Politecnico di Milano Scuola del Design CdLM in Design della Comunicazione A.A. 2013/14
SOLO UN TRUCCO LE IMMAGINI DEL CINEMA DI PAOLO SORRENTINO
di STEFANO LARI 783585 Tesi di Laurea Magistrale Relatore: Luigi Bellavita 1
2
INDICE
ABSTRACT
7
INTRODUZIONE
8
LE IMMAGINI 1
11
1.1 1 2 3 4
L’IMMAGINE FOTOGRAFICA L’evoluzione tecnologica La rappresentazione del mondo Il ruolo dell’autore L’illusione percettiva
13 14 16 18 20
1.2 1 2 3 4 5 6 7 8 9
L’IMMAGINE FILMICA L’inquadratura Il punto di vista L’evoluzione tecnologica Il movimento nel tempo Ontologia Il regime scopico L’identificazione dello spettatore L’illusione filmica Cinema d’intrattenimento e cinema d’autore
23 24 26 28 32 33 34 37 38 39
IL CINEMA 2
43
2.1 1 2 3 4 5
L’ARTE E L’INDUSTRIA L’opera d’arte L’opera cinematografica L’evoluzione del cinema Il business Il cinema d’autore
45 46 47 48 54 55
2.2 1 2 3 4
LE FIGURE PROFESSIONALI Il regista La storia della regia Il direttore della fotografia La storia della fotografia
59 60 61 68 69 3
77
4
3 LE OPERE
79
PREMESSA
80 82 83 85 86 90
L’UOMO IN PIÙ Il racconto I protagonisti Le tematiche La regia La fotografia
3.1 1 2 3 4 5
92 94 96 98 99 103
LE CONSEGUENZE DELL’AMORE Il racconto Il protagonista Le tematiche La regia La fotografia
3.2 1 2 3 4 5
106 108 110 112 114 119
L’AMICO DI FAMIGLIA Il racconto Il protagonista Le tematiche La regia La fotografia
3.3 1 2 3 4 5
122 124 126 128 130 136
IL DIVO Il racconto Il protagonista Le tematiche La regia La fotografia
3.4 1 2 3 4 5
140 142 146 148 150 154
THIS MUST BE THE PLACE Il racconto Il protagonista Le tematiche La regia La fotografia
3.5 1 2 3 4 5
158 160 164 166 168 176
LA GRANDE BELLEZZA Il racconto Il protagonista Le tematiche La regia La fotografia
3.6 1 2 3 4 5
GLI AUTORI 4
181
4.1 1 2 3 4 5 6 7
PAOLO SORRENTINO Biografia Il metodo di lavoro Il personaggio e l’azione I tratti autoriali Il grottesco, il surreale e la bellezza La macchina da presa Il rapporto con lo spettatore
183 184 185 186 190 192 194 196
4.2 1 2 3
LUCA BIGAZZI Biografia L’approccio al lavoro La poetica visiva
199 200 201 202
CONSIDERAZIONI 5. FINALI 5 FONTI
5. 205 211
5
6
ABSTRACT
Questa tesi si pone come obiettivo l’individuazione delle peculiarità dell’immagine cinematografica dei film di Paolo Sorrentino in relazione ai contenuti articolati ed alla struttura della narrazione. Nasce da una profonda fascinazione del tutto personale e vuole sottolineare l’aspetto autoriale del prodotto cinematografico, sintesi delle sensibilità di due personaggi chiave: la mente del regista-sceneggiatore campano e l’occhio dell’operatore-cinematographer Luca Bigazzi. Per arrivare a delineare le colonne portanti di tale poetica visiva, innanzitutto l’analisi trova i propri fondamenti nella riflessione sul medium filmico. Nello specifico, vengono presi in considerazione le caratteristiche dell’immagine fotografica alla base del film ed il rapporto di questa con la realtà rappresentata. Il passo successivo è quello di tracciare i contorni delle figure professionali che a livello pratico contribuiscono maggiormente alla creazione di tali immagini, focalizzando l’attenzione su regia e fotografia. Entrambi i campi sono esplorati passandone in rassegna per sommi capi l’evoluzione storica e cercando di tratteggiarne alcune possibili interazioni: centro di interesse, infatti, è il processo di traduzione che porta il pensiero di partenza a manifestarsi nella veste visibile del fotogramma. Una volta conclusa questa introduzione storico-teorica, la riflessione entra nel vivo del caso specifico e si focalizza sui film oggetto d’analisi: di essi si evidenziano le ricorrenti caratteristiche visive in rapporto ai messaggi veicolati. L’immagine cinematografica è dunque valutata in rapporto alla visione del mondo sottesa ed al processo della sua esplicitazione. Si arriva così al cuore del discorso: la poetica visiva frutto dell’espressione personale delle figure chiave di Sorrentino e Bigazzi. 7
INTRODUZIONE
Mi lanciai nell’avventura della realizzazione del mio primo film quando avevo sette anni. Avevo da poco imparato a leggere e scrivere ma con il mio amico del cuore di allora già sognavo di mettere in scena un classico del cinema: la rapina in banca. Avevamo fotocopiato centinaia di banconote e preparato pistole e costumi. Come location naturalmente avevamo selezionato l’appartamento dove vivevo, mentre l’attrezzatura filmica era rappresentata da una videocamera amatoriale di mio padre. Ma non andammo mai oltre a quei preparativi. Il progetto si perse tra i rigori in giardino e le gare in bicicletta. Sono passati diciotto anni da allora e mi accingo a deporre l’ultima pietra sul percorso della mia istruzione. Tuttavia, non ho più dimenticato quel sogno d’infanzia. Non ho seguito un percorso di studi che puntasse dritto al cinema ma ho disegnato un tracciato che giorno dopo giorno mi ha più o meno inconsciamente riportato là dove la prima delle mie passioni era sbocciata. Sono dunque infinitamente felice, e quasi piacevolmente sorpreso, di poter portare a termine la mia carriera accademica approfondendo un aspetto del mondo che mi ha incuriosito da quando ho ricordi. Il mio amore per le immagini in movimento è stato però un sentimento discontinuo e mutevole. Portato avanti in maniera inconscia e silente per molti anni, ha vissuto un primo momento di stupefatta autocoscienza un pomeriggio d’estate dopo la fine del liceo. Un’amica più grande mi disse di essere impegnata nella preparazione di un esame universitario: rimasi allibito quando scoprii che non erano soltanto i libri ad impegnare il suo tempo, ma anche l’analisi di alcuni materiali audiovisivi. Immagini, suoni. Quel giorno decisi che mi sarei iscritto a mia volta al corso di Design della Comunicazione del Politecnico. Ho passato gli anni successivi a divorare, digerire e immagazzinare ogni sorta di artefatto visivo, dalla stampa tipografica alla fotografia digitale. Sono stati anni faticosi ma divertenti, 8
tanto interminabili nello svolgersi quanto fulminei nel concludersi. Mi hanno dato molto, moltissimo, e mi hanno fornito un bagaglio inestimabile di cultura visiva che mi porterò dietro per tutta la vita. È stato durante l’occasione sicuramente più significativa di questi anni, l’esperienza Erasmus, che ho preso finalmente consapevolezza della mia passione per il cinema. Quasi un’epifania inaspettata, quando di fronte alla scelta tra l’immagine fotografica e la grafica editoriale ho ricollegato quel sogno d’infanzia al bivio del mio percorso accademico. Le cose mi si sono mostrate molto più chiare nei due successivi anni di laurea specialistica. Questa tesi chiude dunque quel cerchio aperto tanti anni fa. Se è vero che la scelta del campo cinematografico è venuta da sé, non altrettanto posso dire per quanto riguarda il preciso nucleo tematico di lavoro. Come un ragazzino in un negozio di caramelle, sommerso da una moltitudine caleidoscopica di stimoli e pensieri, ho faticato a lungo per mettere a fuoco un singolo aspetto specifico. Durante il percorso accademico non ho infatti avuto l’opportunità di dare pieno sfogo alla mia passione se non in rare occasioni o in maniera diagonale, motivo per cui l’orizzonte sconfinato di possibilità offerte dall’elaborato di laurea non ha fatto altro che accendere in me un’insaziabile e ingovernabile fame di conoscenza. L’area di interesse è stata innanzitutto ridotta in base alla mia personale appartenenza geografico-culturale: sono nato e cresciuto nel mondo occidentale e sono sempre stato immerso nei suoi prodotti culturali, di cui ho fatto mia la sua matrice. Per contro, ho avuto molti meno contatti e di tipo molto più indiretto con la cultura del resto del mondo, da cui la scelta di considerare solo il cinema europeo e quello nordamericano. Il focus poi è stato ulteriormente circoscritto a ciò che del cinema fa scaturire in me le maggiori riflessioni:
per la mia inclinazione professionale a indagare l’aspetto visivo della realtà, l’immagine. Di essa quel che più mi affascina è come tale prodotto artistico sia progettato in modo da esprimere a livello microscopico le emozioni dei personaggi del racconto e a livello macroscopico una particolare visione del mondo: un’immagine concepita come frutto di una traduzione visiva opera del cineasta. Conseguente è stata l’esclusione del cinema d’intrattenimento e spettacolo, per la sua mancanza di caratterizzazione autoriale. Il campo d’indagine in cui si muovono queste riflessioni è quindi il cinema d’autore: quella concezione decisamente più culturale che commerciale del medium, inteso appunto come testo, cioè insieme di segni, in grado di veicolare significati profondi cari all’autore. Autore inteso non soltanto in rapporto alla concezione filosofica di fondo, di cui il regista si fa portatore, ma stante il focus sull’immagine filmica in sé, anche in rapporto alla poetica visiva propria del direttore della fotografia, primo artefice di ciò che mostra la pellicola. Le due figure autoriali sono quindi state considerate nella loro unione in sodalizio. Tuttavia, ho scelto di portare avanti il discorso considerando solo parzialmente i grandi maestri del passato già ampiamente trattati: credo infatti che una tesi di laurea trovi la propria ragion d’essere nell’apportare qualche contributo culturale innovativo, che ovviamente trova terreno più fertile in tematiche inesplorate. Nel contesto più contemporaneo, la particolare strutturazione visiva e l’impalcatura filosofica delle opere hanno calamitato le mie riflessioni sui film di Paolo Sorrentino, fotografati da Luca Bigazzi: figure relativamente giovani, poco trattate, recentemente consacrate e soprattutto caratterizzate da uno stile assolutamente personale. La scintilla del discorso che vado a sviluppare in questa tesi scaturisce da un insolito contrasto ricorrente alla base dei film frutto della loro collaborazione: l’opposizione tra la decadenza delle storie e lo splendore delle immagini, tra la staticità del contenuto e la dinamicità della forma, tra il nichilismo del pensiero fondante e la rigogliosità dello schermo. La riflessione non è perciò una mera disquisizione stilistica ma un’indagine volta a sottolineare entità e struttura delle peculiarità di tali immagini filmiche: risultati di precise scelte progettuali finalizzate alla trasmissione di significati. Per arrivare a ciò, tuttavia, mi sembra d’obbligo una riflessione sull’immagine in sé e sulle caratteristiche del medium cinematografico. 9
10
1 LE IMMAGINI 11
Untitled Still Films #21, Cindy Sherman, 1978 L’autrice fotografa sÊ stessa riproducendo fotogrammi di film famosi, su fondali che sono a loro volta fotografie.
12
L’IMMAGINE FOTOGRAFICA
1.1
Un film visionato ad una velocità più bassa del normale, a prescindere dal supporto analogico o digitale, si rivela nella propria natura statica come una sequenza di immagini fotografiche. Non è un caso che la lingua inglese gli si riferisca in termini di “motion picture”, cioè “quadro in movimento”. L’illusione di quest’ultimo ha luogo soltanto nella mente dello spettatore ed è sostanzialmente data da un processo psico-fisico: si tratta del fenomeno phi, per cui un elemento in posizioni via via differenti in una successione di immagini viene interpretato dal cervello come un elemento in moto. Al contrario di quanto si pensasse in passato, infatti, non è coinvolta la persistenza retinica, quel fenomeno che comporta un intervallo minimo di processo dell’impulso nervoso nelle cellule fotosensibili della retina tra un impulso ed un altro: fosse applicabile tale teoria, dovremmo percepire anche i neri tra i fotogrammi. Ad ogni modo, parlare di immagine cinematografica presuppone affrontare la sua progenitrice e cellula elementare, l’immagine fotografica. La sua natura costituisce un notevole punto d’interesse poiché condivide con quella filmica il tipo di mediazione della realtà, in cui la rappresentazione ed il rappresentato danno l’illusione di essere congruenti ed inscindibili. Il focus di tutta questa prima riflessione sarà quindi come la fotografia si rapporta all’oggettualità, più che cosa effettivamente essa presenta. 13
1. l’evoluzione TECNOLOGICA
La storia della fotografia rispecchia il particolare posizionamento del medium a cavallo tra scienza ed arte. È possibile quindi ripercorrerla sia sotto il profilo del succedersi di correnti artistiche, sia sotto quello del progresso tecnologico: di seguito se ne toccheranno alcuni punti salienti solo in riferimento a quest’ultimo. Vista la prospettiva cinematografica, l’interesse è infatti la particolare modalità di riproduzione meccanica del reale che condividono. L’evoluzione tecnologica della fotografia non segue un unico sentiero né un percorso lineare, tanto che non se ne può definirne con esattezza un singolo inventore. Il progresso segue infatti diversi filoni portati avanti da diversi personaggi, alcuni dei quali con più seguito e successo di altri: è dunque una storia innanzitutto di pionieri e di tentativi. Si può tuttavia fissare come nascita dell’immagine fotografica il giorno del 1826 in cui il francese Nicéphore Niépce cattura su una lastra di peltro ricoperta di bitume il passaggio del sole di un pomeriggio dalla propria finestra (fig.1). Egli non sa di stare posando la prima pietra di una strada che rivoluziona la comunicazione, l’arte, l’industria, e perfino l’immaginario collettivo dell’umanità. La prima immagine fotografica rappresenta per il proprio autore solo un vittorioso esperimento imprenditoriale. Niépce riesce ad ottenere una riproduzione in scala di grigi del panorama sfruttando il fenomeno ottico della camera oscura, già noto dall’XI secolo a scienziati e pittori, ma è il primo nella storia a catturare la transitorietà di quei momenti in un supporto fisico permanente. Il fattore decisivo è un semplice processo chimico di reazione alla luce. Sulla sua scia, numerosi altri scienziati ed inventori perfezionano nei decenni seguenti la sua embrionale tecnica di fissaggio delle immagini: su tutti spiccano da un lato il francese Louis Daguerre con le sue lastre metalliche, molto dettagliate ma non duplicabili, dall’altro l’inglese William H. Fox Talbot con il meno fedele negativo cartaceo, che tuttavia si afferma e affina nel tempo. La riproducibilità dell’immagine, ottenuta con la tecnologia dell’impressione di un foglio in negativo in grado di generare un numero infinito di copie identiche stampate in positivo, è infatti il fattore discriminante che ne decreta il successo. Nel 1888 la fotografia incontra il supporto che mantiene per tutto il secolo successivo: la pellicola avvolgibile. Quell’anno George Eastman mette a punto la prima Kodak, macchina fotografica popolare a pellicola, e l’anno successivo mette sul mercato la stessa pellicola da 35mm in celluloide. Ancora in bianco e nero, la fotografia diventa immediatamente un prodotto commerciale di massa. La pellicola rimane la depositaria della memoria fotografica dell’uomo per i cento anni a seguire. Nel corso del Novecento conosce però alcune notevoli innovazioni, tra tutte la conquista finale dell’aderenza al reale con il negativo a colori degli anni Quaranta (fig.2) ed il passaggio al meno infiammabile supporto del poliestere degli anni Cinquanta. Il vero sorpasso tecnologico avviene, invece, dagli anni Ottanta con lo sviluppo dei sensori elettronici, che sul finire del secolo invadono il mercato di massa. Il nuovo millennio segna quindi il definitivo pensionamento del supporto fisico, a parte ristrette nicchie professionali, e l’esplosione incontrollata di una nuova fotografia: istantaneamente verificabile, completamente automatizzata e senza alcun limite di immagazzinamento. Contemporaneamente, la rivoluzione digitale consente l’esplosione popolare del fotoritocco, il quale, seppur già praticato sin da metà Ottocento, libera del tutto la fotografia dal vincolo della realtà (fig.3 e 4). 14
fig. 1 Vista dalla finestra a Le Gras, Nicéphore Niépce, 1826 ca. Il panorama di tetti è la traccia fotografica più antica sopravvissuta fino ai nostri giorni. L’illuminazione di entrambi i lati delle case testimonia il tempo di esposizione di alcune ore.
fig. 2 Red Ceiling, William Eggleston, 1973 La novità del colore viene sfruttata al massimo delle sue potenzialità: in questo celebre caso, l'autore prova a farne l'elemento portante della fotografia stessa.
fig. 3 e 4 Bahrain, Andreas Gursky, 2005 Con Photoshop, la fotografia diventa nucleo fondante di una più complessa opera fotografica (in piccolo l'originale, in grande il risultato finale).
15
2. la rappresentazione DEL MONDO
Nell’evoluzione dell’uomo e nel suo relazionarsi all’ambiente, la vista ha sempre goduto di un ruolo privilegiato tra i sensi, a tal punto che l’idea stessa di realtà, di mondo materiale, viene solitamente edificata sulla base di ciò che è visibile. «La percezione si è modellata secondo l’archetipo eroico del conflitto e della vittoria su quanto appariva estraneo e irriducibile alla coscienza e al suo sguardo dominatore, relegando ai margini ogni altra possibilità di rapporto con il mondo. Reale è ciò che resta visibile entro questa intenzione: ogni altra cosa cade nel vago territorio della fantasticheria e del sogno».(1) Le arti visive, dalle pitture rupestri in avanti, hanno quindi cercato di impossessarsi della realtà attraverso la sua rappresentazione. Il continuo tentativo di riproduzione del reale ha radici psicologiche molto profonde: innanzitutto la capacità di afferrare e riproporre una parte della realtà risponde in maniera soddisfacente al primordiale bisogno di comprendere e dominare l’ambiente; ma soprattutto, il gesto creativo di rappresentazione dell’uomo mortale è in grado di generare un’immagine che sfugga alla morte stessa. L’idea di produrre un’immagine del mondo risponde quindi all’ancestrale spirito di rivincita umano che trascenda la caducità: nell’impossibilità materiale di sconfiggere il tempo, l’uomo sceglie di renderne eterno un istante. In altre parole, «salvare l’essere mediante l’apparenza».(2) In quest’ottica la pittura, storicamente considerata tra le arti maggiori, intraprende un percorso di affinamento riproduttivo durato fino a metà Ottocento volto a generare immagini che, se da un lato comunichino un messaggio in maniera chiara, dall’altro si avvicinino all’aspetto reale di ciò che raffigurano. Solo negli ultimi secoli i progressi verso la conquista della dimensione spaziale sono stupefacenti: il superamento della stilizzazione medievale inaugurato dalla resa tridimensionale di Giotto, la rivoluzione della prospettiva nel Rinascimento e, in aggiunta, la mondanizzazione delle tematiche avvenuta nell’Ottocento fanno sì che la pittura sfiori l’ambizioso (e irraggiungibile) obiettivo di una rappresentazione esatta del mondo. Tuttavia, l’avvento della fotografia le ruba inaspettatamente la scena ed il nuovo strumento si pone come il punto d’arrivo di questo processo evolutivo alla conquista del reale. «Con la fotografia, nel processo della riproduzione figurativa, la mano si vide per la prima volta scaricata delle piú importanti incombenze artistiche, che ormai venivano ad essere di spettanza dell’occhio che guardava 16
Pezzella M., Estetica del cinema, Bologna, Il Mulino, 1996 (1)
Bazin A., Che cosa è il cinema, Milano, Garzanti, 1994 (2)
(3)
Benjamin W., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 1998
(4)
(5)
Bazin A., op. cit.
McLuhan M., Gli strumenti del comunicare, Milano, Il Saggiatore, 2008
a fianco, fig.5 The Pond - Moonlight, Edward Steichen, 1904 sopra, fig.6 Madonna, David LaChapelle, 2009
dentro l’obiettivo».(3) All’avvento del realismo fotografico non deve quindi sorprendere da parte del mondo pittorico una netta ostilità: la semplice pressione di un bottone di un apparecchio automatico è in grado di sorpassare istantaneamente la capacità, la sensibilità e l’unicità del singolo artista. Il nuovo medium si distingue innanzitutto per il particolare tipo di sguardo con cui è in grado di inquadrare la realtà. Prima ancora che per la verosimiglianza del risultato finale, campo in cui per i primi decenni dopo la sua nascita continua a prevalere la fedeltà al colore ed al dettaglio della pittura, la fotografia si impone nel processo creativo, con il fascino che manifesta nell’apparente imparzialità, cioè con la capacità di registrare senza dover rielaborare, portando a compimento «la soddisfazione completa del nostro appetito d’illusione mediante una riproduzione meccanica da cui l’uomo è escluso. La soluzione non è nel risultato ma nella genesi».(4) La rappresentazione non si condensa più attraverso un periodo di maturazione e gestazione tra la mente e la mano del pittore, ma dà l’idea che la realtà lasci la propria autentica traccia sotto forma di un istante realmente accaduto e congelato per sempre. Assistiamo quindi ad un passaggio di consegne tra la pittura e la fotografia in materia di rappresentazione del mondo, con la prima che «insomma passa dalla creazione del mondo esterno a quella del mondo interiore».(5) Sicuramente, infatti, la comparsa della fotografia ha una netta influenza nell’affermazione di una nuova pittura, non più centrata sulla verosimiglianza dell’opera quanto sull’interiorità dell’autore e sulla sua personale sensibilità. Il primo movimento pittorico di questo tipo, l’Impressionismo, si sviluppa appunto a Parigi negli stessi anni Sessanta dell’Ottocento in cui gli atelier fotografici di Nadar, Eugène Disdéri e molti altri si affermano tra il grande pubblico. Quella all’introspezione non è una tendenza passeggera, poiché da quel momento in poi tutti i nuovi movimenti pittorici si inscriveranno nel solco di una sempre più libera astrazione e reinterpretazione personale dell’artista. Nel senso opposto, tuttavia, anche la fotografia rivendica la propria capacità di interpretare e rielaborare l’oggettualità del mondo con finalità espressive. Infatti, sin dal movimento del Pittorialismo di inizio Novecento promossa da Alfred Stieglitz e Edward Steichen, fioriscono le correnti orientate ad elevare la dignità del medium a forma artistica e a smarcarlo dalla riproduzione oggettuale (fig.5). Tuttavia, ci vuole del tempo prima della presa di coscienza che l’artisticità della fotografia non risiede in come essa comunichi, quanto in cosa essa riesca a comunicare. Su questo territorio, l’immagine fotografica conosce un grandioso exploit in coincidenza con la diffusione della tecnologia digitale. Il motivo è semplice: fotoritocco e fotomontaggio, pur mantenendo l’immagine inquadrata nei canoni di verosimiglianza, la liberano dall’ancora dell’aderenza alla realtà. O più precisamente, trasformano il modello di fotografia come rappresentazione di una porzione del mondo in una fotografia come rappresentazione fotografica di una porzione di immaginario. Con il digitale, infatti, l’immagine fotografica torna alla tradizione dell’arte visiva in cui l’autore è libero di comporre la propria creazione reinterpretando la realtà a proprio piacimento. Lo schermo su cui ha luogo la post-produzione torna allora a configurarsi come tela bianca su cui prende vita l’opera (fig.6). 17
fig. 7
18
Peperone n.30, Edward Weston, 1930
3. il ruolo DELL’AUTORE
(6)
(7)
Bazin A., op. cit.
Arnheim R., Film come arte, Milano, Il Saggiatore, 1963
(8)
Arnheim R., op. cit.
Il termine fotografia, la cui etimologia si rifà alla scrittura con la luce, racchiude in sé la peculiarità che ne ha messo in discussione la natura: il termine, infatti, può essere inteso in riferimento ad una sorta di disegno automatizzato in grado di catturare e riprodurre il reale con la fredda esattezza garantita dalla macchina. La figura dell’autore è stata perciò uno dei nodi più delicati nel dibattito (ormai passato) sulla fotografia. Innanzitutto, l’apparecchio fotografico è costruito sul modello fisico dell’occhio umano, con un foro stenopeico che permette una proiezione bidimensionale e ribaltata dei raggi luminosi esterni su una superficie fotosensibile interna, esattamente come lavorano la pupilla e la retina. La vera sensibile differenza tra l’occhio umano e quello meccanico è la tridimensionalità permessa dall’elaborazione cerebrale di due immagini lievemente diverse fornite dai due occhi, che rendono possibile la percezione della profondità. Il funzionamento di una qualsiasi macchina fotografica, perciò, sfrutta processi ottici, chimici o elettrici che nulla hanno a che vedere con la sensibilità del singolo: una fotocamera su un cavalletto produce la medesima immagine indipendentemente dal dito che schiacci il pulsante di scatto. Da un primo punto di vista, la macchina fotografica può essere considerata come uno strumento che nega la propria presenza nel momento stesso in cui manifesta la propria funzione e la fotografia come un procedimento divino in grado di congelare nel tempo una parte del mondo reale, duplicarla e riprodurla in serie in maniera assolutamente fedele e veritiera. In quest’ottica, la fotografia è semplice scienza, o meglio magia oscura, ed il fotografo è ridotto a mera appendice dell’apparecchio tecnologico. Il momento dell’impressione del supporto è infatti automatizzato e meccanico. Nell’istante in cui il sensore o la pellicola catturano i raggi luminosi si materializza il miracolo dell’illusione: la realtà che circonda il fotografo pare finire intrappolata e replicata nel suo apparecchio senza il suo benché minimo intervento. Tutto ciò che gli viene richiesto è dare il segnale di via al processo. Tuttavia, se è vero che «tutte le arti sono fondate sulla presenza dell’uomo» e «solo nella fotografia ne godiamo l’assenza»(6), è anche vero che l’istante dello scatto è solo uno dei tanti che stanno dietro alla costruzione di una fotografia. Dal un secondo punto di vista, infatti, ciò su cui ricade l’attenzione è tutto quel che avviene prima e dopo lo scatto: «Se voglio fotografare un cubo, non basta che collochi l’oggetto nel campo di visione della mia macchina. Si tratta piuttosto della mia posizione relativamente all’oggetto o dal punto in cui lo colloco».(7) È quindi questione di quale parte della realtà si è inquadrata, da quale distanza, con quale angolazione, quali i settaggi dell’apparecchio, quale resa cromatica, quale istante scelto per scattare e via dicendo. In quest’altra ottica emerge bene la figura dell’autore: «anche nel caso più semplice – nella riproduzione fotografica dell’oggetto più banale – occorre una sensibilità alla sua natura che va al di là d’una semplice operazione meccanica».(8) L’immagine allora diviene frutto di un progetto, di una volontà espressiva, e oltretutto può restituire una rappresentazione del mondo molto diversa dall’originale, decontestualizzata o fasulla. Le maggiori potenzialità espressive tuttavia si sprigionano nel momento successivo all’acquisizione dell’immagine. La ragione è che la fotografia è frutto di una collaborazione tra uomo e macchina. Come il set-up precedente lo scatto, anche la post-produzione è un regno esclusivo dell’a sensibilità dell’autore. In territorio analogico, lo sviluppo, il fotomontaggio e la stampa consentono un chiarissimo intervento atto a modificare l’aspetto ed il significato della foto; nel campo digitale, invece, l’autore si serve di un’altra macchina a sua disposizione, il computer, e la foto scattata è addirittura solo il primo tassello per la costruzione della sua opera. Perciò, se anche può affascinare il pubblico con la propria verosimiglianza, la fotografia rimane cinicamente quanto di più interpretato, mediato, soggettivo e costruito l’uomo abbia inventato – dopo il cinema. 19
fig. 8 Senza Titolo, Nobuyoshi Araki, 1993 Un comune dettaglio di un vegetale, in fotografia può sembrare tutt’altro
20
4. l’illusione PERCETTIVA
(9)
Pezzella M., op. cit.
(10) Bourdieu P., La fotografia. Usi e funzioni di un’arte media, Rimini, Guaraldi, 2004 (11) (12)
Pezzella M., op. cit. Pezzella M., op. cit.
L’effetto di realtà della fotografia consiste nell’avanzare una seducente pretesa di oggettività. Questa aspirazione trova la propria ragion d’essere nella natura automatica della tecnologia, che infonde fiducia nella veridicità dell’immagine e nella sua aderenza alla realtà: siccome nessuno pare intervenire con la propria soggettività nel processo di rappresentazione, allora questo non può che svolgersi in maniera imparziale e naturale. In realtà, come appena visto, il punto è che i momenti autoriali e quelli meccanici si trovano in ordine sequenziale e non contemporaneo. La pretesa oggettività è tuttavia l’altra faccia della medaglia di una semplice simulazione percettiva: questa è la peculiarità regina del medium fotografico «[…] perché il suo prodotto appare, ma non è, somigliante [al reale]. L’effetto di realtà è dunque un’apparenza e una simulazione che si allontana più o meno radicalmente dalla letterarietà del modello». (9) «Conferendo alla fotografia un brevetto di realismo, la società non fa che confermarsi nella certezza tautologica che un’immagine del reale conforme alla sua rappresentazione dell’obiettività è veramente obiettiva».(10) La verosimiglianza non è legata all’esistenza reale o meno dell’oggetto ritratto, quanto alla modalità con cui viene presentato. La fotografia non produce una «raffigurazione»(11), cioè una ricreazione che punta alla fedeltà ontologica dell’originale, quanto una «apparenza»(12), vale a dire un’imitazione, una trasformazione che sia in grado di soddisfare le esigenze ottiche dello spettatore senza badare alla natura effettiva di ciò di cui è composta. Certifica quindi l’indispensabilità della finzione. Il più grande merito da riconoscere alla fotografia è perciò avere identificato e materializzato un nuovo modello formale per rapportarsi con il mondo: un canone estetico moderno in linea con la società dell’uomo moderno, caratterizzata dall’automazione e dalla riproducibilità in serie. Tale adattamento allo sguardo dell’uomo suo contemporaneo prosegue ed anzi si affina nel tempo: basti pensare al fotomontaggio, analogico come riflesso del prodotto industriale che non ammette errori o imperfezioni, digitale come specchio di una società post-industriale che ha abbandonato la materialità in favore del mondo virtuale. 21
Blow Up, Michelangelo Antonioni, 1966 Il protagonista del film cerca di scoprire i misteri di un omicidio avvalendosi di negativi fotografici. Ma la sua indagine della realtà attraverso la fotografia, come quella dello spettatore attraverso il cinema, è destinata al fallimento.
22
L’IMMAGINE FILMICA
1.2
La riflessione appena conclusa sulla fotografia contribuisce a fare luce su alcuni aspetti dell’immagine fotografica alla base del film. Non bisogna tuttavia pensare che siano solo il movimento ed il suono a differenziare fotografia e cinema. Un fotogramma è infatti ben diverso da una foto sotto diversi aspetti: innanzitutto, il primo ha valore solamente se rapportato a ciò che segue e precede, mentre la seconda ha valore di per sé. In secondo luogo, il primo rappresenta la caducità dell’immagine per eccellenza, immateriale e sfuggevole, mentre la seconda incarna la stabilità e la solidità del tempo congelato per sempre. Inoltre, il fotogramma porta con sé la porzione di spazio del fuori campo, mentre la foto esaurisce il proprio universo spaziale ai suoi bordi. Ed ancora: il primo normalmente non può essere colto nella sua interezza e nei suoi dettagli per chiare ragioni temporali, mentre la seconda è disponibile a farsi indagare con gli occhi per tutto il tempo necessario. Infine, il fotogramma, per essere analizzato, deve essere selezionato dallo spettatore/ proiezionista che blocca il film o dal caso, mentre la fotografia è il risultato di una selezione di un istante privilegiato da parte dell’autore. Tuttavia, una tra le maggiori differenze tra le due immagini riguarda il rapporto con la realtà: se infatti la fotografia solitamente si rifà, almeno parzialmente, al mondo reale, il cinema invece si sviluppa sulla base di realtà fittizie costruite ad hoc. Tale questione, insieme ad altre, sono affrontate di seguito. 23
Una ripresa di una determinata porzione di spazio per un dato periodo di tempo continuo costituisce la cellula elementare alla base del linguaggio cinematografico, l’inquadratura. Presenta due fondamentali caratteristiche: da un lato, si configura come l’unità minima di narrazione in funzione della progressione diegetica; dall’altro, è frutto di un lavoro artistico che ne esalta il valore estetico. È perciò «un atto funzionale e creativo»(13) che ridotto alla propria quintessenza coincide con una scelta visiva dell’autore: cosa dire e come farlo. L’inquadratura è un invito allo sguardo per lo spettatore, una riproposizione di un segmento spazio-temporale accuratamente costruito con precise finalità comunicative. Queste ultime sono infatti ciò che ne caratterizzano l’esistenza e ciò su cui è progettata la bellezza estetica, utilizzata in modo da rinforzare la trasmissione dei significati. Mentre i nostri occhi sono normalmente liberi di indagare la realtà a trecentosessanta gradi senza alcuna interruzione, l’inquadratura eredita dal supporto tecnologico la limitazione della forma definita del rettangolo orizzontale. Tale forma si deve all’evoluzione tecnico-materiale della pellicola, a sua volta legata alla strutturazione della nostra percezione visiva, costruita sull’allineamento dei due occhi e sviluppatasi con il riferimento dell’orizzonte. Il cinema, perciò, utilizza questa convezione formale della rappresentazione del mondo in un ritaglio rettangolare. L’inquadratura, con la sua essenziale limitatezza, è innanzitutto una presa di posizione, una selezione che già risiede nell’etimologia del termine che sottende un’operazione di «messa in quadro»(14), la quale comporta la segregazione del continuum del reale in due insiemi distinti, quello di ciò che rientra nel campo visibile e quello di ciò che viene lasciato fuori, appunto il fuoricampo. Giocare ad evidenziare quest’ultimo, come ad esempio nella magistrale sequenza iniziale di M - Il mostro di Dusseldorf (fig.10), significa perciò implicitamente mettere in luce il funzionamento stesso del cinema. Inoltre, il fuoricampo, seppure invisibile, ha il fascino di affermare stabilmente la propria presenza misteriosa e con ciò l’esistenza di un proseguimento del mondo diegetico oltre le limitate capacità d’osservazione dello spettatore (fig.11). In questa prospettiva centripeta e restrittiva del continuum spaziale, il rettangolo dello schermo va ad equipararsi ad una finestra trasparente attraverso cui lo spettatore è in grado di seguire gli eventi del film (fig.12). In opposizione a ciò, il dibattito cinematografico ha prodotto anche la teoria centrifuga ed espansiva che interpreta il rettangolo schermico come una cornice atta a delimitare la superficie su cui prende vita l’opera del film (fig.9). «Sebbene i due concetti si possano riunire nel sintagma di cornice della finestra, tuttavia le due metafore si riferiscono a qualità ben differenti. […] La rappresentazione della finestra implica perdere di vista il quadrilatero incorniciato attraverso il quale noi guardiamo, mentre la cornice rimanda sia al contenuto della superficie visiva (opaca) e al suo carattere di artefatto, sia a sé stessa».(15) Le due teorie richiamano le due attività artistiche da cui il cinema prende vita: l’accezione della finestra si rifà alla derivazione dal teatro, mentre quella di cornice rimanda chiaramente alla pittura. In relazione a ciò, anche i film stessi possono essere interpretati in maniera differente. Un film in cui lo spettatore si trova a cogliere azioni ed aspetti della realtà rappresentata senza potere tuttavia afferrarne la totalità, partecipando quindi da un punto di vista limitato ad un mondo in divenire che esiste anche oltre lo sguardo della macchina da presa, può essere considerato un film aperto: un esempio di ciò sono i film del Neorealismo italiano. Al contrario, un film in cui lo spettatore gode di un punto di vista privilegiato ed onnisciente su tutto ciò che accade, dominando con lo sguardo una realtà che pare costruita in favore della sua visione e che non può esistere oltre la fine della pellicola, può essere considerato un film chiuso: ad esempio, il cinema hollywoodiano classico. In relazione a questo complesso di teorie, si può anche evidenziare la contrapposizione tra i termini stessi di inquadratura e piano, utilizzati spesso come sinonimi: ancora una volta, il primo sembra fare riferimento ad un’azione di aggiustamento dello sguardo operata da un autore su una realtà che travalica i limiti del quadro, mentre il secondo rimanda più specificamente alle caratteristiche degli elementi interni alla superficie riquadrata senza alcun interesse per ciò che non vi rientra. Ad ogni modo, a prescindere da quale sia l’accezione usata per affrontare l’analisi dell’inquadratura, trasparente o opaca, ritaglio o composizione, rimane inalterata la sua essenza: un «intervento interpretativo e selettivo dell’autore».(16) Quest’ultimo è infatti indiscutibilmente responsabile delle sue caratteristiche: l’inquadratura è uno sguardo costruito dall’autore per essere offerto allo sguardo dello spettatore. «Ogni racconto implica uno sguardo e questo sguardo è legato ad un punto di vista».(17) La pretesa oggettività dell’immagine automatizzata frutto della macchina, allora, implode in una moltitudine di punti di vista soggettivi. 24
1. l’ INQUADRATURA Visconti E., Parole illuminanti. I linguaggi del cinematographer, Novara, UTET, 2014 (13)
Rondolino G., Tomasi D., Manuale del film. Linguaggio, racconto, analisi, Novara, UTET, 2011 (14)
Elsaesser T., Hagener M., Teoria del film. Un’introduzione, Torino, Einaudi, 2009 (15)
Campagnari R., Come si legge un film, Verona, Mazziana, 1991 (16)
Casetti F., L’occhio del novecento. Cinema, esperienza, modernità, Milano, Bompiani, 2009 (17)
fig. 9 La Corazzata Potemkin, Sergei M. Eisenstein, 1925
sopra, fig. 10 M - Il mostro di Dusseldorf, Fritz Lang, 1931 sopra a fianco, fig. 11 Nosferatu il vampiro, Friedrich W. Murnau, 1922 a lato, fig. 12 Roma cittĂ aperta, Roberto Rossellini, 1945
25
Il linguaggio cinematografico, per la sua immediatezza e somiglianza con la realtà, è in grado di far dimenticare allo spettatore che la narrazione che porta avanti è frutto di una mediazione di una qualche entità narrante. Il fattore alla base di questa particolare visione è l’adozione della prospettiva artificiale messa a punto nel Rinascimento: con essa, l’occhio dello spettatore è posto nel vertice di un’ipotetica piramide visiva che abbraccia e incasella tutto ciò che gli si stende davanti. Se per il suo lato prettamente geometrico cerca di oggettivare la visione, dall’altro, per la propria natura antropocentrica, non può fare a meno di presupporre l’esistenza di un occhio vedente, che dunque riduce la rappresentazione del mondo ad una sorta di veduta. Anche la diegesi filmica, allora, dev’essere costituita a partire da un determinato punto di vista oculare, per quanto quest’ultimo tenti di camuffarsi sotto le spoglie di una supposta naturalità della visione. «Ciò significa che lo spazio che si dispiega sulla superficie [dello schermo] non si presenta come una realtà in sé, ma come qualcosa di visto: chi regge il gioco è uno sguardo che contempla (e controlla) il mondo».(18) Se allora è vero che l’inquadratura è uno sguardo riproposto allo spettatore, tale sguardo dovrà necessariamente portare con sé le caratteristiche del soggetto cui appartiene. «Nell’inquadratura, oltre a vedere l’immagine, noi abbiamo il senso della nostra posizione rispetto ad essa, cioè il senso della nostra relazione con l’oggetto della ripresa».(19) (fig.13) Il fatto che abitualmente queste informazioni siano sistematicamente ignorate è per la semplice sedimentazione di un’abitudine ai canoni percettivi stabilizzati nel linguaggio cinematografico maturo ormai da molti decenni. Da un lato, questo spiega lo sconvolgimento e l’appassionamento dei primi spettatori di fronte alle prime vedute cinematografiche: inesperti alla visione filmica, essi non sanno come rapportarsi al movimento della e sulla pellicola. Tendono a paragonare il punto di vista della ripresa con quello abitudinario della loro esistenza nel mondo, il che sfocia in grandiose risposte emotive per le disumane possibilità offerte dalla tecnologia. Dall’altro lato, invece, la standardizzazione stessa di modelli percettivi (una scala di piani e l’alternanza tra oggettive e soggettive) spiega anche la perdita di sensibilità degli spettatori rispetto alle caratteristiche di quei modelli consolidati. La presenza di un’intermediazione narrativa viene allora riportata alla luce solo da strappi alle tradizionali inquadrature. È importante evidenziare che la demolizione delle pretese di naturalità della narrazione per immagini porta con sé almeno due conseguenze. In primo luogo, «lo sguardo perde la sua neutralità: vedendo la realtà sullo schermo, e vedendola da una certa prospettiva, adottiamo un certo atteggiamento ed un certo orientamento».(20) L’immagine sul telo, infatti, non va più interpretata come il modo più naturale per assistere all’evento, bensì come un preciso posizionamento di qualcuno che seleziona e valorizza determinati aspetti di esso per noi (fig.15/19). Ma poiché questo implica una cernita ed anche un’esclusione, si materializza anche la seconda conseguenza: «lo sguardo perde la sua pienezza: vedendo la realtà sullo schermo, vediamo solo quello che la prospettiva adottata ci permette di cogliere».(21) Il colpo inferto all’istanza narrativa è allora ancora più profondo. Ciò che si sgretola nel complesso è lo status 26
2. il PUNTO DI VISTA
ultraterreno, onnipotente, onnicomprensivo dell’istituzione cinematografica stessa, ridimensionata ad un livello molto più umano, cioè quello di chi siede dietro la macchina da presa. «Le immagini inquadrate rivelano l’animo del regista rispetto all’oggetto che inquadrano. […] In questo è la forza propagandistica del film che non deve dimostrare concettualmente una tesi, ma che la fa assorbire visivamente». (22) Il cinema, tuttavia, soprattutto nella sua declinazione più commerciale e classicheggiante, si guarda bene dallo svelare tutti questi retroscena: fa anzi di tutto, con ottimi risultati, per preservare la propria facciata di onniveggenza. Il suo obiettivo rimane sempre quello di restituire una visione sulla storia narrata che l’abbracci complessivamente e contemporaneamente, ma, impossibilitato per le ragioni appena descritte, escogita due soluzioni alternative. Da un lato, assume di volta in volta il punto di vista più significativo, espressivo, chiaro e discreto, in un’ottica di «totalità intensiva»(23) che restituisca la complessità inafferrabile tramite il dettaglio meglio rappresentativo. Dall’altro, invece, si sforza in un lavoro più quantitativo che qualitativo in prospettiva di una «unità partitiva»(24), cercando di recuperare la totalità perduta con una tecnica quasi cubista e futurista di somma di punti di vista.
(18) Casetti F., op. cit. Balàzs B., Der Sichtbare Mensch, Francoforte, Deutsch-Österreichischer Verlag, 1924 (20) Casetti F., op. cit. (21) Casetti F., op. cit. (22) Balàzs B., op. cit. Pudovkin V., La settima arte, Roma, Editori Riuniti, 1961 (24) Pudovkin V., op. cit. (19)
(23)
sopra in grande, fig. 13 Napoleone, Abel Gance, 1927
sopra, fig. 14 Una donna nel lago, Robert Montgomery, 1947
sequenza a lato, fig. 15, 16, 17, 18, 19 Notorious, Alfred Hitchcock, 1946 27
3. l’evoluzione TECNOLOGICA Analogamente a quella della fotografia, anche la storia del cinema è strettamente legata alle innovazioni tecniche in grado di offrire innovative metodologie per rapportarsi alla realtà e fornirne una sua rappresentazione. Tale sviluppo ricalca e moltiplica quello del predecessore fotografico per l’articolato panorama di personaggi e tentativi commerciali, spesso in conflitto tra loro. Scopo di questa retrospettiva è quindi quello di sottolineare i progressi del medium nell’avvicinarsi prima e nel superare poi la resa verosimile della realtà. Innanzitutto, il cinema muove i primi passi nello stesso campo della fotografia e prende vita come un suo spin-off di inaudito successo. I suoi precursori risalgono però ben più indietro nel tempo, fino all’intrattenimento popolare del XVII secolo, nella forma delle proiezioni di lastre di vetro illustrate chiamate lanterne magiche. Ad esse si aggiungono gli ottocenteschi zootropio e fenachistoscopio in grado di ricreare in loop il movimento di brevissime animazioni disegnate. È però la scoperta dell’impressione fotografica a segnare un più deciso decollo, in principio dettato dall’interesse per lo studio del movimento. Il primo pioniere è nel 1878 Edward Muybridge con la celeberrima cronofotografia del cavallo al galoppo, ottenuta con una serie di macchine fotografiche affiancate lungo un rettilineo. Quattro anni dopo è la volta di Etienne-Jules Marey e del suo fucile fotografico, capace di impressionare dodici fotogrammi al secondo. Nel frattempo, Emile Reynaud inventa il suo prassinoscopio con l’avanguardistico sistema di trascinamento di una pellicola. Proprio l’innovativa pellicola fotografica da 35mm in celluloide brevettata da George Eastman segna la svolta, permettendo l’affermazione di uno standard che sarà adottato per tutto il secolo a venire: ecco perché la parentela così stretta con la fotografia. Thomas Alva Edison nel 1891 la utilizza infatti con quattro perforazioni laterali per fotogramma nel suo kinetoscopio, che tuttavia senza un sistema di proiezione permette solo una visione individuale tramite spioncino. È allora nel 1895 che i fratelli Lumières mettono a punto il loro cinematografo, da cui il cinema prende il nome: uno strumento in grado di impressionare tale pellicola, stamparne dei positivi e proiettarne le immagini ingrandite. L’apparecchio, o uno dei suoi molteplici concorrenti, è montato su cavalletto e registra brevi cartoline animate in una singola inquadratura: il 1896 tuttavia è già l’anno della svota, quando Eugène Promio lo sposta a bordo di una gondola veneziana producendo il primo movimento macchina della storia. La tecnica in seguito si afferma per il piacere del grande pubblico nei cosiddetti “phantom ride”, carrellate a bordo di svariati mezzi di trasporto. Risalgono invece al 1911 le prime testi girevoli dei cavalletti in grado di permettere dei movimenti panoramici. 28
Sebbene i negativi utilizzati riprendano in bianco e nero, già durante gli anni Dieci si affermano tendenze estetiche di aggiunta manuale del colore sulla pellicola stampata, sia modificando le zone chiare con l’imbibizione, sia quelle scure con il viraggio. Fioriscono anche i tentativi di resa automatica con l’impressione simultanea di pellicole con sensibilità diverse poi utilizzate con filtri colorati, come il sistema Kinemacolor, ma costi e difficoltà affondano ogni volta i progetti. Gli anni Dieci segnano anche un importante passaggio di testimone: Francia e Inghilterra, Paesi d’origine dei primi pionieri, sono costrette a soccombere prima alla concorrenza e poi all’egemonia degli Stati Uniti, dove Hollywood si guadagna il primato mondiale che tuttora possiede. Negli anni Venti, invece, sull’onda delle avanguardie artistiche esplodono le sperimentazioni dei progenitori degli effetti speciali: sovrimpressioni, mascherini, split screen, effetti ottici o filtri. Dello stesso periodo è la liberazione della ripresa dal classico punto di vista frontale ad altezza petto in favore di prospettive assolutamente insolite. A metà degli anni Venti la Kodak rende accessibile un nuovo tipo di pellicole: pur mantenendo la resa in scala di grigi, le nuove pellicole pancromatiche garantiscono maggiore verosimiglianza grazie alla sensibilità ad ogni frequenza di colore, a differenza delle precedenti ortocromatiche sensibili solo a viola, blu e verde. È sul finire di quella decade che il cinema conosce la maggiore innovazione della sua storia, cioè l’introduzione del sonoro: risale al 1927 il primo film con effetti sonori, che porta l’intero panorama mondiale alla conversione già a metà degli anni Trenta. Il cinema si fa dunque multimediale. Stante l’utilizzo di parte del fotogramma per le piste sonore, si verifica una temporanea adozione di un formato pressoché
pagina accanto, fig. 20 L’uomo con la macchina da presa, Dziga Vertov, 1929 sotto, fig. 21 Sentieri selvaggi, John Ford, 1956
quadrato, prima della standardizzazione nel formato Academy in rapporto 1,37:1. Gli anni Trenta vedono comunque una generale innovazione nella resa delle immagini: innanzitutto il possente dolly Rotambulator del 1932 e la diffusione delle gru consentono nuovi spettacolari movimenti macchina; poi la nuova macchina da presa Technicolor, dotata di tre pellicole in bianco e nero (una per ogni colore primario), permette la restituzione di film a colori molto saturi simil-realistici; infine numerosi effetti speciali come la retroproiezione del fondale (utilizzata per gli sfondi delle scene in auto) o la stampa ottica (il puntamento di una proiezione direttamente nell’obiettivo della macchina da presa) liberano le riprese da complicati e rischiosi set-up realistici. Dopo il periodo buio dei totalitarismi e della guerra, una successiva ondata di stravolgimenti rivoluziona il cinema a partire dagli anni Cinquanta, contemporanea al boom economico mondiale. Ciò che viene a delinearsi allo stesso tempo come ostico nemico e trampolino di lancio per l’innovazione è la comparsa della televisione nelle case di tutto il mondo. Per vincerne la concorrenza e diversificarsi nell’offerta, il cinema risponde con la spettacolarizzazione delle proprie immagini. Il 1950 è l’anno del debutto della pellicola Eastman Monopack Color, monostriscia a colori
realistici adottabile da ogni cinepresa che soppianta l’ostico Technicolor e nel giro di quindici anni porta ogni film alla conversione del colore (fig.21). L’immagine filmica completa quindi definitivamente il suo percorso di emulazione del mondo reale. In aggiunta, la registrazione del suono si sposta sulla nuova pista magnetica e i negativi si allargano a formati ultradefiniti, come il 70mm. La novità forse più clamorosa è tuttavia nei nuovi obiettivi anamorfici, che comprimono l’immagine in ripresa per dispiegarla in tutto il suo splendore panoramico in proiezione: tra il 1952 ed il 1954 fioriscono le alternative, con l’affermazione statunitense del Cinemascope sulla concorrenza estera in rapporto 2,35:1 (fig.22). Completano il quadro di cambiamento i nuovi dolly mobilissimi ed i nuovi teleobiettivi. Non mancano tuttavia anche diversi tentativi di stereoscopia, film in 3D da vedere con 29
appositi occhiali: antica fissazione sin dal cinema delle origini, riscuotono però scarso successo. La fine degli anni Cinquanta dà il via ad un vastissimo processo di democratizzazione del medium. Il progresso tecnologico abbatte infatti i costi d’accesso alle macchine da presa, che si fanno economiche, compatte e leggere da poter essere utilizzate a mano. Accanto alle classiche produzioni con alti budget, principessa della nuova immagine cinematografica si propone la pellicola da 16mm, inventata nel lontano 1923 per usi domestici e riscoperta durante la guerra. L’immagine filmica torna quindi ad essere più sgranata, sporca ed instabile. Nello stesso solco, prosegue tale processo anche il decennio successivo, quando nel 1965 viene commercializzato il formato Super-8 (anch’esso erede di un 8mm vecchio ormai trent’anni) per piccolissime cineprese amatoriali. Come avvenuto per la fotografia, anche il film approda nelle case di tutti. I film in sala nel frattempo si stabilizzano tra i formati 35mm e 70mm, in rapporto 1,85:1 o 2,35:1. Anche gli anni Settanta conoscono alcune importanti innovazioni, su tutte gli obiettivi a lunghezza focale variabile (gli zoom) e la steadycam del 1976, in grado di permettere ogni sorta di movimento all’operatore mantenendo una stabilità perfetta dell’immagine. Quell’anno inizia anche la commercializzazione del primo supporto di home video, 30
la cassetta magnetica VHS, che esplode a livello planetario nel decennio successivo, di pari passo con le pay-tv via cavo: vengono quindi cancellate le seconde e terze visioni in sala a favore di una nuova fruizione casalinga del cinema. In risposta, negli anni Ottanta le sale propongono una nuova spettacolarizzazione dei film: multiplex con schermi enormi, formati ad altissima definizione (IMAX), impianti sonori spaziali Dolby ed i primi incredibili effetti speciali digitali. Come avvenuto in parallelo alla fotografia, anche nel cinema gli anni Ottanta inaugurano appunto la rivoluzione digitale. I sopraccitati effetti speciali diventano in breve tempo uno dei fondamentali punti di forza del medium per le infinite possibilità che spalancano e per la seduzione che producono all’occhio dello spettatore, ma la pellicola non viene definitivamente accantonata. Durante gli anni Novanta, infatti, se l’home video abbandona la VHS in favore del DVD ad alta risoluzione (1995) e le fotocamere digitali fagocitano il mercato di ripresa amatoriale, le produzioni
a lato, fig. 22 Lawrence d’Arabia, David Lean, 1962 sotto, fig. 23 Avatar, James Cameron, 2009
cinematografiche si affidano ancora all’analogico per la superiorità di resa. È soltanto a cavallo del nuovo millennio che avviene il vero decollo digitale, sia in fase di proiezione (le prime sperimentazioni nel 1998), sia in fase di ripresa (del 2001 i primi seri tentativi di case di produzione) con nuovi formati ad altissima risoluzione come il 2K ed il 4K. Gli anni Duemila vedono anche la definitiva consacrazione della stereoscopia con l’esplosione delle proiezioni in 3D: del 2003 i primi successi, che registrano un boom a partire dal 2009 (fig.23). Ad oggi, dunque, il digitale è sicuramente diventato padrone indiscusso della post-produzione e della proiezione, ma è ancora in competizione con la validissima alternativa della pellicola per la ripresa.
31
Il cinema nasce da esperimenti fotografici atti ad analizzare scientificamente il movimento di esseri viventi. Tali immagini inizialmente turbano la pubblica opinione poiché sorprendono la realtà in pose inaspettate, spesso poco affascinanti o sgraziate, che la pittura aveva sempre accuratamente evitato e nascosto. In pratica, i primi esperimenti di sequenze fotografiche rivelano quello che Walter Benjamin definisce come «inconscio ottico»(25), vale a dire un aspetto del reale frutto del lavoro di rappresentazione di una macchina che con le sue capacità supera quelle dell’occhio umano. Se da un lato ciò provoca un discredito artistico ed un’accusa di impudicizia per il medium nascente, dall’altro ne incentiva uno sviluppo estetico: «tutto il lavoro dei grandi pionieri del cinema consisterà infatti nel restituire all’immagine in movimento quella bellezza – la bellezza della pittura borghese, ma anche del teatro e del romanzo borghese – di cui gli innocenti esperimenti […] l’avevano di colpo privata».(26) La sequenza di immagini, infatti, una volta ricomposta nella sua originaria rapida sequenzialità perde l’imperfezione del singolo istante in favore di una maestosa fluidità del gesto: l’illusione del movimento che si articola nel tempo. Il cinematografo è dunque, insieme al fonografo di poco precedente, il primo prodotto tecnico dell’uomo in grado di impossessarsi e riprodurre il fluire del tempo. Per tale ragione, una macroscopica differenza del cinema con la fotografia è il valore del momento singolo. Nel globale flusso del tempo proposto dal film, l’istante perde di valore in favore di una redistribuzione d’importanza con quelli che lo precedono e seguono: «il cinema è il sistema che riproduce il movimento in funzione del momento qualsiasi, cioè in funzione di istanti equidistanti scelti in modo da dare l’impressione di continuità».(27) Ecco dunque perché lo scarso valore del fotogramma preso singolarmente. Un punto cruciale è che cambia radicalmente la fruizione delle immagini da parte dell’uomo, poiché queste sembrano sfuggirgli continuamente davanti agli occhi. Non vale più la successione dei due momenti percettivi di cui scrive Roland Barthes a proposito della fotografia, cioè lo «studium, che non significa, per lo meno come prima accezione, lo studio, bensì l’applicazione a una cosa, il gusto per qualcuno, una sorta d’interessamento, sollecito, certo, ma senza particolare intensità»(28) ed il «punctum, […] quella fatalità che, in essa, mi punge (ma anche mi ferisce, mi ghermisce)»(29). Nel cinema, infatti, il primo è obbligatoriamente continuo ed ininterrotto, pena la perdita del filo della narrazione, mentre il secondo riguarda proprio la realizzazione del fluire del tempo stesso. Il movimento sullo schermo è comunque frutto di un’illusione resa possibile dal progresso tecnologico che si appoggia su meccanismi fisiologico-intellettivi della mente dello spettatore: è solamente in questo luogo virtuale che il movimento ha luogo. La macchina infatti restituisce una rappresentazione del reale disarticolato in sintagmi elementari, ben diversamente dalla percezione umana del mondo in flusso continuo. L’illusione è frutto della mediazione di un apparato tecnico che inizialmente sconvolge lo spettatore, come la leggenda narra riguardo alla proiezione di L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat dei Lumière, ma che in seguito finisce per depositarsi nel suo inconscio ottico come canone di «percezione a scatti»(30) assorbito dall’abitudine. Il cinema è quindi in grado di replicare un’azione: è capace di catturare la durata, il cambiamento, l’evoluzione, l’essenza ultima del mondo che ci circonda. Se allora la fotografia cercava di ingannare la morte impedendo lo scorrere del tempo, il cinema riesce nell’impresa riproducendo lo scorrere stesso e privandolo dell’ineluttabilità di un finale definitivo. Come l’araba fenice, il film risorge all’infinito ad ogni proiezione realizzando «il grande sogno frankensteiniano del diciannovesimo secolo: la ricreazione della vita, il trionfo simbolico sulla morte».(31) La fotografia si limita a esaltare la caducità della natura umana, salvando un singolo istante dall’inarrestabile flusso temporale e conferendogli durata eterna: parla dunque la lingua del passato. Il cinema al contrario smitizza il gesto congelato dalla fotografia e lo conserva nella sua quotidianità del compimento: parla la lingua di un eterno presente. È un presente che scorre senza progredire realmente, intrappolato su sé stesso, poiché appartiene ad un altrove con regole spazio-temporali differenti; tuttavia porta inalterato il fascino dell’azione che dotata di poteri ultraterreni sfugge al fluire implacabile del tempo. La fascinazione suscitata da questo aspetto è tale che «ricercare il tempo perduto»(32) può essere definito come fine ultimo che spinge lo spettatore alla visione cinematografica. 32
4. il movimento NEL TEMPO
Benjamin W., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 1998 (25)
Burch N., Il lucernario dell’infinito, Milano, Il Castoro, 2001 (26)
Deleuze G., L’immaginemovimento, Milano, Ubulibri, 1984 (27)
Barthes R., La camera chiara. Nota sulla fotografia, Torino, Einaudi, 1980 (28)
(29)
Barthes R., op. cit.
(30)
Pezzella M., op. cit.
(31)
Burch N., op. cit.
Tarkovskij A. A., Scolpire il tempo, Milano, Ubulibri, 1988 (32)
5. ONTOLOGIA
Bertetto P., Lo specchio e il simulacro. Il cinema nel mondo diventato favola, Milano, Bompiani, 2007
(33)
(34)
Arnheim R., op. cit.
(35)
Deleuze G., op. cit.
Metz C., Cinema e psicanalisi, Venezia, Marsilio Editori, 2002 (36)
(37)
Bertetto P., op. cit.
Come già accennato, il cinema si posiziona a metà tra gli antecedenti di pittura e teatro: dalla prima trae la stilizzazione e la reinterpretazione della realtà, dal secondo la rappresentazione verosimile delle vicende e l’inserimento in una struttura tridimensionale di cui viene abbattuta la quarta parete tra spettatore e scena. Dalla fotografia, invece, eredita la modalità di rappresentazione dei fenomeni, in quanto frutto di un processo automatizzato di simulazione fondato sulla verosimiglianza. Ottima sintesi di ciò è il primo cinema delle origini, dove il film trova spesso la forma di fotografia animata contenente una rappresentazione pressoché teatrale di una realtà manipolata. L’immagine filmica, quindi, è a metà tra la diegesi, la narrazione mediata di una storia, e la mimesi, l’imitazione fisica e immediata dell’accaduto. Nella sua evoluzione storica, l’immagine del cinema segue un percorso asintotico verso la verosimiglianza. Parte da una silenziosa semplificazione dei fenomeni in bidimensionali immagini in variazioni di grigi, per aggiungervi prima il suono, poi il colore, infine una certa dose di tridimensionalità. Nasce dunque all’interno dei canoni formali della fotografia e sviluppa un proprio linguaggio nettamente distaccato dall’imitazione del reale. Con il progresso tecnologico, invece, perde i propri tratti riconoscibili di stilizzazione: con la finalità di garantire una immediata riconoscibilità del visibile, cerca di sostituire ad immagini orgogliose della propria originalità falsificazioni visive dei fenomeni che aderiscano ai canoni percettivi naturali dell’occhio umano. Ad oggi, per quanto appaia incredibilmente somigliante alla realtà, «l’immagine filmica è costruita attraverso una serie di determinazioni specifiche fondate sull’illusione, l’inganno e la superfetazione delle apparenze. L’immagine filmica è infatti costituita su un insieme di effetti di falsificazione»(33) sistematicamente occultati. Il primo e più evidente è l’illusione del movimento approfondita in precedenza. In secondo luogo, l’illusione della tridimensionalità sulla superficie di uno schermo piano. Se infatti lo spettatore si sposta in sala durante la proiezione, non vede una mutazione dei rapporti tra gli elementi dell’immagine, ma solo un’alterazione delle proporzioni del rettangolo schermico. Anche il recente 3D, del resto, non è in grado di fornire un’immagine a tutto tondo, poiché le immagini che generano la stereoscopia sono solamente le due virtuali degli occhi dell’ideale spettatore esattamente frontale e centrale. Ciononostante, anche durante una normale proiezione 2D lo spettatore è portato a riconoscere un marcato senso di profondità, seppur conscio della sua assenza. «L’immagine data dal cinema non è assolutamente bidimensionale, e neanche assolutamente tridimensionale: bensì qualcosa di mezzo tra le due».(34) Ciò che permette questa illusione è lo sfruttamento di schemi percettivi che devono essere depositati nell’abitudine della mente dello spettatore, riconducibili alla visione prospettica ed alle teorie gestaltiche. Un’ulteriore caratteristica falsificante del cinema è la natura assolutamente virtuale dell’immagine, che non ha tangibilità materiale e non lascia alcuna traccia sullo schermo dov’è proiettata. In aggiunta, la fruizione immersiva nel buio e nel silenzio in un contesto simile ad un rituale magico le permette di configurarsi come «immagine demoniaca»(35), visto che la potenza e la ricchezza multisensoriale che dispiega sembrano apparire prima, scomparire poi, nel nulla. La magia sta proprio nella sproporzione percettiva tra ciò che essa suscita, emozioni fortissime, e ciò che essa è, sostanzialmente niente (luce, o al massimo, una striscia di pellicola). Tuttavia, ciò che meglio distingue l’immagine filmica da ogni altro tipo di immagine e dalla realtà stessa è l’affermazione illusiva di una presenza oggettuale proprio in assenza dell’oggettualità stessa. Al cinema, infatti, «l’attività di percezione è reale, ma ciò che viene percepito non è l’oggetto reale, è la sua ombra, il suo fantasma, il suo doppio, la sua riproduzione, un nuovo tipo di specchio».(36) L’oggetto della rappresentazione filmica non è più parte del mondo fenomenico, bensì porzione di un sistema fittizio appositamente creato, risultato della messa in scena. Quest’ultima si pone in relazione al mondo reale in un rapporto di somiglianza e differenza poiché, anche se prende vita in riferimento ad un fatto, un gesto, un luogo realmente accaduto, si trova a replicarlo in un tempo diverso dall’originale in una rappresentazione segnata dal ricordo, dall’interpretazione, dalla chiave di lettura del tutto personale dell’ottica di un autore. La messa in scena «implica un lavoro di composizione artificiale del profilmico, di formazione di un universo costruito, elaborato ed arbitrario, artefatto e destinato alla visione».(37) L’effetto di realtà già discusso per la fotografia, dunque, si applica sulla base di un livello di oggettività a sua volta frutto di un ulteriore effetto di realtà. 33
fig. 24 La finestra sul cortile, Alfred Hitchcock, 1954
Sia il legame tra mondo reale e messa in scena che quello tra messa in scena ed immagine filmica è infatti segnato da una duplicazione imperfetta, una rappresentazione mediata: ci troviamo allora di fronte ad una riproduzione di una riproduzione, che davvero poco ha a che vedere con il mondo che chiamiamo reale. In altre parole, «l’immagine filmica è un simulacro, anzi è un simulacro alla potenza, in quanto è copia differenziale di una copia differenziale senza originale». (38) Simulacro in quanto «parvenza, immagine lontana dal vero» che fa del «fingere, far parere qualcosa che in realtà non c’è»(39) la propria natura. Questa intenzionale falsificazione ontologica, prima di tutte le altre, fa si che il cinema possa dunque essere definito «arte dell’apparenza. […] L’effetto di realtà non deriva dalla riproduzione pura e semplice del mondo esterno, ma da un modo di rappresentarlo che corrisponde il più possibile alle forme dominanti e abituali della visione. [Esso deriva] proprio dal fatto che la sua tecnica estremamente “mediata” e artificiale riproduce in apparenza la pura immediatezza della vita».(40) L’immagine cinematografica, infatti, presta fedeltà non tanto al fatto rappresentato, quanto al sentimento della circostanza. «I caratteri di un’immagine filmica non sono quindi legati alla realtà ed all’oggetto ripreso, ma agli standard diffusi di configurazione del visibile».(41) Ciò che finisce sullo schermo della sala non corrisponde alla vicenda come è accaduta o potrebbe accadere nella realtà, ma solamente al modo massimamente espressivo per raccontarla: è tutto costruito per la trasmissione di un significato, piegando i fenomeni alla loro ri-creazione invece che alla riproposizione. L’immagine filmica, tuttavia, è conscia della propria artificialità, anche se si impegna a nasconderla. «È un’immagine che maschera, si maschera e si smaschera innanzitutto». (42) Maschera poiché appunto occulta i propri caratteri di opera fittizia, si maschera poiché rende l’illusione di realtà e in ultimo si smaschera: dal momento che i suoi tratti di verosimiglianza sono in realtà prodotto di mediazioni tecnologiche costruite, si offre allo spettatore affinché appunto 34
ne colga l’essenza e ne sveli l’illusorietà. A questo proposito, più avanti entreremo nel dettaglio dei meccanismi che si instaurano tra la psiche del pubblico ed il film. L’auto-smascheramento dell’immagine filmica, tuttavia, rappresenta un aspetto chiave nella distinzione tra il cinema d’intrattenimento e quello d’autore: se infatti nel primo caso non è concesso, come ad esempio nel cinema hollywoodiano classico, nel secondo è appositamente enfatizzato per accendere nello spettatore determinati interrogativi.
Bertetto P., op. cit. AA. VV., Dizionario Treccani (40) Pezzella M., op. cit. (41) Bertetto P., op. cit. (42) Bertetto P., op. cit. (43) Elsaesser T., Hagener M., op. cit. (44) Metz C., op. cit. (38) (39)
6. il regime SCOPICO
Il cinema è prima di tutto un’attrazione per lo spettatore poiché è in grado di procurargli soddisfazione. Durante la proiezione hanno luogo una serie di meccanismi psicologici complessi per cui risultano fondamentali i contributi teorici ad opera principalmente di Jacques Lacan e Sigmund Freud, applicati al cinema da Christian Metz, i quali si immergono in profondità nel fitto sistema di istinti, impulsi e reazioni che dominano l’inconscio umano. Vorrei riflettere perciò sul regime percettivo dello spettatore e sul suo rapporto con lo schermo. Seduto, al buio, in silenzio, solitario, occhi e orecchie dedicate al solo telo, lo spettatore cinematografico si trova a godere del film in un particolare stato psico-fisico: la sua condizione è di sotto-motricità, in quanto incollato ad una poltrona per ore in maniera innaturale, e di sovra-percezione, poiché bombardato da un flusso costante di stimoli audiovisivi senza alcuna tregua. Ciò deriva dalla volontà di perseguire un piacere dato da due primordiali pulsioni percettive, vale a dire il desiderio di vedere (la pulsione scopica) ed il desiderio di ascoltare (la pulsione invocante). Per loro stessa natura, tali pulsioni si nutrono del desiderio che vorrebbero soddisfare senza tuttavia mai provvedere alla sua
estinzione, allo stesso tempo alimentando e combattendo la distanza che intercorre tra lo spettatore e l’oggetto desiderato. Quest’ultimo nel cinema si rivela particolarmente funzionale al proprio mantenimento in quanto, come appena visto, sostanzialmente non esiste; per tale motivo si colloca fuori dalla portata dello spettatore, desiderabile ma irraggiungibile. Ecco dunque su quale elemento si costruisce il rapporto tra lo spettatore ed il film: la distanza, necessaria a garantire quella mancanza che, se appagata, spegnerebbe la pulsione. Non a caso, la stessa proiezione in sala viene apprezzata in maniera ottimale soltanto se fruita da un certo numero di metri. Il cinema non è però un’eccezione, perché in tutte le arti maggiori i canali sensoriali maggiormente coinvolti sono quelli in grado di raccogliere informazioni dalla distanza, cioè appunto la vista e l’udito. La distanza tuttavia non rappresenta solamente la mancanza che spinge ad essere sopperita, quanto un fondamentale requisito per l’autodifesa dello spettatore. La condizione di quest’ultimo, infatti, è quella tipica del voyeur: dalla propria posizione di riparo trae sadicamente piacere nel guardare un oggetto che gli si offre esibendosi al suo cospetto. «Lo spettatore è del tutto escluso da quanto avviene nel film e non deve aver timore di essere coinvolto nell’azione. Inoltre, egli non si vede moralmente costretto a intervenire (come accadrebbe nella vita reale)».(43) Come chi che spia dal buco della serratura, lo spettatore detiene il potere dello sguardo che cristallizza il rapporto tra di lui, soggetto percipiente, ed il soggetto oggettivato, in una relazione di totale asimmetria a favore del primo. Il legame tra spettatore e film, allora, è segnato da una distanza ben diversa da quella in sala. Il loro rapporto, molto differente da quello tra spettatore teatrale e scena, si fonda infatti su una discontinuità, una «segregazione degli spazi»(44), imposta dell’apparato tecnico che li separa. Vicendevolmente, attore e spettatore lavorano l’uno per l’altro, contribuendo a dare vita al film: il primo mostrandosi allo sguardo del secondo, il secondo prestando il suo sguardo alla 35
Casetti F., op. cit. Metz C., op. cit. (47) Pezzella M., op. cit. (48) Pezzella M., op. cit. (49) Pezzella M., op. cit. (45)
(46)
ricezione della prestazione del primo. Nel momento della recitazione, l’attore cinematografico afferma la propria presenza per lo spettatore, che però in quel momento risulta assente. L’occhio dello spettatore tuttavia gli si manifesta nella propria traccia, cioè l’occhio della macchina da presa, dalla cui prospettiva egli sa che in un secondo momento lo spettatore godrà della sua performance. Allo stesso modo, lo spettatore partecipa fisicamente alla proiezione di una messa in scena dell’attore che è però assente, cogliendone soltanto la traccia meccanica lasciata sulla pellicola, in quanto la recitazione è già stata portata a compimento in un altro momento ed in un altro luogo: in un altrove che è proprio del cinema e che ne costituisce la dimensione onirica. L’attore, tuttavia, soprattutto nel cinema classico finge di non sapere di essere oggetto dello sguardo dello spettatore, pur essendone totalmente a conoscenza. Anche lo spettatore, allora, grazie alla nonchalance cosciente dell’attore è in grado di ignorarsi come voyeur. Stante l’intermediazione dello schermo, entrambi sono portati a ignorare il proprio ruolo nel rapporto voyeuristico. La superficie del telo di proiezione è allora «luogo di negoziazione».(45) È un telo che nasconde e scherma, ma nello stesso tempo che si offre alla rappresentazione: è infatti uno spazio liminare, una porta, una soglia di comunicazione tra il mondo diegetico e quello dello spettatore. Su di esso, comunque, la frattura delle due metà della coppia voyeuristica non è da considerarsi ricomposta, poiché da ambedue le parti vige la consapevolezza e la sicurezza di trovarsi in assenza dell’altra parte, percepita solo 36
in maniera virtuale. «Nella sala buia, il voyeur si ritrova davvero solo, privo della sua altra metà dell’ermafrodito mitico. […] Tuttavia ancora voyeur, visto che c’è qualcosa da vedere, qualcosa che si chiama film ma nella cui definizione entra molto la fuga: non esattamente qualcosa che si nasconde, ma piuttosto qualcosa che si lascia vedere senza farsi vedere, che ha abbandonato la sala prima di lasciarvi, unica visibile, la propria traccia».(46) Il film, infatti, seppure costruito appositamente per esibirsi, nega la propria esibizione. Sa di essere guardato ma non vuole saperlo: o meglio, chi sa di essere osservata è l’istituzione cinematografica, il cinema come racconto di una storia, mentre chi ignora di essere osservata è la storia stessa, la vicenda che ha luogo sullo schermo. Lo spettatore, a questo punto, autorizzato a dimenticarsi del voyeurismo che mette in atto, è libero di annullare la propria identità in favore di un sistema di immedesimazioni filmiche. L’eccezionalità di questa configurazione di dominio oculare, appunto denominata regime scopico, sta nella natura dell’oggetto del desiderio, che nel cinema è in sostanza inesistente. Allora il rapporto tra percipiente, in carne ed ossa, e percepito, simulacro e fantasma, è sbilanciato verso un «voyeurismo assoluto»(47) in cui viene a mancare la costante minaccia del ribaltamento dei ruoli. Se ciò fornisce allo spettatore un piacere di onnipotenza e un delirio narcisistico, però, con tale abbandono al godimento «l’Io dello spettatore si riduce interamente al puro atto del vedere, dominato da pulsioni inconsapevoli e impersonali: egli è come inghiottito e annientato, privo di identità davanti all’universo visivo che gli sfila davanti agli occhi».(48) La realizzazione della propria invulnerabilità causa quindi nello spettatore una presa di coscienza che l’oggetto del proprio desiderio è fasullo, irreale, sostanzialmente nullo, e ciò comporta una rischiosa perdita di identità perché mina alla base il sistema da cui egli trae piacere. Il cinema non può tuttavia permettersi di far collassare in tale modo tutto il sistema di appagamento per cui lo spettatore paga il biglietto. Ed è così che lo splendore delle immagini, talmente seducenti da sembrare più reali del reale stesso, sfrutta il suo stupefacente effetto di realtà per ricondurre lo spettatore sui binari del regime scopico, occultandone le falle ontologiche alla base. «Quanto più il desiderio è orientato sull’incorporeità e sull’irrealtà dell’immagine, tanto più essa si riveste di colori e proprietà seducenti, che colmano freneticamente lo spazio vuoto dell’immaginario. Quanto più diminuisce l’intensità dell’esperienza vissuta, tanto più s’incrementa – in un’effimera compensazione – la perfezione patinata dello spettacolo».(49)
7. l’identificazione dello SPETTATORE Oltre che da una peculiare declinazione dell’attività della visione, il cinema si caratterizza anche per un particolare stato di coscienza dello spettatore. Questi, come già sottolineato in precedenza, circondato da buio, silenzio e bloccato nella staticità, è impossibilitato al contatto con gli altri spettatori, cosa che comporta un frazionamento della massa del pubblico in una moltitudine di individui isolati con la propria mente. Così, l’unica fonte di stimoli percettivi rimasta disponibile in sala è il film con il suo audio ed il suo schermo, che in questo particolare contesto di egemonia sensoriale, calamita ogni attenzione della mente dello spettatore. Si attiva allora una complessa rete di meccanismi psico-cognitivi che sostanzialmente portano lo spettatore ad uno stato particolare di regressione: ed è qui che durante il tentativo di definire la propria identità, lo spettatore manifesta un’anomalia. Egli, infatti, per identificare sé stesso è costretto a fare coincidere il continuum fenomenico, in cui solitamente è immerso e su cui è solito definire i propri confini identitari, al solo schermo, manifestando una prima proiezione del mondo sul telo. Tuttavia, lo spettatore non è ovviamente in grado di rintracciare sé stesso sullo schermo come fosse uno specchio e, di conseguenza, in opposizione al mondo diegetico, identificato come oggettualità esterna, finisce per collocarsi in una posizione extra-diegetica. Infatti, egli non partecipa in alcun modo all’oggetto percepito ma al contrario è dominatore della sua percezione, onnipotente e «onnipercipiente».(50) Il luogo dove allora colloca la propria identità, stante le uniche possibilità consentite dal contesto della sala, è al di qua dei suoi medesimi occhi: «lo spettatore insomma si identifica con sé stesso, con sé stesso come puro atto di percezione». (51) Il punto di vista privilegiato dello spettatore sul film, tuttavia, non è uno qualsiasi, poiché coincide con il punto di vista della macchina da presa. Lo spettatore, perciò, nella visione del film subisce inconsciamente un primo processo di identificazione, noto come identificazione primaria, con la macchina da presa. Visto il particolare impiego proprio della macchina da presa da parte di Paolo Sorrentino, questo processo nelle sue opere risulta di fondamentale importanza, motivo per cui verrà approfondito più avanti. La mente dello spettatore comunque non si limita ad un rapporto dall’esterno con la storia narrata. Per il concatenarsi di altri meccanismi psichici e cognitivi, che tuttavia non risultano fondamentali in questa sede, si instaura infatti anche un ulteriore processo, quello dell’identificazione secondaria, che porta lo spettatore ad immedesimarsi nei
Metz C., op. cit. Metz C., op. cit. (52) Deleuze G., op. cit. (50) (51)
personaggi stessi della storia. Ciò è dovuto soprattutto a tre caratteristiche del cinema: innanzitutto, la capacità di costruire surrogati di realtà esotiche al cui piacere di esplorazione non può resistere lo spettatore; poi, la strutturazione in un percorso narrativo in grado di suscitare il suo desiderio di partecipazione; in ultimo, l’antropocentrismo delle immagini per lo più popolate da personaggi umani, imperniate sul ruolo cardine del volto nel primo piano, «immagine-affezione»(52) e concatenate sull’alternanza tra sguardi soggettivi ed oggettivi. 37
8. l’illusione FILMICA
Come già anticipato, lo spettatore del film si trova in un particolare stadio di coscienza che può essere identificato a metà tra il sonno e la veglia. Come nel primo, infatti, egli si proietta in un flusso di immagini virtuali, mentre come nel secondo egli è ancora in grado di discernere quale sia il mondo reale. Senza entrare nel dettaglio di complicati processi psichici, questo accade sostanzialmente perché il prezzo da pagare per godere appieno della soddisfazione dell’esperienza filmica è una limitazione della soglia di giudizio che altrimenti punterebbe il dito sulla distanza dello spettatore dalla diegesi e su tutte le irreali incongruenze di questa. Lo spettatore, dunque, si lascia volontariamente ingannare da un processo di illusione filmica, secondo un dispositivo cognitivo da secoli noto al mondo della narrazione: la “volontaria sospensione dell’incredulità” di cui parlava già Samuel Taylor Coleridge nell’Ottocento. In pratica, abbassa parzialmente e temporaneamente l’asticella della propria coscienza razionale in modo da non dover incappare nella frustrazione di dover cestinare come finzione tutto quel che vede, ma al contrario garantendo la salvezza al notevole bagaglio emozionale che la traslazione percettiva (frutto delle identificazioni) gli consente. Due sono i fattori principali in gioco: la credenza, cioè l’inclinazione a chiudere gli occhi di fronte ad una scoperta che causerebbe del dispiacere, e la vigilanza, cioè la funzionalità razionale della coscienza di gestione e censura delle emozioni finalizzata ad evitare traumi. Durante la proiezione, si allargano le maglie di quest’ultima in favore della prima, consentendo una consapevole ma apparentemente inconscia accettazione della realtà onirica del film, secondo una relazione per cui «il grado di illusione di realtà è inversamente proporzionale a quello della vigilanza».(53) Tale meccanismo è favorito dalla moltitudine di stimoli percettivi che il film è in grado di manifestare e dalla trasparenza del linguaggio cinematografico che pare nascondere sé stesso: il passo tra il mondo reale e quello della messa in scena è dunque decisamente breve. Come conseguenza, «il film produce nel fruitore un meccanismo di doppia credenza, che pone lo spettatore nella condizione di credere e non credere alla veridicità dell’immagine schermica».(54) In tale maniera, egli può prendere parte al funzionamento del film pur rimanendone estraneo, gustarne le soddisfazioni senza rischiare di ferirsi, in pratica sfruttando al meglio i privilegi che la propria condizione di dominatore scopico gli consente. 38
(53) (54)
Metz C., op. cit. Bertetto P., op. cit.
9. cinema d’INTRATTENIMENTO e cinema d’AUTORE
fig. 25 Via col vento, Victor Fleming, 1939
La distinzione tra cinema d’intrattenimento e cinema d’autore non va considerata come una netta categorizzazione in due separate fazioni, quanto invece come una definizione di due poli estremi all’interno dei quali si posizionano le singole pellicole. In tale ottica, anche le relative immagini filmiche presentano innumerevoli sfumature che non devono far pensare ad una completa adesione ad un modello o all’altro. La trattazione che segue è perciò riferita alle linee generali teoriche dei due poli. L’immagine filmica, come del resto l’intero prodotto cinematografico, ha conosciuto nella sua storia una certa evoluzione. Tuttavia, quando si parla di linguaggio cinematografico si prende come modello di riferimento una particolare articolazione di forme tecnico-narrative di film. Per la stabilità mantenuta nel tempo e per avere influenzato praticamente tutto ciò che lo ha seguito, questo modello messo a punto in America negli anni Venti del secolo scorso è tuttora considerato il linguaggio filmico per antonomasia: è quello del cinema hollywoodiano classico. È stato concepito assieme e grazie ai primi capolavori statunitensi, come quelli di Griffith, ed ha standardizzato un prodotto cinematografico in modo tale che fosse il più possibile comprensibile dagli spettatori e perciò massimamente verosimile nella rappresentazione della realtà. Il cinema hollywoodiano nasce come colosso industriale ed il suo scopo primario è quello del successo al botteghino, motivo per cui punta ad attrarre il grande pubblico popolare con materiale poco impegnativo a livello di digestione mentale: il film è sostanzialmente intrattenimento, spettacolo, soddisfazione per gli occhi e mangime per il cuore. Lo spettatore non è invitato alla riflessione attiva quanto stimolato al piacere di ricezione passiva. Ecco perché questo cinema impronta le immagini alla trasparenza, preoccupandosi sistematicamente di occultare ogni indizio della sua natura cinematografica (e dunque artificiale, ingannevole, virtuale): lo scopo è l’illusione di realtà. All’opposto, il cinema d’autore nasce come prodotto artistico espressivo più libero da finalità commerciali: poiché non cerca il trionfo in cassa, affronta tematiche nettamente più impegnative e fa in modo di coinvolgere il pubblico in sala. Il film allora diventa materiale di un più ampio discorso filosofico e lo spettatore è coinvolto attivamente e spinto alla riflessione. Si capisce allora perché, da questo punto di partenza, il cinema d’autore intraprenda scelte stilistiche che non contemplino tra 39
fig. 26 Persona, Ingmar Bergman, 1966
Metz C., op. cit. Bordwell D., Narration in the Fiction Film, Wisconsin, The University of Wisconsin Press, 1985 (57) Metz C., op. cit. (58) Burch N., op. cit. (55)
(56)
40
le priorità l’occultamento della costruzione cinematografica. Il linguaggio classico del cinema d’intrattenimento utilizza il medium facendo leva sull’abitudine alla visione sviluppata dagli spettatori, cosicché le immagini della proiezione siano percepite inavvertitamente e si avvicendino sullo schermo senza lasciare traccia. Immunizza perciò il pubblico dall’acutizzarsi dell’attenzione e lascia che esso si culli nelle visioni oniriche mostrate. Questo tipo di film propone immagini fortemente mimetiche, cioè riconducibili alla mimesi e mimetizzate da rappresentazione diretta: la storia deve sembrare avere luogo davvero davanti agli occhi dello spettatore, in un rapporto di compresenza di derivazione teatrale. Deve cioè sembrare assente qualsiasi tipo di mediazione data da un narratore e le vicende stesse non devono sembrare frutto di un discorso prodotto da qualche entità soggettiva: «ciò che caratterizza quel discorso, ed il principio stesso della sua efficacia come discorso, è proprio il fatto di cancellare i segni dell’enunciazione e di travestirsi da storia».(55) Al contrario, il film d’autore non dimentica di pungolare l’attenzione di chi guarda per invitarlo all’interpretazione cosciente del film. Le sue vicende vengono raccontate più o meno apertamente tramite immagini diegetiche, cioè appartenenti al mondo del film e non a quello dello spettatore, frutto di un discorso personale del cineasta, in una sorta di accompagnamento alla contemplazione riflessiva dell’opera e al giudizio morale. La presenza della mediazione del narratore non è quindi oggetto di severa censura. Se però il cinema hollywoodiano classico standardizza dei canoni formali per le proprie esigenze di trasparenza, quello d’autore, come suggerisce il termine stesso, lascia che quelle norme siano infrante e ribaltate secondo la sensibilità personale dei cineasti. Non è quindi possibile stendere un elenco preciso delle caratteristiche estetiche comuni a tutti i film del genere, ma al contrario è più utile evidenziare su quali aspetti dell’estetica classica può intervenire. «Nel complesso, la narrazione classica utilizza la tecnica cinematografica come veicolo del syuzhet [cioè l’intreccio, nell’accezione teorizzata dalla scuola sovietica] per comunicare le informazioni della fabula».(56) Il commento personale dell’autore non è infatti ammesso. Il linguaggio tradizionale rifugge da punti di vista particolari, per esempio molto alti o molto ribassati, se non diegeticamente motivati.
«L’angolazione rara, proprio perché rara, ci fa sentire meglio quello che, in sua assenza, avevamo semplicemente un po’ dimenticato: la nostra identificazione con la macchina da presa. Le inquadrature abituali finiscono per essere considerate delle non-inquadrature, perché assumo lo sguardo del cineasta, ma la mia coscienza in fondo non ne è del tutto al corrente. L’angolazione rara mi riscuote e mi fa capire che lo sapevo già».(57) Allo stesso modo, anche il movimento macchina è prettamente subordinato alle esigenze narrative: si radica al mantenimento in quadro del personaggio o al movimento stesso del personaggio in prospettiva soggettiva. Fuoco e illuminazione, invece, sono entrambi impegnati nella creazione di immagini semplici da leggere e decodificare: ciò che non è importante non è a fuoco e analogamente vale per la luce. Anche in questo caso, il fine ultimo è di evitare allo spettatore il lavoro mentale di selezione e interpretazione in favore di una fruizione di contenuto preconfezionato. Altro elemento chiave è il montaggio. Il film deve procedere in maniera fluida facendo in modo che spazio e tempo vengano percepiti continui ed uniformi: soprattutto, nel montaggio analitico e invisibile non sono assolutamente ammessi inserti extra-diegetici in stile Eisenstein che richiamino lo spettatore alla realtà artificiosa del film. In generale, le immagini del cinema d’intrattenimento hanno una sola finalità, quella di far progredire la storia. Le immagini del film d’autore, al contrario, possono anche fermare per un istante la narrazione per aprire momenti di lirismo: immagini introspettive, spunti di riflessione, spesso immagini proposte affinché lo spettatore rilegga ciò che ha appena visto sotto un’altra prospettiva, richiedendo un’interpretazione. In pratica immagini in cui l’universo visibile non è obbligatoriamente legato all’universo narrativo: ciò a cui puntano non è un mero effetto di realtà quanto una coscienza d’immagine. La dialettica tra narrativo e visibile si configura allora come fulcro di riflessione. Infine, un ultimo aspetto di fondamentale importanza è costituito dalla recitazione degli attori. Ciò che non è assolutamente concesso loro è lo sguardo in macchina, poiché questo interrompe bruscamente l’illusione filmica e l’invisibilità dello spettatore all’interno del regime scopico. «Qual è infatti la condizione indispensabile del voyeurismo solitario ed ubiquitario indotto [dal cinema], se non l’invulnerabilità dello spettatore? È necessario dunque che gli attori spiati dall’osservatore non ricambino mai il suo sguardo, non sembrino mai accorgersi della sua presenza in sala».(58) Tale sguardo infatti oggettivizza lo spettatore, che smette di identificarsi nella propria pura percezione ad un primo livello e nel personaggio ad un secondo livello per recuperare la propria identità ed espellere sé stesso dal mondo diegetico come corpo estraneo. In questo modo, è allora obbligato a prendere parte nuovamente al film ma in maniera attiva e, interpellato, gli è richiesta un’interpretazione personale. 41
42
2 IL CINEMA 43
Toro scatenato, Martin Scorsese, 1980
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L’ARTE E L’INDUSTRIA
2.1
Se il precedente capitolo approfondiva la modalità espressiva del film nella sua strutturazione in immagini, quello che qui comincia vuole invece ascendere ad un livello più globale ed inquadrare in uno sguardo d’insieme il prodotto cinematografico nel suo complesso. Il film, microcosmo a sé stante, conchiuso e limitato, viene considerato come singola cellula appartenente all’intricato tessuto del mondo del cinema ed è dunque calato nella realtà della sua polivalente natura di prodotto economico, sociale e culturale. Dalle origini, infatti, si è configurato innanzitutto come prodotto del lavoro dell’uomo, prima artigianale e poi via via più industriale, vendibile su un proprio mercato. Ben presto però se ne sono notate le straordinarie capacità comunicative ed è perciò stato elevato a veicolo di trasmissione di contenuti prodotti e destinati alla società. Infine, una volta affermatosi nel suo valore culturale, è stato ulteriormente innalzato dalla considerazione nella prospettiva artistica. Se l’essenza del film è raccontare una storia per immagini, la natura di questo racconto è a metà tra l’industria e l’arte. 45
1. l’opera D’ARTE
Cercare un’esatta definizione di cosa sia “arte” e cosa no è un’operazione tanto ardua quanto inutile: a seconda dell’epoca storica e del contesto culturale sono infatti state proposte infinite definizioni e classificazioni. L’unico punto su cui forse si può convenire è che l’arte, non intesa in senso lato come capacità di svolgere un compito secondo regole stabilite ma ristretta alla sola accezione utilizzata dalle teorie dell’estetica, si è sempre occupata di elaborare prodotti culturali. Facendo riferimento alla definizione istituzionale di arte, che ne relativizza l’accezione, si può allora dire che «è un’opera d’arte quella che è socialmente riconosciuta come tale, almeno all’interno di un contesto specializzato»(1). Nel mondo occidentale odierno, solitamente il termine identifica qualsiasi forma estetica che sia espressione in qualche modo tangibile di una sensibilità interiore. Di una opera d’arte perciò non si definiscono le modalità produttive o percettive, quanto semplicemente una generica intenzionalità di trasmettere messaggi o suscitare riflessioni personali, tramite il risultato di uno sforzo creativo. In questa contemporanea accezione, manca il riferimento a ciò che ne ha rappresentato per moltissimi secoli uno dei maggiori tratti distintivi: l’unicità. Questo pilastro è venuto a mancare 46
in concomitanza con la rivoluzione industriale, quando riproducibilità e serializzazione hanno invaso tanto il mondo economico quanto quello sociale, dando vita alla produzione standardizzata di beni ed alla società di massa. Dalle incisioni nelle caverne raffiguranti scene di caccia alle tele pittoriche romantiche del XIX secolo, la mano dell’artista guidata dalla sua personale sensibilità è stata l’imprescindibile modalità di creazione d’arte, a garanzia di autenticità. Sicuramente l’arte è sempre stata riproducibile poiché frutto di un gesto umano e dunque replicabile da un altro gesto umano, ma a condizione di poter discernere tra un vero, opera prima originale, in opposizione ad un falso, risultato di imitazioni altrui. La meccanicità automatica della fotografia, invece, come già discusso nel precedente capitolo ha stravolto quei canoni di giudizio. Quell’«hinc et nunc»(2) dell’opera che per secoli aveva costituito una sorta di «aura»(3) innanzitutto magica, poi religiosa, infine per lo meno emozionale, viene surclassata dal nuovo medium fotografico in grado sia di cancellare le distanze spaziali che di congelare lo scorrimento del tempo. E soprattutto, capace di riprodurre una quantità infinita di copie identiche facendo perdere di senso il concetto stesso di autenticità. Il cinema, a maggior ragione, completa tale demolizione cancellando anche il fluire del tempo. La nuova modalità espressiva audiovisiva si pone quindi al di sopra dei fondamentali canoni attraverso cui è stata inquadrata l’arte per migliaia di anni. Non per questo motivo, però, i suoi tratti distintivi devono essere considerati non rispondenti ai parametri necessari per lo status artistico, ma anzi hanno il merito di adeguare tali parametri ad un mondo che è radicalmente cambiato. «[Il cinema] celebra la vicinanza e la disponibilità delle cose, e lo fa in sintonia con un’epoca che elegge questi due valori a propri punti di forza»(4): esalta il primo poiché è in grado di mostrare persone e cose su uno schermo a portata di mano anche se nella realtà si trovano dall’altro capo del mondo in un tempo non presente, ed il secondo perché abbatte le tradizionali barriere di percezione della realtà, conformandosi allo sguardo dell’uomo sul mondo nell’epoca storica in cui nasce. L’artisticità del cinema non sta nella ricreazione audiovisiva del reale come l’artisticità dell’architettura non sta nella resistenza della roccia: quelle sono soltanto opportunità, chi le rende opere d’arte è la mente dell’uomo che le sfrutta per esprimere un suo significato. Il cinema in aggiunta ha il grande privilegio di poter godere di così tante modalità espressive che riesce a rispondere come nessun altro all’esigenza fondamentale del suo secolo: comunicare. Ed allora ecco perché «nella modernità, il comunicativo si sostituisce all’estetico. […] In questo quadro, il ruolo del cinema diventa chiaro. Non più solo arte, esso si scopre medium: offre appunto contenuti fortemente fruibili, costruisce legami largamente accessibili, usa una macchina in modo perfettamente funzionale».(5)
2. l’opera CINEMATO GRAFICA
fig. 1 8 e mezzo, Federico Fellini, 1963
«Una questione di sensibilità»(6): così Rudolph Arnheim nel suo scritto più celebre, Film come arte, obietta a chi concepisce il film come riproduzione meccanica del mondo. Se è vero che il medium è frutto di innumerevoli mediazioni tecnologiche, è altrettanto vero che tali strumenti si trovano nelle mani di persone in grado di utilizzarli con precise finalità espressive aderendo ad un’intenzionalità comunicativa: come in tutte le arti, dietro l’opera di nasconde un autore. Il cinema allora si può vedere come «industria espressiva che tende alla perfezione simultanea dell’arte e del traffico»(7), con quest’ultimo termine preso a metafora del moderno scambio comunicativo tipico di ogni medium. La cosa che tuttavia rende unico il cinema dal punto di vista artistico è la compresenza di un numero enorme di personaggi coinvolti nel processo creativo. Questo fa sì che, da un lato, siano molteplici gli aspetti da poter prendere in considerazione nella valutazione di un’opera, ma dall’altro, poiché l’opera è un frutto della società industriale ed i sopraccitati personaggi sono lavoratori prima che artisti, che l’opera cinematografica nasca intrinsecamente legata alla sua sostenibilità economica. Ogni film è infatti un colossale investimento di tempo che si traduce in un notevole investimento di soldi, motivo per cui il successo economico di ogni singola pellicola è praticamente indispensabile alla sua esistenza e connaturato al medium stesso. Se il cinema è arte, è però anche business. Tra questi due poli, a loro rischio e a loro discrezione, si muovono da sempre quelli che più di tutti possono vantare la paternità artistica sulle opere: i registi, del cui ruolo parleremo più avanti. Ogni epoca, ogni Paese, ogni filosofia ed ogni regista ha interpretato l’opera cinematografica nella propria accezione tra l’infinita gamma di sfumature possibili. Nel tempo perciò si sono succedute differenti concezioni di opera cinematografica, la cui evoluzione viene ripercorsa di seguito.
Aumont J., L’immagine, Torino, Lindau, 2007 (1)
Benjamin W., op. cit. Benjamin W., op. cit. (4) Casetti F., op. cit. (5) Casetti F., op. cit. (6) Arnheim R., op. cit. (2)
(3)
McLuhan M., Gli strumenti del comunicare, Milano, Il Saggiatore, 2008 (7)
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Il punto di partenza del cinema è quello dell’intrattenimento. Le prime celebri proiezioni francesi, niente più che cartoline in movimento, attraggono infatti l’attenzione popolare per la novità tecnologica che rappresentano. Da allora fino alle odierne saghe hollywoodiane, il funzionamento base dell’istituzione cinematografica è rimasto quello dell’offerta di uno spettacolo in cambio di un prezzo da pagare. Divertimento popolare spesso organizzato in spettacoli itineranti, i brevissimi film delle origini ritraggono scene di vita quotidiana (come quelli dei Lumière), presentano paesaggi esotici o gag comiche, vengono utilizzati a fini informativi (cinegiornali) o sviluppano storielle fantastiche: in quest’ultimo campo, il francese Georges Méliès nel 1902 inaugura il cinema narrativo con Viaggio nella Luna. Gli Stati Uniti fanno subito del nuovo medium un’incredibile macchina economica: tra il 1905 ed il 1907 fioriscono ovunque i nickelodeon, sale di proiezione appositamente studiate in zone industriali a lunga apertura per intrattenere regolarmente un pubblico di masse operaie, fresche di conquiste sindacali in materia di orari lavorativi. Già dal 1915, tuttavia, gli organi di censura americani impongono normative etiche per elevare lo spessore delle pellicole ed attrarre anche le classi borghesi. L’Europa, invece, interpreta i primi film di fiction in chiave meno commerciale e più artistica: dal 1905 si afferma in Italia il filone storico, mentre tra il 1912 e il 1913 si diffondono in Germania l’Autorenfilm, frutto di adattamenti letterari, ed in Scandinavia un cinema autonomo basato sulle tradizioni locali. Il successivo scoppio della guerra interrompe i contatti tra i vari Paesi e getta le basi per uno sviluppo cinematografico nettamente più nazionale. Gli anni Venti vedono delinearsi una netta contrapposizione. Dal lato americano dell’oceano, dove dalle tipiche avventure romantiche si passa a numerosi altri generi d’intrattenimento (slapstick, western, gangster, kolossal storici), si stabilizzano gli standard estetici, narrativi e produttivi del cinema hollywoodiano classico che perdureranno fino agli anni Sessanta. Dal lato europeo, invece, fioriscono le influenze artistiche: in Francia l’Impressionismo (1918-29) interpreta il film come forma d’arte facendo delle tecniche di ripresa un campo di innovazione espressiva; in Germania l’Espressionismo (1920-27) fa della messa in scena lo specchio dell’angoscia interiore degli autori (fig.2), mentre il Kammerspielfilm e la Neue Sachlichkeit propongono riflessioni esistenziali; in Russia, invece, la scuola sovietica (1925-33) articola il racconto di temi storico-rivoluzionari sull’utilizzo innovativo del montaggio. Nonostante queste peculiarità locali, tuttavia, il mercato internazionale dominato da Hollywood vede un appiattimento sui canoni statunitensi, il cosiddetto “stile internazionale”, per motivi concorrenziali. Si delineano perciò già dopo la Grande Guerra tre grandi filoni cinematografici: in ordine, l’intrattenimento popolare in stile hollywoodiano, il cinema d’arte di alternativa europea e la nicchia del cinema sperimentale, sospinto da tendenze 48
3. l’evoluzione del CINEMA
sotto, fig. 2 Il gabinetto del dottor Caligari, Robert Wiene, 1920 a fianco, fig. 3 Casablanca, Michael Curtiz, 1942 a destra, fig. 4 Ladri di biciclette, Vittorio de Sica, 1948
dada, surrealiste ed astratte. Il cinema d’arte è però uno strumento comunicativo delicato, poiché utilizza le due ore della proiezione per porre lo spettatore di fronte a profondi interrogativi, talvolta eticamente o politicamente scomodi, anziché distrarlo dai problemi quotidiani. Perciò, è comprensibile come durante gli anni Trenta sia schiacciato dall’ascesa dei regimi totalitari, che preferiscono virare sull’evasione di commedie e melodrammi. Così accade in Germania ed Italia, a fianco di una modesta produzione propagandistica, mentre in Urss il 1934 vede calare la scure della censura in nome del Realismo
Socialista, biografico e servo del regime. L’unica proposta indipendente del Vecchio Continente è rappresentata dalla Francia, dove si afferma una sorta di realismo poetico molto autoriale e personale in un panorama fortemente disomogeneo e frammentario. Negli stessi anni, invece, gli Usa perfezionano lo “studio system”: la concentrazione verticale dell’industria d’intrattenimento popolare è una perfetta macchina da soldi basata su budget altissimi e divi di fama mondiale, in grado di sfornare capolavori di successo planetario come Via col vento e Casablanca (fig.3). Infine, gli anni della guerra per ragioni economiche e propagandistiche producono un generale impoverimento qualitativo dei film europei. Al termine del conflitto, riprende ad allargarsi il solco tra la concezione statunitense di cinema e quella europea: la prima come proficuo mercato di spettacolo, la seconda come fertile terreno di espressione personale. Negli Usa, infatti, con la proliferazione di nuove case produttrici indipendenti si espandono ulteriormente le possibilità economiche del business, con una fioritura di generi low-cost tra le maglie più lasse della censura (horror, nudies, musical, delinquenza). In tal modo si riesce ad effettuare una minuziosa e redditizia
segmentazione del pubblico, che vede ora primeggiare la fascia adolescenziale. In Europa, invece, si assiste ad una certa codifica del “film moderno”, i cui tratti fondamentali sono una volontà fortemente riflessiva, una rappresentazione del mondo realistica e una caratterizzazione fortemente autoriale. Ogni Paese sviluppa questi aspetti in cinematografie nazionali peculiari che si oppongono, diversificando l’offerta, all’intrattenimento americano. L’Italia è la prima a salire alla ribalta. Già sul finire della guerra con Ossessione (1943) esplode il fenomeno disomogeneo del Neorealismo (1943-51), che esplora con disillusione l’inafferrabilità del mondo, le difficoltà della vita rurale e la pesante eredità storica attraverso innovative tecniche narrative (fig.4). Trame inconcluse e sfilacciate, nuovi paradigmi produttivi e soggetti calati nella realtà popolare ne fanno un punto di riferimento per il cinema di tutto il mondo, nonché l’apice storico di quello italiano. Il dopoguerra tuttavia è il momento in cui correnti secondarie del cinema arrivano ad influenzare i maggiori spettacoli proiettati in sala: il documentario personale, infatti, liberatosi dall’impegno politico, contribuisce ad affermare l’espressione del singolo autore e la riflessione; il “cinema diretto” (1958-63), invece, nelle sue varie declinazioni nazionali spinge verso un rinnovato realismo ed un rapporto meno mediato e pianificato con le riprese, anche grazie all’alleggerimento tecnologico delle apparecchiature. Oltre a ciò, il panorama europeo del film del dopoguerra rimane caratterizzato da una stabile fetta di produzione d’intrattenimento, un filone di “cinema di qualità” solitamente frutto di adattamenti letterari ed un ristretto mercato di sperimentazioni. Emerge tuttavia in questo schema una teoria, più che una effettiva corrente, frutto del dibattito sulle riviste francesi di settore: la “politique des auteurs”, in cui si sottolinea la centralità del ruolo del regista 49
e la concezione del film come sua pura creazione autoriale. Queste idee trovano una prima realizzazione in Francia con l’affermazione di un’ulteriore innovativa concezione del film: quella della Nouvelle Vague (1958-60), frammentaria corrente di portata rivoluzionaria, secondo cui il regista è libero di esprimere nel film la propria visione del mondo sia nella sceneggiatura che nello stile visivo, abbattendo sistematicamente ogni convenzione consolidata nella tradizione (fig.6). Tuttavia, il più chiaro esempio di caratterizzazione personale del cinema moderno, sia per tematiche che per stile, è offerta da un variegato panorama di singoli registi che riscrivono in maniera individuale l’idea stessa di film: lo spagnolo Luis Buñuel, lo svedese Ingmar Bergman, i francesi Robert Bresson e Jacques Tati, gli italiani Federico Fellini (fig.5)e Michelangelo Antonioni (fig.7). Oltre a queste tendenze maggiori, comunque, gli anni Cinquanta e Sessanta in Europa vedono un attivo fiorire di movimenti eterogenei di rinnovamento nella direzione di maggiore libertà espressiva, realismo e destrutturazione della narrazione. In Italia si sviluppa un “nuovo cinema” ispirato al modernismo, tra cui spiccano Pier Paolo Pasolini e Bernardo Bertolucci, insieme al peculiare genere dello Spaghetti Western di Sergio Leone, tra realismo e spettacolo. Anche appunto nel campo dell’intrattenimento, questo 50
periodo vede insinuarsi dei malcelati spunti riflessivi sotto la semplice evasione, come la “commedia all’italiana” che per vent’anni maschererà con la risata satirica un’amara riflessione sull’evoluzione della società. In Francia, invece, prende piede un ulteriore “nuovo cinema” della Rive Gauche, di cui si ricorda indubbiamente il capostipite “Hiroshima mon amour” di Alain Resnais. In Gran Bretagna si manifesta prima la corrente dei “kitchen sink”, ispirati al realismo ed alla coscienza della working class, per poi virare negli anni Sessanta alla frammentazione spazio-temporale in stile Nouvelle Vague dei film ispirati alla “swinging London”. Anche in Urss, infine, l’allentamento della censura ed il decentramento produttivo in seguito alla morte di Stalin consentono
l’allontanamento dalle tematiche storiche in favore di una fioritura di lirismi personali, tra cui emerge la figura di Andrej Tarkovskij. Gli anni Sessanta sono anche il decennio della contestazione. Istanze di cambiamento sociale in nome di un egalitarismo umanista si sollevano ovunque, commistionate a proteste studentesche, femministe e antirazziste. Il medium cinematografico non è immune alle nuove spinte ideologiche, che si impossessano della pellicola per “combattere il sistema”: il film diventa dunque potente strumento di lotta politica attiva. Due sono i filoni di maggiore portata: il “cinema impegnato” ed il “cinema politico”. Il primo riprende tecniche e forme del “cinema diretto” con dedizione ai problemi sociali, mentre il secondo si schiera più radicalmente dalla parte dell’innovazione, facendo della soggettività, degli spunti della scuola sovietica e della violenza espressiva i propri tratti caratteristici. Anche i consolidati cinema d’intrattenimento e d’arte, tuttavia, subiscono una certa dose di venti politicizzati. L’ondata di contestazione ha però vita breve, tant’è che già negli anni Settanta la protesta collettiva si smorza in aspetti più individuali e mitigati. L’eterogeneo cinema d’arte europeo, nel complesso, a partire dal secondo dopoguerra conosce un notevole susseguirsi di sviluppi nelle forme e nelle idee che liberano il regista da vincoli produttivi in favore di una personale espressività. Si afferma la figura del regista come artista e del film come prodotto artistico in grado di indagare questioni profonde. Gli Stati Uniti invece rimangono fedeli alla loro concezione di cinema come entertainment business. Pur aprendosi alle
influenze del cinema d’essai europeo, mantengono quei canoni classici consolidati a Hollywood ancora negli anni Venti. Sopraggiunge un cambiamento solo quando la macchina economica, minata dalla concorrenza televisiva, si inceppa negli anni Sessanta. Innanzitutto, si ridimensiona il sistema produttivo basato su rischiosi budget astronomici, consentendo maggiore voce in capitolo ai registi; poi si corre ai ripari per arginare il calo di spettatori ed invertire la tendenza. In tale ottica, si riconsiderano in prospettiva commerciale le istanze radicali della scena underground, nate sull’onda della pop art a tematica fortemente attrattiva per i più giovani (sesso, droga e musica), e si ricorre ancora una volta ad una segmentazione del target con un nuovo sistema di rating. Continua però a sussistere la sproporzione tra pochissimi titoli di successo planetario ed un sistema d’intrattenimento che non attira
in alto a fianco, fig. 5 La Dolce Vita, Federico Fellini, 1960 a fianco fig. 6 Fino all’ultimo respiro, Jean-Luc Godard, 1942 sopra, fig. 7 Zabriskie Point, Michelangelo Antonioni, 1970 51
più. Si ingloba allora il film all’interno di una rete di prodotti commerciali transmediali, che a partire dalle saghe si espandono a dischi musicali, abbigliamento, fumetti ed alimentari. Le nuove generazioni, tuttavia, recepiscono e fanno proprie le innovazioni del cinema d’arte europeo: l’introspezione psicologica, le tecniche in rottura con la tradizione e la “politica dell’autore”. Il successo che ne consegue si rivela un’arma a doppio taglio: se da un lato garantisce l’affermazione del rinnovamento, dall’altro lo blocca sul nascere. A cavallo tra la fine degli anni Sessanta e i primissimi anni Ottanta, prendendo come riferimento Il laureato (1967) di Nichols e Un sogno lungo un giorno (1982) di Coppola, si consuma dunque la parabola della New Hollywood: l’originale business dell’intrattenimento è immutato, ma si pone alla base di una produzione cinematografica più aperta alle esigenze creative ed espressive dei registi. L’opera cinematografica non è più quindi solo un mero spettacolo audiovisivo che tramuta un
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investimento iniziale in un ricavo maggiore, ma può scendere a compromessi con la sensibilità artistica dei suoi autori (ove richiesto) (fig.8). Questa concezione del medium cinematografico si rafforza anche nel decennio a seguire: negli anni Ottanta, infatti, i film d’autore americani diventano anche i padroni della scena mainstream. La spettacolarità e le colossali produzioni o in caso contrario la sottile ironia e l’arguzia fanno del film una formidabile attrazione da condire con una riflessione sulla società. La tendenza prosegue anche negli anni Novanta e nel nuovo millennio, con l’affermazione del cinema come pilastro portante della cultura: Hollywood rimane prima di tutto un mercato di spettacolo e intrattenimento, ma la declinazione introspettiva e personale o la tematica impegnata ed attuale viene molto spesso apprezzata. Con il passare degli anni, tuttavia, complici l’esaurimento della generazione innovativa emersa negli anni Settanta, il boom delle tecnologie digitali come il 3D o la motion capture, il calo degli spettatori e la crisi economica occidentale, negli anni Duemila si registra una virata verso la spettacolarità più pura: si ripete una condensazione degli incassi su pochi titoli, ragion per cui si agglomerano enormi produzioni di blockbuster dal guadagno sicuro (fig.10). Viene messa da parte l’originalità autoriale in nome della fama pregressa del regista, garanzia di successo, e si recuperano sceneggiature familiari e conosciute al pubblico: da qui, il decollo di remake, trasposizioni letterarie e le fortunatissime saghe tratte dai fumetti. Durante questi decenni, ancora una volta l’Europa sceglie un’altra strada. A partire dagli anni Settanta, infatti, il panorama cinematografico comincia a patire fortemente la concorrenza, televisiva ed hollywoodiana, e la magrezza economica. Questa volta però, complice il contemporaneo declino e successivo nuovo decollo dei kolossal americani, il Vecchio Continente (seguito poco più tardi dai nuovi Paesi
a sinistra, fig. 8 Il Padrino, Francis Ford Coppola, 1972
a destra, fig. 9 L’ultimo imperatore, Bernardo Bertolucci, 1987
sotto, fig. 10 Gravity, Alfonso Cuaròn, 2013
sorti dalla dissoluzione dell’Urss) decide di smarcarsi e trovare un proprio approccio al cinema. Come da tradizione, non punta alla spettacolarizzazione estrema quanto invece alla valorizzazione della qualità delle pellicole (fig.9). Innanzitutto intervengono economicamente gli Stati, che cercano dunque di privilegiare il valore culturale del film come forma d’arte popolare rispetto alla sua ipertrofia audiovisiva; poi gli stessi governi si impegnano ad edificare un tessuto più connesso a livello continentale con il superamento delle strutture nazionali, in modo da competere con gli Usa in maniera meno impari. Inoltre, si recupera il modello vincente del cinema d’arte moderno, pacato e introspettivo, che oltretutto era riuscito a fare breccia nel pubblico oltreoceano. Infine, si prendono le distanze dal modello di immagini ipercinetiche
degli Usa, dove regnano movimento ed effetti speciali, per adottare uno stile più pittorico, ancorato al valore estetico ed alle tradizioni locali. Si sviluppa allora un nuovo cinema d’autore di successo. In parallelo, si punta sui caratteri locali anche nel filone d’intrattenimento, sviluppando un cinema di consumo nazional-popolare ancora una volta in netta opposizione alla concorrenza hollywoodiana. Questo cinema non ha niente a che vedere perciò con il trionfo di effetti speciali, ma preferisce piuttosto accennare, ridicolizzare o approfondire aspetti tipici legati alla società locale.
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4. il BUSINESS
In precedenza avevo posto l’accento su come sia insito nella natura del cinema un posizionamento oscillante tra i due estremi spesso conflittuali di arte e profitto. Come sicuramente si è notato dal riassunto storico, gli Stati Uniti non hanno mai avuto dubbi in materia, mentre più altalenante è stato l’andamento europeo. Vediamone alcune ragioni e dinamiche. Sul finire dell’Ottocento quando hanno luogo le prime proiezioni delle pellicole, l’America è meta di una fortissima immigrazione europea ed è in corso il suo decollo industriale: la novità del cinematografo dunque incontra la domanda di intrattenimento di un mercato interno in crescita galoppante. Come testimoniano subito i nickelodeon, si scopre ben presto che il cinema è un business estremamente redditizio. Da quel momento, gli Usa si guadagnano la posizione di incontrastato dominio mondiale che mantengono tuttora. Il meccanismo è semplice e ricalca la classica logica del profitto alla base del capitalismo, usare la ricchezza per produrre altra ricchezza: poiché gli Stati Uniti hanno un mercato interno che può essere paragonato a quello complessivo dell’Europa, il loro cinema produce ovviamente più ricavi dei singoli Paesi europei. Maggiori introiti significano possibilità di elevare i budget dei film per realizzare prodotti più spettacolari, in grado di attrarre nuovi spettatori e garantire profitti ancora maggiori. Ovviamente, il prodotto medio confezionato dev’essere desiderabile, abbordabile, comprensibile e soddisfacente per il maggior numero possibile di persone, da cui deriva l’inclinazione hollywoodiana all’intrattenimento ed allo spettacolo. Questo circolo virtuoso dell’investimento cinematografico diventa dannoso, se non letale, per le produzioni europee nel momento in cui gli americani, una volta rientrati delle spese di produzione con i ricavi del mercato interno, sbarcano con le proprie pellicole in Europa. Sbaragliano ovviamente le singole concorrenze nazionali, sia perché possono permettersi prezzi ribassati di distribuzione, sia perché i kolossal pieni di star prodotti con budget stellari hanno un appeal sul pubblico molto maggiore degli equivalenti locali. Con questo sistema, dai film di David W. Griffith di cent’anni fa fino al più recente Gravity di Alfonso Cuaron, Hollywood ha mantenuto uno strapotere incontrastato nella fetta di mercato di gran lunga più redditizia, quella dell’intrattenimento popolare. L’altra faccia della medaglia vede invece l’Europa perennemente in cerca di capitali. Dopo averci provato con limitazioni d’importazione, restrizioni su movimenti di valute, quote fisse di mercato e sussidi statali, ha pressoché 54
dovuto rinunciare alla fetta di mercato degli effetti speciali. Inoltre, ha comunque sofferto globalmente in tutti i generi d’intrattenimento. A differenza degli Stati Uniti, dove le case di produzione hanno spesso avuto bisogno di limitazioni legali per combattere un’eccedenza di potere e ricchezza (le major), i Paesi europei al contrario hanno sempre sofferto la carenza di capitali privati, malgrado la tendenza a collaborazioni internazionali. Questo ha causato una più o meno costante presenza sussidiaria statale nell’industria cinematografica, che per tale ragione non ha potuto rincorrere il puro profitto economico ma ha dovuto considerare anche finalità culturali. Insieme a ciò, quel che si è rivelato salvifico per il cinema europeo, tuttavia, è stata l’inclinazione alla riflessione. In prima istanza, riflessione intesa come sguardo introspettivo volto a delineare pregi e difetti popolari, ridicolizzare stereotipi, tratteggiare caricature più o meno ironiche, in modo da realizzare prodotti cinematografici ben radicati sul territorio del proprio pubblico ed irraggiungibili dalla concorrenza estera. Che sia la commedia all’italiana degli anni Sessanta piuttosto che i corrispettivi Benvenuti al nord francese e Benvenuti al sud italiano del nuovo millennio, il punto di forza rimane la capacità di plasmare sceneggiature anche non eccezionali su soggetti che attingono alla cultura popolare locale. In ambito italiano, il recente clamoroso successo al botteghino dei film di Checco Zalone ne è la riprova più lampante. Ma soprattutto, riflessione intesa come interpretazione nettamente meno commerciale del cinema, utilizzato in maniera meno standardizzata e più personale, come strumento lirico di indagine introspettiva ed esistenziale. In breve, il cinema d’autore.
5. il CINEMA d’AUTORE
sopra, fig. 11 La donna che visse due volte, Alfred Hitchcock, 1958 fig. 12 Taxi Driver, Martin Scorsese, 1976
Cinema d’intrattenimento e cinema d’autore sono i due riferimenti teorici tra cui si colloca ogni prodotto cinematografico. È possibile una classificazione a patto di riconoscere, molto spesso, una compresenza delle caratteristiche di entrambi i generi: ciò che ne determina la collocazione è perciò la diversa proporzione in cui i tratti di uno e dell’altro si manifestano. Non è comunque una divisione assoluta ed univoca. Film d’arte, film d’autore, film d’essai: già la moltitudine di appellativi con cui ci si può riferire ad un prodotto non commerciale testimonia la labilità dei suoi confini. Ma quali sono le caratteristiche che fanno di un film un’opera d’autore? Nel capitolo precedente ho già affrontato l’analisi dei differenti linguaggi visivi adottati, motivo per cui ora vorrei soffermarmi su altri aspetti legati alla produzione ed alla narrazione. Innanzitutto, bisogna ripartire ad inquadrare i due filoni cinematografici dal principale fattore discriminante alla loro base: lo scopo ultimo dell’opera, il successo economico o l’espressione personale. Poiché il modello cinematografico americano vede il film sostanzialmente come un investimento redditizio, non deve meravigliare che il concetto stesso di cinema d’autore sia stato sviluppato in Europa. Il momento topico corrisponde con l’affermazione nella Francia del secondo dopoguerra della politique des auteurs, la teorizzazione stessa del film come opera d’arte di un cineasta. È il frutto di una mobilitazione accademica portata avanti per lo più su due riviste di settore, Revue du Cinéma e la celeberrima Cahiers du Cinéma, nettamente influenzato dal contesto geografico e storico in cui si situa: la riflessione socialista sugli orrori della guerra, il rinnovato impegno dell’arte come veicolo di pensiero, lo smascheramento dai canoni formali verso un crudo realismo, il Neorealismo 55
italiano, il desiderio di rottura con il passato e la crescente protesta delle nuove generazioni. Tutto ciò, immerso in un contesto di produzioni cinematografiche tradizionalmente caratterizzato da una costellazione di piccole realtà incapaci di coagularsi in importanti strutture economiche, che si traduce in una maggiore libertà espressiva concessa al regista. Questa concezione filosofica di film equipara la narrazione cinematografica a quella letteraria, da un lato dunque inquadrando il cinema non nel campo dell’intrattenimento ma in quello dell’arte, dall’altro ponendo l’accento proprio sulla scrittura stessa del film, nella veste della sceneggiatura. Da qui l’esaltazione della figura del regista che si fa sceneggiatore delle proprie opere, dunque vero padre intellettuale del lavoro dall’inizio alla fine. Ciò che interessa è, infatti, oltre alla tematica trattata, la particolare unità stilistica personale che il cineasta riesce ad imprimere alle opere: la traduzione della propria visione del mondo in linguaggio cinematografico. Questa concezione autoriale del cinema si afferma nel 56
panorama europeo con figure poi diventate storiche, sia per l’inclinazione artistica del cinema continentale che per la malleabilità delle produzioni alle esigenze dei registi. Con il tempo, tuttavia, l’influenza si espande anche oltreoceano. Innanzitutto, vengono rivalutati quei registi che, malgrado non padroni dei propri film secondo il modello europeo, riescono comunque a caratterizzarli in maniera forte e personale, come ad esempio Alfred Hitchcock; inoltre, si fa sentire la protesta di una nuova generazione di cineasti come Coppola e Scorsese, decisi ad appropriarsi delle teorie europee nel contesto hollywoodiano. Non bisogna però pensare che il cinema d’autore sia nato nel dopoguerra grazie alla politique des auteurs. Anche se non teorizzata nero su bianco, infatti, l’inclinazione di certi registi ad una personale interpretazione del medium è sempre stata presente: basti pensare ai capolavori di Carl Theodor Dreyer, Charlie Chaplin, Sergei Eisenstein o Fritz Lang. Ciò che tuttavia si afferma nel dopoguerra, come già visto, è la destrutturazione del classico prodotto
fig. 13 2001: Odissea nello spazio, Stanley Kubrick, 1968
hollywoodiano ad opera del film moderno, il quale edifica un nuovo paradigma di cinema improntato alla riflessione introspettiva. Per questo motivo, il cinema d’autore è solitamente affiancato al dramma, ma questa sovrapposizione non è obbligatoria. A livello narrativo, il prodotto autoriale si configura per una preponderanza dell’analisi psicologica dei personaggi rispetto all’azione e spesso per lo scardinamento della classica struttura narrativa romanzesca, quella articolata sul modello di attanti di Greimas nella sequenza di equilibrio-disequilibrio-riequilibrio. La trama può allora risultare difficile da seguire o anche totalmente assente, preferendole una semplice giustapposizione poetica di pensieri o episodi. Ciò che conta è infatti la riflessione sviluppata dal cineasta per coinvolgere lo spettatore, non il racconto in cui i personaggi sono coinvolti. Si capisce quindi come questa particolare struttura espressiva del film sia più incline alla tensione drammatica piuttosto che alla leggerezza del sorriso: tuttavia, casi rari come il già citato Chaplin, Jacques Tati o Woody Allen testimoniano come il cinema d’autore possa
prendere la forma anche della commedia. In sostanza, non si può confinare il cinema d’autore dentro a dei canoni troppo rigidi, se non evidenziandone le caratteristiche più frequentemente ricorrenti. La sua stessa natura di opera fortemente personale ne pregiudica l’incasellamento secondo regole ferree. In quest’ottica, i lavori di Paolo Sorrentino si possono certamente considerare più vicini al polo dell’autorialità rispetto a quello dell’intrattenimento: il regista è infatti anche sceneggiatore dei propri lavori, nei quali prevale decisamente la caratterizzazione psicologica rispetto all’azione, e in cui si nota una ricorrenza di personaggi e tematiche. Sebbene le strutture narrative siano, nella loro limitatezza, solitamente classiche, i suoi film sono pervasi da una costante attitudine profondamente riflessiva. Ed il tutto è presentato attraverso uno stile visivo senza dubbio personale e peculiare, non a caso frutto della collaborazione continuativa con Luca Bigazzi.
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Lo stato delle cose, Wim Wenders, 1982
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LE FIGURE PROFESSIONALI
2.2
Indipendentemente dalla natura commerciale o artistica, la realizzazione di un film è un’opera che richiede determinate competenze e perciò precise figure professionali. Si è soliti attribuire la paternità del film al regista, ma dietro tale espressione si nascondono infinite possibilità del suo intervento e controllo sull’opera. Prima di arrivare alla figura di Paolo Sorrentino, perciò, approfondirò l’evoluzione storica della regia. Di pari passo, seguirò lo stesso percorso anche per il direttore della fotografia, in quanto di particolare influenza nella determinazione dell’impatto visivo del film. 59
1. il REGISTA
Non è affatto semplice definire il ruolo del regista sul set. Innanzitutto, la complessità del progetto cinematografico lo pone sì al vertice di una piramide di collaboratori con competenze specializzate, ma non ne circoscrive la natura dei rapporti con questi. In secondo luogo, tale complessità si traduce in un impegno economico non indifferente che lo porta irrimediabilmente a doversi confrontare con il produttore. Comunque la si voglia vedere, l’ago della bilancia e con esso il grado di libertà artistica sono nelle mani della figura che sta a monte di tutto il progetto per questioni economiche, appunto il produttore. La storica inclinazione americana a interpretare il cinema come business ha disegnato una regia tecnica ed esecutiva adatta a realizzare prodotti commerciali di successo, mentre l’inclinazione europea a interpretare il cinema come arte ha formato una regia artistica e intellettuale adatta ad inventare prodotti culturali, nei limiti della sostenibilità economica: la prima lavora secondo principi di spettacolarità, economicità e popolarità, mentre la seconda lavora secondo poeticità, originalità e innovazione. Compito del regista è la traduzione visiva del testo della sceneggiatura nelle immagini del film. D’accordo con il produttore, la sua competenza può comprendere: il posizionamento della macchina da presa, la progettazione dei suoi movimenti, la direzione degli attori nell’interpretazione, l’assicurazione del mantenimento dell’opera all’interno di vincoli temporali e monetari, la scelta dei propri collaboratori e soprattutto l’armonizzazione del lavoro dei diversi reparti della troupe nella direzione che ritiene migliore. Il regista non ha un rapporto standardizzato con il resto dei collaboratori, ma su di essi comunque mantiene il controllo: in ogni set, è sempre lui ad avere l’ultima parola. Questo aspetto evidenzia una peculiarità del cinema, cioè la sua natura indispensabilmente collaborativa opposta all’imprescindibile singolarità del risultato artistico. Il regista è necessario ma non sufficiente ad una riuscita coerente ed unitaria del film, tanto quanto l’équipe di collaboratori è necessaria ma non sufficiente ad un risultato professionale nei singoli reparti: il regista non lotta contro le sensibilità altrui ma, al contrario, fa in modo che la propria idea si esprima attraverso di esse, armonizzate nella stessa direzione espressiva, che è la sua visione di fondo. Questo perché ha il privilegio di poter pensare al film in ogni suo aspetto, a differenza degli altri lavoratori, ma non può realizzarlo da solo. Ecco perché tanta variabilità nella casistica di gestione dei rapporti sul set: essi sono costruiti di film in film secondo la personalità del regista prima di tutto e delle altre figure poi. 60
2. la storia della REGIA
fig. 14 Nascita di una nazione, David W. Griffith, 1915 L’opera più innovativa del regista getta le basi del moderno linguaggio cinematografico
I primissimi prodotti cinematografici, come quelli dei Lumière, nascono come l’opera di singoli personaggi, solitamente tecnici provenienti dal mondo della fotografia allo stesso tempo anche artigiani, scienziati, inventori, operatori, registi, produttori e distributori. Agli esordi del cinema di finzione la situazione non è differente, come testimonia George Méliès, produttore e curatore di set, costumi, illuminazione, riprese, recitazione e montaggio. La regia nasce dunque parte di una figura autoriale a tutto tondo, a cui le abilità tecniche servono necessariamente per esprimere la propria inclinazione artistica. La concentrazione di tutte le funzioni in una singola persona è resa possibile dalla semplicità del prodotto finito, solitamente di pochissimi minuti, con pochissimi piani ancora caratterizzati dalla tradizione teatrale dell’inquadratura fissa, frontale a figura intera. Con gli anni, tuttavia, i pionieri della macchina da presa sperimentano soluzioni innovative. Tutte queste soluzioni tecniche ed artistiche, comunque, rimangono fino alla guerra frutto
della visionarietà del singolo regista artigiano, il quale spesso si addossa anche la responsabilità economica del progetto e dunque il ruolo di produttore. Restano da definire i canoni estetici propri del nuovo medium, che nasce obbligatoriamente legato all’impostazione teatrale: è l’America la fucina linguistica del cinema. Nel 1903 Edwin Porter con Assalto al treno è il primo a sperimentare il mezzo primo piano della storia, poi consolidatosi nel primo piano odierno sul finire degli anni Dieci. Nel 1909 si diffonde la tendenza a tenere una distanza della macchina da presa di 9 piedi dagli attori (2,7 metri) che dà vita al piano americano, pensato per far apprezzare maggiormente l’espressione dei figuranti. Ma sono soprattutto alcune figure chiave in regia negli anni Dieci come Thomas Ince, James Cruze e David W. Griffth con i suoi capolavori Nascita di una nazione (1915) e Intolerance (1916), oltre che gli scandinavi Urban Gad e Victor Sjostrom, i veri autori della nascita del linguaggio cinematografico, sia dal punto di vista narrativo che da quello estetico. Il boom di successo del nuovo intrattenimento non fa altro che dare maggiore energia a tutta l’evoluzione del sistema cinema, a cui il pubblico chiede sempre più spettacolarità e creatività: rispondono dunque i registi reinventando nuove espressioni formali sempre più complesse, come i movimenti macchina. Si profila il regista come esperto tecnico di realizzazione, sovrintendente e responsabile del film: per la sua linearità narrativa, per la sua omogeneità visiva, per la sua artisticità, per la sua coerenza recitativa, per la sua innovatività. È l’epoca della primissima generazione di registi: oltre ai già citati pionieri, Cecil B. DeMille e Charlie Chaplin negli Usa, Abel Gance, Jean Epstein e Marcel L’Herbier in Francia, Giovanni Pastrone, Enrico Guazzoni e Filoteo Alberini, autori dell’ascesa internazionale di kolossal peplum pre-bellici, in Italia. In questa fase iniziale, il regista gode ancora di ampia libertà poiché, può essere produttore del film e autore della sceneggiatura, può tradurla in immagini secondo la propria visione e può contribuire alla sperimentazione del nascente linguaggio. Il prezzo che gli è richiesto è una minuziosa conoscenza tecnica del set, dalla macchina da presa all’impianto elettrico e dalle luci ai fondali, tant’è che spesso contribuisce egli stesso all’innovazione per risolvere determinate esigenze espressive. È nel complesso un vero autore dell’opera, tanto artista quanto professionista, e la sua posizione di incontrastato predominio all’interno della troupe si riflette in pellicole risultanti che portano tratti caratteristici della sua sensibilità: sono film fatti dai registi. 61
La crescente domanda porta con sé moltissimi soldi, reinvestiti per offrire prodotti sempre più attraenti: la necessità di ottimizzare tempi e costi causa allora una segmentazione del lavoro tra diversi settori produttivi e una specializzazione di professionisti. Il primordiale sistema produttivo che si organizza in questo contesto, di pari passo con l’apparizione delle prime sceneggiature, principalmente tra la Pathé francese e le case Usa, getta le basi per la seguente differenziazione della figura professionale del regista. Non è ancora delineata una sua specificità, perciò la gestione del progetto cinematografico di luminari produttori è affidata a personale dalla provenienza variegata: se in Francia ed in generale in Europa si privilegiano scrittori, letterati e figure di teatro, in America si preferisce il profilo del tecnico, l’esperto di fotografia o l’inventore scienziato. Ecco allora che si separano già alla nascita le tipologie in cabina di regia: da un lato la figura autoriale e creativa, dall’altro la figura realizzativa e pratica. Una sorta di fordismo cinematografico si sviluppa negli Usa a partire dal 1912 ed esplode dopo la Grande Guerra, quando il mercato a concentrazione verticale vede nascere le cinque major sorelle (Paramount, RKO, Warner, Fox, Metro Goldwin Meyer). La filiera da esse posseduta viene articolata in produzione, distribuzione ed esercizio, mentre sul set si assiste alla codificazione delle differenti figure specializzate. È il periodo di assestamento del linguaggio, non solo sul lato narrativo ed estetico ma anche sotto l’aspetto produttivo. Si gettano le basi dello “studio system” che verrà negli anni Trenta, al momento con l’imposizione da parte della produzione di tempistiche e budget ben precisi al regista: inoltre, lo spostamento dall’esterno in enormi teatri di posa ne consente un minuzioso monitoraggio dell’attività. Fiorisce però una nuova generazione di registi, quali Josef Von Sternberg, John Ford, Howard Hawks, Raoul Walsh, William Wyler, King Vidor e Frank Capra. Gli stessi anni Venti, invece, comportano per l’Europa l’adozione di un proprio modello d’industria cinematografica: ai singoli Paesi manca il volume enorme di capitali determinato da un mercato interno di altra scala, cosa che impedisce la sopraffazione del produttore sulla figura del regista. Questi rimane infatti la persona più importante del set e gode di libertà quasi assolute. Nel particolare, ciò che lo differenzia dal collega d’oltreoceano è il suo rapporto con il soggetto e la sceneggiatura: il regista europeo firma un contratto con la produzione e successivamente sceglie o scrive di proprio pugno una storia; il regista americano firma un contratto con la produzione e successivamente realizza ciò che questa decide di offrirgli. In Germania, l’inflazione della Repubblica di Weimar spinge all’investimento economico, che fa decollare lo sviluppo del cinema: si costruiscono teatri di posa enormi dotati di illuminazione di portata hollywoodiana e apparecchi per complessi movimenti macchina, con i quali gli astri nascenti come Fritz Lang, Friedrich Murnau, Georg Pabst e Ernst Lubitsch siglano capolavori del cinema muto. In Francia, la frammentazione del sistema produttivo consente una grande autonomia ai singoli registi come Max Ophüls, René Clair, Jean Cocteau, Luis Buñuel o Jean Renoir e Julien Duvivier. In Russia, invece, l’ondata rivoluzionaria offre un panorama di nuove leve come Lev Kulesov, Vsevolod Pudovkin, Dziga 62
dall’alto verso il basso: fig. 15 Metropolis, Fritz Lang, 1927 Gli enormi teatri di posa tedeschi consentono la realizzazione di set stratosferici fig.16 La corazzata Potemkin, Sergei Eisenstein, 1925 Il più famoso regista russo realizza un’opera rimasta capostipite di un linguaggio innovativo che fa del montaggio il cardine espressivo del film
dall’alto verso il basso: fig.17 La passione di Giovanna d’Arco, Carl T. Dreyer, 1928 L’autore realizza un’opera composta quasi esclusivamente da una serie infinita di primi piani particolarmente espressivi fig. 18 Shanghai Express, Josef Von Sternberg, 1932 Uno dei primi successi al botteghino che consacrano la diva Marlene Dietrich
Albano L., Il secolo della regia, Padova, Marsilio, 2004 (8)
Vertov e Sergei Eisenstein, destinati a lasciare il segno. Essi godono di spazi intellettuali sconosciuti al resto dell’Occidente per la natura del panorama cinematografico locale: la statale Goskino detiene il monopolio produttivo e non inclina il cinema al guadagno economico. Con ciò concede agli autori una libertà artistica totale, creativa quanto tecnica e sperimentale, perfino teorica, poiché essi possono intervenire e modificare la propria opera dalla stesura del soggetto al montaggio finale. Quella generazione di registi è la stessa che teorizza e mette in pratica un linguaggio cinematografico d’avanguardia, che supera il modello improntato alla trasparenza hollywoodiana in favore di un cinema più autonomo, distaccato dalla riproduzione del reale e improntato alla rappresentazione simbolica di idee tramite immagini. Allargando lo sguardo agli altri Paesi, infine, gli anni Venti in Europa segnano l’inizio della collaborazione in produzioni pluri-nazionali per cercare di competere ad armi pari nel budget con gli Stati Uniti: conoscono il trionfo della libertà del movimento macchina, prima che il sonoro complichi le cose, e l’affermazione di un cinema in cui è il regista ad affermare la propria sensibilità artistica. La storia inclemente, tuttavia, fa sì che la fecondità ambientale sia dei cineasti tedeschi che di quelli russi abbia termine ben presto, già nei primi anni Trenta: i primi si spostano ad Hollywood complice l’ascesa nazista, i secondi vengono violentemente sottomessi alle direttive di realismo socialista del regime stalinista. Negli anni Trenta, dunque, la predominanza della figura del regista si sgretola velocemente. Nel Vecchio Continente i motivi sono legati alla degenerazione del clima politico, mentre oltreoceano la ragione fondamentale è il definitivo perfezionamento del cinema hollywoodiano classico: sia, dopo l’aggiustamento dei problemi del sonoro, in termini di un arresto dell’innovazione linguistica e tecnologica che, vera causa del precedente, nel consolidamento dello “studio system”. Questa sorta di militaristica struttura produttiva sostanzialmente piega verso le proprie finalità monetarie le capacità tecnico-artistiche della regia, coadiuvata da un esercito di sottoposti perfettamente specializzati. La produzione toglie al regista la voce in capitolo su sceneggiatura, posizionamento della macchina da presa, fotografia e montaggio dell’opera, compiendo un’esautorazione delle sue prerogative sul set: gli fornisce una “sceneggiatura di ferro” non aperta alla modifica e ne esige la realizzazione fedele secondo una precisa tabella di marcia. Ad Hollywood la figura del regista viene svuotata delle sue capacità tecniche ed assimilata ad un impiegato di lusso della filiera, «perché l’apparato cinematografico nel suo complesso mette a punto la tecnica più economica e trasparente che ci può essere. Un film si compone di una successione di sequenze in piano americano, con alcuni movimenti di macchina e un gioco continuo di campi e controcampi. Il montaggio, che è stato essenziale nel cinema muto, è stato sostituito dal découpage»(8). I film sono quindi fatti dal produttore. Ciò nonostante, alcuni personaggi riescono a mantenere un certo controllo sulle proprie opere: la nuova generazione di Preston Sturges, Joseph Mankiewicz, John Houston ed Elia Kazan si scontra frequentemente con la produzione, Orson Welles prende la strada indipendente dell’autoproduzione mentre gli europei importati, del calibro di Alfred Hitchcock, Billy Wilder ed i sopraccitati tedeschi e francesi in fuga, sfruttano 63
la propria popolarità tra il pubblico, sinonimo di certezza d’incassi, per reclamare autonomia. Per la regia lo “studio system” è un momento comunque importante, perché lo svuotamento delle proprie prerogative comporta una presa di coscienza del proprio ruolo (perduto). Il travaso di professionisti cinematografici dall’Europa all’America dovuto alla Seconda Guerra Mondiale produce conseguenze di differente inclinazione. Da un lato, registi e operatori migranti arricchiscono il panorama hollywoodiano con il proprio bagaglio culturale, fatto di maggiore lirismo dal lato estetico e di un impiego virtuoso del movimento macchina. Dall’altro, però, il mostro economico americano stravolge la loro concezione e pratica di cinema, dal modo artigianale e fluido in cui essi controllano dalla sceneggiatura al final cut, ad un modo industriale e discontinuo in cui rivestono soltanto il ruolo di ingranaggio all’interno della complessa macchina. Questa seconda conseguenza è notevolmente di maggiore impatto, tant’è che lo stile del cinema classico si affina nelle sue caratteristiche di trasparenza: illusione di realtà, continuità spazio-temporale, linearità, chiarezza, comprensibilità, occultamento dei meccanismi produttivi, equilibrio compositivo, illuminazione a tre punti etc. Per il potere culturale di Hollywood nel mondo e per la durata di tale modello estetico-linguistico, il radicamento è talmente forte che anche oggi, sessant’anni dopo, questo stile rimane il riferimento di gran parte del cinema americano e di tutto quello d’intrattenimento europeo. Sono soltanto la condanna per condotta monopolistica inflitta dalla Corte Suprema agli studios nel 1948 e la successiva concorrenza spietata televisiva a segnare l’inizio del declino della Golden Age hollywoodiana. Nel contempo, gli anni Quaranta segnano il risveglio del cinema italiano, che con il filone altamente locale del Neorealismo inizia un processo che ricolloca la figura registica al centro dell’attenzione nel mondo. Il Neorealismo ha il merito di riportare l’Italia sul palcoscenico cinematografico mondiale, ma è reso possibile solo dal totale disfacimento del sistema produttivo in cui versa il Paese al termine del conflitto. La tendenza alla spettacolarità hollywoodiana in materia di movimento macchina inizialmente permane, ma la disillusione che segue il conflitto rivoluziona la narrazione e la concezione del medium. La trama non è più lineare, il racconto è sfuggente e sfilacciato, il pathos emotivo è sedato e soprattutto le storie distruggono l’immaginario fiabesco della tradizione per passare alla malconcia esistenza quotidiana della gente comune. Il cinema allora non è più solo un intrattenimento spettacolare ma uno strumento di rappresentazione dell’umanità, un potente mezzo che consente ad un creatore di dare vita al proprio universo umano gravido di significati. I singoli registi, quali Roberto Rossellini, Vittorio de Sica, Luchino Visconti, Alberto Lattuada, Pietro Germi e Giuseppe De Santis, possiedono peculiarità decisamente variabili, ma l’eterogeneità della loro produzione si rivela solamente di aiuto nell’affermare la rinata consapevolezza del processo creativo. Ciò infatti concentra l’attenzione sulla sensibilità artistica della persona dietro al film, che si riscopre il regista-sceneggiatore, ed il successo internazionale del movimento riporta alla luce la potenzialità della sua figura e la sua necessità di libertà artistica. Gli anni Cinquanta nel cinema italiano sono quelli del 64
dall’alto verso il basso: fig. 19 I gioielli di Madame de..., Max Ophüls, 1953 Il regista francese adotta uno stile spettacolare che fa del movimento macchina fluido e continuo il suo marchio di fabbrica fig.20 Vacanze romane, WilliamWyler, 1953 Un successo storico della tradizione hollywoodiana con la celeberrima Audrey Hepburn
dall’alto verso il basso: fig.21 Ossessione, Luchino Visconti, 1943 Prima opera ascrivibile al filone neorealista, rimane tradizionale nell’impiego del linguaggio, con movimenti macchina complessi fig. 22 La jetée, Chris Marker, 1962 Il cortometraggio esplora un nuovo linguaggio visivo e si costituisce di foto e voce narrante, con una sola inquadratura in movimento
debutto trionfale degli autori moderni: Federico Fellini, Michelangelo Antonioni, Dino Risi, Pier Paolo Pasolini, Ettore Scola e Franco Zeffirelli, segnati da lunghi apprendistati nelle produzioni neorealiste da cui interpretano la regia come professione frutto di gavetta e conoscenze tecniche accurate. Hanno perciò una solida formazione professionale ma rivendicano totale libertà artistica: come il discorso di Pasolini sulla soggettiva libera indiretta, concepiscono un regista che parla di sé attraverso il personaggio del film, che commenta apertamente le vicende narrate, che svela aspetti nascosti e che denuncia il film come prodotto di finzione. Sono grandi cineasti ma esperti professionisti, qualità che invece, sull’onda della Nouvelle Vague, rifugge la generazione di autori del decennio successivo: Bernardo Bertolucci, Sergio Leone, Ermanno Olmi, Marco Bellocchio, Paolo e Vittorio Taviani rifiutano l’apprendimento sul set tradizionale in favore dello studio accademico più fresco. Essi sono gli ultimi grandi autori italiani, che precedono un abbassamento di qualità cinematografica tra i Sessanta e i Settanta, caratterizzato da un generale appiattimento sul cinema di genere e sul nascente divismo nazionale della “commedia all’italiana”. Oltre all’Italia, è la Francia il laboratorio di idee dove si gettano le basi ideologiche e linguistiche del film moderno. Nel 1948 appaiono sulla rivista Caméra-Stylo due saggio di Alexandre Astruc e Jean Cocteau che presentano il film come riflesso della visione registica del mondo, comparando il regista allo scrittore e la macchina da presa alla penna. Sono solo le prime di tante voci che animano i dibattiti che nel decennio successivo portano all’emersione ed all’affermazione della famosa “politique des auteurs”. Si riaccende una discussione sulla figura in regia già sviluppata dai grandi teorici come Ricciotto Canudo negli anni Venti, cercando di definire il posizionamento tra scienza e poesia, tecnica e sensibilità, programmazione e genio, catalizzatore e impositore, di una figura artistico-professionale ostica alla definizione per l’intrinseca natura impalpabile della propria opera. La posizione della “politique des auteurs” è solo una di quelle offerte dal panorama culturale in fermento, ad esempio in opposizione a quella visione che inquadra il film come prodotto collettivo non riconducibile alla singola individualità, ma è resa possibile dal definitivo superamento della concezione industriale e meccanica del film in favore di un riconoscimento artistico e culturale. In tale filosofia si esalta il ruolo del regista, considerato tanto autore, di derivazione dalle arti liberali di scrittura, come lo scrittore o il filosofo (da cui la riverenza per la fase di sceneggiatura), quanto artista, di derivazione dalle arti meccaniche, come il pittore o l’architetto. Se ne lodano perciò sia le capacità di ideazione che quelle di realizzazione, riesumando quella figura di supervisore totale del film simile al cinema delle origini. In secondo luogo, però, si plaude anche ai registi degli studios hollywoodiani in grado di trasmettere le proprie idee nella regia di film già scritti.. Queste idee rivoluzionarie portano alla deflagrazione del cinema d’intrattenimento tradizionale, censurato, incolore della Francia anni Cinquanta nell’esplosione Nouvelle Vague, teorizzata ed impersonificata da Jean-Luc Godard, François Truffaut, Eric Rohmer, Jacques Rivette e Claude Chabrol ma supportata nel cambiamento anche da altri autori come Alain Resnais, Chris Marker e Jacques Tati. La 65
nuova generazione di cinefili si impegna nella volontaria disgregazione di linguaggio ed estetica del cinema classico in nome dell’affermazione di una totale autorialità del film, con ambiguità della narrazione e un’apparente estetica dell’approssimazione. Da outsider del sistema, riportano bruscamente il potere decisionale sul film nelle mani del solo regista e si sbizzarriscono ad esplorarne le possibilità creative. Sugli influssi del Neorealismo si impegnano in una registrazione della realtà così com’è (fino a un certo punto) invece che in una ricostruzione ad hoc sul set, girando spesso in esterno e non facendo nulla per occultare i meccanismi produttivi tanto nascosti nel cinema classico della trasparenza. Coscienti della nozione del ruolo del regista, rifiutano la sceneggiatura dettagliata per l’improvvisazione, sottolineano il valore della ripresa in contrasto a quello della messa in scena, esasperano il ruolo espressivo del montaggio con frequenti jump cut, respingono l’alternanza di oggettive e soggettive in favore del piano sequenza, sottolineano i movimenti macchina a mano invece della composizione in profondità ed introducono un nuovo modello autoproduttivo low-budget totalmente indipendente e scarno, in aperta contestazione al sistema esistente fatto di capitali, star, apparecchiature, troupe. La portata della rivoluzione è storica e innesca un effetto domino di “nuovi cinema” che si propaga a livello mondiale, fino a insinuarsi nei meccanismi dell’industria hollywoodiana. La concezione di regista moderno europeo non viene particolarmente alterata nel decennio seguente, quello dell’impegno politico. In sostanza, il regista assume i connotati dell’amatore e/o del rivoluzionario, sempre nell’ottica della più totale libertà artistica, stavolta finalizzata al cambiamento sociale. Il (moderato) cambiamento del profilo in regia avviene invece sull’altra sponda dell’Atlantico con la parabola della New Hollywood, frutto dell’onda lunga autoriale europea. L’indebolimento del sistema produttivo e la sete d’innovazione segna l’esplosivo successo di registi 66
sconosciuti, che con pochi titoli cannibalizzano l’intero mercato: sono i “movie brats”, ragazzacci cresciuti a pane e cinema, anche europeo. Il Padrino (1972) di Francis Ford Coppola, Lo squalo (1975) di Steven Spielberg, Rocky (1976) di John G. Avildsen e Guerre Stellari (1977) di George Lucas certificano la capacità dei registi di sbancare al botteghino. Il regista dunque riguadagna voce in capitolo sui film, non tanto per una vittoria ideologica di libertà espressiva, quanto per la concessione di autonomia dei produttori in previsione di introiti comunque ottimali: le istanze di autorialità sono quindi assorbite e anzi messe a fruttare dal sistema americano ancora centrato sul produttore. Gli agenti degli attori, i dirigenti delle produzioni e i manager dei registi creano un sistema produttivo basato sulla negoziazione dei finanziamenti, in base alla previsione di ritorno economico tra sceneggiatura e cast.
fig. 23 Io e Annie, Woody Allen, 1977 Il regista esordisce già dai primi anni Settanta con uno stile unico e autobiografico, recitando da protagonistae esprimendo la propria visione del mondo
Dalla New Hollywood si stabilizza questo sistema produttivo, che vede nei decenni successivi ricambi generazionali: un’ennesima ondata d’importazione europea (Roman Polanski, Milos Forman, Ken Russell) unita al successo dei già citati “movie brats” con Martin Scorsese, Robert Altman, Woody Allen, Brian De Palma e Sidney Pollack. Segue negli anni Ottanta una successiva fioritura capitanata da Tim Burton, James Cameron, Spike Lee, Oliver Stone, Gus Van Sant, David Lynch e Jim Jarmusch. Ancora più recenti sono Quentin Tarantino, Joel e Ethan Coen, Sofia Coppola, David Fincher e Wes Anderson. In Europa, invece, negli anni Settanta si smorza la vena impegnata per lasciare spazio ad un rinascimento del cinema d’arte. Lo sviluppo delle holding private di comunicazione come Canal Plus, Mediaset e Channel 4 facilita uno sviluppo di una rete produttiva spesso internazionale che, unita all’intensificarsi degli scambi con l’America, cancella la nozione di cinema nazionale. A livello continentale emergono le figure di Stanley Kubrick, Peter Greenaway, Werner Fassbinder, Werner Herzog, Wim Wenders, Lars von Trier, Pedro Almodovar e Emir Kusturica, mentre a livello nazionale Nanni Moretti, Pupi Avati, Gabriele Salvatores, Giuseppe Tornatore, Gianni Amelio,
fig.24 Se mi lasci ti cancello, Michel Gondry, 2004 Il regista cresce nel mondo del videoclip musicale per poi passare alla regia cinematografica
Silvio Soldini, Matteo Garrone e, non ultimo, Paolo Sorrentino. Il vero cambiamento recente è di natura tecnica e si sviluppa dagli anni Ottanta: il galoppo tecnologico produce una moltiplicazione di forme di derivazione cinematografica, dal videoclip alla serie tv, dal film 3D al video collettivo su Youtube, che moltiplica enormemente i profili registici. Ciò pone il regista contemporaneo, tanto cinematografico quanto pubblicitario o musicale, sempre più di fronte alla necessità di conoscere approfonditamente tecnologie disponibili per la produzione e la consumazione dell’opera. Sebbene non ne sia negata la libertà artistica, dunque, oggi il regista, esattamente come nel cinema delle origini, deve tornare a farsi tecnico, inventore, scienziato, sperimentatore, o per lo meno conoscitore del suo mondo. In tutto ciò, la figura del regista rimane aperta ad un ventaglio di ruoli che vede nella totale indipendenza autoproduttiva e nella ligia dedizione alla sceneggiatura della produzione i due estremi. Da cinque anni a questa parte, tuttavia, in corrispondenza della crisi economica globale, è in corso l’affermazione di un modello produttivo completamente nuovo che fa del pubblico il finanziatore, non soltanto in ambito cinematografico: il crowdfunding. Applicato al cinema, questa logica di finanziamento dal basso ha prodotto finora un solo risultato notevole, Il cosmonauta (2013) di Nicolas Alcala. Il funzionamento è simile al cinema d’autore, ma anziché rivolgersi per il denaro ad una casa produttrice, il regista-sceneggiatore si rivolge al pubblico, vendendo merchandising in anticipo e la possibilità di contribuire in prima persona al progetto. Tale modello produttivo comporta allora una sorta di apertura della regia a chiunque, con le relative problematiche di coerenza. Tuttavia, sembra molto promettente in diversi settori ed in concomitanza al mirabolante progresso tecnologico potrebbe rivoluzionare la situazione del panorama cinematografico futuro. 67
3. il direttore della FOTOGRAFIA
Se definire con precisione il profilo del regista è una missione praticamente impossibile, non più facile è delineare il ruolo del primo dei suoi collaboratori, il direttore della fotografia o, all’americana, cinematographer: è un artigiano dell’immagine, un pittore della luce, uno psichiatra visivo, in grado di manipolare l’impatto fisiologico della luce per generare un dato impatto psicologico. La sua funzione, come il termine suggerisce, è la cura dell’immagine nei suoi aspetti percettivi e di conseguenza in quelli emotivi, finalizzati alla resa visiva e psicologica dell’atmosfera del film: si occupa dunque prima di tutto della luce, il veicolo con cui la rappresentazione del set si fissa sulla pellicola o nella memoria della macchina da presa. Deve possedere una forte sensibilità fotografica e può avere, ma non necessariamente ha, voce in capitolo riguardo a numerosi aspetti: il posizionamento delle luci, le loro caratteristiche, il rapporto di luci e ombre sulla scena, la composizione dell’inquadratura, la scelta di lenti e filtri, il tipo di macchina da presa, il tipo di pellicola e la resa cromatica dell’immagine finale. Ovviamente, previa approvazione da parte del regista, che ha diritto all’ultima parola. Inoltre, la particolarità del cinematographer è che l’elevata richiesta di conoscenza tecnologica delle apparecchiature richiestagli lo obbliga spesso a maturare come operatore di macchina: questo comporta che in numerose occasioni sia egli stesso a ricoprire anche questo privilegiato ruolo, che lo pone in posizione di stretta intimità con gli attori. Ho sottolineato che può avere, ma non sempre ha, la facoltà di decidere nei campi sopraccitati perché innanzitutto rimane vincolato dal rapporto con la produzione in base alla collocazione storica e geografica, ma soprattutto è legato a doppio filo dal tipo di carattere artistico del regista: se quest’ultimo ha le idee chiare anche a livello visivo, il suo ruolo può essere limitato alla sola gestione delle luci. Con il regista ha un rapporto privilegiato soprattutto perché deve interpretare quale tipo di vibrazioni psichiche egli voglia comunicare e tradurle in vibrazioni fisiche luminose, di modo che lo spettatore da queste sia toccato intimamente ed esse ne ricreino le stesse vibrazioni psichiche di partenza del regista. Questa mediazione fisico-psicologica del direttore della fotografia ne fa un elemento cruciale per una buona riuscita del film, motivo per cui l’affiatamento e la sintonia artistica con il regista sono di vitale importanza. Ciò spiega come mai nel corso della storia si sia costantemente verificata una tendenza a collaborazioni continuative in svariate produzioni, veri e propri sodalizi professionali. È infine interessante notare che il direttore della fotografia è spesso stato proveniente da un Paese o da una realtà estranea a quella del regista e della sceneggiatura: il cinema in fondo è una rappresentazione del reale e uno sguardo distaccato può offrire una nuova prospettiva. 68
4. la storia della FOTOGRAFIA
dall’alto vero il basso, fig. 25 Nascita di una nazione, David W. Griffith, 1915
fig. 26 I prevaricatori, Cecil DeMille, 1915
Alekan H., Des lumières et des ombres, Parigi, Editions du Collectionneur, 1996 (9) (10)
Come appena trattato, il cinema nasce come produzione artigianale e tecnologica individuale. La graduale suddivisione e specializzazione dei compiti va di pari passo con l’ampliamento dei progetti e delle tecnologie coinvolte. La storia del direttore della fotografia, in particolare, per la sua natura eminentemente legata al progresso di lenti, luci e pellicole va allora letta nel controluce dell’innovazione. La prima svolta in direzione di una separazione di competenze professionali avviene dal 1905 con la costruzione dei primi teatri di posa: edifici quasi interamente in vetro che richiamano esteticamente le serre agricole e utilizzano principalmente la luce naturale, o al massimo un’illuminazione globale artificiale; solo per particolari esigenze sono impiegate lampade ad arco per sottolineare specifiche aree del set. Vista la loro stretta dipendenza dalle condizioni metereologiche, negli Usa dagli anni Dieci si assiste ad un massiccio spostamento delle compagnie produttive dalle pianure centrali e dalla costa atlantica verso la soleggiata Los Angeles, dove si concentrano sulla collina di Hollywood. Emerge ben presto la figura di Billy Bitzer, che cura la fotografia e le riprese dei film di Griffith: è un rivoluzionario, poiché impiega la luce artificiale negli interni e adotta per gli esterni un’illuminazione contraria alla tradizione fotografica che vuole il sole alle spalle della macchina. Riprende infatti controluce rispetto al sole, che disegna le silhouette luminose degli attori, utilizzando pannelli bianchi per riflettere la luce dal basso sui loro volti (fig.25). Galoppa allora dalla metà degli anni Dieci la tendenza all’impiego di luci sempre più studiate e controllabili, dunque artificiali: vista la loro complessità, viene perciò a configurarsi stabilmente la figura ad hoc del direttore della fotografia, destinato alla loro gestione. I prevaricatori (1915) di DeMille è fotografato da Alvin Wyckoff, pioniere nel campo, e rappresenta forse il primo esempio di opera cinematografica in cui l’illuminazione, fortemente chiaroscurale, viene utilizzata, oltre che per illuminare la scena, anche in maniera volutamente espressiva, manipolata ed incisiva (fig.26). È una vera rivoluzione, poiché la luce, oltre alla funzione basilare di «rischiaramento»(9) della scena, acquisisce la sua vitale funzione espressiva di «illuminazione»(10): non più solo strumento tecnico, ma anche strumento artistico principe. Dopo la Grande Guerra, ad Hollywood si implementa progressivamente la complessità d’illuminazione, separando quella della scena da quella degli attori. Il merito è anche di fotografi professionisti, spesso di moda, che arricchiscono il promettente mondo del cinema con il proprio prezioso bagaglio di conoscenze. Questo affinamento, unito al 69
definitivo perfezionamento del primo piano, determina una concentrazione dell’attenzione sul volto degli attori protagonisti, dando inizio all’era del “divismo” e dello “star system”. In Europa la situazione è meno avanzata, poiché mancano le grandi case produttrici che mettano in piedi set organizzati. In Francia si ricorre a giochi di ombre più che di luce, con una chiara influenza innovativa nella ripresa da parte dell’Impressionismo, atta a distorcere la percezione del reale, filtrato dalla soggettività. In Germania l’Espressionismo dà vita ad uno stile visivo particolarmente grafico: è notevole l’attenzione per la composizione dell’inquadratura collegata ad un gioco di stilizzazione e distorsione della messa in scena; allo stesso modo l’illuminazione violenta frontale o laterale, mai zenitale, viene impiegata per proiettare inquietanti ombre nere, lunghe e distorte. La Scuola Sovietica, invece, riflette l’interesse per il contrasto sequenziale del montaggio anche nel contrasto luminoso delle inquadrature: i primi piani sono ben illuminati da due o tre punti luce e spiccano su fondali scuri, la macchina da presa inquadra da prospettive insolite, ribassate o angolate, e molto profonde, facendo particolare attenzione allo studio grafico della composizione. Negli anni Venti ad Hollywood si perfeziona lo stile classico anche sotto l’aspetto della fotografia, con la definizione dei tre punti luce: quello principale (key light) di tre quarti, tra i 30 e i 45 gradi di inclinazione sull’orizzonte 70
(simil-solare) per illuminare il primo piano e definirne la plasticità nello spazio, quello riempiente (fill light) simmetrico al precedente per smorzare le sue ombre e il controluce (back light) rivolto verso la macchina da presa per disegnare la silhouette luminosa e staccare la figura dallo sfondo scuro. Inoltre, si porta l’immagine verso un minore contrasto e una maggiore armonia generale: è uno stile che deriva dalla commedia, dove non c’è necessità di drammatici chiaroscuri, e che fa della leggibilità del volto del protagonista il fine ultimo non discutibile, riducendo ancor di più il cinema al trionfo del volto dei “divi”. Si afferma il “soft style” di derivazione fotografica (il già citato Pittorialismo interpretato dai fotografi Steichen e Stieglitz) ottenuto con filtri e tessuti apposti alle lenti, in grado di donare un’aura magica luminosa al primo piano dell’attrice. La composizione dell’inquadratura è lasciata a operatori di macchina o cinematographer, i quali solitamente si mantengono nel solco della tradizione ed attingono al materiale pittorico. Sono alcuni registi,
fig. 27 Aurora, Friedrich Murnau, 1927
soprattutto i tedeschi in fuga, a prendersi cura personalmente della composizione e a promuovere nuovi stili. Un esempio su tutti è Aurora (1927) (fig.27) diretto da Murnau, che fa vincere l’inaugurale premio Oscar alla Miglior Fotografia 1929 ai due cinematographer Charles Roscher e Karl Strauss. Sul finire della decade, l’avvento del sonoro obbliga a luci più silenziose, cioè meno potenti, e dunque gli obiettivi vengono progettati per essere più luminosi. Le lenti sono spinte a maggiori aperture, da un tradizionale range tra f/11 e f/8 fino a un f/2.2, e producono profondità di fuoco notevolmente ridotte: si passa perciò da inquadrature dove lo sguardo dello spettatore deve selezionare ciò su cui concentrarsi, a piani in cui l’effetto bokeh dello sfondo sfocato dirige l’occhio sull’unico soggetto a fuoco. Dai primi “talkies” al secondo conflitto mondiale, ad Hollywood la macchina economica produce l’edificazione dell’età d’oro delle onnipotenti case di produzione che si riservano la decisione anche sull’estetica dei film. Si afferma
fig. 28 Marlene Dietrich sul set di Shanghai Express, Josef Von Sternberg, 1932 (controluce assente)
allora lo “studio look”, una predefinita linea fotografica riconoscibile per ogni singola casa, un vero e proprio marchio di fabbrica. Un esempio è lo stile Paramount impiegato da Von Sternberg nei memorabili primi piani di Marlene Dietrich (fig.28), frutto di una caratteristica illuminazione a farfalla a due sorgenti luminose: allineate all’asse della macchina da presa, la luce principale molto rialzata (rimbalzata da un pannello riflettente posto in basso) e un controluce. Tale impianto garantisce quasi una completa assenza di ombre sul volto dell’attrice e un’aura di luce divina, facendone risplendere la plastica simmetria e mettendone in risalto la perfezione di naso e zigomi. Similmente, alla MGM la concorrente diva Greta Garbo possiede uno stile fotografico ad hoc seguito sempre dal suo ricorrente direttore della fotografia, William Daniels. Alcuni dei più affermati cinematographer in circolazione, tuttavia, come Greggo Toland, George Barnes o Arthur Miller, hanno il potere di manifestare il proprio tocco autoriale anche in questo regime produttivo. Negli anni Trenta si verifica un declino graduale della moda del “soft focus” con un ritorno alla nitidezza dell’immagine, costruita su una morbida gamma di grigi poco contrastati. È il decennio in cui iniziano a firmare la fotografia dei film Charles Lang, vent’anni alla Paramount, e Leom Shamroy, trent’anni alla 20th Century Fox, che concluderanno la carriera con 18 nominations agli Oscar e diverse 71
statuette ciascuno. Il decennio successivo, invece, segna il ritorno alla profondità di campo, con obiettivi che vengono chiusi fino a f/16, usato in combinazione al piano sequenza. In tale contesto fanno scuola James Wong Howe e Gregg Toland, che soprattutto in Quarto Potere (1941) esprime una serie storica di innovazioni: magistrali chiaroscuri contrastati determinati dall’abolizione della luce riempiente, impiego di obiettivi grandangolari da posizioni ribassate, sperimentazione della profondità di fuoco (fig.29). Dall’altra parte dell’oceano, invece, l’Europa durante questo periodo tra le due guerre assorbe le tendenze estetiche definite ad Hollywood. Nel dopoguerra, il successo del genere noir statunitense porta con sé uno stile visivo cupo, caratterizzato da atmosfere rarefatte e spoglie, influenzato dall’Espressionismo tedesco nell’impiego di fasci luminosi violenti e puntuali, di ombre lunghe e distorte, di un’illuminazione contrastata dai neri profondi (low-key lighting) e di composizioni grafiche ed essenziali, spesso inquadrate ancora da prospettive ribassate. Un maestro su tutti è in America John Alton, che passa agli annali con il trasferimento dell’interesse sul buio piuttosto che sulla scena illuminata ed il rifiuto dei grigi in favore della secca opposizione bicromatica. Poco dopo, però, L’infernale Quinlan (1958) (fig.31) di Welles segna la fine dell’egemonia noir e con l’innovativa adozione di numerose inquadrature girate con la macchina a mano preannuncia le rivoluzioni Nouvelle Vague. Negli stessi anni il Neorealismo italiano, invece, pur affermandosi a livello planetario per l’innovazione narrativa, non provoca gli stessi impatti rivoluzionari anche in campo estetico, limitandosi ad affermare un’estetica realistica in vago richiamo al cinema delle origini. Gli studi di Cinecittà sono prima impegnati come rifugio per gli sfollati e poi malconci dalla guerra; le produzioni, di conseguenza, non hanno un soldo e le attrezzature scarseggiano. Si ricorre allora largamente alle ambientazioni in esterno, con il solo impiego dell’illuminazione naturale, mentre per gli interni si utilizza la luce solare proveniente dalle finestre o, dove possibile, uno stile tradizionale. L’atmosfera è drammatica e sebbene predomini uno stile high-key dato dalla forte luce solare, si evidenziano forti contrasti chiaroscurali con ombre nette e angosciose. È in questi anni che si forma la generazione di direttori della fotografia che cura prima i film neorealisti e nei tre decenni a venire sia l’immagine del cinema moderno dei massimi autori come Antonioni, Fellini, Pasolini, che quella della commedia all’italiana di Monicelli, Risi, Germi e Comencini. I più proficui e notevoli cinematographer, che negli anni sono frequentemente chiamati a lavorare oltreoceano dai più noti registi, sono Otello Martelli, curatore di Paisà (1946), L’oro di Napoli (1954) e La Dolce Vita (1959); Gianni Di Venanzo, all’opera su I soliti ignoti (1958), La notte (1961) e 8½ (1963); Alfio Contini, al lavoro su Il sorpasso (1962) e Zabriskie Point (1970); Giuseppe Rotunno, che tra gli altri firma Rocco e i suoi fratelli (1961), Il Gattopardo (1964) e Fellini Satyricon (1970); Armando Nannuzzi, cinematographer tra l’altro di Vaghe stelle dell’orsa (1965); Marcello Gatti, ricordato per La battaglia di Algeri (1966); Pasqualino De Santis, che fotografa Romeo e Giulietta (1968), Morte a Venezia (1971) e Tre fratelli (1980); Carlo Di Palma, collaboratore per Deserto Rosso (1964) e Blow Up (1966) ma anche Hannah e le sue sorelle (1986); Tonino Delli Colli, alla fotografia 72
a fianco, dall’alto verso il basso, fig. 29 Quarto Potere, Orson Welles, 1941 fig. 30 Il Dottor Zivago, David Lean, 1962 fig.31 L’infernale Quinlan, Orson Welles, 1958
sopra, fig.32 Fino all’ultimo respiro, Jean-Luc Godard, 1960
di Il buono, il brutto, il cattivo (1966), C’era una volta in America (1984) fino a La vita è bella (1997). La loro peculiarità, nel complesso, rimane quella di non esibire un proprio stile personale riconoscibile: al contrario, dopo la drammaticità di contrasti neorealisti rientrano nel solco della tradizione, della sobrietà e della naturalezza nell’illuminazione. Riescono sempre ad adeguare la propria sensibilità visiva alla necessità dell’opera, capacità maturata anche dal lavoro su una varietà di set che spaziano dal disastrato all’hollywoodiano. Nel complesso, gli anni Cinquanta sono anche quelli dei grandi stravolgimenti spettacolari, il passaggio al colore e l’allargamento del fotogramma al panoramico cinemascope. Il primo è un cambiamento graduale già iniziato negli anni Trenta, ad esempio con il lavoro di Ray Rennahan all’epoca ancora su due o tre pellicole come il Via col vento (1939), che però sottende una profonda rivoluzione filosofica ancor prima che formale. Nel film a colori la luce non è più l’unico pennello con cui il direttore della fotografia dipinge un quadro sostanzialmente astratto, simbolico, dotato di canoni estetici propri, distinto dall’apparenza del mondo reale, qual è il bianco e nero. Le si affianca infatti una sterminata gamma di colori, che il cinematographer deve utilizzare per rapportarsi alla percezione diretta della realtà, in un processo creativo che dà vita a immagini più composite, dal significato più stratificato, dal canone estetico importato dal mondo reale ed illuminate in maniera radicalmente diversa: ad esempio, si perde gradualmente il controluce, che grazie ai colori non è più indispensabile a staccare i capelli dell’attore dallo sfondo. Il secondo cambiamento radicale, cioè l’adozione del formato panoramico, comporta invece un ricalcolo totale nella costruzione della composizione. La proporzione molto orizzontale smorza la gerarchizzazione verticale, edifica un’estetica di asimmetria dinamica in contrapposizione a quella più equilibrata del formato Academy, stabilisce un rapporto di maggiore coinvolgimento con l’ambiente circostante, enfatizza il concetto di ritmo visivo, garantisce la possibilità di costruire narrazioni più evidenti all’interno del singolo piano, esalta la profondità degli sguardi fuori campo, intensifica il movimento e invita la macchina da presa a stringere ulteriormente il primo piano a scapito di capigliature e costumi. Maestro e pioniere nella strutturazione dell’immagine panoramica è il cinematographer Freddie Young (Lawrence d’Arabia, Il dottor Zivago) (fig.30) durante i primi anni Sessanta. Questo nuovo decennio vede la prima vera grande inversione di rotta delle influenze illuministiche tra Usa ed Europa, con l’affermazione anche oltreoceano dell’estetica figlia della Nouvelle Vague. Iniziatore e caposaldo della tendenza è il lavoro di Raoul Coutard, di provenienza fotogiornalistica, per l’opera di Godard Fino all’ultimo respiro (1960). Si caratterizza per un rinnovato naturalismo, realizzato con un impiego quasi esclusivo della luce naturale in esterno e con l’utilizzo minimale di luci anche in interno: qui si afferma una luce molto morbida, indiretta, riflessa, spesso sul soffitto per ottenere un effetto simile alla luce solare diffusa, senza alcuna ombra profonda (fig.32). In parallelo, l’alleggerimento tecnologico e l’influsso del cinéma verité fanno della macchina a mano un validissimo mezzo espressivo, che preferisce l’ottica lunga ed in seguito lo zoom al precedente grandangolo. L’influenza europea sul cinema americano si riflette 73
anche nel suo contributo alla demolizione dello “studio look”. Il ricambio generazionale alla regia della New Hollywood comporta una domanda di innovazione fotografica, con l’esplosione di stili più espressivi e personali, figli dei sopraccitati influssi francesi e delle nuove proposte proveniente dalla costa orientale (“New York style”). È diffuso il desiderio di un look più naturalistico e documentaristico che evidenzi la contemporaneità delle storie. Anche il formato viene ridimensionato, con il passaggio frequente dal panoramico 2,35:1 al moderno 1,85:1, meno spettacolare. La scarsità di budget, tempo e attrezzatura impone spesso luce ambientale, ridotte luci portatili e macchina a mano. Lo spirito di rottura porta a infrangere deliberatamente le regole dello “studio look” e si assiste alla rivalutazione dell’errore, come il lens flare o l’ombra su volti e occhi degli attori. Nel complesso, quindi, dalla fine degli anni Sessanta la fotografia accantona la tendenza stilistica unitaria organizzata in filosofie di pensiero in favore di interpretazioni personali dettate dalle sensibilità artistiche. Infine, l’affermazione della macchina a mano anche in America con Laszlo Kovacs in Easy Rider (1969), la novità della steadycam di Garret Brown in Questa è la mia terra (1976) e la continua generazione di innovativi supporti fino agli odierni droni permettono la più totale libertà di movimento, illuminazione e resa cromatica ai direttori della fotografia. Di seguito alcuni dei più influenti e stimati cinematographer che con il proprio personale stile si affermano ad Hollywood a partire da quegli anni. Conrad Hall, ricordato per il lavoro su A sangue freddo (1967) e American Beauty (1999) per la maniacale ricerca del giusto guizzo luminoso sui primi piani. Il messicano John Alonzo, autore della fotografia del capostipite hollywoodiano di naturalezza Chinatown (1974) e di Scarface (1983). Lo spagnolo Nestor 74
Almendros, innamoratosi della luce naturale della “golden hour” in I giorni del cielo (1978) e autore di lunghe collaborazioni con i francesi Eric Rohmer e François Truffaut. Gordon Willis, chiamato “the prince of darkness” per la magistrale resa del conflitto interiore in situazioni di penombra nelle opere di Coppola tra la prima (1972) e l’ultima parte (1990) de Il padrino, capace di darsi all’illuminazione high-key nei film di Allen. L’ungherese Vilmos Zsigmond, che dagli anni Settanta collabora con tutti i maggiori esponenti del cinema d’autore americano, da Altman a Spielberg, da De Palma ad Allen. Michael Chapman, profondo innovatore nella fotografia di Taxi Driver (1976) e Toro scatenato (1980). Sempre per la collaborazione con Scorsese, Michael Ballhaus, cinematographer per le sue pellicole degli anni Ottanta e Novanta, e poi Robert Richardson, proveniente da fecondi sodalizi professionali con Oliver Stone e Quentin Tarantino. Attenzione particolare va all’italiano Vittorio Storaro, vincitore di tre Oscar e per lungo tempo legato a Bertolucci: il suo inconfondibile stile pittorico è ispirato all’illuminazione plastica e morbida di Rembrandt e allo studio della teoria dei colori di Goethe, ma si adatta di situazione in situazione mettendo la firma su capolavori differenti ma assoluti quali Il conformista (1970), Apocalypse Now (1979) (fig.34) e L’ultimo imperatore (1987). Altrettanta attenzione merita lo svedese Sven Nykvist, storica figura che lavora con Bergman dagli anni Cinquanta alla fine degli Ottanta su venti pellicole, con numerose collaborazioni anche oltreoceano.
nell’angolo, fig.33 Persona, Francis F. Coppola, 1979
La sua estetica si caratterizza per un’estrema naturalezza e semplicità, che tuttavia valorizza straordinariamente i primi piani in dettagli minuti come il riflesso della luce negli occhi, classicamente evitato e termometro dell’intima vibrazione emotiva. Nykvist mostra l’attitudine a creare contrasto con il passaggio diretto tra la figura intera e l’adorato primo piano, portandolo addirittura ad una rivoluzione metafisica come in Persona (1966) (fig.33), ma ciò che caratterizza maggiormente il suo lavoro è una splendida subordinazione della luce e dell’inquadratura al racconto dell’umanità. Nel complesso, allora, unico tratto comune all’estetica cinematografica degli ultimi quarant’anni può essere considerata l’eclettica frammentazione di stile in un ventaglio di singole sensibilità che riarrangiano personalmente input visivi di tutta la storia della fotografia. Oggi si assiste ad una prosecuzione di tale post-modernismo, con l’avvento della nuova generazione totalmente eterogenea e la graduale chiusura della carriera degli autori sopraccitati nati tra le due guerre. Ciò che emerge tra tutti è solo una crescente volontà di imprimere veri e propri marchi di fabbrica autoriali alle pellicole: specialmente negli Usa ci si allontana da una resa naturale del colore con l’impiego ricorrente di filtri surreali, aiutati dalla galoppante digitalizzazione. Capostipite di tale corrente è l’opera di Jordan Cronenweth per Blade Runner (1982) sotto la regia di Ridley Scott. In Europa, invece, dagli anni Ottanta e acuitasi nel nuovo millennio, si è rilevata una generale tendenza alla desaturazione dei colori, in una sorta
sopra, fig.34 Apocalypse Now, Ingmar Bermang, 1966
in piccolo, fig.35 Blade Runner, Ridley Scott, 1982
di rientro dalla spettacolarità cromatica iniziata con il Technicolor in favore di un ritorno a un’estetica dell’immagine, lirica e quasi pittorica. Come anticipato, nel cinema d’autore moderno e contemporaneo si assiste ad fiorire di sodalizi professionali tra registi e cinematographer. Solo per ricordare i maggiori a livello europeo: John Alcott e Stanley Kubrick; Sacha Vierny e Peter Greenaway, dopo trent’anni di collaborazione con Alain Resnais; Robby Müller e Wim Wenders, ma poi anche Lars Von Trier e Jim Jarmusch. Negli Usa, invece, si nota l’opera di Jeff Cronenweth per David Fincher, di Roger Deakins per i fratelli Coen, di Peter Suschitzky per David Cronenberg, di Harris Savides per Gus Van Sant e Sofia Coppola, di Emmanuel Lubezki per Alfonso Cuaròn e di Robert Yeoman per l’inconfondibile Wes Anderson. A livello nazionale, infine, si instaurano sodalizi sul set tra Italo Petriccione e Gabriele Salvatores, Pasquale Rachini e Pupi Avati, Franco di Giacomo e Giuseppe Lanci per i film dei fratelli Taviani e di Marco Bellocchio, Marco Onorato e Matteo Garrone. Menzione d’onore a Luca Bigazzi, che dagli anni Ottanta in avanti diviene il prediletto di Silvio Soldini, Michele Placido, Gianni Amelio e naturalmente Paolo Sorrentino. 75
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3 LE OPERE 77
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PREMESSA
Nelle prossime pagine si entra nel vivo di questa tesi. Ho scelto di partire da un’analisi dei singoli film di Paolo Sorrentino per evidenziarne le caratteristiche e gettare le basi per la successiva visione d’insieme sull’autore, approfondita nel capitolo seguente. Delle singole opere, ho dovuto selezionare solamente alcuni aspetti riguardanti quel processo di traduzione visiva al centro del mio interesse, poiché per ovvi motivi di tempo una trattazione esaustiva e globale si è rivelata non praticabile. Il percorso che ho intrapreso vuole allora innanzitutto mettere in luce i significati veicolati dai film per poi indagare i significanti tramite i quali essi sono trasmessi, cioè le immagini. Per iniziare, per ogni film ho scelto di proporre, più che una striminzita sinossi generica, una sorta di riassunto del susseguirsi delle immagini con cui la storia viene narrata. Dopodiché, la prima peculiarità dell’autore in materia di narrazione, cioè la preferenza per la descrizione e la riflessione più che per l’azione in sé, mi ha fatto propendere per un’analisi del protagonista, vero fulcro della storia. Dalla trama e dal personaggio chiave sono dunque passato all’enucleazione delle tematiche affrontate dal film. Una volta messi in luce i significati di cui la pellicola è intrisa, il passo successivo e fondamentale è stato l'esame di come essi siano resi nel linguaggio visivo, dal lato della regia e dal lato della fotografia: una sorta di riflessione sul lessico cinematografico utilizzati dalle due figure autoriali. 79
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L’UOMO IN PIÙ
Soggetto Sceneggiatura Regia Fotografia Produttore Montaggio Protagonista Anno Paese Lingua Durata
3.1
Paolo Sorrentino Paolo Sorrentino Paolo Sorrentino Pasquale Mari Nicola Giuliano Giogiò Franchini Toni Servillo (Antonio Tony Pisapia) Andrea Renzi (Antonio Pisapia) 2001 Italia Italiano 97 minuti 81
Sui titoli di testa, sottacqua, tre sub si avventurano in un’uscita di pesca notturna. Dopo la cattura di alcune prede, all’inseguimento di un polpo, uno dei tre ingaggia un convulso corpo a corpo con l’animale. Mentre gli altri due compagni proseguono ignari, la luce del terzo sub precipita roteando solitaria verso l’abisso.
1. il RACCONTO
1980. Antonio Pisapia è un famoso calciatore di serie A, ma per il suo ambiente è insolitamente modesto, introverso, corretto e schivo. Possiede un’elegante berlina e una villa di contenuto lusso sulle alture appena fuori dalla città, Napoli, vive con la moglie e vanta una trionfale carriera alle spalle. Non più giovanissimo, ormai passata la trentina, rifiuta scommesse clandestine, combine e donne offertegli dai compagni di squadra, preferendovi affari portati avanti alla luce del sole: il suo sogno è infatti quello di sedere in panchina come allenatore, una volta conclusa l’attività professionistica. La sfortuna lo coglie in allenamento, quando in un contrasto si infortuna gravemente un ginocchio. Toni, invece, è un acclamato cantautore all’apice di una gloriosa carriera. Sposato, quarantasei anni, un passato turbolento, una figlia sulla ventina all’estero, una cabrio sportiva e una nuova casa modernissima, riempie i teatri con le sue performance. Esuberante, esibizionista, arrogante, godereccio, vive di eccessi e vizi: feste, ristoranti, discoteche, donne, alcol e cocaina sono gli elementi del suo mondo da viveur, animale notturno. La sfortuna coglie anche lui, quando una notte la madre e la moglie lo sorprendono a letto con una sedicenne (seppur consenziente), conosciuta nei bagni della discoteca. E Antonio Pisapia, questo il suo nome all’anagrafe, viene denunciato. 1984. Pisapia, lo sportivo, è guarito dopo l’intervento al ginocchio ma ha appeso le scarpette al chiodo. La sua società prende tempo alle sue ripetute richieste di spazio nelle file della dirigenza, mentre i suoi ex-compagni di squadra fanno carriera. Non trova opportunità e non dorme la notte, tormentato dall’incubo ricorrente di un balletto di danza classica e dallo schema che cerca di mettere a punto. Si appoggia all’unico vero amico, l’ex-allenatore di un tempo, e trova sollievo soltanto andando al vicino aeroporto a guardare gli aerei in partenza sulla pista di decollo. L’omonimo cantante fronteggia a sua volta tempi difficili. Con un’immagine pubblica uscita a pezzi dallo scandalo malgrado l’assoluzione, lasciato dalla moglie, tormentato dall’incubo della morte del fratello (il sub dei titoli di testa), solo con la sua passione del pesce, cerca disperatamente di tornare alla ribalta. Ottiene dal suo manager una piccola opportunità, un concerto in piazza in provincia, al termine del quale, in un silenzio desolante, decide di chiudere con la musica. È al ristorante della piazza che, dopo una polaroid con il gestore, nota sul muro quella del suo omonimo calciatore. Questi rimane a sua volta solo per la separazione dalla moglie che, preoccupata per il declino economico, lo lascia per l’amante. Deciso a dare una svolta alla propria vita con una nuova casa ed un nuovo lavoro, non rinuncia al proprio sogno, mettendosi alla prova come allenatore di calcetto. Questa volta tuttavia è la fortuna a venirgli incontro, facendogli conoscere una donna bellissima. La sua proposta di una gita in traghetto si presenta dunque come il primo passo per la ricostruzione di una nuova vita. Allo stesso modo, all’ormai ex-cantante si presenta un’ottima opportunità: rilevare la gestione del ristorante preferito in riva al mare. Entusiasta soltanto all’idea, declina con sarcasmo un’importante possibilità di rilancio offertagli dall’ex-manager. La delusione è così ancora maggiore quando scopre che il locale è già stato acquistato da persone legate ad ambienti criminali. Strafatto di cocaina, tenta di recuperare dal manager il lavoro rifiutato, ma senza risultati. L’ex-calciatore, a sua volta, sciupa l’opportunità con la donna. Ritorna invece a chiedere spazio nella società, dove riceve una definitiva netta bocciatura dal presidente. In seguito i due sconfitti si incontrano per la prima volta, riconoscendosi in un lungo sguardo al mercato del pesce. La stessa sera lo sportivo finisce in televisione a raccontare la propria storia, sotto gli occhi dell’ex-cantante, facendo riferimento al loro incontro e collegandosi a distanza con lui in un lungo e profondo sguardo in macchina, come sapesse che l’altro lo sta guardando. Infine, dopo una visita all’aeroporto per contemplare gli aerei in partenza, persa ogni speranza si spara in testa in un campetto di calcio. A sua volta, anche l’altro Antonio Pisapia viene contattato dallo stesso programma tv, accettando. Nel frattempo, appreso del suicidio dell’ex-calciatore, decide di vendicarlo ed uccide il presidente della società. Racconta poi la propria vita in televisione e dopo una brevissima fuga in barca viene arrestato. In carcere sottopone sorridente ai compagni di cella del delizioso pesce appena cucinato. Sul tramonto fuori dal carcere scorrono i titoli di coda.
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2. i PROTAGONISTI
fig. 1
fig. 2
La peculiarità del film è quella di avere un intreccio bipartito con due protagonisti. Come già visto, essi sono l’uno l’opposto dell’altro, due metà della stessa medaglia, non per niente omonimi: uno furbo, l’altro ingenuo; uno sorridente, l’altro serio; uno fedifrago, l’altro tradito; uno notturno e mai sveglio prima di metà pomeriggio, l’altro insonne; uno fissato con il pesce, l’altro con il subbuteo; uno tormentato dagli incubi sulla morte del fratello, l’altro dalle gambe delle ballerine; uno con precedenti penali, l’altro con il timore di commettere reati; uno fumatore, cocainomane e bevitore, l’altro virtuoso; uno dedito al banchetto, l’altro mai intento a mangiare, nemmeno dopo avere ordinato al ristorante. Ciò che li accomuna è il successo iniziale, la celebrità, la fama, la ricchezza, testimoniata dalle case nuove, dalle belle auto e dai trofei appesi per casa (dischi di platino per uno, coppe per l’altro). Ma li accomuna anche ciò che segue, cioè la sciagura finale, l’abbandono del sogno, la perdita di tutto (lasciati dalle mogli, uno finisce in carcere, l’altro al cimitero). Quello che manifestano entrambi è un’inadeguatezza al proprio ambiente, un’incapacità a cogliere segnali per sapere fin dove spingersi, un’alienazione da una realtà con cui fanno fatica a confrontarsi. E anche una certa dose di sfortuna. Nella loro definizione, apertamente d’ispirazione per il regista sono state le figure di Franco Califano per il cantante e di Agostino Di Bartolomei per il calciatore. Iniziamo con lo sportivo (fig.1). Pisapia è una persona semplice, gentile e malinconica che finisce vittima del sistema perché decide di non conformarsi alla logica di scorciatoie, amoralità, illegalità e tradimenti che regna nel suo mondo. Sin dall’inizio, nello spogliatoio durante la partita, non riconosce i limiti del proprio ruolo e si impegna a dare consigli tattici all’allenatore, che per quanto possano essere sensati non vengono presi che per un affronto. Più avanti si presenta alla festa di carnevale della sua temporanea fiamma vestito di tutto 83
punto per scendere in campo: non ha capito che non è una festa in maschera. Pensa al pallone, studia per il pallone, lavora per il pallone, si veste con il pallone, non dorme per il pallone, perde il treno della salvezza per il pallone. Il fatto è che non è nemmeno portato per quel mondo: <<il calcio è un gioco e tu sei un uomo fondamentalmente triste>> è la frase usata dal presidente per scaricarlo definitivamente. Certifica la sua ostinazione ossessiva per la ponderazione di una strategia infallibile in un sistema che non risponde a regole ferree. Pisapia è profondamente ingenuo e manca del pragmatismo per incidere nel mondo reale. Ha un piano su cui lavora giorno e notte, una tattica di gioco, uno schema di funzionamento, che però rimane confinato nella teoria, perché oltre al subbuteo non trova riscontri nella realtà: ha una soluzione teorica ai propri problemi, un’idea per affrontare le difficoltà, ma non è in grado di metterla in pratica, naufragando ineluttabilmente. Quando si trova sul banco del bar a spiegare al dirigente della squadra il proprio modulo d’attacco, non è nemmeno in grado di restituire al suo interlocutore la giusta tazzina di caffè, finendo vittima di una sorta di gioco delle tre carte architettato da lui stesso. La ragione di tutto questo è che egli è rimasto fondamentalmente un ragazzino: vive per il pallone e non ha nemmeno la licenza media, un identikit in cui l’unico dato che stona sono i suoi trent’anni passati. In una scena poi tagliata del film, una carrellata sui banchi di ragazzini alle prese con l’esame di italiano si conclude con lo sportivo incerto circa svolgimento del tema, giusto a proposito dell’adolescenza. Supera l’ostacolo del titolo di studio per aprirsi una nuova strada come assicuratore, ma non è poi più in grado di andare oltre: ancora una volta, se la cava bene nel mettere a punto i requisiti teorici ma fallisce nel loro sviluppo pratico. È rimasto un ragazzino per l’ingenuità con cui non si accorge del lampante tradimento della moglie, sorpresa a mezzanotte con la televisione senza volume e la mano sulla cornetta del telefono. Nemmeno lo insospettiscono altre chiamate serali mute a cui è lui stesso a rispondere. Se ne accorge quando ormai è tardi, quando la moglie lo avvisa che lo sta lasciando. È rimasto un ragazzino anche per il modo in cui, proprio di fronte alle domande della moglie preoccupata per il futuro e la mancanza di soldi, non riesce a ribattere ma indossa la felpa della tuta della squadra, sopra cravatta e camicia, e va a cercare supporto dall’unico amico. Questi non gli dà retta perché sta giocando a poker nel proprio salotto: gioco ben diverso dall’unica vera occupazione giornaliera di Pisapia, il subbuteo. Quella è infatti la dimostrazione istantanea di come egli misuri la realtà ancora con l’occhio di un ragazzino, nella cui prospettiva alcune pedine in salotto sono in grado di rappresentare in maniera realistica il mondo. Fallendo nel suo proposito, non gli rimane che la passione consolatrice e malinconica degli aerei, chiara metafora di un cambiamento salvifico che lui è solamente in grado di osservare da fuori. L’altro Pisapia (fig.2), invece, mostra i sintomi di problemi esattamente opposti che conducono allo stesso risultato. Se l’omonimo perdeva di vista la realtà per i ragionamenti teorici, egli perde di vista il raziocinio per la soddisfazione dei piaceri carnali: vive perennemente abbandonato ai propri vizi ed all’istinto, senza il minimo contegno, ottusamente innamorato della vita. Non riflette, agisce impulsivamente e si ritrova in situazioni dove anche le scuse non servono più 84
a niente: si porta a letto una minorenne senza avere idea dell’età, scarica la proposta di rilancio del proprio manager senza alcuna certezza di poter rilevare effettivamente il ristorante dell’amico, uccide a pugnalate il presidente della squadra dell’omonimo suicida e manca la sveglia perfino per presenziare al funerale del padre. «Mi sono svegliato tardi» è una scusa che ripete più volte, che certifica la sua attitudine a realizzare solo a posteriori ciò che sarebbe stato bene fare. Anch’egli, dunque, manifesta i caratteri dell’adolescente mai cresciuto, declinati nel segno dell’irruenza, tant’è che a causarne la rovina è proprio la cedevolezza nei confronti della carne di una adolescente. È solamente nel monologo finale che pare riacquisire la facoltà di giudizio di adulto qual è, passando in rassegna tutto quel che è riuscito a combinare. Se lo sportivo era ossessionato dal subbuteo, egli è ossessionato dal pesce, sia come animale in sé che come alimento. In salotto, possiede un gran numero di conchiglie, un grande acquario e ne richiede un altro per il camerino della tournée. Ma soprattutto, non mangia altro, sia al ristorante dell’amico in spiaggia che al porto con amici pescatori giusto di rientro, sia in casa propria che in carcere. Perfino in un ristorante sull’Appennino abruzzese si ostina a voler mangiare qualche creatura del mare. È il mare ciò che lo seduce: la sua sterminata vastità consente agli esseri viventi che lo abitano una libertà totale di movimento. La passione ossessiva per il pesce è infatti metafora dell’irrefrenabile amore per la libertà: non per niente, il suo monologo finale in diretta tv riguarda proprio questa tematica. Pisapia inoltre cita più volte il pesce proprio in relazione al carcere, come affermazione della libertà nel luogo della sua negazione per eccellenza: luogo invece assimilabile all’acquario, è la condizione di confinamento in cui egli si sente costretto dal mondo in cui vive. Inoltre, è interessante notare come il cantautore stesso impersoni anche il lato simbolico dell’animale in relazione alla religione cattolica, che vede nel pesce il simbolo del Cristo, redentore dei peccati e risorto dalla morte. Pisapia infatti nel finale vorrebbe rilevare il ristorante preferito che non a caso porta il nome di “Salvatore a mare”, quasi a voler cercare con esso una redenzione, che tuttavia gli viene negata: se ne appropriano i camorristi, riportandolo alla realtà del suo ambiente, e non a caso la prima cosa che ne fanno è eliminarne l’acquario con i pesci per far posto ad un banco per pasticcini. Soprattutto, però, nel finale il cantante, dopo pochi metri di fuga in barca, decide di lanciarsi in acqua. Un gesto che ricorda un tentativo di purificazione dopo il peccato, l’omicidio e la vita di eccessi, e a livello visivo rassomiglia chiaramente alla statua del Cristo degli abissi. In ultimo, al termine della parabola discendente i due personaggi paiono riunificarsi nel cantautore una volta sottopostosi alla rimozione di una cisti in testa, il giorno successivo al suicidio dell’altro. Il dottore, infatti, lo obbliga a spegnere la sigaretta appena accesa e l’intervento lo obbliga alla rasatura della lunga chioma. Da questo momento, Pisapia pare aver assimilato la personalità dell’omonimo: resta sobrio e a tavolino mette a punto una vera strategia, rappresentata da una complessa costruzione di conchiglie; si reca nello stesso ufficio del presidente della società di calcio dove era solito recarsi il calciatore; cerca la fuga in barca verso Capri, dove l’altro uomo avrebbe dovuto passare una giornata con la sua nuova fiamma.
3. le TEMATICHE
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Sorrentino P, intervista tra i contenuti extra del dvd
Il calcio e la musica sono i due ambienti in cui si svolgono le vicende narrate. Questi temi, molto cari al regista, vengono però analizzati da una prospettiva opposta a quella da cui solitamente sono mostrati: dal retroscena. Del calcio giocato è presente un’unica inquadratura, quella dell’inizio in cui Pisapia fa il suo ingresso in campo. Tutto il resto va invece a scrutare in ciò che è solitamente occultato: l’intimità del rapporto di spogliatoio tra allenatore e giocatori, i rapporti tra i compagni di squadra, il funzionamento dei meccanismi societari della dirigenza. Ne deriva una visione disincantata, cruda e amara di un mondo cannibale che fagocita i suoi stessi elementi in una lotta regolata da interessi economici, volatilità emotiva ed amicizie che contano. Allo stesso modo, anche il mondo della musica è esplorato nei luoghi lontani dai riflettori: i camerini, i rapporti tra manager ed artisti, la loro vita privata. Anche qui il risultato è il profilo di un mondo suscettibile e volubile, dove il confine tra la gloria e l’infamia è sempre in discussione e in cui tutto dipende dal grande arbitro popolare del pubblico. Ciò di cui parla il film è infatti la volatilità del successo: «nella vita non esiste il pareggio» è la tagline del film. Non a caso, l’ambientazione è quella degli anni Ottanta, decennio in cui oltre a una serie di trasformazioni radicali nella società italiana, il saliscendi tra la celebrità e l’oblio si fa schizofrenico. Sono anche gli anni dell’adolescenza del regista e del Napoli di Maradona, dunque realtà ben conosciute e vissute dall’autore. Gli anni Ottanta segnano, nei due ambienti prima toccati, l’imposizione di nuovi paradigmi, che stravolgono la tradizione italiana impostata nel dopoguerra in direzione di un modello globalizzato alla base di quello attuale: da
un lato, la scomparsa delle figure cantautoriali in favore delle band internazionali sull’onda della tecnologia elettronica, dall’altro l’affermazione dello show business del pallone con star muscolose e curate a discapito del divertimento popolare domenicale giocato da persone normali. Si tratta quindi di un periodo di transizione, in cui gli ultimi esponenti della vecchia guardia, ben rappresentati dai due protagonisti del film, non possono far altro che soccombere. Il successo allora non è più inteso soltanto come un punto d’arrivo, ma anzi come il trampolino di lancio per la disfatta. Lo stesso regista ne parla così: «Il film mi è venuto in mente leggendo un’opera di Bataille, che recitava: “All’apice della vita di una persona corrisponde il momento della massima perdita.” Questo è stato il punto di partenza: raccontare che nel momento del successo sono già evidenti i germi del fallimento».(1) Il successo rappresenta la vetta della scalata con la conseguente presa di coscienza che tutto ciò che segue porta solamente verso il basso: il momento in cui si ha tutto è visto come il momento in cui si ha tutto da perdere. I personaggi del film non hanno gli anticorpi adatti a gareggiare con il mondo in trasformazione, non riescono a tenerne il passo, non hanno una strategia adatta. La loro tattica è basata su un singolo colpo che continuano a sparare in continuazione, da cui anche la carenza di momenti narrativi rispetto all’abbondanza di quelli descrittivi. E dalla temporaneità schiacciasassi del successo, il discorso si estende ad un livello superiore al tempo stesso. Il film rappresenta l’ineluttabile sconfitta umana al cospetto del fluire del tempo. Entrambi i Pisapia sono rimasti adolescenti dentro di loro (il cantante, a colloquio con la figlia ventenne, sembra l’immaturo dei due) e non hanno saputo adattarsi né alla loro età anagrafica né al cambiamento della società che li circonda. Tant’è che la morte ed il carcere li riportano drammaticamente a fare i conti con il tempo: il calciatore decide di sfuggire alle sue ingiurie dichiarandone la vittoria sulla sua carne, il cantante invece è costretto a pagare le proprie colpe certificandone momento per momento, giorno dopo giorno, anno dopo anno, lo scorrimento. 85
4. la REGIA
dall’alto verso il basso, figg. 3 e 4
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ritmo flemmatico della narrazione, ed inquadrature fisse, testimonianza della condizione di immobilismo. I movimenti macchina sono spesso liberi, slegati dagli attori, e tradiscono la presenza dell’occhio onnipotente dell’istanza narrante: il piano finale, combinando zoom e gru, passa da un primo piano del sorridente Pisapia ad un campo lunghissimo sul tramonto, sottolineando la propria capacità di passare attraverso le sbarre della cella e levarsi libera nel cielo. Le immagini si basano sull’espressività del primo piano: come partenza di una carrellata indietro verso la mezza figura o come arrivo di una carrellata avanti dalla mezza figura. Nel primo caso si tratta spesso di personaggi secondari, come il manager o l’infermiera, ed enfatizzano quell’allontanamento senza ritorno dal successo, mentre nel secondo caso vanno a stringere proprio sulla drammaticità dello sguardo dei due uomini protagonisti. Il momento culmine della tensione, cioè lo scambio di sguardi tra i due Pisapia attraverso la tv, è in questa prospettiva facilmente identificabile dai primissimi piani alternati con cui li vediamo guardarsi. Inoltre, la scelta di collocare tutti questi primi piani sempre addossati alla parete retrostante, senza mai un vero impianto prospettico di fuga, crea un efficace senso di claustrofobica oppressione: rappresenta i protagonisti con le spalle al muro, intrappolati in quell’ambiente e crocefissi al proprio destino. In generale, le inquadrature sono sempre stabilissime, ravvicinate ed antropocentriche, dal dettaglio alla mezza figura, espressione di una prospettiva registica centrata sul personaggio ed attenta al dettaglio chiave in grado di riassumere l’intera situazione. È uno sguardo che tuttavia non dà mai tregua ai personaggi, li pedina da vicino ma non si lascia cogliere dall’emozione: da un lato mostra le vicende da una prospettiva neutrale, distaccata, insensibile, cinicamente clinica, ma dall’altro testimonia la strada già tracciata verso il fallimento su cui i personaggi sono avviati. Svariati poi sono i campi totali dei salotti dei due uomini, che tracciano i contorni del ricco recinto invalicabile nel quale essi sono rinchiusi. I pochissimi campi lunghi, invece, calcano la mano sul sentimento di solitudine e irrimediabile sudditanza dei due agli eventi: sono impiegati per l’infortunio del calciatore e per la disfatta del concerto in piazza del cantautore, a sottolinearne la desolazione. Solamente due scene sono girate con la tensione drammatica della macchina a mano: quella d’apertura nello spogliatoio e parte di quella dell’allenamento in cui avviene l’infortunio. È la vitalità del gioco del calcio, il suo lato sanguigno ed adrenalinico, il carico emotivo di rabbia o spensieratezza, a cui tuttavia Pisapia non sa prendere parte: anche nello spogliatoio, i piani che lo ritraggono sono fissi, mentre riesce a guadagnarsi la vividezza dell’inquadratura instabile solo nel suo ingresso in campo al cospetto del pubblico. Proprio questa inquadratura e quella corrispondente dell’esibizione del cantautore rappresentano la chiave di lettura del film (fig. 5 e 6). Manifestano la sproporzione tra il singolo ed il pubblico, dunque l’orgoglio e l’approvazione, e rendono esplicita la caducità propria del successo: la folla ed il beniamino figurano nello stesso piano ma, a parte l’illusione ingannevole del rapporto dimensionale dato dalla prospettiva, è la folla ad essere presa di fronte, mentre il singolo è visto di spalle. Il calciatore ed il cantante sono perciò oggetti
Nel complesso, la narrazione è lenta e di ritmo altalenante, con brevi accelerazioni in cui si condensano i radi momenti di azione e lunghe pause riflessive, dove può dominare il fitto dialogo tanto quanto il solitario sguardo nel vuoto. La mancanza di azione visibile ha un preciso significato: la scelta di affidare al fuoricampo o all’ellisse temporale gli eventi cruciali, come le vicende giudiziarie del cantante, quelle ospedaliere del calciatore, il suicidio, l’omicidio o l’arresto, traduce l’incapacità di agire a cui sono condannati i due personaggi. Ad esempio, il tradimento della moglie del calciatore è reso in una minimalista metafora con una semplice mano sulla cornetta del telefono durante la notte, mentre la fine della carriera dei due protagonisti è sintetizzata nell’enunciazione delle proprie generalità, quasi fosse un epitaffio funebre. Tutto è costruito affinché il racconto rimanga intrappolato e bloccato nella tela del ragno ordita dal regista. L’espediente più lampante è che i due protagonisti sono quasi sempre seduti o sdraiati: ciò rappresenta la manifestazione visibile del loro declino ineluttabile (fig. 3 e 4). Il movimento è quella possibilità di incidere nel mondo, di cambiare il proprio destino, di riconquistare il proprio posto, che è loro sistematicamente negata. Partono dalla panchina dello spogliatoio e dallo sgabello per l’esibizione sul palco e conoscono due soli momenti di movimento: l’uscita dallo spogliatoio e l’ingresso in campo per l’uno, l’ingresso in discoteca per l’altro. Subito dopo tornano definitivamente a sedersi sul divano di casa, al tavolo per mangiare, a letto, in barella, nei ristoranti, nella vasca da bagno, sul trespolo dell’allenatore, nel taxi. Talvolta i due uomini sono presentati in piedi, ma comunque il regista ce li mostra sostanzialmente abbattuti, sconfitti, in grado di muovere solo pochi disillusi passi: come le pedine del subbuteo o i pesci nell’acquario. È soltanto nel finale, dopo l’omicidio e durante la fuga dalla polizia, che l’ex-cantante si riappropria delle sue gambe, camminando veloce, correndo e saltando: è di nuovo in grado di incidere sulla realtà, ma dal proprio intrappolamento ha a disposizione una via di fuga quasi tanto tragica quanto quella dell’omonimo. La regia dunque nega simbolicamente l’azione per restituirci la caratterizzazione interiore dei due personaggi. Considerata l’attenzione dedicata ad essi si capisce come mai siano rarissime le inquadrature in cui non compaia nessuno dei due omonimi. Il punto di vista sul racconto di conseguenza è costruito attorno alla sua struttura a doppio binario. Da questa deriva innanzitutto un montaggio obbligatoriamente alternato ma magistralmente sincronizzato che enfatizza tutti i punti di coincidenza; in secondo luogo, una focalizzazione che, per quanto interna per ognuno dei due filoni (eccetto la scena del dialogo tra dirigenti della squadra calcistica), nel totale si configura onnisciente. Qui si ricollega perciò il discorso iniziale sull’assenza di movimento: poiché gli attori (il profilmico) sono congelati nella loro posizione, ciò che ci permette di indagarli è il movimento dell’istanza narrante, la macchina da presa (il filmico). Questo motiva la netta prevalenza di inquadrature oggettive a piani soggettivi. La macchina da presa è sempre libera di esplorare la scena ed il regista non ha alcun timore a renderla manifesta. Il racconto si articola, infatti, prevalentemente con movimenti macchina lenti e compassati, carrelli e dolly in accordo al
dall’alto verso il basso, figg. 5 e 6
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del momentaneo sguardo del pubblico ma sostanzialmente estranei ad esso: la loro condizione si fonda tutta sulla scelta altrui di guardare proprio nella loro direzione, che sottende una ovvia temporaneità, ed essi in aggiunta vengono presentati di spalle, incapaci di accorgersi di cosa accade dietro di loro. Nel linguaggio filmico di campo e controcampo utilizzato per il dialogo, essi sono l’interlocutore voltato e non visibile, quello in silenzio ed in ascolto, quello passivo ed in attesa. Non a caso, la mezza figura da dietro dei due uomini viene ripresentata nel momento chiave della resa dei conti, al fallimento delle rispettive ambizioni di risollevarsi. Con un movimento in avvicinamento circolare, i due piani mostrano i due uomini seduti in soggiorno, con lo sguardo perso nel vuoto avanti a loro e rivolti al tavolo su cui sono posate le uniche cose rimaste loro, il subbuteo e la cocaina. Il fatto di vederli da dietro li caratterizza come ragazzini in castigo, come persone rivoltesi di spalle alla vita, come maschere nascoste ed indecifrabili nella sofferenza, come celebrità appassite a cui rimane solamente la contemplazione del passato alle spalle perché il futuro non offrirà nulla di tutto ciò (fig. 3 e 4). A livello generale, dunque, Sorrentino ama utilizzare la macchina da presa come accurato termometro e cartina tornasole dell’emotività della situazione inquadrata. Un esempio notevole è il deludente concerto di piazza e lo sviluppo drammatico che trasmette. Dopo un primo pezzo scarsamente apprezzato, il secondo si apre in campo medio frontale con un carrello avanti, enfatizzando l’ascesa della tensione. Giunto ai piedi del palco, ci presenta una figura intera dal livello dei suoi piedi, facendola svettare nel suo assolo canoro, come se stesse per riprendersi il successo e la gloria. Continua l’avvicinamento drammatico arrivando fino al primo piano, corrispondente con il finale in crescendo della canzone, mantenendosi perpendicolare al volto del cantante leggermente reclinato all’indietro dall’emozione (fig. 7, 8 e 9). Infine, sul più bello, nell’attimo dopo la fine del pezzo che di solito precede lo scroscio degli applausi, segue il volto nel suo movimento di rilassamento in posizione normale, abbassandosi, mentre fuoricampo giunge qualche sparuto applauso (fig. 10). È proprio quel piccolo ma chiarissimo movimento discendente che vanifica tutta l’ascesa precedente ed emette un’inappellabile sentenza sulla carriera di Pisapia: pollice verso, fallimento. Tant’è che la scena viene chiusa da un campo lungo da cui trapela tutta la sua irrimediabile sconfitta e da una panoramica circolare che ne certifica l’amarezza in ogni poro della pelle. La sconfitta, comunque, non è rappresentata solo dal movimento macchina ma anche attraverso la prospettiva, visto che non poche 88
sono le inquadrature zenitali o comunque angolate dall’alto che inchiodano i personaggi alla propria inclemente realtà. Riguardo all’espressione dell’inadeguatezza allo scorrimento del tempo, invece, basta cogliere quello che si presenta come un inserto assolutamente laterale nella successione degli eventi. È la scena della festa di carnevale in cui la figlia adolescente della padrona di casa interrompe le chiacchiere dei convitati adulti accendendo lo stereo ed esibendosi in una sensuale danza solitaria. Non a caso, è montata in alternanza con i primi piani dei cambiamenti di espressione degli ospiti (le signore alzano il naso, i signori deglutiscono con fatica) e le mezze figure dell’imbarazzata prima volta del calciatore con la nuova fiamma. È la visualizzazione chiara e inappellabile della prorompenza carnale propria solo e soltanto della gioventù, del suo potere incontrastabile ad attirare lo sguardo e della sua affermazione di bellezza. I piani sempre più stretti ed intensi, in continuo avvicinamento dal piano americano al primo piano sul viso, sul ventre, sulle gambe della muta ragazza, la affettano in sempre più seducenti portate di carne tenerissima e scolpiscono a chiare lettere l’eccezionalità della giovinezza. In ciò si può leggere in controluce l’amarezza per la sua caducità, poi non differente da quella del successo. Sempre a proposito di inserti laterali, è interessante il ruolo svolto dalle immagini delle gambe delle ballerine: queste appaiono inizialmente come un intermezzo extradiegetico atto a sottolineare l’ellisse di quattro anni nel racconto, ma poco dopo si scoprono essere frutto della mente dell’ex-calciatore. Con tale corto circuito tra ciò che vede lo spettatore e ciò che vede il personaggio del racconto, una sorta di autodenuncia dell’artificiosità del film poi riassorbita dallo stesso, si apre una prima voragine tra il mondo diegetico e lo spettatore. Il personaggio del film, infatti, viene per un momento a trovarsi seduto accanto allo spettatore dalla sua parte dello schermo. Sulla stessa linea di deliberata rottura del regime scopico si pongono i ripetuti sguardi in macchina dei due Pisapia: il cantante, prima nell’osservazione della foto dell’omonimo al ristorante, poi nel monologo finale in tv; il calciatore, prima nel programma tv e poi in una tesa panoramica circolare che lo ritrae sul divano di casa. Su questi istanti, che come tunnel spazio-temporali mettono in comunicazione i due protagonisti tra di loro ed anche lo spettatore, tornerò con attenzione più tardi, affrontando la poetica cinematografica del regista. Parlando di strutturazione della narrazione, è molto frequente una sottile continua anticipazione, o meglio, un completo e assoluto incastro, di tutti i tasselli della storia: nessun filone narrativo è lasciato aperto, nessuna parola è proferita senza conseguenze, nessun oggetto è solamente tale. Ad esempio: prima che il cantautore sia sorpreso a letto con la minorenne nella cameretta della figlia, le immagini mostrano sul pavimento, illuminati dai lampi, alcuni pupazzi
dall’alto verso il basso, figg. 7, 8, 9, 10
della figlia ed i tacchi della ragazza, mentre da fuori proviene distinto il suono di alcune sirene. O ancora: giusto prima di quella scena, la moglie si lamenta della casa nuova e annuncia di voler tornare in quella vecchia con la suocera, dopodiché sono proprio queste due a scoprire l’uomo a letto con la giovane. Oppure: appena dopo che i compagni di squadra del calciatore pronosticano, una volta conclusa la carriera, la loro completa incapacità professionale in qualsiasi campo, in allenamento Pisapia è steso, infortunato e costretto al ritiro. Infine: quando nel sogno ricorrente del cantautore appare tra le sue mani un coltello e l’omonimo nelle vesti del fratello, il protagonista al risveglio vendica il suicida commettendo un omicidio proprio con un coltello. E questi solo per citarne alcuni. Si ha dunque quasi la sensazione che l’universo diegetico del film sia un mondo perfetto dove tutto fa parte di un progetto finale più ampio, in cui nulla può sfuggire ai rapporti causali obbligati. È un mondo in cui il caso non è mai tale e anche la sorte ubbidisce a precise regole finalistiche, in uno schema deterministico da cui non esiste possibilità di uscita. Infine, si possono trovare numerose evidenti citazioni di celebri film. In primis, la prima scena negli spogliatoi con il turpiloquio incontrollabile dell’allenatore si rifà palesemente al sergente Hartman di Full Metal Jacket di Kubrick. In secondo luogo, il lungo piano sequenza in steadycam che segue il cantautore dall’auto con la band fuori dalla discoteca fino alla pista da ballo ricorda chiaramente la celeberrima scena del ristorante di Quei Bravi Ragazzi di Scorsese. Il piano sequenza è tra l’altro interessantissimo perché segue Pisapia nella discesa nei suoi inferi di piaceri carnali e l’andamento ellittico dell’orbita della macchina da presa attorno all’uomo ce lo mostra per la prima e unica volta all’interno del suo ambiente naturale. Un’altra citazione, invece, è l’inquadratura in cui il protagonista al ristorante con la figlia indossa gli occhiali da sole per difendersi dall’onta delle accuse di non essersi presentato al funerale del padre: egli ricorda Marcello nella Dolce Vita di Fellini accusato all’inizio del film di invadere senza ritegno le vite altrui con i suoi paparazzi. E ancora: al ristorante, quando l’uomo discorre con il proprietario dell’eventuale cessione del locale, l’inquadratura del suo profilo con il primo piano frontale dell’interlocutore sullo sfondo non può non rievocare le storiche inquadrature analoghe delle due donne in Persona di Bergman. Infine, anche l’inquadratura in cui il cantautore è al telefono sul divano, il dipinto ricorda l’impostazione della celeberrima inquadratura del comizio elettorale di Quarto Potere di Welles. Nel complesso, la caratura dei riferimenti a cui Sorrentino pare portare un tributo dà un’idea del punto di partenza dal quale egli pare muoversi. 89
5. la FOTOGRAFIA
fig. 11
Questa opera d’esordio di Sorrentino è l’unico lavoro a non essere fotografato da Luca Bigazzi, ma da Pasquale Mari. È allora centrale evidenziarne i tratti peculiari per confrontarlo con le rimanenti opere in cui ha invece luogo il sodalizio professionale oggetto d’indagine. Il ruolo della luce nel film è di dichiarata centralità sin dalla prima scena dei titoli di testa: la torcia, luce artificiale metafora dell’ingegno umano, che rotea perdendosi verso l’oscurità degli abissi rappresenta l’inevitabile sconfitta dell’uomo, inghiottito dall’ambiente in cui è immerso. Ancora di più, nelle scene seguenti che vedono l’apice della carriera dei due protagonisti, la luce è utilizzata come chiarissima sineddoche per rappresentare l’artificiosità del successo, della fama, dell’esposizione mediatica, che gli uomini sono destinati a perdere. Il calciatore prima si impone nella luminosità del muro dello spogliatoio, poi è abbagliato dal flash del fotografo e infine si staglia sotto i riflettori dello stadio; il cantante, invece, prima trionfa in un leggendario controluce violento sul palcoscenico buio dedicato tutto soltanto a lui, poi nel tripudio di lampadine dello specchio del camerino, infine nel caleidoscopico vortice di faretti della discoteca (fig.11). È la visibilità sociale, frutto della società e dunque rigorosamente visualizzata con illuminazione artificiale piuttosto diretta, notevole, violenta, che essi assaggiano prima del declino nell’ombra. Il resto del film è infatti immerso nella notte, sinonimo di perdizione, inabissamento, ricerca di punti fermi: l’illuminazione è quindi sempre artificiale e sui volti assume il colore 90
arancione, segnale debole di vitalità, mentre li avvolge in un mare di morbide gradazioni degli ambienti declinati al verdognolo, espressione del deperimento circostante. Tale combinazione, inoltre, si rifà ad un impianto illuministico di vecchia data, dato da economiche luci tipicamente al sodio, che da un lato rappresenta con la propria bruttezza il retroscena umile della vita di personaggi abituati alle luci della ribalta, dall’altro manifesta con la propria estetica precedente a quella tipicamente televisiva anni Ottanta una collocazione inadatta al contesto dei due personaggi. Questo particolare stile visivo degli anni Ottanta è mostrato infatti soltanto nel finale, con il monologo del cantautore non per niente sotto i riflettori dello studio televisivo: è un clima azzurro-giallo di spensieratezza e libertà, ma è nettamente smorzato rispetto al tono epico del palcoscenico e soprattutto finisce controluce sul buio. A suggellare il declino dei due protagonisti, inoltre, contribuisce la direzionalità dei flussi luminosi: il calciatore è illuminato da una sorgente orizzontale, da cui deriva una sua perenne ombreggiatura di metà volto, mentre il cantante da una zenitale, che causa la proiezione di un’ombra sia sui suoi occhi che, a causa della chioma, una generale penombra della sua espressione. Le numerosissime scene sono sempre in interno, nelle case dei due Pisapia, che sono dunque intrappolati nel propri ombroso salotti, lontani dal circolo di tramonto e rinascita della luce solare: per loro la notte non ha fine. L’esterno è infatti il luogo della vita, della naturalezza del sole, della luminosità, della possibilità di rigenerazione, che essi intravedono solo per un brevissimo istante. Per la distanza che li separa da ciò, la luce che giunge all’interno delle loro case non è mai diretta: in tutto il film non è mai concessa la fuga prospettica di una luminosa finestra aperta, ma è sempre ovattata da inferriate, tende o tapparelle. Il più delle volte, anzi, le fonti luminose sono lampadari e televisori, orpelli decorativi nella loro reclusione. La luce degli interni è una melassa di penombra leggermente modulare, incapace di strutturare una vera gerarchia visiva (se non con i colori) e di offrire contrasti tra gli sfondi e i personaggi, che ne finiscono invischiati. Il filtro alle finestre disegna texture in richiamo alla prigionia dietro alle sbarre e generano variazioni tonali limitate con ombre poco dense e incorporee (fig.12). Questa incapacità di cogliere la luce naturale produce un effetto metafisico: l’impianto luminoso è perennemente uguale, invariabile, artificioso, costante, cosa che impedisce ai due uomini di partecipare allo scorrere del tempo di cui il sole è massima rappresentazione. Essi sono lontani dalla realtà e incapaci di adattarsi al cambiamento del mondo al di fuori delle loro mura. Tuttavia, i due momenti in cui i protagonisti si giocano l’opportunità di riscatto avvengono sotto alla luce intensa, direzionale e vitale, calda e naturale, del sole alto nel cielo (fig.13). È quella nuova vita che cercano di rincorrere, quel treno del cambiamento e del riadattamento al mondo su cui
cercano di salire, ma falliscono miseramente per tornare a chiudersi nel proprio salotto. Altre due circostanze hanno luogo in esterno, ma la luce ne determina la segregazione con la propria valenza. I due momenti sono l’incubo ricorrente della spiaggia per il cantante e l’ammirazione degli aerei in partenza per il calciatore: entrambe le situazioni sono immerse nella luce avvolgente, onirica, fantastica, lontana del tramonto, in quell’ora (la “golden hour”) in cui il sole appena tramontato annulla le ombre, pur continuando ad alimentare l’atmosfera di luce vitale. La bellezza soffusa dell’illuminazione rosa-azzurra si oppone allo squallore verdognolo delle loro vite, ma con ciò traccia un muro di invalicabile natura. Il perfetto riepilogo visivo di questo è tra l’altro messo in scena nell’ultimo piano del film, in cui si passa dall’interno della cella del carcere su un meraviglioso sole infuocato in procinto di tuffarsi nel mare (fig.14). Proprio il sole che, finalmente splendente e presente nell’inquadratura, si vede per la prima volta nel film nella fuga dell’omicida, per un attimo libero nella sua vitalità. Alcune inquadrature sono decisive nel raccontare il regime di esclusione in cui navigano i dei due uomini. La prima è il fallimentare concerto di piazza del cantautore, dove alla distaccata e mortuaria luce azzurra lunare della gelida atmosfera di piazza si contrappone il caldo arancio sul suo volto dato dagli sparuti faretti del palco (fig. 7/10). Ad enfatizzarla, tale primo piano di profilo è uguale e simmetrico per composizione e colori a quello iniziale sul palcoscenico, strutturando un paragone inclemente. La seconda, invece, è il primo piano del calciatore nel rifiuto dell’offerta di combine dei compagni di squadra. Qui l’uomo è illuminato da un violento faretto azimutale, che proietta ombre nette, sinistre e drammatiche sul suo volto: è la luce antisolare e antinaturale proveniente dal basso che dipinge sulla sua espressione tutta l’avventatezza ed il rischio che Pisapia sta abbracciando con il suo piano di carriera. Il primo piano del calciatore, tra l’altro, gode sempre di un effetto di luce particolare: negli interni è spesso rischiarato per metà da una luce bianca e gelida, laterale, drammatica, artificiale, decisamente fuori posto ed innaturale, che si pone a metà tra la significazione della sua persistete determinazione razionale ed un sinistro presagio di morte. Nel film, inoltre, a livello cromatico si nota subito una completa assenza del bianco, quasi a voler manifestare quell’impossibilità di raggiungimento di un equilibrio ed il destino al rovinoso fallimento. Al contrario, il rosso è largamente utilizzato a simboleggiare il successo, il trionfo, la vittoria, la vitalità. Viene impiegato infatti molto all’inizio, per il camerino del cantante, per la sua cabrio, per la maglia del giocatore, ma si perde per strada. Ritorna in maniera violenta sugli abiti dello sportivo e della nuova fiamma nella scena del colpo di fulmine (fig.15), oltre che sul muro del salotto dell’altro Pisapia nella cena del suo rilancio, ma in entrambi i casi è un fuoco di paglia che si spegne ben presto. Ultima nota riguarda la composizione: il formato 16:9 non è propenso alla spettacolarità, mentre lo stile d’inquadrature di Mari, sia per l’impiego di lenti talvolta distorsive che per il posizionamento della macchina da presa, non si fa mai molto grafico, ortogonale, netto, lineare. È invece tendenzialmente asimmetrico, dinamico e sbilanciato, con diaframmi non eccessivamente aperti.
dall’alto verso il basso, figg. 12, 13, 14, 15
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LE CONSEGUENZE DELL’AMORE
Soggetto Sceneggiatura Regia Fotografia Produttore Montaggio Protagonista Anno Paese Lingua Durata
3.2
Paolo Sorrentino Paolo Sorrentino Paolo Sorrentino Luca Bigazzi Nicola Giuliano Giogiò Franchini Toni Servillo (Titta Di Girolamo) 2004 Italia Italiano 96 minuti 93
1. il RACCONTO
fig.1 (a lato), fig. 2 (pagina a fianco)
In un corridoio, un ragazzo in divisa trasportato da un lunghissimo tapis roulant porta con sé una valigia, mentre scorrono i titoli di testa (fig.1). Titta Di Girolamo presenta in voice-over la propria vita: le giornate nella hall di un albergo in Svizzera, le sigarette come unico passatempo, il silenzio, la noia, la solitudine. Vive da otto anni nella stessa stanza e le uniche persone con cui interagisce sono coloro i quali la sera giocano a carte con lui: il direttore dell’albergo e la coppia di ex-proprietari dello stesso, un anziano giocatore d’azzardo con disturbo bipolare e consorte, nobili ora in disgrazia. Di Girolamo rifiuta infatti il contatto umano, sia di altri clienti che della giovane attraente barista, incuriosita dai suoi atteggiamenti. Soffre da tempo d’insonnia: per tale motivo passa le notti tra riflessioni sul mondo fuori dalla finestra, sigarette, autoerotismo e furtive auscultazioni dei dialoghi dei due anziani, a proposito del lusso perduto e del barare a carte del marito. Titta ha un fratellastro di vent’anni più giovane, una moglie che ogni tanto chiama al telefono e tre figli già grandi, che però declinano ogni suo tentativo di comunicazione. Ha anche un segreto inconfessabile: l’utilizzo di eroina, da decine di anni, solo una volta a settimana, sempre lo stesso giorno, sempre alla stessa ora. La mortale monotonia della routine viene tuttavia interrotta dall’apparizione di una valigia nera nella sua stanza. Recuperate pistola e chiavi, l’uomo sfodera una lussuosa automobile su cui la carica. Destinazione è una banca, dove il ragazzo in divisa dell’esordio la prende in custodia: contiene centinaia di mazzette di dollari che vengono contati a mano su esplicita richiesta di Di Girolamo prima di essere depositati. Riprende poi nella hall la routine dell’uomo, il quale tuttavia fatica a nascondere interesse nei confronti della 94
giovane barista che cerca in ogni modo di provocarlo e farlo uscire dal silenzio. L’inattesa visita del giovane fratello del protagonista, in transito verso le Maldive, rompe la tranquillità. Il ragazzo, tutto l’opposto del fratello maggiore, sprona il fratello alla dinamicità e lo aggiorna riguardo a Dino Giuffré. Miglior amico d’infanzia del protagonista, a cui egli si ritiene ancora molto legato seppur dopo decenni di separazione, si è trasferito dall’originaria Salerno in Alto Adige, a riparare i guasti tecnici sui tralicci dell’alta tensione. La giovane dipendente dell’hotel concede un appuntamento al fratello del protagonista, senza felice esito, mentre Di Girolamo si imbatte nella surreale visione notturna di due uomini intenti a giocare a racchettoni nel mezzo della strada. L’indomani, tuttavia, dopo aver salutato il giovane fratello in partenza, il protagonista decide di rompere il proprio silenzio e siede al bancone della hall rivolgendosi alla ragazza. Tornando in stanza, abbozza il suo primo sorriso del film (al quarantunesimo minuto). Appena entrato, vi trova una spiacevole sorpresa: due sicari siciliani della mafia intenti a prepararsi per l’azione. Non sono venuti per lui, ma Di Girolamo rivela di avere a che
fare con l’organizzazione criminale. I due criminali poi portano a termine l’omicidio pianificato e lasciano la stanza del protagonista, proprio pochi istanti dopo il sopraggiungere di un’altra valigia. Titta scende dalla ragazza al bancone ad approfondire la sua conoscenza, per poi ripetere la procedura del deposito dei soldi in banca. Questa volta, però, alla conta degli usuali nove milioni mancano centomila dollari, sottratti dall’uomo, che porta avanti un bluff magistrale sulla propria innocenza: tuttavia, un’accomodante impiegata addetta al
conteggio manuale finge di trovare il contante mancante. In seguito, il protagonista si sottopone all’annuale lavaggio del sangue per ripulirsi dall’eroina. Il protagonista umilia l’anziano baro con cui gioca a carte ed inizia a frequentarsi con la giovane ragazza del bar, neo-patentata: le regala perfino un’elegante cabriolet, comprata con i soldi sottratti dalla valigia, che tuttavia lei rifiuta. Ferito dal gesto, torna in stanza deluso e rompe per la prima volta la cadenza settimanale dell’iniezione di droga. Poco dopo viene raggiunto dalla giovane, desiderosa di conoscerlo a fondo per accettare il regalo: commercialista di successo, Di Girolamo ha investito miliardi per Cosa Nostra perdendone la gran parte, cosa che, pur non costandogli la vita, lo ha costretto al ruolo di corriere e prestanome. La ragazza non si spaventa di ciò ma anzi, vista l’incombenza del suo cinquantesimo compleanno, fissa un appuntamento per l’indomani per una gita di festeggiamento. Il giorno seguente il protagonista è svegliato dall’arrivo di un’altra valigia. Nel ritirarla, viene sequestrata dai sicari già incontrati in precedenza, insieme all’auto. Titta chiama il suo contatto in Sicilia che gli ordina di recarsi immediatamente nell’isola a spiegare l’accaduto. Egli però prende tempo, per attendere nella hall la giovane donna per la gita in montagna: non sa che non arriverà, perché è finita fuori strada con l’auto nuova. Nel contempo, la coppia di anziani esce dall’hotel per vendere il ritratto della madre di lei, cimelio di famiglia, per restituire con sdegno al protagonista i pochi franchi vinti al gioco barando. Di Girolamo, invece, dopo aver atteso invano per ore, paga sconfortato il suo conto in albergo e si dirige all’aeroporto, inconsapevolmente incrociando l’ambulanza su cui è trasportata la ragazza ferita. Al suo arrivo in Sicilia l’uomo è accolto dal clan e trasportato in un albergo: ride, riflettendo sulla sua prigionia negli hotel. È quindi condotto dal boss, dove racconta la sparizione della valigia. Il boss crede al suo racconto, giustiziando il suo contatto sull’isola, colui che stava dietro ai due sicari. La sorpresa però è che Titta racconta di essere riuscito a recuperare la valigia, uccidendo i due sicari, ma di non avere intenzione di restituirla. L’indomani viene quindi condotto in una cava: mani e piedi legati, appeso ad una gru sopra una vasca di cemento liquido, gli viene intimata la scelta tra la valigia e la vita. La gru inizia a farlo calare ma Di Girolamo non proferisce parola: si inabissa lentamente nel cemento senza battere ciglio (fig2) . La valigia, in realtà, l’ha regalata ai due anziani coniugi, che ne guardano esterrefatti il contenuto con occhi sbarrati. In chiusura, Dino Giuffré, il miglior amico d’infanzia, su un traliccio nell’inverno dolomitico, si ferma a pensare a Titta, che lo accompagna con le parole del voice-over.
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2. il PROTAGONISTA
dallâ&#x20AC;&#x2122;alto veros il basso, figg. 3, 4, 5, 6
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Titta Di Girolamo è un uomo serio, composto, orgoglioso di non essere frivolo: la sua età avanzata, la sua ex-professione prestigiosa, i suoi figli già cresciuti ed il suo abbigliamento formale ne fanno un uomo navigato, insensibile, corazzato. È stato sepolto vivo, ha già rinunciato alla vita da anni e non fa quindi nulla per scampare alla vera morte. È già morto dentro, invecchiato ed imbalsamato a causa delle sue scelte sbagliate del passato: non accetta il fatalismo («la sfortuna non esiste, è un’invenzione dei falliti») ed è talmente cinico e disilluso da non riconoscere nemmeno più alcun valore all’immaginazione, che non riesce più ad avere. Non prova ad evadere nemmeno con il pensiero, non cerca scuse né soluzioni, è totalmente abbandonato alla piega che la sua vita ha preso: un uomo in gabbia rassegnato nella noiosa attesa della morte. È senza passato e senza futuro, con un presente di silenziosa solitudine. Della sua vita passata non ci è dato sapere nulla all’infuori della breve confessione alla giovane ragazza: la lunghissima dipendenza dall’eroina fa ipotizzare ad un trascorso più movimentato, ma nulla più. Una cosa trapela però dal suo muro di riservatezza: la malinconia di una gioventù felice. Lo tradiscono il breve momento di emozione alle parole del fratello riguardo al suo migliore amico d’infanzia ed il rimpianto con cui, durante una partita a carte, denuncia il distacco dalla giovinezza. La sua emotività è però tutta qui. Fa riferimento ad un’eternità dell’amicizia anche se non ha nessuna intenzione di ricominciare a coltivarla in qualche modo, limitandosi a ricordare al fratello le qualità dell’amico esattamente come la coppia di nobili decaduti passa le notti a ricordare gli averi perduti. L’unica gratificazione della sua vita è rappresentata da sostanze eccitanti. Non è in grado di dormire a causa dell’insonnia, ulteriore segnale della sua impossibilità di provare emozioni positive anche solo in sogno. Né il cibo né il piacere carnale paiono capaci di risvegliare in lui alcun istinto vitale: possiamo vederlo a tavola mangiare con scarsissimo interesse e toccarsi sotto le coperte con altrettanta apatia. Nemmeno beve, ancora a certificare una sparizione di volontà vitale anche solo incarnata nel desiderio di dimenticare. L’eroina settimanale con il suo terremoto sensoriale provocato dalle endorfine è per lui l’unica vera evasione concessagli dalla reclusione in albergo: è però uno sconvolgimento, più che piacere. L’altra sostanza è la nicotina delle sigarette, il cui consumo rappresenta la sua principale attività quotidiana: la dopamina, stimolante al loro interno, pare però non riuscire a influire sulla sua inconsistenza emotiva. La dipendenza dalle due sostanze non riesce comunque a procuragli del godimento fisico, ma al contrario la forte dipendenza che esse creano mette l’accento sulla sua condizione di imprigionato, inchiodato irremovibilmente alla sua routine. L’episodio in cui due ragazze infrangono le sue norme quotidiane occupandogli il posto preferito è abbastanza esemplare: l’una legge all’altra un brano di Viaggio al termine della notte di Céline, in cui l’autore decanta l’accessibile artificiosità del piacere dato dalle reminiscenze e dall’immaginazione, comparandone la pochezza della droga. L’uomo tuttavia tiene sempre con sé un porta sigarette in cui sono allineate in ordine alterno sigarette dotate di bocchino e sigarette normali: rappresentano una minima variazione nella sua routine, che pur facendo parte del suo rigido e consolidato mondo di abitudini stantie mettono in luce una sua residuale fiammella di ribellione. Inoltre, anche un ultimo fragile ma inossidabile segnale di vita alloggia nella sua persona: il sarcasmo e l’ironia con cui affronta la realtà. È un timido segnale di vitalità, l’ultimo baluardo di umanità, una maschera sul vuoto più totale che tuttavia manifesta ancora una presenza. Lo splendore della gioventù riaccende la sua anima da lì. Il personaggio di Titta è costruito in modo tale da apparire fuori dalla portata di qualsivoglia emozione vitale, cosicché quando ne viene scalfito e trafitto ne risalta ancora di più l’irresistibile causa: l’innamoramento. La giovinezza, infatti, esercita ancora su di lui un fascino che nemmeno il suo infinito grigiore interiore riesce ad ignorare: le occhiate furtive alla barista nuda mentre si cambia la camicetta tradiscono i suoi propositi di insensibilità alla vita. Di Girolamo dunque testimonia come anche l’occhio più atrofizzato ed invecchiato non riesca a rimanere impassibile di fronte alla bellezza. Come racconta il titolo del film, il protagonista si lascia conquistare dall’infatuazione e decide di arrivare a sacrificare la propria vita in un inseguimento irragionevole. Non è però l’amore la ragione del suo sacrificio, in quanto esso è solo la scintilla che fa scaturire il suo incendio di ribellione: ciò che lo uccide sono le conseguenze di tale amore, cioè la riappropriazione della propria dignità umana, di cui la sconsideratezza fa parte. «Voi vi siete rubati la mia vita, io ora mi rubo la vostra valigia»: più che altro, un atto d’orgoglio suicida. 97
3. le TEMATICHE
Il regista concepisce l’idea del film osservando gli uomini d’affari incontrati in albergo durante le riprese del primo lavoro. Ciò che lo colpisce è la loro aura di impenetrabile mistero ed il senso di imperturbabilità che essi sembrano emanare. A questo, unisce la passione per i film gangster americani, con la volontà di rendere con occhio più critico e realistico la loro natura. La mafia, quella vera, infatti, ha una caratteristica che ben si sposa con un impianto narrativo di estrema lentezza come questo: non ha fretta. Uno dei temi centrali del film, quindi, come si capisce dopo poche inquadrature, è proprio il tempo. Il protagonista è un ergastolano che deve confrontarsi quotidianamente con la propria condanna a vita. La sua cella è rappresentata dall’alienazione di una vita in una stanza d’albergo, luogo di residenza temporanea per eccellenza, loculo impersonale di un alveare, negazione dell’identità e dell’intimità. L’albergo in cui hanno luogo con insistenza gran parte delle vicende è più che altro un luogo di reclusione (come reclusi sono i due nobili decaduti). È una detenzione prima di tutto psicologica e poi anche fisica: la cella è il rifiuto alla vita prima ancora della stanza e le sbarre sono le rigide abitudini prima ancora delle mura d’albergo. Come in tutte le prigionie, il supplizio è osservare il tempo scorrere e finire in niente. Di Girolamo non passa il tempo, lo brucia, come le sigarette che accende senza aspettare nemmeno di avere finito la precedente. È una vittima sopravvissuta della vecchiaia, che se lo sta rosicchiando un po’ alla volta ma a cui egli ha già accordato la vittoria. Il tempo è l’implacabile destino che prima o poi sarà di tutti, quel carro funebre antico dell’inizio. Di Girolamo non ha un futuro e non è in grado di apportare cambiamenti alla propria condizione presente, per cui si rifugia nel ricordo del felice passato, che tuttavia gli sfugge inevitabilmente: è cosciente che non rivedrà mai l’amico d’infanzia, sa che la sua famiglia lo ha già cestinato da anni, prevede di morire in maniera lenta e poco spettacolare come anche il nobile decaduto con cui gioca a carte. Il protagonista non è infatti l’unico superstite dello scorrere del tempo: la coppia di anziani, a maggior ragione, non fa altro che crogiolarsi nel ricordo dei bei tempi prima della disgrazia. Di contrappunto all’ineluttabilità del tempo, però, viene posto il tema della bellezza. Chiaro simbolo ne è la 98
giovane cameriera, che con il fascino derivante dalla propria giovinezza ricorda a tutti gli ospiti dell’albergo lo splendore che la natura può offrire, seppure succube dello stesso destino infausto. La ragazza, inoltre, rappresenta anche la potenza del desiderio amoroso che riesce a sconfiggere qualsiasi volontà di farlo tacere. Questo sentimento, però, non è inquadrato in sé come legame affettivo tra uomo e donna, quanto come principe dei sentimenti in grado di portare all’affermazione della persona. Ben più centrale nel film, infatti, è il tema dell’identità. Innanzitutto, il film è ambientato in Svizzera nel più elvetico silenzio. Tutta la prima parte è vissuta dallo spettatore come un graduale smantellamento del muro di mistero che avvolge la personalità di Di Girolamo. La sua riservatezza è però ben protetta dalla filosofia locale, storicamente garantista a riguardo, che si manifesta sia nell’orgoglio di discrezione del direttore dell’albergo, sia nel trattamento di riserbo del personale della banca. Inoltre, l’identità è investigata anche nel difficile risvolto dell’apparenza: tutti i personaggi che agiscono nella storia, infatti, nascondono segreti più o meno scottanti. L’attenzione è allora posta su come riuscire a cogliere la vera natura a tutto tondo delle persone, che spesso non ha nulla a che vedere con ciò che danno ad apparire. Così, il direttore d’albergo si rivela un ladruncolo di sci, l’anziano nobile decaduto un baro incallito, la giovane cameriera non una femme fatale dall’indefinito numero di amanti ma solo una ragazza intenta a prendere lezioni di guida, lo storico cliente dell’albergo un eroinomane luogotenente di Cosa Nostra. L’identità sfugge allo sguardo decretando il fallimento della vista come mezzo d’indagine nel mondo, riabilitando il dialogo come indispensabile alla conoscenza: non è stando chiusi nella propria solitudine che si riesce ad afferrare la bellezza o l’abominio di ciò che ci circonda. Di Girolamo scopre del baro al gioco solo ascoltando di nascosto le conversazioni della coppia anziana, come scopre la reale natura del direttore d’albergo e della barista dialogandoci a quattr’occhi. La solitudine è quindi interpretata come fallimentare isolamento decisamente sterile. L’identità, però, è anche indagata nella sua natura più profonda, cioè la volontà. In un’ottica nietzschiana, infatti, il protagonista riesce ad affermare sé stesso solo quando si riscopre come volontà di potenza, desiderio di autoaffermazione, accettazione del cambiamento e del proprio destino. Questa è quindi la maggiore conseguenza apportata dall’innamoramento. Di Girolamo decreta la propria fine nel momento in cui sceglie di liberarsi dalle catene in cui è stato confinato, ribellandosi ad un sistema che prevedibilmente lo annienta in brevissimo tempo. Conscio del suo destino e dell’assoluta inconcludenza del suo gesto, egli però non rinuncia a rivendicare la propria identità in opposizione alla rete in cui è intrappolato. Non è un processo istantaneo né semplice: egli è a conoscenza di quanto sia pericoloso, come afferma alla ragazza, ma ciononostante decide di approcciarla, poi di smascherare il baro pubblicamente, quindi di sottrarre dei soldi da una valigia, ancora di farsi una dose fuori dal momento tradizionale, infine di rubare la valigia stessa. Il film è quindi una aperta testimonianza di ribellione alle routine, alle norme, agli schemi, ai poteri, solo per onorare la vita, ma è un rivoluzione persa in partenza che naufraga nel duro confronto le conseguenze dell’irrazionalità.
Il film è una sorta di noir, un giallo senza delitto, in cui tutta l’attenzione dello spettatore è concentrata sulla scoperta di indizi e segreti riguardo all’identità del misterioso protagonista. Le informazioni che la regia decide di lasciare trapelare sono perciò centellinate e misurate, mai più di un tassello apparentemente isolato alla volta. Spesso sono addirittura criptiche ed enigmatiche: anche una riflessione in voce fuoricampo di dieci parole su un latitante, nel finale si rivela essere un’anticipazione chiave. Si tratta di una focalizzazione per lo più esterna, in cui il mistero sulle ragioni che muovono il protagonista si dipana con grande lentezza. I primi venticinque minuti del film sono puramente descrittivi dei pochi, sparuti personaggi presenti e li caratterizzano con minuziose sineddoche spesso sottili, tradotte in dettagli e primi piani. Il ritmo di avanzamento del racconto dunque ricalca il carattere del protagonista che ne è al centro: piatto e rassegnato, con inquadrature notevolmente lunghe che enfatizzano l’inesorabile e noioso scorrimento del tempo. Non succede praticamente nulla che metta in moto la storia fino all’apparizione della prima valigia. Al contrario, i radi momenti di azione, primi su tutti i trasporti della valigia in banca, sono caratterizzati da un montaggio ellittico incalzante che condensa lo sviluppo dinamico in brevi inquadrature in rapida successione, per poi distendersi nuovamente in lunghi primi piani del protagonista. La resa emotiva della noia mortale che soffoca Di Girolamo è data dalla struttura narrativa magistralmente costruita su una continua negazione della tensione che potrebbe scaturire dai pochi eventi della storia. Il film si impegna sistematicamente a svuotare con cinismo la suspance tipica del suo genere ed il regista fa di tutto affinché le vicende scivolino davanti agli occhi dello spettatore con lo stesso distaccato disinteresse degli occhi del protagonista. La struttura narrativa è quindi ben riassunta nell’inquadratura con cui si apre il film: un avanzamento obbligato, silenzioso, ineluttabile e destinato a finire senza sussulti. Il racconto dunque fluisce in costante sordina fino alla drammaticità del piano sequenza del colloquio con il boss mafioso: questo dovrebbe configurarsi come il momento topico dell’intero film, apice della tensione, ma viene ancora una volta privato del proprio carico drammatico con uno scioglimento che ne rimanda più avanti la crisi finale. La scena nel cantiere edile vede dunque il protagonista di fronte al drammatico aut-aut di Cosa Nostra: si rivela però un anti-climax, poiché si risolve in un desolante silenzio. L’unico lampo di emozione è rappresentato dal flashback in cui si scopre il destino della valigia. Come nell’opera precedente, nella prima parte del film al protagonista è interdetta la possibilità di azione. Come i due Pisapia, egli è egualmente costretto a sedere o, al più, gli sono concessi pochi passi nella hall, nei corridoi o sulle scale dell’albergo. Ancora una volta trionfano dunque dettagli, primissimi o primi piani, mezze figure o rarissime eccezioni che si spingono alla figura intera. La prigionia è rappresentata sia con la frammentazione autoptica del personaggio in dettagli sia con la scenografia, in cui si ripetono fino alla nausea la stessa poltrona nella hall e la stanza da letto. Rarissimi sono i momenti in cui Di Girolamo ci viene offerto all’esterno del suo carcere alberghiero: su tre soli piani, in due di essi egli è seduto su una panchina con le mani giunte e si alza per incamminarsi muovendosi verso il margine sinistro dell’inquadratura, di spalle, chiaro atto metaforico di ritorno al passato ed alla prigionia abituale; nella rimanente, invece, avanza portandosi dietro un carrello a seguire per poi fermarsi, girare sui tacchi e ritornare sui suoi passi con un carrello a precedere, ancora una volta chiara metafora di un’impossibilità di fuga. Non migliora molto la situazione con il procedere del film. Negli spostamenti verso la banca, l’attenzione è sul dettaglio del telecomando automatico e sulle caratteristiche tecnologiche dell’auto in sé: non è l’uomo a spostarsi, quanto l’auto a portarlo. Egli ritrova la sua condizione abituale accendendosi la sigaretta una volta sceso e poi sedendosi alla finestra durante le operazioni di conteggio. Un’altra scena lo vede scendere lentamente sulle scale mobili di un centro commerciale, dove ancora una volta egli è solo la parte passiva del movimento. Nella seconda parte del film, Di Girolamo cammina all’esterno dell’albergo in tre sole occasioni: all’arrivo all’aeroporto in Sicilia, all’incontro con il boss mafioso nella sala conferenze e dopo aver accompagnato la giovane ragazza a comprare, guarda caso, un paio di scarpe. Questa inquadratura è la chiave metaforica di tutto il film, tant’è che ne traduce il titolo. Inizia appena fuori dal negozio con una mezza figura frontale dei due in movimento a precedere, per poi farsi sorpassare lateralmente e rimanere alle loro spalle innalzandosi ad altezza gru, sul campo lungo di una piazza. Durante ciò, la ragazza aumenta il passo e distacca il protagonista per girarsi a sorridergli ed infine ricongiungersi. È la metafora dell’uomo che finalmente esce allo scoperto, inseguendo la bellezza della gioventù, deciso a rimettersi in discussione ma destinato al fallimento, al ritardo, a farsi seminare presto perché non appartenente a quella gioventù. In
4. la REGIA
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aggiunta, un dettaglio tradisce il destino infausto: il lato della piazza su cui si avviano è quello in ombra ed evidentemente ancora molto bagnato. Una scivolosità che ben rappresenta le tragiche conseguenze di quel lampo d’amore. In generale abbiamo visto come il movimento e l’azione siano ridotte già nella sceneggiatura e soprattutto minimizzate in nuclei condensati di dinamicità dal montaggio ellittico; stante la presenza ridotta del dialogo, il racconto è allora affidato tutto all’espressività degli attori, o meglio, dell’attore protagonista. In soldoni, si può dire che il film si affida alla (eccezionale) mimica facciale di Servillo ed al movimento macchina di Sorrentino. Il volto del protagonista, grandiosa espressione della sua interiorità imbalsamata prima descritta, è generalmente plumbeo, granitico, imperturbabile, assente, e la maestosità della recitazione e della direzione sta nel tradurre l’emozione della situazione nella minima incertezza del labbro, nell’impercettibile flessione del sopracciglio, nel battito di ciglia inaspettato. Di Girolamo mostra solo due sorrisi nell’intero film: il primo dopo avere trovato il coraggio di approcciare la giovane ragazza, il secondo nei momenti di attesa prima di incontrare il boss mafioso, quando commenta dicendo: «non riesco a liberarmi degli alberghi». Questo si rifà alla sua ironia, altro aspetto fondamentale, che si esprime in una prontezza all’espressione sarcastica e soprattutto nel tono in cui egli proferisce le proprie battute. La recitazione del protagonista, perciò, è tutto un gioco di piccole sfumature, dettagli e silenzi che vengono sempre colti da vicino dall’occhio mobile del regista. È il suono, allora, ad essere incaricato di un ruolo decisivo nel vivacizzare l’ambiente, altrimenti ovattato dalla riservatezza svizzera. Numerose inquadrature di dettagli lo enfatizzano appositamente: la chiusura zip del cappotto della barista, il rumore del fuoco dell’accendino del protagonista, il fruscio dei soldi contati dai commessi in banca, il beep del telecomando della macchina, gli zoccoli dei cavalli del carro funebre e via dicendo. Sul contrasto stridente ed ironico giocano anche i numerosi brani musicali, uno su tutti quello cantato dai mafiosi durante il viaggio in macchina verso il cantiere edile del finale in Sicilia. Per evitare il rischio di noia e staticità, «la regia cerca di andare contro alla sceneggiatura»(2) puntando al dinamismo della macchina da presa, che soprattutto nella prima parte si concede raramente un’inquadratura fissa. Come anche nel primo film del regista, lo sguardo registico si articola in inquadrature frutto di carrelli e dolly (talvolta gru), stabilissime ma irrequiete e curiose, nel tentativo di infrangere il muro di silenzio che protegge l’uomo. I movimenti macchina privilegiano soprattutto il piano orizzontale, con numerose intense panoramiche circolari che investigano il primo piano, mentre si muovono meno sull’asse verticale, come a volere impedire un netto mutamento dell’ordine che regna in scena. Sono soltanto tre in tutto il film i piani che sfruttano la tensione intima dell’immagine della macchia a mano: il primo in seguito all’iniezione di eroina, che assieme ad un montaggio di sovrapposizione di immagini pubblicitarie testimonianza l’alterazione dell’uomo nel centro commerciale; il secondo nella fuga dell’uomo dopo lo sfogo della giovane barista riguardo alla sua scortesia nei suoi confronti, che denuncia la profonda ferita intima aperta dal contatto diretto con la 100
Sorrentino P, intervista tra i contenuti extra del dvd (2)
ragazza; il terzo nel lunghissimo piano sequenza del colloquio con i vertici mafiosi. Inoltre, la ragazza ed il boss di Cosa Nostra (inquadrato solo e soltanto di spalle, ad estremizzarne la caratura), sono gli unici personaggi di tutto il film, insieme al cliente con cui il protagonista dialoga brevemente nella hall, che hanno il privilegio di osservare il protagonista dal punto di vista dell’inquadratura over-the-shoulder: sono gli unici che cercano di andare a fondo nella sua personalità valicandone il muro di mistero, gli unici che manifestano una precisa soggettività identitaria e che dunque possono guadagnarsi un punto di vista marcatamente soggettivo. Nei dialoghi con il direttore di banca, il fratello e gli anziani, invece, Di Girolamo è rappresentato da una semplice inquadratura oggettiva, che rispetta l’alternanza di campo e controcampo ma non è contaminata dalla loro presenza. Riguardo alla macchina da presa, invece, il suo impiego verrà approfondito meglio più avanti, dunque vorrei limitarmi solo ad evidenziare alcune caratteristiche delle inquadrature. Innanzitutto, nel complesso del film si ritrovano svariati primi piani di spalle, chiara traduzione visiva del mistero che avvolge la figura dell’uomo. Inoltre, egli si trova sempre a guardare nel fuoricampo sinistro, quello del passato e della riflessione, sia nei dialoghi che nei momenti di pensiero solitario, con poche eccezioni: ad esempio, l’approccio al banco alla barista, che lo proietta nello scivoloso futuro. L’aspetto invece fondamentale delle inquadrature negli interni dell’albergo è quello che trasmette la sensazione di perdita dell’identità prima trattata: la perdizione del volto nella riflessione degli specchi. Tra vetrate, finestre e specchi, la scenografia dell’albergo è un unico caleidoscopio di volti, dove originale
dall’alto verso il basso, figg. 7, 8, 9, 10
e fittizio si mescolano senza soluzione di continuità. Infine, come già detto, la lunghezza dei piani è mediamente notevole e risponde benissimo a quella necessità di comunicazione di flemma, noia, prigionia a vita ed ineluttabilità del tempo. Inoltre, vorrei mettere in luce alcune inquadrature chiave che costituiscono, nella mia opinione, la testimonianza meglio riuscita della grande capacità di traduzione registica di Sorrentino. La prima è la prima iniezione di eroina di Di Girolamo. Inizia con un primo piano di spalle di tre quarti per avanzare poi con un carrello lungo il braccio che l’attore alza disteso per il buco (fig.7): con ciò si scavalca metaforicamente il muro di riservatezza dato dalla schiena dell’uomo per giungere a cogliere un suo segreto inconfessabile. Accompagnato dalla sua confessione fuoricampo, lo sguardo della macchina procede avanti fino alle inferriate della finestra, da cui si inclina verso in basso inquadrando l’arrivo della barista (fig.8). La chiara rappresentazione è quella della separazione del protagonista dal mondo esterno e anche dalla giovane, configurando l’uomo come carcerato dietro alle sbarre della sua stanza. La macchina da presa poi ripercorre il movimento inverso ritornando ad una mezza figura dell’uomo ora nascosto sotto le lenzuola, passando per la visione allucinatoria dei suoi tre figli vestiti da chierichetti, manifestazione del giudizio divino sulla sua coscienza (e tossicodipendenza), sintomo del rimorso di averli perduti e segnale dell’alterazione psicofisica data dall’eroina. Dopo poco, l’uomo riemerge di scatto dalle lenzuola, seguito in panoramica a schiaffo fino al suo primo piano di profilo, e si gira a controllare la veridicità o meno della sua visione. Tranquillizzatosi, si ripete lentamente al contrario il suo movimento e quello dello sguardo del regista verso il letto. Questo secondo movimento di andata e ritorno rappresenta il tentativo estremo dell’uomo di reagire, di alzarsi e cambiare le cose, tuttavia sedato e troncato sul nascere, con lo spazio in cui egli getta uno sguardo che va a configurarsi come lo spazio della sua coscienza (è infatti il letto dove dormirà il fratello, che lo richiamerà alla gentilezza nei confronti della ragazza e lo spingerà finalmente all’azione). Altra sequenza fortemente simbolica è quella che affianca due inquadrature analoghe e corrispondenti durante la partita a carte, dopo che l’anziano ha raccontato del proprio desiderio di una morte rocambolesca. Inquadrato di profilo in primo piano con il direttore d’albergo frontale sullo sfondo (fig.9), Di Girolamo interrompe la conversazione del momento con un’uscita riguardo alla necessità del coraggio per imbattersi in una morte simile, che zittisce tutti. Ciò che dà però il significato a tutto ciò e che pronostica gli sviluppi successivi di tutto il film è la successione di un’inquadratura esattamente corrispondente, con l’anziano in primo piano e la moglie sullo sfondo (fig.10), ottenuta con un lampante scavalcamento di campo. La rottura deliberata delle regole classiche unita alla sovrapposizione dei profili dei due uomini manifesta platealmente l’identità tra le loro intenzioni, così facendo insinuando il dubbio reale (e pronosticando) che sia allora il protagonista a ricercare uno slancio di coraggio e una morte movimentata. Terza ed ultima inquadratura chiave è quella della seconda iniezione d’eroina, piano sequenza capolavoro che sottolinea l’eccezionalità della rottura della consolidata routine settimanale e manifesta in termini visivi la violenza 101
dall’alto verso il basso, figg. 11, 12, 13, 14
perturbatrice della droga. Ancora una volta parte da un mezzo primo piano di spalle (fig.11), stavolta ortogonale, con la macchina da presa che scavalca molto lentamente l’uomo in una panoramica circolare verticale, rimanendo puntata fissa sulla sua testa ed includendo il braccio dell’iniezione. Completato un capovolgimento di centottanta gradi, avanza sul primo piano del protagonista che nel mentre si distende retrocedendo (fig.12). Una volta che egli si è adagiato con la testa reclinata all’indietro, la macchina da presa ripercorre un capovolgimento di centottanta gradi contemporaneo al risollevamento dell’uomo (fig.13). Si torna dunque ad un mezzo primo piano di spalle in cui l’uomo si scioglie il laccio emostatico (fig.14), si alza ed esce dall’inquadratura, lasciandola vuota. Il tutto per una durata di ben novanta secondi. Il complicatissimo piano sequenza si basa dunque ancora su un movimento di andata e ritorno già visto per l’altra iniezione, a sottolineare il tentativo di evasione tramite la droga che però risulta fallimentare e lo riporta alla situazione 102
di partenza. Il rovesciamento a testa in giù però rende più che mai tangibile l’estraniazione e lo sconvolgimento vissuto dal personaggio grazie alla sostanza: una breve ma netta esperienza che si pone nettamente al di fuori della normale realtà. In aggiunta, la scelta di partenza ed arrivo alle spalle dell’uomo ne evidenziano ancora una volta il rapporto negativo e isolazionista nei confronti della vita, da cui si sente escluso e reietto (la ragazza ha appena rifiutato l’automobile che egli le ha comprato). Lo scavalcamento delle spalle e la vista frontale coincidono con la volontà del regista di valicare la sua corazza di impenetrabilità per mettere lo spettatore in grado di osservare da posizione privilegiata l’intimità segreta che a nessuno è data sapere. Questo infrangimento assieme al ribaltamento verticale mettono in luce ancora una volta l’eccezionalità del gesto, che sfugge a quel sistema ferreo di consuetudini cementificate dal tempo che l’uomo ha iniziato ad abbattere. Il campo vuoto finale, infine, sintetizza bene ciò che comunque il personaggio ottiene sia con questo gesto che con la propria ribellione alla routine: niente. Un ulteriore dettaglio è presente in questa inquadratura chiave: è lo sguardo in macchina del protagonista. Non è il primo né l’ultimo, poiché ce ne sono altri quali quello iniziale accompagnato dalla voce fuoricampo che presenta sé stesso e quello durante l’inabissamento nel cemento finale. In aggiunta, se ne nota un altro, durante una falsa soggettiva, in cui una donna bellissima pare guardare il protagonista negli occhi. È presente dunque una dichiarazione iniziale, intermedia e finale della conoscenza del personaggio della presenza dell’istanza narrante e certifica la sua accondiscendenza a farsi seguire ed osservare. L’uomo si fa narratore di sé stesso tramite il racconto verbale fuoricampo tant’è che sopravvive alla sua medesima morte, commentando dopo di essa le immagini dell’amico di infanzia al lavoro. Inoltre, i suoi sguardi in macchina coincidono con momenti particolarmente significativi, quasi ad appellarsi allo spettatore nel momento di difficoltà. Non voglio comunque entrare nel dettaglio della questione in questa sede, poiché la sua trattazione troverà già il suo spazio nelle pagine dedicate alla concezione del film del regista.
5. la FOTOGRAFIA
fig. 15 (a lato), fig. 16 (sotto)
L’atmosfera dominante nel film è quella di mistero, che farebbe supporre ad un clima tendenzialmente oscuro e drammatico. Non è però questo il caso. L’originale declinazione dell’idea d’impenetrabilità eseguita da Bigazzi, infatti, predilige una perenne illuminazione tonale, piatta e uniforme, interpretata al ribasso della luminosità ambientale, che non dia punti di riferimento all’occhio indagatore dello spettatore. Non mancano ovviamente le scene notturne caratterizzate da un muro di penombra, ma in questo film non è la tradizionale ombra a manifestare l’enigmaticità del personaggio, quanto la sua innaturale e completa assenza. È un ribaltamento di un processo consolidato che infatti lascia ancora più spiazzato lo spettatore. Il sentimento di mistero è reso da un rapporto d’illuminamento invariabilmente paritario, cioè da una mancanza di differenza d’esposizione tra soggetto e sfondo, associata ad un annullamento del contrasto (fig.15). Se il ritmo visivo di luci e ombre è quello che l’occhio umano utilizza per afferrare il mondo, il suo appiattimento annulla la capacità di cogliere informazioni e causa un irrisolvibile senso di spaesamento. La continuità plastica senza 103
fig. 17
soluzione di continuità, facilitata da una notevole unità di spazio, organizza un continuum spaziale in cui l’orientamento è pressoché impossibile. L’unico strumento per decifrare in qualche modo il visibile è tuttavia offerto dalla lente dell’obiettivo: la profondità di campo è sempre particolarmente sottile (fig.16), cosa che permette di concentrare l’attenzione sul dettaglio fondamentale e restituire una sorta di tridimensionalità spaziale. Il film è girato in pratica soltanto in interni, tra l’altro con un’ossessiva insistenza sugli stessi due luoghi della hall e della stanza, con qualche scorcio urbano visibile da vetrate e finestre che, con la propria profondità prospettica, sottolinea la differenza tra il mondo piatto e sigillato dell’albergo. L’illuminazione, però, sfrutta e replica una luce solare rigorosamente riflessa dal grigio cemento della città svizzera. Le rare inquadrature in esterno, invece, utilizzano la diffusione resa dalla massa uniforme di nuvole del cielo autunnale. L’atmosfera conseguente, quindi, è quella di un’angosciante sospensione in un mondo metafisico lontano da ogni vitalità (fig.17). La noia esistenziale in cui si consuma l’esistenza del protagonista è tradotta benissimo già nella prima inquadratura: l’organizzazione compositiva è impeccabile, ferrea e opprimente, e l’estenuante lentezza con cui la macchia scura umana avanza nel corridoio inondato omogeneamente di luce sintetica metaforizza l’asettico e insipido percorso della sua vita. Di Girolamo è una presenza sospesa fuori dal tempo e dalla vitalità, motivo per cui non gli è mai concesso il contatto con la luce solare ma è condannato a essere reso visibile quotidianamente da una luce di provenienza indecifrabile. Soltanto nell’ultima scena nel cantiere edile conosce nuovamente il calore vitale del sole e la libertà sconfinata del cielo azzurro sgombro da nuvole, ma è il canto del cigno della sua esistenza, la consumazione visiva dell’energia residua nell’inutile gesto di ribellione. È comunque presente un contrasto luminoso nel film, di genere però sequenziale. Si manifesta infatti nell’alternanza tra le metafisiche scene diurne e le impenetrabili penombre notturne, che rappresentano la stessa faccia della medaglia di quell’atmosfera di mistero sopraccitata. Nella stanza del protagonista, di notte è presente anche un certo grado di chiaroscuro volumetrico piuttosto drammatico, dove l’accostamento tra fasci luminosi direzionali artificiali e distese di ombre dense e nere ristabilisce quel pathos 104
emotivo altrimenti annichilito dall’innaturale afonia diurna. Altre scene presentano lo stesso chiaroscuro: esse sono particolarmente efficaci per l’attesa drammatica nell’albergo siciliano, amplificata dalla colorazione rossa delle pareti, e per le scene nella camera degli anziani. Qui hanno luogo due inquadrature molto espressive: nella prima, il disturbo bipolare dell’uomo è reso con un magistrale mezzo primo piano che ne illumina lateralmente solo metà volto, lasciando l’altra metà nel buio più totale, disegnata da un leggero controluce; nella seconda, l’umiliazione per essere stato scoperto baro è trasformata in un epico controluce che profila la sua figura nuda. La palette cromatica non può che adeguarsi alla piattezza chiaroscurale. Il film è in sostanza una variazione ritmica sul tema del colore più neutro in assoluto, il grigio. Gli interni dell’albergo lo declinano in un colore giallognolo, lattiginoso, beige, desaturato, una tinta simbolo di un monotono invecchiamento polveroso, declinato con quel pizzico di calore e intimità che si confà agli interni. Gli esterni e la banca, di contrappunto, si raffreddano in tinte grigio-azzurre, ancora meno personali, a metà tra l’executive e la totale riservatezza dell’identità propria della Svizzera. Anche la bandiera
dall’alto verso il basso, figg. 18 e 19
crociata, rarissima macchia di colore, appare slavata e restia a rompere l’equilibrio acromatico, allo stesso modo dei dollari quasi grigi. Spezzano invece questa infinita mancanza di tinte i personaggi giovani, metafora di una vitalità non per sempre sopita: la camicetta della ragazza del bar, i suoi occhi, il maglione del fratellastro di Di Girolamo o la tuta del sicario ventenne richiamano l’attenzione sull’irresistibile vibrazione vitale propria della giovinezza (fig.18). Infine, a completare la resa del sentimento di prigionia del protagonista contribuisce un’impostazione dell’inquadratura instancabilmente grafica, ordinata, impeccabile. Fioccano i piani di assoluta simmetria, costituzione della gabbia senza uscita, e non c’è campo visivo che non sia strutturato secondo l’architettura rigida degli interni (fig.19). La composizione è sempre perfetta ed equamente bilanciata secondo un’architettura di stampo molto bidimensionale, che intrappola l’uomo nel suo ambiente. In ultimo, una nota di eccezionale sensibilità visiva va a Bigazzi per l’esecuzione del lungo e movimentato piano sequenza del finale, in cui le oscillazioni umane della macchina da presa restituiscono alla perfezione la drammaticità dei tentennamenti del protagonista. 105
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L’AMICO DI FAMIGLIA
Soggetto Sceneggiatura Regia Fotografia Produttore Montaggio Protagonista Anno Paese Lingua Durata
3.3
Paolo Sorrentino Paolo Sorrentino Paolo Sorrentino Luca Bigazzi Nicola Giuliano Giogiò Franchini Giacomo Rizzo (Geremia de’ Geremei) 2006 Italia Italiano 110 minuti 107
1. il RACCONTO
Sui titoli di testa si susseguono personaggi bizzarri: una suora interrata in spiaggia fino al collo, un anziano con un fazzoletto in testa (fig.1), una ragazza con una grossa valigia, un uomo vestito in stile country ed alcune ragazze in divisa che giocano a pallavolo. Padre, madre e zio di una futura sposa, invece, discutono sulle spese del matrimonio, con disperazione. Segue il vecchio con il fazzoletto in testa: vive con la madre inferma, ancora più anziana, costretta a letto in un piccolo appartamento di oscenità e sporcizia rare. È orrendo, dal viso all’andatura passando per gli indumenti ed il sacchetto di plastica che tiene al gesso. Il vecchio, Geremia, incontra la giovane ragazza con la valigia dell’inizio, appena giunta dalla Bulgaria, in un’agenzia matrimoniale di un’amica che combina anziani e giovani dell’est. Non è la prima volta che ci prova. I due camminano verso la casa dell’anziano: lei è orripilata e allunga il passo. Nel contempo, incontrano la suora con una parabola. La dimora di Geremia è un bilocale marcescente e buio: lui le racconta la sua vita, l’abbandono del padre ed il rimedio all’emicrania delle patate in fronte sotto al fazzoletto, lei non capisce l’italiano e sorride. Chiede dell’acqua, e quando il vecchio torna con un bicchiere, è fuggita. Geremia Cuore d’Oro, così ama farsi chiamare, valuta una signora in intimo che necessita soldi per ritocchi estetici. Sono nel retrobottega della sua sartoria, attività usata per ricevere ben altri clienti: Geremia è un usuraio. In negozio entra una giovane coppia per pagare la rata. Geremia mostra spietato cinismo, cortesia minacciosa e un’ottima saggezza popolare intrisa di divulgazione scientifica. Con molta avidità si spappola in bocca uno dei tantissimi gianduiotti che tiene ammassati sul banco di lavoro. Ne prende con sé un’intera manciata nel bar di Gino, l’uomo vestito da cowboy, in realtà suo informatore. Al supermercato, invece, finge di acquistare una singola caramella nascondendo sotto il cappotto una scatola di merendine. La refurtiva è la cena che, giunto a casa, lancia alla madre, occupata tutto il giorno a seguire
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fig. 1
documentari di bestie varie. L’inferma lo avvisa che una suora ha portato una parabola, mentre discutono sull’infelicità delle persone. Geremia trova la strada invasa di persone che trasportano sedie. Sono quelle fatte mancare dallo sponsor ad un concorso di bellezza dove la futura sposa, Rosalba De Luca, figlia della coppia dell’inizio, trionfa. Si esibisce danzando maestosa davanti agli occhi del pubblico, tra cui figura anche Gino. Il padre della ragazza chiede informazioni su Geremia ad un amico: il loro dialogo fuori campo accompagna l’usuraio tra numerose cassette di sicurezza bancarie alle prese con scatole di detersivo stipate di gioielli, orologi e contanti. Il vecchio dà quindi prova di risolutezza e furbizia a casa della giovane coppia già vista, dove con i suoi scagnozzi sequestra elettrodomestici e gioielli. Le richieste procedono a gonfie vele per Geremia: Gino gli fornisce informazioni sulla cliente dei ritocchi estetici; un’anziana malata si presenta in sartoria a chiedere un prestito per curarsi; un giovane lo ferma per strada con il desiderio di comprare un titolo nobiliare. I genitori di Rosalba, invece, lo invitano a casa in veste di amico di famiglia: l’usuraio ha modo di incontrare la ragazza, contraria alle spese per la cerimonia, rimanendone affascinato. Le divergenze tra i due si manifestano poi anche nella scelta delle bomboniere, mediata da Gino. Geremia manifesta ripugnanti morbosità verso le donne: molesta la giovane mamma andando oltre la perquisizione delle tasche, accudisce la madre con attenzioni proprie più ad Edipo che ad un badante, paga un’attempata debitrice per imitare nella sua stanza le giocatrici di pallavolo che vede dalla finestra, immagina di accarezzare i piedi di una giovane
seminuda, in cui s’imbatte perlustrando il parco con il metal detector, mentre prende il sole. Gino scova l’anziana intenta a giocarsi i soldi del prestito al bingo, facendola finire interrata in spiaggia fino al collo dai due scagnozzi. Rosalba invece trova il padre insonne in bagno, scoprendo la verità: anche se cosciente che alla figlia non interessa nulla della cerimonia, è stanco delle umiliazioni di una vita intera, pagate per tutti i membri della famiglia. Il giorno del matrimonio, Geremia e Rosalba rimangono soli per la riparazione di una spallina dell’abito nuziale: alla molestia delle mani del vecchio, la giovane decide di offrirglisi in cambio di un notevolissimo sconto sugli interessi del prestito. Entrambi piangono in silenzio durante la cerimonia. Al termine, Gino si consulta con l’usuraio a proposito dell’anziana insolvente, che Geremia propone di eliminare, con il disappunto dell’altro in nome di un limite alla brutalità. Il vecchio usuraio fa visita alla debitrice munito di pistola e accompagnato dagli scagnozzi; segue un’altra minaccia ad un debitore nei bagni di una discoteca, dove Geremia nota Rosalba ballare, ipnotizzato. Un nuovo cliente si presenta in sartoria, un uomo d’affari in cerca di un milione di euro: l’usuraio ne parla con Gino (che ha in realtà salvato l’anziana insolvente offrendole ospitalità) e la madre, ma entrambi consigliano di non accettare. Il senso di inferiorità rispetto al padre, usuraio in grado di trattare simili somme, lo rende insofferente, come testimonia il dialogo con l’uomo in cerca di soldi per comprare il titolo nobiliare del padre. Geremia e Gino incontrano comunque l’uomo d’affari ed il socio, verificando le garanzie dell’eventuale prestito. L’anziana insolvente nascosta invece vince al bingo e chiude il proprio conto con l’usuraio.
Nel frattempo, spinto dalla visione della ragazza bulgara sistemata con un altro anziano, Geremia si dichiara a Rosalba. I due si incontrano di nuovo al funerale della madre della ragazza, morta d’infarto alla confessione della figlia di essere incinta. Geremia scopre così di poter essere l’eventuale padre. È poi il turno della ragazza stessa per dichiararsi a Geremia. Euforico per gli sviluppi, il vecchio usuraio preleva dalla banca tutti i suoi depositi e accorda il prestito agli imprenditori. La sera, seguendo Rosalba, tuttavia, ne scopre la relazione segreta con Gino. Disperato, fiuta l’inganno ordito alle sue spalle e si reca dal padre a Roma, che lo ignora. Si imbatte per caso nei sedicenti uomini d’affari, in realtà travestiti da centurioni per le foto con i turisti, che gli svelano la verità. Tornato alla roulotte di Gino deciso ad uccidere i due traditori, constata con amarezza che sono già fuggiti con i suoi soldi. Il mattino seguente trova il corpo della madre senza vita. Il padre si degna di visitare il figlio dopo decenni ma non gli riserva nulla di più della stessa mancia elargita ai ragazzi delle pompe funebri, senza nemmeno una parola. Geremia riflette in voice-over sul suo ruolo nella società e sulla sua brutalità senza limiti, sciacquandosi il volto in una fontana. In chiusura, dismesso il gesso al braccio, sui titoli di coda il vecchio usuraio passa in rassegna una spiaggia con il suo metal detector.
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2. il PROTAGONISTA
Un insetto. Geremia è caratterizzato come un laido surrogato di essere umano lontano anni luce dalla dignità che si confà all’uomo. La sua rapida andatura a passetti veloci e brevi (fig.2), il suo portamento maldestro, la sua deformità fisica, la sua preferenza per il buio e l’ombra, la sua attitudine a camminare radente alle pareti ed il suo disgustoso modo di nutrirsi ne fanno un’ottima rappresentazione visiva di Gregor Samsa, il protagonista de Le metamorfosi di Kafka. È come lui uno scarafaggio ed il suo danneggiamento fisico del gesso, apparentemente perenne, ricorda la mela incastrata nel dorso dell’altro personaggio. In alternativa, la stessa Rosalba riconosce in lui i caratteri tipici del topo (fig.3). Anche la sua abitazione contribuisce all’affermazione di una marcescenza fisica ed interiore, con la sempiterna penombra, l’aria stantia, l’umido, il fetore dei fluidi corporei rappresi e ancor di più la madre: siano rettili o altri animali, essa non fa altro che osservare immagini di creature bestiali ed elargire consigli 110
di rara viscidità, con la sua costante presenza inamovibile che si fa centro gravitazionale di decomposizione ambientale. Entrambi sono stati abbandonati e scartati dal padre di Geremia in nome di un darwinismo che evidentemente li destina al cestino degli scarti della selezione. Il protagonista offre tratti animaleschi anche nel linguaggio, chiedendo se una bambina «si evolve» e riferendosi un prosciutto come a «l’animale». Ancor di più, a conferma della propria natura bestiale è egli stesso nel dialogo con un uomo in cerca di un prestito: «Lei mi sembra umano» «Vi sbagliate» è lo scambio di battute tra i due. Geremia è però anche velenoso e potenzialmente letale come un ragno: in primis, lo vediamo tessere la propria tela appiccicosa di usura alla scrivania su cui giace una macchina da cucire sempre ben fornita di fili pronti e tesi; in secondo luogo, possiamo vederlo nel retrobottega dove valuta i prestiti accostato ad un orribile oggetto nero appeso alla parete che non ricorda altro che un enorme aracnide. Oltre alla caratterizzazione apparente da sottosuolo, Geremia è anche e soprattutto una discarica interiore. È un concentrato di vizi, dall’avarizia alla gola, dalla lussuria all’ira, dall’invidia alla superbia. Pratica l’usura da una vita e non
a lato fig. 2 sotto fig.3
guarda in faccia nessuno, arrivando a prendere la decisione di assassinare un’anziana per pochi soldi; detiene una ricchezza spropositata ma vive nel degrado della miseria, senza acqua né luce; accumula montagne di cioccolatini ma non è capace di offrirne nemmeno uno ad un bambino; collabora da anni con Gino ma si rifiuta di considerarlo suo (unico) amico; possiede scatole e scatole stracolme di soldi ma ruba le merendine al supermercato. E soprattutto, scatena la propria morbosa bestialità, concessagli dalla posizione di forza di cui gode, per approfittare sessualmente di tutte le giovani ragazze con cui ha contatti. Geremia sfodera il lato peggiore di sé proprio a contatto con la carne giovane, che lo manda letteralmente fuori di testa e che infatti è causa della sua rovina. Non è comunque un personaggio stupido o impulsivo, ma al contrario manifesta una spiccata saggezza popolare, una buona cultura ed una certa inclinazione a rimanere informato sullo stato dell’arte della scienza. È assolutamente cinico, freddo, astuto, sottile, dotato di sguardo capace di cogliere il dettaglio significativo ed anche di un discreto senso dell’umorismo, seppur decisamente caustico. La sua obbrobriosa persona non è però soltanto frutto di sue scelte personali. Alla base di tutto risiede infatti la frustrazione per l’abbandono da parte del padre in tenera età; in aggiunta, deve sobbarcarsi la presenza pestilenziale della madre-padrona che lo considera «il suo ospizio». Geremia è perciò anche vittima di una famiglia che lo ha prima
scaricato e poi ridotto in servitù. Non soltanto: la sua amarissima disillusione verso di tutto, sia Dio o la speranza, è il risultato di un oggettivo aspetto fisico orribile che lo ha incattivito per avergli causato solo rifiuto, desolazione e solitudine. Come testimonia l’appellativo di Cuore d’Oro con cui ama farsi chiamare, la sua percezione del reale è talmente alterata che non ha un’esatta consapevolezza del proprio comportamento. Si giustifica come un’anima misericordiosa che aiuta il prossimo nel momento del bisogno, con il prezzo che questo aiuto comporta. È dunque nel complesso sia spietato carnefice che vittima ingenua. Rosalba rappresenta per lui uno spiraglio di redenzione, un’alternativa alla grama esistenza infelice in solitudine. La possiede fisicamente grazie al denaro ma questa volta è lui a rimanere intrappolato nella tela di ragno della ragazza.
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3. le TEMATICHE Ancora una volta il contesto di svolgimento delle vicende è un intrecciarsi di loschi interessi economici. Come anche nel film precedente, però, i soldi rappresentano solo un traguardo illusorio, un’oasi fasulla, un metodo di incisione nella realtà destinato alla sconfitta. Il matrimonio di Rosalba, pur organizzato in pompa magna con fior di quattrini, è un fallimento; l’umiliazione della sposa per ridurre il debito del padre, altrettanto; come è un fallimento la scelta finale di Rosalba di vendere il proprio corpo. La ragazza infatti è quella che all’inizio del film devolve in beneficienza pochi euro vinti ad un concorso di bellezza: nel finale dimostra invece di prostituirsi in cambio di una somma ben più interessante. Il denaro ne emerge quindi come un contagioso e irresistibile mezzo di regolazione dei rapporti sociali che non risparmia anche il più puro degli spiriti ribelli, ma ciononostante si dimostra incapace di garantire la felicità a cui tutti puntano. La felicità è un altro aspetto che emerge nel film e si lega al discorso economico in una frase della madre di Geremia: «rubano tutti, e sono tutti infelici». Il regista dà una visione particolarmente negativa e disillusa riguardo alla soddisfazione esistenziale componendo un mosaico di persone chiuse nella propria incomunicabilità di disagio. La diffusa infelicità è indipendente dal benessere economico ed invece fortemente legata al benessere sociale, in particolare al nucleo fondante della famiglia a cui si rifà il titolo stesso dell’opera. Tutte le famiglie presentate dal film sono già sfasciate o allo sbando, incluse quelle che vengono a costituirsi ex-novo: Geremia è cresciuto senza il padre dovendo accudire la madre inferma, Rosalba disprezza i genitori per la superficialità e perde la madre per un infarto, il suo matrimonio stesso si frantuma ancora prima di essere suggellato e Gino ha perso la compagna in un incidente. L’unico nucleo familiare che pare reggere è quello della giovane coppia dei debitori di Geremia, la cui stabilità è però seriamente compromessa dai guai finanziari di insolvenza: simbolica è la rinuncia alle proprie fedi nuziali per saldare il debito. Nel complesso, allora, la famiglia viene dipinta come una sorta di nido protettivo di serenità, forse unico mezzo di raggiungimento della felicità, ma se ne sottolinea tragicamente la predestinazione allo sgretolamento: il tradimento e la morte appaiono ineludibili bombe a orologeria pronte a devastare tutto. Inoltre, per la sua lampante centralità, ricorre ancora una volta la dialettica tra la vecchiaia e la giovinezza. Numerosi sono i rimandi espliciti anche dei dialoghi, tra i quali spicca la definizione di quel che causa la sconsideratezza fatale a Geremia: «non è il paradiso, è la giovinezza». In quest’opera è declinata nella sua accezione più materiale di irresistibile freschezza della carne: il protagonista perde di vista la 112
ragione nel toccare la pelle delle giovani ragazze. Simboliche sono tre scene: la prima è quella dei titoli di testa (fig.4), dove si configura già la disfatta di Geremia nell’osservazione dei corpi sinuosi e sodi delle pallavoliste (immagini che egli proverà a replicare con risultati pietosi nella propria stanza); la seconda è quella in cui egli ricorda alla donna in cerca di un prestito per ritoccarsi dal chirurgo che «il sabato sera se lo sono presi quelli con la pelle liscia»; la terza, invece, è quella in cui egli immagina un furtivo tentativo di contatto di un corpo giovane e nudo anche soltanto con un dito del piede. La nudità ricorre più volte ed è sommariamente importante nel finale, quando l’usuraio, dopo la morte della madre, viene inquadrato senza vestiti di spalle. Quel momento ricorda l’incredibile rapporto di generazione carnale tra madre e figlio, e simbolizza una sorta di ri-nascita (tardiva) dell’uomo, liberatosi della stessa madre oppressiva. La carne, allora, viene vista come suprema essenza di vita, irresistibile legge d’attrazione stabilita da madre natura, manifesto segnale di un’esistenza da godere e mettere a frutto: la bellezza offerta dalla carne come esca naturale per il miracolo della generazione di altra carne (non a caso, Rosalba rimane incinta).
fig. 4
fig. 5
Nello squallore generale del racconto, nel complesso, quello che il regista evidenzia sono gli sparuti lampi di bellezza, che svettano per contrasto dall’orrore della diegesi. Il film pare allora elevarsi ad un inno a cogliere il bello in ogni contesto, valorizzando quello che di buono la natura ha posto in ogni situazione. Legato a doppio filo con il discorso su giovinezza e bellezza, ricorre dunque ancora il tempo come ineluttabile rullo compressore portatore di disfacimento e tristezza. Geremia lascia trapelare da poche rade parole il rimpianto per la propria infanzia felice e spensierata, tradendo una infantilità mai sopita nel momento in cui realizza la frode ai suoi danni: l’inquadratura in cui egli sfreccia in macchina con la testa fuori dal finestrino, invocando a gran voce la mamma, rappresenta bene l’adorazione edipica di cui egli è soggetto. L’uomo cerca disperatamente di ricongiungersi al tempo passato, principalmente tramite la figura di Rosalba, ma il suo chiaro destino fallimentare è già manifesto sulle proprie dita. Egli, infatti, porta un’unghia lunghissima al mignolo che nell’Italia rurale di decenni fa stava ad indicare una professione borghese, diversa da quella contadina, poiché chi lavora la terra avrebbe inevitabilmente spezzato un’unghia tanto lunga. Se da un lato questo lo rende sicuro di sé nel contesto sociale, dall’altro tradisce una mostruosa perdita di contatto con il mondo che nel frattempo è cambiato moltissimo. Il tempo è passato e nulla lo riporterà indietro. Il sentimento che trapela da tutto ciò è un giudizio
del regista sulla labilità del confine tra il bene ed il male. Se infatti Geremia è presentato all’inizio come assolutamente negativo, accenna un tentativo di redenzione grazie all’innamoramento per Rosalba. È però miseramente sconfitto da un abbassamento morale della stessa giovane e dalle altre persone che lo circondano. Tutti i personaggi che compaiono nel film, infatti, sono tristemente disposti a sacrificare la propria etica al cospetto del dio denaro: Rosalba si vende con la speranza di un futuro migliore, la badante dell’est sposa un ottantenne per una vita più dignitosa, gli attori di strada accettano la truffa per cinquemila euro, Gino deruba il proprio partner, l’anziana signora si indebita per giocare al bingo e via dicendo. Solo il protagonista, nel finale, tenta un’improbabile redenzione: la sua voce fuori campo realizza appunto di essersi spinto ben oltre il limite che demarca il territorio del male. In generale, si configura un universo fondato sul tradimento e l’opportunismo in cui nessuno può collocarsi fermamente su una delle due sponde tra bene e male, ma piuttosto può esservi temporaneamente proiettato dallo spettatore solo e soltanto in relazione al particolare contesto che varia da situazione a situazione. 113
4. la REGIA
Lo sviluppo narrativo di quest’opera si distacca dalle precedenti per la maggiore complessità di avvenimenti ed per un maggior numero di filoni narrativi, che coinvolgono quindi anche un numero maggiore di personaggi. Il ritmo narrativo è perciò più sostenuto e la durata delle inquadrature minore, con meno sofisticazione dei movimenti della macchina da presa. Allo stesso tempo, poiché l’obiettivo principale delle immagini rimane quello di raffigurare lo squallore morale dilagante, sullo schermo appaiono immagini in cui la composizione non si veste dell’abituale armoniosa bellezza, ma lascia piuttosto che siano l’illuminazione cupa e la scenografia a ricreare in termini visivi la bruttezza generale. Esempio lampante è la casa del protagonista: quando egli la mostra alla ragazza dell’est, la claustrofobica panoramica del piano totale sul bilocale mostra tapparelle abbassate, abiti flosci stesi negli angoli, i piedi all’aria della madre e la sua padella sul pavimento da un lato, la vuotezza del pavimento sgombro e dei fazzolettini di carta usati dall’altro. Comunica un nettissimo senso di marcescenza, chiusura, vecchiaia, solitudine e riesce quasi a trasmetterne i cattivi odori. La scenografia è fondamentale anche per i dettagli della stanza dell’uomo, passati in rassegna dalla macchina da presa nella prima scena all’interno dell’abitazione e giusto nella scena con la badante. Il regista utilizza diversi primi piani che presentano i soprammobili della stanza, cioè libricini colorati, pupazzi, modellini ed intere collezioni di sorprese degli ovetti di cioccolato: lo spettatore è subito informato che quel vecchio che ha davanti è interiormente rimasto cristallizzato alla propria infanzia. In più, la particolare scelta dei nani per gli oggettini sottolinea la infima bassezza tanto fisica quanto morale dell’uomo. Altri due dettagli si rivelano fondamentali. Nel dialogo con la ragazza straniera, si nota ripetutamente sullo sfondo del primo piano dell’uomo, sul muro spoglio a cui il letto è addossato, una scatola di fazzolettini: sono quelli che Geremia utilizza per pulirsi dopo le frequenti occasioni in cui si masturba. Tale scatola è visualizzata più volte in primo piano durante il film, e questo indizio vuole dunque 114
manifestare già da subito l’ossessione morbosa dell’anziano per il sesso. L’altro dettaglio chiave è invece la scarpa spaiata che Geremia ripone nella scarpiera. Viene ignorata fino alla fine del film, quando ritorna nella scena del confronto con il padre. È il dettaglio impallante del piano totale a mezza figura del loro incontro: si trova dal lato di Geremia e ne è una geniale quanto mesta metafora. Probabilmente appartenuta al padre, ne rappresenta in quanto feticcio la venerazione del figlio; poiché senza la propria metà, simboleggia la solitudine esistenziale dell’uomo; in quanto scarpa, indica la bassezza e la sporcizia esteriore quanto interiore del protagonista. Inoltre, i costumi ed il trucco hanno lo stesso valore chiave degli ambienti, per cui vale sottolineare l’importanza attribuita alla orrida e lunghissima unghia, già discussa, del mignolo di Geremia: ricorre molto nei suoi primi piani la mano con il dito in evidenza, spesso nell’utilizzo vomitevole di pulizia del suo orecchio. Per quanto riguarda la traduzione visiva della coppia dialettica tra il diffuso squallore e la potenza dei singoli istanti di bagliore della bellezza, vale ricordare come momento topico un’inquadratura onirica che vede Geremia sognare il contatto fisico con il corpo giovane di una ragazza seminuda intenta a prendere il sole. Inizia con il primo piano dell’uomo, apparentemente ancora reale, in un movimento discendente fino ai suoi piedi, dove si intuisce il carattere allucinatorio, poiché visualizza le carezze dell’uomo con un dito ai piedi della ragazza addormentata. Nell’abbandono al desiderio, in una discesa del livello di razionalità per lasciare andare la fantasia, Geremia ristabilisce un flebile contatto con il tempo passato. Il primo piano poi risale lungo le bellissime gambe della ragazza fino al suo primo piano dormiente appoggiata ad un albero, inno alla gioventù ed alla bellezza, per allargarsi retrocedendo fino ad un totale della scena: ritroviamo l’uomo dall’altra parte della pianta in posizione simmetrica alla ragazza (fig.6). La pianta li divide: il suo spesso tronco sottolinea la simmetria della composizione ma allo stesso tempo l’incomunicabilità tra i due lati, l’impossibilità del tempo di
dall’alto verso il basso, figg. 6, 7, 8, 9
miscelare passato e presente. È la visualizzazione della natura, in cui le due facce di orrore e bellezza sono compresenti ma opposte e tuttavia l’una necessaria all’esistenza dell’altra. A livello d’immagine, nel film si ritrova comunque la caratteristica stabilità dinamica dei piani già offerta dalle altre pellicole, con continui misurati movimenti macchina, liberi ed enunciatori dell’istanza narrante, di panoramiche, dolly, carrelli e gru. Unica variazione è un maggior numero di panoramiche rapide o a schiaffo, che si confanno al ritmo più incalzante del racconto condito da maggiore azione. Ciò che emerge invece nel complesso da tutti i movimenti macchina è una predilezione per il movimento macchina sull’asse verticale. Può essere considerato come l’espressione del punto di vista autoriale sulle vicende: poiché le immagini raccontano di bene e male, bellezza e squallore, felicità e tristezza, ne nasce una strutturazione in movimenti continuamente ascendenti e discendenti, quasi lungo un termometro morale. A sostegno di tale connotazione, è comunque sempre accentuato il punto di vista ribassato o rialzato, in modo da esprimere un chiaro giudizio su ciò che è offerto. Alcuni esempi aiuteranno a capire meglio questa mia riflessione. Innanzitutto, la sequenza iniziale delle pallavoliste presenta inquadrature opposte e complementari: in punto di vista azimutale, un gesto atletico delle braccia lancia un pallone alto nel cielo, che occupa tutta l’inquadratura, mentre in punto di vista zenitale, una ragazza compie un altro gesto atletico per recuperare un pallone finendo sdraiata al suolo, sul terreno di gioco che occupa tutto il piano (fig.4). La dialettica tra i due opposti enfatizza da un lato la bellezza della gioventù, ma dall’altro la sua ineluttabile caducità: non a caso, la scena è tutta in slow-motion, quasi fosse tale per limitare il passaggio del tempo e godere della giovinezza oltre i suoi limiti. Oltre a ciò, significativa è la panoramica discendente semicircolare all’ingresso della casa dell’usuraio, dal soffitto al pavimento, con cui la macchina da presa accompagna sia lo stesso movimento dello sguardo della ragazza dell’est che le gocce di acqua delle infiltrazioni. Il passaggio dalla muffa alla bacinella sudicia, dal soffitto al pavimento, dall’alto al basso, traduce bene il graduale sprofondamento nell’orrore che si legge negli occhi della ragazza (fig. 7, 8, 9). In generale, la prospettiva adottata nel film è il più delle volte quella di Geremia, che per la sua altezza si ritrova al di sotto degli altri. Ecco perché nei dialoghi i suoi interlocutori sono sempre ripresi un poco dal basso: solitamente in maniera lieve, ma talvolta molto nettamente. Geremia, invece, è visto dall’alto in basso con disprezzo, appunto per metterne in luce lo squallore e la piccolezza morale, dalla ragazza dell’est che tenta di sposare, dall’avvocato a cui sottopone i contratti di garanzia per il prestito-truffa e dal padre nel finale. Talvolta però è egli stesso a godere di una prospettiva ribassata: la ragione è che egli detiene in tutti i rapporti interpersonali la posizione di vantaggio, poiché i rapporti di forza che lo legano agli altri sono sempre di credito nei suoi confronti. Capita spesso di vederlo seduto di fronte all’interlocutore in piedi oppure su un piano inferiore 115
ad esso (Rosalba che balla in discoteca, il padre che lo guarda dalla finestra): nel primo caso, oltre al giudizio eticamente deplorevole, enfatizza che egli se lo può permettere poiché detiene la superiorità, mentre nel secondo ne dichiara inderogabilmente l’inferiorità. Il rapporto che meglio esplicita l’impiego del punto di vista come strumento di giudizio è quello tra Geremia e Rosalba. La prima scena in cui compare la ragazza è la danza dopo la vittoria al concorso. Seppur rappresenti quell’inno visivo alla freschezza della gioventù già utilizzato ne L’uomo in più, questa volta il regista non utilizza solamente i classici primi piani frontali che dal volto scivolano giù lungo le curve della ragazza come lo sguardo degli spettatori, ma anche numerose figure intere sia dall’alto che dal basso: queste, per il concetto di interezza a cui si rifanno, contestualizzano nell’ambiente il personaggio nella sua totalità, evidenziandone la doppia natura. Rosalba dal basso è quella creatura portatrice di bellezza divina, ultraterrena, paradisiaca, che Geremia vede in lei, ma Rosalba dall’alto, non a caso con la macchina da presa in abbassamento, è quell’essere umano molto più terreno del previsto, anzi capace di aggrapparsi alla peggiore materialità del mondo per opportunismo (il tradimento della carne in cambio dei soldi). Più avanti avviene la scena dell’incontro con l’usuraio. Egli, seduto, è ripreso tra il primissimo piano frontale, usato per lo stupore inziale e la frase caustica sull’impossibile e l’improbabile, ed il mezzo primo piano dal petto, con lo sguardo perennemente alzato verso il margine superiore dell’inquadratura, quasi guardasse Dio in cielo. Lei, invece, in piedi, è vista sempre e solo nella magnificenza del suo primo piano: è generalmente frontale, con lo sguardo a perpendicolo verso il basso, chiaro giudizio sull’obbrobrio umano che ha di fronte, ma in due occasioni si vede dal punto di vista dell’uomo, fortemente ribassato, quasi a enfatizzare il suo sentimento di estatica contemplazione dell’irraggiungibile bellezza simil-divina (fig.10). I loro rapporti di forza vengono suggellati anche dagli intermezzi dei piani totali dell’incontro che ne mostrano le rispettive posizioni. Tutto però viene ribaltato nella scena in cui Rosalba si prostituisce per la prima volta a Geremia, durante la riparazione dell’abito nuziale. La scena inizia con un piano americano dal basso in movimento ascendente, seguito da diversi primi piani dei due, tra cui spicca una panoramica circolare dalle spalle dell’uomo in ascesa al primo piano della ragazza; la fitta alternanza di primi piani frontali, accompagnati dal movimento circolare dell’usuraio attorno alla sposa come il peggiore avvoltoio, costruisce il contesto della negoziazione. L’uomo sta impazzendo alla vista del decolleté della ragazza e si sente trasportato in cielo nelle spire del paradiso quasi fosse Dante Alighieri con Beatrice. A questo punto subentrano una serie di primi piani della ragazza che, per l’altezza, comprendono solo fronte e occhi di Geremia, alle sue spalle; al contrario, i primi piani dell’usuraio vedono davanti al suo volto proprio il decolleté seminudo della giovane, dove egli infila la propria oscena mano. Vengono così poste le basi per la trattativa: Geremia sta perdendo la testa vinto da ciò che vedono i suoi occhi e da ciò che toccano i suoi polpastrelli, la tenerezza della carne di Rosalba lo sta offuscando mentre lei si offre al suo sguardo e al suo tatto conscia del proprio potere. Ecco 116
dall’alto verso il basso, figg. 10, 11 (grande), 12, 13
infatti che, nella discussione sulla riduzione degli interessi del prestito, i rapporti di forza cambiano, poiché gli sguardi abbandonano il piano orizzontale e si inclinano in diagonale. Lei si volta ed i suoi primi piani frontali ora la ritraggono sola, ormai pienamente cosciente di dove può arrivare a spingersi, mentre lui è inquadrato di quinta dalla spalla della giovane su cui stava sbavando poco prima. È visto quasi dall’alto, sopraffatto dalla materialità dell’esistenza carnale ma soprattutto in posizione di inferiorità, perso ed innamorato, poiché il suo sguardo punta nettamente in alto mentre la ragazza lo osserva guardando in basso. E qui avviene il raggiungimento dell’accordo di prostituzione (fig.12). Una autoesplicativa inquadratura del primo piano di Rosalba in semi soggettiva di Geremia (over-the-shoulder) la vede scendere lentamente per inginocchiarsi davanti all’uomo, passando da una prospettiva leggermente dal basso ad una estremamente angolata dall’alto (fig.13). Si consuma così il ribaltamento di quell’angolazione simmetrica del primo incontro, con l’imposizione di Geremia per il proprio potere economico. Nello stesso tempo, tuttavia, si rende manifesta la decadenza della ragazza ed il suo inabissamento nel mondo terreno della compravendita, dell’inganno, del tradimento e della meschinità, pronosticando il suo futuro comportamento. Il punto di vista è di fondamentale importanza anche in un altro paio di situazioni, questa volta come lampante segnale di avviso del superamento del limite, di infrangimento della soglia, di sconfinamento in un terreno dove sarebbe bene non avventurarsi. Il primo caso è l’inquadratura zenitale capovolta di Geremia al tavolo di lavoro in sartoria, scoppiato in una fragorosa risata alla richiesta di prestito di un milione. Il primo piano dall’alto sottolinea l’enormità della proposta ma allo stesso tempo preannuncia la sciagura: evidenzia un ribaltamento del mondo conosciuto (il prestito dell’intero patrimonio) ma, ponendo il personaggio circondato dal pavimento, ne insinua l’accettazione e il conseguente fallimento. A supporto di ciò è l’unico oggetto che compare sul tavolo: un paio di forbici, quelle in grado di tagliare i fili della tela che il ragno Geremia è solito tendere. Il secondo caso, invece, è il piano che segue la rottura della “linea morale” con Gino, appena successivo alla decisione di uccidere l’anziana insolvente. Ancor più lampante, questa inquadratura è ruotata di novanta gradi e parte dalla plongée sul primo piano della pistola dell’usuraio per terminare, non a caso con un movimento macchina discendente, con la sua figura intera ma orizzontale mentre apre la porta della sua stanza (fig.11). La scelta di evidenziare la pistola e la porta hanno un chiaro legame logico, poiché rappresentano causa ed effetto. Il regista con ciò traduce lo sconfinamento di Geremia nella dimensione del male assoluto: l’arma, metafora del sangue e del prevaricamento sulla vita umana in nome di pochi euro, apre al protagonista una nuova dimensione prima sconosciuta, quella dell’omicidio, che si fonda su regole universali proprie e diverse dal normale, come certifica la prospettiva innaturale. Il valico della soglia della porta orizzontale, come fosse la tana del Bianconiglio, suggella lo sconfinamento dell’usuraio oltre il limite, l’abbattimento del muro di separazione, l’ingresso nel male ingiustificabile, totale e sterminato. Un’inquadratura simile, proprio dal significato parallelo di sconfinamento in un altro mondo, è presente ne L’ultima 117
fig. 14
tentazione di Cristo di Scorsese, giusto nel piano in cui Gesù in croce urla al cielo: «Padre, perché mi hai abbandonato?». Tornando invece al discorso principale sull’immagine del film, è interessante una ricorrenza dell’inquadratura di spalle come segnale di oscurità, mistero e complotto. In apertura, Gino non è presentato di fronte ma dal lato o da dietro, è nascosto nel suo cappello e si allontana dalla macchina da presa. Nei dialoghi attorno alla sua roulotte è spesso inquadrato da dietro in primo piano avviarsi verso l’orizzonte, per poi fermarsi, voltarsi leggermente e sottolineare il suo sogno di fuga verso l’America del country (fig.17). Anche nella panoramica circolare che lo ritrae perdersi nel ricordo della donna perduta, lo vediamo inizialmente di spalle. Come Titta Di Girolamo, anche Gino si nasconde dietro ad una barriera di silenzi e sguardi (quello a Rosalba mentre balla o l’intervento decisivo a suo favore nella scelta delle bomboniere), congiunti ad una tendenza ad allontanarsi dalla macchina da presa quanto dalla sua vita nella roulotte nell’Agropontino. A incrementare il suo alone di mistero, come accennato, è proprio il cappello country a tesa larga, che si configura come una sorta di schermo alla visibilità delle proprie intenzioni. Il regista utilizza l’espediente delle spalle anche nel colloquio di Rosalba e Geremia dopo la morte della madre di lei: entrambi sono di schiena rispetto all’interlocutore, ma l’uomo è in primo piano con lo sguardo a sinistra, mentre la donna più lontana in mezzo primo piano con lo sguardo a destra. L’orientamento degli sguardi suggerisce l’inclinazione di lui alla riflessione e quello di lei all’azione; soprattutto, però, la distanza maggiore della macchina da presa tenuta dalla donna, assieme alla posizione di schiena, ne trasmette un senso di distacco, di freddezza, di calcolo, al contrario della visibile emozione di lui. Si getta già qui il seme della circuizione che più avanti avrà luogo. A proposito di emozione, ancora una volta sono solo le inquadrature dove si raggiunge l’apice dell’emozione per il protagonista le uniche riprese con la macchina a mano: il primo piano di Geremia commosso sul proprio letto a riflettere sulla gravidanza della ragazza e lo stesso Geremia iracondo per il tradimento, nel tentativo fallito del duplice omicidio alla roulotte. In continuità con le altre opere, anche lo sguardo in macchina del protagonista ricorre sia all’inizio del film che alla fine, accompagnato dalla sua stessa voce fuoricampo. Simile alle immagini delle ballerine de L’uomo in più è invece il ruolo della scena di pallavolo iniziale. Non è però una visione onirica, in quanto appartiene al mondo diegetico poiché ha luogo proprio fuori dalla finestra del protagonista. Ciò che ne fa una scena chiave del film è il fatto che l’usuraio voglia riprodurre nella sua stanza quella visione, ma non tanto come egli la può osservare dalla finestra, quanto come lo spettatore la veda, incluso lo slow-motion. Anche in quest’opera allora, Sorrentino istituisce quel corto-circuito narrativo in cui il personaggio è anche cosciente spettatore di sé stesso, discorso in cui entrerò nel dettaglio più avanti. 118
L’impianto luministico del film è fortemente innaturale e disumano, di gusto irrealistico declinato sia all’onirico che all’orrido. Rispecchia infatti l’opposizione tra la bellezza ed il grottesco ma finisce per decretare una perdizione generale nel buio. Stante dunque l’ideale contrasto tra forze opposte, l’illuminazione è di tipo chiaroscurale, modellante e tridimensionale, sebbene sempre frutto di luci diffuse e riflesse come è solito fare Bigazzi. Ritorna l’opposizione tra interni ed esterni, luce artificiale e luce naturale: è la traduzione dell’invecchiamento e della giovinezza, dell’ammuffimento e della fioritura, della distanza dalla vita e della sua affermazione. La casa di Geremia è perciò perennemente in penombra, riparata dal sole grazie alle tapparelle sempre abbassate, immersa in un’atmosfera animalesca (fig.14). Le inquadrature di giorno hanno un rapporto d’illuminamento molto alto: l’esplosione bianca della finestra sovraesposta sullo sfondo, manifestazione della forza vitale pura del sole, si affianca ai mezzitoni scuri e verdognoli del resto del piano, sinonimo di marcescenza e decadimento, in cui il primo piano si trova talvolta anche nell’ombra del controluce, quasi a volersi nascondere dal bagno vitale del sole. La luce filtrante è morbida e diffusa, fioca e soprattutto orizzontale, come a sottolineare la natura molto, fin troppo, terrena, umana, carnale, materialista, di Geremia. Le inquadrature di notte, invece, presentano un chiaroscuro decisamente più accentuato, con un viraggio a colorazioni infuocate, rosso-arancioni, e una completa assenza di luci riempienti (fig.15). Si creano così modellazioni tridimensionali nette e drammatiche, simili ai dipinti fiamminghi di Rembrandt e Vermeer, che restituiscono la profondità del dramma umano di Geremia, offerto nei suoi momenti di riflessione ed intimità che accadono infatti tipicamente nella fase notturna. Emblematica è la luce nella camera della madre: sul pavimento è presente una lampada al neon arancione, che oltre a figurare come luce d’appoggio, ricrea un clima da rettilario, da malsana incubatrice, con il suo posizionamento al di sotto del personaggio che si traduce in una disumana, innaturale e inquietante illuminazione dal basso. Le tinte insalubri del verde dominano anche nella sartoria (fig.16), luogo di consumo dell’attività criminale, con un effetto però diverso. I neon del soffitto ricreano un’atmosfera artificiale e sintetica che tuttavia trova la propria più significativa caratteristica nel riflesso biancastro e diffuso che avvolge la fronte e metà volto del protagonista: è la traduzione del suo freddo potere psicologico, la sua malevole razionalità, il suo spietato raziocinio criminale. I clienti debitori non hanno infatti accesso a tale riflettenza, rimanendo più scuri, a parte colui che millanta di essere imprenditore di successo e che infatti lo sta truffando. Al contrario, gli esterni vedono l’affermazione della luce del sole. Rappresenta la vita, ma non è sempre e soltanto gioia e benevolenza: spesso è una luce diretta e direzionale del tardo pomeriggio, che allunga a terra ombre lunghe e ricorda all’uomo la sua natura terrena. È allora una luce
5. la FOTOGRAFIA
dall’alto verso il basso, figg. 15, 16 e 17
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crudele, democratica ma spietata, contrastante, che segna il passaggio del tempo e preannuncia il tramonto: ecco perché è presente nelle scene in cui Geremia si trova all’esterno in compagnia di ragazze giovani, come la sopraccitata scena ai piedi dell’albero (della vita). In alternativa, però, gli esterni offrono anche la luce molto più affabile, morbida e sognatrice, della “golden hour”, in cui sono immerse le giocatrici di pallavolo e di cui gode particolarmente il misterioso Gino (fig.17). Questo tipo di luce è il riflesso della sua persona, fuori dal mondo e immersa nell’atmosfera del sogno, quello di fuggire nel Tennessee. La morbidezza data dall’assenza di contrasti e chiaroscuri, però, è bilanciata molto bene con un altro ricorrente impianto luministico per il suo personaggio. Il suo primo piano è illuminato sovente da luci artificiali dal basso, spesso fuochi (tipica metafora del genio umano): la connotazione è perciò ribaltata nell’inquietudine di un essere sì estraneo alla natura terrena e naturale, ma in senso negativo, demoniaco, con ciò prefigurando il suo finale tradimento. A supportare questa sinistra caratterizzazione di mistero è l’interazione tra il suo cappello a tesa larga e l’illuminazione solare: egli ne è protetto, riparato, dunque volontariamente escluso, ma soprattutto proiettato in un’ombra che gli cala perenne sullo sguardo, chiuso nel segreto delle sue intenzioni. Rosalba, invece, gode di tutt’altra luce nell’intero film. Interessantissima è la sua prima apparizione sul palcoscenico sotto i fasci direzionali dei riflettori bianchi, frontali sul volto e laterali, quasi controluce, sul corpo. Costruiscono una figura magica e riflettente sul nero dello sfondo, che sfonda lo schermo quanto gli occhi dei presenti al concorso. La sua illuminazione ne fa un’aurea angelica e abbagliante, ma forse più importante di tutto sono gli effetti espressivi di luce dati dal vestito di paillettes. Lo scroscio continuo e cangiante di colpi di luce è una danza di un pavone luminoso, che tutti seduce, ammalia e ipnotizza (fig.19). Nel resto del film, il suo primo piano è spesso offerto su sfondi chiari, luminosi, candidi e paradisiaci, segnali della sua natura giovane e della percezione che ne ha Geremia, ultraterrena e angelica (fig.18). In particolare, però, è l’iniziale mancanza di ombre sul suo volto a farsi sentire: l’illuminazione tonale è morbidissima e ne esalta i lineamenti in tutto il loro morbido splendore. Con il prosieguo del film, però, il suo decadimento morale è rappresentato dall’arrivo del chiaroscuro sempre più prepotente che certifica la vittoria delle forze oscure delle tenebre, a partire dall’illuminazione innaturale e drammatica dal basso 120
presente nella confessione del padre al bagno (fig.20). Le citate tenebre, il male, la corruzione, trionfano su tutti nel finale, in cui si consuma la truffa. Sono inquadrature notturne, buie, indecifrabili, dove padroneggia una luce antisolare proveniente dal basso: è l’oscenità che si impossessa di tutti, la drammaticità dell’avvenimento, la negazione della natura umana in nome del dio denaro. A livello di inquadrature, nel film si nota una certa sperimentazione con le ottiche, come certi zoom violenti o l’adozione di focali lunghissime. Queste scelte drammatizzano il racconto e schiacciano i personaggi alle loro responsabilità. La composizione, invece, riflette l’impianto stilistico grottesco dell’intera opera. Bigazzi si mantiene fedele alla propria impeccabilità spiccatamente grafica, ma non concede spazio a eccessive bellezze: le inquadrature sono spesso decentrate, squilibrate, spostate rispetto a come ci si aspetterebbe, anche se non mancano piani di squisite simmetrie.
dallâ&#x20AC;&#x2122;alto verso il basso, figg. 18, 19 e 20
121
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IL DIVO
3.4
Soggetto Sceneggiatura Regia Fotografia Produttore Montaggio Protagonista Anno Paese Lingua Durata
Paolo Sorrentino Paolo Sorrentino Paolo Sorrentino Luca Bigazzi Nicola Giuliano Cristiano Travaglioli Toni Servillo (Giulio Andreotti) 2008 Italia Italiano 110 minuti 123
1. il RACCONTO
Un breve glossario fissa testualmente i capisaldi dello scenario politico italiano tra gli anni Settanta e Novanta. Giulio Andreotti, soprannominato il Divo, siede alla scrivania: la sua voce fuori campo racconta un cinico aneddoto personale, prima che una sequenza di omicidi eccellenti di quel periodo storico (Roberto Calvi, Michele Sindona, Mino Pecorelli, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Giorgio Ambrosoli, Aldo Moro e Giovanni Falcone) completi gli antefatti della narrazione. Roma, all’inizio degli anni Novanta. Andreotti in vestaglia si prepara per coricarsi: scioglie due aspirine nell’acqua per la sua emicrania e si cimenta alla cyclette. L’indomani, già sveglio prima dell’alba, è scortato da tre macchine della polizia mentre si dirige alla chiesa abituale, impassibile di fronte agli ingiuriosi graffiti sui muri. Si confessa al parroco di fiducia. Tornato alla scrivania, la segretaria lo avvisa dell’arrivo dei vertici della corrente del partito (Democrazia Cristiana) che fa riferimento a lui: Paolo Cirino Pomicino, Franco Evangelisti, Vittorio Sbardella, Giuseppe Ciarrapico e il cardinale Fiorenzo Angelini. Segue una riunione informale in una sontuosa stanza da bagno di marmo, a cui partecipa anche l’ultimo esponente di rilievo della corrente, Salvo Lima, luogotenente in Sicilia, mentre il barbiere lavora sul viso di Andreotti. È il giorno del giuramento del suo settimo governo, ma questi pare preoccupato soltanto che il suo farmaco preferito contro l’emicrania rimanga nel prontuario farmacologico. Sbardella mostra segni di insofferenza, Lima richiede un colloquio privato ma Evangelisti tiene la conversazione su binari meno rischiosi. Più tardi, Andreotti è accolto al Quirinale. È sorpreso ma impassibile all’incontro di un gatto sulla via verso la sala per il giuramento, dove il presidente Cossiga ed i ministri lo attendono per le foto di cerimonia. La sua voce fuori campo commenta le immagini con la mitologia che la stampa ha creato di lui nei decenni. Si trova sempre in compagnia di qualcuno: riceve nel 124
suo studio privato sia personaggi di rilievo che comuni elettori, foraggiati con denaro e generi alimentari, mentre agli eventi mondani si creano filari di persone in attesa di un breve colloquio. Ciò nonostante, non nasconde la sua enorme solitudine. È Pomicino, invece, ad organizzare le serate e a tenere i contatti con le persone giuste. L’imperturbabile aura di cinismo inscalfibile di Andreotti è turbata soltanto da due pensieri, che lo perseguitano profondamente: il rimorso per Moro e l’emicrania. Anche con la moglie non mostra niente di più che lo stesso carattere freddo e sarcastico che mostra in pubblico. Passati dei mesi, il governo Andreotti, ormai malato terminale di immobilismo politico, comincia a mostrare segni di cedimento. Pomicino tenta di convincere il premier ad agire in vista dell’elezione del presidente della repubblica; Lima invece si presenta chiedendo nuovamente un colloquio. Egli li ignora, preoccupato solo dalla propria emicrania. Lima però viene ucciso dalla mafia. Un avvertimento
fig. 1
ad Andreotti, ma ancora una volta né la notizia né la severa omelia del vescovo al funerale lo distolgono dai suoi due pensieri ricorrenti. Una volta caduto il governo, si consuma la rottura definitiva di Sbardella, che lascia la corrente in favore di un’altra. Andreotti, senatore a vita, punta il Quirinale e, ad una cena organizzata da Pomicino, i vertici della corrente riuniti brindano alla sua ufficiale candidatura. Le votazioni per l’elezione però procedono tumultuose: non c’è infatti nemmeno accordo all’interno della stessa DC tra Andreotti e Forlani. Pomicino si dà un gran da fare tra la sua rete di contatti, ma le trattative sono ostiche e complesse. Irrompe all’improvviso nel corridoio fuori dall’aula uno skateboard nero: lo stesso che, armato di dinamite, fa saltare in aria la macchina su cui viaggia Falcone. Stravolto il clima politico italiano, l’elezione del presidente subisce una virata e segna il trionfo di Scalfaro, con la soddisfazione del transfugo Sbardella. Esplode quindi l’inchiesta di Tangentopoli, con un’ondata impressionante di
suicidi. Eugenio Scalfari, direttore di Repubblica, ne indaga le relazioni con Andreotti in un’intervista, non ottenendo però nessuna informazione. Con l’arresto di Riina, del suo autista e di diversi esponenti di Cosa Nostra poi diventati collaboratori di giustizia, il film svolta dai giochi di potere politici alle collusioni mafiose. Sono appunto i pentiti ad evidenziare le connessioni di Andreotti alla sequenza di delitti dei decenni precedenti: portano addirittura la testimonianza di un suo incontro con il capo di Cosa Nostra. Il senatore riceve un avviso di garanzia e, in previsione delle spese per gli avvocati, licenzia la sua storica segretaria, che si porta via non pochi segreti. Segue uno sfrenato monologo solitario in cui, squarciato il muro di gelido silenzioso cinismo, Andreotti racconta per la prima e ultima volta tutta la verità di orribili intrighi di palazzo, stragi ed omicidi che nessuno confesserà mai. La giustizia intanto segue il suo corso e la corrente andreottiana della DC viene sbriciolata: Pomicino, Ciarrapico e Sbardella vengono arrestati nell’ambito di Mani Pulite, Evangelisti muore ed Andreotti stesso deve rispondere a numerose interrogazioni da parte della giunta parlamentare. Al termine delle quali, la giunta rilascia l’autorizzazione a procedere: il senatore a vita è accusato di associazione mafiosa. Comunica ai familiari l’intenzione di difendersi con tutte le forze, visita Cossiga confidandogli un segreto innamoramento d’adolescenza, si confronta con le deposizioni dei pentiti e risponde all’accerchiamento di giornalisti e fotografi. Alcuni personaggi ne danno un giudizio storico prima dell’inizio del processo, mentre viene scortato a Palermo, dove l’aula del tribunale viene bonificata. Qui ha il via la prima udienza. Ancora tormentato dall’emicrania, Andreotti siede al banco degli imputati, mentre rimbombano nella sua testa le severissime condanne scitte da Moro nelle lettere dalla prigionia. 125
2. il PROTAGONISTA
Questo film più degli altri gravita totalmente attorno al solo protagonista, vista la sua natura biografica. Il racconto vuole quindi indagare i diversi aspetti della personalità assai controversa di Andreotti, sia mettendo in luce particolari avvenimenti storici che focalizzandosi sui suoi comportamenti, tanto in situazioni riprese dalla realtà quanto in circostanze fittizie. In quest’ottica, egli è mostrato dal più privato dei momenti, la confessione in chiesa, al più pubblico di essi, la presenza sui banchi del governo in aula, a sottolinearne la caratteristica fondamentale: la gelida impenetrabilità. La scelta di una così vasta gamma di occasioni serve appunto a enfatizzare la sua natura praticamente disumana che si sottrae all’influenza di qualsiasi contesto e perdura immutabile nella propria freddezza. Andreotti viene rappresentato innanzitutto come un essere alieno alle caratteristiche proprie dell’essere umano. Dal lato emotivo, egli non si lascia mai sfuggire un sentimento che riesca a segnargli il volto in maniera più incisiva di una ruga. Da quello fisico, non manifesta nessuna caratteristica terrena: non dorme, non mangia nemmeno con il piatto davanti, non si concede ai vizi, non balla, non si scompone, non alza la voce. L’unica eccezione è la continua assunzione di medicinali contro il mal di testa, quasi a ridurre tutta la sua persona al solo cervello. Questo senso di cerebralità è acuito dalla sua spiccata inclinazione all’ironia, sottile e raffinata ma declinata nella più cinica e atroce delle accezioni. Andreotti si esprime praticamente soltanto con i caustici aforismi che hanno contribuito a renderlo celebre ed a costruirne il personaggio, finendo per configurarsi come la citazione caricata di sé stesso. 126
Il personaggio così come costruito da Sorrentino è, infatti, una caustica e grottesca caricatura tratteggiata non tanto per dare un’idea realistica dell’uomo in sé, quanto per materializzare in termini di esistenza umana il concetto di potere, di cui egli è stato per decenni e decenni, come mai nessun altro nell’Italia repubblicana, detentore, sia alla luce del sole come delegato popolare che, e soprattutto, nell’ombra come possessore del sapere segreto e scottante. Ne nasce una caratterizzazione sinistra, fosca e malvagia ma innegabilmente divertente: una creatura impegnata nel compito soprannaturale affidatogli dall’alto di autoconservazione del potere stesso, in un’attuazione machiavellica di perseguimento del bene tramite la perpetrazione del male. La sua manifestazione tangibile è allora una maschera granitica inscalfibile la quale tuttavia nasconde dietro ad un’apparentemente innocua pacatezza la peggiore brutalità violenta e assassina. Il volto impassibile di Andreotti si storce nel suo sorriso abbozzato che viene messo in trasparenza dietro a tutta una serie di rapporti tentacolari con organismi e organizzazioni, manifestazioni diverse dello stesso concetto: il potere. Egli è l’eminenza grigia che nasconde dietro
fig. 2
agli occhiali le redini del sistema e riesce quindi ad evitare di essere coinvolto e trascinato negli ingranaggi implacabili che, al contrario, prima o poi finiscono per macinare tutte le figure che lo circondano. Il giudizio sul personaggio politico di Andreotti nel complesso non può che essere pessimo. La sua frequentazione della chiesa viene presentata come una ricerca del consenso del clero invece che come un’esigenza spirituale. La sua strategia di governo è etichettata come immobilista, autoconservativa e nociva al Paese. Il suo contatto con i privati cittadini è inquadrato solamente in termini di favoritismi, rapporti clientelari e compravendite di voti. E soprattutto, la sua figura viene posta a cardine di un vergognoso sistema di interessi criminali da Cosa Nostra alla P2. Il fatto agghiacciante è che nemmeno dalle scene di intimità Andreotti traspare come persona privata, ma sempre e comunque come politico. Un uomo insensibile, calcolatore, spietato, furbo, in grado di relazionarsi agli altri soltanto in un’ottica di interesse a tal punto da scegliersi un circolo di frequentazioni discutibile per risaltare su di essi nel momento del loro fallimento. Un uomo capace di rinnegare qualsiasi fede e di scendere a
qualsiasi compromesso pur di mantenere il controllo dello scettro del potere. Un uomo assetato, viscido e silenzioso, che fa dell’ombra il proprio dominio e che come un ragno tesse la propria tela incurante delle vittime accidentali che ne rimangono invischiate. Una persona che ha insabbiato la propria identità e che fa dell’impenetrabilità la propria arma vincente: corazza ermetica difensiva di compostezza e sarcasmo in grado di far scomparire le tracce delle proprie responsabilità criminali. L’inscalfibile maschera che avvolge il replicante Andreotti è tuttavia irreparabilmente danneggiata da una singola fessurazione: il rimorso di avere coscientemente condannato a morte Moro. Questa incrinatura lascia intravedere un ultimo, sparuto e secco brandello di coscienza dietro alle sue rughe, riportandolo a fattezze umane. È solo Moro, e nessun’altra delle centinaia di vittime di cui si confessa (quasi orgogliosamente) responsabile, a tormentarlo, perché con la sua purezza, la sua ingenuità e la sua mancanza di malizia rappresenta la sua stessa coscienza. Moro è considerato da Andreotti come la preda sbagliata, l’errore di bersaglio che ha invece salvato lui stesso, l’agnello sacrificale trovatosi al momento sbagliato nel posto sbagliato che con la sua vita ha pagato il conto di altri, salvaguardando gli interessi della DC e illudendo di successo le BR. Andreotti è cosciente di averlo consegnato al boia per trarne vantaggio personale, ma riconosce in lui il simbolo della propria definitiva resa volontaria al male. Il Divo Giulio è tormentato dal senso di colpa di avere venduto la propria anima in cambio del potere, ma la sua umanità residua si limita soltanto a questo dettaglio. 127
3. le TEMATICHE La spettacolare vita di Giulio Andreotti è la tagline del film ed ovviamente l’oggetto principale della narrazione. Seppure egli sia al centro del discorso, tuttavia, l’intento del regista non è quello documentaristico del racconto fedele, ma al contrario la miscela del reale e del surreale serve alla creazione di un grottesco personaggio in grado di trasmettere l’idea e l’impressione che il personaggio reale suscita nel regista. Andreotti è quindi, sì, oggetto della narrazione, ma soprattutto mezzo espressivo per la rappresentazione materiale di ciò che la sua aura comunica: l’identità enigmatica, il potere, il segreto, la verità, il male. Il primo tema è quello dell’identità. Andreotti è rappresentato come un dado con sei facce uguali, sia quella del marito o dell’amico, del premier o del peccatore, del vincitore o dello sconfitto. È una moderna Gioconda di cui ci è dato conoscere soltanto l’involucro apparente. Più volte nel corso del film, personaggi politici a lui vicini confessano sfiniti di non essere mai stati in grado di comprenderlo; solo la moglie crede di avere avuto tale concessione, di essere riuscita a forare la scorza per arrivare al nocciolo, ma il monologo dell’uomo, ed in particolare le parole a lei dedicate, accantonano a sua insaputa questa possibilità. Lei, compagna di una vita per decenni, «non sapeva, non sa, non saprà, non ha idea» di cosa si cela dietro agli occhiali di chi ha sposato. Non meno superficiale è la conoscenza del suo confessore, poiché come da sue stesse parole Andreotti parla con il prete, non con Dio, ed egli è soltanto un orecchio fin troppo terreno pronto ad ascoltare i rimorsi dell’uomo, non un tramite verso il cielo per l’espiazione dei suoi reali, enormi, vergognosi, inconfessabili peccati. I suoi più fidi collaboratori che lo vedono nell’intimità della sala da bagno (come Al Capone de Gli Intoccabili di Brian De Palma) non sono diversi. Nemmeno la storica segretaria conosce tutti i ricorrenti modi di comunicare non verbali. Ognuno ha di Andreotti una conoscenza limitata ad un settore, come appunto ad esempio la segretaria con la posta del cuore, ma nessuno è in grado di afferrarlo a tutto tondo e soprattutto nel profondo. La sua più efficiente maschera, cioè il suo gelido cinismo, si mantiene inviolata. La confessione esplosa nel monologo è soltanto un attimo di debolezza, una pulizia della coscienza, che riesce a carpire solamente lo spettatore. L’indecifrabile protagonista passa allora da essere Giulio Andreotti, senatore a vita, alla manifestazione dell’idea astratta della negazione d’identità che caratterizza il potere: il potere che logora chi non ce l’ha, ma che assorbe l’anima di chi ce l’ha. È il tema che più di tutti trasuda dalla pellicola. Non è un caso che di quarant’anni di carriera politica di Andreotti siano stati scelti gli ultimi anni al governo, quelli del mancato 128
traguardo massimo finale della Presidenza della Repubblica e del successivo declino. Nella situazione di crisi si evidenzia infatti per contrasto la sua resistenza quasi immacolata alla rovina, sintomo di quell’autoconservazione del sistema di cui è stato massimo rappresentante. Così come lui, il potere in questo film è allora declinato in negativo, tramite un processo di sottrazione: non è la forza di spingere gli altri, ma la capacità di rimanere fermo in mezzo al loro movimento. Le
sue manifestazioni più evidenti sono gli omicidi: eliminazioni, non edificazioni del nuovo. Il potere di Andreotti è stare rilassato su un lettino a farsi radere mentre attorno i suoi fedelissimi devono risolvere le controversie. È soffiare sul fuoco degli estremismi per spegnere la tensione con l’idrante del centrismo DC. È affermare la propria candidatura al Quirinale negandola in caso di una già manifesta concorrenza, e in seguito aspettare di uscire allo scoperto solo dopo lo scartamento delle altre opzioni. È «disinnescare le bombe», più che metterle. È far procedere le inchieste della procura,
invece di insabbiarle. È tacere. Perché nel complesso, tutto il potere si fonda sulla contraddizione mostruosa di «perpetuare il male per garantire il bene». Nel film il potere è presentato come un delirio di onnipotenza frutto di una sorta di incarico divino. La giustificazione dell’incarico e della malvagità conseguente risiede in una presunta superiorità, una maggiore capacità di lungimiranza in vista del fine ultimo. Il potere si configura come un buco nero, una forza centripeta oscura che afferma la propria presenza con il proprio occultamento, la propria sopravvivenza con l’annientamento di ciò che lo circonda. È una concezione di potere che risale almeno al tempo dei Romani, i quali l’hanno riassunta nel celebre “si vis pacem, para bellum”, ma certamente ancora molto, troppo, attuale. Ovviamente legato a questo si pone il tema di cosa sia il bene e cosa sia il male. Andreotti sembra sapere discernere consciamente la demarcazione, motivo per cui il suo lucido sconfinamento nella malvagità è moralmente disumano ed i suoi sensi di colpa così incessanti. I pentiti di mafia, invece, rappresentano la manifestazione tangibile della sottigliezza della questione: sono nel bene perché fanno luce sull’oscuro sistema di potere a cui sono scappati o sono nel male perché stanno perseguendo lo stesso obiettivo dall’esterno? Di sicuro c’è soltanto l’allacciamento all’ultimo tema fondamentale del film, cioè il rapporto del segreto con la verità. Se c’è una cosa a cui Andreotti è sempre stato accostato storicamente è proprio la conoscenza di innumerevoli segreti, accuratamente registrati nel suo sconfinato archivio privato. La verità è definita dal protagonista come «la fine del mondo» poiché è l’unico strumento in grado di perforare il muro del potere. È l’antidoto in quanto si oppone all’essenza stessa del potere, cioè il silenzio, affermando in positivo il valore del gesto e della parola; inoltre, si oppone all’ontologia monocratica propria del potere in quanto attesta l’importanza del numero, della quantità, della partecipazione, poiché produce effetto solamente se diffusa. Essa però è continuamente ostacolata dal suo negativo contrario, appunto il segreto: ancora una volta, non un procedimento attivo che punta a combatterla, come può essere la menzogna, ma una tipica manifestazione del potere che si accontenta di trattenerla, sedarla, renderla innocua, affondarla. La verità è portatrice di cambiamento, cosa che il potere non può permettere per garantire la propria autoconservazione perenne. A questo proposito mi preme sottolineare, anche in quest’opera, un chiaro rimando allo scorrere del tempo. Tuttavia, non tanto in termini di perdita di contatto con la bellezza e la gioventù, quanto come minaccia alla perpetrazione dello stato delle cose: un buon esempio sono gli orologi delle piazze e delle stazioni delle stragi lasciate accadere dal potere, inchiodati al momento dell’esplosione.
fig. 3
129
4. la REGIA Se il regista deve innanzitutto fornire un punto di vista sulla storia, in quest’opera Sorrentino aderisce perfettamente alla definizione del suo ruolo. Andreotti è seguito dappertutto nelle situazioni più disparate ma è sempre ritratto dall’esterno, tramite “nobody’s shots” in piani oggettivi: lo spettatore ha modo di scoprire molte vicende storiche, reali o fittizie che siano, ma non ha praticamente mai l’occasione di contemplarle dallo stesso punto di vista del protagonista. Il punto di vista di Andreotti non è concesso a nessuno; le inquadrature soggettive non sono (quasi) mai ammesse. Se dunque l’obiettivo del film è indagare il personaggio, non ne viene risolta l’enigmaticità. È dunque un chiaro esempio di narrazione a focalizzazione esterna, poiché lo spettatore non è certamente in possesso di tutte le informazioni a disposizione del protagonista. Si decreta implicitamente la vittoria della sua cortina invalicabile, anche se il celebre monologo di confessione rimedia allo svelamento dei retroscena. Tuttavia, vanno riportate le uniche quattro inquadrature del film in cui si può percepire il mondo dal punto di vista del protagonista: due di esse presentano le sue mani in primo piano plongée; la terza affronta i banchi della giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato in una figura intera con il microfono impallante in primo piano; l’ultima invece è l’ultimo long-take in falsa soggettiva. Nel primo caso, le mani giunte sul banco della chiesa la mattina del giuramento del suo governo hanno un significato fortemente simbolico (fig.4). La prospettiva dall’alto e l’illuminazione del fascio di luce rappresentano quella «volontà di Dio», sorta di investitura celeste, che Andreotti in più punti del film rivendica come giustificazione per il proprio operato di uomo della Provvidenza: sono infatti le mani, metafora dell’azione, principale strumento di incisione dell’uomo nel mondo, a essere inquadrate. Lo stesso discorso simbolico vale nella seconda inquadratura analoga dopo la mancata elezione al Quirinale (fig.6), ma la separazione delle mani, la visione del loro dorso e il piano della scrivania enfatizzano questa volta la disillusione dell’uomo, ridimensionato a terreno senatore a vita: questa inquadratura chiude il cerchio aperto da quell’altra e segna l’inizio della burrasca, che ha il via subito dopo con i suicidi legati a Tangentopoli e le dichiarazioni dei pentiti. La terza inquadratura mostra invece l’apertura di una nuova fase della vita politica di Andreotti, cioè il senatore sotto accusa (fig.5): l’ortogonalità rende manifesto il confronto frontale con l’accusa gravissima, la simmetria della giuria la identifica come organo del potere (come più avanti evidenzierò), la sua posizione rialzata ne certifica la superiorità, la penna e gli occhiali del presidente mettono in luce la decisa volontà di fare chiarezza ed il microfono si erige a inquisitorio strumento di acquisizione di verità. Per Andreotti dunque 130
dall’alto verso il basso, figg. 4, 5 (grande), 6, 7
si prospetta un chiaro momento di difficoltà e soggezione. Poiché la giunta come prevedibile consente l’autorizzazione a procedere, il film si chiude con un ulteriore aggravamento della posizione del senatore, ufficialmente imputato nell’aula di tribunale. Il long-take in steadycam si apre su una mezza figura di spalle di Andreotti a seguire il suo avanzamento lungo un corridoio costellato di porte chiuse, preceduto dai fotografi. Rappresenta l’ineluttabilità del corso della giustizia, l’impossibilità di svicolare in altri modi e l’occhio rapace dei media pronto a fare a brandelli l’immagine pubblica dell’uomo, esattamente come successo con i colleghi della sua corrente di partito. In aggiunta, un dettaglio svela la modificazione radicale del clima: Andreotti è visto di spalle, cosa che nel resto del film non accade, poiché egli abitualmente retrocede frontale a passi indietro. Se l’ostinazione a mostrarsi frontale manifesta l’onniveggenza del potere che tutto conosce e controlla, questa prospettiva tradisce l’imprevedibilità della situazione, la perdita del controllo sugli eventi in arrivo. Arrivato all’ultima porta, un commesso la apre consentendo alla macchina da presa di scavalcare nella svolta a sinistra l’imputato e fare il suo ingresso nell’aula bunker in soggettiva. L’entrata in aula è quella delle grandi occasioni, con decine di occhi silenziosi tutti incollati addosso ed ulteriori fotografi, un bombardamento di sguardi sotto cui il senatore non può permettersi la minima indecisione (fig.7): la tensione delle immagini è elevata, palpabile, intensificata dal rumore dei passi e dalla musica, ma il Divo Giulio la sa gestire benissimo e non tradisce emozioni. Non ha nulla a che vedere con i nevrastenici tremori e bofonchi di Titta Di Girolamo al cospetto del tribunale mafioso. Arrivato al proprio posto, la tensione è ormai alleggerita e Andreotti riappare nell’inquadratura, che torna oggettiva, per stringere la mano ai PM dell’accusa. La macchina da presa lo lascia svoltando a destra su due carabinieri in transito per poi proseguire alzandosi sui gradini su cui si trova il banco dei giudici, al loro ingresso; accomodatisi ed iniziata la procedura, la macchina li lascia per girarsi verso destra di centottanta gradi e tornare con una sorta di panoramica totale sulla figura intera del senatore dall’alto. Con lentezza, stringe sulla sua maschera di rughe fino al primo piano, mentre i colori svaniscono così come la voce dei giudici, per lasciare spazio alle accuse fuoricampo di Moro. L’ultima parte oggettiva sostanzialmente contestualizza il senatore imputato all’interno della fredda, spoglia, enorme, semivuota aula guardandolo dall’alto in basso: piccolo per la distanza, senza folla né immunità, strappato ai propri palazzi romani del potere, non è presidente né premier e nemmeno senatore a vita ma si trova nella nuova condizione di privato cittadino Giulio Andreotti. Quell’aula 131
dall’odore acre di verità risveglia in lui il tormento del senso di colpa: la coscienza insanguinata. Nel complesso, dunque, tutte e quattro le inquadrature rivelano un comune sentimento di glaciale freddezza. Nell’ascesa quanto nella discesa, disteso o sotto torchio, Andreotti non si scompone mai. Non conosce esitazione e il solo timore che nutre è per la rovina e l’infamia della sua immagine pubblica, non per la carriera o il carcere: egli sa che i suoi segreti sono al sicuro dietro alla sua maschera impassibile, perché con il potere che ha avuto tra le mani ha sempre minuziosamente fatto piazza pulita di ogni traccia delle sue malefatte. La compostezza e la simmetria delle inquadrature di Andreotti trasmettono appunto questo sentimento di padronanza totale della situazione. La loro rottura è, infatti, resa possibile soltanto dall’unica vera minaccia alla sua stabilità emotiva, cioè il rimorso per Moro. Quando nella sua mente rimbombano le parole delle lettere dalla prigionia, lo scompenso interiore è reso visibile con delle rarissime inquadrature di mezze figure diagonali, dinamiche, decentrate (l’episodio in Russia e quello della crisi di nervi per l’avvio dell’inchiesta). L’eccezionalità dello sbilanciamento risiede proprio nell’eccezionalità della debolezza umana. L’unico segnale continuativo di vitalità di Andreotti, in pratica, è affidato ad un oggetto esterno alla sua persona e consiste nell’infinita serie di particolari sull’effervescenza dell’aspirina nell’acqua. Se da un lato questo ne ricorda dopotutto la natura umana, dall’altro però il ribollio sinistro da pozione malefica visualizza il discioglimento di un corpo solido che alla fine sparisce senza lasciare tracce. Un altro riferimento alla malignità del potere. Tornando al discorso iniziale del punto di vista, comunque, un’altra osservazione è d’obbligo. Durante tutto il film, la prospettiva delle inquadrature è per lo più frontale o leggermente ribassata, con un punto di vista che molto raramente oltrepassa l’altezza della testa. A ciò si aggiunge la scelta dei movimenti per la macchina da presa che non osa quasi mai salire o scendere, ma preferisce muoversi sul piano orizzontale, ortogonale ai soggetti inquadrati. Tutto ciò, contestualizzato in una serie quasi ininterrotta di interni, contribuisce a restituire il sentimento di asfissia e sudditanza che pare scaturire dal potere di Andreotti, in grado di soggiogare tutto ciò che lo circonda. Svettare con un’inquadratura dall’alto significherebbe sfuggire alle maglie di tale potere e ribellarsi, a maggior ragione per rapportarsi con esso mettendolo in inferiorità, motivo per cui è severamente vietato nell’intero film. Inoltre, questa imposizione al livellamento pare interpretare il punto di vista dello stesso protagonista, noto per la sua pronunciata cifosi. Sono soltanto tre in tutto il film le inquadrature da un punto di vista nettamente rialzato: la camminata di Riina, l’attentato a Falcone, la severa omelia del vescovo. La prospettiva comune è il filo conduttore che le lega come causa, evento ed effetto, tant’è che l’ecclesiastico pone l’attenzione sui mandanti (intervallato da autoesplicativi primi piani di Andreotti). Lo sguardo dall’alto in basso smitizza le figure per ricondurli all’essenza ultima: il Capo dei Capi è un semplice uomo, l’attentato a Falcone non è la vittoria della mafia ma solo la gretta eliminazione fisica di un altro uomo, il vescovo a sua volta altro non è un uomo migliore degli altri ma solo una persona onesta come dovrebbero essere tutte. 132
dall’alto verso il basso, figg. 8, 9, 10, 11
Il punto di vista è allora espressione di una natura superiore che infatti si costruisce nell’inquadratura dell’omelia (fig.8), in cui parte dal livello frontale per decollare fino quasi allo zenitale: una sorta di giudizio divino, che può permettersi di disobbedire all’imposizione del capo chino (la prospettiva frontale) del potere. Inoltre, è interessante come quest’ultimo movimento ascendente sulla predica del vescovo sia accompagnato dalle parole di esigenza di rinnovamento e pulizia morale. Precede infatti un altro piano in cui Andreotti, fermatosi nel cammino, tenta di distendere la propria cifosi per raddrizzare la schiena (fig.9). Se la macchina da presa intraprende lo stesso movimento ascendente, è però interrotta bruscamente con il taglio dell’inquadratura. Il parallelismo evidente fa quindi della gobba del politico una sorta di metafora della sua miserabile deformazione interiore, ma soprattutto stabilisce un chiaro segnale della negazione del cambiamento perpetrata dal potere per la propria autoconservazione nel tempo. Infine, è molto notevole un altro piano di angolazione fuori dal comune, cioè il primo piano della televisione con l’affranta moglie di Falcone dopo l’attentato (fig.10). Il suo discorso sul rifiuto del cambiamento da parte del sistema di potere mafioso è come un’apparizione divina, una manifestazione di etica pura e superiore, ed è infatti ripreso dal basso verso l’alto. Molto significativo è il prosieguo del piano, che non si chiude con un taglio di montaggio, ma invece esplora la stanza con le mezze figure dei collaboratori di Andreotti e termina stringendo sul suo primo piano, proseguendo con l’audio fuoricampo della donna. La continuità tra i due e le parole di lei sul volto di lui rendono più che mai esplicita la condanna del regista e l’oscenità delle collusioni dell’uomo. A rafforzare il sentimento di intrappolamento sotto al giogo del potere, nel film un ruolo chiave è svolto dall’evidente e continua esasperazione della simmetria, tanto nel personaggio del protagonista quanto nella scenografia alle sue spalle. È una chiara traduzione dell’impossibilità di fuga, uno specchiarsi di aspetti che non lascia alternative, un’organizzazione sistemica studiata ad hoc per la propria conservazione. È una sorta di visualizzazione del simbolo dell’infinito, costituito proprio da due lobi congruenti percorribili senza soluzione di continuità, che trova un proprio analogo nel particolare ricorrente degli occhiali sullo sguardo spento di Andreotti. Questo, come fosse l’occhio di 1984 o Hal 9000 di Kubrick, è la suprema oggettivazione dell’onnipotenza dell’uomo, lo strumento di controllo silenzioso alieno alla natura umana. Non è però l’unica inquadratura utile a definire il ruolo di Andreotti; molto efficaci sono almeno altre tre metafore visive nel corso del film. La prima è l’inquadratura con cui si apre il film: un lento carrello avanti che partendo dal campo lungo arriva al primo piano, in cui egli è costellato di aghi per l’agopuntura. La loro disposizione sul perimetro del volto delinea una sorta di raggiera che fa assumere al personaggio la connotazione dell’astro solare, ottima metafora del suo ruolo: colui il quale regge il sistema, dona la luce e la vita, presiede la propria posizione statica e determina l’orbita di tutti gli altri. Sulla stessa falsariga è poco dopo un primo piano del carter della cyclette che egli utilizza (non a caso un oggetto per fare movimento da fermi). Ovviamente rotondo al centro di una simmetria perfetta, il fulcro dei pedali si configura come motore immobile di tutto il sistema, 133
attorno a cui gravitano con moto perpetuo gli stessi pedali. Il terzo momento è invece una scena in slow-motion in cui, sotto il diluvio, si inceppa la portiera dell’auto blu, facendo dannare invano gli agenti nel tentativo di aprirla (fig.11). Le panoramiche circolari, di cui è enfatizzata la solennità dal rallenty, mostrano un impassibile Andreotti all’interno, all’asciutto, riparato nella sua torre eburnea di potere, isolato nella sua solitudine, assistere disinteressato all’affannoso lavoro di tutti gli uomini della scorta che si avvicendano nei concitati tentativi, mentre vengono bagnati fino al midollo da una valanga d’acqua dal cielo. Si nota il contrasto tra il movimento e la stasi, tra gli orbitanti ed il centro di gravità, tra il nucleo ed il resto del mondo, ma anche tra la redenzione dell’acqua e la tenuta stagna del segreto. Questa impenetrabilità del personaggio è tradotta da un trucco grottesco (fig.14), da un aspetto impeccabile e invariabile, da un pullulare di statue immobili e perpetue,
dall’alto verso il basso, figg. 12 e 13 134
da una recitazione che, escluse le battute, fa dello sguardo l’unico strumento espressivo e da un particolare impiego del movimento macchina. Il carrello avanti e indietro sul primo piano è infatti la traduzione registica del tentativo di penetrazione oltre la maschera del personaggio. La macchina da presa è impiegata contro la facciata di Andreotti come un ariete sul portone, in un andirivieni di selezione del dettaglio e contestualizzazione nella scena che tuttavia non sortisce i risultati sperati. Esatta rappresentazione concentrata di questa idea è la conferenza stampa prima del processo, in cui il senatore siede assediato dalle domande dei giornalisti (fig.12 e 13). La macchina da presa (in realtà steadycam) procede instancabilmente avanti e indietro da diverse prospettive venendo sempre respinta dal primo piano dell’uomo, proprio come le domande affilate dei giornalisti sono parate e respinte dalle sue parole. Nulla riesce a far cedere la maschera di Andreotti. Il suo volto impassibile è, infatti, il nascondiglio per la sua identità, che nemmeno al termine del film giunge a delinearsi alla luce del sole. Esemplare è una delle prime inquadrature, con la sua mezza figura in cui il volto è nascosto dal lampadario. Ma diverse sono anche quelle in cui egli è
visto tramite uno specchio: quella tenebrosa dell’inizio in cui, simile a Nosferatu, si prepara per coricarsi, visibile nella riflessione ma non nella stanza, o quella in cui lo avvisano dell’omicidio di Lima, che solo più avanti si scopre essere un’inquadratura riflessa allo specchio. Dalla prima trapela un sinistro senso di immaterialità superumana mentre la seconda manifesta l’impossibilità di fissare l’uomo in una prospettiva definita. In più, insistono sul mistero anche la scelta, durante la confessione, di frapporre tra il suo volto ed il prete la mano (fig.15) e l’inamovibilità espressiva durante il commovente concerto di Renato Zero in tv. Se la mano simboleggia chiaramente la volontà di nascondersi anche nell’intimità sacra con il confessore, la mancata comunicazione di sentimento con la moglie testimonia la sua completa assenza di onestà e di apertura con qualsivoglia soggetto. Il monologo in cui emerge tutta la verità è infatti praticamente extradiegetico, a metà strada tra il mondo del racconto (l’ambientazione) e quello della produzione del film (i faretti che si vedono al soffitto sono reali luci di scena). In ultimo, vorrei mettere in luce un’insolita scelta da parte del regista di utilizzare metafore visive apparentemente sconnesse dal racconto per enfatizzarne il contenuto,
vagamente ispirato al montaggio delle attrazioni di derivazione eisensteiniana. Si nota in diverse occasioni ed è sempre tesa a sottolineare la bestialità del protagonista. Un primo esempio è il parallelismo, tra l’altro costruito su un palese montaggio alternato, tra il fallito tentativo di fuga dai sicari di Lima e la deludente corsa all’ippodromo. Evidenzia la considerazione da parte di Andreotti del suo luogotenente siciliano di un oggetto caricato a molla nella speranza di una vittoria, la cui vita non vale più del disappunto della sconfitta. Un altro esempio è l’accostamento tra la preghiera per i suoi fedelissimi «distrutti dalla vita» e lo scarico notturno di un furgone frigorifero di carne macellata, di cui non credo serva commento. Altro ancora è la vista delle formiche sulla sua mano (di bunuelliana memoria) dopo la notifica dell’avviamento dell’inchiesta sulle collusioni mafiose: metaforizza, sul legame della voracità della massa, il timore di essere spolpato vivo dai giornalisti, dalle accuse e dall’opinione pubblica.
dall’alto verso il basso, figg. 14 e 15 135
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5. la FOTOGRAFIA
In questo film più degli altri, la luce assume un valore fortemente simbolico. Oltre a rendere palpabile l’atmosfera psicologica di mistero che avvolge il personaggio principale, essa, infatti, come nelle opere pittoriche religiose medievali, rappresenta la manifestazione terrena del potere divino: Andreotti è un vero e proprio dio delle tenebre. Una delle primissime inquadrature lo rappresenta con un lampadario in corrispondenza della testa e sostituisce i suoi lineamenti con una sfera di luce artificiale (fig.18): è il potere di rischiarare l’ambiente o di lasciarlo al buio, il potere di decidere se lasciare visibile la verità o tenerla segreta, il potere della ragione e del calcolo, il potere tipico dell’entità solare, ben più potente dell’uomo, di segnare l’alternanza tra il giorno e la notte. Andreotti è il motore immobile del suo impero teocratico e come il Re Sole ha il potere di dare la vita o di toglierla. La serie iniziale di omicidi riguarda personaggi che hanno cercato di fare luce dove l’imperatore ha deciso di mantenere l’oscurità: tale serie è replicata e dunque metaforizzata dalla serie di interruttori spenti dal protagonista, arbitro della vita e della morte. La sacralità del dio delle tenebre è enfatizzata per tutto il film con un’illuminazione bianca zenitale, che se da un lato getta nella penombra il suo sguardo, proteggendo la sua identità e le sue intenzioni, dall’altro incorona il suo capo, sede del raziocinio oscuro, in un’aureola luminosa: il ristretto fascio di luce dall’alto è circoscritto alla sua persona, separata dal resto dell’umanità, e rappresenta l’investitura divina secondo cui egli è autorizzato a macchiarsi dei più nefasti crimini in vista di un bene superiore che solo lui, eletto, può intravedere. Emblematica a tal proposito è l’inquadratura già citata delle mani giunte sul banco della chiesa (fig.4). In aggiunta, sempre in quella scena, la seguente inquadratura lo vede illuminato sul volto da una luce gialla proveniente dal basso, che ne proietta sulla fronte le ombre mostruose degli occhiali (fig.16). Tale sorgente luminosa, opposta alla naturale luce solare dall’alto, è la manifestazione della sua natura di Anticristo, di mostruosità disumana, di antitesi al bene. In virtù della sua essenza demoniaca, Andreotti rifugge la naturalezza e la vitalità della luce solare, barricandosi dietro alle tapparelle abbassate anche in pieno giorno (fig.17). Questo lo esula dallo scorrere del tempo, tratteggiandolo come essenza metafisica appartenente ad un’altra dimensione, e l’artificiosità immutabile dell’illuminazione degli ambienti si offre come metafora della resistenza al naturale cambiamento che il potere oppone per la propria perenne autoconservazione. Il film, infatti, è girato praticamente sempre in interni. L’atmosfera opprimente, senza fuga, senza 137
libertà, resa dall’architettura degli ambienti è rotta da poche inquadrature in cui il protagonista si muove in esterno, nemmeno a dirlo, nel buio della notte, appena prima che sorga il sole, quasi fosse un vampiro. È soltanto nel finale che Andreotti viene offerto alla luce del sole, sulla via verso l’aula del tribunale: è la luce della giustizia che cerca di squarciare il suo regno di tenebra. Il resto del film è invece cupo, tetro, inquietantemente oscuro, proprio come l’inestricabile epoca storica italiana in cui sono ambientate le vicende, caratterizzata da accesi scontri politici e sconcertanti verità insabbiate. Il rapporto d’illuminamento è allora molto alto, con primi piani ben definiti da luci chiaroscurali e sfondi di un nero senza fine. Questo perché il contrasto è un elemento essenziale di quel tempo, e dunque della resa visiva del film. C’è dunque molto contrasto, dato sia dal posizionamento delle luci, che dal loro tipo e colore. Per quanto Bigazzi utilizzi poco le luci dirette e direzionali preferendo quelle morbide (anche le luci delle scrivanie sono rivolte in basso e mostruosamente riflesse all’insù), l’impianto luminoso è organizzato secondo chiaroscuri quasi violenti, molto plastici, che portano alla creazione 138
di ombre impenetrabili. Il film è il regno delle tenebre e l’ombra piatta, nera, densa, totale manifesta quell’impenetrabilità tanto di Andreotti quanto della verità storica. Il risultato è frutto di una scelta estetica quanto ideologica: il potere non vuole compromessi, dunque la scena non vuole nessuna luce riempiente a disturbare il disegno della key-light. Inoltre, almeno altri due impieghi della luce sono molto interessanti. Il primo è un effetto di luce puntuale ma decisamente espressivo: è il continuo scintillio della montatura
nelle pagine precedenti, figg. 16 e 17 qui sopra, figg. 18 e 19 a fianco, fig. 20
metallica degli occhiali del protagonista (fig.19). Nel buio, quei pochi centimetri risplendono lanciando in macchina continui guizzi luminosi. Poiché provengono dallo strumento che l’uomo utilizza per affinare la vista, enfatizzano il potere dello sguardo profondo che possiede solo e soltanto Andreotti, il potere di vedere oltre il buio, la malvagia organizzazione di un piano ben preciso e lucido. Gli altri effetti di luce presenti nel film, invece, cioè i flash dei fotografi, non fanno altro che scivolare improduttivi sulla sua corazza di rughe, tra l’altro continuamente sottolineata a livello quasi tattile da luci di taglio. Il secondo impiego notevole, invece, è quello dei riflettori della confessione privata (fig.20). L’affilato e violento controluce fa risplendere il profilo di Andreotti, esaltando la sua figura di dio, in particolar modo concentrando un’area luminosa proprio sulla sua fronte, scrigno del cervello sovrumano. Questa luce è però bilanciata da un altrettanto tagliente faro piatto e frontale, luce principale: esso rappresenta la vera essenza della confessione poiché incredibilmente produce una visione completamente rischiarata e illuminata del suo volto, cancellando ogni ombra e con ciò ogni mistero. A livello cromatico, invece, il film è una sorta di bianco e nero violento arricchito da colori desaturati. È ancora una volta la trasposizione dell’assolutismo del potere andreottiano, del contrasto tra verità e segreto, vita e morte. Fondamentale è il rosso, che trionfa nelle lampade dello studio del protagonista e spesso negli arredamenti. Rappresenta la
drammaticità del periodo storico e la sontuosità dell’inattaccabile potere monocratico: è il rosso del sangue e delle poltrone. Al contrario, l’intimità della cucina di Andreotti è virata al grigio-verde (fig.1): crea un clima malsano, freddo, allarmante, che meglio si confà ad un reparto ospedaliero abbandonato, testimone di una lenta marcescenza interiore e soprattutto dell’incapacità di sviluppare calore umano anche con la moglie. Il blu è invece il colore utilizzato per le confessioni dei pentiti, caratterizzate anche per una bestiale luce bianca dal basso: rappresenta la freddezza con cui i mafiosi raccontano gli intrecci nascosti, l’inestricabile profondità di questi ultimi (la texture della tappezzeria è eloquente), il momento di pausa descrittiva e riflessiva nel flusso della narrazione. Azzurra, invece, è la luce che, sempre dall’alto, bagna Andreotti nella scena già citata in cui si blocca la portiera. Il suo ruolo segregativo è evidente, vista la tonalità tutta arancione del resto del piano. Delimita la distanza abissale tra l’uomo potente, freddo, cinico, calcolatore, imperturbabile, asciutto, e la massa della scorta, fradicia, animata, impulsiva, allarmata. In ultimo, un ruolo particolare è dato dalla luce bianca, utilizzata con grande volontà espressiva per cancellare sistematicamente il colore dai primi piani di Salvo Lima: gelida e surreale, lava via dal volto dell’uomo la forza sanguigna della vita, presentandolo come un uomo già morto. Per quanto riguarda le inquadrature, infine, come già anticipato, la loro costruzione grafica, razionale, esatta, elvetica e assolutamente simmetrica rende manifesta la labirintica imperturbabilità del potere. Come già ne Le conseguenze dell’amore, ogni linea nel piano è utilizzata per costruire una perfetta gabbia senza uscita. La profondità prospettica è infatti evitata, con piani totali senza vie di fuga e una strutturazione dell’inquadratura che si sviluppa per piani ortogonali all’asse della macchina da presa, tendenti a chiudersi con muro di oscurità o una parete vicina. Il primo piano di Andreotti non può che essere sempre esattamente frontale, centrale, bilanciato e calcolato, come una statua millenaria immobile. La profondità di campo è limitata al suo solo sguardo, sfocando il resto del piano in una ingarbugliata penombra senza certezze. 139
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THIS MUST BE THE PLACE
Soggetto Sceneggiatura Regia Fotografia Produttore Montaggio Protagonista Anno Paese Lingua Durata
3.5
Paolo Sorrentino Paolo Sorrentino, Umberto Contarello Paolo Sorrentino Luca Bigazzi Nicola Giuliano Cristiano Travaglioli Sean Penn (Cheyenne) 2011 Italia, Francia, Irlanda Inglese 118 minuti 141
1. il RACCONTO
fig. 1, a pagina seguente fig. 2
Mentre scorrono i titoli di testa, un uomo in una maestosa villa di Dublino si prepara con rossetto, smalto e un enorme nido nero di capelli laccati in testa. Vestito di nero, goffo e rallentato, si trascina appresso uno di quei trolley da spesa usati dalle signore anziane. Il suo stile dark è rimasto immutato dall’adolescenza, passando per un planetario successo con il suo gruppo musicale. Cheyenne, da decenni lontano dai palcoscenici e ora dedito agli investimenti in borsa, vive con disillusione e noia la propria mezza età; non ha figli né lavoro ma è sposato con una donna tutto il suo opposto: solare e ironica, coraggiosa e pompiere, sdrammatizza le sue paure e lo sprona al dinamismo. Cheyenne trascorre spesso le proprie giornate in un caffè di un centro commerciale con Mary, la sua unica vera amica. È una ragazza adolescente con cui condivide interessi musicali e stile dark, ma ciò che li lega è tuttavia più profondo. L’ex-cantante porta sulla coscienza due adolescenti suicidatisi sull’onda malinconico-deprimente dei testi della band; per la stessa ragione, l’uomo ha conosciuto la ragazza, il cui fratello risulta scomparso nel nulla da mesi. È dunque il dolore che lega i due intimamente. Per cercare di riportare un minimo sorriso sul volto della giovane, Cheyenne si impegna a farle passare del tempo con un giovane cameriere del caffè che dimostra interesse nei suoi confronti, ma le cose non paiono decollare. L’ex-rock star visita spesso la casa della ragazza e ne conosce anche la madre, la quale lo ritiene responsabile della scomparsa del figlio e lo disprezza per l’immaturità di essersi 142
fermato sia nell’aspetto che nel comportamento allo stadio di ragazzino. Per sostenere questa tesi sottolinea infatti che egli, malgrado la moltitudine di vizi attraversati, non si sia mai interessato al tabacco perché rimasto all’infanzia, l’unico momento della vita in cui non si prova qualche attrazione per le sigarette. È proprio durante una delle visite a casa della donna che Cheyenne riceve una telefonata inattesa: a New York il padre sta morendo di vecchiaia. Decide di accorrere al capezzale del genitore oltreoceano ma a causa di una fobia dell’aereo mai sconfitta è costretto a diversi giorni di viaggio in nave. Giunge quindi troppo tardi, quando può soltanto rimanere a fissare gli occhi chiusi dell’anziano ed il suo numero tatuato sul braccio, traccia della reclusione nei lager nazisti. Cheyenne non ha più avuto contatti con il padre dall’adolescenza, quando i due si erano scontrati e l’allora ragazzo aveva concluso di non essere amato, fuggendo in Irlanda. Rimane dunque sorpreso quando gli vengono consegnati memorie e disegni del padre legati da un unico scopo finale: trovare il criminale nazista che l’aveva perseguitato ad Auschwitz. Desideroso di saperne di più si rivolge ad un membro di spicco della comunità ebraica locale, Mordecai
Midler, famoso per la cattura di centinaia di ufficiali nazisti nascosti in America. Questi è al corrente della faccenda ma rifiuta di impegnarsi nella ricerca. Oltre a ciò, a New York Cheyenne ha modo di assistere ad un grandioso concerto dell’amico David Byrne con i suoi Talking Heads, da cui rimane profondamente colpito: si complimenta con lui della maestosa capacità prima visionaria e poi realizzativa che ne fa un vero artista, comparandolo poi al suo misero exploit commerciale ed ai tragici risultati. Inoltre, in un ristorante incontra un broker texano che decide di affidargli il proprio pick-up, di cui la moglie ha bisogno in Texas. Al telefono con la propria moglie, invece, Cheyenne chiede notizie del ragazzo scomparso e mente, dicendo di stare per imbarcarsi per il ritorno. Infatti, affascinato dagli indizi lasciati dal padre e fornito di un’auto dall’uomo d’affari,
l’ex-rock star decide di perseguire il sogno del genitore e si mette sulle tracce del criminale di guerra in solitaria. Riparte là dove erano giunti gli sforzi del padre, dalla moglie americana del nazista, e fingendosi un suo ex-studente riesce a porle domande su Olocausto e famiglia, a proposito di cui la donna afferma la morte del marito ormai già da anni. Soprattutto, riesce a rubarle un disegno del figlioletto della nipote eseguito sul retro della pagella, che riporta il paese del New Mexico dove vive.
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Qui si imbatte nella madre del ragazzino, nipote dell’ufficiale nazista, prima approcciandola al fast-food dove lavora e poi entrando gradualmente in intimità: discutono della paura, che talvolta salva la vita ma prima o poi va sconfitta, della gioventù, in cui non si cambia mai idea per puro orgoglio, e del rapporto con i genitori, per cui un padre non può fare altro che amare un proprio figlio. Cheyenne rivede dunque i trent’anni di silenzio con il proprio genitore in un’altra prospettiva, dispiacendosi a morte per l’atteggiamento ottuso e per la decisione di non aver voluto figli. A casa della donna, l’uomo e il ragazzino iniziano a combattere le relative paure: il primo acquista una piscina al secondo per aiutarlo a
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sconfiggere la paura dell’acqua, mentre il secondo con una richiesta musicale riesce a fare impugnare una chitarra al primo dopo decenni. Poco dopo, l’uomo e la donna ritornano a discorsi intimi sulla famiglia e Cheyenne riesce ad ottenere informazioni sul luogo di residenza del nonno di lei, un paesino nascosto tra le montagne dello Utah. Il mattino seguente, l’ex-rock star riprende dunque la sua ricerca, accompagnato dal voice-over delle memorie del padre della spensieratezza d’infanzia e dell’alienazione della prigionia. Per un errore al cambio dell’olio del pick-up, l’auto prende fuoco ad un’area di servizio: Cheyenne ne noleggia un’altra ed acquista una pistola in vista dell’incontro con il nazista; infine telefona alla moglie, chiedendo notizie del solito ragazzo scomparso. Arrivato alla località montana, chiede informazioni ad un anziano locale, tra l’altro inventore della valigia dotata di ruote, il quale identifica il tedesco sotto falso nome e ne
indirizza il protagonista all’abitazione. Cheyenne la raggiunge e vi entra, trovandola però desolatamente non più abitata. Segue una breve telefonata all’amica Mary a proposito del senso del dolore, quindi l’uomo trova una bottiglia di alcol e rompe un’astinenza lunga decenni, dopo la dipendenza della gioventù. Torna alla propria stanza del motel dove alloggia e stavolta vi trova invece Mordecai Midler, nella sua scia sin dall’inizio: questi grazie ai propri informatori conosce il luogo dove l’anziano ufficiale nazista si è rifugiato ad attendere la morte e decide di recarvisi con Cheyenne. Insieme giungono quindi ad uno spoglio container in mezzo alla neve (fig.2). L’ultra novantenne, semi infermo e praticamente cieco, racconta in un monologo i propri pensieri sugli ufficiali nazisti, sulla gioventù rubata dalla guerra sia alle vittime che ai carnefici e sul padre del protagonista: svela la ragione di un inseguimento durato una vita intera, la banale umiliazione di una risata dopo averlo spaventato a morte da fargli bagnare i pantaloni nel campo di Auschwitz, e tributa al proprio inseguitore un altissimo onore per la perseveranza e la dedizione
con cui ha speso il resto della sua vita a quell’unico fine, rendendo a lui la vita impossibile. Cheyenne estrae dalla tasca non l’arma ma una macchina fotografica, con cui scatta un primo piano all’anziano. Vendica il padre e ricambia l’umiliazione, facendolo camminare nella neve completamente nudo ed abbandonandolo così, mentre riparte in auto sulla strada del ritorno. Cheyenne è finalmente cresciuto: decide di rientrare in Irlanda in aereo e nell’attesa accetta l’offerta di una sigaretta. Quando riappare sotto la finestra di fronte alla quale la madre del ragazzo scomparso passa le giornate nella disperazione, l’uomo ha tagliato i capelli, assunto un abbigliamento normale, dismesso il trucco ed il trolley. I due si sorridono, mentre la voce fuori campo termina le memorie del padre con una riflessione sulla pace dei sensi e su Dio. Sul paesaggio di Dublino dell’inizio, partono i titoli di coda.
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Cheyenne condivide con gli altri personaggi usciti dalla penna di Sorrentino diverse caratteristiche. Come Tony Pisapia è un ex-cantante ormai lontano dalle scene, come Titta Di Girolamo conduce un’esistenza parcheggiato in una calma disperazione di noia infinita, come Geremia De Geremei è segnato intimamente dalla fine precoce del rapporto col padre e come Giulio Andreotti porta sulla coscienza del sangue che non riesce a giustificarsi. È, nel complesso, un personaggio in pausa, congelato, bloccato davanti alle difficoltà della vita che non è mai riuscito a superare, quali i contrasti adolescenziali con la famiglia ed il senso di colpa per i ragazzini suicidi. Ciò che fa di lui un personaggio unico ed eccezionale, però, è il percorso di cambiamento che intraprende e la trasformazione finale che lo porta a sconfiggere con successo le proprie paure. L’inizio del film dipinge uno Cheyenne assolutamente disilluso ed intrappolato nella propria adolescenza. Il suo look dark ispirato chiaramente a Robert Smith dei Cure (fig.3) tradisce una ribellione giovanile per principio mai più riconsiderata ed un’incapacità di adattamento alle diverse età della vita. È sì visibilmente rallentato e segnato dalla valanga di droghe circolategli nelle vene in gioventù, ma la sua lucidità non è messa in discussione, ma anzi enfatizzata dallo spiccato fiuto per l’investimento. In aggiunta, l’acuto e ingenuo spirito di osservazione ne testimonia la sottigliezza intellettuale. È però, come tutti gli altri personaggi, l’ironia a caratterizzarlo maggiormente, unico strumento per sfuggire alla desolazione esistenziale. Questo perché il dolore è una parte fondamentale della sua personalità: è il ponte che lo lega alla sua gioventù, il risultato ultimo del suo successo artistico, il tratto comune con la più intima amicizia, Mary, non a caso una ragazza adolescente. Come confessa apertamente, il dolore esistenziale di Cheyenne è stato originato da un malinteso adolescenziale con il padre: avere sommariamente ed affrettatamente deciso di interpretare la disapprovazione per il suo stile di vita eccentrico con la negazione totale dell’amore paterno. È allora da questa perdita, dal senso di rifiuto e abbandono che scaturisce un personaggio che fa di ciò la propria bandiera, accorgendosi quando ormai è troppo tardi di essersi invorticato in un circolo vizioso che non produce nulla se non altro dolore. Ma 146
2. il PROTAGONISTA
fig. 3
che, in fondo, può essere sconfitto con il coraggio: quello di ammettere i propri errori e di rimettere in discussione le proprie deduzioni affrettate, quello di affrontare le proprie paure ed andare avanti. Questa svolta nel suo pensiero è messa in moto dalla morte del padre, che in sostanza gli apre gli occhi sullo scorrere del tempo, rendendolo conscio che c’è un tempo per tutto ma anche che tutto ha una fine. L’uomo allora realizza lo spreco mostruoso ed irrimediabile del suo atteggiamento di accantonamento e segregazione dei problemi irrisolti e si imbarca in un processo di revisione critica della propria esistenza, se non per modificarne il passato almeno per migliorarne il futuro. Il personaggio chiave è il figlio della nipote del criminale nazista. Cheyenne si trova di fronte ad un bambino alle prese con le proprie insuperabili paure e si rende conto di essere rimasto intrappolato allo stesso livello (inoltre, il giovane è orfano di padre, militare scomparso). Non a caso, è lo stesso ragazzino a determinare l’assestamento del primo e fondamentale colpo che fa breccia nella muraglia di riluttanza al cambiamento dell’uomo: è l’infrangimento di uno dei maggiori tabù autoimpostisi, quello della musica. Il ragazzino è la manifestazione materiale del legame tra Cheyenne ed il padre poiché raffigura la stessa adolescenza che ha segnato per sempre i due uomini. Se per Cheyenne essa rappresenta l’età della felicità prima della separazione dall’amore familiare, per il defunto essa si configura come l’età della spensieratezza prima degli orrori dell’Olocausto, come il figlio ha
modo di scoprire dai suoi diari. La sovrapposizione illumina il protagonista sull’universalità dei sentimenti umani. Sono dunque il desiderio di riparare ai propri errori, il riscoperto intramontabile orgoglio dei figli per i propri padri, la simbolica volontà di vendetta, la realizzazione del sogno incompiuto del padre i motori della seconda parte del film. Cheyenne riscopre il padre e soprattutto sé stesso, realizzando finalmente di essere fuori fase rispetto alla propria età e facendo cadere uno dopo l’altro i punti fermi della propria esistenza criogenizzata: l’astinenza dall’alcol, la concezione del dolore come fine a sé stesso, il rifiuto di volare, addirittura l’aspetto dark rimasto immutato per trent’anni. Infine, come sottolinea la madre di Mary, la sua prima sigaretta della vita certifica finalmente il completamento della transizione dall’infanzia all’età adulta.
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3. le TEMATICHE Il film utilizza la struttura classica del road movie in cui il viaggio si configura come percorso di crescita, movimento di scoperta di sé, strumento per l’esplorazione del mondo e l’arricchimento personale. È momento di sfida e confronto con la realtà da parte del protagonista, che lascia la consolidata prospettiva abituale, la routine e la protezione materna della propria casa per mettersi in gioco. Il titolo del film esplicita da subito un riferimento al movimento di luogo in luogo, profetizzando anche un finale positivo con il raggiungimento di un posto soddisfacente e la chiusura felice del cammino. Il viaggio in questione è un vittorioso percorso di andata e ritorno, in cui lo scatto di crescita del viaggiatore non risiede tanto nella scoperta di un luogo nuovo, specchio della sua personalità cambiata ed arricchita, quanto nella riconsiderazione in una nuova prospettiva del luogo di partenza. Prendendo spunto da una personale fascinazione per le figure dei cacciatori di nazisti, il regista innesta tale viaggio sulla base della tragedia dell’Olocausto, utilizzato come metafora dell’orrore umano più che per il valore storico intrinseco. Il tema centrale è infatti quello del rapporto generazionale. Lo stesso Sorrentino dice del film: «È una storia autobiografica. È un film sul rapporto con molte lacune tra un padre e un figlio. Come è stato fatalmente, per forza di cose, il rapporto tra me e mio padre».(3) Il protagonista Cheyenne è costruito attorno al trauma della rottura e la narrazione vede la difficile riconciliazione postuma (fig.5). L’uomo è affiancato da personaggi che incarnano ciò che non ha mai avuto: da un lato, Mary impersona il proprio alter-ego giovanile il cui sviluppo si è interrotto in lui a quindici anni (fig.4) ed il figlioletto della nipote del nazista rappresenta il figlio che egli non ha mai avuto. Dall’altro lato, l’anziano Mordecai riprende il padre appena perduto ed il gerarca nazista costituisce il negativo vivente dell’esistenza dello stesso. Cheyenne giunge al superamento della propria condizione perché riesce a comprendere e dunque sbloccare la complessità del rapporto tra padre e figlio: la fortuna è rappresentata dall’occasione di immedesimarsi in entrambe le parti. Inizialmente viene scambiato per il padre di Mary, ma il rapporto che li lega è diverso. Egli, divorato anche dal senso di colpa, la sostiene poiché rivede in lei sé stesso e vuole evitare che il dolore la rovini come è successo a lui, o peggio ancora, ai ragazzini suicidi. Si impegna a starle vicino ma cerca soprattutto di combattere la sua tristezza affiancandole persone della sua età. Non riesce a combinarle una relazione con il ragazzo interessato a lei, ma l’esito è comunque una crescita per entrambi: lui capisce meglio la complessità delle relazioni umane sintetizzatagli discutibilmente dall’amico dongiovanni, lei realizza di avere molto da imparare sull’universo di relazioni con l’altro sesso. Soprattutto però, la 148
Sorrentino P., “Abbandonatevi al mio film, ne resterete coinvolti”, in www. espresso.repubblica.it, 2014 (3)
dall’alto verso il basso, figg. 4, 5, 6
ragazza compie il passo decisivo divenendo consapevole del ruolo del dolore nella vita come mezzo, ostacolo in grado di tornare utile come appiglio, non destinazione fine a sé stessa, con ciò liberandosi dal fantasma di rimanervi intrappolata come il giovane Cheyenne a suo tempo: il gesto è salvifico per lei ma allo stesso modo per lui. L’altro personaggio chiave appartenente all’universo giovanile è il figlio della ragazza madre, che gli offre temporaneamente l’occasione di recitare la parte vacante del padre. Il rimorso di avere lasciato vuota la casella dei propri figli, esemplificato magistralmente da una piscina asciutta, è alleviato dall’aiuto a farlo vincere la sua fobia dell’acqua, rappresentato dall’acquisto di una piscina (piena) dove mettersi alla prova. Cheyenne si rivede anche in lui e capisce dal suo atteggiamento coraggioso di dovere finalmente affrontare tutti i suoi problemi accumulati sotto al tappeto, dimostrandosi adulto. Dall’altro lato, costruisce con Mordecai un rapporto analogo a quello del padre (fig.6). Inizia con un rifiuto in apparenza frutto del disdegno, ma sulla distanza ne escono tutta la stima e l’affetto nascosti sotto le apparenze. Cheyenne ha con lui l’occasione, preclusagli nella morte del padre prima del suo arrivo, della resa dei conti, in cui levare la maschera e alleggerire la coscienza. Non si tratta di grandi dialoghi, ma bastano poche occhiate e poche parole. Infine, anche l’ultranovantenne tedesco contribuisce alla risoluzione del rapporto con il padre defunto. Egli ne attesta la grandezza interiore e ne manifesta quella sensibilità che il figlio non ha mai percepito; soprattutto, però, con la sua esistenza permette all’uomo una postuma riconciliazione con il genitore perduto, poiché si offre all’espiazione della pena rimasta incompiuta e consente a Cheyenne di concludere una frase lasciata in sospeso dal padre, in tal modo unendosi a lui almeno nella volontà. Se l’irrimediabilità e l’immortalità dell’amore generazionale sono le tematiche esplicitamente esplorate dal film, non sono tuttavia le uniche riflessioni che emergono. Un pensiero che si scorge disseminato in più punti è la focalizzazione sugli aspetti più orribili della natura umana, esemplificati dai campi di sterminio, dal piacere per l’assassinio impune, dal furto dell’intimità psicologica, usati come termine di contrasto per sottolineare le piccole ma universali gioie dell’esistenza. È una riflessione che si erge a elogio della bellezza quotidiana, nelle sue semplicissime manifestazioni di un cielo azzurro, un bacio rubato, un angolo intimo all’interno di un centro commerciale, un buon pasto, una vista sulle montagne, ma che si estende fino al ruolo grandioso (e problematico) dell’arte di trasformare pensieri innovativi in manifestazioni materiali in grado di trasmettere emozioni. Diventa allora un’ampia riflessione sulla vita dell’uomo, che vuole magnificare il dono della volontà come strumento fondamentale di trasformazione dell’esistenza, sia nel bene che nel male, e dell’affermazione dell’identità, in tutte le surreali declinazioni possibili. Il pensiero esistenziale però mette in luce anche il limite inscindibile a cui è allacciato, cioè ancora una volta lo scorrere del tempo. La dicotomia tra la giovinezza e l’età adulta evidenzia la labilità del loro confine. Il tempo non è uno spietato tritatutto ma un invito al godimento del presente in ogni suo istante, così come del viaggio non conta soltanto la meta ma anche e soprattutto lo svolgimento. 149
4. la REGIA La prima cosa che si nota nelle immagini del film è l’alternanza tra le visioni ravvicinate delle emozioni umane su primi o primissimi piani (fig.8) e la maestosità immobile della natura dei campi lunghissimi. Questi ultimi sono, infatti, solitamente estranei alla prospettiva autoriale solitamente più attenta al dettaglio chiave, metafora dell’intera situazione, piuttosto che alla globalità dell’osservazione. La scelta è parzialmente obbligata dal genere di film, poiché il viaggio e la relativa crescita hanno la necessità di essere relazionati allo spazio ed al tempo in cui avvengono: un road movie senza esterni sarebbe un vagabondaggio di emozioni in primo piano. La mano autoriale però si riconosce nella ricerca della monumentalità che l’ambientazione americana offre all’occhio italiano. Se la vista dell’orizzonte di Dublino trasmette quel senso di brulicante concentrazione di singole ed individuali esistenze umane consorziate in società, tipicamente europeo, le sconfinate distese incontaminate dell’America profonda e lontana dall’oceano enfatizzano la piccolezza e la meraviglia dell’essere umano al cospetto di una natura che non ricordava così mastodontica. È una prospettiva visibilmente europea, disabituata all’esplosione di profondità spaziale dell’orizzonte aperto, quella che sceglie le pianure ondulate del Michigan, le sterpaglie desertiche del New Mexico, le distese innevate dello Utah passando per il Grand Canyon dell’Arizona. L’America è percepita e trasmessa nella sua più imponente manifestazione dimensionale: il pick-up enorme, la bottiglia pubblicitaria gigante, la pistola lunghissima, il pistacchio da Guinness, il bufalo massiccio. Tale sguardo bene si confà alla contestualizzazione del percorso di sblocco e crescita del protagonista all’interno dell’universo terrestre della vita. In particolare, è significativa la scelta delle ambientazioni: l’Irlanda, Paese periferico del Vecchio Continente esiliato nel mare, risponde all’esigenza di staticità, solitudine e rifiuto di partecipazione alla vita, mentre il viaggio transoceanico in nave richiama da un lato il sogno di speranza di cambiamento delle migrazioni passate, dall’altro l’attraversamento del fiume prima dell’ingresso nell’altra dimensione (che infatti accoglie l’uomo con la morte). Il Nuovo Mondo, e nello specifico il cuore continentale di esso, è allora la manifestazione geografica dell’interiorità del protagonista, luogo d’origine ma profondità sconosciuta, dove egli come un moderno Odisseo può muoversi alla ricerca di sé stesso prima di riemergere rinnovato nella propria dimensione originaria. Questo movimento di andata e ritorno è tra l’altro ottimamente sintetizzato da due coppie di inquadrature simmetriche ed inverse. La prima coppia è composta dai due piani su Dublino: in apertura di film, un movimento discendente 150
su questa pagina, dall’alto verso il basso, figg. 7, 8 (grande), 9 sull’altra pagina, figg. 10 e 11
in avvitamento orario dal campo lungo dello stadio alla mezza figura di Mary; in chiusura, come ultima inquadratura, un movimento ascendente in svitamento antiorario dal primo piano di Cheyenne al campo lunghissimo della città, passando per la stessa visione dello stadio. La parte discendente traduce la discesa agli inferi dalla dinamicità, dalla gioia e dal divertimento dello sport, metafora della partecipazione alla vita, all’imprigionamento nel dolore della ragazza, che ricalca l’identità di Cheyenne. La parte ascendente, invece, racconta la liberazione dell’uomo e la sua avvenuta trasformazione: passato ad essere in grado di sorridere e di tornare a relazionarsi in maniera attiva e propositiva con la vita, va oltre il punto di partenza iniziale per abbracciare una nuova prospettiva globale, partecipativa ed aperta a nuovi orizzonti. La seconda coppia, invece, è quella dei due piani sulla piscina che il protagonista acquista per il ragazzino in New Mexico: la prima vede un movimento discendente fino all’immersione della macchina da presa fissa sulla figura intera di sua madre intenta in un bagno (figg. 7 e 9); la seconda invece presenta un andamento ascendente contrario sulle mezze figure (maggiore carico emotivo) di madre e figlio abbracciati (figg. 10 e 11). È una traduzione tutt’altro che criptica del percorso introspettivo di Cheyenne, della sua purificazione dal senso di colpa, del suo lavaggio dal make-up, del suo superamento del blocco adolescenziale. Discesa e ascesa sono il genere di movimenti macchina che rappresentano il filo conduttore della prospettiva registica sulle vicende: un punto di vista che si alza e si abbassa per contemplare i fatti dall’interno e dall’esterno nel loro contesto globale. Complementare a ciò sono i continui dolly e carrelli, specialmente indietro e laterali. Il loro impiego è, infatti, strettamente legato allo sviluppo narrativo del film. Il racconto è innanzitutto un viaggio di ri-scoperta e, nonostante la notevole flemma dell’azione del protagonista, in ciò si distingue dalla tradizionale staticità delle opere del regista. Poiché si sviluppa come un percorso di approfondimento, il movimento dell’attore è spesso ortogonale alla macchina da presa, in avvicinamento o allontanamento. La regia dunque intraprende una doppia strada: da un lato sceglie di contestualizzare l’azione retrocedendo in un moto dal sapore estensivo, dall’altro opta per uno shift laterale perpendicolare al movimento che riesca ad inquadrarlo offrendo una nuova prospettiva su di esso. In entrambi i casi, a maggior ragione richiamando i movimenti sulla verticale prima citati, si manifesta l’urgente volontà registica di rapportare il personaggio all’ambiente. A questo proposito è esemplare il piano in cui il nativo americano, un uomo surreale apparso dal nulla in giacca e cravatta, soddisfatto del passaggio, si allontana dalla macchina di Cheyenne. Il primo piano del protagonista seduto in auto si trasforma in una panoramica in campo lunghissimo sull’uomo silenzioso in cammino verso il nulla, per poi terminare la propria rotazione di nuovo sull’auto ormai lontana. La metafora vuole evidenziare in maniera surreale l’intraprendimento del viaggio interiore e materiale che è la vita di ogni uomo: entrambi i personaggi sono intrappolati sotto delle vesti a loro non adatte e sono intenti in una riscoperta interiore che, per quanto in apparenza sconsiderata, è assolutamente necessaria alla piena realizzazione della loro esistenza. Come già analizzato e come suggerisce il titolo, il film 151
fa un impiego intensivo del luogo come specchio interiore. Il viaggio della vita è una ricerca di un posto che possa essere chiamato casa in quanto capace di instillare benessere, stabilità, spensieratezza: un equilibrio fondato sull’accordo con l’ambiente tanto quanto su quello interpersonale. Tale interesse è testimoniato dalla particolare attenzione dedicata alle abitazioni. La prima inquadratura del film mostra proprio quella del protagonista e anche l’ultimo piano mostra un agglomerato cittadino di case. Nel mezzo, si susseguono una gran varietà di soluzioni abitative, dal container alla villetta a schiera passando per la stanza d’albergo. Per la comprensione dell’importanza della casa è allora fondamentale il piano sequenza del concerto dei Talking Heads, in cui una porzione di scenografia spiccatamente casalinga si alza, ruota di novanta gradi ed inizia a muoversi (fig.16). È lo scardinamento della concezione materiale di casa come edificio saldamente ancorato al suolo verso un concetto più intellettuale e mobile di nido intimo di benessere. Si trova non a caso all’inizio del viaggio americano di Cheyenne e rappresenta fisicamente l’inizio del movimento interiore con 152
il conseguente cambio di prospettiva che egli avrà sull’idea del proprio posizionamento nel mondo. In ultimo, è da notare la scelta registica della frammentazione del monologo dell’anziano tedesco nel finale. Le tre panoramiche circolari in avvicinamento si autodenunciano, come la confessione del Divo, come una sorta di inserto solo parzialmente diegetico. La loro fredda serialità innaturale riprende il carattere disumano e meccanico dello sterminio nazista: esse trasmettono visivamente la disciplinata resa in fiero stile militare del gerarca e l’accettazione del suo destino. Il movimento della macchina da presa si apre con una graduale emersione dell’uomo di profilo dal suo riparo prima dietro la quinta del muro (fig.12), poi dalla barriera degli occhiali scuri, in un processo di spogliazione e denudamento che manifesta l’accettazione del proprio reperimento e delle
da sinistra a destra, figg. 12, 13, 14 e 15 a fianco, fig. 16
proprie responsabilità. Ogni panoramica si spinge sempre più avanti, fino a completare un semicerchio e svelare la presenza del protagonista, così rientrando nell’universo diegetico (fig.. La progressione in tale movimento di ribaltamento di prospettiva accompagna l’approfondimento delle riflessioni dell’uomo, penetrando al di sotto del titolo di gerarca nazista in cui è cristallizzato in tutto il film. La prima inquadratura sviluppa quelle dal lato nazista, sull’imitazione degli altri tipica del regime, e si arresta prima di giungere di fronte al personaggio. La seconda affronta invece il raccordo tra il lato dei carnefici e quello delle vittime, con lo svelamento del motivo di un desiderio di vendetta durato settant’anni, e arriva infatti a oltrepassare il punto di vista frontale sulle parole di ammirazione per il padre di Cheyenne. La terza infine accomuna entrambi gli schieramenti sotto la perdita di
spensieratezza causata della guerra, che si rende visibile nel compimento del ribaltamento del punto di vista da un profilo all’altro: è una rappresentazione dell’universalità dell’orrore, una presa di coscienza del furto bipartisan della gioventù. Il punto di vista della macchina da presa è quindi accurato termometro delle parole dell’ultranovantenne e strumento di indagine e giudizio della regia sui fatti narrati. Un impiego simile si riscontra in un’altra panoramica semicircolare, stavolta nel negozio d’armi: dal profilo di Cheyenne svela lentamente il volto di un soggetto inquietante, che parla del piacere di assassinare con impunità, e giunge a posizionarsi in posizione ribaltata. Ancora una volta, rispecchia sia il cambio di prospettiva riguardo all’omicidio nelle parole di chi parla, che l’occhio giudicante del regista: il piano si apre con la lenta materializzazione dell’idea della vendetta nella mente del protagonista e pone questi di fronte ad essa, cosa che lo lascia interdetto. Manifesta perciò il processo psicologico di pianificazione dell’omicidio, presa di coscienza del suo disumano orrore e anticipa quindi l’aborto del piano finale per un’alternativa decisamente meno sanguinosa. 153
5. la FOTOGRAFIA
a fianco, fig. 17 sotto, fig. 18
La fotografia di Luca Bigazzi accompagna e racconta il percorso di crescita di Cheyenne attraverso un impiego della luce fortemente espressivo. All’inizio del film, la stagnazione della sua vita è rappresentata da una luce piatta, diffusa, frontale, senza contrasto di luci ed ombre, senza ritmo, noiosa, incolore, che affronta senza successo la sua inamovibile macchia nera, buia, oscura, piatta. È una luce artificiale d’interni o al massimo frutto della diffusione del cielo coperto irlandese, perché nel caso di sole diretto il protagonista rifugge l’incontro, girandosi controluce di spalle e indossando gli occhiali da sole. La luce naturale, infatti, rappresenta quell’accettazione della vita e del lento ma implacabile incedere del tempo, cose a cui l’uomo è visibilmente allergico. Tuttavia, la resa dei volti in interno non è sempre affidata soltanto a un’illuminazione tonale, poiché il chiaroscuro profondo senza nemmeno luci riempienti sopraggiunge per i momenti più drammatici (i colloqui con la mamma di Mary) ed addirittura l’illuminazione dal basso per le esplosioni di malessere. A tal proposito, è emblematica l’inquadratura del dialogo tra David Byrne e Cheyenne. La macchina da presa stringe uno zoom con carrello laterale che sulla confessione dei sensi di colpa dell’uomo, lentamente districa il primo piano dai fili colorati, traducendo in immagini il concetto di “svelamento”. La tensione drammatica va di pari passo con il restringimento del piano sul volto ma è fomentata da altri due elementi: l’illuminazione è direzionale, netta e senza mezzi termini, violenta e sincera, proveniente dal basso, cosa che rende manifesti i sentimenti di inquietudine e orrore, 154
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mentre i fili colorati passano da una eguale divisione tra gialli e blu, caldi e freddi, a una totalità dei secondi, oscuri e funerei, tra l’altro resi sempre più grandi dall’avvicinamento dello zoom (fig.19). Se tuttavia la luce all’inizio del film crea un’atmosfera che fa sembrare Cheyenne un surgelato nel bagno di luce impersonale e sempiterna del freezer (ben indicativa la scena a riguardo) (fig.17), le cose si riscaldano con la messa in moto del processo di cambiamento, crescita, umanizzazione. La prima svolta è la morte del padre: qui, nella desolazione bianca senza vita della stanza e del volto del morto, Cheyenne si leva gli occhiali da sole e si accosta ad una lampada arancione, che inizia a dare un volume tridimensionale ed un colorito ambrato e vitale al suo volto. Il secondo step è l’accettazione della luce solare, calda e abbagliante, vitale e decisa. La scena vede Cheyenne sporgersi dal finestrino dell’auto in corsa (fig.18): l’aria fresca e rigenerante finalmente allontana dal suo volto la gravosa e opprimente nuvola di capelli corvini, solitamente muraglia per la luce, e gli consente di godere di una botta di vita data dal tepore di un sole pomeridiano e orizzontale. La svolta definitiva è però più avanti, quando Cheyenne accetta definitivamente 156
la transitorietà della vita, il suo carattere di perpetuo divenire, la fragile e mutevole instabilità. Tale idea è rappresentata con degli effetti di luce sul suo volto, i raggi di sole tra le foglie mosse dal vento mentre parla con la nipote del nazista proprio di sconfiggere le proprie paure, e con la lampadina oscillante della telefonata con Mary, in cui realizza la vera natura del dolore. Nel complesso, inoltre, il film sul volto di Cheyenne vede un processo di umanizzazione dell’illuminazione che passa da essere tonale e frontale, bianco e artificiale, a un morbido chiaroscuro laterale, ambrato e plastico, personale e naturale. Riguardo all’uso della luce, è molto interessante osservare l’uso espressivo che ne viene fatto sulle due figure degli anziani, Mordecai ed il criminale nazista. Il primo,
dall’alto verso il basso, figg. 19 e 20 accanto, fig. 21
nell’incontro con Cheyenne nel suo studio, è caratterizzato da un’illuminazione che ne rivela in partenza il doppio atteggiamento di rifiuto iniziale ma apprezzamento finale (fig.20): il primo piano è infatti inondato da una luce chiave chiaroscurale arancione, calda e sanguigna, bilanciata da un controluce azzurrino, freddo e distaccato. Già dalla presentazione si pone quindi come un personaggio dalla doppia faccia. Il secondo, invece, vive immerso in una penombra verde-acqua senza contrasti, un’atmosfera malata da ospedale in cui la vita si spegne lentamente: è rivolto di spalle alla maggiore fonte luminosa della finestra, controluce alla vita, e nascosto dietro a degli occhiali da sole che riparano i suoi occhi non a caso ciechi, infertili alla naturalezza della luce. Più che la qualità della luce, ciò che sicuramente colpisce gli occhi nella visione del film è però la vividezza dei colori. Cheyenne è la manifestazione tangibile della negazione della vita, vestito di solo nero e coperto di bianco sul volto sotto al nascondiglio altrettanto nero dei capelli. Mantiene però acceso un lumicino vitale, dato dal rosso del rossetto e dall’azzurro cielo degli occhi, nettamente contrastanti con il buio del resto della persona. Il paesaggio americano, invece, è una continua esplosione di energia vitale, in una palette vegetale che spazia tra il verde più follemente acceso dell’erba alle infiammate tinte autunnali delle foglie degli alberi, dal giallo accecante delle sterpaglie all’azzurro infinito del cielo del sud. La variazione di colori strettamente legata al ciclo della vita in natura e al passaggio del tempo è visibilmente enfatizzata con una saturazione abbagliante, che trasmette la straordinarietà del miracolo della vita che si rinnova all’infinito. Ecco perché la baracca del nazista è collocata in un altipiano innevato di un bianco miracoloso, sinonimo di una mancanza totale di ogni appartenenza alla vita umana.
Vista l’importanza dei paesaggi, in esterno l’inquadratura sfrutta degli epici grandangoli in grado di abbracciare un lunghissimo orizzonte, con una relativa inusuale profondità di campo. La composizione delle inquadrature diventa allora molto tridimensionale e prospettica, per la prima volta nei film di Sorrentino, dopo opere confinate in interni claustrofobici. Non è più il primo piano frontale a strutturare un’organizzazione spaziale di figura e sfondi piatti, ma il movimento del pick-up a enfatizzare lo sconfinato cono prospettico in tre dimensioni. Costante, però, rimane un’attenzione minuziosa per la linea e l’architettura grafica, che continua ad essere il filo conduttore dell’impianto visivo delle inquadrature. Di risposta ai grandiosi obiettivi a focale cortissima, per i dialoghi vengono spesso insolitamente utilizzati dei teleobiettivi lunghissimi, che riportano il protagonista ben al centro dell’attenzione drammatica. Stranamente, è adottata una classica alternanza tra campi e controcampi in inquadrature di quinta, che servono tuttavia a rimarcare in maniera espressiva il nido nero di capelli di Cheyenne (fig.21). Nel piano della sua semi-soggettiva, la sua chioma nera appare ben uniforme perché fuori fuoco ed occupa metà del frame, facendone perdere la percezione della reale dimensione e confinando l’interlocutore all’altra metà; nel piano della semi-soggettiva degli altri, invece, il suo volto continua a presiedere la gran parte del frame circondato dal nero lievemente striato dei suoi capelli. Se nel secondo caso l’inquadratura è costruita secondo il canone tradizionale, nel primo la sovversione della regola tradisce la sua intimità profonda: quel nero indistinto, abnorme e impenetrabile, gravoso e sproporzionato è la rappresentazione del senso di colpa che affligge la sua vita. È il senso di colpa opprimente per il suicidio dei due ragazzini, per la scomparsa del fratello di Mary e per la rottura mai sanata con il padre. Non è un nero immutabile, però, perché comincia a ritirarsi in concomitanza dell’abolizione del suo tabù della musica: quando suona la chitarra per il ragazzino, dal frame tutto nero che rivela essere la sua nuca sbuca il volto del giovane intento a cantare, che in breve si impossessa dell’intera inquadratura pulita.
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LA GRANDE BELLEZZA
Soggetto Sceneggiatura Regia Fotografia Produttore Montaggio Protagonista Anno Paese Lingua Durata
3.6
Paolo Sorrentino Paolo Sorrentino, Umberto Contarello Paolo Sorrentino Luca Bigazzi Nicola Giuliano Cristiano Travaglioli Toni Servillo (Jep Gambardella) 2013 Italia, Francia Italiano 142 minuti 159
1. il RACCONTO
fig. 1 a pagina seguente, fig. 2
Il colpo a salve del cannone del Gianicolo indica il mezzogiorno alla città eterna. Tra statue, monumenti, chiese e fontane, lo sguardo dei turisti giapponesi si perde estasiato nello splendore dell’Urbe (fig.1), accompagnato da cori di musica sacra. C’è chi non regge a tutto lo splendore ed al caldo asfissiante e crolla al suolo abbattuto da un infarto. Di notte, invece, sulla terrazza del tetto di un palazzo del centro va in scena una festa grandiosa e poliedrica, lussuosa e volgare, sfarzosa e decadente, dove decine e decine di intellettuali, modelle, artisti e nobili non più giovani si abbandonano all’ebbrezza sfrenata e impudica di ogni sorta di balli. È il sessantacinquesimo compleanno di Jep Gambardella, il re indiscusso della vita mondana della capitale. Più tardi, un genuino uomo di letteratura, Romano, accompagna a casa la propria languida e viziata amica di cui è innamorato, che lo degna di attenzione solo in caso di personale necessità. Ormai mattina, il festeggiato cammina tra conventi e monumenti verso casa, indugiando con un sorriso qua e là davanti a scene di naturale candore. Nell’ascensore del signorile palazzo dove abita si imbatte nel vicino, che non risponde al suo accenno di dialogo riguardo ai migliori sarti della città e poco dopo si infila furtivo nella propria porta iper-blindata. In casa infine scherza brevemente con la colf filippina e va a coricarsi a letto, immaginando lo specchio del mare sul proprio soffitto. Al risveglio al tramonto, sorseggiando il primo drink della lunga serata nell’amaca della terrazza di fronte Colosseo, rimane ad ammirare le suore del vicino convento giocare 160
con gli orfanelli. Poco dopo, assiste alla performance di una donna che si lancia nuda di testa contro un acquedotto romano. Jep è un giornalista: segue un’intervista conflittuale con la donna. Il testo dell’intervista viene discusso scherzosamente da Jep con Dadina, nana già vista vagabondare al termine della festa iniziale e direttrice del giornale; i due discutono anche della carriera mancata dell’uomo. Su questo tema, un unico libro di successo scritto quarant’anni prima senza ulteriori sviluppi, discute anche con Romano, il quale viene invece informato dallo stesso di avere a disposizione un piccolo teatro per un progetto personale su cui punta moltissimo. Sulla terrazza di Jep si ritrova per una serata insieme tutto il circolo di amici dell’ospitante: Lello e la moglie Trumeau, Dadina ed il compagno poeta, Romano e la ragazza scortese, Viola e Stefania e anche Orietta, nullafacente e ricchissima milanese di passaggio, che con assoluto snobismo discutono di gossip, di Roma e di progetti di lavoro. Ad un tratto, l’attenzione di tutti è catturata dalla bizzarra scena del balcone del vicino, l’uomo dell’ascensore, dove una donna splendida bacia un tutt’altro che elegante uomo tarchiato
in canottiera. Più tardi, sulla via del ritorno con la moglie, Lello viene apostrofato per nome dai trans di un viale; Viola trova il proprio figlio, afflitto da seri problemi psichiatrici, nudo e dipinto; Jep invece segue Orietta nell’abitazione principesca a lato della basilica di Piazza Navona. Dopo averci fatto l’amore, l’annoiato protagonista riflette sull’impiego del proprio tempo e lascia la casa della donna mentre questa è temporaneamente assente. All’alba cammina ancora verso casa lungo il Tevere, mentre la sua voce fuori campo ricorda l’arrivo a Roma da ragazzo e la successiva ascesa nella vita mondana della città. Davanti alla propria porta lo aspetta però uno sconosciuto che lo informa della morte della propria moglie. A casa del vedovo se ne spiega la ragione: la donna scomparsa è stata il primo e unico amore dei vent’anni di Jep; il marito l’ha rintracciato dopo aver scoperto con amarezza che nel diario segreto della donna c’erano solo parole per quella storia di trentacinque anni prima. Steso sul proprio letto, il protagonista si perde di nuovo nella visione del mare sul soffitto: il mare di quella giornata con l’unico amore della sua vita. In giro tra i monumenti della città, invece, si imbatte in una
bambina nascostasi dalla madre, che con disarmante semplicità scava una voragine all’interno della sua identità. Insolitamente sveglio al mattino, Jep si reca nella stanzetta in cui vive l’amico Romano, intento a preparare un pezzo teatrale per le sue serate. I due discutono di donne e progetti, con il primo che spinge l’amico a progetti meno accademici e più personali, informandolo dell’intenzione di ricominciare a scrivere. I soliti amici si ritrovano sulla solita terrazza di Jep. Tra le svogliate chiacchiere sarcastiche, Stefania inizia a snocciolare i propri pregi che ne farebbero una persona di maggiore spessore morale rispetto agli amici ed alla società: il padrone di casa l’affronta prima con ironia per passare poi a smascherarne e ribaltarne ogni singolo punto, svelandone la mostruosa vuotezza e superficialità. La donna dunque lascia in un indignato silenzio il circolo di amici, coscienti del disastro esistenziale delle proprie vite senza valori, e cerca redenzione dall’onta e dalle colpe nuda nella propria piscina. Al termine della serata, Jep vaga per una deserta Via Veneto tra qualche milionario straniero imbattendosi infine nel night club di un amico di vecchia data, tossico ma preoccupato per la figlia Ramona, giunonica spogliarellista fuori età. Chiede a Jep di trovarle un marito e ne confida il continuo bisogno di soldi: l’uomo e la donna hanno modo di conoscersi e lei dimostra una spiccata disillusione per la vita innestata su una sincera ingenuità popolana. Rientrato a casa, l’uomo trova il vicino in terrazza, rivolgendoglisi con un brindisi a cui però non reagisce. Segue una scena nello studio, più simile 161
ad una sala museale, di un rinomato chirurgo plastico: tra le rifatte e attempate persone in coda per l’iniezione di botulino figurano sia il protagonista che una giovane suora, la quale però necessita di rimediare ad un’eccessiva sudorazione delle mani. Jep raggiunge Ramona nella propria villetta borghese fuori città. Incerta se egli sia sospinto da un interesse carnale, acconsente ad uscire a cena, rimanendo sorpresa dalla raffinatezza dell’ambiente e dalle conoscenze dell’uomo. I due incontrano anche Viola ed il figlio psicotico, che li sottopone a drammatici presagi di morte di opere letterarie. Un ragazzo in mutande si destreggia in maniera spettacolare nel palleggio: è il seguito della storia di Ramona della sua prima volta, di cui parla con Jep in terrazza. L’uomo cerca senza successo di scoprire come lei consumi tutti i suoi soldi, mentre a sua volta lei indaga sulla carriera letteraria abbandonata da lui per aver preferito le notti mondane. Infine, viene il turno di Jep per raccontare la propria prima volta: su quegli scogli già visti nel ricordo della giornata al mare di gioventù, l’uomo richiama alla memoria la bellissima ragazza di cui era innamorato, che sarà la moglie dello sconosciuto appena scomparsa. Il suo racconto però si interrompe per l’evidente sovraccarico emotivo. La sera seguente, Jep invita Ramona ad una festa nella residenza di un noto collezionista d’arte: tra i soliti amici, nobili decaduti, galleristi e debosciati generici di mezz’età va in scena la performance di una giovanissima ragazzina. Strappata ai giochi con i suoi coetanei e sacrificata dai genitori in nome della fama e del denaro, l’infelice artista in un mare di lacrime di frustrazione scaglia rabbiosa numerose latte di colore su una enorme tela. Ramona, turbata dallo spettacolo brutale, chiede all’amico di portarla altrove. Questi incontra giustappunto un conoscente che porta con sé tutte le chiavi dei più splendidi palazzi storici romani ed il trio passa l’intera notte tra stanze, balconate ed opere d’arte di bellezza indescrivibile. Nel frattempo, il figlio di Viola al volante dell’auto si lancia a folle velocità nella notte con gli occhi chiusi. Jep accompagna Ramona ad acquistare un elegantissimo abito da funerale, monologando sulle regole di comportamento da tenere in un tale evento mondano (fig.2). Al funerale del figlio di Viola, infatti, esegue alla lettera ciò che aveva anticipato all’amica, mettendosi ben in evidenza senza tuttavia rubare la scena alla madre del suicida. È sempre lui, aiutato dai soliti partecipanti ai suoi salotti, a portare in spalla la bara, in assenza di amici del ragazzo. Il mattino seguente, il protagonista e la donna si svegliano a fianco nel letto di lui. Contemplano il mare nel soffitto e l’aver resistito alla tentazione di fare l’amore, poi lui le porta la colazione a letto e lei gli confessa come spende tutti i suoi soldi: in cure mediche. Lo slow motion accompagna un contrito Jep solitario in abito e la tipica popolazione umana di un normalissimo ed a lui insolito bar di periferia. Viola siede alla propria principesca tavolata lunghissima altrettanto in solitaria. Il padre di Ramona, invece, riceve le condoglianze per la scomparsa della figlia. Ancora Jep, infine, questa volta all’Isola del Giglio è in contemplazione della Concordia, agonizzante nell’acqua, per un servizio richiestogli da tanto tempo dalla direttrice Dadina. Romano conclude il proprio monologo teatrale sui ricordi delle sue estati passate, tra gli applausi di un ristretto 162
pubblico e l’indifferenza suprema della solita ragazza scocciata. Jep fa visita ad un attempato conoscente illusionista intento a preparare il numero della serata a venire, la sparizione della giraffa; lo raggiunge Romano, che lo sorprende con la notizia della propria immediata partenza. Senza nemmeno finire le serate in teatro fugge da Roma, deluso dalla pochezza e dalla superficialità, e ritorna alla provincia natale. Saluta Jep e cammina via: quando l’uomo si gira di nuovo verso l’illusionista, la giraffa è scomparsa. L’arbiter elegantiae della capitale si reca a casa del vedovo incontrato in precedenza: vorrebbe poter leggere le parole del diario scritte dalla donna scomparsa su di lui ma l’oggetto è stato bruciato. Il vedovo gli presenta la nuova compagna dell’est e Jep ascolta con tenerezza il programma casalingo della loro serata. Lui, infatti, ospita una delle classiche esplosive feste in terrazza. Tra soubrette sfiorite ed in fiore, cocaina, alcol, sesso, sconosciuti ed amici di sempre, nel vorticoso divertimento di debosciati canuti il padrone di casa riflette sui trenini dei balli: bellissimi, perché fermi a girare su sé stessi. In un’altra occasione, in un giardino di una splendida villa Jep percorre malinconico i porticati
tappezzati delle foto di una mostra particolare: sono migliaia di ritratti dalla nascita all’età adulta del fotografo, scattati giorno dopo giorno. Jep e gli amici sono invitati al rinfresco di un matrimonio importante. L’uomo cerca di porre alcune questioni spirituali che lo tormentano ad un cardinale presente, il quale tuttavia pare interessato solo alle ricette di cucina ed alla conversazione leggera. Il protagonista scruta stupefatto dalla terrazza il balcone del vicino, dove la DIA lo ha appena arrestato: nel suo silenzio è stato un super-latitante per anni. L’uomo misterioso apre bocca per la prima volta e risponde alla domanda sui sarti postagli molto tempo prima; poi mentre viene portato via dagli agenti biasima Jep per sprecare la propria vita in bagordi e festini. Nello studio di Dadina, Jep e la donna parlano dell’invecchiare; inoltre, lei lo informa dell’arrivo in città di una famosa suora centenaria, incaricandolo di intervistarla e organizzando una cena sulla sua terrazza. La suora è al centro di un tributo organizzatole dal papa in cui decine di esponenti di diversi ordini e di guide spirituali di diverse religioni vengono a renderle omaggio: tra di loro si nota anche la giovane
suorina già vista dal chirurgo plastico, la quale si inginocchia di fronte all’anziana e le prende le mani per baciarle. Alla cena a casa di Jep partecipano anche il cardinale del matrimonio e due anziani aristocratici decaduti, ridotti a fingersi di altri casati a richiesta. Il segretario della suora decanta le immense umiltà e carità della donna ma nega l’intervista, mentre il cardinale continua a deviare la conversazione sulle sue ricette culinarie: cala allora il gelo tra i convitati quando Jep gli rinfaccia l’incapacità di rispondere a qualsiasi genere di questione spirituale. Al termine della cena, la donna della coppia di nobili decaduti si attarda nel palazzo signorile trasformato in museo sotto al quale abitano: va a ricordare i luoghi dove è nata e cresciuta felice, prima di cadere in disgrazia, dover vendere l’edificio e trasferirsi nello scantinato. Da Jep invece scatta l’allarme per la centenaria resasi irreperibile, ritrovata dal padrone di casa, non senza un colpo al cuore, addormentata sul pavimento. Il mattino seguente, l’uomo trova la propria terrazza occupata da un intero stormo di fenicotteri in sosta per la migrazione, mentre l’anziana suora gli ricorda il ruolo fondamentale delle radici personali. Nel finale, la religiosa giunge con grandiosa sofferenza alla sommità della scala santa di San Giovanni in ginocchio. Nel contempo, Jep ritorna al mare su quegli scogli dove fece l’amore per la prima volta con la ragazza che gli ha segnato la vita: rivive quegli attimi indimenticabili e ripensa al senso dell’intera esistenza. Le sue riflessioni malinconiche ma pallidamente ottimiste accompagnano la chiusura del film in voice-over. 163
2. il PROTAGONISTA
fig. 3
La città di Roma con la sua caleidoscopica articolazione tra il sacro e il profano dà vita ad una narrazione insolitamente polifonica in cui il protagonista non costituisce il centro monopolistico dell’attenzione dello spettatore ma solamente il punto di riferimento della vorticosa galassia cittadina. Jep Gambardella è allora sì, indiscusso perno del movimento del racconto, ma la sua personalità non è oggetto quasi esclusivo d’indagine come i protagonisti della altre opere quanto piuttosto generica metafora del più ampio discorso registico. Egli è il tassello chiave di un puzzle che tuttavia necessita di numerosi altri componenti per dirsi ragionevolmente completo. Jep è un giornalista al tramonto di una carriera che in realtà ha occupato poco spazio nella sua vita e ottenuto poca attenzione. Si è perso in gioventù appena dopo il successo d’esordio come autore di romanzi, facendo di quell’opera la prima e ultima della sua produzione. La sua rimanente storia è sintetizzata in poche parole da lui stesso, con il trasferimento a Roma e il desiderio portato a realizzazione di diventare arbiter elegantiae della vita mondana. «Non ho scritto più niente perché sono uscito troppo spesso la sera» è la sua coincisa spiegazione al precoce esaurimento della vena creativa. È un sessantacinquenne colto, profondo conoscitore di arte, letteratura e salotti che sostanzialmente impiega il proprio tempo presiedendo dallo scranno d’onore alla vita notturna della capitale. Scapolo, senza figli, donnaiolo, vizioso, veste eleganza e risiede in un lussuoso attico sul Colosseo, sulla cui terrazza hanno luogo innumerevoli feste di volgare delirio, cene di gala e più pacate serate di chiacchiere snob tra amici altolocati. La sua schiera di frequentazioni annovera dagli esponenti del mondo della cultura alle più superficiali meteore dello spettacolo passando per una folta fauna umana di nobili, religiosi, imprenditori, borghesi arricchiti ed artisti. Jep è ricco e socialmente arrivato, riconosciuto e ammirato, ma rimane tuttavia profondamente disilluso e cinico riguardo al naufragio della propria esistenza in un mare di superficialità. La affronta quotidianamente con un’acuta vena d’ironia: «I trenini che facciamo alle nostre feste sono i più belli di tutta Roma. Sono belli perché non vanno da nessuna parte». La sua sorridente amarezza è infatti certificata da un ricorrente rimando all’intenzione di Flaubert di scrivere un romanzo sul nulla, di cui egli stesso si sente ormai grande conoscitore per la pochezza di contenuti della sua vita. 164
Ha centinaia di conoscenze ma coltiva pochissime relazioni oltre le chiacchiere fine a sé stesse: la propria domestica, che rappresenta il suo cordone ombelicale con il mondo reale e riesce a riportarlo con i piedi per terra; Romano, l’unico sospinto da una pura ed ingenua passione letteraria, che infatti finisce per abbandonare la città; Dadina, la direttrice del giornale per cui lavora, altrettanto disillusa e consapevole, con cui condivide riflessioni ed intimità da decenni. In aggiunta, è la provinciale e modesta Ramona a fargli riassaporare la piacevole semplicità della vita, ma il loro breve rapporto di amicizia è interrotto dalla prematura morte della donna. Jep non ha una compagna, al contrario si lascia andare a saltuarie occasioni carnali, ma è stato indelebilmente segnato in gioventù dall’amore: come con la scrittura, è stata la prima e unica fiamma a lasciargli una profonda cicatrice, mai più seguita da altri segni di passione. Ancora quarantacinque anni dopo quella breve relazione, l’uomo quotidianamente rivede sul soffitto della propria stanza da letto il mare della giornata in cui ha consumato quell’amore per la prima volta.
Da alcune incrinature nella propria armatura di eleganza e sarcasmo, lascia tuttavia intravedere profonde necessità spirituali ed intime. Come primo tratto in apertura del film, infatti, Jep sottolinea di sé stesso un’anima sensibile fuori dal comune. Vorrebbe aprirsi con il cardinale conosciuto al matrimonio, ma la manifesta evasività di questi di fronte al discorso lo lascia amareggiato. Si reca dal vedovo del suo unico amore giovanile per cercare di scoprire i motivi del fallimento della loro relazione dell’epoca, ma anche questa volta deve arrendersi di fronte all’impossibilità di trovare risposte. Prepara a tavolino le mosse per il funerale del figlio di Viola, ma cede alla commozione infrangendo la regola che vorrebbe il pianto riservato ai familiari del defunto. Cammina alticcio per la città dopo una festa e rimane estasiato a contemplare il candore dei giochi degli orfanelli negli istituti di suore. Narra a Ramona della sua prima volta ma non termina il racconto perché le parole gli si annodano in gola per l’emozione. Visita una mostra fotografica che gli ricorda la gioventù e viene visibilmente toccato nel profondo. Non è allora assopito definitivamente e stordito dalla sua condizione, tant’è che l’incontro finale con la religiosa ultracentenaria ed il suo rimando alle radici personali riaccende in lui un desiderio di riscoprire sé stesso, la sua vitalità e la sua produttività artistica in stand-by da decenni. Jep è ben cosciente del baratro di squallore esistenziale che si nasconde dietro alla facciata della sua vita di bagordi: prova pietà e commiserazione per sé stesso e per la sua cerchia di amici, rimpiange di avere dedicato la vita alla movida
senza essersi fatto una famiglia ma è rassegnato alla superficialità ed alla lenta inarrestabile deriva. Non sa che farsene del presente che lo traghetta verso la senilità, è disinteressato ad un futuro a cui non ha nulla da chiedere e vive perennemente ancorato al ricordo del passato e della gioventù. Il suo cuore si è fermato al primo amore dei diciotto anni, la sua mente torna a gustare quei momenti ogni giorno prima del sonno ed il suo stile di vita finge che il tempo non sia mai passato: a sessantacinque anni, Jep si sveglia al pomeriggio, si sbronza tutte le sere e si corica all’alba, come chi ha un terzo dei suoi anni. È fuori fase rispetto alla vita, lo sa ma non nutre speranze di redenzione. Sono le ferite inflittegli dalla morte, che gli porta via la spontanea vitalità di Ramona e la manifestazione materiale del suo unico amore, a mettere in moto in lui in finale processo di cambiamento. Pur rimanendo ancorato al suo consolidato sguardo cinico sulla vita, che «è solo un trucco», l’uomo si posiziona da una diversa prospettiva in cui riconsidera il valore delle proprie azioni e la loro incisività sulla sua condizione.
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3. le TEMATICHE
Lo spaccato della quotidianità di Jep Gambardella è il cardine su cui si impernia tutta la giostra della vita mondana della Città Eterna. Ad un primo livello di lettura, dunque, il film affronta un’immersione nel sorprendente e meraviglioso contrasto tra gli universi del sacro e del profano che si mescolano. Più che il giornalista pare infatti Roma la vera protagonista, una città che riesce ad offrire simultaneamente duemila anni di Cattolicesimo, mille anni dell’entità statale alla base del mondo occidentale e un’immemore tradizione di sfrenata degenerazione notturna. Roma si presenta come un aureo contenitore in cui l’eccesso di ricchezza ha prodotto una popolazione umana gozzovigliante, meschina, spettacolare quanto vuota e frivola, il cui squallore dilagante nel segno dell’effimero piacere venale si contrappone al sempiterno etereo candore morale della fede in uno stridente quanto irresistibile accostamento. Roma è anche la giustapposizione tra la temporaneità della carne umana di fronte all’imperturbabilità secolare dei capolavori dell’architettura e dell’arte. La città è allora simbolo del necessario conflitto tra l’orrido ed il bello senza il quale non si potrebbe cogliere la straordinarietà del secondo. Ad un secondo e più approfondito livello di interpretazione, invece, la metafora si allarga ancora. Lo sfacelo di Jep Gambardella e delle sue frequentazioni può essere interpretato in trasparenza come la decadenza dell’intero Paese. Ecco allora che il film diventa una trasposizione cinematografica di un’Italia in declino troppo occupata a festeggiare fino allo svenimento per accorgersi dell’imminente sciagura. Come la realtà, il film è popolato soltanto da individui maturi, adulti ed anziani, dove la gioventù trova spazio solamente nel ricordo di loro stessi. Un primo tema è allora quello del conflitto generazionale di un Paese che non guarda al futuro, preso dal baccanale del presente. Quasi nessuno dei personaggi dei salotti di Jep ha costruito una famiglia e messo al mondo dei figli, impegni troppo ingombranti e responsabilità troppo pesanti. Rarissimi sono i personaggi giovani: il figlio di Viola, la ragazzina che dipinge e qualche sfuggente bambinello dalle suore. La fauna di mezza età non si vuole arrendere al passare del tempo e cerca invano di arrestarlo con il botulino e la chirurgia, con il risultato di generare mostri grotteschi di plastica. I cinquantenni si comportano come adolescenti, dando prova di una completa mancanza di contegno e aprendo voragini interrogative sulla classe dirigente che dovrebbe guidare la nazione. I giovani anagrafici, di conseguenza, sono cresciuti secondo la distorta percezione della realtà dei padri e assumono sulle proprie spalle il peso della responsabilità scaricata da essi. Mentre Viola è impegnata 166
nei suoi futili discorsi tra il gossip ed il radical chic, il figlio mentalmente instabile è ossessionato dall’incombenza del futuro e cerca disperatamente dei punti fermi a cui aggrapparsi: se la madre si occupa solo di frivolezze, lui all’opposto ricerca la profondità e considera solo la letteratura esistenzialista, prendendo tutto con la massima serietà. Finisce addirittura per togliersi la vita in un gesto, la macchina lanciata a folle velocità nelle strade di Roma, che ha il sapore di uno schianto di ribellione della giovinezza contro l’insormontabile cinta muraria di vecchiaia. Non dissimile è la ragazzina costretta all’arte dai genitori: contro le sue più che legittime aspirazioni personali, è fisicamente trascinata dal padre davanti a un muro di tela, che ella riempie più di lacrime che di colore. Nel conflitto generazionale, il padre commette una forzatura obbrobriosa contro natura arrivando a vendere la felicità della figlia per il proprio tornaconto economico. La ragazzina, come l’altro giovane, viene dunque posta di fronte ad un muro senza il minimo appoggio, emblema di una generazione spinta nell’angolo e abbandonata a sé stessa. Soltanto i bambini degli istituti religiosi si salvano dall’infelicità, ma sono talmente piccoli che non è neppure concessa loro voce in capitolo e vengono contemplati come teneri germi di vita piuttosto che come soggetti facenti parte della società. Oltre alla grave mancanza di lungimiranza verso il futuro, il decadimento dell’Italia contemporanea è visibile anche nella tipologia di fauna umana che ricorre nei salotti. La presenza della Chiesa in veste istituzionale si limita ad un cardinale bestiale ed animalesco dalla fama di esorcista che nulla ha di spirituale, poiché si tiene alla larga dall’intimità della fede per preferirle lunghe dissertazioni ben più materiali e sanguigne su come tagliare, affettare, farcire e cuocere selvaggina, chiaro simbolo di una completa mondanizzazione da parte della sacralità. Il cedimento di cui cade vittima il corpo ecclesiastico si manifesta anche nella coppia di prete e suora seduti intimamente al ristorante e intenti a ordinare champagne: dopo la gola, anche un abbassamento alla lussuria. Si salvano invece gli umili servitori dediti alla carità, uniche sparute fonti di luce nel buio morale, impersonati nelle numerose monache degli orfanotrofi dell’inizio e nella suora ultracentenaria del finale, lontane dai centri di potere del Vaticano. Altra presenza salottiera è quella
del mondo dello spettacolo, campionato in uno specimen che ne esalta la superficialità, la temporaneità del successo e l’unico desiderio della fama. Non va meglio al mondo dell’arte contemporanea, con la presentazione di due artiste completamente inconsapevoli di ciò che stanno facendo ed orientate solamente alla rendita economica ed al successo. La classe politica invece non è nemmeno considerata in modo marginale, cosicché la sua totale assenza dal circo salottiero allunga il sospetto di altrettanta mancanza di incisività nella realtà. C’è chi prova seriamente a fare cultura, ma è mestamente rappresentato chiuso in un simbolico silenzio, costretto all’esilio o sfruttato commercialmente per la propria capacità di produrre denaro. L’imprenditoria è incarnata da personaggi di dubbia moralità e soprattutto si manifesta nell’oscura operosità del vicino di Jep, insospettabile super-latitante mafioso; trionfano invece i ricchi di rendita, i discendenti di famiglia nobile, i nullafacenti venuti al mondo nell’oro. Se ne configura un disarmante panorama in cui chi agisce lo fa per tornaconto personale in barba ad ogni rispetto per il benessere collettivo e in cui chi invece può permettersi di non agire pensa a godersi senza ritegno il presente. Il salotto di Jep è uno spaccato di una società asfissiante, egoista, invecchiata ed autoconservativa che non ha interesse a considerare il prossimo né a guardare oltre il proprio naso ma che invece dedica tutto il proprio tempo a dimenticare la propria pietosa condizione o ad arraffare ciò che trova alla propria portata. Dall’adorazione della carnalità e dal tentativo di porre rimedio all’avanzare degli anni di cui soffrono i personaggi che popolano il film trasuda il sempre presente rimando all’ineluttabilità del tempo. Il protagonista, in particolare, conduce la propria vita saldamente ancorato ai due eventi che hanno segnato la sua gioventù, i già citati romanzo e innamoramento. Inoltre, al compimento dei suoi sessantacinque anni, soglia psicologica d’ingresso nell’anzianità, si rende finalmente conto della propria caducità. Cerca di recuperare i bei giorni perduti rivivendo nella propria mente all’infinito la giornata al mare e cercando di ripercorrere quei giorni nel diario del suo amore giovanile venuto a mancare, ma la distruzione materiale del diario lo costringe a prendere coscienza dell’irrecuperabilità del passato. Più in generale, il rimando al tempo è particolarmente visibile nella città di Roma proprio per la sua storia millenaria a cui non sono sopravvissuti gli uomini ma le pietre. Ovunque si scorgono chiese, fontane, colonne, statue e cupole la cui monumentalità si erige a monito di transitorietà per l’essere umano. Di contrappunto, l’umanità moderna pare intenta a uccidere il tempo e la noia per poi precipitarsi dal chirurgo a recuperare l’attimo fuggito in maniera grottesca. Ad un terzo e ultimo livello di lettura, tuttavia, l’interpretazione dell’opera torna a focalizzarsi sul singolo personaggio del protagonista come sineddoche dell’intera umanità. Il significato fondamentale del film, così come messo in luce dallo stesso Sorrentino in seguito alle veementi polemiche seguite al trionfo americano, rimane l’esemplificazione dello smarrimento di un uomo all’interno della travolgente vita di una grande città moderna. Il protagonista, ridotto alla sua essenza ultima, non è altro che un uomo solo, sensibile e unico, ingannato dalle trappole del mondo che lo hanno
deviato da quella che doveva essere la sua strada personale: la città lo ha inghiottito e gli ha portato via i tratti identitari. Jep è sostanzialmente un malinconico individuo, rimasto abbagliato dal luccichio di un sogno attraente, che si rende conto di avere raggiunto e soddisfatto il proprio oggetto del desiderio al contempo constatandone l’impalpabile e desolante frivolezza. È un uomo arrivato che si è reso conto di essere giunto nel posto sbagliato, avendo trascurato i valori importanti della vita (dichiarato è il rimpianto per i figli) in nome di un’affascinante popolarità, che lo ha invischiato e trascinato in un vortice di soddisfazioni effimere tanto appariscenti quanto superficiali. Ecco allora che si spiega la sua ammirazione per le semplici gioie della vita delle persone estranee al suo mondo di gin tonic e trenini. In una scena poi tagliata dal film proiettato nelle sale, l’uomo intervista un vecchio regista di successo: nella sua risposta, egli ricorda di non seppellire la genuina curiosità sotto il disincanto e lo scetticismo, poi rimembra il suo primo momento di meraviglia, risalente all’infanzia e scaturito dalla visione semplicissima e allo stesso tempo magnifica del primo semaforo installato in Italia. L’anziano, come il protagonista parlando del proprio fallimento come scrittore, usa per definirlo proprio l’espressione «grande bellezza» che dà il titolo al film: non è la monumentalità dell’architettura della Roma Imperiale, non sono le sculture del Rinascimento, non sono le modelle delle feste, ma è un semaforo, tanto banale per lo sguardo comune quanto eccezionale per quello del singolo, che riempie con le sue luci colorate gli occhi di un bambino incredulo. Quella timida bellezza che infatti il protagonista ammette di non avere trovato, poiché ricercata nei luoghi sbagliati. Tutto il film allora non è altro che un’autocommiserazione tardiva dell’uomo per il proprio fraintendimento di gioventù che ne ha condizionato la vita intera: la ricerca di una bellezza alternativa, complicata, artificiosa e sbagliata. Parimenti deludente è anche la realizzazione di avere messo a tacere proprio la spontanea curiosità privandosi del piacere inatteso e della piccola gioia, anche se si intravede nel finale un tentativo di rimediare all’errore. Jep è una vittima (meno sfortunata) come tante di un sistema di civiltà moderno che impone modelli di desiderio in grado di garantire sostanziale insoddisfazione una volta raggiunti, in modo da non consentire la pace dell’equilibrio finale. Egli è il simbolo di una involuzione esistenziale moderna secondo cui la realizzazione personale non è più la trasformazione delle proprie aspirazioni in realtà, in una logica di concreto riempimento di sé, ma è il raggiungimento di obiettivi standard creati ed imposti dall’esterno, totalmente impalpabili ed inconsistenti. Di conseguenza, la felicità dell’uomo non deriva dal proprio ruolo nel circo della notte ma piuttosto dall’intimo rifugio nel ricordo e nel sogno. Ecco quindi che in assenza di materiale soddisfazione, il piano d’azione si sposta nell’immaginario e nel fantastico, come dichiarato nella citazione di Céline d’apertura. 167
4. la REGIA
dall’alto verso il basso, figg. 4, 5, 6
nella pagina a fianco, dall’alto verso il basso, figg. 7, 8, 9
In quest’opera il racconto di Sorrentino non segue uno sviluppo narrativo tradizionale ma si articola in una successione di episodi non legati tra loro dalla classica relazione causale. È più che altro un’articolata riflessione sulla vita, a metà tra l’inconcludenza de La Notte di Antonioni e la mondanità de La Dolce Vita di Fellini, che trova nella figura di Jep Gambardella la manifestazione della concezione filosofica registica. Il film è allora un caleidoscopico, ammaliante e travolgente mosaico della città di Roma che rappresenta grazie all’esplosiva bellezza delle sue immagini patinate quel tentacolare vortice di seduzione in grado di disorientare l’esistenza umana. Prima insolita caratteristica dell’opera è infatti la successione interminabile e accecante di inquadrature mediamente brevi e fortemente contrastanti, in un turbinio di piani che spaziano dal campo lunghissimo al dettaglio senza permettere la definizione di una singola prospettiva sulle vicende. Il punto di vista che Sorrentino offre allo spettatore sulla storia è volutamente tormentato e cangiante tanto da concretizzare nella propria inafferrabilità lo stesso senso di spaesamento di cui è vittima il protagonista. Le ambientazioni sono altamente rappresentative di questa continua incessante fioritura spettacolare: spaziano dalla imperiosa monumentalità dell’architettura del centro della capitale (fig.6) ai modesti interni di case di periferia, dai curatissimi chiostri dei conventi alle luccicanti terrazze festaiole, dalle fredde cucine moderne alle sensuali oscurità dei night club. Allo stesso modo, scene molto affollate dove predominano salotti, conversazioni di gruppo e festini 168
si alternano alla rarefazione di distese di marmo in cui la presenza umana è limitata al singolo individuo in ammirazione silenziosa. Anche la colonna sonora non è da meno, variando in pochi istanti dalla roboante musica da discoteca più kitch alla compostezza mormorata della musica sacra. Se c’è dunque un filo conduttore nell’intera opera, questo può essere soltanto quello del contrasto. Emblematico a questo proposito è il campo lungo che vede un parcheggio notturno affollato da una vera e propria schiera di prostitute e transessuali sullo sfondo di un cupolone di San Pietro illuminato (fig.9): Roma è rappresentata nella giustapposizione dei suoi estremi che convivono fianco a fianco. Del resto, sin dall’inizio del film è fin troppo chiara la volontà del regista di giocare con gli opposti e distruggere la possibilità di rappresentazione unitaria della città cannibale. Prendiamo la prima scena, che non per nulla cerca di mostrare la totalità dell’Urbe dall’alto: al coro intento nella melodia sacra è contrapposto il gruppo di turisti orientali
decisamente profani; alla piccolezza dei primi piani delle persone sono giustapposti campi lunghissimi sulla maestosità colossale dell’orizzonte della città; all’acqua simbolo di vita e rigenerazione è affiancata l’improvvisa morte di un uomo; alla macchina da presa è affidato uno sguardo che non conosce riferimenti nel suo dolcissimo movimento indagatore libero nello spazio. Se si aggiunge l’impressionante bellezza della serie di vere e proprie cartoline confezionate a ripetizione dalle inquadrature, il cocktail dello stordimento è già completo. A far esplodere ulteriormente l’opposizione tra le diverse anime della città contribuisce in maniera violenta, dopo quattro minuti di pigra contemplazione di un mezzogiorno tra i monumenti, la frastornante raffica notturna lunga otto minuti di flash di grottesco ed esagerato delirio festaiolo (fig.5), dove corpi seminudi imbizzarriti da cocaina, alcol e musica dance si sconquassano convulsamente di fronte ad una ravvicinata macchina da presa in balia della scompostezza dei movimenti della folla. A cui segue, ribaltando nuovamente la prospettiva sulla città, questa volta però più ravvicinata e calata tra gli edifici al suo interno, un pacifico e silenzioso mattino tra gli istituti religiosi del centro, popolati da suore e bambini in divisa ecclesiastica. Potrei continuare per tutto il film, che è infatti appositamente costruito su un ritmo altalenante tra frenesia e riposo, chiacchiera e silenzio, sacro e profano, squallido e meraviglioso. All’interno del baccanale appena citato, tuttavia, vi è un’inquadratura che stabilisce subito un altro tipo di contrasto, cioè quello tra l’individualità del protagonista e la massa dei partecipanti alla festa. È il piano di avvicinamento al volto di Jep durante il ballo di gruppo, che traccia un netto solco
di demarcazione tra la sua intima aspirazione al sentimento profondo e la completa mancanza morale del suo ambiente. Il long take parte dalla figura intera per stringere sul primo piano con sguardo in macchina in un movimento di penetrazione oltre la superficiale contentezza ed è addolcito da un utilizzo chirurgico della steadycam che, unita allo slow-motion, rende manifesto il tono di importantissima e volontaria deposizione della maschera di dandy in favore di una umile confessione. Il posizionamento dell’uomo è forse più esplicativo delle sue parole: egli fuoriesce, lento e composto, dai due schieramenti paralleli del ballo di gruppo, movimentati e caotici, disposti in simmetria centrale, stagliandosi nettamente come soggetto al di sopra della massa in quanto presenza dominante sull’intera vita notturna della città. Ma non solo, poiché va a prendere il posto di quella vetrata presente centralmente sullo sfondo in cui in precedenza si è mostrata una ballerina di burlesque, totalmente avulsa dallo stile della festa e dalla musica stessa, fuori dal tempo e dallo 169
a fianco, fig. 10 sotto, fig. 11
spazio della circostanza. La posizione dell’uomo diventa così metafora del suo senso di alienazione e smarrimento, sinonimo di quel desiderio di riflessione naufragato nella tempesta violenta della mondanità. La bellezza delle immagini è un filo conduttore dell’intera opera, ma la sua natura è fortemente ambigua. L’attenzione dedicata tanto alle architetture quanto alle opere d’arte non serve a rappresentare esempi della grande bellezza del titolo, quanto invece a sommergere l’occhio dello spettatore con la potenza visiva dello splendore millenario e sovrumano della città. È una bellezza monumentale molto al di sopra della misura d’uomo che si configura come una valanga incontenibile ed accecante di stimoli visivi, addirittura letali: il turista orientale della prima scena è infatti vittima di una vera e propria sindrome di Stendhal. Questo tipo di bellezza, su cu la regia calca la mano in particolare con il tour per i palazzi di Jep e Ramona, è allora manifestazione del potere calamitante e frastornante della città. Come il protagonista è rimasto ipnotizzato dal luccichio delle paiettes della vita notturna, allo stesso modo il regista fa sì che lo spettatore talvolta perda di vista il racconto per la contemplazione quasi fine a sé stessa dell’immensità della Città Eterna. La vera grande bellezza, invece, è tradotta in toni molto più sommessi, appartenenti al mondo del quotidiano ed a misura dell’occhio umano. Su tutte, un’inquadratura ne rende l’idea: la tunica bianca della suora sulla scala a pioli intenta a raccogliere le arance nel frutteto disseminato di agrumi maturi (fg.10). Jep si ferma commosso a contemplare tale visione di spontaneo trionfo della vita. All’opposto, lo squallore esistenziale è raccontato in termini visivi tanto esagerati quanto ingannevoli, come a voler sottolineare il potere attrattivo della superficialità mondana. Tra queste immagini spicca l’inquadratura della festa di compleanno in cui il primo piano di Jep è ribaltato sottosopra accompagnato da un movimento macchina discendente (fig.11): è la chiara trasposizione visiva di un decadimento inarrestabile dell’uomo quanto del Paese, di un disorientamento dell’individuo nella realtà, di un sovvertimento delle leggi della natura, di un giudizio della regia che mette in luce la débauche della festa mostrandocela da un punto di vista differente. Similmente, anche la semisoggettiva della Concordia adagiata su un fianco risponde alla stessa volontà (fig.7). La visione nello stesso piano di Jep e della nave naufragata, rimasta morta nel mondo emerso dei vivi, esoscheletro esterno di una vita svuotata, è la lampante metafora della personale rovina a cui assiste lo stesso uomo e, a livello più ampio, dello sfacelo di un Paese a cui assistono tutti. L’immagine è particolarmente efficace per la straordinarietà dell’evento, ancora più significativo in quanto realmente accaduto, e per l’affascinante contrasto tra il naufragio e il galleggiamento, la profondità e la superficialità, la scomparsa e la presenza, la sconfitta umana e la rivincita naturale. 170
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A livello generale, nello sviluppo del film si nota uno stile narrativo differente rispetto alla tradizione di Sorrentino. Innanzitutto, le inquadrature sono generalmente brevi, talvolta incalzanti e sincopate come ad esempio nella raffica di clienti per le iniezioni di botox. Non sono presenti veri piani sequenza, invece disseminati qua e là nei precedenti film, ma al massimo qualche long take di non più di novanta secondi, la cui lunghezza ne tradisce comunque l’importanza: oltre a quello della festa già analizzato, la camminata lungo le sponde del Tevere che completa la riflessione della voce fuori campo (fig.12) e quello della nobile decaduta al cospetto della sua culla d’infanzia. Entrambi presentano un movimento prima a seguire sui personaggi in cammino per poi passare dall’altra parte a guardarli in volto, mentre essi riflettono sulla loro giovinezza inizialmente felice e miseramente declinata nello squallore. L’occhio del regista non rinuncia allora all’utilizzo della macchina da presa come strumento fisico in grado di penetrare oltre le quinte di facciata dei personaggi per mostrarne le intime debolezze. L’insolita frammentazione dei piani, comunque, risponde all’esigenza di restituire la frenesia che anima la vita della città, le sue mille sfaccettature e soprattutto l’incapacità di raggiungere una visione unica, completa, globale e omnicomprensiva, traduzione visiva di un enorme sbilanciamento proporzionale tra il singolo individuo e la totalità della città e della vita. Inoltre, le immagini sono create sfruttando in maniera sistematica il device della steadycam invece dei classici carrelli o dolly. Questa scelta garantisce un allargamento delle possibilità di ripresa in maneggevolezza ed in contesti più problematici, affollati o scoscesi, senza perdere la stabilità che caratterizza le opere di Sorrentino. Da un lato, allora, permette allo sguardo del regista di infilarsi metaforicamente nelle più sottili pieghe dell’intimità del protagonista e della città per una resa maggiormente capillare. Dall’altro, però, questa decisione risponde ad esigenze narrative più profonde. La steadycam è infatti impiegata anche per le riprese senza alcun movimento macchina: ciò che ne determina l’adozione allora non è più la leggerezza tecnica quanto la restituzione di un particolare tipo d’immagine. Le morbidissime fluttuazioni e l’impercettibile irrequietezza lasciano 172
sopra, fig. 12 a fianco, fig. 13 e 14
trasparire, pur garantendo stabilità, un innegabile punto di vista umano, mortale, limitato. È allora un compromesso tra la morbidezza necessaria all’attenta perlustrazione degli splendori monumentali e l’ammissione di inferiorità e incapacità di dominio dell’individuo sulla realtà. Le immagini di questo tipo riescono a coniugare la rappresentazione di una bellezza artistica mozzafiato accordandola al punto di vista del protagonista che ne è stato risucchiato e inghiottito. Una maggiore ricorrenza di semplici inquadrature fisse, invece, risalta nettamente in determinati interni, tra tutti la cucina della casa del protagonista. Il senso di isolamento dato dalle pareti, la maggiore protezione offerta dal nido casalingo e la sicurezza garantita da una visione che si avvale di piani quasi totali strutturano un contrasto tra l’incontrollabile selvatichezza del mondo esterno e la comprensione a cui si offre il riparo del proprio ambiente. Se il punto di vista rispecchia dunque la condizione di Jep immerso dentro a Roma e, per metafora, quella dello spaesamento dell’uomo moderno, il personaggio di Ramona interviene più di tutti a modificarne la prospettiva. Essa è la rappresentazione di una spontanea, ingenua, semplice,
popolare e genuina capacità di lasciarsi emozionare pur rimanendo con i piedi per terra. Questa sua caratteristica consente a Jep di iniziare un processo di ripensamento della propria intera esistenza e la regia traduce il cambiamento di prospettiva portato dalla donna proprio in termini di punti di vista. Nella scena in cui viene presentata, prima del suo ingresso ha luogo una conversazione tra suo padre ed il protagonista, disposti su divanetti ad angolo, in cui i due sono per lo più inquadrati contemporaneamente, uno di profilo e
l’altro frontalmente, secondo una logica di campo e controcampo ortogonale. Il loro dialogo manifesta allora una netta distanza tra i due con la comprensenza delle due identità distinte e separate. Quando invece è la donna a raggiungere il protagonista, mentre il padre se ne va, tutto cambia. Jep si sposta nella posizione che era prima dell’amico, quella dello sfacelo, della vecchiaia, della corruzione morale (sullo sfondo una schiera immobile di spogliarelliste), e Ramona siede sul divanetto opposto al suo, parallelo e frontale, simbolo di alterità di luogo e discontinuità da tali caratteristiche (sullo sfondo una sola ragazza intenta a spogliarsi ballando). Ciò che tuttavia risolve questa fondamentale opposizione antitetica è l’esatta congruenza delle inquadrature del loro dialogo: i due sono ripresi frontalmente in mezzo primo piano collocati sulla metà sinistra del frame (figg.13 e 14). Si instaura perciò un legame di sovrapposizione coincidente di identità tra i due, facendo di lei una sorta di alter ego di lui, suggellato dalla frase della donna di «non essere portata per le belle cose» che infatti fa calare un silenzio d’ammissione di colpe da parte di Jep. Lo shift prospettico nella coscienza dell’uomo si manifesta chiaramente già al loro successivo 173
fig. 15
incontro, nella semisoggettiva dell’uomo che guarda la donna in piscina dentro la ciambella. Malgrado essa rimanga sostanzialmente ferma, la macchina da presa inclinata dall’alto verso il basso trasla da un’inquadratura di quinta sulla spalla destra dell’uomo a quella di sinistra, impallandosi sulla sua nuca. Il movimento da destra a sinistra, metafora di spostamento nel passato e riflessione, unito all’angolazione tipica di chi osserva, analizza e giudica, è la certificazione metaforica del processo di riconsiderazione di tutta la propria esistenza che sta prendendo piede nella coscienza dell’uomo. Un ultimo piano esplicita ancora di più la modificazione dell’ottica di rapportarsi alla città ed alla vita indotta dalla donna: è la carrellata, sempre in steadycam, a seguire sulla donna attraverso il colonnato della Galleria Spada. Famoso per la sua illusione ottica, è costruito in modo da accentuare la prospettiva centrale ed apparire lungo e profondo, essendo in realtà di modestissime dimensioni. Ramona, e con lei l’occhio della macchina da presa, lo percorre svelandone l’illusione ed 174
arriva al termine esclamando che «sembrava enorme e invece è piccola piccola». In tale modo, non ridimensiona solo l’opera architettonica ma l’intera città di Roma: il punto di vista umile e spontaneo si configura come l’unico modo di affrontare la vita e l’unico in grado di cogliere la vera grande bellezza, cioè la meraviglia per le piccole gioie. In ultimo, di particolare fecondità nella rappresentazione universale del senso di «imbarazzo dello stare al mondo» è l’impiego della metafora finale della scalinata, presente sia nelle inquadrature della centenaria suora (fig.15) che in quelle delle memorie della ragazza al faro (richiamando tra l’altro anche il candore della suora sulla scala a pioli nel frutteto). Entrambe le donne salgono i gradini, la prima in ginocchio con indicibile sofferenza ma inarrestabile determinatezza, la
seconda all’indietro con la leggerezza propria dei vent’anni. La scalinata si configura dunque come metafora visiva della vita stessa, percorso inevitabilmente in salita ma necessariamente da percorrere poiché è sulla sua cima che riposa la soddisfazione della bellezza: l’indulgenza e l’amore di Dio per la suora, il bacio e l’amore terreno per Jep. Nel film, al contrario, egli è in precedenza presentato solamente in ascensore, simbolo di una scelta pigra quanto comoda ma senza ricompensa. Questo fatto è però ribaltato nel finale, in cui egli torna a riscoprire le proprie radici recandosi esattamente su quella scalinata già salita in gioventù per ricominciare la propria vita dove si era smarrito. Anche in questo film, allora, il tipo di movimento fisico dei personaggi riveste un significato chiave. Emblematica
rappresentazione dell’inconsistenza esistenziale del mondo festaiolo è il movimento circolare senza sviluppi dei trenini. A ciò si aggiunge l’oscillazione statica di Jep sull’amaca, l’andata e ritorno da casa di Orietta in Piazza Navona, l’inversione a U di Lello in auto davanti alle prostitute, il nuoto statico nella vasca a corrente del marito di Viola, il palleggio sul posto del ragazzo della prima volta di Ramona, il suo stesso spogliarello e soprattutto la pigra permanenza dei salotti letterali sui comodi divani. Tutto ciò crea un universo vibrante di vita quanto sostanzialmente inconcludente, fine a sé stesso, attratto dalla prospettiva della dinamicità ma non cosciente del proprio intrappolamento come pesci nella boccia. Si contrappongono a questo le ribellioni di schianto ferocemente autolesionista delle artiste o del giovane suicida, che tuttavia non riescono a forare la muraglia che li circonda. La vera fuga infatti è rappresentata dalla tranquilla ascesa al di sopra di tutto sulla scalinata della vita. 175
5. la FOTOGRAFIA
Il caleidoscopico gioco di cambio di prospettive si traduce in una fotografia instabile e variabile. Se il film riproduce la conflittualità insita nell’anima della città e le sue mille sfaccettature, anche l’illuminazione si adegua ad uno stile instabile in cui gli unici due fili conduttori sono il forte contrasto tra le luci e le ombre e la provenienza da un’angolazione marcatamente elevata, al di sopra della natura terrena. Che sia la luce del sole o di lampade artificiali, non è sempre motivata ma proviene sovente da una sorgente fuori campo, che lascia quindi la sensazione di un’esistenza superiore al di fuori dello spazio inquadrato: è proprio l’entità autonoma e simil-divina della Città Eterna, ospitante e padrona dei personaggi che si muovono tra i suoi edifici. Al mattino, la città è rischiarata da una luce tiepida e fresca del sole ancora giovane: è infatti la luce diretta, irruenta, decisa e obliqua che si lancia sul candore e sulla grazia dei bambini dalle suore, in fasci di luce rigenerante e promettente. Rischiara, colpisce giocosa e innocua creando immagini dalle luci forti e splendenti, contrastate ma luminose (fig.16). Gambardella è estraneo a questa luce, perché appartiene a quella fase della giornata che lui non conosce: la coglie ammaliato ed emotivamente toccato dall’ombra dei palazzi ma non partecipa al flusso di linfa rigenerante, alla fede nella fioritura della vita, alla spensieratezza del rinnovamento, perché conosce solo la disillusione dell’età già più che matura ed il decadimento. Al mattino, egli si rifugia nella penombra della propria stanza da letto ad aspettare il momento a lui consono del tramonto. È soltanto la presenza della centenaria suora a spingerlo a godere del chiarore diffuso dell’alba: la profondità morale della religiosa contagia la sua coscienza superficiale e porta nel suo buio un bagliore incoraggiante di rinascita. Durante il giorno, invece, regna la calda luce solare dell’estate, pigra e abbagliante, forte e verticale, direzionale e incontenibile, metafora di quella bellezza colossale della Roma monumentale, romana e pontificia: è la luce del ciclo della vita (quella che illumina la mostra fotografica), il sole che risorge ogni giorno e si sottrae alla morte terrena. Più tardi, il tramonto segna il declino della freschezza giovanile e ricorda all’uomo la propria natura terrena, proiettandolo al suolo in un’ombra lunga e scura (la scena della performance artistica, del matrimonio, del risveglio di Jep in terrazza, del bagno in piscina di Ramona…). Segnala l’affievolirsi della naturalezza del sole in favore del mondo artificiale rischiarato dall’uomo, ed è il momento in cui la fauna umana del film, sull’orlo dello sfacelo, si risveglia dal letargo diurno, per ricominciare a celebrare la notte. Il buio è l’atmosfera prediletta dagli abitanti dei salotti, la 176
dall’alto verso il basso, figg. 16, 17, 18, 19
trasposizione fotografica del loro completo smarrimento, l’ambiente in cui essi possono dimenarsi senza dover fare i conti con la luce solare che ricordi loro il lento incedere della loro vita verso la consumazione. La notte è il regno della luce momentaneamente senza re, il cui trono è riempito dall’uomo con l’artificio della propria creazione, luce stabile, rassicurante e falsa. Se è vero che in tutti i contesti luminosi ricorre un forte contrasto, ciò è ancora più notevole di notte, momento in cui sono ambientate la gran parte delle vicende. In queste scene, ad esempio il salotto sulla terrazza di Jep, è presente un rapporto d’illuminamento molto alto, con i primi piani plastici e definiti su uno sfondo sempre scurissimo, spesso il cielo pesto notturno (fig.18). I contrasti sono netti e le ombre densissime, determinati da un uso minimale delle sorgenti luminose: il più delle volte, è una sola luce principale poco ammorbidita, senza alcun bilanciamento di luci riempienti o controluci. La luce è centrale, proveniente dall’alto nel mezzo del salotto, e con il suo incontrastato potere centripeto pare simboleggiare l’unica attrattiva della vita dei partecipanti: l’intrattenimento, oltre cui c’è soltanto il vuoto del buio. Il risultato è un chiaroscuro inquietante, in cui tanto i volti quanto le anime rimangono solo parzialmente a galla nel nero, in cui gli sguardi come le volontà sono offuscati e scuriti dall’altezza della luce come dal potere carnale della città. L’unico istante in cui queste ombre sono visibilmente riempite, dunque le coscienze dei personaggi rischiarate, avviene a cena sulle parole della suora centenaria riguardo alla povertà, che riportano un bagliore di coscienza etica e morale nel vuoto ombroso della superficialità imperante. Tale superficialità esplode all’inizio del film, contestualizzazione efficace, nell’illuminazione pacchiana e vorticosa della festa di compleanno. Sono neon viola e bianchi, accesissimi nella notte plumbea, abbaglianti come le false speranze di cui si nutre il mondo dell’élite salottiera, perciò innaturali: vengono infatti dal basso, dai cubi su cui ballano i festaioli (come anche le spogliarelliste più tardi), rifiniti dai classici riflettori (del successo) dall’alto. Non concedono ombra se non quella della seduzione, perché nulla è ammesso se non il piacere, l’ostentazione di felicità, la celebrazione di un mondo a sé stante. In tale contesto, è molto interessante ripercorrere il ruolo del primo piano del protagonista già affrontato nelle pagine precedenti. Quando viene presentato, l’uomo si svela ruotandosi in un vero e proprio bagno di luce, in un mare di flash, mitizzato da un epico controluce, circondato da volti sovraesposti: trionfa nel suo mondo e brilla di luce propria per rischiarare la festa (fig.17). Poco dopo, il primo piano in cui getta la maschera: il controluce è svanito così come i flash, gli altri volti sono in penombra e voltati, rimangono solo il buio alle sue spalle e due luci piatte, incolori, ospedaliere, che levano dal suo volto ogni ombra e velleità, mostrando in tutta la sua omogenea inconsistenza la sua intima natura fallimentare (fig.19). Opposto alla superficialità, invece, è l’impiego del solo controluce per disegnare la silhouette dei personaggi e con ciò enfatizzare l’impenetrabilità dei loro pensieri intimi o dei loro segreti e celebrare l’affermazione della loro vera identità oscura: è il caso di Jep a letto dopo la notizia della morte del suo amore di gioventù, di Stefania prima del bagno notturno in piscina, del vicino misterioso sul suo terrazzino, dello spogliarello di Ramona, 177
tutte scene in cui il piatto nero indecifrabile della figura, ritagliato dalla luce, conserva al suo interno l’inconfessabile realtà. Come già descritto per la luce solare, anche quella artificiale è spesso zenitale e direzionale, sovrumana e violenta, in grado di manifestare tanto il sacro quanto il più terreno profano. Alla festa dei galleristi d’arte, l’intero giardino in penombra è costellato di alieni coni di luce bianca, in cui danzano gli invitati, quasi extraterrestri lontani da ogni caratteristica umana. La ragazzina costretta alla performance artistica, allo stesso modo, è vittima di un abuso luminoso simile e ingigantito, sottoposta a un bagno di luce senza candore. Ancora più disumana è l’architettura luminosa della sala simil-museale in cui hanno luogo i trattamenti al botulino, dove i mezzibusti in marmo bianco risplendono di riflessi accecanti quasi a voler sottolineare la propria immutabilità in comparazione alla decadenza della carne a cui i presenti cercano di porre invano rimedio. Nella sfilata di mostruosità in pelle e plastica spicca il chirurgo, il quale gode di una luce prettamente divina: il controluce paradisiaco che lo inonda
dalla fronte alle spalle ne tratteggia un profilo da moderno creatore, dottor Frankenstein del nuovo millennio, scientifico e costoso dio della lotta al sintomo del tempo (fig.21). La stessa luce zenitale, stavolta declinata in tono meno grossolano e più diffusa, è la luce sacra che cala dall’alto sulla suora centenaria nel suo saluto da parte dei religiosi. Sacro e profano, dunque, si mescolano anche a livello luminoso senza soluzione di continuità. Una particolarità unica di quest’opera, tuttavia, è l’impiego di luci in movimento. Di varia natura, esse contribuiscono alla resa dello stesso sentimento centrale del film, quello dell’instancabile vorticosità di movimento dell’Urbe. Le fiamme tremolanti delle torce sulla terrazza di Jep, le candele sul tavolo della cena con la suora o la lampadina oscillante nella casa dei nobili decaduti restituiscono con i loro effetti di luce sui volti la drammaticità della debolezza umana in confronto all’ambiente in cui è inserita la vita. In risposta, i secolari palazzi sono rischiarati nella notte da luci fisse, orizzontali o azimutali, che ne esaltano la plastica e granitica inattaccabilità da parte del tempo. La luce mobile più notevole è comunque la sorta di candelabro con cui Jep, Ramona ed il custode delle chiavi delle ville esplorano le stanze maestose dei palazzi (fig.22): le scene ricordano il finale di Roma di Fellini e manifestano la transitorietà dello sguardo umano, luce artificiale dalla durata limitata, in
in grande, fig. 20 dall’alto verso il basso, figg. 21 e 22 178
contemplazione di opere d’arte immobili e immortali, immerse nel buio dell’infinito. In tutto il film, soltanto due scena si staccano notevolmente dall’atmosfera luminosa fin qui descritta: l’alba in compagnia della suora e il ricordo del primo amore di Jep, la magica notte al faro (fig.20). Qui, nel passato, in opposizione al chiaroscuro drammatico e irrimediabile del presente, regna una morbida penombra onirica, senza il dramma del contrasto ed il baratro interiore dei neri, atmosfera rischiarata dalla luce lunare (probabilmente girato in “giorno per la notte”). La poeticità dell’evento è confinata in un mondo visibilmente irreale, dove il fascino dell’abbandono alla notte è compensato non dalla violenza di neon artificiali ma dalla bellezza naturale della luna e dagli effetti di luce del faro: questi ultimi, in particolare, certificano l’occasione come episodio centrale, stella polare esistenziale, cardine della vita di Jep. La modulazione della penombra vitale dell’amore non lascia spazio alla perdizione nei neri del sesso perverso e animalesco, in cui invece si muovono i due esibizionisti alla festa, infatti illuminati dal basso da un freddo telefono. Le luci, nel complesso, variano in una palette cromatica dalle tinte calde e avvolgenti, aranciate, che abbracciano languide i volti come i tentacoli della lussuria di Roma avvolgono le anime. Il calore della perdizione nella mondanità diventa invece più inquietante e pungente nel giallo-verde, colore dell’allarme: è tipico delle luci di personaggi prossimi all’abbandono, alla scomparsa, alla fuga dalla città, come la lampada della stanza da letto di Orietta, quella alle spalle di Ramona nel night club, quelle dei riflettori sulla giraffa nel saluto di Romano. Il bianco, invece, come già visto manifesta con la sua freddezza acromatica i tratti divini o disumani,
sacri o profani, ad ogni modo superiori all’uomo, che caratterizzano l’entità vivente della Città Eterna. Questa grandezza inafferrabile e cangiante dell’Urbe è resa anche attraverso la costruzione dell’inquadratura. Viene abbandonata del tutto, a parte pochissimi primi piani di Jep, l’architettura visiva del primo piano frontale su uno sfondo altrettanto frontale: la disposizione su piani paralleli offrirebbe un’interpretazione troppo chiara, definita e leggibile del personaggio in rapporto all’ambiente. Al contrario, fioccano i mezzi primi piani trasversali di gruppo durante cene e salotti, in cui il volto del singolo, mai troppo ravvicinato, viene contagiato dalla presenza sfocata di altri personaggi. Tale percezione obliqua e partecipativa dell’individuo dà l’idea dell’impossibilità alla riflessione privata, alla sistemazione dei propri pensieri, alla tregua dal vortice di vita mondana, alla solitudine, all’esatta delimitazione di sé. L’inquadratura abbandona la caratteristica bidimensionalità governata dal senso grafico piano e abbraccia una dinamicità prospettica mai conclusa: non sono concesse prospettive profonde, tantomeno punti di fuga visibili, si rifugge dalla prospettiva centrale e dall’equilibrio simmetrico, se non quello maestoso dell’architettura che ricordi all’uomo la sua piccolezza in confronto alla città. Egli è immerso in un ambiente cittadino che non riesce a comprendere ed organizzare, perciò la composizione è dinamica, asimmetrica, sbilanciata, tridimensionale, mutevole ed instabile.
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4 GLI AUTORI 181
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PAOLO SORRENTINO
4.1
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1. BIOGRAFIA La vita di Paolo Sorrentino è altamente significativa, in alcuni suoi punti chiave, per la comprensione di alcune sue peculiarità poetiche. Il regista nasce a Napoli nel 1970 da una famiglia mediamente benestante del Vomero e nel capoluogo campano cresce attraversando gli anni Ottanta come tutti i ragazzini della sua età, appassionato di calcio (il grande Napoli di Maradona) e di musica. Sogna di intraprendere la carriera di romanziere, ma la sua gioventù a soli diciassette anni è funestata dalla scomparsa prematura dei genitori per una fuga di gas. L’episodio ne segna profondamente la vita. È costretto ad abbandonare le velleità letterarie e decide di imboccare una via in grado di garantirgli agilmente un futuro, la facoltà di economia. Non è decisamente la sua strada e lascia gli studi a venticinque anni per tentare l’avventura nel mondo del cinema. Avvicinatoglisi come spettatore, senza una preparazione specifica in materia valuta il settore un campo in cui il dilettantismo e l’intuizione possono fare la differenza. Trascorre la seconda metà degli anni Novanta facendo esperienza tra la produzione, l’aiuto-regia e la sceneggiatura, dedicandosi però anche a progetti di cortometraggi personali. Il primo approccio al mondo del cinema non è tuttavia nel complesso molto entusiasmante né proficuo, ma ha l’occasione di conoscere il produttore Nicola Giuliano. Questi lo mette in contatto con la compagnia Teatri Uniti, da cui sboccia la conoscenza di Toni Servillo, e si offre di produrre il suo primo lungometraggio, L’uomo in più. La pellicola frutto della collaborazione di Sorrentino, Giuliano e Servillo, esce nel 2001 e riscontra notevole successo, catapultando il regista nel mondo delle promesse cinematografiche nazionali. Per la seconda opera, Le conseguenze dell’amore del 2004, il produttore gli affianca il pluripremiato direttore della fotografia Luca Bigazzi: i due inizialmente paiono non riuscire ad andare d’accordo, ma superati i primi conflitti iniziali ne esce un’intesa, a cui partecipa nuovamente anche Servillo, che produce un’opera in grado di sbancare sia ai David di Donatello che ai Nastri d’Argento, consacrando il regista anche al grande pubblico. Cosa ancora più importante, il film segna l’inizio di un duraturo sodalizio artistico che lega Sorrentino e Bigazzi per tutte le successive opere del regista napoletano. Da quella pellicola, la sua strada è una continua ascesa che lo porta ad accumulare riconoscimenti prima italiani e poi, soprattutto grazie al successo del 2008 de Il Divo, internazionali, fino alla definitiva consacrazione con l’Oscar al Miglior Film Straniero 2014 de La Grande Bellezza. Di quella cerimonia molto interessanti sono i ringraziamenti al ricevimento della statuetta: Martin Scorsese, Federico Fellini, Diego Armando Maradona ed i 184
fig. 1
Talking Heads, oltre alla dedica ai propri genitori. I personaggi citati corrispondono a coloro i quali rappresentano per lui le maggiori espressioni di talento: il primo regista per la bellezza delle immagini, il secondo per la capacità narrativa, il calciatore per la spettacolarità allo stato puro e la band per l’artisticità del ritmo. Agli attuali sei lungometraggi, è ben consolidata la troupe attorno al regista, che trova nella Indigo Film di Giuliano il sempre presente supporto produttivo, in Bigazzi l’insostituibile direttore della fotografia nonché operatore ed in Servillo un fondamentale punto di riferimento per la recitazione, essendo l’egemone protagonista di ben quattro opere. Oltre al cinema, inoltre, il regista ha avuto modo di coronare il sogno di gioventù della scrittura, pubblicando il romanzo Hanno tutti ragione nel 2010 ed i racconti Tony Pagoda e i suoi amici nel 2012, in cui sono riscontrabili tratti o interi personaggi dei suoi lungometraggi. Riguardo alla vita privata, infine, è sposato e ha due figli.
2. il metodo di LAVORO
Zambardino V., L’uomo che ha riportato l’Oscar in Italia, in www.wired.it, 2014 (1)
Spila P., Torri B., Paolo Sorrentino: il cinema, il divertimento, l’ossessione, in www.cinecriticaweb.it, 2012 (2)
Sorrentino P., TEDxReggioEmilia, 2011 (3)
(4)
Spila P., Torri B., op. cit.
Sorrentino incarna una figura di regista che si rifà squisitamente alla tradizione europea consolidatasi negli anni Sessanta, anche se la sua sostanziale impreparazione tecnica iniziale lo avvicina alle posizioni dei registi impegnati autodefinitesi amatori, dilettanti. Questa sua particolarità lo colloca in netto contrasto con il panorama cinematografico italiano, sostanzialmente congelatosi lentamente dopo il boom degli autori moderni del dopoguerra. Ne rappresenta però anche il punto di forza, come una sorta di mina vagante libera di interpretare il ruolo senza alcun preconcetto. Sorrentino aderisce invece a quella classe di registi propriamente considerati autori o cineasti perché, a livello pratico, partorisce di proprio pugno le sceneggiature, costruisce universi su input autobiografici, sviluppa ricorrenti tematiche a lui care, adotta un personale stile visivo inconfondibile, parla di sé attraverso i suoi personaggi e dirige la realizzazione del film dalla pre-produzione al final cut. La volontà e la capacità di sviluppare sceneggiature proprie tradiscono la sua passione principale per la letteratura ed il lavoro solitudinario, ma anche la sua grande fede nel momento della scrittura del film: «È il centro di tutto. È anche la fase irrimediabile del lavoro. Ogni altra cosa è recuperabile e correggibile nel fare un film: la scrittura, se è fatta male, farà andare tutto male».(1) Non è solito impiegare storyboard, ammettendo una scarsa capacità di disegno, ma si basa invece sul materiale reale con fotografie eseguite di persona sulle location selezionate ad anticipare l’inquadratura finale: l’improvvisazione sul set non rientra nelle sue corde, mentre preferisce visualizzare subito le immagini che andranno a comporre il film. Sostiene infatti che «il regista cinematografico nel suo lavoro fa molte cose che sono comuni ad altri artisti: ad esempio, sceglie e dirige gli attori, cosa che fanno anche i registi di teatro, e sceglie la musica, cosa che fanno già i dee-jay. L’unica cosa che fa soltanto lui, invece, è di vedere delle immagini quando ancora non esistono, definendo la loro sequenza e il loro ritmo».(2) La sua autorialità si riscontra anche nell’attivazione del processo che lo porta a fare i film, che poi si traduce in un’impronta stilistico-emotiva sull’opera. Sorrentino è una persona introspettiva, calma, riflessiva e dedita all’osservazione che assorbe e registra spunti dal mondo reale in base ad una tendenza a registrare dettagli che tradiscano l’autentica natura delle persone, al di là dell’immagine che esse costruiscono di sé. Questa lenta e paziente acquisizione di materiale visivo è resa possibile da quella che egli considera una delle sue maggiori capacità, cioè «annoiarsi».(3) La noia nella sua ottica si configura come quella fessurazione tra le varie attività della giornata che crea uno squarcio di spazio vuoto in grado di stimolare il cervello a riempirlo in qualche modo. Se la noia consente la tranquillità dell’osservazione, per la propria natura di piatta insoddisfazione del mondo reale essa dà anche il via ad un processo creativo che punta alla generazione di universi più interessanti della realtà. La stessa filosofia del rimbalzo, del trampolino elastico, è la stessa per cui il regista considera l’abbandono, la solitudine e lo spleen ottimi punti di partenza per la stesura di un film, impiegato proprio per venire fuori da tale malessere. Allo stesso modo, vede nella frustrazione e nelle accuse di stampa, critica e colleghi un valido incentivo alla dimostrazione del proprio valore. La sua concezione del proprio ruolo di regista è precisa e ricalca la tradizione autoriale europea: «Faccio un cinema d’autore non perché sono un accentratore, ma perché penso che sul set debba essere solo uno a decidere, anche se è un lavoro di molte persone. Penso che il cinema sia un’attività che escluda la democrazia, in caso contrario quando si comincia a dare ragione ad uno e poi ad un altro viene fuori un pasticcio informe che sguscia da tutte le parti»(4). Aggiungendo a ciò la tendenza a lavorare con crew consolidate e rodate, partendo dalla produzione e passando per la fotografia e il montaggio per arrivare al cast, si spiega quindi l’evidente unità stilistica, sia narrativa che estetica, e la ricorrenza di contenuti di fondo. Se il suo mentore Fellini, parlando di sé stesso, diceva di «dirigere sempre lo stesso film», Sorrentino potrebbe tendenzialmente appropriarsi della medesima citazione. 185
3. il personaggio e l’AZIONE
in alto, fig. 2, Tony Pisapia; a fianco, fig. 3, Geremia de’ Geremei; in grande, fig. 4, Jep Gambardella I protagonisti sono inquadrati in una delle pochissime figure intere ed insolitamente in movimento.
(5)
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Zambardino V., op. cit.
Tutti i film dell’autore sono costruiti in una maniera centripeta attorno al cardine del protagonista maschile. Egli stesso racconta del suo metodo di scrittura dell’opera: «Prima individuo un personaggio, più che una storia. Su quello comincio a raccogliere molti appunti, anche su cose che in apparenza non hanno attinenza immediata col personaggio. Scrivo su un grosso quaderno e quando il quaderno diventa corposo comincio a “fare delle rime fra le cose”, a cercare le assonanze. Sfrondo molto e pian piano la struttura dell’idea prende forma».(5) L’azione raccontata nelle vicende quindi non è mai preponderante sull’indagine della personalità, motivo per cui le immagini sembrano convergere sempre sul primo piano del protagonista. L’attenzione dedicata all’analisi psicologica è testimoniata dalla produzione di opere che, malgrado si tingano di volta in volta di nuances da noir, biografia, road movie o commedia, rimangono fondamentalmente drammatiche. I film del regista sono infatti sempre orientati al pensiero, alla dilatazione temporale, alla pausa di riflessione, piuttosto che all’azione e all’adrenalina. È una scelta dettata dalla stessa personalità del regista, una persona che considera sé stesso incline alla solitudine ed alla malinconia e che riversa sulle proprie creature cinematografiche l’autobiografica attitudine. Sorrentino dipinge personaggi a cui si affeziona e la sua tendenza a proiettare su di essi alcuni propri intimi tratti personali contribuisce al tratteggio di un protagonista tipicamente maschile, solitario e adulto. L’uomo è preferito alla donna in quanto l’autore anima le sue
creature dal proprio vissuto, con una prospettiva che non cerca di nascondere la propria influenza personale, dove la figura maschile gli consente più consapevolezza e maggiore capillarità. La figura femminile è infatti tendenzialmente madre, al massimo moglie distante, oppure giovane ragazza oggetto delle attenzioni dell’uomo. Questi può essere scapolo, divorziato o sposato, ma in ogni caso non interagisce più che in qualche sparuta scena con la donna al suo fianco. Il sostanziale stato di solitudine, invece, è utilizzato come base di partenza per valutare i rapporti di forza tra gli esseri umani, che si rivelano una tematica sotterranea in grado di congiungere tutte le opere del regista. Ciò che accomuna tutti i protagonisti è anche un’età piuttosto avanzata, che con l’iniziale eccezione del Pisapia calciatore non è mai inferiore ai cinquant’anni. Lo stesso Sorrentino ne dà una motivazione autobiografica. Sostiene di essere cresciuto a stretto contatto con persone più anziane di lui, come gli amici del padre, ed avere quindi immagazzinato una casistica di particolari umani appartenenti all’età adulta. È evidente
poi che l’inclinazione alla malinconia si trova più compatibile con personaggi con un lungo passato su cui rimuginare piuttosto che con ragazzi giovani. In aggiunta, lo stesso regista ipotizza la ricorrenza di tale tipologia umana per una inconscia volontà di ricercare la figura paterna persa ancora da adolescente. Non è difficile credere a questa spiegazione visto che sia Geremia de’ Geremei che Cheyenne fanno del loro legame anticipatamente spezzato con il padre la loro chiave di volta caratteriale. Le azioni dei protagonisti, invece, sono tendenzialmente poche, lente, ponderate, compassate e molto ripetitive. In due film, la violazione di tale ordinamento sull’onda d’urto emotiva smossa dalle giovani donne è talmente deleteria da rivelarsi letale, come per Titta Di Girolamo, o fallimentare, come per Geremia de’ Geremei. Anche Tony Pisapia non fa una fine molto migliore, in quanto la sua reazione emotiva sblocca la sua situazione di stallo portandolo in carcere. La rarefazione dei movimenti è la traduzione della mancanza di incisività nel cambiare la propria condizione: lo stallo e l’impasse esistenziale sono le condizioni di fondo di tutti i personaggi di Sorrentino. Gli uomini sono, volenti o nolenti, intrappolati nella loro routine o incatenati alla loro parabola discendente, tant’è che la possibilità di disincagliarsi, trasformarsi e ripartire è concessa solo a Cheyenne ed intravista da Jep Gambardella. Per usare una metafora, i personaggi creati dall’autore sono pesci costretti al loro acquario: hanno a disposizione il loro spazio sicuro dove girare ma poche possibilità di fuga e cambiamento. La staticità nella recitazione degli attori e dunque nel profilmico, tuttavia, determina per contrasto una fioritura di movimento sul lato filmico, che si manifesta principalmente negli incessanti movimenti macchina: sono questi a offrirsi in prima linea nel caratterizzare il 187
riconoscibile gusto estetico del regista, ma verranno trattati meglio tra qualche paginaz. La mancanza di azione fa dei protagonisti degli anti-eroi, incapaci di lottare e spesso addirittura dediti ad una causa moralmente deprecabile, quale l’avarizia, la lussuria, il potere. Gli uomini sono ritratti attraverso i loro vizi, i loro 188
difetti, le loro brutalità, in quadri piuttosto desolanti. Tuttavia, l’occhio del regista non li osserva dall’alto in basso giudicandoli per le loro mancanze: al contrario, utilizza le loro debolezze di esseri umani mortali per solidarizzare con loro. È una prospettiva fortemente umanista che fa della pietà, in senso latino di pietas, il suo pilastro portante, comunicata
a fianco, dall’alto verso il basso, fig. 5, Giulio Andreotti, e fig. 6, Cheyenne; sotto, fig. 7, Titta di Girolamo Cheyenne è l’unico dei sei protagonisti a camminare verso destra, perchè è l’unico con un futuro luminoso
esplicitamente allo spettatore attraverso le parole che mette in bocca ad Andreotti: «Ci imbarazzano le reazioni incontrollate, ma in fondo ci rassicurano. Ci dicono che siamo vivi. E umani». Ciononostante, la solidarizzazione con lo spettatore rimane piuttosto problematica, in primis perché l’autore caratterizza le sue creature come impenetrabili uomini cinici e navigati. Tutti i protagonisti portano una maschera e si nascondono dietro al sarcasmo o al silenzio. A parte il calciatore Pisapia, la cui caratterizzazione è piuttosto permeabile riguardo agli aspetti sentimentali, nell’ordine: Tony Pisapia è occultato dalla cocaina, dal sorriso malizioso e dai larghi colletti delle camicie; Titta Di Girolamo è nascosto dal suo volto impassibile, dal silenzio e dai suoi completi formali; Geremia de’ Geremei è blindato sotto all’aspetto da scarafaggio, al suo cappotto consunto e al volto sformato; Giulio Andreotti è barricato dietro ad una muraglia di rughe inflessibili ed all’abito impeccabile; Cheyenne è celato dalla nuvola di capelli neri, dal pesante trucco e dal buio che veste sempre; Jep Gambardella è stratificato sotto il sorriso sornione da latin lover e i modaioli completi su misura. Tutti fanno del cinismo disincantato la propria arma di difesa dall’occhio scrutatore altrui, ma proprio la presenza di una tale barriera inaccessibile rende manifesta una profonda sensibilità umana interiore da difendere, che lentamente è fatta trapelare negli sviluppi delle opere. Tale cinismo è sempre declinato in una sottile e geniale ironia. Sorrentino ne dà un’ottima definizione sempre tramite la bocca di Andreotti, dicendo che «l’ironia è la migliore cura per non morire». Se è vero che i suoi film affrontano con drammaticità la fatica dello stare al mondo, è anche vero che sono impreziositi da un gran numero di chicche ilari in grado di sciogliere la tensione e ripristinare quel realismo un po’ tragicomico dell’esistenza. Trovano in tale modo giustificazione numerose inquadrature: Titta Di Girolamo che osserva impassibile dalla finestra l’uomo che in strada, voltandosi a guardare le curve di una giovane passante, centra con la testa un palo della luce; lo stesso uomo nel negozio di scarpe dove sotto l’insegna “Twins” sorridono le due commesse gemelle; Cheyenne che a Central Park assiste alla sfilata di un pattinatore vestito e fornito di tutto punto, il quale poco dopo finisce in terra come l’ultimo dei principianti; ancora la rockstar alle prese con il ping pong, dove segna il punto della vittoria aspettando che il ragazzino avversario si distragga; Dadina la nana ed il suo teddy bear alto due metri in ufficio; oltre ad un numero incalcolabile di battute nei dialoghi. «Non bisogna prendere niente sul serio, eccetto il menù» di Jep Gambardella riassume allora la filosofia del regista. Ecco allora spiegata la sua fascinazione per la commedia all’italiana di cui elogia la profondità lasciata trapelare dalla leggerezza dei racconti. 189
4. i tratti AUTORIALI
Dopo le similitudini tra i diversi protagonisti, sono le ambientazioni, le storie, i contesti costruiti da Sorrentino a gettarne un ulteriore sostegno alla figura autoriale. Gli universi che egli costruisce sono infatti fortemente influenzati da fattori autobiografici: complice l’accento di Servillo, il protagonista è spesso un uomo campano; le vicende sono ambientate o, in caso contrario, vissute con il rimpianto verso l’Italia centromeridionale, luogo dove egli ha vissuto e vive; lo svolgimento si articola negli italianissimi mondi della mafia, della malavita, della religione o in quelli dei suoi interessi, come la musica, il calcio, la politica. Fa eccezione solo This Must Be the Place e la sua spiccata caratterizzazione americana, che comunque come già evidenziato tradisce l’occhio dello straniero. Ad un livello più profondo, invece, è la ricorrenza di una gamma precisa di temi a costituire un evidente timbro d’autore sulle opere di Sorrentino. Innanzitutto, è la più cinematografica delle riflessioni ad emergere: quella sul tempo, sul suo lento e feroce incedere, reso visibile dalla dicotomia tra la vecchiaia e la gioventù. Ognuno dei protagonisti vive un rapporto problematico con gli anni, da cui ne escono vincitori soltanto coloro i quali riescono a sottrarvisi in maniera sovrumana, come Andreotti, o a tenerne il ritmo di avanzamento, come Cheyenne. Il tempo diviene la natura fondante 190
dell’uomo e delimita i suoi diversi spazi con valenze differenti. Il passato è quello più ampio: è il luogo irraggiungibile della spensieratezza, della felicità, della gloria, dell’armonia, ma anche un buco nero che inghiotte continuamente il presente per rigettarlo sotto forma di rimorso, rimpianto, dolore, colpa. È dunque una sorta di Medusa, affascinante ma pericolosa, in grado di pietrificare chi vi si concentra con troppa nostalgia. Il presente è uno spazio incerto, sottile, sfuggente e incomprensibile, che diviene decifrabile solamente dopo la marcescenza nel passato: è aperto alla possibilità ma può dare i suoi frutti solamente se viene utilizzato come trampolino per il futuro. Quest’ultimo, invece, è un’entità grezza, sformata e inaccessibile che come un’onda procede minacciosa verso l’uomo, a cui sta la scelta se gettarsi con coraggio nel tentativo di cavalcarla o tentare un inutile schieramento difensivo prima di esserne spazzato via. Ne esce allora una concezione di umanità fragile dal destino incerto. La via di uscita esiste ma è una sola e consiste nella separazione dolorosa dalla contemplazione del passato: una sorta di accettazione della vita per com’è e non per come vorremmo che fosse, con la conseguente strategia di un progetto di adattamento in divenire, che si lasci alle spalle il buono ed il cattivo di ciò che è stato e non tornerà. Qui si annida quel tempo magico che è causa del suo fascino, cioè la gioventù. Essa è la nicchia destinata alla fioritura della bellezza, contrapposta allo sviluppo grottesco della vita, ma dev’essere anch’essa goduta al presente, non ripescata a forza a ritroso, poiché in quest’ultima accezione si rivela una spietata causa di rovina. Ecco allora che il cinema di Sorrentino, nel complesso, offre una visione filosofica che dismette la velleità di dominazione del tempo e invita umilmente a goderlo, o forse sopportarlo, per come si offre. Di pari passo, molto presente nelle opere del regista è l’esaltazione della bellezza nella grazia della piccola gioia, che in tale maniera completa l’essenza ultima del
fig. 8, Rosalba Emblema della inevitabile propensione umana alla corruzione morale
suo cinema, cioè la demistificazione dell’epico in favore della celebrazione del quotidiano. Altra tematica diffusamente presente, invece, è quella dell’identità. Tutti i personaggi vestono una maschera e di conseguenza offrono più rappresentazioni di sé, decretando la sconfitta della personalità esplorabile a tutto tondo e certificando una frammentazione dell’individuo in stile pirandelliano. L’identità è sempre sfuggente, cangiante a seconda del contesto, pronta al ribaltamento inaspettato, il che se da un lato si offre come interpretazione dell’opportunismo umano, dall’altro rivela anche una sostanziale debolezza di fondo, un timore a svelarsi nella propria intima essenza. Ognuno possiede segreti o scheletri nell’armadio, cosa che testimonia la singolarità dell’individuo, la profonda stratificazione del carattere e anche una certa ambiguità di collocamento tra il bene ed il male. A questo proposito, è interessante notare come Sorrentino si esima dall’esprimere un giudizio morale sui protagonisti. Per quanto disdicevoli sotto alcuni punti di vista, essi non sono mai monolitici carnefici o meritatamente vittime, ma soltanto esseri umani con i loro difetti. Il bene ed il male diventano allora due estremi ideali tra i quali l’umanità si presenta in incessante variazione di sfumatura: nessuno è monocromatico, niente è invariabile, tutto è soggetto a cambiamento di prospettiva. Unica certezza del regista, il quale dichiaratamente ripudia la logica del “messaggio” dei film, è allora una placida fiducia nel più assoluto relativismo. Di conseguenza, dell’identità ciò che si sottolinea maggiormente è la necessità di aggiornamento ed evoluzione, requisito necessario per stare a galla nella corrente del tempo. Il cinema di Sorrentino riscopre la volontà di potenza alla base dell’anima, il desiderio di autoaffermazione, l’accettazione del cambiamento e del proprio destino. L’identità giunge alla propria realizzazione in opposizione al mondo travolgente dell’alterità solo attraverso il potere salvifico del gesto, dell’azione, dell’incisione nella realtà. Da ciò deriva una visione del mondo costituita da individui intrappolati in una ragnatela di rapporti di forza. Il singolo è inserito in un più ampio sistema relazionale con cui deve fare i conti ogni istante. L’individuo può giocare con la massa sull’altalena del successo, può muovere le proprie mosse sulla scacchiera del crimine, può tessera la propria tela sfruttando il predominio monetario, può muovere gli
altri come burattini se in posizione di potere, può districarsi nel mondo della fama o può anche tentare di isolarsi in un angolo tranquillo a litigare con le relazioni del passato, ma non può agire senza alterare i legami con gli altri individui intorno a lui. La prospettiva del regista, tuttavia, inquadra le individualità in rapporti di forza sempre sbilanciati: sono innanzitutto determinati da elementi connotati negativamente, quali il denaro, il potere, il successo, la fama, e soprattutto tendono a mostrare uno spietato cinismo nell’impossibilità di equilibrio, secondo la logica del “mors tua, vita mea”. Si manifesta una sorta di darwinismo sociale in cui l’identità di ognuno lotta per la propria affermazione e per il proseguimento della propria vita con l’unico strumento della prevaricazione sull’alterità: ecco allora che l’attenzione del regista si focalizza sull’eccezionalità del sentimento umano di solidarietà e pietà, rara anomalia che meravigliosamente riesce a scaturire anche dai soggetti più imprevedibili. Dalla filmografia del regista, nel complesso, emerge lentamente la sua personale visione filosofica. Quello di Sorrentino è uno sguardo sul mondo talmente cinico da sfociare nel nichilismo, imbevuto di un disincanto che altri riferimenti non lascia al di fuori del supremo relativismo, sempre attento a smascherare ogni atteggiamento affettato nel segno dell’abbattimento del politicamente corretto ma non dimentico dell’esuberanza molto umana, particolarmente napoletana, del godere la vita nel suo divenire. È uno sguardo sul mondo che non spiega, non illustra, non condanna ma semplicemente mostra, riporta, visualizza, dedito alla rocambolesca spettacolarità quanto alla minuziosa interpretazione dei dettagli. Sorrentino in sostanza mette in scena una celebrazione dell’incontenibile selvatichezza della vita in tutte le sue manifestazioni, positive quanto negative, soffermandosi in particolare sulle rare fulminazioni di splendore che essa concede. 191
5. il surreale, il grottesco e la BELLEZZA
dall’alto verso il basso, fig. 9, Geremia; fig. 10 (grande), il monumento al pistacchio, da record, realmente esistente in New Mexico; fig. 11, il primo e unico amore di Jep, Elisa
Sorrentino P., “Abbandonatevi al mio film, ne resterete coinvolti”, in www.espresso.repubblica.it, 2014 (6)
Sorrentino P., TEDxReggioEmilia, 2011 (7)
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Molte delle critiche (senza cognizione di causa) che si leggono in giro riguardo al cinema di Paolo Sorrentino prendono come bersaglio l’esasperazione grottesca delle sue immagini. Due esempi su tutti: la caratterizzazione di Andreotti, sicuramente più simile ad un fumetto che al politico realmente esistito, e lo spaccato sulle feste romane, orge colorate più che serate di svago dei salotti buoni, sono accusati di poca verosimiglianza e distorsione della realtà. Le obiezioni sollevate trovano pienamente riscontro, ma semplicemente non hanno afferrato il significato del cinema. Qui infatti mi riallaccio al discorso iniziale sull’immagine filmica come simulacro: il cinema di finzione, proprio in quanto tale, non ha in nessun modo l’intenzione di riprodurre il reale, ma al contrario plasma il visibile in funzione di esprimere quel sentimento che il reale ha suscitato nell’autore. Sorrentino esprime una propria posizione che ricalca appunto la logica, enunciata da Tarkovskij, di fedeltà al sentimento e non al fatto, dunque al fine e non al mezzo: «Non sono mai interessato al tasso di realismo che un film o un libro possiedono. E’ la dimensione “sentimentale”, in senso
di emozioni ed emotività, che mi rapisce o mi allontana da un film»(6). Se allora l’Andreotti del regista si muove a scatti intermittenti, secondo linee rettilinee ed angoli retti, non è per un’accurata analisi del materiale d’archivio, ma per la sua volontà di rappresentarne metaforicamente la freddezza da robot. E se le sue feste romane sono dei vorticosi baccanali, non è perché la sua esperienza in esse sia stata di quel genere: egli stesso dice di avere partecipato al massimo a un paio di esse e di averle dipinte come l’immaginazione gli ha suggerito, con l’unico obbiettivo di rendere massimamente visibile il senso di perdizione.
Le immagini create da Sorrentino sono fortemente cinematografiche perché si avvalgono di un mondo surreale figlio della mente dell’autore per restituire un’interpretazione verosimile della realtà: la distanza tra il mondo diegetico e quello reale è molto notevole e spesso volutamente esibita, ma con ciò riassorbita e massimamente espressiva. Se allora è vero che il carattere fantastico dell’opera filmica è dichiarato (come nella citazione d’apertura de La Grande Bellezza), altrettanto vero è che i racconti fanno del surreale il loro materiale da costruzione: rimangono nell’universo della verosimiglianza, ma si collocano ai margini di confine con l’irrealtà. Come è fatto dire a Geremia de’ Geremei: «Non confondere mai l’insolito con l’impossibile» è un suggerimento per lo spettatore. A ciò si aggiunge un consiglio dello stesso autore per intraprendere la scrittura di un film: «leggere sempre il Guinness dei Primati, quel libro nel quale si trova la maggiore contaminazione tra l’eccezionale ed il reale».(7) Il regno del surreale consente a Sorrentino di muoversi in una dimensione a cavallo tra il visibile e l’invisibile che nella spettacolarità del cinema spalanca spunti di riflessione di grande profondità, senza capitolare nel bello fine a sé stesso. Nel particolare, la declinazione che il surreale assume in tutti i racconti è quella del grottesco: una miseria esistenziale in cui la drammaticità dello squallore è paradossalmente disinnescata dalla disseminazione di amari istanti d’ilarità. Questa connotazione riflette l’ambivalente caratterizzazione già discussa che il regista opera per i suoi personaggi, fondamentalmente malinconici ma irrimediabilmente ironici. Il grottesco allora è il risultato della trasposizione delle sue inclinazioni nel campo cinematografico del surreale: «Tutto in natura ha un’essenza lirica, un destino tragico, un’esistenza comica» è la citazione di George Santayana con cui si apre il contenuto video extra sul dvd de L’uomo in più. Non è tuttavia solo una questione di attitudini emotive, perché il grottesco è utilizzato nelle opere con un ruolo insostituibile: la surreale bruttezza è il termine di paragone per la semplicità della bellezza. Sorrentino lavora per contrasto, per sottrazione, per semplificazione e l’accumulazione di tratti mortificanti è funzionale alla distinzione dei rarissimi momenti di esaltazione in cui si manifesta la purezza della grazia. Il regista struttura un gioco di opposti tra «gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza e poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile»: il contrasto è tra la complessità e la semplicità, tra la vecchiaia e la gioventù, tra la staticità e la vibrazione, tra la malizia e l’ingenuità, tra la diffidenza e la spontaneità, tra la corruzione e la purezza. Il suo cinema è quindi un monumento alla rovina che viene sistematicamente sgretolato dalla vitalità di un fiore, suggellandone l’ineluttabile trionfo. Ecco che l’enfasi sul grigiore del bozzolo non è altro che il contrappunto per far risaltare lo splendore della farfalla. Il grottesco in fondo è solamente il linguaggio scanzonato con cui il regista si fa cantore delle piccole gioie. 193
6. la MACCHINA da PRESA
Se la macchina da presa è la matita con cui il regista disegna la propria filosofia, Sorrentino è sicuramente un Compasso d’Oro. Il suo cinema dalle sceneggiature mai troppo parlate si fonda infatti sul valore delle immagini, che sono costruite con rara maestria. Il suo stile di regia parte da una volontà autoriale di mantenimento di uno sguardo distaccato e indipendente sulle vicende che riesca il più possibile a coinvolgere in maniera attiva lo spettatore. Le storie sono raccontate con una focalizzazione che vorrebbe essere interna, da cui derivano le frequenti voci narranti degli stessi protagonisti, in realtà incapace di afferrare la complessità del personaggio e dunque esterna. Di pari passo, l’ocularizzazione adottata è spiccatamente zero, testimoniata da una netta prevalenza di “nobody’s shots”, immagini oggettive e primi piani del protagonista, rispetto a inquadrature soggettive. Ciò è particolarmente evidente nelle scene di dialogo, dove è frequentemente utilizzato un campo totale o comunque un punto di vista esterno agli interlocutori, oltre alla classica inquadratura di quinta. Il regista dunque indossa 194
dall’alto verso il basso, figg. 12, 13, 14, 15, 16, 17 Nel movimento macchina, l’uomo appare come da dentro Cheyenne e dà voce al lato ferocemente bestiale della sua persona, che però non viene assecondato
le vesti di istanza narrante calata all’interno della storia con il desiderio di seguire da posizione ravvicinata e privilegiata la vita dei propri personaggi, senza tuttavia lasciarsi sedurre ed emozionare da essi. Il suo punto di vista ricerca un posizionamento autonomo da cui raccontare innanzitutto la propria percezione di essi nelle vicende: la loro percezione della storia, le loro emozioni, i loro pensieri, nella gran parte dei casi sono infatti filtrati ed elaborati dal regista prima di essere dati in pasto allo spettatore. Sorrentino è molto umano e si impegna a mostrare i fatti e le persone esprimendo un giudizio morale lieve e mai severo: solidarizza con l’umanità rappresentata attraverso i vizi e i difetti, cambia prospettiva nel tentativo di cogliere le infinite sfaccettature delle personalità e ama giocare con i punti di vista per testimoniare la varietà dei rapporti di forza che si possono instaurare e trasformare tra le persone. Nel complesso, le immagini dei suoi film sono quindi frutto della personale immersione nel mondo diegetico e della personale attitudine alla minuziosa osservazione dei suoi abitanti. Questa sorta di attitudine all’indagine socio-antropologica dall’interno prende forma in una imperturbabile stabilità dell’immagine. Non è semplicemente il riflesso dell’immobilismo dello stesso oggetto d’indagine: sebben poco propenso al dinamismo, nei momenti di corsa o azione è comunque inquadrato nella serafica compostezza resa dalla steadycam. Che si manifesti in carrellate o piani fissi, l’occhio registico prende incessantemente nota del personaggio con la stessa pacatezza della penna sul taccuino dello psichiatra durante la seduta di analisi. Sorrentino rifugge l’autodenuncia di soggettività ed emotività umana propria della macchina a mano. La sua posizione privilegiata di osservatore, infatti, tradisce rarissimi istanti di cedimento alla partecipazione emozionale (le pochissime inquadrature a mano) giusto ad enfatizzare i momenti di climax di sconvolgimento emotivo dei protagonisti, conteggiabili in ogni film sulle dita di una sola mano. In maniera molto personale, l’immagine è utilizzata come espressione dello stato d’animo del personaggio metabolizzata dal regista e restituita allo spettatore tramite il movimento macchina: è questo, infatti, lo strumento preferenziale che l’autore impiega per la sintonizzazione emotiva tra i due lati della macchina da presa.
La peculiarità di tale impiego è il contrasto tra la solidità propria dell’immagine e la dinamicità del movimento da cui è originata, che testimonia appunto l’artificiosa mediazione registica. L’immagine dei film di Sorrentino è massimamente cinematografica in quanto fa di questo movimento macchina nello spazio e nel tempo una delle sue caratteristiche fondanti. Oltre a rispondere ad esigenze narrative, la scelta del virtuosismo della macchina da presa è orientata all’enfasi del più cinematografico dei fini: la spettacolarità. Malgrado sia identificabile come cinema d’autore, infatti, quello del regista rimane un cinema che fa della straordinarietà delle proprie immagini un obiettivo primario. Il costante ricorso a carrelli, dolly, gru e steadycam dispiega un campionario di formalità registiche che ricordano il ricamo visivo, tipico dell’esplosione dei movimenti macchina degli anni Quaranta e Cinquanta, di Max Ophüls e Orson Welles, ma soprattutto l’instancabile enfasi narrativa di Martin Scorsese. Per Sorrentino, il movimento macchina è allora mediazione emotiva tanto quanto esaltazione visiva, imprescindibile strumento per raccontare tanto quanto asso nella manica per soddisfare la voglia di essere sbalordito dello spettatore: in sostanza, connubio perfetto tra l’eccezionale ed il reale a cui punta la sua concezione di cinema. Questo perché implementa la percezione tridimensionale del film, portando lo spettatore ad un maggiore coinvolgimento fisico nel mondo diegetico e sottolineando la verosimiglianza dell’immagine filmica. Ciò si riallaccia al discorso già affrontato nel capitolo iniziale riguardo alla creazione di immagini tanto più irreali quanto più percepite come realistiche. In questa lettura allora rientra anche la volontaria enunciazione della presenza dell’istanza narrante che ha luogo nella scelta di movimenti macchina liberi, slegati dai movimenti dell’attore. La pacata curiosità con cui l’occhio del regista si aggira sulla scena indisturbato, infatti, dichiara esplicitamente la finzione dell’opera filmica. Quest’adozione del movimento lento è comunque concepita in relazione al tipo di storia narrata. L’ininterrotta stabilità dei piani ha una fortissima connotazione descrittiva: si dilunga spesso in inquadrature in cui non è l’azione al centro dell’attenzione ma, al contrario, la descrizione di un dettaglio o la perlustrazione visiva dei protagonisti. Si coniuga, quasi come necessaria compensazione, con la loro povertà di movimento, spostando l’azione dall’altro lato dell’obiettivo. Tanta mobilità della macchina da presa rappresenta però anche il tentativo registico di penetrazione oltre le loro maschere d’apparenza, fatte di cinismo di rappresentanza: ecco da dove proviene l’inclinazione alla panoramica circolare sul primo piano o il carrello in avanzamento selettivo sullo stesso. Tale sguardo, inoltre, si caratterizza spesso per il carattere continuativo e connettivo, passando in rassegna più personaggi o il personaggio e la scenografia nello stesso piano: costruisce rapporti di stretta influenza reciproca sia tra personaggi ed ambiente, sia tra diversi personaggi, collegandoli visivamente anziché segregarli in inquadrature e spazi differenti tramite tagli di montaggio. In questo modo, la mediazione registica delinea il protagonista come un semplice abitante immerso in un più complicato mondo globale, in sostanza un individuo influenzato dal suo ambiente, cosa che deriva dal relativismo di fondo della filosofia di Sorrentino e che ne testimonia l’attitudine alla comprensione solidale. 195
7. il rapporto con lo SPETTATORE
La narrazione di Sorrentino è ben lontana dalla tradizione del cinema classico. Come appena analizzato, l’estrema dinamicità della macchina da presa tradisce una presenza osservatrice nel mezzo delle vicende, l’istanza narrante, andando a demolire l’apparente trasparenza delle immagini. Lo spettatore prende parte in prima persona ad una storia che si sviluppa attorno ad esso come film aperto, mondo preesistente all’istanza narrante, complessità in divenire incapace di essere racchiusa in uno sguardo singolo e omnicomprensivo. La sua identificazione primaria con la pura percezione visiva della macchina da presa è dunque inizialmente favorita e amplificata dall’impiego pirotecnico dei movimenti macchina. Il regime scopico pare perciò portato alla trionfale affermazione dello spettatore, al sicuro dietro l’occhio mediatore del regista e lasciato a godersi la spettacolarità delle immagini. Ciò che tuttavia caratterizza il cinema di Sorrentino e che incrina alla base tutta questa struttura è l’impiego ricorrente dello sguardo in macchina del protagonista. Le conseguenze dell’amore, L’amico di famiglia, Il Divo e La Grande Bellezza lo propongono subito in apertura di film, accompagnato dalla voce fuori campo del protagonista e narratore, mentre L’uomo in più e This Must Be The Place ne fanno un uso assai più ristretto senza voice-over (nell’ultimo film in realtà la voce fuori campo c’è, ed è quella del padre che legge le proprie memorie come sta facendo Cheyenne). Ad ogni modo, l’infrazione della tradizionale trasparenza della macchina da presa sulla scena sgretola la sicurezza del regime scopico in cui è trincerato lo spettatore: egli ritorna fulmineamente allo stesso livello di chi ricambia il suo sguardo, con ciò perdendo la propria posizione privilegiata e soprattutto ripiombando a fare coincidere la propria identità non più con l’occhio registico, ma con la propria persona reale nel mondo fisico. Oggettivato dallo sguardo altrui, è costretto umilmente a riprendere coscienza di sé, riemergendo dal coinvolgimento totipotente dell’intrattenimento e riaccendendo il potere riflessivo della propria mente. Per tale ragione, l’identificazione secondaria con il personaggio è ovviamente messa a repentaglio, poiché egli viene a configurarsi come un’alterità cosciente e distinta; in aggiunta, la scelta del regista di adottare poche inquadrature soggettive non facilita certo la proiezione sul personaggio. L’immagine cinematografica dei film di Sorrentino si distacca quindi chiaramente dal cinema di tradizione spettacolare per vestire la casacca di quello 196
dall’alto verso il basso, da sinistra a destra figg. 18, 19, 20, 21, 22, 23 Tutti i protagonisti dei film nel momento in cui si rivolgono direttamente allo spettatore con lo sguardo
autoriale: un’immagine che sì, ipnotizza per la propria bellezza, ma punta soprattutto al coinvolgimento in prima persona dello spettatore, posto di fronte allo sforzo intellettuale ed alla riflessione personale. Le inquadrature, infatti, non servono solamente a fare progredire la rarefatta azione ma al contrario sono spesso dilatazioni temporali e soste impiegate per descrivere o far pensare. Il diffuso utilizzo di movimenti liberi della macchina da presa e il deliberato sguardo in macchina portano a compimento il processo di smascheramento della finzione cinematografica. Il personaggio diventa un uomo conscio di recitare una parte in una messa in scena artificiosa, mentre lo spettatore diventa un uomo conscio di assistere a tale prodotto cinematografico artefatto e fittizio. Si sbilancia quindi il meccanismo di illusione filmica verso una cosciente
accondiscendenza: permane la condizione di sospensione dell’incredulità accordata al film, ma lo spettatore partecipa a quest’ultimo da una certa distanza e con una certa disillusione (come in realtà vi si approccia anche lo stesso occhio registico). Considerata la scarsa dinamicità dei personaggi, intenti solitamente (almeno all’inizio dei film) a muoversi in maniera circolare e inconcludente nel proprio universo, appurata l’instancabile mobilità delle riprese nello stare dietro ad essi e vista l’instaurazione del rapporto di complice consapevolezza con lo spettatore, la modalità di narrazione architettata e mediata dalla regia va a ricordare quella della Divina Commedia. I personaggi di Sorrentino, conoscitori del proprio “girone infernale”, proprio come Virgilio accompagnano lo sguardo dello spettatore, Dante, nell’analisi del proprio universo, all’interno di un viaggio che lo spettatore sa essere immaginario. Alcune scene sono di grande interesse proprio nel decifrare il rapporto del personaggio con lo spettatore. Si tratta di quegli inserti tendenzialmente extra-diegetici de L’uomo in più, L’amico di famiglia e Il Divo. Nel primo film, l’ellisse temporale di quattro anni tra la prima parte della storia e la seconda è rappresentata visivamente dall’intermezzo di
balletto classico al cui termine appare la data. La peculiarità sta che pochi istanti dopo, in un dialogo si scopre che tali immagini totalmente avulse dal resto del racconto non sono un inserto di cui ha goduto soltanto lo spettatore ma immagini mentali del sogno di Pisapia. Se questa spiegazione da un lato ricolloca la scena all’interno del mondo diegetico, dall’altro configura uno sconfinamento del personaggio al di qua del telo per sedersi in sala a godere della sua stessa rappresentazione recitativa. Questo stesso effetto è ottenuto anche nel secondo film in esame, con la scena in cui Geremia cerca di far riprodurre ad una sua attempata amica la sequenza iniziale delle pallavoliste in slow-motion: non vuole infatti solo un’imitazione delle giovani che osserva dalla propria finestra, ma punta a ripetere lo stesso effetto rallenty che tuttavia solamente uno spettatore del film può godere. Anche qui, dunque, il protagonista viene fatto traslare nell’universo a lui precluso dello spettatore: Sorrentino con questa mossa certifica la consapevolezza dei suoi personaggi di prendere parte ad una messa in scena, la loro accondiscendenza a essere osservati da un pubblico e nel complesso l’assoluta artificiosità del medium filmico, completamente opposto a una registrazione fedele della realtà. Questo aspetto è quello sottolineato ne Il Divo nella confessione a cascata di Andreotti. Le luci di scena, metonimia della finzione cinematografica, sono appositamente mostrate per separare quegli attimi dal resto del film e proprio a enfatizzare il carattere immaginario di una simile ammissione di malefatte da parte del vero uomo politico. La scena diventa quindi una sorta di film nel film, esplicitando con il proprio carattere fantastico la connotazione immaginaria dell’intera opera. In fondo, la concezione registica del medium è palese: come Sorrentino fa dire a Jep Gambardella: «è tutto un trucco». 197
198
LUCA BIGAZZI
4.2
199
1. BIOGRAFIA
Luca Bigazzi nasce a Milano nel 1958. La città non è legata tradizionalmente al mondo del cinema ma, al contrario, negli anni della sua adolescenza è il fulcro dell’esplosione della pubblicità e della televisione privata. In opposizione a questo mondo patinato, Bigazzi si interessa al burrascoso periodo storico in cui vive, al conflitto sociale, allo scontro politico: prova la via universitaria in tale direzione, ma è costretto a lasciarla ben presto per ragioni economiche. Nel 1977 finisce dunque in quel vortice di immagini seducenti a muovere i primi passi professionali in un’agenzia pubblicitaria come aiuto regista. È appassionato di fotografia e pochi anni più tardi il suo ex compagno di liceo Silvio Soldini lo contatta per occuparsi della fotografia del suo progetto cinematografico. Paesaggio con figure viene proiettato al Festival di Locarno del 1983: l’esordiente regista e l’improvvisato cinematographer e operatore riscuotono un discreto successo. Nel resto degli anni Ottanta Bigazzi trasla velocemente dalla pubblicità al cinema, trasformando la passione in mestiere senza passare per alcuna formazione tecnica precisa. Continua a lavorare alle pellicole di Soldini ma amplia il suo panorama di collaborazioni ai maggiori autori italiani, raggiungendo il primo vero riconoscimento con Morte di un matematico napoletano di Mario Martone (1991) e trionfando a David di Donatello e Nastro d’Argento con Lamerica di Gianni Amelio (1994). Gli anni Novanta infatti sono per Bigazzi quelli della consacrazione nel cinema italiano. È chiamato a collaborare da registi del calibro dei già citati Soldini, Amelio, Martone ma anche Ciprì e Maresco, Comencini, Mazzacurati, Placido, Piccioni, Segre, quando nel 2004 viene affiancato a Paolo Sorrentino dal produttore Nicola Giuliano. Malgrado gli screzi iniziali, Le conseguenze dell’amore è un trionfo e segna l’inizio di una collaborazione decennale ancora in corso. Il prosieguo del nuovo millennio vede per Bigazzi la fioritura di altre collaborazioni che egli volontariamente restringe al solo ambito nazionale, rifiutando ad esempio una faraonica proposta per il britannico The Iron Lady (2011). Unica eccezione è il lavoro con il celebre cineasta iraniano Abbas Kiarostami per Copia Conforme (2010). Nel 2014, infine, arriva per Bigazzi la consacrazione anche dell’estero e del grande pubblico, da cui solitamente rifugge, con La Grande Bellezza (2013) che oltre all’Oscar al Miglior Film Straniero 2014, per la fotografia ottiene David di Donatello, Nastro d’Argento, Ciak d’Oro e Globo d’Oro. 200
2. l’approccio al LAVORO
Spadafora A., La luce necessaria, Dublino, Artdigiland, 2012
(8) (9) (10) (11) (12) (13)
La formazione da totale autodidatta influenza ancora oggi in maniera molto chiara il lavoro di Bigazzi. Innanzitutto, le prime esperienze su progetti autofinanziati con troupe ridotte all’osso lo spingono a coprire sia la parte di illuminazione che quella di ripresa, con un interesse notevolmente maggiore su quest’ultima. Si definisce infatti «uno che studia le inquadrature e muove la macchina da presa, che purtroppo deve posizionare delle luci e quando può non farlo è molto più contento».(8) Non nasconde di nascere come operatore di macchina piuttosto che direttore della fotografia, poiché la sua maggiore preoccupazione è la realizzazione di un’inquadratura esteticamente piacevole per lo spettatore rispetto ad un’illuminazione meticolosamente dettagliata, sostenendo «che l’80% delle questioni fotografiche siano legate alla scelta delle ottiche e alla scelta delle inquadrature, non al posizionamento delle luci».(9) Da qui deriva quell’attitudine d’inizio carriera maggiormente incline alla resa luminosa degli ambienti e dello spazio rispetto ai classici volti degli attori. L’approccio alla professione di Bigazzi riflette tutta la mancanza di regole, canoni e tradizioni mai assorbite grazie all’iniziale dilettantismo. Il suo è dunque un metodo altamente personale, fortemente innovativo, praticamente rivoluzionario che infatti gli è costato non pochi attriti ed incomprensioni con il mondo chiuso, vecchio, tradizionalista ed autoconservativo del cinema italiano contemporaneo. Prima di essere un serio professionista del mondo cinematografico,
egli è un artigiano dell’immagine, che tuttavia rifiuta l’aura di mistero e poeticità tipicamente manifestata dai suoi pari. Non si interessa della formalità del metodo ma concepisce il proprio mestiere in vista del risultato finale proiettato in sala, cosa che lo pone in stretto contatto con gli spettatori. Bigazzi ama sentirsi uno di loro ed il suo privilegio di potersi trovare dall’altra parte della pellicola ne configura una sorta di rappresentazione ideologica sindacale, scevra da ogni velleità intellettualistica ma concentrata solamente sulla piacevolezza della narrazione per immagini. Per questo motivo, il suo obbiettivo è la creazione di immagini appaganti per gli occhi e massimamente funzionali al racconto. Ecco allora spiegata la preferenza per la diretta manovra della macchina da presa di fronte agli attori rispetto al lavoro precedente di disposizione delle luci. Ciò che egli mal sopporta di queste ultime è la complicatezza della progettazione, il che ruba molto tempo, e la limitazione fisica imposta sulla scena dalla loro presenza. Bigazzi ha una considerazione modesta della propria figura professionale, enfatizzando invece il lavoro degli attori come la vera vita dell’opera cinematografica: sostiene infatti «che lo scopo dei film non è avere belle luci o belle inquadrature ma attori che recitino al proprio meglio perché messi a loro agio».(10) È perciò molto misurato nell’impiego di ore preziose, tipicamente centellinate dai produttori, per il set-up delle luci in favore di un loro utilizzo per un numero maggiore di riprese, con più possibilità di ottenere risultati migliori nella recitazione. Lo affascina «il rapporto umano, privilegiato ed esclusivo, che l’operatore alla macchina instaura con l’attore, un rapporto basato sulla fiducia. È una questione non delegabile ad altri sul set. Gli attori sono sostanzialmente insicuri, quindi avere di fronte una persona che li inquadra piuttosto che un’altra può fare la differenza».(11) Nella stessa ottica, è restio ad un impiego estensivo di mezzi fisici ingombranti e complicati poiché ciò limita da un lato le potenzialità di espressione e movimento degli attori, dall’altro la libertà di movimento della macchina da presa e conseguentemente la sua capacità di cogliere dettagli espressivi. Il suo approccio al set è dunque nel complesso incentrato alla funzionalità del proprio ruolo alla buona riuscita del film ed all’economia di sforzi. Inoltre, con l’avanzamento nella carriera ha ridotto sempre più la pianificazione a tavolino in favore di un’ispirata improvvisazione sul momento. Infine, si può dire che «l’idea di cinema che Bigazzi sposa, ogni volta che aderisce a un progetto, è quella di un cinema politico, inteso come strumento in grado di rivelare, attraverso le storie, aspetti nascosti, schiacciati, isolati, della società».(12) Tale attitudine è influenzata dal periodo storico di formazione, gli anni Settanta con la loro radicalizzazione del conflitto politico, e si manifesta, prima ancora che a livello estetico, nell’impegno civile ancor più che professionale: è la scelta di lavorare solamente in ambito nazionale, specialmente per autori emergenti e su opere in qualche modo impegnate. «Bigazzi crede nelle potenzialità del cinema italiano. Respinge spesso proposte di lavoro dall’estero, soprattutto dagli States, per il semplice motivo che essendo italiano e lavorando in Italia spera di dare un contributo a “questo nostro disastrato Paese”».(13) Prima di essere un eccellente creatore di immagini, è soprattutto un’anima libera, uno spirito critico, una coscienza determinata. 201
3. la poetica VISIVA L’estetica di Luca Bigazzi è quella della leggerezza. Di pari passo con la concezione umile del proprio ruolo, non desidera lasciare un marchio di fabbrica sulle opere su cui collabora, ma mettere la propria sensibilità al servizio della stessa, recitazione e volontà registica in primis. Ecco perché dall’ormai lunga schiera di titoli da lui fotografati non emerge uno stile omogeneo: esprime, infatti, che «non esiste una fotografia bella o non bella, esiste solamente una fotografia adatta o non adatta alle esigenze del racconto».(14) Le sue parole riguardo all’autorialità del proprio lavoro non lasciano spazio al dubbio: «detesterei pensare che il mio stile sia riconoscibile. Vorrei che ogni volta si riconoscesse piuttosto un tentativo di costruire la luce e l’inquadratura adeguate al film in questione».(15) Il suo fine è passare inosservato e lo persegue con un unico credo fondamentale, cioè riprodurre un’illuminazione che sia quanto più possibile naturale (fig.24). Non è però una dichiarazione di adesione alla fedeltà dell’immagine, in quanto concepisce il cinema pur sempre come un processo di rappresentazione, non di semplice riproduzione. La parola che infatti meglio sintetizza la sua filosofia estetica è “plausibilità”: l‘architettura luminosa che struttura non è intesa a ricalcare la scena come apparirebbe senza alcun intervento, ma ad offrirne una interpretazione che rientri sia a livello fisiologico che a livello psicologico nella gamma di casistiche possibili, plausibili, appunto (fig.27). È ossessionato dall’idea che lo spettatore possa avvertire l’artificio fotografico, che non vuol dire l’intervento estetico espressivo, ma la finzione, e spera che egli non capisca dove e come sono state posizionate le luci, di modo da restare concentrato sul racconto cinematografico e sulla recitazione. Tale inclinazione alla naturalezza si traduce anche nel suo rapporto con le diversi fasi produttive del film: riconosce le possibilità offerte dalla post-produzione, soprattutto adesso nell’era digitale, ma le giudica spesso di resa visibilmente sintetica, motivo per cui rimane concentrato sulla precisione delle scelte in fase di ripresa. Nell’ottica della plausibilità, le sue scelte artistiche non possono che ispirarsi alla semplicità. Cerca sempre di adottare delle soluzioni molto lineari, minimali ma mai banali, seguendo l’istinto e adottando la soluzione più elementare che gli viene in mente. Una delle sue peculiarità, legata alla precedente attitudine di non ingombrare il set di stativi, è quella di illuminare gli ambienti con una disposizione unica delle luci che possa rimanere costante per tutte le inquadrature della scena (fig.25), cosicché sia la macchina da presa con i suoi movimenti nello spazio a generare una modificazione dell’illuminazione. Questo comporta quell’attitudine, 202
specialmente visibile ad inizio carriera, maggiormente incline alla resa luminosa degli ambienti piuttosto che dei classici volti degli attori (fig.26): un’attitudine poi tuttavia smussata nel tempo in direzione di un rapporto più bilanciato e più classico. Ciò che invece non ha perso è la propensione a togliere luci anziché aggiungerle. Intraprende continuamente delle sfide di sottrazione che testimoniano una crescita professionale su set con poca disponibilità di apparecchiature: ecco perché lo affascinano i progetti di registi emergenti, dove essere costretto dalla scarsità di mezzi all’invenzione continua rappresenta per lui una continua occasione di crescita professionale. La sua formazione nella Milano degli anni Settanta, tuttavia, ha lasciato in lui uno spauracchio che ha generato l’unico vero filo conduttore dei suoi lavori. Ciò da cui rifugge è l’estetica molto televisiva di quegli anni fatta di luci frontali e appiattimenti volumetrici, in risposta alla quale ha adottato una preferenza per le luci di taglio che restituiscono la plasticità tridimensionale dei volti. La sua luce chiave è sempre disposta lateralmente e si caratterizza per una generale morbidezza: non ama la luce direzionale, violenta, drammatica, ma preferisce una diffusione generatrice di modulazioni morbide di ombre e luci. Costruisce allora tendenzialmente atmosfere riflessive, composte, poetiche, senza eccessi né chiari né scuri e dunque sia intellettualmente accessibili nel loro complesso che in qualche modo democratiche, umane, solidali. A questo si collega la sua ossessione per l’opacizzazione delle superfici ed il terrore di quelle lucide, come le carrozzerie delle auto. Nonostante un’indiscussa sensibilità nella direzione della fotografia, comunque, Bigazzi rimane più affezionato al lavoro con la macchina da presa. È l’inquadratura il suo vero centro di attenzione, che racconta così: «amo moltissimo la geometria, purché non sia fine a sé stessa (fig.28). Passo molto più tempo a spostare la macchina da presa in verticale sul suo asse che a spostarla lateralmente, anche solo con movimenti di pochi centimetri. Se gli spostamenti laterali costituiscono l’evidenza, gli spostamenti in altezza sono poco considerati, poco praticati, ma molto più efficaci, più discreti, e fanno la differenza nella composizione dell’immagine».(16) Ancora una volta, dunque, ritornano quella dedizione al dettaglio, quell’inclinazione alla minuziosità, quella sensibilità discreta che ne fanno una figura artistica schiva rispetto alla magniloquenza ma concentratissima sul particolare fondamentale: per dirla con le parole di Barthes, un fotografo che fa del “punctum” dell’immagine il cardine del suo discorso estetico e narrativo. Bigazzi possiede una sensibilità non solo visiva, ma anche spiccatamente tattile. Ciò si manifesta nella già citata attenzione alla resa di volumi e superfici e anche nella sua grande vocazione all’impiego della macchina a mano. Ama il rapporto quasi fisico con l’attore, la naturale sensibilità della ripresa al minimo spostamento e vuole poter guardare
Spadafora A., op. cit. Spadafora A., op. cit. (16) Spadafora A., op. cit. (14) (15)
la scena attraverso l’oculare, con cui può controllare direttamente la precisione del fuoco: al contrario, non gradisce e non utilizza la steadycam, di cui critica la fluttuazione innaturale del punto di vista e di cui non sopporta la mediazione imprecisa del monitor esterno. Della macchina a spalla, invece, pur riconoscendo la caratteristica a volte rischiosa di svelare la finzione filmica, sottolinea l’estrema libertà concessa tanto all’operatore quanto all’attore e l’artigianalità imperfetta, e dunque genuina, della resa del movimento. A livello tecnico, invece, il pluripremiato cinematographer oscilla tra tradizione e innovazione. È solito utilizzare obiettivi molto aperti, solitamente a f/2.8, che perciò restituiscono una chiara gerarchia visiva su sfondi marcatamente fuori fuoco. In compenso, in caso di forte modificazione dell’esposizione durante una stessa inquadratura, come in un passaggio tra interno ed esterno, non cerca di bilanciarne la luminosità con luci artificiali ma al contrario ama accomodare gradatamente il diaframma all’ambiente, quasi si trattasse dell’occhio umano. Nutre una passione per la pellicola in 16:9, orizzontale quanto basta per allinearsi alla percezione dell’occhio, ma molto spesso è chiamato a lavorare su progetti più spettacolari in Super 35mm, che mantiene le proporzioni di 2,35:1 dell’anamorfico senza tutte le limitazioni di quest’ultimo. Bigazzi, infine, è solito scegliere le ottiche in base alle singole inquadrature, non disdegnando i vantaggi offerti da un impiego mimetico dello zoom. Tutte queste inclinazioni personali, comunque, sono sempre ovviamente accordate e sottomesse alla volontà dei registi con cui collabora.
dall’alto verso il basso, da sinistra a destra fig. 24, Copia conforme, Abbas Kiarostami, 2010 fig. 25 Le conseguenze dell’amore, Paolo Sorrentino, 2004 fig. 26 Lamerica, Gianni Amelio,1995 fig. 27 Morte di un matematico napoletano, Mario Martone, 1991 fig. 28 Lo spazio bianco, Francesca Comencini, 2009 203
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5 CONSIDERAZIONI FINALI 205
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Si chiude qui l’esplorazione che ho intrapreso dalla nascita dell’immagine fotografica alla poetica visiva su cui si edificano i film di Paolo Sorrentino. Innanzitutto, spero di avere fatto un po’ di luce sul processo che porta un’idea nella mente di una persona a realizzarsi in un’immagine realistica. In particolare, quello della coppia Sorrentino-Bigazzi è un procedimento che fa dell’iperbole la propria natura: un’esagerazione di stimoli sensoriali tanto registici quanto fotografici per la comunicazione di significati semplici. Con ciò non voglio dire che il “messaggio” veicolato dai film sia banale, ma al contrario che la bellezza delle immagini sia il confezionamento in grado di ridare la giusta dignità a riflessioni spesso sottovalutate. I due autori sono consci dell’inevitabile tendenza umana a fare affidamento sul proprio sguardo per afferrare il mondo, perciò la gratificano con una spettacolarità resa da un’esasperata esattezza compositiva e un iperrealismo d’illuminazione che raramente viene declinata così sottilmente nell’autorialità dell’intimità. In questo, infatti, si differenzia la fotografia del primo film curata da Pasquale Mari: una tendenza al realismo dell’illuminazione coniugata ad una traduzione dello squallore in termini visivi altrettanto desolanti. Bigazzi e Sorrentino, invece, non rinnegano l’esigenza di perfezione che il mondo d’oggi impone ad ogni prodotto visivo. Dalle modelle sui cartelloni alle confezioni dei prodotti alimentari, tutto ciò che viene artificialmente creato per essere consumato dagli occhi nasce come superamento del reale in una gara asintotica alla perfezione del bello assoluto. Il regista risponde a questa chiamata, ma se ne prende gioco con sceneggiature che vi veicolano un genere di contenuto che al contrario esalta il reale quotidiano. I suoi film sono prodotti d’autore che non si limitano all’espressione personale, ma cercano l’allineamento in sintonia con lo spettatore, che vi partecipa non come portafoglio pagante ma come creatura emotiva dialogante appartenente alla medesima specie umana. Ecco allora che la metafora dantesca dell’esplorazione dell’Inferno non si riferisce soltanto alla modalità narrativa ma all’impostazione ideologica di solidarietà e partecipazione alle sue spalle. Questa intima complicità che il regista è in grado di stabilire con il pubblico è data dal fatto che egli parla il loro stesso
linguaggio visivo, contemporaneo e disilluso. Tale particolarità è specialmente vera anche nella fotografia di Bigazzi: entrambi sono professionalmente cresciuti liberi dall’imprinting di regole e modelli consolidati nella tradizione cinematografica italiana, cosa che permette loro di intraprendere soluzioni visive dettate dalla logica di pensiero più che dal linguaggio cinematografico consolidato. La chiave del loro successo, perciò, può essere parzialmente riscontrata in quello che Sorrentino ricorda in ogni intervista, vale a dire il “dilettantismo”. Le immagini dei suoi film non sono frutto di intellettualismi, sofismi cinematografici o pregiudizi ideologici ma di un ragionamento lineare che parte dalla necessità espressiva per arrivare al metodo della sua rappresentazione. Bigazzi, di pari passo, non imposta la sua fotografia in base alle istruzioni scritte del regista, ma in base al sentimento che questi gli comunica, filtrandolo attraverso la propria sensibilità personale. A proposito della loro collaborazione professionale, in questo percorso ho cercato di denudare i ruoli di regista e direttore della fotografia dall’aura di poesia che li avvolge, ma devo riconoscere che non è possibile mettere nero su bianco i profili delle due figure. Non esiste una ricetta sicura che sia legata in maniera univoca ad un determinato risultato visivo: si tratta pur sempre di persone, singoli individui con bagagli di esperienze ed emotività proprie. Se il cinema è definita “settima arte” vuol dire che non è matematicamente ispezionabile ma sottende alcune zone d’ombra dove si annida la creatività personale, il genio singolare, la sensibilità particolare. Sono comunque emerse delle caratteristiche del loro sodalizio professionale. Ho riscontrato un rapporto fortemente sbilanciato a favore del regista: Sorrentino non è solo il padre delle sue creature perché le cura dalla sceneggiatura al final cut, ma perché si relaziona a Bigazzi con le immagini del film già ben chiare in mente. Ad esempio, questo comporta che il direttore della fotografia approcci la macchina da presa con una stabilità a cui non è troppo affezionato, ma anche che il virtuosismo cinetico del regista sia ben bilanciato dal suo minimalismo illuminativo, in risposta a richieste talvolta dichiarate folli. Sono quindi due sensibilità artistiche apparentemente divergenti che tuttavia trovano nella creazione di immagini una sintesi stilistica, mutevole ma sempre unitaria. In conclusione, il cinema frutto di questa affinità di poetiche visive tra Sorrentino e Bigazzi può essere interpretato come un’attualissima esaltazione del valore dell’immagine atta a smascherare la sua artificiosità, in favore di una rivalutazione dell’umanità reale. 207
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Prima di tutto ringrazio il Professor Bellavita, per avermi dato la possibilità di coltivare la passione del cinema nei suoi corsi, per l’emozione del primo 30eLode e per gli incontri, la disponibilità, la pazienza e i caffè; a seguire ringrazio il Politecnico per avermi offerto cinque anni arrotondati a sei di preziosissime conoscenze che saranno la base su cui costruirò quel che vorrò diventare, e anche per gli incontri, i duedipicche, le sfide psicologiche per le prese della corrente, le pause sizza d’inverno, le schiscette, due occhiaie in omaggio, la primavera in ovale, l’esaurimento nervoso. E poi ringrazio quelle buone, buonissime anime dei miei genitori, che mi sa che gliene devo un tot, per sempre; il sorriso di mia sorella; i miei amici, tutti, con cui sono cresciuto - talvolta anche decresciuto; Solitodesolis per la maledetta arguzia; quel mio gemello di Roger; Zizzy e Roby casseforti estere di scheletri nell’armadio psichiatrici; la mia Punto, fido destriero della lotta al ritardo e araba fenice; il mio corpo, per resistere valorosamente ai miei maltrattamenti vergognosi. E poi ringrazio Giulia, che come fa non lo so. Ho sicuramente dimenticato qualcuno e qualcosa, ma lo faccio sempre.
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