un compromesso, per quanto insoddisfacente, rimane un’opzione preferibile rispetto alla collisione di posizioni contrapposte che impediscono di tutelare il sistema di reciprocità (do ut des) che regge le sorti degli agglomerati rurali. Questo tipo di società, che ricalca il modello Gemeinschaft di Ferdinand Tönnies, è totemizzato: la sua rappresentazione simbolica coincide con i legami di lealtà, alleanza e mutualità tra i suoi membri. Questi vincoli costituiscono un quadro di riferimento assoluto che è raramente messo in discussione, perché la totemizzazione conferisce alla società stessa la sua legittimità e ragion d’essere e permette di venerarla. La condizione di estrema prossimità dei suoi membri (organi? ingranaggi?) fa sì che, anche se nessuno crede davvero di essere uguale al vicino, ognuno senta il dovere di dar mostra di credere di non essere migliore degli altri, per non diventare il bersaglio dell’invidia sociale. Questa finzione di massa permette alla comunità di conservare intatti ed immutati i rapporti, i ruoli, la serialità dei comportamenti e delle relazioni e soprattutto le norme tradizionali e quindi le ragioni della propria identità. In cambio chi non è parte della comunità è virtualmente inesistente, perché la funzione totemica è intrinsecamente esclusivista: non avrai altra comunità all’infuori di me. Quel che si perde in questo genere di assetto sociale “permeante”, fondato sulla solidarietà organica, è il valore dei singoli – derivato, mai originario – e la funzione e l’importanza del conflitto come momento di incontro e scambio di opinioni diverse, come forma di apprendimento del sé e dell’altro, come strumento di valorizzazione delle differenze e di ricomposizione delle divisioni, quando è elaborato efficacemente. E’ proprio l’antagonismo, corollario del pluralismo, che genera quei legami che mantengono coese le democrazie. Una società democratica che non è capace di superare l’autoreferenzialità e di comprendere ed assorbire ciò che le manca, non è una società sana. E’ una


distopia falsamente egalitaria che abolisce ciò che potrebbe distinguere una persona dall’altra, sancendo che il mero atto di far valere la propria personalità, anche senza causare danno alcuno agli altri, è intrinsecamente sbagliato e disdicevole: in altre parole, che qualcosa è andato storto nell’evoluzione umana. Ma, come scriveva Luigi Einaudi nel 1920: Perché dovrebbe essere un ideale pensare ed agire nello stesso modo? Perché una sola religione e non molte? Perché una sola opinione politica o sociale o spirituale, e non infinite opinioni? Il bello, il perfetto, non è l’uniformità, non è l’unità, ma la varietà e il contrasto. Tra l’altro l’armonia è spesso solo un velo ipocrita che nasconde ben altro. A parte il Meridione d’Italia, la maggior concentrazione di violenze domestiche si registra in Friuli e in Alto Adige ed il Trentino è poco sotto. Cito la criminologa Merzagora Betsos: In Trentino c’è ancora un alto controllo sociale tra vicini di casa e conoscenti, ma è ancor più radicata la barriera di omertà familiare che porta a sciacquare i panni sporchi in casa e a non denunciare gli abusi. Le statistiche...non contemplano infatti il “numero oscuro”: quel 60-80% di violenze fisiche psicologiche che restano nell’ombra. La democrazia prospera quando si agisce per aumentare il numero delle scelte possibili, e ciò presuppone una società pluralista e aperta. Per questo è gravissimo il dato che un quarto dei consigli comunali trentini sia privo di una vera opposizione e che in un numero imprecisato di altri casi il punto di vista dei consiglieri di minoranza sia virtualmente ignorato. Sarebbe utile esaminare la possibilità che si tratti di un fenomeno diffuso nell’arco alpino, dove clan, cricche e corporazioni determinano le scelte politiche, a spese dei singoli e delle opposizioni, visti come uno sgradevole impiccio che ostacola il funzionamento del sistema. In questa cornice istituzionale le istanze minoritarie non possono che essere bollate come nocive per il bene comune, in quanto espressione di interessi particolari. Ciò è ancor più probabile in un contesto come quello alpino in cui sono stati rilevati elevati indici di autoritarismo. Come ha spiegato in un recente convegno il difensore civico Donata Borgonovo Re, le invidie e le gelosie, la chiusura delle comunità e degli orizzonti di chi ne fa parte, le diffidenze, le vendette ed i timori reciproci, unite alla sfiducia nei confronti delle autorità, al sistema di potere neo-feudale di sindaci-vassalli che controllano il territorio ed il consenso e soffocano il dissenso, rimanendo in carica anche 20 o 25 anni, sono il sintomo non solo della mancanza di autonomia decisionale e di coscienza democratica partecipativa, ma anche di un terreno sfavorevole al loro fiorire. In questi comuni vige la legge di Jante. Basti citare l’osservazione di Graziano Tomasin, ex sindaco di Lavis ed attuale capogruppo di minoranza: Con l’alibi della democrazia (ci hanno eletto i cittadini!), con l’alibi dell’autonomia (i Comuni non sono figli di un dio minore), con l’alibi dell’efficienza (lasciateci lavorare!), con l’alibi del federalismo (sono affari nostri!), con l’alibi della sussidiarietà (tocca ai Comuni!), di fatto si instaura più o meno inconsapevolmente la ‘dittatura della maggioranza’ consiliare comunale. In pratica, non esiste alcuna autorità politica e morale che possa contrastare le decisioni della maggioranza: schmittianamente, il potere conferisce il diritto! La sospensione delle procedure democratiche e delle garanzie più elementari del cittadino pare dunque essere conseguente al tentativo di rimuovere alla radice la conflittualità locale. Stiamo parlando del classico travisamento della nozione di libertà, qui intesa come assenza di ostacoli all’adesione ad un ordine sociale che protegge i suoi membri da se stessi e li assegna arbitrariamente al posto che gli compete, in conformità con le leggi di natura ed indipendentemente dalla loro volontà. Siamo di fronte ad un’antropologia negativa prerinascimentale che palesa una radicale sfiducia nella bontà delle persone, nel loro senso di responsabilità, nella conciliabilità di interesse privato ed interesse comune. LA LEGGE DI JANTE E LA SOPPRESSIONE DEL CONFLITTO Una società migliore è quella capace di migliori conflitti. Di riconoscerli e di contenerli. Di vivere, non malgrado essi, ma produttivamente ed intelligentemente con essi. (…). Solo un popolo scettico sulla festa della guerra, maturo per il conflitto, è un popolo maturo per la pace. Stanislao Zuleta


Una costellazione di motivi ideologici che danno conto del paradosso citato in apertura è quella che, per comodità ed economia di linguaggio, chiamo la “Legge di Jante” e che ho già descritto schematicamente nel mio precedente contributo agli Atti SPEA. Nel caso specifico, essa si riferisce alla tendenza, rilevata in Svizzera (Lüthy, 1962) ma già presente nella democrazia ateniese (Spitz, 1975) e probabilmente generalizzabile all’intero arco alpino, a non pensare in termini di libertà personale ma di libertà al plurale, dei gruppi, dei cantoni, della nazione, e non in termini di diritti umani, ma di diritti collettivi conferiti ad una comunità per consentirle di badare ai propri affari. La legge di Jante (Janteloven), nata dalla fantasia dello scrittore danese Aksel Sandemose, è il prodotto della società paesana scandinava del diciannovesimo secolo, formalmente egalitaria, che, tormentata dallo spettro delle privazioni e miserie passate, sentiva l’esigenza di mantenere la coesione e la stabilità nelle comunità rurali anche a costo di sacrificare l’originalità, la varietà, l’ambizione e l’iniziativa personale, la sovraesposizione personale, in breve, il pluralismo e la crescita socioeconomica. Essa trova numerosi riscontri nelle valli alpine di oggi (Bätzing, 2005; Zucca et al. 2007). Nelle Alpi, come in Scandinavia, il consenso e la ricerca del consenso è il valore imperante nella definizione delle problematiche di una comunità e nella individuazione delle possibili soluzioni. Ciò significa che risulta difficile da un lato accettare il disaccordo e lo scostamento dal codice etico collettivo, e dall’altro dare il giusto peso alle istanze private che abbiano una rilevanza generale, in un contesto in cui la nozione stessa di sfera privata è quantomai precaria ed il livellamento sociale è la norma (Camporesi, 1980). Da ciò deriva la forte staticità della società e la trascuratezza con la quale si provvede a distinguere tra gruppo di appartenenza ed individui, questi ultimi inchiavardati per la loro intera esistenza in un destino predefinito, incapaci di percepire se stessi come possessori di un’identità separata dalla società nella quale vivono. La rimozione di ogni discrimine qualitativo tra i membri della comunità tradizionale significa in ultima analisi che non possono esistere interessi qualitativamente differenti dei quali tener conto, con buona pace del principio liberale che vede l’individuo come valore fondamentale. Un compromesso, per quanto insoddisfacente, rimane un’opzione preferibile rispetto alla collisione di posizioni contrapposte che impediscono di tutelare il sistema di reciprocità bilanciata (do ut des) che regge le sorti degli agglomerati rurali (bygd in norvegese). Questo tipo di società, che ricalca il modello Gemeinschaft di Ferdinand Tönnies, è dunque totemizzato: la sua rappresentazione simbolica viene a coincidere con i legami di lealtà, alleanza e reciprocità tra i suoi membri, che costituiscono un quadro di riferimento assoluto che non è mai messo in discussione, perché la totemizzazione conferisce alla società stessa la sua legittimità e ragion d’essere e permette di venerarla (Sørhaug, 1991). La condizione di estrema prossimità fa sì che, anche se nessuno crede davvero di essere uguale al vicino, ognuno senta il dovere di dar mostra di credere di non essere migliore degli altri, con tatto ed avvedutezza, per non diventare il bersaglio dell’invidia sociale. Questa finzione di massa permette alla comunità di conservare i legami, i ruoli, la serialità dei comportamenti e delle relazioni e soprattutto le norme tradizionali e quindi le ragioni della propria identità (Camporesi, 1980). In cambio chi non è parte della comunità è virtualmente inesistente, perché la funzione totemica è intrinsecamente esclusivista: “non avrai altra comunità all’infuori di me”. Ciò sarebbe inconcepibile in una città di mare, dove la presenza di estranei, forestieri, stranieri è naturale, visto che la stessa sussistenza di quel tipo di società dipende dall’interscambio di beni ed idee. Quel che si perde in questo genere di assetto sociale “pesante” fondato sulla solidarietà organica è la funzione e l’importanza del conflitto, come momento di incontro e scambio di opinioni diverse, come forma di apprendimento del sé e dell’altro, come strumento di valorizzazione delle differenze e di ricomposizione delle divisioni, quando è elaborato efficacemente (Morelli, 2006). E’ proprio l’antagonismo, corollario del pluralismo, che genera quei legami che mantengono coese le democrazie. In questo senso va tenuta a mente la lezione di Walt Whitman, contenuta nel celebre passaggio del poema Song of Myself : “Mi contraddico forse? Va bene, allora mi contraddico (sono vasto, contengo moltitudini)”. Una società democratica che non è capace di superare l’autoreferenzialità e di comprendere ed assorbire ciò che le manca – di immaginarsi a vicenda, come suggerisce (Amos Oz, 2004) –, non è una società sana. E’ una distopia falsamente egalitaria che abolisce ciò che potrebbe distinguere una persona da un’altra e che sancisce che il mero atto di far valere la propria personalità,


anche senza causare alcun danno agli altri, è intrinsecamente sbagliato e disdicevole: in altre parole, che qualcosa è andato storto nell’evoluzione umana (Kolakowski, 1990). Democrazia e innovazione invece prosperano quando coltivano lo spirito dell’affermazione del fisico austriaco-statunitense Heinz von Foerster: “Agisci per aumentare il numero delle scelte possibili”, che presuppone una società in cui prevalga il pluralismo e ciascuno sia libero di esprimersi. Di contro, nell’area alpina (come altrove) si perpetua un fastidioso equivoco che impedisce la piena comprensione del ruolo del conflitto in una democrazia sostanziale e non solo formale, cioè quello secondo cui il principio della libertà d’espressione presuppone il rispetto per le opinioni altrui, quando invece il significato originale e più vero di questo principio è quello di permettere alle convinzioni di essere messe in discussione, anche con veemenza, ed essere demolite, se non sono in grado di reggere al vaglio critico dell’opinione pubblica. Il valore della coesione sociale non può e non deve in alcun modo ledere il diritto di chiunque di esprimere ciò che pensa, perché il dibattito democratico si fonda anche sulle cose che la gente non vuole sentirsi dire. Una citazione di Mario Spinella (Spinella, 1995), ex partigiano, giornalista ed editore, offre una mirabile sintesi di questo caposaldo del pensiero democratico nel quale “c’è la faticosa costruzione di una volontà di intendere le ragioni degli altri, di sentirle – a volte dolorosamente – con la stessa intensità delle proprie. Nulla perciò mi sorprende – con un misto di ammirazione e di terrore – più di coloro i cui termini di riferimento appaiono saldi e fissi, che riescono a non piegarsi mai nelle altrui direzioni, e vivono, per così dire, in un monologo continuo, in un’orgogliosa sicurezza che tutto il bene e il giusto stiano dalla parte loro e delle loro idee”. Per questo è gravissimo il dato che un quarto dei consigli comunali trentini sia privo di una vera opposizione e che in un numero imprecisato di casi il punto di vista dei consiglieri di minoranza sia virtualmente ignorato. Si è detto che questo stato di cose va imputato alla legge regionale 1/93 sull’Ordinamento dei Comuni che ha conferito eccessivi poteri alla maggioranza ed al sindaco per ovviare al problema di una conflittualità locale paralizzante, ma sarebbe utile esaminare la possibilità che questa sia una situazione piuttosto diffusa nei comuni di tutto l’arco alpino, dove clan, cricche e corporazioni determinano più facilmente le scelte politiche, a spese dei singoli e dell’opposizione, vista come uno sgradevole impiccio che ostacola il funzionamento del sistema. In questa cornice istituzionale le istanze minoritarie non possono che essere bollate come nocive per il bene comune, in quanto espressione di interessi particolari. Ciò è ancor più probabile in un contesto in cui sono stati rilevati elevati indici di autoritarismo (Arnoldi Cristofolini, 1987). Come ha spiegato in un recente convegno il difensore civico Donata Borgonovo Re, le invidie e le gelosie, la chiusura delle comunità e degli orizzonti di chi ne fa parte, le diffidenze, le vendette ed i timori reciproci, unite alla sfiducia nei confronti delle autorità, al sistema di potere neo-feudale di sindaci-vassalli che controllano il territorio ed il consenso e soffocano il dissenso, rimanendo in carica anche 20 o 25 anni, sono il sintomo non solo della mancanza di autonomia decisionale e di coscienza democratica partecipativa, ma anche di un terreno nel quale queste possano essere coltivate. In questi comuni si possono riscontrare temi e valori molto affini a quelli della legge di Jante. Basti citare l’osservazione di Graziano Tomasin, ex sindaco di Lavis e attuale capogruppo di minoranza (Tomasin, 2006): “Con l’alibi della democrazia (ci hanno eletto i cittadini!), con l’alibi dell’autonomia (i Comuni non sono figli di un dio minore), con l’alibi dell’efficienza (lasciateci lavorare!), con l’alibi del federalismo (sono affari nostri!), con l’alibi della sussidiarietà (tocca ai Comuni!), di fatto si instaura più o meno inconsapevolmente la “dittatura della maggioranza” consiliare comunale”. In pratica, non esiste alcuna autorità politica e morale che possa contrastare le decisioni della maggioranza: il potere conferisce il diritto! La palese sospensione delle procedure democratiche e delle garanzie più elementari è dunque il risultato del tentativo di rimuovere alla radice la conflittualità locale. Quel che più amareggia è che, come ampiamente dimostrato in questi anni dal gruppo di ricercatori del Centro di Ecologia Alpina del Bondone, l’immagine di chiusura dei centri rurali delle valli montane è semplicemente falsa. Non sono tante Dogville3 popolate da figure veterotestamentarie dedite all’ostracismo, alla vendetta, allo sfruttamento delle persone più vulnerabili ed alla violenza, una volta che queste pratiche siano state 3

mi riferisco al celebre film di Lars von Trier


giudicate socialmente accettabili dalla maggioranza. Meglio rifuggire dalla tentazione di rendere caricaturali queste realtà posizionandole agli estremi di un continuum che va dall’idillio bucolico alla cultura aliena, arretrata e vagamente inquietante. I problemi indubbiamente esistono, ma ci sono anche enormi potenzialità di accoglienza di forestieri e stranieri e buone capacità imprenditoriali che andrebbero sostenute adeguatamente a livello locale e regionale (Zucca et al., 2007). Tra l’altro l’armonia è spesso solo un velo ipocrita che nasconde ben altro. A parte il Sud, la maggiore concentrazione di violenze domestiche si registra in Friuli e Alto Adige ed il Trentino è poco sotto. In Trentino le denunce provengono soprattutto dai centri urbani, mentre sono più rare nelle valli. Vuol forse dire che l’urbanizzazione produce violenza e la vita di paese armonia? Certamente no. Le statistiche storiche mostrano che l’urbanizzazione coincise con una sostanziale diminuzione del tasso di omicidi (con l’eccezione degli Stati Uniti). Lasciando da parte il consistente contributo degli immigrati, che spesso provengono da aree rurali fortemente maschiliste, bisogna tener conto del fatto che – cito la criminologa Merzagora Betsos – In Trentino c’è ancora un alto controllo sociale tra vicini di casa e conoscenti, ma è ancor più radicata la barriera di omertà familiare che porta a sciacquare i panni sporchi in casa e a non denunciare gli abusi. Le statistiche, elaborate sui 646 casi oggetto di procedimenti penali tra il 2001 e il 2005, non contemplano infatti il “numero oscuro”: quel 60-80% di violenze fisiche psicologiche che restano nell’ombra.

TECNOCRAZIA CONTRO POPULISMO: CINISMI CONTRAPPOSTI Oggi, come ieri, il cinismo delle masse che faticano a credere alla buona fede della politica, dell’informazione e della scienza si contrappone a quello dell’élite, spesso sprezzante nei confronti del popolino, colpevole di avere abitudini e gusti prosaici e volgari, di essere impulsivo, suggestionabile, emotivo, irrazionale, incostante, irritabile, non particolarmente portato al pensiero astratto. Meglio non aspettarsi molta comprensione da chi ama più le idee che le persone. Le attuali democrazie rappresentative si trovano ad affrontare l’enorme problema di come andare incontro ai desideri degli elettori, che si fanno sempre più esigenti, e nel contempo contrastare l’insorgere di un cinismo diffuso. Bisogna giustificare le proprie scelte facendo affidamento alla scienza ed alla tecnica come fonti di legittimazione ma, quando l’opinione pubblica arriva a mettere in dubbio la credibilità e neutralità degli specialisti e dei tecnici, la strada è spianata per i movimenti di protesta a carattere populista. Nella regione alpina questo avviene ogni qualvolta il diffuso sistema di gestione consensuale e neo-corporativa della cosa pubblica (Konkordanz/Proporz), retaggio del comunitarismo pocanzi citato, entra in crisi in seguito a rivelazioni di scandali e corruzione, alla pressione dei gruppi di rappresentanza minoritari - stanchi di essere esclusi dalla gestione del governo del paese -, o semplicemente per la diffusa percezione che l’attuale classe politica è inadeguata o indecente. La risposta può essere anti-sistemica. Allo scopo dichiarato di neutralizzare spinte populiste di questo genere, una parte dell’attuale maggioranza al governo in Trentino ha recentemente rispolverato il vecchio cavallo di battaglia delle identità, della tradizione e del partito territoriale, prefigurando una sorta di “Casa dei Trentini” che fungerà da collante del Land che verrà. Questo modello, che rimanda alla consueta difficoltà trentina di distinguere società e comunità, evoca l’idea di una casa comune per un intero popolo che è anche progetto condiviso e rivolta contro una visione atomistica e meccanicistica della realtà e delle relazioni umane. La metafora della società organizzata come una famiglia, così tipica del contadino trapiantato in città, è un modello ampiamente sfruttato nell’area alpina, specialmente di lingua tedesca. La ritroviamo in Svizzera, in Austria, nell’Alto Adige ed in Baviera, esplicitata nello slogan “Laptop und Lederhosen” di una CSU che domina la Baviera con il suo tradizionalismo regionalista impregnato di valori cristiani e familisti, ostile al multiculturalismo, ma selettivamente aperto alle innovazioni tecnologiche ed imprenditoriali. La sua diffusione però non comprova la sua efficacia. Già Rousseau aveva escluso che una democrazia assembleare fosse realizzabile in società complesse. E’ quindi lecito


sospettare che sia piuttosto un abile espediente che permette ad una democrazia rappresentativa di smorzare ogni istanza populistica che non provenga dall’establishment stesso. Non c’è nulla di moralmente deprecabile in questo: evidentemente una maggioranza di elettori lo considera un sistema di gestione del potere accettabile. Io resto scettico. Questa ricerca del primato rischia di provocare un’impennata di supponenza. Ricordo ancora il sussiego e l’esigenza psicologica di rappresentare un esempio per tutti che si palesarono, con ingenua buona fede, nello slogan turistico “Trentino, l’Italia come dovrebbe essere”. Anche in questo caso si può parlare di totemizzazione della società. Il sentirsi dalla parte del vero, del buono e del giusto, parte di una comunità culturalmente e spiritualmente esemplare, può dare origine a quell’intollerante senso di intangibilità morale, propria del sacro, che rende ancora più difficile il compito di chi punta il dito contro l’arbitrarietà di certe decisioni prese in nome del bene comune e quindi, per definizione, insindacabili e moralmente ineccepibili 4. HEIMAT, HEMMET E CASA DEI TRENTINI Ognuno ha bisogno di una patria. Noi Sudtirolesi sappiamo fin troppo bene che cosa sia la patria: è l’amore per la nostra terra, la sensazione di sicurezza, la familiarità e l’amicizia (Siegfried Brunner, discorso tenuto al congresso SVP del 1999). Recentemente i politici trentini hanno rispolverato il vecchio cavallo di battaglia delle identità, della tradizione e del partito territoriale, dichiarando che quello è il collante del Land che verrà, una Casa dei Trentini fondata su una piena autonomia politica e non solo amministrativa, sulla capacità di assumersi le proprie responsabilità di fronte ai problemi della comunità, di impegnarsi con piacere, collaborativamente, per il suo bene e sul rigetto di un modernismo senz’anima e dell’omologazione globalizzata, che non rispondono alle esigenze locali. Adelino Amistadi, consigliere regionale e provinciale, si augura che la formula prescelta sarà quella di “un’alleanza di popolo, di gran parte del popolo trentino”. Nelle intenzioni di chi con un certo piglio moralistico e motivato da una vena utopica si è fatto paladino di questo modello politico e del suo deciso orientamento verso le valli, una sincera vocazione all’armonia sociale, al consenso interno, all’utilità sociale dovrebbe in teoria scongiurare l’esondazione in provincia dei fiumi populistici dei territori limitrofi. Il modello “Casa dei Trentini”, sulla scia della consueta difficoltà con la quale i Trentini cercano di distinguere la società dalla comunità, evoca l’idea di una casa comune per un intero popolo che è anche progetto condiviso e rivolta contro una visione atomistica e meccanicistica della realtà e delle relazioni umane, in favore di un modello sociale organicistico come quello del paese. E’ un modello ampiamente sfruttato nell’area alpina e scandinava, dove si registra un’intensa nostalgia per un passato pre-rinascimentale e pre-illuminista idealizzato in cui ogni persona apparteneva ad un corpo sociale omogeneo ed esente dai sussulti della modernità, che ha però come rovescio della medaglia la pretesa di un’assoluta conformità alle regole ed il sospetto che il principio di autodeterminazione dei singoli conduca a forme di individualismo anti-sociale. Lo ritroviamo in Baviera, esplicitato nello slogan “Laptop und Lederhosen” che ha permesso alla CSU di dominare la Baviera nel dopoguerra con il suo tradizionalismo regionalista impregnato di valori cristiani e familisti, ostile al multiculturalismo – come testimonia la netta opposizione bavarese alla nuova legge tedesca sulle naturalizzazioni, che finalmente permette a stranieri nati nella Repubblica federale di poter chiedere la nazionalità tedesca – ma selettivamente aperto alle innovazioni tecnologiche ed imprenditoriali. C’è da chiedersi se sia opportuno emulare la Schicksalgemeinschaft bavarese – una comunità con un’origine ed un destino comuni – che nel diciannovesimo secolo espelleva annualmente l’1 per cento della sua popolazione, colpevole di non essere indigeno (Fahrmeir, 2000), che nel secolo scorso era la culla del movimento per l’igiene razziale tedesca (Weingart et al. 1988) e che, più recentemente, è stata tra i più saldi sostenitori di Haider. La metafora della società organizzata come una famiglia, così tipica del contadino trapiantato in città è stata alla base del riformismo social-democratico svedese nel corso degli ultimi 80 anni. La 4

Si vedano le vicende riguardanti il referendum separatista della Val Rendena ed il pasticcio della riforma degli enti locali.


Casa dei Trentini svedese è stata chiamata folkhemmet (casa del popolo), ed è nata come strumento di edificazione della miglior società possibile, capace di conciliare tradizione ed innovazione, proiezione globale e tutela del patrimonio locale, individualismo e comunitarismo e, in ultima istanza, com’è stato segnalato da più parti “il mito populistico del folk e il razionalismo utopistico dei funzionalisti” (Colla 2000). Questa ricerca del primato è stata però troppo spesso solo nominalmente virtuosa: i diritti personali sono stati troppo spesso frettolosamente subordinati alle esigenze della collettività 5; l’invocazione di principi assoluti è stata respinta in quanto in contrasto con gli obiettivi della pianificazione sociale; infine si è verificata un’impennata della supponenza e dell’auto-convincimento di fungere da coscienza del mondo (Huntford, 1980). Lo stesso avviene in Svizzera, come nota André Reszler, storico dell’università dell’Indiana, che denuncia il “tono spesso e volentieri moralizzatore dei commenti riguardanti le vicende mondiali, la convinzione di avere ragione, la severità esemplare riservata a chi contravviene all’ordine stabilito ed una certa degnazione verso stranieri e paesi esteri (Reszler, 1986: p. 13). Il medesimo sussiego, lo stesso senso di immunità morale e la stessa esigenza psicologica di rappresentare un esempio per tutti sono stati poi palesati, con ingenua buona fede, dallo slogan turistico “Trentino, l’Italia come dovrebbe essere” che, anni fa, mi rese bersaglio dei frizzi e dei lazzi dei miei compagni universitari a Bologna. Purtroppo il Trentino, come la Svezia, la Svizzera ed il Canada (Gaffield & Gould, 2002), forse a causa di un complesso d’inferiorità non ben metabolizzato, si caratterizza anche per questa credenza di essere nobilmente diversi dai vicini - l’Altro esistenziale che, con la sua inadeguatezza, legittima agli occhi dei Trentini il conferimento dell’autonomia speciale -, in virtù del nostro pacifismo, egualitarismo, ecologismo, solidarismo, della nostra natura gentile, ritrosa ma sincera. Come i suddetti paesi, siamo immensamente fieri dello stile di vita, delle istituzioni e delle norme di condotta che abbiamo adottato, le più idonee a consentirci di perseguire gli ideali sociali più degni ed elevati. La nostra arrendevolezza di fronte ad ogni forma di autoritarismo impostoci dall’esterno, la restituzione da parte dello Stato del 90 per cento dei tributi locali, la posizione geopolitica favorevolissima vengono prontamente e convenientemente rimossi dall’orizzonte storico. Anche in questo caso si può parlare di totemizzazione della società: questo sentirsi dalla parte del vero, del buono e del giusto di una comunità culturalmente e spiritualmente unica nel suo genere dà origine a quell’intollerante senso di intangibilità morale che rende ancora più difficile il compito di chi punta il dito contro le magagne e contro l’arbitrarietà di certe decisioni prese in nome del bene comune e quindi, per definizione, insindacabili e moralmente ineccepibili 6. Chi ritiene di essere puro e in buona fede (e magari in massima parte lo potrà anche essere) difficilmente riuscirà a valutare obiettivamente ed accuratamente le conseguenze delle proprie azioni, ad analizzare cosa è andato storto e perché e a comprendere le sue responsabilità. Ma lo stesso discorso vale anche per chi tende a ritenere di essere razionale ed informato (e spesso magari lo sarà anche). Il problema in questo caso è che ciò induce a considerare le proprie azioni come sostanzialmente ragionevoli, anche quando sono solo logicamente conseguenti, ossia a credere che, avendo considerato diverse variabili di un’equazione, il risultato non può che essere quello atteso. Un analogo senso di immunità morale - la Ragione, il retto pensare, conduce inevitabilmente al vero, al buono ed al giusto - amputa la capacità di valutare le azioni, le loro conseguenze e le relative responsabilità. TECNOCRAZIA, ETNOPOPULISMO E FAGLIE ANTROPOLOGICHE Lo scettico, a differenza del cinico, non è un menefreghista, non si bea delle sue certezze qualunquiste, cioè populiste, e misantropiche. Lo scettico ama i punti di domanda, non quelli esclamativi. Lo scettico è pericoloso per sé e per gli altri solo nella misura in cui mette in dubbio le certezze acquisite, quell’ordine morale e cognitivo che rassicura, che aiuta a gestire la complessità del vivere. Per questo è inviso ai fanatici ed ai cinici, che è difficile distinguere. Essi hanno paura dell’incertezza, del pensiero autonomo, della paura stessa e per questo sono felici di essere eterodiretti. Ma la virtù dello scettico è che la sua non è una sfiducia nichilista, ma un disincanto costruttivo ed 5 6

Tra il 1934 ed il 1975 migliaia di cittadini svedesi furono sterilizzati senza consenso informato. Si vedano le vicende riguardanti il referendum separatista della Val Rendeva ed il pasticcio della riforma degli enti locali.


autocritico, che in nome della skepsis (la ricerca, l’indagine) rimuove i sistemi di idee obsoleti ed inaffidabili per costruirne di nuovi e più saldi. Oggi, come ieri, il cinismo delle masse che faticano a credere alla buona fede dell’establishment della politica, dell’informazione e della scienza si contrappone a quello dell’élite, intimamente sprezzante nei confronti del popolino – e specialmente se valligiano –, colpevole di avere gusti ed abitudini prosaiche e volgari, di essere impulsivo, suggestionabile, emotivo, irrazionale, incostante, irritabile, non particolarmente portato al pensiero astratto. Meglio non aspettarsi molta comprensione da chi ama più le idee delle persone. E’ possibile affermare che ci furono due principali scuole di pensiero (peraltro eterogenee al loro interno) che diedero forma all’Europa contemporanea: una, l’Illuminismo, basata sul presupposto della malleabilità della natura e delle istituzioni umane; l’altra, il Romanticismo, incentrata su una genuina passione per il localismo e l’etnicità, su una critica feroce alla frammentazione sociale, la deumanizzazione, il meccanicismo della modernità, oltre che sull’assalto iconoclasta alla credenza monistica che esiste un’unica verità ed un unico modo per coglierla. Queste due scuole sono perfettamente compatibili e complementari, come la Sinistra e la Destra politiche che - semplificando molto - ne incarnano i principi, ma gli scontri di potere tra nazioni e gruppi d’interesse hanno quasi sempre impedito quel fecondo rapporto dialettico che avrebbe corretto gli inevitabili eccessi dell’una e dell’altra corrente di pensiero (McMahon, 2001). Così nel corso della Storia, la prima scuola di pensiero irrobustì la risolutezza dei portavoce della radicale pianificazione sociale (tecnocrazia) e della missione civilizzatrice dell’Europa nel mondo, mentre la seconda vide l’emergere di tendenze esclusiviste, settarie e fatalistiche che diedero vita a quella collezione di enunciati etnopopulistici che sancirono l‘incommensurabilità, l’irriducibile pluralità e diversità ontologica di culture chiuse, distinte, omogenee e separate, opponendo al diritto all’eguaglianza il diritto alla differenza. In entrambi i casi il risultato fu che i diritti e gli interessi collettivi ottennero la priorità su quelli individuali e che le persone furono assegnate al posto che loro presumibilmente spettava nell’ordine naturale e sociale, sulla base di arbitrarie attribuzioni di valore intrinseco. Una breve analisi del fenomeno tecnocratico e di quello populista chiarirà la rilevanza di questo dualismo per la comprensione dell’antropologia politica alpina. L’odierno etno-populismo è per molti versi figlio dei filoni populisti della reazione romantica al diffondersi del positivismo e del cosmopolitismo giuridico e culturale, specialmente nelle loro versioni più radicali. Questi filoni esaltano il culto della dimensione comunitaria e di agenzie sovra-individuali e forze immanenti o trascendenti come la Nazione, il Popolo ed il suo Spirito (Volksgeist), l’Etnia, l’Autorità e la Provvidenza che si invera nella Storia (Abbagnano & Fornero, 1991). Mentre una larga parte degli Illuministi si prodigava con spirito missionario e spesso con notevole presunzione paternalistica a “rischiarare” le menti della gente comune e condannare gli errori ed i pregiudizi del passato e della tradizione, i populisti romantici assolutizzarono il valore dei retaggi culturali e dell’appartenenza ai popoli, che non era più il risultato di una scelta contrattuale e discrezionale ma un destino. Per la prima volta nella storia interi popoli furono concepiti come Schicksalsgemeinschaften, un insieme organico di “individui che devono vivere insieme, nel senso che non possono non farlo senza rinnegarsi o tradire se stessi” (Abbagnano & Fornero, 1991). Si parla di scientismo e di tecnocrazia quando scienziati e tecnici si richiamano alla razionalità strumentale ed al realismo pragmatico per legittimare un certo tipo di politica sociale, ad esempio proclamando che ogni innovazione tecnica è nata per risolvere in un certo modo i grandi problemi delle società contemporanee. Secondo quest’ottica acritica, scienziati ed ingegneri assecondano i talenti migliori – razionalità, disciplina, neutralità, imbrigliamento di emozioni e sentimenti, quelli che li inducono a perseguire la via del pragmatismo, dell’efficienza, della rapidità, del rigore e della rimozione di contraddizioni intellettualmente frustranti ed ostacoli concretamente vincolanti (Daun, 1977). Si parla allora dello scivolamento del metodo logico-deduttivo da un piano empirico-descrittivo della realtà ad uno normativo e delle verità morali (Scardigli 1992): es. ah se solo la società fosse come ce l’abbiamo in mente noi, tutto funzionerebbe meglio! Risulta dunque moralmente buono e giusto solo ciò che funziona e quel che invece fallisce non è solo increscioso ma anche perverso. Ma, come ha sostenuto


Norberto Bobbio (Bobbio, 1991) “la democrazia si regge sull’ipotesi che tutti possano decidere di tutto. La tecnocrazia, al contrario, pretende che chiamati a decidere siano i pochi che se ne intendono”. L’una esclude l’altra. La tecnocrazia non fu comunque un abbaglio dell’Illuminismo, bensì del positivismo ottocentesco (Rossi 1995), ed è lì che va cercata la radice di quell’ideologia del progresso (che va tenuta nettamente distinta dal progressismo) che storicamente si è articolata attorno ai seguenti punti fermi (peraltro indimostrabili e storicamente falsi): “la scienza e la tecnologia sono una fonte di costante progresso”; “una razionalità perfetta può essere effettivamente conseguita ed è l’unico legittimo fondamento per le decisioni collettive”; e infine “la scienza come tale è un’attività neutrale: bene e male entrano in gioco solo quando si passa all’applicazione delle scoperte scientifiche”. La solidarietà funzionale, assieme alla chiarezza dei fini comuni e del ruolo di ciascuno nella microsocietà agraria sono serviti più volte nel passato per far balenare nelle menti degli ingegneri sociali più ambiziosi la possibilità che essa sia semplicemente la prefigurazione di una futura società ideale. Una società ideale in cui l’uomo della strada, il cittadino medio non troverebbe spazio, perché questo genere di ingegneria sociale molto spesso proietta sull’intera società la compiaciuta auto-percezione di chi la concepisce: la società futura non sarebbe dunque fondata sugli esseri umani attualmente esistenti ma su una loro versione ottimale che non trova riscontro nella realtà. Questa è la ragione per cui tecnocrazia ed illiberalismo sono perfettamente compatibili: la democrazia non si fonda – o quantomeno non si dovrebbe fondare – sull’idea di Uomo Comune o Medio, non particolarmente competente, che andrebbe riformato in linea con le aspettative dei grandi pianificatori, ma bensì sulle capacità degli uomini e donne, per quanto inevitabilmente imperfetti, di scegliere per sé, di coltivare una propria autonomia di giudizio. Quando invece l’inclinazione tecnocratica si intensifica, cioè quando un numero sempre crescente di decisioni sono delegate a tecnici in virtù del presupposto, palesemente errato, che il loro giudizio è neutrale e non inficiato da giudizi di valore (Bereano 1976), allora esiste il fondato rischio che i cittadini-elettori si trovino a preferire forme di legittimazione dell’azione politica di tipo populista. Queste, retoricamente, condannano l’identificazione degli esseri umani come semplici termini di un’equazione – peraltro uno sviluppo inevitabile della gestione di società complesse. Il populismo, che spesso si confonde con l’anti-americanismo, si scaglia per definizione contro le civiltà degli automatismi, della standardizzazione, della tecnica astratta, dell’utilitarismo e pragmatismo che soggiogano l’uomo invece di liberarlo, spogliandolo delle sue facoltà decisionali, margini di discrezione e diritto di critica. Esso si nutre della svogliatezza sfiduciata (Verdrossenheit) nei confronti dell’élite al potere, della percezione di un intollerabile deficit democratico e del desiderio di vivere in una Heimat, una società coesa, organica e non conflittuale, formata da un popolo visto come una massa indifferenziata, idealmente virtuosa come nei bei tempi andati, che cresce rigogliosa nel territorio dell’immaginario nostalgico. Questa Gemeinschaft riproduce la contrapposizione tra il differenzialismo etnico esclusivista e regionalista - gli altri sono diversi e non saranno mai davvero in grado di diventare come noi - ed assimilazionismo universalista - gli altri rappresentano una risorsa per tutti proprio in virtù della loro diversità: la loro integrazione è quindi nell’interesse di tutti. Ora, le democrazie rappresentative dei nostri giorni si trovano ad affrontare l’enorme problema di come andare incontro ai desideri degli elettori, che si fanno sempre più esigenti. Si rende sempre più necessario giustificare le proprie scelte facendo affidamento alla scienza ed alla tecnica come fonti di legittimazione e, quando tali scelte risultano invise all’opinione pubblica, che arriva a mettere in dubbio la credibilità degli specialisti, ciò può produrre le condizioni ideali per il sorgere di movimenti di protesta. Questi sono a volte smaccatamente populistici, specialmente se il grado di delegittimazione è tale che i cittadini ritengono di avere le idee più chiare della loro classe dirigente riguardo al modo in cui andrebbero prese certe decisioni che li riguardano. Nella regione alpina, questo avviene ogni qualvolta il diffuso sistema di gestione consensuale e neocorporativa della cosa pubblica (Konkordanz/Proporz) entra in crisi in seguito a eventuali rivelazioni di scandali e corruzione, alla pressione dei gruppi di rappresentanza minoritari, stanchi di essere esclusi dalla gestione del governo del paese, o semplicemente per la crescente percezione di una manifesta incapacità di reagire alle sfide della modernità da parte della classe politica. La risposta può essere anti-


sistemica ed invocare soluzioni ispirate al senso comune,spesso semplicistiche, e quindi di facile comprensione per tutti, che non siano il monopolio di quelli che stanno in alto, che sono invece percepiti come meno uguali, meno virtuosi, meno lucidi del resto della popolazione (Taggart 2000). Haider, per esempio, quando il 77 per cento degli Austriaci ritenevano che gli stranieri non si erano sufficientemente impegnati nell’arte di adattarsi allo stile di vita austriaco ed il 64 per cento pensava che ce ne fossero troppi (Müller, 2002; Plasser & Ulram, 2003), dichiarava di essere lui l’unico vero campione della democrazia in Austria, portavoce degli scontenti di un sistema di potere incancrenito e minato dal nepotismo, dal clientelismo e dalla corruzione. L’unico capace di ripristinare le istituzioni democratiche, rimediare allo sfascio dello stato sociale iperburocratizzato che deresponsabilizza i cittadini rendendoli parassitari ed indebolisce il loro senso civico e spirito solidaristico (Betz, 2005). CONCLUSIONI: IL TRENTINISMO COME RELIGIONE CIVILE Nei paragrafi precedenti, e nel mio precedente intervento, ho cercato di spiegare come culturalismo (es. Trentinismo o tridentinismo), autonomismo e comunitarismo sono i valori cardine di una filosofia politica, o per meglio dire, di una religione politica che, pur non essendo al momento attuale maggioritaria, potrà diventarlo in futuro, se l’egoismo del benessere genererà una sufficiente spinta propulsiva in tal senso. La svolta a destra delle valli e la conseguente svolta territoriale dell’attuale governo provinciale potrebbero anche essere letti come una conferma del fatto che questo scenario non è così improbabile e che esistono forze etnopopulistiche in grado di poter stabilire nuove regole del “politicamente corretto” in Trentino, com’è già successo altrove (Fait, Atti di Malè). Ma prima di tutto è bene capire cosa s’intenda per religione civile. La religione civile è quel legame che unisce i cittadini fornendo loro un’identità, autostima, un senso di appartenenza e di trascendenza ed un fine più alto. E’ l’ethos di una società e può essere così profondamente coinvolgente da indurre i cittadini a sacrificare le proprie vite per il bene comune. Questo concetto può essere meglio compreso se si considera la distinzione tra Gesellschaft (società) e Gemeinschaft (comunità) (Tönnies, 2001). Gesellschaft è l’ambiente sociale “artificiale”, eterogeneo, competitivo della moderna società urbana in cui i legami tra gli individui sono allentati e l’interesse personale, la razionalità strumentale ed il contratto sociale sono il collante che tiene insieme la società. Gemeinschaft è invece il modello di società “naturale” ed organico che prevale nelle aree rurali e periferiche, caratterizzate da una maggiore coesione sociale ed omogeneità culturale, da un’armonia auto-imposta, da obiettivi comuni e da vincoli emozionali più forti. Come anticipato da Jean-Jacques Rousseau nel capitolo 8 (“De la Religion Civile”), libro 4 del suo “Du Contrat Social”, le religioni civili, con i loro rituali e liturgie pseudo-religiose, epiche e miti collettivi, eroi e simbologie, luoghi consacrati e con le loro immagini e slogan galvanizzanti costituiscono il cemento delle società moderne. La loro funzione è quella di preservare la comunità a fianco della società e possono efficacemente mobilitare la gente attorno a questioni di interesse generale e timori diffusi, conferendo un significato religioso – e quindi legittimità – alle pratiche, ruoli, istituzioni ed orientamenti valoriali prevalenti. Le religioni civili sono modi alternativi attraverso i quali la gente può esprimere la propria religiosità e che creano quella effervescenza collettiva che serve alla società per venerare sé stessa (Durkheim, 1954): il totemismo sociale già menzionato in precedenza. Eppure, se da un lato la conquista di una maggiore coesione e di una misura più ampia giustizia sociale è resa più semplice dalla presenza di una religione civile sufficientemente vitale, il dovere di ogni cittadino rimane quello di vigilare affinché, in circostanze storiche meno favorevoli, essa non finisca per egittimare la convinzione che in fondo gli individui esistono per la comunità e per lo Stato e non il contrario e che per questo è giusto attendersi da loro pubbliche attestazioni di lealtà ed impegno. L’ammonimento di Gustavo Zagrebelsky (Zagrebelsky, 2007: p. 19) è inequivocabile: “una democrazia che vuole preservarsi dalla degenerazione demagogica deve curare nel massimo grado l’originalità di ciascuno dei suoi membri e combattere la passiva adesione alle mode”. Di qui l’importanza del pluralismo, che non scivola necessariamente nel relativismo morale e di lì nel nichilismo. Joseph Ratzinger è giunto alla conclusione che “il relativismo appare come il fondamento


della democrazia” ed allo stesso tempo che si tratta del “problema più grande del nostro tempo” (Pera & Ratzinger, 2004: 24-26). Il Trentinismo, come il populismo, le religioni rivelate e qualunque altra ideologia collettivista, sono acerrimi nemici del relativismo perché non sono strutturalmente incapaci di distinguere tra relativismo morale e pluralismo etico nella cornice dello stato di diritto e di comprendere che i valori che informano la convivenza sociale non hanno origine da entità collettive come l’Heimat, il Land, o il Volk, che sono semplicemente astrazioni indifferenti ad ogni discrimine di valore, ma dagli individui che si servono di queste istituzioni per realizzarli nella sfera personale (Spitz, 1965). In altre parole: “lo Stato laico vive di presupposti di valore che non può produrre direttamente” (Rusconi, 1999). Le spinte ultra-comunitariste in risposta alla crescente liquidità della modernità tendono invece a personificare i gruppi di appartenenza e di riferimento e così facendo attribuiscono loro più diritti e prerogative di quel che sarebbe opportuno, tra i quali quello di sancire un insieme di principi e valori che possono essere parzialmente in contrasto con quelli presenti nella Costituzione (es. la Lega o la SVP). Il tribunale della storia ha ampiamente stabilito che fini e valori assoluti non si conciliano con le libertà civili di una democrazia, perché soffocano il senso di responsabilità soggettivo. Una coscienza che si adagia sulle verità assolute è una coscienza che non si pone il problema delle conseguenze delle proprie azioni, e questo è precisamente ciò che la Legge di Jante promuove: remissività, assenza di scrupoli, auto-compiacimento. Ha anche dimostrato che certi valori largamente condivisi non sono frutto di una scelta arbitraria ma appaiono così obiettivamente persuasivi che non si sente più il bisogno di cercare di confermarli o falsificarli (Boudon, 1999). Uno di questi è la convinzione che permettere alle vocazioni ed ai talenti personali di raggiungere la loro piena espressione è del tutto ragionevole e giova all’intera società e che una società per crescere necessita di cittadini attivi e critici. Lo scettico, a differenza del cinico, non è un menefreghista, non si bea delle sue certezze qualunquiste e misantropiche. Lo scettico ama i punti di domanda, non quelli esclamativi. Lo scettico è pericoloso per sé e per gli altri solo nella misura in cui mette in dubbio le certezze acquisite, quell’ordine morale e cognitivo che rassicura, che aiuta a gestire la complessità del vivere. Per questo è inviso ai fanatici ed ai cinici, che è difficile distinguere. Essi hanno paura dell’incertezza, del pensiero autonomo, della paura stessa e per questo sono felici di essere eterodiretti. Ma la virtù dello scettico è che la sua non è una sfiducia nichilista, ma un disincanto costruttivo ed autocritico, che in nome della skepsis (la ricerca, l’indagine) rimuove i sistemi di idee obsoleti ed inaffidabili per costruirne di nuovi e più saldi. Oggi, come ieri, il cinismo delle “masse” che faticano a credere alla buona fede dell’establishment della politica, dell’informazione e della scienza si contrappone a quello dell’élite, intimamente sprezzante nei confronti del popolino – e specialmente se valligiano –, colpevole di avere gusti ed abitudini prosaiche e volgari, di essere impulsivo, suggestionabile, emotivo, irrazionale, incostante, irritabile, non particolarmente portato al pensiero astratto. Meglio non aspettarsi molta comprensione da chi ama più le idee delle persone. Le attuali democrazie rappresentative si trovano ad affrontare l’enorme problema di come andare incontro ai desideri degli elettori, che si fanno sempre più esigenti e nel contempo contrastare l’insorgere di un cinismo diffuso. Bisogna giustificare le proprie scelte facendo affidamento alla scienza ed alla tecnica come fonti di legittimazione ma, quando l’opinione pubblica arriva a mettere in dubbio la credibilità e neutralità degli specialisti, la strada è spianata per i movimenti di protesta a carattere populista. Nella regione alpina questo avviene ogni qualvolta il diffuso sistema di gestione consensuale e neo-corporativa della cosa pubblica (Konkordanz/Proporz), retaggio del comunitarismo citato pocanzi, entra in crisi in seguito a rivelazioni di scandali e corruzione, alla pressione dei gruppi di rappresentanza minoritari, stanchi di essere esclusi dalla gestione del governo del paese, o semplicemente per la diffusa percezione che l’attuale classe politica è inadeguata. La risposta può essere anti-sistemica. Allo scopo dichiarato di neutralizzare spinte populiste di questo genere, una parte dell’attuale maggioranza al governo in Trentino ha recentemente rispolverato il vecchio cavallo di battaglia delle identità, della tradizione e del partito territoriale, dichiarando che la “Casa dei Trentini” sarà il collante del Land che verrà. Questo modello, che rimanda alla consueta difficoltà trentina di distinguere società e comunità, evoca l’idea di una casa comune per un intero popolo che è anche progetto condiviso e rivolta contro una visione atomistica e meccanicistica della realtà e delle relazioni umane. La metafora della società organizzata come una famiglia, così tipica del contadino trapiantato in città, è un modello ampiamente sfruttato nell’area alpina, specialmente di lingua tedesca. La ritroviamo in Svizzera, in Austria, nell’Alto Adige ed in Baviera, esplicitata nello slogan “Laptop und Lederhosen” di una CSU che domina la Baviera con il suo tradizionalismo regionalista impregnato di valori cristiani e familisti, ostile al multiculturalismo, ma selettivamente aperto alle innovazioni tecnologiche ed imprenditoriali. La sua diffusione però non comprova la sua efficacia. Già Rousseau aveva escluso che una democrazia assembleare fosse realizzabile in società complesse. E’ quindi lecito sospettare che si tratti piuttosto di un abile espediente che permette ad una democrazia rappresentativa di smorzare ogni istanza populistica che non provenga dall’establishment stesso. Non c’è nulla di moralmente deprecabile in questo: evidentemente una maggioranza di elettori lo considera un sistema di gestione del potere accettabile. Io resto scettico. Allo stesso modo, la Casa dei Trentini nasce come strumento di edificazione della miglior società possibile, capace di conciliare tradizione ed innovazione, proiezione globale e tutela del patrimonio locale, individuo e comunità, liberalismo e socialismo . Questa ricerca del primato rischia però di provocare un’impennata di supponenza. Ricordo ancora il sussiego e l’esigenza psicologica di rappresentare un esempio per tutti che si palesarono, con ingenua buona fede, nello slogan turistico “Trentino, l’Italia come dovrebbe essere”. Anche in questo caso si può parlare di totemizzazione della società: il sentirsi dalla parte del vero, del buono e del giusto, parte di una comunità culturalmente e spiritualmente eseplare può dare origine a quell’intollerante senso di intangibilità morale che rende ancora più difficile il compito di chi punta il dito contro l’arbitrarietà di certe decisioni prese in nome del bene comune e quindi, per definizione, insindacabili e moralmente ineccepibili7. Cercare di prevenire il populismo cavalcandone gli umori non è necessariamente una buona cosa per il tessuto democratico locale. Una classe dirigente che decide di imbarcarsi in un tale esperimento deve esserne consapevole per poter ovviare alle eventuali ricadute negative tramite la prassi della trasparenza e della responsabilità sociale e morale. L’alternativa è fare la fine dell’apprendista stregone .

7

Si vedano le vicende riguardanti il referendum separatista della Val Rendeva ed il pasticcio della riforma degli enti locali.


Duro affondo dei vescovi italiani "Un paese spaesato e in crisi morale" Monsignor Bagnasco, aprendo i lavori del Consiglio permanente della Cei Ethos condiviso. La Chiesa non vuole in nessun modo proporre una sorta di Stato etico e tuttavia s'interroga sul fatto che esista o meno "una modalità, compatibile con la democrazia, grazie alla quale nutrire un ethos collettivo partecipato e ad un tempo capace di resistere e sopravanzare rispetto alla dissipazione dei costumi". (17 settembre 2007) LEFTOVERS Dellai apprendista stregone Un europeo su quattro considera l'immigrato una minaccia Diamanti ha spiegato che “il fenomeno dell’immigrazione è vissuto in Europa con preoccupazione crescente”. Il 33.3% degli intervistati lo vede come una minaccia, una percentuale cresciuta in modo significativo dal ’99 (27%) ad oggi. Emergono alcune diversità marcate a livello nazionale nella percezione dell’immigrazione: ad esempio, nelle zone metropolitane urbane e nelle periferie le paure nei confronti degli immigrati appartengono soprattutto alla classe operaia, ai disoccupati e comunque ai ceti marginali. “Al degrado della qualità urbana – ha spiegato il sociologo – si somma la percezione dello straniero come un concorrente sul mercato del lavoro”. Invece tra i ceti medi dell’area alpina il timore va declinato come “minaccia di un ambiente tranquillo, chiuso: l’immigrato turba la vita sociale”.

GUARDA TAGLI DA UNA CASA ORDINATA A un orecchio greco, come sostenuto da Mc Ilwain, "non suonava a effetto la famosa immagine di Platone in cui si dice che la mente dell’uomo è scritta a grandi lettere nella costituzione dello Stato. Solo un uomo moderno potrebbe liquidare questa immagine come un semplice parallelo o analogia; essa era in realtà qualcosa di molto più profondo. La mente dello Stato e quella dei suoi concittadini sono identiche: il macrocosmo e il microcosmo. Il cittadino non è semplicemente controparte dello Stato, né lo Stato del cittadino: il cittadino è lo Stato in piccolo". La realizzazione dell’ottimo Stato è contestuale alla realizzazione dell’ottimo cittadino, come attestato dall’Epitaffio di Pericle tucidideo.

JULIAN JAYNES PER AUTOCOSCIENZA in Atti SPEA

GENOCIDE, FREE WILL, l’ovvia conclusione che Nazisti ed altri perpetratori di genocidi si sentivano moralmente integri, nel giusto, il che spiega l’assoluta assenza di sensi di colpa dei criminali di Norimberga e degli Hutu. Solo i nostri scrupoli morali e l’esigenza di credere che noi siamo diversi da loro ci impedisce di afferrare questo semplice dato di fatto.

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