MAG numero 2

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17 IL REaLISmO è uN fIORE

Alessandro Rabottini

14 EROI aNIma, INfORmazIONE, maLINcONIa, LINguaggIO

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Danilo Eccher Collezioni

numeRo

magazINE D'aRTE DELLa gam pERIODIcO giugno 2011 – SeTTemBRe 2011 gaLLeRia CiViCa D'aRTe moDeRna e ConTemPoRanea Di ToRino

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IL REaLISmO è uN fIORE

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sezione a cura di Alessandro Rabottini

La sezione contiene i contributi di: EmaNuELa DE cEccO E BORIS gROyS 19 aNSELm fRaNkE 24 aRa h. mERjIaN 27 LucIaNO faBRO E caRLa LONzI 31 aa BRONSON 39

cOLLEzIONI

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cOS’è IL REaLISmO OggI?

EROI

aLESSaNDRO RaBOTTINI curatore di questo numero

a cura di Danilo Eccher

6 cOLLEzIONI gam

anima, inFormaZionE malinconia, linGuaGGio

IN mOSTRa

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mag gam magazine numeRo 2 anno ii giugno – SeTTemBRe 2011 chiuso in redazione il 27 maggio 2011 Direttore Danilo Eccher Redazione Arianna Bona, Sara d’Alessandro, Alessandro Isaia, Daniela Matteu, Gregorio Mazzonis hanno collaborato a questo numero: Anna Musini e Alessandro Rabottini

IN mOSTRa

ENRIcO REffO: LO SpLENDORE DEL SacRO di Sara d’Alessandro

RuBRIchE

pIER paOLO paSOLINI

Tra nEorEalismo E nEo-aVanGuardia di Ara H. Merjian

NEw ENTRy testo di Giuseppe Penone

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BackSTagE a cura di Arianna Bona

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Traduzioni Rossella Bernascone 34|39| Fay Ledvinka 6|8|31| Laura Traversi 5|10|12|14|17|18|24|27|43|44| La traduzione dell’intervista a Boris Groys è a cura di Emanuela De Cecco Progetto grafico Design testata, impaginazione e consulenza Labxyz.com - Roma - info@labxyz.com Stampa Tipograf srl - Roma Ringraziamenti Claudio Abate, Archivio Giulio Paolini, Archivio Pierpaolo Pasolini, Archivio Storico Triennale di Milano, Associazione Cinema Zero Pordenone, Virginia Bertone, Ester Borgese, AA Bronson, Cineteca del Friuli, Andrea Crozzoli, Emanuela De Cecco, Maddalena Disch, et-al edizioni, Silvia Fabro, Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris, Friedrich Petzel gallery, Galleria Giò Marconi, gb Agency, Tanja Gentilini, Massimo Grimaldi, Carlotta Guerra, JRP|Ringier Kunstverlag, Laboratorio di restauro Soseishi, Maurizio Lazzarato, Luckyred, MAMBO Bologna, Angela Melitopoulos, Anna Musini, Maria Teresa Pennoni, Alice Pierobon, Studio Fabio Mauri. gam galleria civica d’arte moderna e contemporanea, Torino Via Magenta 31, 10128 Torino Centralino + 39 011 4429518 Segreteria + 39 011 4429595 gam@fondazionetorinomusei.it comunicazionegam@fondazionetorinomusei.it www.gamtorino.it orari di apertura collezioni e mostre da martedì a domenica dalle 10:00 alle 18:00 lunedì chiuso fondazione Torino musei città di Torino con il contributo straordinario di fondazione cRT Periodico della GAM - Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino. Registrato presso il Tribunale di Torino aut. n.12/2011


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EDITORIaLE Danilo Eccher – Direttore della GAM

Giunti al secondo numero di MAG ci troviamo ad aff rontare due temi contrastanti: il realismo, scelto dal curatore di questa edizione, Alessandro Rabottini, come fi lo conduttore della rivista, e l’eroe nella sua singolarità, punto di partenza della grande mostra collettiva Eroi, in programma alla GAM fi no al 9 ottobre 2011. Si tratta di concetti contrastanti ma assimilabili proprio in quanto soggetti a interpretazioni e forzature che nel tempo ne hanno modificato il senso, fi no, a volte, a inquinarlo. Da un lato il realismo, che nei vari saggi qui presentati è indagato in tutte le differenti declinazioni novecentesche, dall’idealismo socialista di Guttuso –ammirabile al secondo piano delle collezioni GAM nella sezione dedicata al Linguaggio– all’oggettualità minimalista, dal simbolismo pasoliniano a quello dell’Arte Povera, per fi nire con il contemporaneo realismo prodotto dai media di massa. Ogni “realismo” ha fi nito per scontrarsi con altri “realismi”, presentandosi come detentore del “vero” e scivolando, nei casi peggiori, nel dogmatismo. Eppure le sue diverse espressioni hanno portato nelle arti ogni volta valori nuovi, e nuovi linguaggi, che ne testimoniano il fondamentale aspetto interpretativo e conoscitivo. Dall’altro lato, l’eroe: figura accettata solo quando identificata con un passato lontano e possibilmente mitico (l’eroe dell’Unità d’Italia, l’eroe partigiano) ma pericolosissima quando collocata nel presente. L’eroe si è caricato nel tempo di ideali conservatori, tradizionali, facendosi portavoce di una destra cupa e retorica, lontanissima non solo dal superuomo nietzschiano, ma anche dall’interventismo impetuoso di Marinetti. Ma l’eroe può essere rivisto nei suoi connotati positivi, nella capacità di scelte coraggiose e di resistenza al proprio tempo, di presa di posizione, ed è in questo senso che se ne ritrova il valore attuale, artistico e storico. Misurarsi con questi due concetti non significa, né nel caso del magazine, né della mostra, pretendere di off rire un’analisi esaustiva della questione. Assume invece significato in quanto soddisfa uno dei doveri fondamentali di ogni istituzione culturale: propone al pubblico una ridefi nizione, avviando una riflessione che possa, speriamo, essere utile a ridefi nire categorie di pensiero troppo spesso date per scontate.

With our second issue of MAG we come to address two contrasting topics: on the one hand is realism – the subject chosen by the curator of the present edition Alessandro Rabottini as its main theme, and on the other, the hero in its uniqueness, which is the starting point of the great group show EROI on display at GAM until October 9, 2011. Two seemingly contrasting concepts that can however be assimilated, as both have been liable to interpretations and misrepresentations that have eventually altered their meaning, to point of even corrupting it now and then. So we have realism, investigated here in all its different 20th century variations, from Guttuso’s socialist idealism –which can be admired on the second floor in the Permanent Collections exhibit area, and specifically in the Language section– to minimalist objectiveness, and from Pasolini’s symbolism to that of Arte Povera, to finally end with the contemporary realism that mass-media constantly produce. Each “realism” has come to clash with the other “realisms”, each claiming to be the holder of the “real”, and in the worst cases even creeping into dogmatism. Yet, each time its multifarious manifestations in the arts have brought about new values and new languages, witnessing realism’s fundamental interpretative and cognitive value. And we have the hero figure, which is more easily accepted when it can be identified with a remote and possibly mythical past (the hero of Italy’s unification, or the partisan hero), but it is often considered dangerous when set in the present. With time, the hero figure has been loaded with conservative and traditional ideals, giving voice to a grim and rhetorical right wing that is very distant not only from Nietzsche’s Übermensch, but also from the impetuous interventionism of Futurist Marinetti. However, heroes can be reinterpreted through their positive connotations: they are the ones who have the ability to make brave decisions and to resist to their own time, and yes, to defend their opinions. It is in this sense that we can recognize their present artistic –as well as historic– value. Addressing these two concepts in both our magazine and temporary exhibition does not mean that we claim to offer a comprehensive analysis of such elaborate issues. Instead we want to bring in new meanings, meeting one of the fundamental duties of every cultural institution: that is, presenting a different definition to the public to spark discussions that will hopefully prove to be useful in redefining those categories of thought which are too often taken for granted.


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cOLLEzIONI aniMa, inForMaZione, Malinconia, linGuaGGio

foto © P. Robino

IL DESTINO DELL’aNIma Riflessione intorno a un concetto forse dimenticato di Anna Musini Il percorso si apre con un’introduzione dai toni romantici rappresentata dall’imponente personificazione della Religione nella scultura di Spinazzi e dalle figure letterarie e storico-religiose protagoniste dei dipinti di autori ottocenteschi quali Maso Gilli e Eleuterio Pagliano. Emblema dell’anima tormentata è il personaggio dell’Innominato ritratto in

ANIMA collezioni permanenti

10 53 salE

oPErE

PriMo Piano

Tema scelto da

vITO maNcuSO Professore ordinario di Teologia moderna e contemporanea presso l‘università san raffaele di milano.

atteggiamento pensoso da Andrea Gastaldi. “L’Innominato, che era stato come portato lì per forza da una smania inesplicabile, piuttosto che condotto da un determinato disegno, ci stava anche come per forza, straziato da due passioni opposte, quel desiderio e quella speranza di trovare un refrigerio al tormento interno, e dall’altra parte una stizza, una vergogna di venir lì come un pentito, come un sottomesso, come un miserabile, a confessarsi in colpa, a implorare un uomo: e non trovava parole, né quasi ne cercava”. (Promessi Sposi, cap. XXIII) Nelle sale successive della mostra opere realizzate in epoche distanti e con tecniche diverse sono messe in dialogo tra di loro off rendo inediti approcci alla riflessione intorno al concetto dell’anima e della vita spirituale. La dimensione rituale e sacrale della religione viene espressa nei gesti liturgico-performativi di Hermann Nitsch e nelle combustioni di Nunzio così come nel dipinto ottocentesco di Ludovico Raymond. La cultura orientale

e la filosofia zen di Hidetoshi Nagasawa dialogano con il raffinato decorativismo di Bonatto Minella, i cui dipinti sono ricchi di motivi ornamentali visibili nei profili dorati delle vesti e dei drappi. L’oro diviene protagonista quale massima espressione della spiritualità nello splendore dei fondali delle icone di Francesco Hayez così come nel Portrait Relief che Yves Klein realizzò per rendere omaggio all’amico defunto Claude Pascal, famoso musicista jazz. Una chiara ricerca simbolica e religiosa si ritrova nei monumenti funebri scolpiti con maestria nel gesso da Leonardo Bistolfi e posti a confronto con il capolavoro Lo Specchio della vita di Pellizza da Volpedo e il dipinto ad olio su cera di Sicilia, La Luz que se apaga, (La luce che si spegne). All’interno del percorso emerge poi la dimensione della sofferenza dell’anima umana posta in relazione costante con esperienze di dolore e con la morte, come nella grande scultura Miracolo (Olocausto) di Marino Marini e nella Virtù del Fornaio in Carrozza di Mimmo


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Paladino; inquietudine e tormento dello spirito vengono espressi al culmine nei tratti surreali di Alberto Savinio e Carol Rama. Nelle ultime sale domina una visione panteistica: le ante delle finestre dell’opera Dagli Scuri Cacciati di Marco Gastini sembrano proprio spalancarsi sulle vedute ottocentesche di Fontanesi e sul cosmo puro e assoluto raffigurato da Gino De Dominicis. Il percorso si conclude con il grande dittico di Anselm Kiefer, Einschüsse, raffigurante le cime ghiacciate che sono state teatro di una battaglia: la figura umana è assente ed è percepita solo l’anima che si specchia nell’immensità del paesaggio. foto © P. Robino

The exhibition opens with a Romantic introduction created by the imposing personification of Religion in one of Spinazzi’s sculptures, and the literary, historical and religious figures who are the subjects of the works by XIX century painters like Maso Gilli and Eleuterio Pagliano. The symbol of the tormented soul is the Innominato (The Unnamable) character portrayed in a thoughtful pose by Andrea Gastaldi. “The Unnamed, who had, as it were, been forcibly carried there by an inexplicable compulsion, rather than led by a determinate intention, now stood there, also as it were by compulsion, torn by two contending feelings: on the one side, a desire and confused hope of meeting with some alleviation of his inward torment; on the other, a feeling of self - rebuked shame at having come thither, like a penitent, subdued, and wretched, to confess himself guilty, and to make supplication to a man: he was at a loss for words, and, indeed, scarcely sought for them”. (I Promessi Sposi Or The Betrothed, ch. XXIII) In the other spaces of the exhibition there are works from distant times and of different techniques, woven together to create unedited dialogues and approaches towards reflection on the soul, and spiritual life. The ritualistic and sacred dimensions of religion are expressed in the liturgical and dramatic gestures of Hermann Nitsch and Nunzio’s combustion in the XIX century painting by Ludovico Raymond. The oriental culture and zen philosophy of Hidetoshi Nagasawa dialogue with the refined ornaments in Bonatto Minella’s works, paintings rich in ornamental designs and the golden silhouettes of vestments

foto © P. Robino

and clothes. Gold becomes the most relevant feature as the highest expression of spirituality in the splendor of the icon backgrounds, as in Francesco Hayez works, and in Portrait Relief realized by Yves Klein as homage to his deceased friend Claude Pascal, famous jazz musician. A clear symbolic and religious research is displayed in the funeral monuments sculpted in plaster by the master Leonardo Bistolfi and confronted with the masterpiece Lo Specchio della vita (The Mirror of Life) by Pellizza da Volpedo and the painting in oil on wax by Sicilia, La Luz que se apaga (Fading light). Following the exhibition path, the dimension of the suffering of the human soul constantly arises in relationship to death and pain, as in the enormous sculpture Miracolo (Olocausto) [Miracle (The Holocaust)] by Marino Marini and in Virtù

del Fornaio in Carrozza (The Virtue of a Baker in a Carrier) by Mimmo Paladino. Anxiety and torment of the spirit are expressed at their maximum degree in the surreal traits of Alberto Savinio and Carol Rama. The last rooms are given over to a pantheistic vision: the window shutters of the work Dagli Scuri Cacciati (Driven Away from the Shutters) by Marco Gastini seem to open on XIX century landscapes by Fontanesi, and on the pure and absolute cosmos represented by Gino De Dominicis. The exhibition path ends with the great diptych by Anselm Kiefer, Einschüsse, which portrays the setting of a great battle among glacier summits: no human figure is depicted but is perceived in the soul reflecting in the immensity of the landscape.


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cOLLEzIONI aniMa, inForMaZione, Malinconia, linGuaGGio

foto © P. Robino

La cOmpLESSIT cOmpLESSITà à DELLa vITa l’informazione all’origine della vita secondo la Fisica di Sara d’Alessandro

INFORMAZIONE collezioni permanenti

7 55 salE

oPErE

PriMo Piano

Tema scelto da

maRIO RaSETTI Professore ordinario di Fisica teorica, modelli e metodi matematici al Politecnico di Torino.

Quando parliamo di “informazione” ci riferiamo comunemente al mondo dei mass media, stampa e televisione. È completamente diversa l’accezione scientifica del termine che defi nisce invece l’informazione come grandezza, paragonabile a massa, energia, velocità. Si tratta di un concetto fondamentale non solo per la comprensione del mondo vivente –scambio di informazione fra cellule, ad esempio– ma persino di quello inerte, in quanto svela, a livello microscopico, in che modo le molecole possano funzionare come portatrici di simboli e codici, nonché del mondo virtuale, essendo l’informazione, e in particolare il modo in cui essa viene rappresentata, un concetto chiave nel campo dell’intelligenza artificiale. Il percorso nelle collezioni del museo tende a sottolineare da un lato l’idea di natura selvaggia, in crescita vitale, dall’altro le suggestioni che dalla

foto © P. Robino

classificazione scientifica giungono all’arte contemporanea, sia nelle ricerche di forme geometriche in grado di sintetizzare la visione, sia nell’uso di moduli, con allusione agli strumenti della catalogazione. Questi differenti orientamenti sono già, in nuce, nel confronto fra le ordinate quattro stagioni atmosferiche di Reviglio e la Foresta Vergine di Giuseppe Camino, opera non esposta da decenni, interessante per le varie influenze sottese: Camino, allievo fra gli altri di Benevello e


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foto © P. Robino

d’Azeglio, si muove qui fra il paesaggismo piemontese e un oscuro romanticismo, sensibile alla poetica del sublime nella scelta di una natura esotica e ferina. È una natura naturans, in mutazione, quella che caratterizza la sala successiva, in particolare nell’accostamento fra Pinot Gallizio e Mario Merz. Merz fu influenzato da Gallizio, soprattutto prima del ’65–‘66, come ben espresso dalla libertà del colore e delle invenzioni pittoriche di Circuito che ritornano nell’ nell’Animale terribile del 1981: quello che in Gallizio era espressione fantastica assume però in Merz un tratto archetipico. In successione, il passaggio all’Arte Povera –che ha nel percorso uno spazio privilegiato– mostra una parabola che riconduce l’azione artistica agli elementi primigeni della natura, fi no a raggiungere, con Gilberto Zorio, suggestioni alchemiche. La sala successiva, dedicata alla sintesi della visione, apre un’interessante confronto fra il tratto di Propagazione di Penone, in cui il segno continuo segue l’andamento di crescita come negli anelli del tronco naturale, e Il movimento delle cose di Dadamaino, in cui tratti sottili e spezzati conducono alla defi nizione di uno spazio e di un tempo fluttuante. Il percorso prosegue con alcuni dei più importanti capolavori delle avanguardie storiche delle collezioni GAM, fra cui Otto Dix, Francis Picabia, Pablo Picasso, avvicinati a Senza titolo di Ugo Nespolo, recentissimo dono dell’artista al museo.

foto © P. Robino

A conclusione, la vitalità di Fautrier, Afro e Cragg si risolve nei moduli di Pedro Cabrita Reis, che come nell’ nell’Achrome di Manzoni introducono con il monocromo la fisicità della materia, il leggero dislivello, la minima sfasatura ottica.

The term “Information” commonly refers to mass media communication, world press, and television. But the scientific meaning of the term is totally different: it actually defines information as a magnitude, comparable to mass, energy and speed. It is therefore a fundamental concept for the living world –as for example the exchange of cell information– for the non living world, as it reveals at a microscopic level how molecules can work as code and sign carriers; and the virtual world, where information, and in particular how it is represented, is a key concept in the field of artificial intelligence. The path through the museum’s collections underlines on the

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one side the idea of a wild nature, vitally growing, and on the other side suggestions that start from scientific classification and reach contemporary art through research into geometrical shapes capable of synthesizing vision, as well as through the use of schemes alluding to cataloguing instruments. These different orientations are already present, in nuce, in Reviglio’s four atmospheric seasons and in the Foresta Vergine (Virgin Forest) by Giuseppe Camino, work unexhibited for decades, interesting for its various imbued influences: Camino, student of Benevello and d’Azeglio, moves here from piedmontese landscape painting to an obscure Romanticism, sensitive to the sublime poetic in the choice of an exotic and ferine nature. It is a mutating natura naturans, which is characterized in the following room, in particular with the match of Pinot Gallizio and Mario Merz. Merz was influenced by Gallizio, mostly before ’65–‘66, as is well expressed in the freedom of color and painting techniques of Circuito (Circuit) which came back in 1981’s Animale terribile (Terrible Animal). What was for Gallizio a fantastic expression, became for Merz an archetypal feature. The passage to the Arte Povera –which has a place of honor in the layout– shows a parable which leads the artistic action back to the primordial elements of nature, until it arrives at alchemic nuances with Gilberto Zorio. The next room, dedicated to visual synthesis, opens an interesting confrontation between the stroke used for Propagazione (Propagation) by Penone, where the continuous sign follows the growth like tree circles, and that used for Il movimento delle cose (Movement of Things) by Dadamaino, where the strokes, fine and cracked, lead to the definition of a fluctuant time and space. Finally there are some of the most important avant-gardes masterpieces of the GAM collection, such as those by Otto Dix, Francis Picabia, and Pablo Picasso, next to Senza titolo (Untitled) by Ugo Nespolo, recently donated to the museum by the artist himself. At the end of the path, Fautrier, Afro e Cragg’s vitality is resolved in the modules of Pedro Cabrita Reis, which, as in Achrome by Manzoni, introduce the corporeity of matter, the slight gap, the minimal optic discrepancy, with monochrome.


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cOLLEzIONI aniMa, inForMaZione, Malinconia, linGuaGGio

foto © P. Robino

TORmENTO E fOLLIa la malinconia come stato psicopatologico di Arianna Bona La malinconia è esperienza psicopatologica, stato d’animo e anche straziante malattia che divora anima e corpo. Attraverso le quasi settanta opere selezionate nelle nove sale del percorso tematico, l’idea di malinconia è declinata nel confronto tra figura umana, pensiero, mondo esterno, paesaggi interiori.

MALINCONIA collezioni permanenti

9 69 salE

oPErE

secondo Piano

Tema scelto da

EugENIO BORgNa Primario Emerito di Psichiatria dell’ospedale maggiore di novara e libero docente in clinica delle malattie nervose e mentali all’università di milano.

Il prologo ottocentesco apre con l’elemento medico della follia: Pazzo di Luigi Onetti e La cella delle pazze di Giacomo Grosso. Il primo trae ispirazione dagli studi su genio, follia e comportamento criminale di cui, nella Torino di fi ne Ottocento, si occupava Lombroso. Il dipinto di Grosso, ispirato alla Storia di una Capinera di Verga, dialoga con le atmosfere di atemporalità e nostalgia di Angelo Morbelli in Un Natale! Al Pio Albergo Trivulzio e Asfi ssia in cui campeggia il relitto di un’azione disperata, una tavola imbandita testimone di una tragedia, emblema del tempo sospeso, dell’angoscia e di una identità disgregata. Il percorso continua con un approfondimento sul paesaggio, elemento che esercita un potere sommo sui sensi minati dall’esperienza malinconica. Suggestioni diverse scandite dal tempo atmosferico – i paesaggisti Bozzalla, Reviglione, Carutti di Cantogno – oppure legate ai ritmi dell’uomo. La Luna insonne di Calzolari, immersa in un irreale blu

notturno, si risolve nell’epifania di gesti e tempi domestici come svela la caffettiera posta di fronte al dipinto. Ancora, suggestioni rarefatte e di ispirazione metafisica restituiscono una dimensione storica, poetica e temporale: così Menzio, Nevelson e Boswell raccontano un mondo preda della paralisi e sospeso nel tempo. Infi ne, la malinconia è rappresentazione dell’assenza: le architetture rarefatte di Carlo Carrà o la contemplazione estatica, astratta e inafferrabile nei lavori di Giulio Paolini in cui solo l’arte esiste. Scrive Emily Dickinson: “Perché gli spettri ti possiedano / Non c’è bisogno di essere una stanza / non c’è bisogno di essere una casa / la mente ha corridoi che vanno oltre lo spazio materiale”. Disagio mentale e sensazione di vuoto si rapportano nei lavori di Casorati con intime sfaccettature di una condizione umana ostaggio della solitudine. De Chirico con la Natura morta con salame rende eterno un attimo, un accadimento lieve di quel quotidiano


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foto © P. Robino

foto © P. Robino

immemore del passato e ignaro del futuro. Nei lavori di Cremona, la mente diviene gravida di attenzioni per il dettaglio, rivolta alla cernita ossessiva di oggetti che abitano il suo studio torinese, torre d’avorio che protegge dal mondo esterno. La malinconia assume le forme di un meccanismo mentale inceppato, teatrino fiabesco, condizione di intima fragilità che Melotti mirabilmente restituisce con l’utilizzo di materiali precari e flebili: ceramica, seta, polistirolo e gesso restituiscono visioni di purezza formale e rigore astratto. Nella stessa sala le nature morte di De Pisis, sospese tra reale e irreale, evocano atmosfere incantate trafitte da ombre nere. In chiusura al percorso, le sfumature dell’animo malinconico si risolvono in visioni di fragilità interiore (Smith e Woodman) stati d’animo, attese e contemplazione (Sighicelli e Mayer) e simbologie di un tempo incrinato e pietrificato (Terence Koh).

Melancholia is a psychopathologic condition, a state of mind, and a heartbreaking illness that consumes both body and soul. Through seventy artworks displayed in nine dedicated rooms, the theme is unravelled covering the manifold aspects of melancholy, and its relationship to the human figure and the mind, to outer landscapes and inner worlds. The 19th century introductory room focuses on the medical aspect of madness with the works Pazzo (Madman) by Luigi Onetti and La cella della pazze (The (The Madwomen’s Cell) by Giacomo Grosso. The first piece was inspired by the studies on genius, madness and criminal behaviour that Lombroso carried out in Turin at the end of the century. While Grosso’s painting, based on Verga’s novel Storia di una Capinera, resonates with the timeless and nostalgic atmospheres of Morbelli’s Un Natale! Al Pio Albergo Trivulzio (A Christmas! at the Trivulzio Hospice) and Asfissia! (Asphyxia!) (Asphyxia!) where, filled with all (Asphyxia! the anguish of a fragmented identity, the remains of a banquet stand in a suspended

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moment in time, bearing witness to the most desperate act. The rooms that follow draw attention to the landscape, which becomes an overwhelming element for the senses undermined by the experience of melancholy. The different atmospheres are either marked by the weather – as in the different landscapes depicted by Bozzalla, Reviglione, and Carutti di Cantogno – or are connected to man’s natural rhythms. Calzolari’s sleepless La Luna (The Moon) is immersed in an unreal midnight blue, merging into the epiphany of a domestic time that is evoked by the coffee pot in front of the painting. Again, a mysteriously metaphysical ambience suggests a temporal yet poetical dimension: the works of Menzio, Nevelson and Boswell describe a world that is paralyzed and suspended in time. Finally, melancholia is represented through absence, as in Carlo Carrà’s rarefied architecture, or in the ecstatic and elusive contemplation that is suggested in Giulio Paolini’s work, where nothing exists but art. To quote Emily Dickinson: “One need not be a Chamber – to be Haunted – One need not to be a House – The Brain has Corridors – surpassing Material Place”. Such mental distress and the feeling of emptiness are related through the works of Casorati, showing the intimate aspects of a human condition caged in loneliness. With Natura morta con salame (Still (Still Life with Salami) De Chirico turns a moment into eternity by portraying a flash of everyday life that is forgetful of the past and unaware of the future. In Cremona’s works, the mind is charged with attention to details, with an obsessive selection of objects from the artist’s studio in Turin–the ivory tower where to find protection from the outside world. Melancholia takes on the form of a blocked mental mechanism: a fictional puppet theatre, a vulnerable intimate condition that Melotti represents using frail materials, such as ceramics, silk, styrofoam, and plaster, with visions of formal purity and abstract rigour. The same room hosts the enchanted atmospheres of De Pisis’ still-life works, which are penetrated by dark shadows. The thematic display closes with the tones of a melancholic soul visualized in the innermost fragility (Smith and Woodman) and in states of mind that are filled with contemplation and anticipation (Sighicelli and Mayer), or become symbols of a fractured and static past (Terence Koh).


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cOLLEzIONI aniMa, inForMaZione, Malinconia, linGuaGGio

foto © P. Robino

L’aLfaBETO DELLa vISIONE Il linguaggio dell’arte attraverso le collezioni GAM di Anna Musini Il percorso ha inizio con opere ottocentesche che condividono un carattere narrativo e che mostrano una comune fonte d’ispirazione nell’ambito letterario: la classicità della poetessa Saffo ritratta da Canova si relaziona con i toni epici e romantici in dipinti quali Astolfo debella le Arpie di Massimo d’Azeglio e La Signora di Monza col ritratto dell’amante

LINGUAGGIO collezioni permanenti

7 54 salE

oPErE

secondo Piano

Tema scelto da

SEBaSTIaNO maffETTONE Professore ordinario di Filosofia Politica presso la Facoltà di scienze Politiche della Luiss Guido Carli di Roma.

Egidio di Mosé Bianchi. La mostra prosegue mettendo a confronto gli autori che hanno compiuto una ricerca intorno ai codici propri del linguaggio artistico: la scomposizione del colore e delle forme pittoriche nelle Compenetrazioni Iridescenti di Giacomo Balla dialoga con lo Spazialismo di Fontana che rompe la bidimensionalità della pittura, e con la monocromia di Castellani scandita dal ritmo dei rilievi applicati con metodologia e rigore alla tela. Una piccola sala è poi dedicata interamente ad Alberto Burri, principale esponente dell’Informale in Italia. Il colore è protagonista nei capolavori l’Edera e A teatro: la pittura solforosa della scapigliatura che crea suggestioni e atmosfere viene posta in relazione con i contorni indefiniti di Tancredi e i tratti liquidi utilizzati da Giorgio Griffa. Diviene poi evidente la contaminazione del linguaggio dell’arte con i codici espressivi tratti dalla realtà contemporanea: i toni squillanti della segnaletica stradale, della

produzione industriale e seriale, del consumismo, e dei mass media sono dominanti nelle opere di Andy Warhol, Mario Schifano, Arman e Piero Gilardi. Il mondo fantastico di La Fontaine trova una trasposizione visiva tridimensionale nell’installazione di Mark Dion: gli animali impagliati, i bidoni mostrano una cristallizzazione della narrazione fantastica, i cui stralci sono scritti a mano sopra la latta come fossero etichette d’istruzione. Gli oggetti della quotidianità estrapolati dal loro contesto originario assumono valori simbolici e diventano essi stessi opera come Rajo Jack di Salvatore Scarpitta. Sullo sfondo di una porta di un garage con due pompe di benzina l’artista colloca la sua auto da corsa con la quale amava gareggiare. La macchina Rajo Jack Special 1964 era un’edizione dedicata ad un’icona americana, Dewey Gatson (1905–1956), meglio conosciuto con lo pseudonimo Jack DeSoto che fu uno dei primi corridori afro-americani a gareggiare


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foto © P. Robino

foto © P. Robino

negli Stati Uniti. Il percorso si conclude mostrando alcuni esempi in cui il linguaggio artistico assume i toni della riflessione politica e sociale come nel realismo di Gente in Strada (Passagg io Pedonale) di Guttuso e nella classicità del Paesaggio Urbano di Sironi. Infine intento divulgativo e di sensibilizzazione è espresso dall’opera di Nanni Balestrini: i collage realizzati mediante la rivista culturale francese La Quinzaine creano una poesia visiva.

Introducing the thematic display is a group of 19th century works whose narrative nature finds in literature the common source of inspiration: Canova’s classical representation of poetess Sappho is paired up with the epic and romantic tones of such paintings as Astolfo debella le Arpie ((Astolfo chasing the Harpies Harpies)) by Massimo d’Azeglio and La Signora di Monza col ritratto dell’amante Egidio (The Lady of Monza with Portrait of her Lover Egidio) by Mosé Bianchi. The thematic display proceeds by juxtaposing works by artists who have explored and experimented with the codes of art language: the geometry of colour and broken pictorial forms of Giacomo Balla’s Compenetrazioni Iridescenti

foto © P. Robino

(Iridescent Interpenetrations) are combined with Fontana’s Spatialism that breaks up the bi-dimensional character of painting, and with Castellani’s monochromes, which are modulated by the accurate rhythm of reliefs that are methodically applied onto the canvas. Next is the room devoted to Alberto Burri, one of the leading figures of Italian Art Informel. Moving on, colour plays again a central role in the two masterpieces of the Scapigliatura movement, Edera (Ivy) and A teatro ((At the Theatre Theatre): ): the hazy and evocative atmospheres of the two paintings are combined with the indefinite outlines of Tancredi’s work and Giorgio Griffa’s liquid traits. The merging of the expressive codes from contemporary reality into the language of art are clearly visible in the dynamic combinations of road signs, industrial and serial production techniques, and mass media and consumerist images that dominate the scene in the works by Andy Warhol, Mario Schifano, Arman and Piero Gilardi. Whereas La Fontaine’s fantastic fables find a new visual relocation in Mark Dion’s installation: stuffed animals and tin cans become a crystallized three-

dimensional version of the tales, with extracts of it being handwritten onto the tin, as if they were instruction labels. Everyday objects are extrapolated from their original contest and take on new symbolic meanings to become themselves a work of art, as in Salvatore Scarpitta’s piece titled Rajo Jack. With two gas pumps and a garage door in the background, the work frames the Rajo Jack Special 1964— the racecar that was dedicated to American icon, Dewey Gatson (1905–1956), better known as Jack DeSoto, one of the first African American racecar drivers in the US. The thematic trail ends with works whose artistic language takes on a social and political stance, as does Guttuso’s Realism in Gente in strada (Passaggio pedonale) [People on the street (Pedestrian Crossing)], or Sironi’s classical traits in Paesaggio Urbano (Urban Landscape). Finally, the visual poetry of Nanni Balestrini’s collages made of cut-outs from the French periodical La Quinzaine shows the intent to communicate to a larger audience to raise awareness.


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IN mOSTRa eRoi

EROI IN mOSTRa mOSTR

a cura di Danilo Eccher

La gam gaLLERIa cIvIca D’aRTE mODERNa E cONTEmpORaNEa pRESENTa, a paRTIRE DaL 19 maggIO 2011, La mOSTRa EROI, a cuRa DI DaNILO EcchER cON IL cONTRIBuTO DI aLESSaNDRO RaBOTTINI.

La mostra indaga il lavoro di quegli artisti che osano, che hanno il coraggio di operare una scelta fino a farsi portatori, con la loro arte, di nuovi valori sociali. La selezione è deliberatamente caduta su grandi opere, magniloquenti, alcune delle quali sono state ideate appositamente per questa esposizione. È l’Arte che nell’età postmoderna – spesso associata alla fine dei grandi ideali e delle sicurezze ideologiche – diventa resistenza individuale, fa dell’accumulazione di saperi la sua stessa forza, e in questo scenario analitico va oggi ripensato il gesto “eroico”. L’eroismo oggi non è più lotta solitaria di un uomo: non c’è possibile azione eclatante che non possa immediatamente essere assorbita come fatto di cronaca o evento televisivo dal sistema globale di

comunicazione. L’eroismo torna quindi alle sue caratteristiche originarie, volontà e ambizione, con il compito di ricostruire modelli ed etiche nuove, alternative possibili alla società. L’individualità dell’artista è il centro pulsante nell’opera di Christian Boltanski, che celebra l’unicità del singolo, ma in un trionfo di grande impatto teatrale di cui è egli stesso regista. Mario Merz si confronta con il cosmo intero, così come i capolavori assoluti di Anselm Kiefer mettono in scena il dramma della storia e della memoria che si fa universale e toccante. Danh Vo e Latifa Echakhch prediligono un eroismo simbolico, sedimentato nella memoria collettiva. Gli Eroi rimangono fieri nonostante le lacerazioni, e resistono fermamente, come quelli rappresentati

nei tratti sofferti di Georg Baselitz, oppure trovano la forza nei loro stessi incubi, come nelle installazioni perturbanti di Louise Bourgeois, o nella sofferenza come in Hermann Nitsch e Marina Abramovic. L’Eroe è umano e vivo nel dipinto di Jenny Saville; il mito contemporaneo di Maria Callas diventa un’icona per Francesco Vezzoli; i calciatori assumono un’aurea di santità in Francesco Clemente. Nei grandi pannelli di Sean Scully, che combinano insieme astrattismo, pennellata densa e un caldo cromatismo, lo schema geometrico non ne occulta l’origine sottilmente poetica. Per poter dare spazio a questo grande progetto sono occupati, per la prima volta, sia l’Exhibition Area, la grande sala recentemente rinnovata al primo piano, sia lo spazio dell’Underground Project. Eroi


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EROI exhibition area underground Project DAL

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19/05 09/10

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AL

A CURA DI DANILO ECCHER ARTISTI INVITATI

costituisce infatti il collegamento ideale fra il taglio istituzionale, più fortemente storico, e le esposizioni dedicate alle sperimentazioni contemporanee. Si vuole così sottolineare l’eterna attualità dell’eroismo poetico, le cui radici affondano nella nascita stessa dell’arte. Il catalogo della mostra, edito da Allemandi, riprende il carattere eroico, accostando i saggi di ambito storico-artistico con i versi di Patrizia Cavalli, grazie a uno straordinario testo poetico scritto per l’occasione. Completa il catalogo l’inquadramento filosofico affidato ad uno dei pensatori che hanno colto con maggiore precisione le dinamiche della società contemporanea, Antonio Negri. Teorico controverso, lontano dalla figura dell’intellettuale “assorto” nel suo stesso pensiero, Negri ha fornito una serie di analisi che non si sono limitate ad interpretare

IN ALTO

— Anselm Kiefer, Humbaba, 2009

© Anselm Kiefer/Courtesy White Cube London

— Danh Vo, Central rotunda/Winter garden, 2011 Courtesy l’artista, Galerie Isabella Bortolozzi, Berlin Vedute della mostra: © Claudio Abate sINIsTrA

— Latifa Echakhch, À chaque stencil une révolution, 2007 Courtesy l’artista, kamel mennour, Paris kaufmann repetto, Milano

— Pawel Althamer, Self-portrait, 1993

Courtesy Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino. Vedute della mostra: © Claudio Abate

l’esistente, ma hanno partecipato fortemente ad esso. Il catalogo contiene inoltre le immagini degli allestimenti, realizzate dal grande fotografo Claudio Abate secondo la sua personale interpretazione. Il progetto di allestimento degli spazi in cui è ospitata la mostra è a cura dell’architetto Bill Katz.

Marina Abramovic, Pawel Althamer; Georg Baselitz; Christian Boltanski; Louise Bourgeois; Francesco Clemente; Latifa Echakhch; General Idea; Ilya & Emilia Kabakov; Anselm Kiefer; Sigalit Landau; Mark Manders; Mario Merz; Mike Nelson; Hermann Nitsch; Michelangelo Pistoletto; Pietro Roccasalva; Jenny Saville; Sean Scully; Thomas Schütte; Cy Twombly; Francesco Vezzoli; Danh Vo. Beginning May 19, the GAM Civic Gallery of Modern and Contemporary Art presents the exhibition Eroi(Heroes) curated by Danilo Eccher and with contributions from Alessandro Rabottini. The exhibition explores the work of artists who carry out daring choices to the point of becoming the carriers of new social values through their own art. The


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IN mOSTRa eRoi sINIsTrA

selection has deliberately included several impressive large-scale works, some of which have been specifically conceived for this exhibition. In the postmodern age – which is often associated with the collapse of great ideals and established ideologies – Art becomes itself an act of individual resistance, gathering its own strength from the accumulation of knowledge. Today, the “heroic” act must thus be reelaborated within an analytic scenario, in which heroism can not just be interpreted as the solitary struggle of one man: any sensational deed is immediately absorbed as news item, or it rapidly becomes a television event swallowed by the great

machine of global communication. Heroism is thus brought back to its original qualities – will and ambition – and it takes on the task to rebuild a new ethics and new models, as possible social alternatives. The individuality of the artist remains central to the works by Christian Boltanski, who celebrates the uniqueness of individual existence in one of his intense theatrical compositions. Conversely, Mario Merz relates to the entire cosmos, just as Anselm Kiefer’s masterpieces stage a universal and poignant drama of history, while Danh Vo and Latifa Echakhch opt for a symbolic heroism that is grounded in our collective memory. There are heroes who overcome sorrows and wounds, resisting against

— Christian Boltanski, Containers, 2010 Children, 2011

Courtesy Kewenig Galerie, Köln Vedute della mostra: © Claudio Abate IN bAssO

— Hermann Nitsch, Schüttbilder, 34. Malaktion, Krems, 1994 Hemd, 1989 Schüttbild, 2010

Courtesy Hermann Nitsch. Vedute della mostra: © Claudio Abate

all odds as in Georg Baselitz’ heart-felt portraits, or the ones that find strength in their own nightmares, as in Louise Bourgeois’s disturbing installations, or even in their own suffering, as in the works by Hermann Nitsch and Marina Abramovic. The hero is a live human being in Jenny Saville’s painting; while the contemporary myth of Maria Callas becomes an icon in the work by Francesco Vezzoli, and football players take on an aura of holiness for Francesco Clemente. And despite their geometrical construction, Sean Scully’s large panels, combining abstraction, thick brushstrokes, and contrasting warm hues, ultimately reveal the hero’s lightly poetical origin. In order to allow an adequate space

for this major project, for the first time the same exhibition develops in two different display areas, thus adjoining the Main Exhibition Area – the recently renovated exhibition space on the first floor – and the rooms usually devoted to the Underground Project. The Eroi exhibit ideally draws a link between the institutional and deeply historical side of the Museum and its more contemporary and experimental section. This is to underline the timeless relevance of poetic heroism that remains strongly rooted in the origins of art itself. The accompanying catalogue – edited by Allemandi – delves into the hero theme with an interesting combination of art historical essays and the poetry of Patrizia Cavalli, who has contributed with a poetical text specifically created for this exhibit. The philosophical setting for this publication has been provided by Antonio Negri, who has always been able to capture with fine precision the dynamics of our society. The Italian theoretician – definitely not the type of intellectual who is “lost in his own thoughts,” and also quite a controversial figure – has presented a series of investigations that, rather than just being an interpretation of the present, consist of a relevant and true act of participation in it. The catalogue also includes photographs by celebrated photographer Claudio Abate, who has captured the works on display with his distinctive artistic style. The exhibition space has been designed by architect Bill Katz.


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Magazine d'Arte della Gam periodico giugno 2011 — SETTEMBRE 2011

Il realismo è un fiore di Alessandro Rabottini Quanto nella storia dell’arte conosciamo come “realismo” ha in sé qualcosa di sottilmente paradossale: da una parte esso si fonda su un’estrema aderenza della rappresentazione alla realtà che l’artista respira nel suo tempo –un’aderenza che è anche lo spazio del fervore etico che il realismo esprime– mentre, dall’altra, le invenzioni formali che di volta in volta contribuiscono a definirlo sono difficili da percepire in quanto tali quando le condizioni storiche che le hanno prodotte sono ormai trascorse. È come se il realismo fosse un fiore, il cui potenziale di denuncia sociale e di rivoluzione formale è condannato ad appassire poco dopo essersi dischiuso, trasformandosi in breve in un residuo formale di difficile comprensione nella sua interezza. Eppure, proprio come un fiore, il realismo ha le sue stagioni e le sue cicliche primavere. Se è vero che a ogni sua comparsa il realismo produce uno shock formale il cui fine è creare nuovi spazi di consapevolezza etica nel suo pubblico,

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ALESSANDRO RABOTTINI Critico d’arte e curatore. Come Capo Curatore alla GAMeC di Bergamo ha curato mostre di Sterling Ruby, Victor Man, Aaron Curry, Mircea Cantor, Latifa Echakhch, Pietro Roccasalva, Keren Cytter, Pratchaya Phintong. Insegna Storia della Critica d’Arte presso l’Accademia di Belle Arti di Bergamo e scrive su Frieze, Modern Painters, Flash Art, Mousse, Kaleidoscope. Tra i prossimi progetti ci sono mostre di Tim Rollins + KOS e Guillaume Leblon. Art critic and curator. As Chief Curator of the GAMeC in Bergamo he has curated solo shows of Sterling Ruby, Victor Man, Aaron Curry, Mircea Cantor, Latifa Echakhch, Pietro Roccasalva, Keren Cytter, Pratchaya Phintong. He teaches History of Art Criticism at the Accademia di Belle Arti in Bergamo and is a contributor to Frieze, Modern Painters, Flash Art, Mousse, Kaleidoscope. Among his upcoming projects are solo shows of Tim Rollins + K.O.S. and Guillaume Leblon.

quanto è possibile ricostruire a livello percettivo quel medesimo shock una volta che i parametri politici ed estetici della società a cui era indirizzato sono cambiati? E se il realismo è tale quando crea una frizione necessaria tra la realtà e la sua rappresentazione, che cosa rimane di esso nelle epoche successive, quando alla realtà subentra la storia e alla rappresentazione la storia dell’arte? Oggi la “realtà” sembra essere ovunque e in ogni momento: essa non soltanto ci raggiunge senza sosta e in modo sempre più drammatico attraverso l’informazione –sollecitando una risposta emotiva che spesso si esaurisce nella pura presa di coscienza– ma è la finzione stessa che sembra non poter fare più a meno della realtà, della sua possibilità di eccitarci. Credo che oggi sia necessario ripensare la categoria del realismo in arte per non abdicare alla possibilità che questa resti uno spazio di pensiero critico e, allo stesso tempo, per non accontentarci di una definizione di realismo come pura documentazione. Questa sezione di MAG e il ciclo d’incontri che l’accompagna sono un tentativo di analizzare il concetto di realismo per poter illuminare il dibattito attuale sui suoi limiti e sulle sue nuove possibilità. Realism is a Flower by Alessandro Rabottini What Art History defines as “Realism” actually bears in itself a subtle paradox: on the one hand it develops from the extremely faithful representation of contemporary reality as the artist perceives it – an adherence that also leaves space to the fervent ethical stances that realism

expresses – while, on the other hand, the formal innovations that repeatedly play a part in its definition can no longer be easily perceived as such, once the historical circumstances that produced them have passed. It is as if Realism were a flower, as if its potential for social criticism and formal revolution were doomed to gradually wither right after blooming, rapidly becoming a mere formal relic whose original entirety can not be fully grasped anymore. Yet, just like a flower, Realism follows its own seasons, cyclically going through its own spring. If it is true that every time it blossoms, Realism produces a formal shock as it creates new areas of ethical awareness in the public, to what extent can the experience of that same shock be recreated, once the political and aesthetical parameters of the society it was addressing have changed? And if Realism is such when it creates a required friction between reality and its representation, what is then left in the following ages, once history takes over reality and Art history replaces representation? Today, “reality” seems to be everywhere and in every moment: not only it relentlessly reaches us with dramatic intensity through the information network – urging us to an emotional response that is often limited to a mere acknowledgement of the facts – but also it is fiction itself that seems to no longer give up reality, and its power to stir the public. I believe we now need to redefine the current category of realism in art. This is to avoid giving up the space for critical thinking, while also claiming that realism can be more than just sheer documentation. This section of MAG and the accompanying program of meetings aim at investigating the concept of realism to shed light on the potentials and limitations of the ongoing debates.


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Il realismo è un fiore a cura di Alessandro Rabottini

i contributi / p. 19 Emanuela De Cecco (1965) è critica e curatrice, vive e lavora a Milano. È docente di Storia dell’arte contemporanea e cultura visuale presso la facoltà di Design e Arti della Libera Università di Bolzano. Ha collaborato e collabora con diverse riviste quali Flash Art, Juliet, Il Manifesto, Mousse Magazine, Rolling Stone. Ha pubblicato diversi saggi, l’ultimo dei quali è “Arte Mondo. Storia dell’arte, storie dell’arte”, Postmedia Books, 2010. Emanuela De Cecco (1965) lives and works in Milan. She is an art critic and curator and teaches Contemporary Art History and Visual Cultures at the Faculty of Art and Design at the Free University of Bozen. She worked and writes for “Flash Art”, “Juliet”, “Il Manifesto”, “Mousse Magazine”, “Rolling Stone”. She has published various essays, among which the recent “Arte Mondo. Storia dell’arte, storie dell’arte”, Postmedia Books, 2010. / p. 19 Boris Efimovich Groys (Berlino Est, 1947) è stato professore di Estetica, Teoria dei Media e Storia dell’Arte al Center for Art and Media Technology di Karlsruhe, e Docente di Russo e Lingue Slave presso la New York University. Protagonista della scena culturale non ufficiale dell’Unione Sovietica degli anni ’70, è noto per i suoi saggi filosofici e per i suoi contributi sulla teoria e critica artistica,

tra cui ricordiamo Gesamtkunstwerk Stalin, 1988 [Lo Stalinismo ovvero L’opera d’Arte totale (Garzanti, 1989)] e i recenti Under Suspicion: A Phenomenology of the Media, Ilya Kabakov. The Man Who Flew into Space from his Apartment (Afterall/MIT Press, 2006), Art Power (MIT Press, 2008), Going Public (Sternberg Press, 2010). Di questi due ultimi volumi è in corso la pubblicazione in italiano presso Postmedia. Boris Efimovich Groys (1947),Professor of Aesthetics, Media Theory and Art History at the ZKM in Karlsruhe, he teaches Russian and Slavic Studies at New York University. He took part in the unofficial cultural scene of the 1970’s in the Soviet Union. He is renown for his philosophical essays and his publications on art theory and criticism, such as “Gesamtkunstwerk Stalin, 1988 [The Total Art of Stalinism]” and the recent works “Under Suspicion: A Phenomenology of the Media” and “Ilya Kabakov. The Man Who Flew into Space from his Apartment” (Afterall/ MIT Press, 2006), “Art Power” (MIT Press, 2008), “Going Public” (Sternberg Press, 2010). The last two are in course of publication in Italian by Postmedia. / p. 24 Anselm Franke è critico e curatore, lavora a Berlino e Bruxelles. Fino al 2010 è stato Direttore della Extra City Kunsthal Antwerpen. Nel 2008 è stato co-curatore di Manifesta 7 a Trento

e della prima Biennale di Bruxelles. Il suo progetto Animism è stato presentato a MuHKA Antwerpen e alla Kunsthalle di Berna nel 2010, e sarà alla Fondazione Generali di Vienna (settembre 2011) e alla Haus der Kulturen der Welt di Berlino (marzo 2012). Dal 2011 Anselm Franke è responsabile del programma teorico all’Higher Institute for Fine Arts (HISK) di Ghent e insegna all’HfG di Karlsruhe. Anselm Franke is a curator and critic based in Berlin and Brussels. Until 2010, he was the Director of Extra City Kunsthal Antwerpen. In 2008, he was a co-curator of Manifesta 7 in Trento, and of the 1st Brussels Biennale. His project “Animism” started in MuHKA Antwerpen and Kunsthalle Bern in 2010, and will be shown at the Generali Foundation in Wien (September 2011) and the Haus der Kulturen der Welt in Berlin (March 2012). Since 2011, Anselm Franke is head of the theory program at the Higher Institute for Fine Arts (HISK) in Ghent and teaches at the HfG Karlsruhe. / p. 27 Ara H. Merjian è Assistant Professor di Studi Italiani e Storia dell’Arte alla New York University. È autore di Giorgio de Chirico and the Metaphysical City (2012). Merjian ha insegnato a Stanford e Harvard e scrive regolarmente su Artforum, Art in America e Frieze. I suoi saggi, dedicati ad argomenti diversi, dalle prime prove

filmiche d’avanguardia al Futurismo alle estetiche della resistenza, sono stati pubblicati sul Getty Research Journal, Modern Painters e Grey Room. Ara H. Merjian is Assistant Professor of Italian Studies and Art History at New York University. He is the author of “Giorgio de Chirico and the Metaphysical City” (2012). Merjian has taught at Stanford and Harvard, and is a regular critic for “Artforum”, “Art in America”, and “Frieze.” His writing on topics ranging from early avant-garde film theory to Futurism, to the aesthetics of war resistance, has appeared in the “Getty Research Journal”, “Modern Painters” and “Grey Room”. / p. 31 Luciano Fabro (1936 - 2007) è tra i primi componenti dell’Arte Povera, ed elabora le sue opere approfondendo il rapporto tra oggetto, corpo e spazio. Scultore, realizza forme essenziali e geometriche, sebbene non minimaliste per la centralità della materia e del colore. Nel 1969 avvia la famosa serie incentrata sulla sagoma geografica dell’Italia, per la quale realizza nel 1994 Italia all’asta, commento pessimista sull’era delle privatizzazioni nazionali. Luciano Fabro (1936 - 2007) is one of the first members of Arte Povera, and conceives his artworks focusing on the relation between object, body and spaces. As sculptor, he realises essential and geometrical shapes, though non

minimalist thanks to the centrality of matter and colour. In 1969 he starts the renowned series on the geographic outline of Italy, among with in 1994 he makes “Italia all’asta / Italy to auction”, a pessimistic remark on the age of national privatizations. / p. 31 Carla Lonzi (1931 –1982) scrittrice e critica d’arte italiana, femminista e fondatrice delle edizioni di Rivolta femminile nei primi Anni ‘70. Autoritratto, pubblicato nel 1969 e ripubblicato nel 2010 per et-al edizioni, raccoglie conversazioni con artisti quali Castellani, Accardi, Paolini, Fontana fra gli altri, e risponde alla sua esigenza di un “atto critico completo e verificabile […] parte della creazione artistica”. Carla Lonzi (1931 –1982) writer and a critic of Italian art, a feminist and the founder of the publishing house “Rivolta femminile” in the Early Seventies. “Selfportrait”, published in 1969 and re-published in 2010 by et-al publisher, collects conversations with artists such as Castellani, Accardi, Paolini, Fontana among the others, and meets to her requirement of a “critical action complete and verifiable […] part of the artistic creation”. / p. 34 Bill Arning Nigel Prince Nicholas Cullinan Nikola Dietrich Massimo Grimaldi Jörg Haiser Tom Morton Cecilia Canziani

/ p. 39 AA Bronson (1946) è stato, con Felix Partz (1945–1994) e Jorge Zontal (1944–1994) membro del collettivo artistico General Idea, nato nel 1969 a Toronto. La loro ricerca ha coinvolto, in modo critico, le forme della cultura popolare, attraverso l’utilizzo di diversi media, cartoline, poster, manifesti, filmati. Dal 1989 inizia la “AIDS Era”: il virus e i trattamenti ad esso collegati divengono elementi centrali, quasi ossessivi, di ogni tipo di produzione. Partz e Zontal muoiono nel 1994 per complicazioni dovute all’AIDS. AA Bronson continua a lavorare come artista. Nel 2011 il Muséè de la Ville de Paris gli ha dedicato HauteCulture, prima grande retrospettiva dedicata al loro lavoro. AA Bronson (1946) has been, together with Felix Partz (1945–1994) and Jorge Zontal (1944–1994), a member of the artist collective General Idea, born in Toronto in 1969. Their research has critically focused on the popular culture, using a wide range of media: sculpture, installations, graphic design, publishing, films and mock TV shows. In 1989 the “AIDS Era” began: the virus and its repercussions became a central, almost obsessive, element in their production. Partz and Zontal died of complications as a result of AIDS in 1994. In 2011, the Musée de la Ville de Paris presented Haute Culture, the first major retrospective exhibition of their work.


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INTERvISTa a

BORIS gROyS

wORLD wIDE haRDwaRE di Emanuela De Cecco IN cONvERSazIONE cON EmaNuELa DE cEccO, IL TEORIcO BORIS gROyS aNaLIzza LE ImpLIcazIONI ESTETIchE E pOLITIchE DELL’INTREccIO TRa REaLTà, INTERNET, auTORappRESENTazIONE E TERRORE.

IN ALTO

— Omer Fast, A Tank Translated, 2002 Installazione video, quattro monitor e quattro piedistalli, video sonoro a colori, sottotitoli in inglese, dai 3’ ai 7’. Veduta dell’installazione presso il Center for Contemporary Art, Friburgo, 2003 Courtesy gb agency, Parigi

EmanuEla dE cEcco: pROfESSOR gROyS, IN aRT PoweR LEI ScRIvE chE “I mEDIa cONTEmpORaNEI SI SONO RIvELaTI cOmE La macchINa DI gRaN LuNga pIù pOTENTE DI pRODuzIONE DI ImmagINI – DEcISamENTE pIù ampIa E pIù EffIcacE DEL SISTEma DELL’aRTE cONTEmpORaNEa. SIamO cOSTaNTEmENTE aLImENTaTI Da ImmagINI DI guERRa, TERRORE E caTaSTROfI DI TuTTI I gENERI, DOvE IL LIvELLO DI pRODuzIONE E DISTRIBuzIONE è TaLE chE L’aRTISTa NON puÒ cOmpETERE”. aD uN pRImO SguaRDO SEmBRa chE LEI STIa cONfIguRaNDO uNO ScENaRIO DOvE è IN aRRIvO uNa NuOva mORTE

DELL’aRTE, SuLLa ScIa DI quaNTO aNNuNcIaTO IN paSSaTO Da aLTRI pENSaTORI ma NON è cOSì, a BEN vEDERE quESTa Sua pOSIzIONE NON pORTa aD uNa cONcLuSIONE SEmpLIcE ma apRE La STRaDa a mOLTI aLTRI cONTRO aRgOmENTI… BORIS GROYS: Effettivamente i media di comunicazione contemporanei e i network come Facebook, YouTube e Twitter, danno alle popolazioni globali la possibilità di collocare le proprie fotografie, i video e i testi secondo le stesse modalità con cui è realizzata qualunque opera d’arte post concettuale. La grammatica visiva di un sito internet non è molto differente dalla grammatica dello spazio dell’installazione


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Il realismo è un fiore a cura di Alessandro Rabottini

artistica. Attraverso internet l’arte contemporanea diventa una pratica della cultura di massa. E ciò significa che oggi non stiamo assistendo alla morte dell’arte, piuttosto alla sua democratizzazione e globalizzazione. Il discorso sulla morte dell’arte utilizza per lo più una vaga nozione di “estetizzazione della vita”. Questa nozione di fatto presuppone un atteggiamento passivo, contemplativo nei confronti di questa “vita estetizzata” – inserendosi sulla scia di quanto figurato da Debord in La società dello spettacolo. Parlando della dimensione estetica del terrorismo e di altre questioni analoghe, intendo non tanto la contemplazione estetica passiva ma una auto-presentazione estetica attiva – che è ciò che di base costituisce l’arte. In termini hegeliani, l’atteggiamento estetico tradizionale resta situato a livello conscio e non raggiunge il livello dell’autoconsapevolezza. Nella Fenomenologia dello spirito Hegel rileva che l’autocoscienza non emerge come effetto di una osservazione passiva di sé, ma che diventiamo consapevoli della nostra stessa esistenza e della nostra soggettività quando siamo messi in pericolo da un’altra soggettività, attraverso la lotta, nel conflitto, nella situazione in cui assumere un rischio esistenziale può portarci alla morte. Analogamente oggi possiamo parlare di una “estetica della consapevolezza di sé” che emerge non solo quando guardiamo esteticamente il mondo popolato dagli altri, ma quando iniziamo a riflettere la nostra stessa esposizione allo sguardo degli altri. La pratica dell’autopresentazione di sé allo sguardo dell’altro che presuppone pericolo, conflitto e rischio di fallimento diventa artistica, poetica, retorica. Il sentimento di esposizione pressoché costante allo sguardo dell’altro è decisamente moderno. Nel corso del XX secolo un numero costantemente crescente di esseri umani è diventato oggetto di sorveglianza, ad un livello impensabile in qualsiasi altro periodo storico precedente. Questa pratica di onnipresenza, sorveglianza panottica, oggi è ancora in aumento con un’ulteriore accelerazione – poiché nel frattempo internet è diventato il mezzo principale non solo dell’autopresentazione ma anche della sorveglianza. Contemporaneamente la nascita e il rapido sviluppo dei network dei media visuali hanno creato una nuova agorà globale per la costruzione di sé come

soggetto pubblico, per azioni e discussioni politiche.

IN ALTO

— Omer Fast CNNConcatenated, 2002 sinistra: “parlare”, destra : “ascoltare”, video sonoro a colori, 18 minuti in loop. Courtesy gb agency, Parigi

E.d.c.: Il problema di cosa si intenda per realismo nell’arte contemporanea, di cosa questo concetto significhi, occupa una posizione centrale in tutto il suo lavoro. In questa sede vorrei portare l’attenzione su un aspetto specifico, ovvero su quanto lei ha scritto a proposito del ruolo assunto da guerrieri e terroristi, quando essi “hanno iniziato ad agire come artisti”, dimostrando come, paradossalmente, le loro azioni in termini visivi possano essere considerate conservatrici… B.G.: Marshall McLuhan notoriamente ha delineato una distinzione tra media caldi e media freddi. Secondo questa prospettiva internet ovviamente è un media caldo. L’utente standard di internet è, di norma, concentrato sullo schermo del computer e non si occupa dell’hardware – cioè dell’insieme di monitor, terminali e cavi che inscrivono internet nella civiltà industriale contemporanea. Chi usa internet è immerso in una comunicazione solitaria con un medium, cade in uno stato di dimendicanza di sé, di inconsapevolezza

del suo stesso corpo. Per questa ragione Internet ha prodotto nel pensiero di alcuni teorici nozioni irreali, ad esempio il lavoro immateriale, la condizione post fordista etc. Tutte queste nozioni riguardano il software. Ma la realtà di internet è l’hardware. Lo spazio dell’installazione artistica è un mezzo appropriato precisamente per mostrare l’hardware, regolarmente ignorato dagli utenti comuni della rete. In questa situazione infatti non è possibile concentrarsi a lungo su uno schermo solitario, ma si cammina da uno schermo all’altro, da un’installazione realizzata con il computer alla successiva. Così, una mostra che include la rete o altri media digitali rende visibile il lato materiale, fisico di questi media – il loro hardware, i pezzi con cui sono realizzati. Tutti i macchinari che entrano nel campo visivo dello spettatore distruggono l’illusione che qualsiasi cosa, qualunque importanza abbia nel mondo digitale, esista solo sullo schermo. Di ancora maggiore importanza è il fatto che nel campo visivo dello spettatore vagabonderanno altri spettatori. In questo modo lo spettatore diventa consapevole di essere osservato. A questo punto si verifica un certo raffreddamento di internet – che a sua volta raffredda le sue ossessioni con i terroristi e altre celebrità. Quando mi riferisco al realismo in arte, intendo precisamente questa riflessione sul lato materiale della nostra produzione discorsiva e di immagini. E.d.c.: Torno ancora sulla questione del realismo. A questo proposito trovo di particolare importanza la sua definizione “del ritorno non del reale, ma del sublime politico”, dove lei specifica che “il sublime è brutto, repellente, terrificante” e dove “tutte le forze politiche del mondo contemporaneo sono coinvolte nella crescente produzione del sublime politico, in gara tra di loro per produrre l’immagine più terrificante”. Secondo lei quando ha iniziato a prendere forma questo scenario e perché? B.G. Ebbene, la modernità ci ha insegnato che la distruzione coincide con la creazione.


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I media si occupano delle nostre azioni più distruttive, che diventano così azioni creative, quanto meno in termini di produzione di immagini. Già Nietzsche diceva che era meglio essere un’opera d’arte che un artista. Si può diventare opera d’arte mobilitando energie distruttive puramente dionisiache – sollevandosi così dal compito apollineo di dare forma. Per citare un altro filosofo tedesco: Hegel indicò che solo il lavoro di distruzione può essere un lavoro comune, autenticamente partecipativo, perché ogni lavoro di costruzione presuppone necessariamente la divisione del lavoro – e tutte le ineguaglianze ad essa collegate. Oggi viviamo ovviamente nell’epoca della partecipazione – o, per lo meno, del sogno della partecipazione. E.d.c.: Secondo lei è possibile considerare l’esistenza di un sublime commerciale, fondato su un atteggiamento apparentemente opposto (bello, soddisfacente, energetico etc.)? B.G.: Allora, secondo Kant, il sublime è opposto al bello. Il bello crea un sentimento piacevole, il sublime crea un sentimento di disappunto – che possiamo esperire anche dal punto di vista estetico. In generale il mercato capitalista è interessato al bello non al sublime. Ma possiamo anche parlare del sublime economico che si manifesta come crisi economica. Come abbiamo visto anche di recente le crisi economiche e finanziarie sono vissute come esperienze estetiche da molte persone. E.d.c.: Nel 2008 lei ha curato con Peter Weibel presso lo ZKM di Karlsruhe la mostra Medium Religion, nella quale avete investigato il ruolo della religione oggi. Pressoché in contemporanea al Centre Pompidou a Parigi si è tenuta un’altra mostra di rilievo, Traces du sacré, che affrontava lo stesso tema ma in una prospettiva molto differente. Se dalla visita della mostra di Parigi si usciva con un sentimento di pace, gli effetti della visita di Medium Religion erano molto diversi. In questo caso, oltre ai lavori

degli artisti, in mostra era presente un grande apparato di immagini mediali: video commerciali e di propaganda, video che mostravano l’ultima dichiarazione di attentatori in procinto di eseguire attacchi suicidi, siti web religiosi. In altre parole allo ZKM gli spettatori erano messi a confronto con una situazione stratificata, diffusa in tutto il mondo, dove l’inclusione di documenti appartenenti a sfere visive non artistiche, accelerava il confronto con questo presente secondo una prospettiva molto ampia, espandendo così anche l’idea di mostra… B.G.: Sostengo che la dimensione del sacro e la religione siano due cose differenti. La dimensione sacrale è qualcosa che sta oltre e al di sopra la nostra ordinaria vita quotidiana. Il sacro può essere un oggetto di

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– è sempre un’istituzione che agisce prima di tutto nel mondo profano – come veicolo del sacro ma anche in quanto macchina di propaganda, forza politica, entità economica e così via. Personalmente trovo di particolare interesse questa dimensione profana e “mediatica” della religione. La mostra a Karlsruhe non ha che fare con la contemplazione o la ritualizzazione di ciò che è sacro, ma con le politiche dei movimenti religiosi contemporanei e con l’impatto che essi hanno sulla vita politica e sociale. Nel quadro della mostra allo ZKM i curatori non erano interessati nelle tracce dell’assenza di sacralità nel mondo profano, ma nella presenza pervasiva delle istituzioni e dei movimenti religiosi nel mondo di oggi. Gli obiettivi di partenza di queste due mostre erano molto diversi – di conseguenza le mostre realizzate.

World Wide HARDWARE

adorazione ma può anche provocare in noi un sentimento di angoscia – come qualcosa di attraente e proibito nello stesso tempo. Esistono molti testi che analizzano la componente ambigua della dimensione sacrale – e il carattere ambivalente del nostro atteggiamento verso di esso. Basti solo pensare per esempio agli scritti di Roger Caillois, Georges Bataille e Giorgio Agamben. Cosa ancora più importante, la nostra relazione con il sacro può essere non istituzionale. Mi sembra che la mostra Traces du sacré fosse interessata ad esplorare questo tipo di fantasticheria metafisica personale. Al contrario, una religione – ogni religione

Emanuela de Cecco: Professor Groys, in Art Power you stated that “contemporary mass media has emerged as by far the largest and most powerful machine for producing images – vastly more extensive and effective than the contemporary art system. We are constantly fed with images of war, terror and catastrophes of all kinds, at a level of production and distribution with which the artist cannot compete”. At first glance it seems that your intention is to configure a scenario where a new death of art, as others thinkers previously announced, will happen but this is not the case. Indeed this statement doesn’t bring to an easy conclusion but opens the way to many different counter arguments. BORIS GROYS: Indeed, contemporary means of communications and networks like Facebook, You Tube, and Twitter give to the global populations the possibility to place their photos, videos and texts in a way that cannot be distinguished from


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any other post-Conceptualist artwork. The visual grammar of a website is not so much different from the grammar of the art installation space. Through the Internet contemporary art became today a mass cultural practice. And that means: today, we are not witnessing the death of art but, rather, its democratization and globalization. The discourse about the death of art mostly uses a vague notion of “aesthetization of life”. This notion, actually, presuppose a passive, contemplative attitude toward this “aestheticized life” – in the tradition of Guy Debord’s “Society of Spectacle”. But speaking about the aesthetic dimension of terrorism and other things like that I mean not the passive aesthetic contemplation but active aesthetic selfpresentation – which is what basically does constitute art. Speaking in Hegelian terms, traditional aesthetic attitude remains situated on the level of consciousness and does not reach the level of the self-consciousness. In his “Phenomenology of the Spirit” Hegel points out that the self-consciousness emerges not as an effect of the passive self-observation. We become aware of our own existence, of our own subjectivity when we are endangered by another subjectivity – through struggle, in conflict, in the situation of the existential risktaking that can lead to our death. Now, analogously, we can speak of “aesthetic self-consciousness” that emerges not when we look aesthetically at the world populated by the others but when we begin to reflect our own exposure to the gaze of the others. Artistic, poetic, rhetorical practice is the self-presentation to the gaze to the other that presupposes danger, conflict and risk of failure. The feeling of almost permanent exposure to the gaze of the other is a very modern feeling. Throughout the 20th Century the constantly growing number of human beings became the objects of surveillance to a degree that was unthinkable at anyearlier period of human history. And this practice of omnipresent, panoptical surveillance is still increasing in our time on even greater pace – the Internet becoming meanwhile the main medium not only of self-presentation but also of surveillance. At the same time

emergence and fast development of the global networks of visual media created a new global agora for creating one’s own public persona, political discussions and actions. e.d.c.: The question of what realism is in contemporary art, what does this concept mean has a central position in all your work, but in this context I would like to concentrate on what you wrote about the role taken by warriors and terrorist, when they “start to act as artists”. Paradoxically here you show how their actions in visual terms can be considered conservative… B.G.: Marshall McLuhan has famously differentiated between hot and cool media. The Internet is obviously a hot medium. The standard Internet user is, as a rule, concentrated on the computer screen and overlooks the hardware of the Internet – all these monitors, terminals and cables that inscribe the Internet in

produced in some theoretical heads the dreamlike notions of immaterial work, post-Fordist condition etc. All these notions are software notions. But reality of the Internet is its hardware. And the art installation space is an appropriate means precisely to show the hardware that is regularly overlooked by the standard Internet use. One no longer concentrates upon a solitary screen but wanders from one screen to the next, from one computer installation to another. Thus, an exhibition utilizing the web and other digital media renders visible the material, physical side of these media – their hardware, the stuff from which they are made. All of the machinery that enters the visitor’s field of vision thus destroys the illusion that everything of any importance in the digital realm only takes place onscreen. More importantly, however, other visitors will stray into the viewer’s visual field. In this way the visitor becomes aware that he or she is also being observed by the others. Here a certain cooling down of the Internet

IN ALTO e a destra

— Seth Price , Non Speech, Fire & Smoke, veduta della mostra presso la Friedrich Petzel gallery, 2011 — Seth Price, Non Speech, Fire & Smoke, 2011 8 dvd, 1 Digibeta, dimensioni variabili, Editionunlimited, numero 3 Courtesy Friedrich Petzel gallery

the contemporary industrial civilization. As a computer user, one is immersed in solitary communication with the medium; one falls into a state of selfoblivion, of unawareness of one’s own body. That is why the Internet has

takes place – also cooling down of its obsession with terrorists and other celebrities. When I speak about the realism in art I mean precisely this reflection of the material side of our discursive and image production.


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artists’ works, a huge apparatus of media images: commercial videos, propaganda videos, videos showing the last statement of suicide bombers, dedicated websites. In other words at ZKM we were confronted with a multilayered situation, a situation very relevant all around the world, where the inclusion of documents belonging to other visual spheres opened the possibility to establish a confrontation with the present times in a wider way, expanding the idea of exhibition in itself.

e.d.c.: Again on realism, I found really important your definition of “the return not of the real but of the political sublime”, where as you specify, “sublime is ugly, repelling, terryfing”, and where “all political forces of the contemporary world are involved in the increasing production of the political sublime – by competing for the most terryfing image”. In your opinion when this change of scenario happened and why? B.G.: Well, the modernity taught us that destruction is creation. Our most destructive actions are covered by the media – and thus become creative actions at least in terms of image production. Already Nietzsche said that it is better to be an artwork than an artist. And one can become an artwork by mobilizing the purely Dionysian energies of destruction – being relieved from the Apollinian task of form-giving. And to cite another German philosopher: Hegel stated that the common, truly participative work can be only the work of destruction because every constructive work necessarily presupposes the division of labor – and all the inequalities related to it. Today, we live obviously in an era of participation – or, at least, of a dream of participation.

ìe.d.c.: In your opinion it is possible to consider also a commercial sublime based on, an apparently opposite attitude (beautiful, satysfing, energetic etc.)? B.G.: Well, according to Kant, the sublime is opposed to the beautiful. The beautiful creates the feeling of pleasure. The sublime creates the feeling of displeasure - that also can be experienced aesthetically. In general, the Capitalist market is interested in the beautiful – not in the sublime. But we can also speak about the economic sublime that manifests itself as economic crises. Financial and economic crises are experienced aesthetically by a lot of people – as we saw even recently. e.d.c.: In 2008 at ZKM in Karlsruhe with the exhibition Medium Religion, you and Peter Weibel investigated the role of religion today. More or less in the same period there was another important exhibition, Traces du sacré, at Centre Pompidou in Paris, dedicated to the same topic but from a different perspective. If at the end of the visit of the exhibition in Paris was possible to go peacefully at home, the effects of Medium Religion were totally different. Indeed in this case the exhibiton presented with the

B.G.: I would argue that the sacral and the religion are two different things. The sacral is something placed beyond and above our ordinary, everyday life. The sacral can be an object of adoration but it can also provoke in us the feeling of angst – as something attractive and forbidden at the same time. There are many texts that analyze the ambiguities of the sacral – and the ambivalent character to our attitudes to it. It suffices here to refer to the writings of Roger Cailllois, Georges Bataille and Giorgio Agamben. Most importantly, our relationship to the sacred can be a non-institutional one. It seems to me that it is this kind of personal metaphysical reverie that the exhibition “Les traces du sacré” was interested in. On the contrary, a religion – any religion - is always an institution operating primarily in the profane world – as a medium of the sacral but also as a propaganda machine, political force, economic entity etc. It is this profane and “mediatic” dimension of religion that is most interesting for me. The exhibition in Karlsruhe deals not with the contemplation or ritualization of the sacral but with the politics of contemporary religious movements and their impact of the today’s political and social life. In the framework of the ZKM exhibition the curators were interested not in the traces of the absent sacral in the profane world but in the insistent presence of the religious institutions and movements in this world. The goals of these two exhibitions were very different – and thus the actual shows became very different, indeed.


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un realismo

contro natura di Anselm Franke

Anselm Franke suggerisce di guardare al realismo al di là delle opposizioni tra realtà e immaginazione, in un percorso che incrocia il cinema d’animazione con la teoria di Guattari.

Nel periodo successivo alla modernità, il terreno del realismo si è fatto più incerto. Da un lato perché abbiamo imparato a considerare il reale come un dato di fatto, un qualcosa che è evidente e che, nel periodo costruttivo della modernità si presentava come realtà materiale, visibile e tangibile. Dall’altro lato per via dell’approccio, diametralmente opposto, che deriva invece dalla critica di questo naturalismo riduzionista e sostiene che il reale sia costituito dalle relazioni sociali e dal soggettivo, e non semplicemente dalla materia o dal mondo visibile. Quest’ultimo approccio ha suscitato una serie di interrogativi più complessi sulla rappresentazione e sull’estetica. Eppure entrambi influiscono ancora sulla nostra visione del realismo. Vorrei qui suggerire una visione ancora diversa. Mettiamo che ci sia già una frattura nella realtà e che questa sia già divisa in modo diverso, da culture diverse, in luoghi e tempi diversi. Ciò che più si lega alla questione del realismo è lo scarto tra il reale

e l’immaginario, in altre parole tra il ‘dentro’ soggettivo e il ‘fuori’ oggettivo. Ciò che più colpisce di questa contrapposizione è che noi siamo formalmente in grado di definire la realtà da entrambe le parti – ma solo l’una in relazione all’altra. In ultima istanza la questione del realismo si basa sul posto e sul ruolo che l’uomo ha nel mondo. A quanto pare la contrapposizione di esclusione reciproca attualmente disponibile sembra condurre all’antica scelta schizofrenica: o siamo noi esseri umani che creiamo ogni cosa (costruttivismo sociale), oppure ogni cosa, noi compresi, viene creata, vale a dire governata da leggi che ci trascendono, come ad esempio processi fisici, o addirittura ferree leggi sociali. Dunque, o noi siamo gli unici ad agire e la materia aspetta passivamente di essere scritta o segnata dai nostri piani mondiali, oppure noi stessi veniamo creati, e pur aggrappandoci a una qualche illusione di libertà e di attività, restiamo in una condizione passiva e le nostre illusioni

sono del tutto vane. Mi chiedo se sia possibile evitare o posticipare tali scelte, visto che esse sono comunque il prodotto di quella separazione che percorre la realtà in modi e contesti diversi. E se poi asserissimo che il compito del realismo è quello di trovare un accordo con quella stessa separazione? Ad esempio con il modo in cui riconosciamo il reale dall’irreale (e tutto ciò a cui entrambi danno origine) come interiorità soggettiva che, se messa in questione diventa soltanto immaginaria, ed esteriorità oggettiva che, se messa in questione risulta solo costruita? C’è forse un realismo che giustifica il modo in cui queste distinzioni danno origine a quello che poi noi percepiamo come ‘mondo’; un mondo già diviso tra il ‘reale’ e l’immaginario’? C’è un realismo che si concentra non sui prodotti di questa distinzione ma sul processo stesso cui essi danno origine? Si tratta del tipo di realismo che nei romanzi e nella letteratura tendiamo a considerare plausibile. Ma davanti


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foto © Simona Rossi

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­ Angela Melitopoulos, Maurizio Lazzarato, — Assemblages, 2010 still da video-installazione Courtesy Angela Melitopoulos

metterebbero in atto? In particolare penso ad alcune sequenze di Ponyo, l’ultimo film di Hayao Miyazaki in relazione a una recente video installazione di Angela Melitopoulos e Maurizio Lazzarato intitolata Assemblages e realizzata per il progetto Animism che io stesso ho curato in diverse istituzioni. I film di Miyazaki rientrano facilmente nella categoria della pura fiction: sono storie fantastiche raccontate attraverso il disegno animato. Che cosa succede invece se consideriamo la fantasia e l’animazione di questi film, e le loro tecniche di realizzazione estetica come il prodotto di una separazione, che si differenzia culturalmente dall’altro punto di vista, quello europeo - occidentale? È possibile leggere queste immagini in contrasto con la loro stessa natura e quindi considerare i film d’animazione come “documentari”, non di una data realtà visibile e tangibile, ma documentari della realtà di un confine, di un modo di organizzare le differenze specifiche di una certa cultura, e della capacità dell’immaginazione di attraversare questo confine? L’idea prende forma accostando il film Ponyo alla video installazione “Assemblages”, un lavoro ispirato a una pratica psichiatrica alternativa di Felix Guattari. Se le distinzioni concettuali, come la separazione del reale dall’immaginario, non sono solo delle divergenze culturali che rinforzano

POSSIAMO INTERPRETARE I CARTONI ANIMATI GIAPPONESI COME FORMA DI REALISMO? alle immagini le cose cambiano perché pretendiamo che le immagini, soprattutto quelle che esulano dal campo artistico, siano riconoscibili e rientrino nelle categorie di fiction o di documentario. Per spiegare questa proposta di realismo vorrei usare gli esempi di un recente film d’arte e della cultura popolare, in particolare rifacendomi ai film di animazione giapponesi. Nessuno metterebbe in dubbio il fatto che i cartoni animati giapponesi ci trasportano in mondi immaginari. La mia domanda è: possiamo tuttavia interpretarli contro la loro stessa natura fantastica come forma di realismo? A quale realtà si riferiscono e quale esercizio di separazione

altre distinzioni, ma trovano una loro realizzazione, allora la definizione di ciò che si considera “pazzia” è un modo di trasformare queste distinzioni concettuali in realtà, e di istituzionalizzarle. La critica psichiatrica e psicopatologica diventa quindi una risorsa importante per considerare un realismo non del dato di fatto, di ciò che è evidente, ma piuttosto del modo stesso in cui è realizzato.

Realism Against the Grain Realism, in the aftermath of Modernity, stands on sandy grounds. One reason is

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— Hayao Miyazaki, Ponyo (Ponyo sulla scogliera), Giappone 2008, courtesy Luckyred

Hayao MIyAZAKI Autore di fumetti e regista di animee giapponesi. Nel 1963 inizia la sua carriera presso lo studio Toei, e debutta nella regia nelle serie “Conan ragazzo del futuro” e “Lupin III”. Nel 1985 fonda, con Isao Takata, lo ‘Studio Ghibli’, con cui realizza tra gli altri “Nausicaä della valle del vento” (1984) e “Principessa Mononoke” (1997). Nel 2001 vince l’Oscar per il miglior film d’animazione e l’Orso d’oro a Berlino con “La città incantata”. Nel 2004 partecipa con “Il castello errante di Howl” alla 61ma Mostra del Cinema di Venezia, dove vince nel 2005 il Leone d’oro alla carriera, e torna nel 2008 con “Ponyo sulla scogliera”. Le sue opere trattano con delicatezza e fantasia il rapporto tra uomo a natura, sempre in bilico tra conflittualità ed armonia. Comics writer, director of Japanese animee. In 1963 he starts working at the studio Toei, and then debuts as director with the series “Future Boy Conan” and “Lupin III”. In 1985 he founded with Isao Tarata “Studio Ghibli”, realizing among the others, “Nausicaä of the Valley of the Wind” (1984) and “Princess Mononoke” (1997). In 2001 he wins the Oscar as Best Animation Feature and the Golden Bear in Berlin with “Spirited Away”. In 2004 he participates with the “Howl’s Moving Castle” in the 61th Venice Film Festival, where he is awarded in 2005 with the Golden Lion for Lifetime Achievement, and presented “Ponyo on the Cliff by the Sea” in 2008. Hisworks delicately deal with the relation between humankind and nature, always in balance between struggle and harmony.


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that we have learned to think of the real as that which is given, and the given, for the formative period of Modernity, appeared as the material, visible, tangible reality. Another, opposed approach was derived from the critique of such reductionist naturalism, it held that what is real are social relationships and the subjective, rather than simply matter, or the visible world. The latter approach produced a different, more complex set of questions towards representation and aesthetics. Yet these two approaches still inform our expectations towards realism. I wish to suggest something different. What if reality is always already split? And split differently, by different cultures at different places and times? Most related to the question of realism, is the split between the real and the imaginary, or in other words, between our subjective ‘inside’ and the objective ‘outside’. What is most striking about those oppositions, is that we seem to be able to define reality from either side - but only on the account of the other. The question, in the last

is merely imaginary, and an objective exterior, that, when in question, is merely constructed? Is there a realism that accounts for the way those separations give birth to what is then encountered as ‘world’, a world already split in the ‘real’ and ‘imaginary’? Is there a realism that focuses not on the products of such separations, but on the very process they set into motion? We are more easily accepting such kind of realism in literature and in fictional narratives. But when we confront images, things are quite different: we still demand from images, particularly outside the field of arts, that they make themselves known and be categorized as either fiction or documentary. I intend to follow this approach to realism by using examples from recent essay films as well popular culture, in particular, Japanese animation films. No one would seriously doubt that they immerse us in fictional worlds. And yet, is it possible to read them against the grain, as a form of realism? What reality, and what practices

across them? This suggestion will gain contours in dialogue with the videoinstallation “Assemblages” – a work following the vision of an alternative psychiatric practice by Felix Guattari. If conceptual distinctions such as the separation of imaginary and real are not merely culturally divergent, and substantiate further distinctions, but crucially also translate into practices, then the very definition of what counts as “madness” is one way such conceptual distinctions are made real, and become institutionalized. The critique of psychiatry and psychopathology is thus a powerful resource to think of the possibility of a realism not of the given, but of the very ways in which it is produced.

IS IT POSSIBLE TO READ JAPANESE ANIMATION FILMS AGAINST THE GRAIN, AS A FORM OF REALISM? instance, of realism, is always the place and role of the human in the world: It seems that the mutually exclusive oppositions currently available, taken to their bottom line, strive towards an old modern schizophrenic choice: either it is we, humans, who make everything (social constructivism), or everything is made, including us, meaning governed by laws that transcend us, physical processes for instances, or even iron social laws. Either it is only we who act and matter is passive awaiting our inscriptions or world-designs, or it is us who are being made, and while we may cling on to some illusion of freedom and agency, we are in the passive and such illusions are in vein. My question is if we can avoid or suspend such choices, since they are already the product of the split that runs through reality, differently, in different contexts. What if we assert that the task of realism is to come to terms with the very split, with the way we draw the distinction between real and unreal, and its many offsprings, for instance, such as a subjective interior that when in question,

of separation, would they refer to, then? In particular, I want to look at excerpts from Hayao Miyazaki’s recent film Ponyo, and discuss it in relation to a recent video installation of Angela Melitopoulos and Maurizio Lazzarato entitled Assemblages, which was produced in the context of the traveling exhibition Animism that I have been organizing across different institutions. Miyazaki’s films are easily accepted as fiction in its purest form: fantastic narratives in the medium of animated drawings. What happens, however, if we see fiction, phantasy, and animation in these films, and the aesthetic means by which they are achieved technically, as products of a separation, which differs, culturally, from the Western European point of view? Can such images be read against their very grain, that is, can fictional animation be seen as “documentary” – documenting not a given, visible, tangible reality but the reality of a border, a culturally specific form of organizing differences, and the capacity of the imagination to move

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­ Angela Melitopoulos, Maurizio Lazzarato — Assemblages, 2010 still da video-installazione Courtesy Angela Melitopoulos


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Pier Paolo Pasolini tra Neorealismo e Neo-Avanguardia

di Ara H. Merjian

Lo storico dell’arte Ara H. Merjian ripercorre, attraverso il cinema di Pier Paolo Pasolini, differenti declinazioni del concetto di realismo: dalla poetica dei materiali dell’Arte Povera all’oggettualità del Minimalismo fino alla figurazione di Renato Guttuso.

Quando uscì il film Accattone (1961) di Pier Paolo Pasolini, la rivista Oggi lo stroncò definendolo un film sui “rifiuti umani”. L’anno seguente, alla prima di Mamma Roma al Festival di Venezia, un gruppo neofascista bollò i personaggi di Pasolini come “Apostoli del Fango.” Al di là del loro intento dispregiativo, questi epiteti in realtà ben rivelavano quell’affinità profonda tra le opere di Pasolini e il potere redentivo dei rifiuti. Affinità che l’artista stesso non volle certo mascherare. La gente di borgata, che fosse di Roma o di altre città, era per Pasolini “spazzatura umana” – un termine che in tutto il suo squallore assumeva per lui solo valenze positive. Perché per Pasolini, solo il degrado – materiale e metafisico – nascondevano la promessa di rinascita. “Ma nei rifiuti del mondo/nasce un nuovo mondo: nascono leggi nuove” (“Sesso, consolazione della miseria!”). Gli scarti rappresentavano il rifiuto ultimo della logica capitalista e consumista e, in quanto

esclusi dal suo meccanismo economico, erano teatro di una potenziale redenzione, sociale ed erotica. In un certo senso, questa stessa antieconomia culmina proprio nella morte di Pasolini: in quel corpo che giace a terra spezzato e schiacciato, ridotto a una pila di stracci sporchi, proprio come quelli che erano emersi più volte in primo piano nei suoi film e nelle sue poesie. “Su una strada miserabile, circondata da baracche, vecchie catapecchie, piena di ragazzini stracciati, sotto un sole furioso, c’era una triste, desolata campanella che suonava a morto. Accattone avanzava per la strada tramortita dal sole”. In quel tratto di strada sterrata di Ostia dove Pasolini fu ucciso, il confine tra la realtà e la sua rappresentazione estetica sembrò frantumarsi o svanire. L’estetica del dopo guerra si era scagliata contro quegli stessi confini con nuovo vigore, in Italia così come all’estero. Semplici frammenti di rifiuti divennero nella loro


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Il realismo è un fiore a cura di Alessandro Rabottini nella pagina precedente

— Fabio Mauri Intellettuale, 1975 “Il Vangelo secondo Matteo” di/su Pier Paolo Pasolini.

Courtesy Galleria Comunale d’Arte Moderna, Bologna foto Antonio Masotti a sinistra e in basso

— Sergio Citti, Pier Paolo Pasolini sul set di Accattone, 1961 Courtesy Cinemazero, Pordenone foto Angelo Pennoni

pura materialità essi stessi opera d’arte. Dai bidoni della spazzatura del Nouveau Réalisme agli assemblage delle neoavanguardie, che sfidavano la “purezza” dell’espressionismo astratto, il libero oggetto d’arte lasciò spazio a un campo sempre più vasto dell’esperienza, dove la pura presenza subentrava alla creazione e all’arte. La descrizione che Tony Smith dà nel 1966 della sua “conversione” al minimalismo costituisce uno dei miti originari di questa transizione; dopo l’incidente d’auto sull’autostrada in costruzione del New Jersey che lo portò a riconsiderare quel paesaggio informe e abbandonato che lo circondava, Smith scrive:

“La strada e gran parte del paesaggio erano artificiali, eppure non li si poteva qualificare come opera d’arte. C’era qualcosa che l’arte non era ancora riuscita a trasmettermi. Sembrava esserci una realtà che l’arte non aveva mai espresso.” La terra desolata delle zone industriali – quella del New Jersey di Smith come quella della Ravenna di Antonioni in Deserto rosso – affiorava riempiendosi di significati, non c’era bisogno di darle forma o di crearla ad arte ma andava solo rappresentata. In simultanea con i primi film di Pasolini, Michelangelo Antonioni utilizzò proprio le periferie come luoghi intrinsecamente ellittici dove ambientare le sue narrazioni paratattiche,

esistenziali, i cui intrecci sembravano spesso dettati dall’incoerenza del paesaggio stesso. A volte in L’Avventura e L’Eclisse, l’architettura del paesaggio si libera persino dall’essere espediente per l’inquadratura e la messa in scena e diventa il punto focale dell’immagine senza particolari funzioni narrative. Antonioni trasforma i dettagli e gli oggetti qualunque in protagonisti di una contemplazione di e per se stessi. La critica di sinistra, Pasolini compreso, accusò il regista di non dare spessore sociale allo straniamento dei personaggi, ma solo di usare la loro angoscia come materiale grezzo per un “vuoto estetismo”. Nel paragonare lo stile di Antonioni al romanzo di Moravia La noia, Pasolini critica L’avventura per il fatto che i suoi personaggi non si interroghino mai sulla propria angoscia, rimanendo sempre estranei al corso della storia. La risonanza fenomenologica del cinema di Antonioni– e delle critiche al riguardo– ebbe durante gli anni Sessanta un’eco considerevole sul percorso delle arti plastiche. Quella che Germano Celant chiamò la “democratizzazione dei sensi” nell’Arte Povera si prefiggeva di recuperare l’esperienza elementare della fenomenologia a scapito di una più rarefatta logica di autonomia estetica. Quel reclamare semplici processi organici, naturali e cinetici, implicava l’influsso non solo delle pratiche artistiche contemporanee diffuse all’estero, ma anche del precedente tutto italiano di Antonioni. Renato Guttuso, uno dei difensori più dichiarati del realismo figurativo nell’Italia del dopoguerra, scrisse un saggio in risposta alle dichiarazioni di Celant sull’Arte Povera, in cui sosteneva anche lui il ritorno agli elementi “banali e primari” dell’Arte Povera; a quello sgretolarsi del confine tra una gerarchia di oggetti e la loro presenza nell’arte. Da tempo Guttuso aveva riconosciuto “i primi segnali di arte povera nel fetore di una scuderia” che gli aveva evocato un dipinto di Gustave Courbet. Tuttavia, anche nel suo ammirevole desiderio di rafforzare il vuoto tra arte e realtà, Guttuso sostiene che l’Arte Povera abbia a sua volta “creato un nuovo vuoto” tanto elitario e alienante quanto quello della società borghese che intendeva criticare. In linea con la critica che Pasolini fa ad Antonioni, Guttuso dichiara che l’opera d’arte non deve occuparsi de “l’alienazione del linguaggio”, ma piuttosto de “l’alienazione dell’uomo”. Rifacendosi alla critica di Marx a Feuerbach, Guttuso sostiene che non bisogna limitarsi a


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— Renato Guttuso (1911 – 1987) Funerali di Togliatti, 1972, 340 x 440 cm tecnica mista su tavola Courtesy Direzione Nazionale Democratici di Sinistra (deposito permanente) foto: Matteo Monti

mettere in scena il mondo materiale, ma lo si debba invece trasformare. In uno scritto del luglio 1961, Pasolini descrive il paesaggio scelto per l’ambientazione delle ultime inquadrature di Accattone: “Fuori Roma verso le montagne e le vallate del Lazio meridionale, e precisamente tra Subiaco e Olevano: ma era sopratutto su Olevano, che puntavo, come luogo dipinto da Corot”. Anche nel rievocare un mondo ai margini della società, un modo privo di confini suoi propri, Pasolini si appellava sempre al trasporto semiotico e all’inquadratura della pittura. Il suo rapporto con l’arte non si era concluso infatti con gli studi sotto la guida di Roberto Longhi ma si estendeva ben oltre, fino all’uso iconografico della pittura rinascimentale nei suoi film. La rilevanza artistica e politica di Pasolini negli anni Sessanta e Settanta va rivista alla luce della sua fede nel simbolo, e dell’uso provocatorio che ne fa, sulla scia di una chiara iconoclastia. Fu proprio questo che in parte contribuì a farlo ricusare

persino – o particolarmente – all’interno della sinistra: sia in quanto comunista che abbracciava certi aspetti del cattolicesimo, sia in quanto rivoluzionario che si rifiutava di allinearsi con la dottrina su cui il sessantotto si basava. Ma è anche ciò che ci permette di cogliere il significato che l’insieme così provocatoriamente interdisciplinare delle sue opere ha per il mutevole mondo del realismo del ventesimo secolo.

Pier Paolo Pasolini between Neorealism and Neo-Avant-Garde Upon the release of Pier Paolo Pasolini’s Accattone (1961), the daily newspaper Oggi dismissed it as film about “human garbage” (“rifiuti umani”). The following year, at Mamma Roma’s screening during the Venice festival, a Neo-Fascist group denounced Pasolini’s characters as “The Apostles of mud.” Even in their spitefulness, such

epithets underscore the affinity of Pasolini’s work for the redemptive power of garbage. It was an affinity the artist himself took no pains to dissemble. The inhabitants of the borgata in Rome and other cities were, for Pasolini, human trash (“spazzatura umana”) – a term redolent, in all of its squalor, of only the most positive valences. For, only in abjection – both material and metaphysical – lay, for Pasolini, the promise of regeneration. “But from the world’s trash/a new world is born/new laws are born” (“Sex, Consolation for misery”). Discarded “waste” formed the ultimate refutation of capitalist and consumerist logic, excluded from their clockwork economy and hence a site of potential redemption, both social and erotic. Pasolini’s death would, in a sense, consummate this anti-economy; broken and flattened, his own body lay reduced to the pile of stained rags so frequently foregrounded in his cinema and poetry. “Su una strada miserabile, circondata da baracche, vecchie catapecchie, piena di


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ragazzini stracciati, sotto un sole furioso, c’era una triste, desolata campanella che suonava a morto. Accattone avanzava per la strada tramortita dal sole.” The boundary between the real and its rehearsal in aesthetics appeared – on that strip of muddy Ostian roadside where he was murdered – finally shattered, or evaporated. Such boundaries had been assailed with renewed vigor in post-war aesthetics, both in Italy and abroad, since the late 1950s. Mere fragments of trash came to stand – in their own unadulterated materiality – as the work itself. From the trash bins of Nouveau Réalisme, to the Neo-avantgarde assemblages that defied Abstract Expressionist “purity,” the autonomous art object increasingly yielded to a larger field of experience, in which mere presence took precedence over the shaping or framing of form. Tony Smith’s description in 1966 of his “conversion” to minimalism – after a car accident on the New Jersey Turnpike, which caused him to re-see the landscape’s derelict formlessness – forms one of the origin myths of this transition: “The road and much of the landscape was artificial, and yet it couldn’t be called a work of art. It did something for me that art has never done. It seemed that there was a reality there which had not had any expression in art.” The industrial wasteland – whether of Smith’s New Jersey, or Antonioni’s Ravenna in Red Desert – emerged as its own, selfreplenishing spring of meaning, not requiring shaping or craft, but simply a re-staging.

Contemporary with Pasolini’s first films, Michelangelo Antonioni used precisely the urban periphery as the intrinsically elliptical site for paratactic, existential narratives, whose meandering style seems at times dictated by the incoherence of the landscape itself. In L’Avventura and L’Eclisse, architecture occasionally shrugs off even its role as a means of framing and staging, becoming instead the focus of the image itself, to no particular narrative end. Detail and ephemera become, in Antonioni’s films, the subjects of contemplation in and of themselves. Leftist critics, including Pasolini, attacked Antonioni for not turning his characters’ estrangement into a social commentary, instead using their angst as the raw material for an “empty aestheticism.” Comparing Antonioni’s style to Alberto Moravia’s contemporary novel La noia, Pasolini criticized Antonioni’s L’avventura on the grounds that his characters never reflect upon their angst, and that Antonioni renders his characters as outside of history. The phenomenological resonances of Antonioni’s cinema – and critics’ attacks thereof – notably echoed in the trajectory of the plastic arts during the 60s. What Germano Celant called the “democratization of the senses” in Arte Povera aimed to recuperate the primary experiences of phenomenology over the more rarefied logic of aesthetic autonomy. That laying claim to mere natural, kinetic, and organic processes owed a certain debt not only to contemporary art practices abroad, but to Antonioni’s more local precedent.

IN ALTO

— Jannis Kounellis, Senza Titolo, 1969, Rete metallica, lana, 40x190x80 cm Courtesy Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT

One of the most outspoken defenders of figurative realism in postwar Italy, and a close associate of Pasolini, Renato Guttuso published an essay in response to Celant’s pronouncements on Arte Povera. Guttuso writes that he, too, supported a return to the “banal and primary” elements that Arte Povera proposed, the shattering of boundaries between a hierarchy of objects and their presence in art. Guttuso himself had long recognized, he writes, “the first signs of an arte povera in the stench of a [horse] stall” evoked by Gustave Courbet’s painting. Yet even in its admirable desire to shore up the void between art and life, Guttuso argues, Arte Povera “has created a new void” in its turn, as elitist and alienating as the bourgeois society it seeks to critique. In terms quite similar to Pasolini’s critique of Antonioni, Guttuso insisted that the work of art not concern itself with “the alienation of language,” but rather “the alienation of man”. Invoking Marx’s criticism of Feuerbach, Guttuso proposes that it no longer suffices to restage the material world, but that it must be transformed. In a piece of writing from July 1961, Pasolini described the landscape chosen for the site of the last frames of Accattone – “Fuori Roma verso le montagne e le vallate del Lazio meridionale, e, precisamente, tra Subiaco e Olevano: ma era sopratutto su Olevano, che puntavo, come luogo dipinto da Corot.” Even as he sought to evoke a world at the edges of society, a world without its own solid boundaries, Pasolini appealed to the framed, semiotic removal of painting. Just as Pasolini’s relation to art did not end with his training under Roberto Longhi, so too did it extend far beyond the iconographic deployments of Renaissance painting in his cinema. Pasolini’s bearing upon art and politics in the 1960s and 70s must be reconsidered in the light of his defiant belief in, and use of, the icon in the wake of a decided iconoclasm. This formed a piece with his broader recusancy even – or especially – within the left; whether as Communist who embraced certain aspects of Catholicism, or as a revolutionary who refused to square with the basic creed of 1968. But it also helps us to grasp what his defiantly interdisciplinary oeuvre means for a shifting history of realism in the twentieth century.


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Luciano Fabro Carla Lonzi: sconfessare la cultura di Alessandro Rabottini Riproponiamo il Manifesto del ‘68 in cui Carla Lonzi e Luciano Fabro analizzano il ruolo dell’artista rispetto alla società, riflettendo sul tema sempre attuale della libertà dell’artista

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Si può dire che le contestazioni del 1968 alla Triennale di Milano e alla Biennale di Venezia siano episodi che fanno parte della storia più di quanto non facciano parte della storia dell’arte, senza correre il rischio di scorporare l’arte dagli avvenimenti che la circondano, come se l’arte fosse una cosa a sé, una cosa che non si “sporca” con la realtà? Forse, in questo caso specifico, si può. Perché se guardiamo a quello che accadeva nell’arte d’avanguardia in quei mesi possiamo avanzare un’ipotesi: ovvero che le contestazioni degli studenti alle istituzioni dell’arte – nella loro legittimità, nel loro essere vitali e necessarie – partivano forse da una mancata comprensione di quanto stavano facendo, nel campo dell’arte, molti dei loro coetanei in Italia, negli Stati Uniti, in Germania fino in Giappone. Dico questo perché mi sembra che quella pressione da parte della “realtà” che i movimenti di emancipazione desideravano operare sui limiti della società tradizionale era già in atto, a livello linguistico, nell’arte di chi


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allora aveva vent’anni. In altre parole tutti quei materiali, le intenzioni e le procedure che stavano entrando a forza nel linguaggio dell’arte – dalla pratica dialogica dell’Arte Concettuale fino agli scarti della quotidianità dell’Arte Povera – stavano già performando una tale revisione dei modi di vedere e di percepire la realtà che la contestazione delle istituzioni in quanto tali, prese nella loro pura essenza formale, rischia di sembrare, almeno oggi, una forma di letterarietà più che di visionarietà, una pura estensione al dominio dell’arte di certi discorsi e di certe metodologie che erano stati sviluppati per altri campi della politica e della socialità. Ho sentito l’esigenza di riproporre – nel contesto di questa sezione di MAG dedicata al tema del realismo – il testo che segue, scritto da Carla Lonzi insieme a Luciano Fabro proprio in occasione delle contestazioni del 1968 alla Triennale di Milano e che ebbe Giulio Paolini come unico firmatario. È un’esigenza personale, la mia, di tornare sulle parole di chi ha cercato, in quei giorni, di fare chiarezza su un punto che mi sta molto a cuore, un punto su cui tento di riflettere ogni volta che mi interrogo su quanto e come sia possibile che l’arte venga a patti con la realtà che la circonda. In questa dichiarazione congiunta, in un linguaggio che oggi può sembrarci datato, c’è un però un desiderio che credo vada preservato, continuamente e criticamente discusso: ovvero che se all’arte va riconosciuto uno statuto di libertà – una libertà che nei secoli è stata, di volta in volta, rivendicata tanto nei confronti dell’imitazione della natura quanto verso i condizionamenti della politica – allora quella libertà deve rimanere uno spazio radicale. E se uno spazio è radicale allora non soltanto è irriducibile alle contingenze, anche le più giuste e condivisibili ma resta, soprattutto, problematico nella sua stessa

definizione. Esso deve poter preservare, se vogliamo, un’ambiguità che lo salva dalla storia, anche quando la storia ha contribuito esso stesso a farla.

Da: Carla Lonzi, Autoritratto, et al edizioni, Milano 2010 (prima ed. 1969) “L’individuazione dell’artista non avviene automaticamente poiché, mentre un operaio o uno studente sono definiti dalla loro appartenenza a delle categorie operative, essere artisti non abbraccia necessariamente l’insieme degli operatori in pittura o in scultura, non coincide con l’iscrizione a un sindacato. Si presenta così la necessità di svolgere un lavoro che porti verso una chiarificazione. L’artista ha il sospetto, storicamente fondato, che passare da una interpretazione di cultura borghese a una interpretazione di cultura marxista sia passare su un terreno comunque inadatto alla sua liberazione, poiché non sente di potersi sconfessare in un ruolo in cui non si riconosce e non può interrompere una attività in cui crede come possibile e vitale

una congiunzione con ogni individuo disponibile. Per l’artista non c’è alternativa di identificazione in questa società o in altra società ipotizzabile, perché è sua capacità il non identificarsi con la struttura sociale. L’artista è disposto a volere una rottura dei sistemi istituzionali perché nell’attuale stato della cultura la sua identità non è appropriata alla sua disponibilità. La cultura, nel suo processo di mediazione, ha riconosciuto che l’artista non si è configurato come un asservito al Sistema, ma ha considerato questo, un fatto non importante e non pericoloso perché neutralizzabile. È ovvio che, adesso, sia la cultura a dover giustificare il “suo” asservimento al Sistema. La cultura, non potendo esimersi dal prendere in considerazione le personalità più nuove e precise del movimento moderno (e su questa scelta possiamo riaffermare la nostra adesione), ha tuttavia agito in modo da renderle non operanti sulla coscienza del singolo. L’artista non ha dunque ragione di sconfessarsi né davanti a se stesso né davanti al proletario, poiché è sua premessa lo sconfessare la cultura in quanto canale di estraniazione dai motivi liberi, di autoregolazione, da cui nascono le opere d’arte. La cultura tende a creare una immagine falsificata dell’artista, della sua personalità e della fenomenologia artistica: è lì che è avvenuta quella distorsione mercificante già chiara a Marcel Duchamp 50 anni fa. Nella pretesa di tradurre alla società le implicazioni di una difficile sistema di segni, la cultura ha portato a una mistificazione. Oggetto della mistificazione è stato l’artista il quale ha visto la sua opera strumentalizzata, resa futile nella misura in cui sono state futili le motivazioni della cultura.

Is it possible to state that 1968 protests at the Milan Triennial and the Venice Biennial are episodes belonging to history more than to history of art, without the risk of discorporating art from its surrounding events, as if art was something on its own, something which does not sully with reality? Maybe, in this particular case, it is.


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in alto e a pag. 29

Immagini dall’occupazione della Triennale di Milano, 1968,

Courtesy Archivio e Centro di documentazione Fondazione La Triennale di Milano a sinistra

— Giulio Paolini, Autoritratto, 1968 Fotografia su tela emulsionata, 151 x 126 cm

Collezione privata, Torino Foto Courtesy Archivio Giulio Paolini, Torino

Because looking backwards to what happened for, and around, the avant-gardes, in that period, a hypothesis may be advanced: i.e. that student protest against art institutions – in their legitimacy, in their being vital and necessary – were maybe born from the lack of comprehension of what most of their peers were doing, in the artistic environment, in Italy, in the United States, in Germany and in faraway Japan. I am saying this because it seems to me that the same pressure from “reality” that the emancipation movements wanted to operate on the limits of a traditional society, was already put into action, at a linguistic level, by the art of those who were in their 20s at the time. In other words, all those materials, intentions and procedures which were forced into the artistic language – from the dialogic practice of Conceptual Art to the everyday discards of the Arte Povera – were already performing such a revision of the different ways to see and perceive reality, that the protests against institution itself, taken in its pure formal essence, may result, at least today, more a form of literariness than a form of visionariness, a pure extension of the supremacy of art in certain dialogues and certain methodologies which were developed for other fields in politics and society. I felt the need to report again – in the context of this section of MAG dedicated to realism – the following text, written by Carla Lonzi

together with Luciano Fabro in occasion of 1968 protests at the Milan Triennial which saw Giulio Paolini as the only signatory. This is my personal need: to go back to the words of those who tried to bring the truth to light, about a subject which I feel close to and on which I try and reflect every time that I ask myself: how much and how it is possible that art comes down to some agreement with its surrounding reality. In this joint declaration, in a language that may sound old to us, there is in fact a desire, that I believe must be preserved, and continuously and critically discussed: i.e. if a freedom charter has to be recognized to art – a freedom that was claimed, over and over again throughout centuries, from nature imitation as much as from politics’ impact – then that freedom must remain a radical space. And if a space is radical then not only it is invincible to contingencies, even the most rightful and shareable, but its definition still remains difficult. It has to preserve, in a way, an ambiguity which saves it from history, even when the latter itself contributed to create it. From: Carla Lonzi, Autoritratto, et al edizioni, Milano 2010 (first ed. 1969) “Artist individuation does not occur automatically as, if a worker or a student is

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defined by their membership to operative categories, being an artist does not necessarily embrace the whole operators in painting and sculpture, it does not coincide with the joining of a union. It is therefore necessary to develop a work for clarification. The artist has the suspicion, historically based, that passing from a bourgeois interpretation to a Marxist interpretation, is like passing anyway through territory not appropriate to his liberation, as he feels he cannot disavow a role in which he does not recognize himself and he cannot interrupt an activity in which he believes a conjunction is possible and vital with any available person. For the artist there is no alternative identification in this or any other hypothetical society, because it is his ability not to identify with the social structure. The artist is ready to want a break-up of the institutional system because in the contemporary state of culture his identity is not appropriate for his availability. Culture, during its mediation process, has recognized that the artist did not enslave himself for the System, but he did consider this, a fact which is not important nor dangerous, because it can be neutralized. Clearly, now, culture is the one that has to justify “its” enslavement to the System. Culture, not being able to avoid taking into consideration the new and fine characters of the modern movement (and on this choice we can reaffirm our adhesion), has anyway acted in order not to have them operating on the conscience of the single. The artist has therefore no reason to disavow in front of himself nor in front of a worker, as his premise is the disavowal of culture as an alienation channel from free purpose and self-regulation, from which the art works are born. Culture tends to create a falsified image of the artist, of his personality, and of the artistic phenomenology: this is where the commodifing distortion took place, and it was already clear to Marcel Duchamp 50 years ago. Pretending to translate for society the implications of a difficult sign system, culture leads to a mystification. The object of this mystification has been the artist who saw his work exploited, made futile in the measure along which the purposes of culture were futile too.


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Il realismo è un fiore a cura di Alessandro Rabottini

cos’è il REALISMo oggi? Artisti e curatori internazionali riflettono sulla questione del realismo

in alto e a destra

— Sharon Lockhart Lunch Break (Assembly Hall, Bath Iron Works, November 5, 2007, Bath, Maine, 2008) film 35 mm trasferito su HD, 80 min. Courtesy Sharon Lockhart


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BILL ARNING Direttore Contemporary Arts Museum, Houston Il realismo è una posizione più che un costrutto stilistico. Prendiamo ad esempio un film di fantascienza proiettato in un magnifico cinema IMAX, è tutt’altro che realistico – le fantasie che racconta sono coinvolgenti e irresistibili – ma lo stesso film visto in una vecchia sala, immersi nell’odore scatenato dalle ghiandole sudorifere degli adolescenti intorno a voi alla vista delle scene che passano sulla loro retina, sarà un’esperienza tutt’altro che fantastica. Nell’arte contemporanea, l’estetica relazionale, l’arte politica, il videodocumentario e il minimalismo possono tutti rivendicare una relazione con la realtà, ma nessuno di loro può affermare di essere qualcosa più della posizione di ciò che si rifiuta di rappresentare, e in questo tutti i realismi si somigliano. Il realismo non può assolutamente essere più autentico di così. Quando studiavo la storia dell’opera e cercavo di capire come questa forma d’arte impossibile potesse mai affermare di rifarsi al verismo, mi sono reso conto che se si poteva definire La Bohème realista, allora tutto può essere realismo. In quel senso il realismo è un fiore che può offrire nuove prospettive su ciò che è familiare. Il realismo è irreale e i paradossi sono sempre dei fiori. Realism is an attitude rather than a stylistic construct. Take a science fiction film being shown in a top-notch IMAX theater which appears far from realistic – its fictions engrossing and irresistible – and look instead at the film in the sprockets and smell the nerdy teenagers in their seats having their bodies odoriferous sweat from images flashing on their retinas and grittiness overtakes the fantastic. In contemporary art relational aesthetics, political art, documentary video and minimalism all have a claim on the real but none have exclusive claim to anything more than an attitude of something that refuses to represent, the other realisms are alike. There is no chance at all that realism is in any sense authentic beyond that. When I was learning the history of opera and tried to understand how this impossible

art form could ever claim verismo as a value I realized that if La Boheme could be justified as realism anything could. In that sense realism is a flower because it can offer new perspectives on the familiar. Realism is unreal and paradoxes are always flowers.

NIGEL PRINCE Direttore Contemporary Art Gallery, Vancouver Tutto è stato contemporaneo in un certo momento, ma conserva significato per le generazioni future, indipendentemente dal cambiamento di contesto, proprio come tutto quello che ora è contemporaneo diventerà inevitabilmente storico. È così che possiamo leggere il termine “realismo”, perché anche se l’urgenza della rappresentazione nel qui e ora passa o si altera nel tempo, quelle opere conservano il loro impatto. Così oggigiorno, anche se in un contesto diverso, il realismo continua ad affrontare le questioni che ci preoccupano e, commentandole o criticandole, dà significato alla nostra condizione. Everything was contemporary once but retains meaning for future generations regardless of the passing of context, just as much as what is contemporary now

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will inevitably become historical. For this we can read ‘realism’. For even though the fervour which first makes a need for representation so urgent in the here and now passes or alters with time, such works can still preserve their impact. Unfortunately we often don’t learn by history; the same mistakes or considerations just don’t go away. So realism today, while in a different context, continues to grapple with issues that preoccupy us and through comment or critique of these questions gives meaning to our condition. NICHOLAS CULLINAN Curatore d’Arte Moderna Internazionale Tate Modern, Londra Dove si può tracciare il confine tra realismo e realtà? È stata una questione centrale per la cultura italiana degli anni Sessanta sulla scia del neorealismo, posta da Carlo Salinari nel seminale saggio La questione del realismo del 1960. Germano Celant ha cercato di rispondere nei suoi scritti sull’Arte Povera, che privilegiavano l’espressione “realtà sociale” sul “Realismo Sociale”, ed erano in relazione dialettica con il Realismo (con l’R maiuscola) sponsorizzato dal Partito Comunista Italiano ed esemplificato dai quadri di Renato Guttuso. Piero Gilardi può aver creato delle opere che imitavano il letto di un fiume o forme vegetali, ma erano pur


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Il realismo è un fiore a cura di Alessandro Rabottini

sempre fatte di polistirene; mentre i canali d’irrigazione di Pino Pascali erano fatti di contenitori d’acciaio pieni di acqua colorata artificialmente. Il Realismo, o meglio la realtà, è letteralmente un fiore nel Senza titolo (Margherita di fuoco) di Jannis Kounellis del 1967, in cui una fiamma di propano emerge clamorosamente da un fiore di metallo per esplorare la sovrapposizione tra natura e artificio. Where might the boundaries between realism and real life be demarcated? This was a central question for Italian culture during the 1960s in the wake of neorealismo, as posed by Carlo Salinari’s influential La Questione del Realismo of 1960. Germano Celant would attempt to answer this question in his writings on Arte Povera, which privileged ‘social reality’ over ‘Socialist Realism’, and had a dialectical relationship with the sort of Realism (with an emphatic capital ‘R’) sponsored by the Italian Communist Party and exemplified by the paintings of Renato Guttuso. Piero Gilardi may have made works aping river beds and vegetal forms, but they are always made of polystyrene; while Pino Pascali’s irrigation channels were made from steel containers replete with artificially dyed water. Realism, or rather, reality, is literally a flower in Jannis Kounellis’s Senza titolo (Margherita di fuoco) of 1967, in which a propane flame bellows dramatically from a metal flower, to explore the overlap between nature and artifice. NIKOLA DIETRICH Curatore Museum für Gegenwartskunst, Basilea Il cyborg, come viene definito da Donna Haraway, potrebbe essere un’immagine adeguata per definire i tentativi di molti artisti di entrare in contatto con il reale: “Un cyborg è un organismo cibernetico, un ibrido di macchina e organismo, una creatura che appartiene tanto alla realtà sociale quanto alla finzione. La realtà sociale è costituita dalle relazioni sociali vissute, è la nostra principale costruzione politica, una finzione che trasforma il mondo”. Il cyborg è il soggetto considerato come assemblaggio: è l’idea che l’organismo

umano non possa essere rappresentato come un tutto indivisibile, ma come molti organismi che hanno funzioni specifiche. Riduzione, decostruzione e ricombinazione sembrano essere i mezzi attraverso cui mostrare il contributo di significato di ogni minimo elemento dell’opera d’arte. The image of the cyborg, as defined by Donna Haraway, seems to be adequate for many of the artists’ attempt at touching the real: “A cyborg is a cybernetic organism, a hybrid of machine and organism, a creature of social reality as well as a creature of fiction. Social reality is lived social relations, our most important political construction, a world-changing fiction.” The cyborg is the subject considered as an assemblage. It is the idea that the human organism can’t be represented as an indivisible whole, instead of many organs that have specific functions. Reduction, deconstruction and recombination seem to be means with which every little element of the art work is shown to be significant.

massimo grimaldi Artista, Milano Credo che i quadri appesi nell’ufficio di Gekko/Michael Douglas in Wall Street, il film del 1987 diretto da Oliver Stone, siano esempi efficaci di realismo. Orpelli il cui valore culturale è subordinato a quello economico, mere funzioni speculative, sono il momento in cui l’arte smette di evocare l’essenza cruda della realtà per lasciarsi da essa attraversare e decorativizzare. In questa sua permeabilità, nella duttilità dei significati che gli possono essere attribuiti, nell’arbitrarietà dei suoi valori, l’opera d’arte non rappresenta più il suo tempo ma ne viene rappresentata. Massa neutra porosa e indecisa, in un mondo deformato da prodotti sempre più specializzati e da capitali sempre più aggressivi, il suo non può che essere un realismo di tipo diverso, un realismo subito. La realtà non viene più resa esponenziale attraverso il suo racconto, diventa invece esponenziale l’incapacità di raccontarla.

I think that the paintings in Gekko/ Michael Douglas’ office in Oliver Stone’s Wall Street (1987) are effective instances of realism. They are frills whose cultural value depends on their economical value. Mere economical speculations, they embody the time when art stops evoking the crude essence of real life while being transformed by real life in pure ornamentation. Through this permeability, through the pliability of meanings which can be attributed to it, through the arbitrariness of its values, the artwork no longer depicts its time, but is depicted by it. It has become a neutral, porous and indefinite mass. In a deformed


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a sinistra e in alto

— Claudio Abate Jannis Kounellis, 1970 Stampa ai sali d’argento, Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT

— Sharon Lockhart Larry Concklin, Welder, 2008 tre c-print.

Courtesy Sharon Lockhart

world of hyper-specialized products and ever more aggressive assets, the artwork is subject to realism. Reality is no longer exponentially growing through its retelling, on the contrary the inability to relate it becomes exponential. JÖRG HEISER Editor della rivista Frieze, Berlino “Realismo” è l’escamotage semplicistico per sottrarsi al millenario dibattito sulla nozione di “verità”. Il termine realismo cerca di evocare l’urgenza, gli odori e le interazioni tattili, l’esperienza diretta. Quindi lo considero un termine fumoso

che non ci aiuta. Oggi è un truismo dire che viviamo in realtà mediatiche multiple che si sovrappongono come filtri fotografici di diverso colore davanti all’obbiettivo. Ma la verità è che non possiamo fare a meno di una nozione della verità. Di fatto valutiamo costantemente le opere in termini di truth-value, di valore di verità: ci chiediamo se le istanze che propongono corrispondono effettivamente alle cose che sostengono di affrontare (l’artista che afferma di mettere in discussione lo sfruttamento rappresentando gli sfruttati, indaga correttamente le condizioni in cui vivono quelle persone, ecc.?). Quindi: che cos’è la verità? Oggigiorno, riassumendo con un buon margine di distorsione probabilmente, possiamo scegliere tra il modello di Foucault che vede la verità come un effetto del potere (chi detiene il potere decide che cos’è vero e cosa no) e il modello di Habermas che propone la libertà come effetto del consenso (se in un dibattito libero le persone intelligenti concordano che qualcosa è vero, allora quello – nel bene e nel male sarà quanto di meglio c’è in fatto di verità). La scelta fra Foucault e Habermas è una scelta fasulla: dobbiamo imparare a pensare alle due

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cose insieme, o piuttosto al movimento tra le due cose. In altre parole, se davanti a un’opera d’arte cerchiamo di interrogarne il valore di verità, possiamo chiederci in che modo le istanze di verità che presenta possano essere l’effetto di un certo tipo di relazioni di potere, e poi cambiare prospettiva e considerare le istanze come se fossero l’effetto di un dibattito libero tra persone intelligenti che cercano di comprendere la realtà della cosa in questione. Non c’è un modo semplice di sottrarsi a questo. “Realism” is the easy way out of the age-old philosophical debates around the notion of “truth”. The term “realism” tries to evoke urgency, the smells and handson haptic interactions, direct experience. Therefore I think it’s a wooly term that doesn’t really help much. It’s a truism today to state that we live in multiple media realities that superimpose like differently coloured filters in front of a camera lens. But the truth is, we can’t do without a notion of truth. In fact we test works in terms of their truth-value all the time: we wonder whether the claims they imply actually correspond to the


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things they claim to respond to (does the artist claiming to tackle exploitation by representing the exploited really investigate properly the actual conditions those people live under, etc.?). So what is truth? Today, to put it most bluntly and probably distorting, we usually get the choice between Foucault’s model of truth as an effect of power (whatever is in power, declares what is true and what is not) and the Habermasian model of truth as an effect of consensus (if in a free debate smart people agree on something to be true, that’s for better or worse the next best thing to truth itself). This choice between Foucault and Habermas is a false choice; we have to learn to think the two together, or rather the movement inbetween. In other words, if we confront an artwork and try to investigate its truthvalue, we may alternate between asking how its claims to truth might be an effect of a certain set of power-relations; and then change perspective and look at it as if it was the effect of a free debate amongst smart people trying to get close to what is actually the case. There is no easy way out of that. TOM MORTON Curatore Hayward Gallery, Londra Cosa succede all’opera di realismo quando la realtà cambia? Se un particolare realismo è “sempre condannato ad avvizzire come un fiore”, c’è un momento precedente in cui il polline viene trasportato proficuamente dalla brezza? Il fiore è principalmente un apparato riproduttivo. Anche il realismo è riproduttivo: tenta di riprodurre la realtà. Forse allora è questione di genealogie – di radici che affondano nella terra. Se “oggi la ‘realtà’ sembra essere dappertutto”, vedremo presto (o vediamo già?) un certo desiderio di sole pallido, rami spogli e di racconti d’inverno? Ci troviamo ora ad occupare una primavera perpetua e inquietamente feconda? Che cosa potrebbe far avvizzire il realismo contemporaneo? Come ogni altra cosa vivente, il fiore nasce per morire. What happens to the realist work when the real world turns? If a particular realism

is ‘always condemned to wither like a flower’, is there a moment prior to this in which its pollen is blown fruitfully on the breeze? A flower is primarily a reproductive apparatus. Realism is also reproductive: it attempts to reproduce the real. Perhaps this is a matter, then, of genealogies – of roots buried in hard earth. If ‘today “reality” seems to be everywhere’, will we see soon (or are we seeing already?) a certain yearning for the pale sun, bare boughs, and hearthside tales of winter? Do we now occupy a perpetual and queasily fecund spring? What might wither contemporary realism? Like every living thing, a flower is born to die. Cecilia Canziani Curatrice, Roma In questi giorni ho letto un libro di Danilo Dolci che si intitola Gente Semplice. Sono racconti in prima persona di uomini e donne che parlano del loro rapporto con le cose e le persone, e dalle loro voci risulta una storia dell’Italia dal dopoguerra in poi. Poi è arrivata la tua domanda, e allora mi piacerebbe rispondere con le parole di Nòvita, dieci anni nel 1984, di Partinico:“Vedo solo una parte di qualcosa. E non si può vedere troppo piccolo, per vedere occorre una prospettiva. Guardare

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— Massimo Grimaldi, Emergency’s Paediatric Centre In Goderich Photos Shown On Two Apple iMac Core i3s, 2010 2 Apple iMac Core i3s, dimensioni variabili.

può anche essere nel piccolo ma vedere abbraccia un insieme, non mi accorgo solo di una cosa. A occhi chiusi puoi immaginare, fantasticare quasi a tuo comando, ma a occhi aperti puoi vedere la realtà”. I’ve recently read Gente Semplice, a book by Danilo Dolci. It’s a series of short stories narrated in the first person where men and women speak about their relationship with things and other people. Their voices tell the story of Post War Italy. When you asked me to intervene, I thought I could quote Novita from Partinico, who was ten years old back in 1984: “I only see a part of something. You can’t look at things too closely, you need to have a perspective view in order to see. You can also look at things closely, but you need to picture a whole to be able to really see. This is how I notice more things at once. If you close your eyes, you can imagine things and you can daydream whatever you like, but it’s when you open your eyes that you really see reality.


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COPYRIGHT, DENARO E CONTROLLO DELLE MASSE di AA Bronson

General Idea è nato sulla scia del Maggio francese, dei detriti delle comuni hippie, dei giornali underground, della radical education, degli happening, dei love-in, di Marshall McLuhan e del situazionismo internazionale. Credevamo in un’economia libera, nell’abolizione del copyright, in una struttura orizzontale che prefigurava Internet. Vorrei descrivere in breve la strategia con cui General Idea ha definito il territorio tra l’arte e il commercio e ha contestato le strategie del copyright che oggi definiscono la cultura. La Cultura della Boutique

IN ALTO

— General Idea, Nazi Milk, 1979 Lacca su vinile, 225 x 180 cm © General Idea

Quando nel 1969 Jorge, Felix e io abbiamo cominciato a vivere e lavorare insieme sotto il nome di General Idea, sapevamo già che nella nostra convivenza si fronteggiavano due forze opposte: il desiderio di produrre arte e il desiderio di sopravvivere. In una sorta di modulazione dell’arte concettuale e della Process art che ci avevano preceduto, abbiamo pensato di inglobare nell’arte stessa il commercio e l’economia del mondo artistico: “Volevamo essere ricchi e famosi: glamorous, prestigiosi. Ossia, volevamo essere degli artisti e sapevamo che se fossimo stati famosi e prestigiosi potevamo dire di essere degli artisti, e quindi lo saremmo stati... Così abbiamo fatto. E siamo diventati noti artisti prestigiosi”1.


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Il realismo è un fiore a cura di Alessandro Rabottini

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— General Idea, «Glamour Issue», in FILE Megazine, Toronto, Art Metropole, Art Official Inc., Vol.3, #1, autumn 1975. © General Idea

Nelle prime opere, ad esempio in The Belly Store (1969) o in Betty’s (1970)2, abbiamo aperto al pubblico la vetrina del salotto di casa nostra in un progetto che comprendeva una serie di “negozi”. I nostri primi multipli erano i prodotti che mettevamo in vendita, a volte objets trouvés, a volte assemblati, oppure riciclati o pezzi da pochi soldi (cfr. George Saia’s Belly Food, 1969). Di fatto alcuni negozi non erano mai aperti, il pubblico poteva guardare attraverso la vetrina il materiale esposto, ma un cartello sulla porta dichiarava continuamente “torno fra 5 minuti.” Come nell’opera degli artisti di Fluxus, che abbiamo incontrato di lì a poco, i nostri multipli lowcost dovevano bypassare il sistema delle gallerie, quell’economia del valore aggiunto, e diffondersi attraverso un pubblico più alternativo di studenti, artisti, scrittori, fan del rock’n’roll, di nuovi generi musicali, ipertrendy e mediadipendenti. Nel 1980 abbiamo esposto per la prima volta The Boutique from the 1984 Miss General Idea Pavillion alla Carmen Lamanna Gallery di Toronto. Costruita tridimensionalmente come il simbolo del dollaro, la struttura della boutique trasformava la galleria in un punto vendita al dettaglio, commerciando i multipli e le pubblicazioni di General Idea, ad esempio Liquid Assets (1980), o Nazi Milk (1979). C’era

anche una commessa seduta nel piccolo spazio che avevamo predisposto, e la sua presenza, insieme alle transazioni di denaro, prodotti e informazioni attraverso il bancone, era un aspetto integrale dell’opera. La vera problematica della Boutique si è palesata quando l’opera ha cominciato a essere esposta nei musei. In alcuni musei non si potevano vendere i prodotti della Boutique per via di conflitti con i loro bookstore; ma la maggior parte delle istituzioni non voleva vendere i prodotti della Boutique perché considerava un’eresia che il commercio infettasse la purezza del white cube. Anche se i tempi sono cambiati, e i musei non nascondono il loro smodato bisogno di denaro, a nessuna delle Boutique di General Idea è permesso di funzionare come installazione attiva nell’economia finanziaria del museo3. Nella mostra The Museum as Muse, il Museum of Modern Art di New York ha esposto la Boutique con i suoi multipli sotto plexiglas, cosicché non li si potesse toccare, in una sorta di stato castrato e puramente archivistico. Credo che sia la vendetta perfetta per un’opera d’arte che ha osato denunciare l’ipocrisia del museo. La Yen Boutique di General Idea (1989) ha subito una serie analoga di umiliazioni al Centre Pompidou, quando un cospicuo gruppo di Test Pattern: T.V. Dinner Plates (1988) è stato rubato nei primi 45 minuti dall’apertura, e il curatore ha tolto tutti gli oggetti della boutique per la durata della mostra4. Boutique Coeurs volants (1994-2001), replica tridimensionale di un’opera grafica di Duchamp, è la più recente delle Boutique ed è progettata perché possa essere facilmente controllata nei trafficati musei d’oggigiorno: espone un solo multiplo di General Idea: Dick All (1993-2001) prodotto postumo, basato sul Cuneo della castità (1954) di Duchamp. Copyright La chiave della cultura consumistica contemporanea è il copyright: senza copyright e la santità del diritto d’autore individuale e/o societario, la megaeconomia odierna collasserebbe – pensate alla Microsoft, per esempio, senza il copyright. I musei fungono da custodi simbolici del copyright, e l’opinione di un esperto sull’autenticità di un’opera può aumentarne o diminuirne vertiginosamente le quotazioni. General Idea ha sempre creduto nel

pubblico dominio, e gran parte della nostra produzione era effettuata nel pubblico dominio. Per molti anni abbiamo prodotto commercialmente le nostre opere per evitare il feticismo della mano dell’autore, o il marchio del genio individuale. Parallelamente anche il nostro nome collettivo smentiva l’autorialità individuale dell’opera. Durante i 25 anni della nostra collaborazione abbiamo messo in discussione e giocato con i vari aspetti dell’autorialità e del copyright. Nel 1976, la Time-Life Corporation ha fatto causa a FILE Megazine (1972-1989), un’opera di General Idea nel format di una rivista, perché simulava LIFE Magazine. Le idee di William Burroughs sulle immagini e i virus ci avevano sempre interessato, in particolare il copyright di forme e colori specifici. La cultura aziendale ha usato il logo protetto da copyright (e perfino i colori, come il giallo della Kodak) come un virus da iniettare nel circuito commerciale della nostra società, infettando la popolazione e creando un flusso compiacente di denaro. Time-Life detiene il copyright dei “caratteri bianchi in stampatello maiuscolo su un parallelogrammo rosso.” La corporation ha ritirato la denuncia contro di noi soltanto quando Robert Hughes, l’attuale critico d’arte del TIME, ha deriso i suoi datori di lavoro sulle pagine del Village Voice. Il dipinto del 1964 di Robert Indiana, LOVE, è un esempio dell’opera di un artista sfuggita al copyright per entrare nel dominio pubblico di tovagliolini, portachiavi e altri accessori commerciali. Possiamo vedere la cosa come un’immagine virus che ha avuto una mutazione, una specie di cancro dell’immagine. Così anche il logo di General Idea, AIDS (1987), un plagio o simulacro del LOVE di Indiana, intendeva sfuggire al copyright e viaggiare liberamente nella giungla della pubblicità e nei sistemi comunicativi della nostra cultura. E così è stato; è diventato una serie di poster, cartelloni pubblicitari, insegne elettroniche, per strada, in televisione, in Rete, e sui periodici: il Journal of the American Medical Association l’ha messo in copertina nel 1992; Newsweek l’ha usato su ogni pagina di un’edizione speciale; e la rivista d’arte svizzera Parkett ha pubblicato fogli di francobolli AIDS (1988) che il lettore poteva iniettare nel sistema postale su buste e pacchi come una sorta di antrace visiva. Nei nostri ultimi giorni, General Idea ha attaccato e celebrato i bastioni della storia


mag #2 - gam magazine

dell’arte. Abbiamo prodotto una serie di opere che mettevano in discussione il copyright di Mondrian, Rietveld, Reinhardt e Duchamp, con simulacri alterati in materiali smaccatamente falsi: per esempio dipinti di Mondrian su pannelli di polistirolo, o una stampa fotografica modificata di una riproduzione apparsa in un catalogo di un’opera di Duchamp, che era a sua volta un’alterazione di una stampa di un altro artista (Infe©ted Pharmacie, 1994)5.

Marshall McLuhan, and the International Situationists. We believed in a free economy, in the abolition of copyright, and in a grassroots horizontal structure that prefigured the Internet. I want to briefly describe here the strategy by which General Idea defined the territory between art and commerce, and challenged the battle lines of copyright that define culture today.

Vivere nelle contraddizioni

When Jorge, Felix, and I began living and working together as General Idea in 1969, we were already aware of two opposing forces in our communal life: the desire to produce art, and the desire to survive. And in a sort of natural inflection of the Conceptual and Process art which immediately preceded us, we turned to the idea of incorporating the commerce of art and the economy of the art world into the art itself: “We wanted to be famous, glamourous, and rich. That is to say, we wanted to be artists and we knew that if we were famous and glamourous we could say we were artists and we would be… We did and we are. We are famous glamourous artists.”1 In our earliest works, such as The Belly Store (1969) or Betty’s (1970)2, we opened our storefront living space to the public as a series of “shops,” projects in the format of commerce. Our earliest multiples were the products we offered for sale there, sometimes found objects, sometimes fabricated of cheap or scavenged materials (see George Saia’s Belly Food, 1969). Some of the shops were in fact never open: the viewer could look into the display window and see the contents, but a little sign on the door perpetually proclaimed “back in 5 minutes.” Like the work of the Fluxus artists, whom we met soon, our low-cost multiples were intended to bypass the gallery system, that economy of added value, and to travel through the more alternative audience of students, artists, writers, rock’n’roll fans, new music types, trendoids, and media addicts. In 1980, we first exhibited The Boutique from the 1984 Miss General Idea Pavillion at the Carmen Lamanna Gallery in Toronto. Built in the form of a three-dimensional dollar sign, the boutique structure transformed the street-level gallery into a retail outlet, with

General Idea era insieme complice e critico dei meccanismi e delle strategie che uniscono arte e commercio, una sorta di talpa del mondo artistico. La nostra abilità di vivere e operare nelle contraddizioni definiva la nostra opera: trovavamo simultaneamente affascinanti e repellenti i meccanismi della cultura economica contemporanea. Ci siamo iniettati nel circuito di questa cultura infettiva e siamo vissuti, come parassiti, alle spese di questo ospite mostruoso. Ristampa da General Idea Editions Frédéric Bonnet (cur.), General Idea. A Retrospective (1969-1994), JRP|Ringier, Zurigo 2011. General Idea, “Glamour,” FILE Megazine 3:1 (autunno 1975). The Belly Store in collaborazione con John Neon, fu inaugurato l’11 dicembre 1969 nel salotto di Gerrad Street 78, la casa che General Idea affittò nel 1969-70. Jorge Zontal aveva uno stand in cui vendeva George Saia’s Belly Food, delle bottiglie di plastica riempite di cotone, con etichette create da AA Bronson. Betty’s, un negozio di abbigliamento femminile, venne inaugurato il 1 gennaio 1978 allo stesso indirizzo: era una collaborazione tra Jorge Zontal, Ken Coupland e Ron Terrill e apparve in un articolo sulle pagine dedicate alla moda del Globe and Mail di Toronto. Alcuni abiti vennero usati per gli eventi di Miss General Idea [N.d.C.] 3 The Museum as Muse, Museum of Modern Art, New York, 14 marzo – 1 giugno 1999. 4 Let’s Entertain (mostra itinerante), Walker Art Center, Minneapolis/Centre Pompidou, Parigi, 2000-2001. 5 Molte di queste erano “infettate” con il verde del logo rosso/ verde/blu dell’AIDS/LOVE. 1 2

Copyright, Cash, and Crowd Control: Art and Economy in the Work of General Idea General Idea emerged in the aftermath of the Paris riots, from the detritus of hippie communes, underground newspapers, radical education, Happenings, love-ins,

Boutique Culture

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General Idea’s multiples and publications for sale, for example Liquid Assets (1980), or Nazi Milk (1979). A full-time shopgirl sat within the tiny compartment we provided, and her presence as well as the exchange of cash, product, and information across the counter were integral aspects of the work. The true problematic of the Boutique was revealed when it began to be exhibited in museums. Some museums were unable to sell from the Boutique because of conflicts with their museum shops; most were unwilling to sell from the Boutique because of the heresy of commerce infecting the pure white cube. Although times have changed, and museums are now more public about their all-consuming need for money, none of the General Idea Boutique have been allowed to function as working installations participating in the financial economy of the museum. In the exhibition The Museum as Muse, The Museum of Modern Art in New York exhibited the Boutique with the multiples under Plexiglas, so they could not be touched, in a sort of castrated and purely archival state. I think of this as the ultimate revenge on the artwork that dared to expose the hypocrisy of the museum3. General Idea’s Yen Boutique (1989) went through a similar series of humiliations at the Centre Pompidou, when a large group of Test Pattern: T.V. Dinner Plates (1988) was stolen during the first 45 minutes of the opening, causing the curator to strip the boutique of its wares for the duration of the exhibition4. Boutique Cœurs volants (1994–2001), a freestanding sales exhibit in a three-dimensional replica of a Duchamp graphic, is the most recent of these works, and is designed for easier control in today’s high-traffic museums. It exhibits only one General Idea multiple: the posthumously produced Dick All (1993–2001), based on Duchamp’s Wedge of Chastity (1954). Copyright The key to contemporary consumer culture is the copyright: without the copyright and the sanctity of (individual and/or corporate) authorship, today’s mega-economics would collapse–imagine Microsoft, for example, without copyright. Museums act as symbolic keepers of the virtue of copyright, and an art expert’s opinion on the authenticity of a work can


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Il realismo è un fiore a cura di Alessandro Rabottini

send values soaring or crashing by vast amounts of money. General Idea has always believed in the public realm, and much of our production was carried out there. For many years we used commercial fabrication of works to avoid the fetishism of the artist’s hand, of the mark of the individual genius. Similarly, our corporate name belied individual authorship. For the entire 25 years of our collaboration, we questioned and played with various aspects of authorship and copyright. FILE Megazine (1972–1989), General Idea’s work in magazine format, was sued by the Time-Life Corporation for its simulation of LIFE magazine in 1976. We had always been interested in William Burrough’s ideas about images and viruses, and especially the copyright of specific forms and colors. Corporate culture used copyright-protected logos (and even colors, such as Kodak yellow) as a virus to be injected into the mainstream of our society, infecting the population, and creating a sympathetic cash flow. Time-Life holds copyright on “white block lettering on a red parallelogram.” It was only when Robert Hughes, TIME magazine’s current art critic, ridiculed his employers in the pages of The Village Voice that the corporation dropped its suit against us. Robert Indiana’s LOVE painting of 1964 is an example of an artist’s work that escaped copyright and entered the public realm, appearing as cocktail napkins, keychains, and other commercial paraphernalia. We might think of this as an image virus gone awry, a sort of image cancer. Similarly, General Idea’s AIDS logo (1987), a plagiarism

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— General Idea, One Year of Azt e One day of Azt, 1991. Stirene e vinile sottovuoto, 1.825 pillole sul muro, 12,7 x 31,7 x 6,3 cm ciascuna, 5 pillole sul pavimento, 85 x 213,3 x 85 cm ciascuna. © General Idea

or simulacrum of Indiana’s LOVE, was intended to escape copyright and travel freely through the mainstream of our culture’s advertising and communications systems. And so it has, as a series of posters, billboards, and electronic signs, on the street, on television, on the Internet, and in periodicals: The Journal of the American Medical Association carried it on its cover in 1992; Newsweek used it on every page of a special issue; and the Swiss art journal Parkett published sheets of AIDS stamps (1988) which the reader could inject into the postal system on envelopes and parcels—a sort of visual anthrax. In our final days, General Idea attacked and celebrated the bastion of art history itself. We produced a series of works challenging the copyright of Mondrian, Rietveld, Reinhardt, and Duchamp, with altered simulacra of frankly fake materials: Mondrian paintings on Styrofoam panels, for example, or an altered photographic print of a catalogue reproduction of a work by Duchamp which was itself an alteration to a found print by another artist (Infe©ted Pharmacie, 1994)5. Living in contradiction

in alto

— General Idea AIDS, 1987 Acrilico su tela, 183 x 183 cm © General Idea

General Idea was at once complicit in and critical of the mechanisms and strategies

that join art and commerce, a sort of mole in the art world. Our ability to live and act in contradiction defined our work: we were simultaneously fascinated and repulsed by the mechanisms of today’s cultural economy. We injected ourselves into the mainstream of this infectious culture, and lived, as parasites, off our monstrous host. Reprint from General Idea Editions Frédéric Bonnet (ed.), General Idea. A Retrospective (1969–1994), JRP|Ringier, Zurich 2011, p. 118ff.

General Idea, “Glamour,” FILE Megazine 3:1 (autumn 1975). The Belly Store, a collaboration between General Idea and the artist John Neon, opened on December 11, 1969, in the living room of 78 Gerrard Street, the house rented by General Idea in 1969–1970. Jorge Zontal had a stand where he sold George Saia’s Belly Food, plastic bottles filled with cotton, with labels designed by AA Bronson. Betty’s was inaugurated on January 1, 1970, at 78 Gerrard Street. A shop of women’s clothes, and a collaboration between Jorge Zontal, Ken Coupland, and Ron Terrill, it was the subject of an article in the fashion pages of the Toronto Globe and Mail. Certain dresses were used for the Miss General Idea events (note from the editor]. 3 The Museum as Muse, Museum of Modern Art, New York, March 14–June 1, 1999. 4 Let’s Entertain (touring exhibition), Walker Art Center, Minneapolis/Centre Pompidou, Paris, 2000–2001. 5 Many of these were “infected” with the green from red/ green/blue of the AIDS/LOVE logo. 1 2


mag #2 - gam magazine

foto © Marco Saroldi

IN LImINE

TESTO DI gIuSEppE pENONE

L’opera si configura come una soglia ed è realizzata in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Nasce con l’intenzione di creare un segno che indichi il passaggio dalla spazialità della città alla spazialità sacrale del museo, nelle cui opere risiedono valori e significati che motivano la nostra esistenza. Ogni volta che si varca la sua porta ritroviamo il passato e ci proiettiamo nel futuro. Un blocco di marmo, materia che proviene dal sottosuolo, sostiene un albero, cresciuto a contatto della pietra, sradicato e fuso in bronzo. Le radici continuano nell’intreccio delle vene del marmo. Il tronco è inclinato, in posizione instabile e solo i suoi rami si innalzano. All’estremità, un piccolo albero vive intrecciando rami e foglie con i rami di bronzo e ne sostiene visivamente il peso. Le parti infime volatili e precarie dell’albero, le foglie, tese alla ricerca della luce, sono lo strumento della sua crescita e si contrappongono, con l’azione di fotosintesi, alla forza di gravità. La vita segreta della materia risiede nel movimento dei fluidi. Le vene sono la traccia di un’esistenza che si sviluppa nel corpo delle cose, appare nel marmo, nelle radici, nella scorza, nei rami, nelle foglie e nell’uomo”.

“The work has been created for the 150th anniversary of the Unification of Italy. It stands as a threshold designed to signal the transition from the city’s spatiality to the sacral spatiality of the museum, whose artwork bears meanings and principles that inspire our own existence. Each time we walk through its doors we meet the past and are thrown into the future. A marble block – a product of the subsoil – supports a big tree, which grew near the stone and has been uprooted and then cast in bronze. Its roots merge into the intertwined veining of the marble. The trunk is slanted in an unstable position, with only its branches rising up. It ends in the branches of a real tree, visually carrying its weight as its living leaves and branches interweave with the bronze twigs. The leaves – the tiniest volatile and unstable parts of the tree – allow it to grow as they reach up in search of sunlight, counteracting the force of gravity through the photosynthesis process. The secret life of matter lies in the movement of fluids. Veins are the trace of a life that develops in the body of things: it shows in the marble, in the roots, bark, branches, and leaves of the tree, as well as in man”.

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La Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris continua, dopo quasi trent’anni di attività, Courtesy GAM, a contribuire Torinonell’arricchimento del patrimonio della GAM con in Limine (2011), nuovo monumentale portale d’ingresso affidato al maestro dell’Arte Povera Giuseppe Penone e dedicato ai 150 anni dell’unità d’italia.

foto © Marco Saroldi

Giuseppe Penone (1947) nasce a Garessio, nella provincia di Cuneo. Ha il suo studio a Torino e insegna preso l’Ecole des Beaux-Arts a Parigi. Nel primo dei suoi numerosi scritti, Penone si chiede emblematicamente se la terra possa assimilare ed esprimere l’umano. Da quel momento, l’artista ha continuato a porsi questioni sulla terra, percepita come sostanza universale. Dai suoi primi lavori nei tardi anni ‘60 ad oggi, i lavori di Penone sono stati dedicati ai fenomeni naturali. I più famosi sono i suoi alberi. Giuseppe Penone was born in Garessio, in the province of Cuneo. He keeps a studio in Turin and teaches at the Ecole des Beaux-Arts in Paris. In the first of his numerous writings, Penone asked himself emblematically whether the earth could assimilate and express the human. Ever since, the artist has continued to question himself about the earth, understood as a universal substance. From his earliest works of the later 1960s to the present, Penone’s output has been dominated by a concern for the phenomenas of nature. His most famous works are alberi (“Trees”).


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IN mOSTRa enRiCo ReFFo: Lo SPLenDoRe DeL SaCRo

IN mOSTRa mOSTR

ENRIcO REffO: LO SpLENDORE DEL SacRO cINquE gRaNDI caRTONI DEL gRaNDE INTERpRETE pIEmONTESE DEL SacRO RIpORTaTI aLLa LucE ED ESpOSTI IN mOSTRa aLLa gam NEI NuOvI SpazI DELLa wuNDERkammER di Sara d’Alessandro

Nonostante le numerose iniziative in occasione delle celebrazioni del 150° dell’Unità d’Italia, vari aspetti dell’Ottocento italiano restano da indagare.Tra questi, la rinascita della pittura sacra, che manca tuttora di una trattazione sistematica, e di cui Enrico Reffo (Torino, 1831 – 1917) può essere considerato una delle voci più alte, riuscendo a coniugare l’aderenza ai dettami di rinnovamento dell’immagine religiosa con la rilettura di un purismo quattrocentesco filtrato dal realismo. Il secondo Ottocento vede infatti, in Piemonte, da una parte il fiorire di un paesaggismo che si fa carico delle istanze più moderne (Fontanesi, Avondo), dall’altro un impeto risorgimentale che impone alla pittura di storia un tratto di realismo destinato ad un sempre maggiore successo. L’arte di argomento religioso ha dunque la necessità di aggiornarsi e al tempo stesso ritrovare le sue radici nella cristianità del basso medioevo e del primo rinascimento. Enrico Reffo, formatosi come orafo, inizia ad avvicinarsi alla pittura frequentando i corsi serali all’Accademia Albertina, dove oltre a Gaetano Ferri, di cui è allievo, insegnano Andrea Gastaldi e Enrico Gamba. Ma il salto di qualità ha luogo quando Reffo, nel 1866, entra a far parte del Collegio degli Artigianelli sotto la guida di Leonardo Murialdo, religioso formatosi insieme a Don Bosco e come lui attento alle esigenze di una cristianità moderna, sempre più incentrata sulle questioni sociali e sui valori comunicativi che passano necessariamente dall’immagine religiosa. Reffo realizza le decorazioni murali per alcune delle principali nuove chiese torinesi, San Giovanni Evangelista, Santi Pietro e Paolo, e Santi Angeli Custodi, tutte di stile eclettico, sorte sull’onda dell’espansione demografica della città e profondamente influenzate dalla presenza di Don Bosco. La mostra nella Wunderkammer, ora al secondo piano, presenta un modello ligneo e cinque cartoni di grande formato riferiti proprio alle decorazioni di queste chiese, riportati al loro originario splendore dopo un lungo e accurato restauro. I cartoni, donati alla morte del pittore dal fratello sacerdote Eugenio e dalla famiglia di Reffo al Museo Civico, furono segnalati già nel 1927 nel catalogo della Galleria d’Arte Moderna, ma se ne persero in seguito le tracce. La grande revisione inventariale della collezioni di disegni, avvenuta nel corso del 2003, ne ha consentito l’identificazione,


mag #2 - gam magazine

Despite the numerous initiatives celebrating the 150th anniversary of the Unification of Italy, there are many aspects of the Italian Ottocento that need to be investigated. One of them is the revival of religious painting, still lacking today any form of systematic review. Enrico Reffo (Turin, 1831 – 1917) can be considered one of the most important representatives of Piedmontese sacred painting: his works show a careful execution of the precepts that had been set for the renewal of the religious image, combined with a personal interpretation of ‘400 Purism, which he filtered through realism. Late 19th century Piedmont witnessed on the one hand the blossoming of a new form of landscape painting-which took on the most modern instances with Fontanesi and Avondo – and on the other, the impetus of

L’austera bellezza: cartoni inediti di Enrico Reffo dal Gabinetto Disegni e Stampe GAM Wunderkammer

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DAL

A CURA DI VIRGINIA BERTONE

AL

02/10

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restituendocene la paternità. Esempi di una tecnica del disegno che affonda le radici nella tradizione storica accademica, le figure sono tratteggiate con finezza, pulizia ed eleganza, riprese dalla pittura quattrocentesca e del primo Raffaello. L’attenzione ai panneggi e ad una rappresentazione eterea degli angeli così come dei santi – in particolar modo lo splendido San Giovanni Evangelista – va di pari passo con una caratterizzazione dei volti di certo memore delle esperienze realiste, seppur purificata da una visione fortemente morale e religiosa. Curata da Virginia Bertone, la mostra sarà dunque occasione per un’esplorazione di uno degli aspetti meno conosciuti della pittura del XIX secolo.

the Risorgimento – which required historic painting to show a successful realistic trait. Religious art was in need of innovation, but at the same time it was looking for its roots in the Christianity of the Middle Ages and early Renaissance. Enrico Reffo trained as a goldsmith. He approached painting at the evening art classes tought by Gaetano Ferri at the Accademia Albertina, where Andrea Gastaldi and Enrico Gamba were also teaching. But the real breakthrough occurred in 1866, when Reffo joined the Collegio degli Artigianelli directed by Leonardo Murialdo – a religious nobleman who worked with Don Bosco and like him was sensitive to the needs of modern Christianity, to the social issues and common values that religiuos images inevitably had to convey. At the time Reffo painted the mural decorations for some of the major new churches in Turin, San Giovanni Evangelista, Santi Pietro e Paolo, Santi Angeli Custodi. All characterized by an eclectic style, they had been built in the wake of an increse in population and were deeply influenced by the presence of Don Bosco. The exhibition in the Wunderkammer, which has moved to the second floor, showcases a wooden model and five largeformat cardboard stencils that were used for these murals and are now visible in all their splendor after a long restoration. The cardboards were bequaethed to the Civic Museum after the painter’s death by his brother Eugenio and the Reffo family. In 1927 they appeared in the GAM catalog, but there was no other documented trace after that. Thanks to a major inventory review of the museum’s drawing collections that was carried out in 2003 they were once again identified as part of our heritage. The outlines - examples of a drawing technique that is deeply rooted in historical academic tradition - are of a fine clean elegance, inspired by Raffeallo’s early paintings. The attention for the draperies and the ethereal representation of angels and saints – especially the striking St. John the Evangelist – go hand in hand with a characterization of the faces that is redolent of the experience of realism, even if purified by a strongly moral and religious approach. The exhibition, curated by Virginia Bertone, offers the opportunity to explore one of the lesser-known aspects of 19th century Italian painting.

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IN ALTO

Virginia Bertone esamina i cartoni nello studio di restauro Soseishi A sINIsTrA

Angelo Assiso con le chiavi di San Pietro (cartone per la volta della sacrestia della chiesa dei Santi Pietro e Paolo di Torino), 1895 carboncino e gessetto bianco con quadrettatura a carboncino su carta grigia


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BackSTagE aLLeSTimenTi

RIaLLESTImENTO cOLLEzIONI

01| 02| Einschßsse di / by Anselm Kiefer. Montaggio e allestimento / Assembly and Installation 03| Studenti dell’Accademia Albertina collaborano alla preparazione di / Accademia Albertina alumni collaborate to the preparation of Era di/by di/by Hidetoshi Nagasawa. 02

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04| Mariano Boggia installa / installing Contemplator Enim di/by by Giulio Paolini 05| Montaggio e restauro di / Installation and restauration of Donnina di/by Fausto Melotti




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