Ranko Risojević
Rumore Taccuini dalla Bosnia ed Erzegovina Introduzione, traduzione e riduzione di Danilo Capasso
Stilo Editrice
Collana Antichi e Moderni diretta da Ferdinando Pappalardo
Titolo originale Шум
978-88-6479-084-8 © Stilo Editrice 2013 www.stiloeditrice.it isbn
Stampato nel mese di maggio 2013 presso Arti Grafiche Favia, Modugno (BA)
Indice Introduzione. La necessità del narrare
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In guerra Introduzione. I condomini dell’ex Jugoslavia Lo sguardo e la paura Il giannizzero Il bedel Cavallerizzi Fantasia e mano Cuore e cervello L’ultima volontà Il guerriero La passeggiata di Potiorek a Sarajevo Dolore La villa estiva La recinzione perfetta La fata protettrice
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Vite incrociate Introduzione. Grado Zero Ti fa male qualcosa? Al cimitero Suicida Il ragazzino e la morte Ricordo La lettera Un conoscente sconosciuto Il mio insegnante Nel cortile di una casa di campagna La pioggia a Perast L’uomo accanto alla strada Il figlio è tornato dal viaggio L’ombra e io
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Cosmogonie e altre minuzie Introduzione. Come un cono vorticante La creazione del mondo Le radici L’angoscia La pace e la disperazione Il sonno e la luce L’abisso del sonno Introduzione alla vita/al giorno Stanchezza, impotenza e c’è mai una via d’uscita? Ricchezza invisibile Gli occhi e l’anima Il corniolo secco L’angusta porta della musica Vecchie fotografie
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Incursioni Introduzione. La salvezza La classe di Kafka Il sapere sintetico Il sapere analitico Il punto di Euclide Prometeo Le aporie di Zenone Il labirinto della stampa Il sogno di Borges Gli aedi Chopin o il silenzio La piramide Pioggia salvatrice Le parche
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Rumore Avete mai sentito il rumore di un apparecchio radio appena spento? Avete mai sentito l’ultimo segnale della stazione radio in un luogo dove non ci sono proprio stazioni radio? Non c’è nessuna frequenza, come dicono gli esperti. Se non l’avete sentito, ascoltatelo stasera. Poiché il rumore è la voce dell’universo che così si rivolge a noi. Noi da quel rumore abbiamo tratto solo alcune note, alcune frequenze, abbiamo posto un ordine in quel caos e abbiamo detto – uomo! Ascoltare e sentire il vero rumore dell’universo significa comprendere se stessi in esso, tralasciando le voci dell’esistenza: il muggito del bestiame, l’ululato del lupo in montagna; Stevo, niente, solo quel rumore. Ecco, vale la pena sentirlo e comprenderlo! Come? Non lo so. Dal diario di un uomo ritrovato Mattina fredda, appena dieci gradi. Soleggiata, tranquilla. Sono solo vicino all’apparecchio radio e a questo pazzo aggeggio (il computer) con il quale converso come un idiota con un idiota. Comunque converso, e c’è eco. Questa conversazione mi fa sentire più forte e, improvvisamente, miracolo, io sono (o è in me e la nomino come me stesso) la fonte che è sgorgata in un luogo che credevo fosse così secco da far uscire sabbia anziché acqua. Ma eccola, a testimoniare il miracolo della scrittura. Che irradiazione, che felicità nell’anima. Solo che tutto non venga coperto dalla nuvola e che l’ombra non distrugga la speranza. Anche se tutto questo si sarebbe potuto dire senza metafore. Ma che lo dica qualcun altro, uno nuovo. 02.09.1991
Introduzione La necessità del narrare di Danilo Capasso Ranko Risojević ha pubblicato questo libro, con il titolo Rumore, nel 1995, alla fine della guerra iniziata nel 1992. Il libro nasce dall’esperienza nei territori del conflitto in Bosnia ed Erzegovina – a Banja Luka, per l’esattezza, dove Risojević ha vissuto, in condizioni di vita quasi impossibili: spesso senza corrente elettrica, senza acqua e con frequenti corse verso i rifugi durante le incursioni aeree. È un libro scritto in guerra, ma questa non vi compare nella sua crudezza e implacabilità: si avverte piuttosto la resistenza dell’uomo, dell’intellettuale che non ha mai creduto all’apparizione del mostro e invece, quando quest’ultimo si è manifestato in tutta la sua ignominia, ha sorpreso Risojević nel suo status di scrittore jugoslavo conosciuto e affermato non solo nel proprio Paese ma in tutti i Balcani, e lo ha costretto a rifugiarsi proprio in quel mondo di ricordi, di amicizie, di passioni letterarie. Lo stile di Risojević in questo libro ricorda e ricalca quello di Ivo Andrić di Znakovi pored puta, che si potrebbe tradurre come ‘Segni lungo la strada’, ma anche come ‘Appunti di viaggio’ proprio per la brevità stentorea e lapidaria dei racconti, per la loro morfologia da aforisma. Come il grande scrittore jugoslavo, che Risojević ha avuto la fortuna di conoscere personalmente, questi brevi – a volte brevissimi – racconti sono i segni, gli appunti, le annotazioni in tempo di guerra,
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lungo il suo orripilante e rovinoso procedere. Ma nei racconti non si parla di guerra, forse per esorcizzarla, oppure per recuperare il senso di una umanità a rischio, recupero affidato a temi altri, altri protagonisti, altri passati sullo sfondo di una Bosnia ed Erzegovina che oggi appare come un gigantesco esperimento degno di quello del dottor Frankenstein, i cui ‘pezzi’ sono le due entità, una serba e l’altra croato-musulmana, e il distretto di Brcko, a statuto speciale. La voce di Risojević rivendica il diritto a raccontare, a narrare, perché questo diritto è inalienabile ed è l’unico rimasto a chi abbia ancora voglia di esercitarlo. È il diritto che esercitano i personaggi del romanzo più famoso di Ivo Andrić, Il ponte sulla Drina, quando, dopo una terribile esondazione del fiume, che ha distrutto case e raccolti, gli abitanti di Visegrad indipendentemente dalla loro appartenenza religiosa ed etnica si riuniscono e si aiutano a vicenda e la sera si ritrovano per raccontarsi storie passate, e lo fanno proprio per sfidare la calamità naturale dimenticandola con la forza del loro narrare. Di fronte alla atrocità della guerra, alle immagini dei campi di sterminio, di fronte all’odio e alla vendetta, Risojević, partecipe del grande retaggio intellettuale degli scrittori del suo ormai ex Paese, rivendica con la forza della brevità dei propri racconti la necessità della narrazione che, pur passando da toni brillanti a quelli un po’ foschi, è salvifica e catartica. Durante le brutalità della guerra, questo libro di Risojević è una vera e propria incursione nel negativo, nella mancanza di speranza, è l’estremo tentativo di salvarsi attraverso il racconto di se stesso, delle proprie esperienze,
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delle minuzie del proprio passato. L’atteggiamento di Risojević è come quello espresso da Andrić nel suo discorso di ringraziamento alla cerimonia del premio Nobel nel 1961: Lasciatemi esprimere il mio personale desiderio, ché il racconto che il narratore odierno scrive ai propri contemporanei, indipendentemente dalla sua forma e contenuto, non sia avvelenato dall’odio né stordito dal tuono delle armi letali, bensì sia il più possibile ispirato dall’amore e condotto dalla larghezza di vedute e dalla serenità dello spirito libero dell’uomo. Poiché il narratore e la sua opera non servono a niente se in un modo o nell’altro non servono l’uomo e l’umanità.
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In guerra I racconti più brevi al mondo La guerra è lo sfondo dove riescono i racconti più brevi al mondo. Così come fino a ieri, in una notte di tempesta, un tronco grosso veniva abbattuto o bruciato da un fulmine, così la guerra oggi falcia numerosi uomini. Quei racconti, però, non si possono mai raccontare fino alla fine – forse senti una pietra sul cuore? La senti! Questo è abbastanza.
Introduzione I condomini dell’ex Jugoslavia di Danilo Capasso Nel 1975 lo scrittore britannico James G. Ballard pubblicò un romanzo breve dal titolo High Rise, in traduzione italiana Il condominio. Si tratta di una vicenda, anzi di varie vicende, che accadono a Londra in un grande complesso residenziale capace di ospitare più di duemila persone. Il grattacielo è dotato di tutte le comodità: piscine, scuola materna, banca, supermercato, palestra… Gli inquilini dell’edificio appartengono a diversi strati sociali, ma comunque hanno tutti un lavoro, da quello più umile fino a quello dei professionisti strapagati. A un certo punto questa convivenza – che altro non era che un frequentarsi più o meno tra vicini, incontrarsi, salutarsi, chiacchierare nei luoghi di ritrovo dell’immenso palazzo – viene bruscamente interrotta da un guasto elettrico che lascia per quindici minuti al buio tre piani dello stabile. Da quel momento in poi antagonismi, rancori, screzi e rivalità affiorano violentemente mettendo gli uni contro gli altri, tutti contro tutti, in un sanguinario gioco al massacro con conseguente finale degno di una tragedia greca. La trama dell’opera di Ballard può essere assunta come quella della guerra svoltasi nell’ultimo decennio del Secolo breve in Bosnia ed Erzegovina. Gente che fino al giorno prima si frequentava, organizzava insieme feste e celebrazioni come battesimi e matrimoni, persone che non chiudevano quasi mai la porta d’in-
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gresso perché il vicino potesse entrare liberamente e passare del tempo sorseggiando il caffè o la grappa, proprio questa gente il giorno dopo e da quel giorno in poi era improvvisamente pronta a seviziare, a torturare, a violentare e a uccidere il proprio vicino. Un buio totale della mente, il sonno della ragione che scatena una violenza inaudita, bestiale. Chi ha acceso la miccia, chi ha fatto scattare quel ‘click’ perché a luce spenta si potesse scatenare una ferocia tale che ha portato a sgozzare e a macellare delle persone? A queste domande corrispondono tante possibili risposte, sono stati forniti tanti pareri e congetturate tante teorie del complotto nell’attesa di prove che provengano da qualche archivio. Dal 1992 fino alla fine del ‘maledetto’ Secolo breve la guerra fratricida nella ex Jugoslavia ha scatenato una bufera mediatica ed editoriale formidabile. Diverse case editrici, scrittori, giornalisti, esperti storici e politici hanno pubblicato valanghe di materiale su quello che stava succedendo nei Balcani. Ivo Andrić, premio Nobel per la letteratura nel 1961, è stato ripreso e ristampato con la speranza o la pretesa di trovare nei suoi scritti una chiave interpretativa; altri scrittori contemporanei, come Miljenko Jergović, venivano subito tradotti e pubblicati; insomma da tutta la penisola italiana ci si affacciava alla finestra, si posava l’orecchio al muro o ci si attaccava allo spioncino della porta per capire cosa succedesse nella casa del vicino: cos’erano quella grida? La classica aberrante scena del marito che picchia la moglie? Sì, ma nei Balcani si esagera: si sentono anche botti, spari, crolli. E alla fine le normali
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reazioni: qualcuno ha chiamato la polizia perché quel chiasso assordante finisse e le forze armate della Comunità internazionale hanno fatto il loro ingresso sfondando la porta del vicino, la maggioranza si è chiusa in casa affidandosi al consolidato motto ‘affari loro, se la sbrighino da soli’; solo una minoranza si è accorta che dall’ingresso spalancato del vicino grondava sangue, e alcuni coraggiosi, come Erri De Luca, si sono avventurati in quell’appartamento degli orrori per capire, per chiedere cosa stesse succedendo e per vedere se ci fosse bisogno di aiuto. Dai fiumi di sangue a quelli di inchiostro, di immagini, di lacrime, di parole arrotate dalla presenza costante di una ‘r’, considerata semivocale. E poi giudizi, analisi, sentenze, evidenze, supposizioni e supponenze su una guerra che è stata un tripudio di aggettivi qualificativi ma nello stesso tempo disqualificanti, approssimativi e ossimorici come ‘etnica’, ‘civile’, ‘umanitaria’, ‘ancestrale’, ‘purificatoria’, ‘inesorabile’, ‘stupida’, ‘intelligente’ (come le bombe) e, ancora, ‘la guerra di tutti contro tutti’. Ma prima di avere questa caratteristica, la guerra, questa guerra nella ex Jugoslavia, questa guerra in Bosnia ed Erzegovina è stata una guerra interiore. Sì, la guerra di sé contro se stesso, quando ciascuno ha scoperto improvvisamente di essere o di dover essere un bosgnacco, un croato o un serbo, quando ha scoperto di avere o di dover avere una religione: islamica, cattolica o ortodossa, quartum non datur; anzi chi non era nessuna di queste tre ‘essenze’, bensì ebreo, rom, ateo o di altra nazionalità e religione, era tagliato fuori dal gioco della guerra: era nessuno, non aveva neanche diritto di arrabbiarsi con se stesso. La guerra interiore
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di sé contro se stesso è la più lancinante, la più pericolosa, perché ti violenta, violenta il mondo interiore e conseguentemente esteriore che ha sempre costituito il guscio dell’esistenza. È la guerra più spietata perché non ti lascia via di scelta: o rifiuti il mostro che ti sta avvolgendo o lo abbracci, e allora scopri di essere stato sempre vittima, ti ricordi improvvisamente che gli avi del tuo vicino hanno sgozzato i tuoi e non puoi ignorare il richiamo del sangue; adesso devi restituire il favore e sgozzare quel discendente con cui fino al giorno prima ti ubriacavi o giocavi a pallacanestro. Ma poi non basta più il vicino; il richiamo del sangue è ululante, dispotico: vuole essere soddisfatto, e allora spari in testa a uno sconosciuto, violenti una donna che non hai mai visto prima, incendi la casa in un villaggio dove non sei mai stato perché quello sconosciuto, quella donna e quel villaggio appartengono alle altre due unità. Tu sei Uno e devi eliminare Due e Tre; tu sei Due e devi eliminare Uno e Tre; tu sei Tre e devi eliminare Uno e Due. È il gioco dei tre numeri: l’importante è sapere da che parte si sta, a quale numero si appartiene. Sì, ma in questa scelta bisogna essere veloci, il tempo è poco e non consente riflessioni, dubbi, ripensamenti: sii veloce, il tempo è breve, la tua vita è breve.
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Lo sguardo e la paura A metà frase, ogni volta, mi attende il suo sguardo, duro come il calcio del fucile. Accorcio la frase, cambio pensiero, ma lo sguardo ugualmente resta sulla mia fronte come la crepa di una futura ferita. Per quel colpo cado in un abisso e l’angoscia sgorga dalla mia bocca.
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