AG Fronzoni 1923-2002 Una vita nel design: un ricordo di Florencia Costa
A life in design remembered by Florencia Costa Ritratto di/Portrait by Pino Guidolotti
AG Fronzoni si è spento alle cinque del pomeriggio di venerdì 8 febbraio, nella casa di Milano, davanti ai giardini di Leonardo. Il 27 febbraio alle cinque del pomeriggio alle Grazie è stato ricordato come qualcuno che aveva ricercato la bellezza. Il 5 di marzo avrebbe compiuto 79 anni. Il 9 di marzo sessanta dei suoi studenti si sono riuniti in sua memoria. Gli avrebbe fatto piacere sapere che non è passato inosservato il modo in cui ha concluso la sua vita, senza smentirsi, fino alla fine. Silenzioso e inosservato, rabbioso e gentile: come dire, toscano. Fronzoni nasce a Pistoia nel 1923, arriva a Milano negli anni del dopoguerra. Il suo percorso professionale abbraccia molti ambiti progettuali: grafica, architettura, istallazioni museali, design d’oggetti e di capi d’abbigliamento. Ha convissuto con i grandi del progetto della seconda metà del Novecento. Non ha voluto mai essere considerato altro che un progettista. Straniero egli stesso a Milano, nel presentare le persone si divertiva a comunicare il loro luogo d’origine, come se fosse un aggettivo della loro attività; come se fosse quella la chiave del mistero. Comincia la sua attività professionale nel 1949, insegna per vent’anni all’Umanitaria di Milano, all’Istituto d’arte di Monza, all’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche di Urbino e all’Istituto di comunicazione visiva di Milano: finché non apre una sua scuola-bottega nel 1982. I corsi erano biennali, gli insegnamenti andavano da come “sedersi a tavola” fino alla conoscenza dell’architettura. Fronzoni conosceva quella di Giuseppe Terragni e sognava quella di Mies van der Rohe. La pedagogia era “imparare lavorando”. Quando gli veniva chiesto cosa s’insegnava nella sua scuola rispondeva: a progettare in 2D e in 3D. Venivano analizzati concetti di grafica, ed era
inclusa la lettura del giornale. Si soffermava per esempio su notizie quali: “Il Papa benedice l’ultimo modello Ferrari uscito da Maranello”, incluso il commento sulla foto. Gli studenti venivano a sapere della scuola per bocca di altri, i corsi non erano pubblicizzati e coloro che vi arrivavano erano sempre sui vent’anni, in generale stranieri. Come succedeva d’abitudine alle questioni fronzoniane, tutti gli eventi avevano una duplice qualità: allo stesso tempo casuali e inequivocabili, funzionali e astratti, nati da una necessità ma espressione di una totale libertà di scelta. La provocazione cui sottoponeva ogni azione obbligava di per sé a una riflessione, esercizio che praticava costantemente e attraverso il quale filtrava ogni gesto quotidiano. Tutto era materiale di analisi progettuale. Era questa la sua utopia. Amava il linguaggio e il pensiero di Buckminster Fuller. Entrambi venivano dalla tipografia e dal segno. Quando parlava di Fuller gli veniva in mente un suo conterraneo, Leonardo da Vinci, e diceva: “Morì alla corte francese progettando piani urbanistici. È l’architettura la madre suprema ma oggi al di sopra di tutto spicca la multidisciplinarità. Questa è l’immagine più attuale”. Da giovanissimo aveva abbracciato ideali socialisti e ne aveva compreso l’infinito campo di applicazione. Aveva capito da dove era partito, si era fatto un’idea ben precisa della strada che voleva prendere a livello personale e collettivo. Con rassegnazione diceva che il Bauhaus non era mai arrivato in Italia. La poetica del suo lavoro di grafico rievoca l’opera degli artisti della poesia concreta e visiva degli anni Cinquanta e Sessanta. “Occorre posare le mani sul corpo caldo della poesia”, suggeriva. In armonia con la migliore tradizione classica, considerava l’istruzione come un allenamento dell’atto del pensare e il pensare
come un’introduzione alla conoscenza. Nella sua scuola-bottega si soffermava poco sulla tecnica, ma le sue “istruzioni sull’essere umano” erano provocatrici, specifiche e incisive. Facendo riferimento alle sue origini: “Vengo dal lavoro”, sottolineava. “L’uomo medio è stupido, occorre liberarsi dalla necessità e non avere paura dello spazio”. Credeva in un progetto di modernità e aveva deciso di prendervi parte attraverso la visualità. Aveva capito con lucidità il bisogno di distinguere, differenziare, scegliere. Riconobbe come sola condizione possibile il movimento in avanti. Si arrischiò a confondere Dio con l’Uomo e a cercarlo in un quadrato. Alla realtà attribuiva un valore fisico e a se stesso, progettista, una responsabilità trasformatrice. Aveva fatto dello spazio la sua materia e del vuoto una pratica possibile. In lui tutto era forma. Sceglieva scrupolosamente le parole come un artigiano sceglie i suoi strumenti di lavoro, con specificità e con profonda consapevolezza delle conseguenze che provocavano. Decise di riferirsi alla realtà – allo spazio – con un verbo: “Incidere su di essa; non solo è possibile ma è anche obbligatorio”. In questo senso era anche un politico. Dal suo razionalismo aveva escluso alcune logiche e nel labirinto aveva previsto alcuni sentieri senza uscita: quello dell’accumulo di tutto ciò che non fosse conoscenza, quello dell’immoralità dello scarto, quello dell’arricchimento economico individuale come obiettivo. A quest’ultimo aveva deciso di opporsi esagerando, sfidandolo senza indifferenza e denunciandone le volgarità, con quell’atteggiamento cristiano birichino e con parsimonia orientale. “Ci sono riuscito! Sono arrivato agli anni Settanta senza essere proprietario di nulla!”, diceva. La sua eredità: un magnifico
Fotografia di/Photography by Mario Parodi (2)
Fronzoni ha lavorato come grafico, lasciando nello spazio urbano un segno elegante: ma ha anche progettato prodotti, come le valigie di Valextra, interni e architettura. Nella pagina a lato, a destra, una scenografia per il Teatro Il Falcone di Genova Fronzoni worked as a graphic designer, leaving an elegant mark on the street. But he also designed products such as the Valextra suitcase, interiors and architecture. Opposite page, right, a set design for the Genova’s Theatre Il Falcone
132 Domus Aprile April 2002
New York, sono prodotti da fabbriche come Cappellini, si vendono in negozi come Valextra, si abitano in città come Milano, su isole come Capraia, si utilizzano come loghi di imprese. Per lui la città per antonomasia era Venezia, dove i trasporti non si misuravano con l’uomo e le sue costruzioni: insieme si sono misurati con l’acqua. Lavorò a Genova e studiò Londra. Era legato a queste due città da forti affinità elettive. Alla prima dal piacere del reciproco riconoscimento, sintetizzato in un esercizio politico-culturale; alla seconda dall’ammirazione per una città preconcepita. Guido Giubbini lo associa al periodo più esaltante della cultura della Genova contemporanea. Fu un uomo che preferì la religiosità alla religione e il profano al sacro. La moda lo corteggiò e fu definito minimalista. Ammetteva che crescendo si ha bisogno di sempre più spazio e che è dovere della società fornirlo; quando questo non avviene, è giusto reclamarlo. Di lui, riferendosi al Fronzoni grafico, l’Enzo Mari artista dice, che, come alcuni tedeschi, confuse religione e scienza. Egli stesso lo scelse come grafico nel ‘68, quando si dovettero convocare gli intellettuali di sinistra, quando bisognava unirsi agli operai della Breda. Così nacque un manifesto con lo scopo di essere un appello pubblico e urbano, con cui si sarebbero tappezzate tutte le strade della città. La provocazione maggiore la subì lo stesso Mari: mancavano poche ore alla dimostrazione e non vedeva nulla per le vie. “Qualcuno mi disse di affacciarmi alla finestra; vidi un poster di un metro per settanta completamente bianco. Mi avvicinai e in un piccolissimo corpo cinque una riga correva lungo la carta”. Si salutavano per la strada una volta al giorno, ognuno credendo di conoscere bene l’altro, entrambi facendo lo stesso sforzo: appassionati, soli e paralleli.
Dall’Inghilterra, l’architetto John Pawson lo vedeva europeo e gli ricordava un altro isolano. Finché non lo conobbe non avrebbe mai pensato che potesse esistere uno Shiro Kuramata in versione occidentale: vederlo significava rimanerne abbagliati. Il linguaggio che usavano tra loro per comunicare era quello del silenzio e della reciproca ammirazione. Pawson dice di lui che era un benchmark: e che come a Kuramata gli piaceva negare lo scintillare delle sue opere. Acutezza inglese, riconoscerne la discrezione e l’ironia. Quando dal suo racconto pare emergere un giapponese quasi carnale, un italiano quasi zen e un inglese quasi emotivo, si può essere certi di trovarsi di fronte all’originale paradosso che i tre incarnavano così egregiamente. Noi ci siamo conosciuti e riconosciuti. In realtà io arrivavo dall’architettura, insieme siamo passati per un breve momento attraverso la grafica. Tra idee e ironie progettammo una rivista. Io la vedevo tridimensionale e lui si entusiasmava; lui ricostruiva i contenuti e io lo ammiravo. Come conclusione diceva: “Non abbiamo cambiato il mondo, però abbiamo graffiato noi”. AG Fronzoni 1923-2002 AG Fronzoni died at 5 p.m. on the afternoon of Friday, February 8, at his home in Milan opposite the gardens of Leonardo. On March 5 he would have been 79. On February 27, at 5 p.m., he was remembered in a memorial ceremony as someone who had sought beauty. On March 9, 60 of his students gathered to share his memory. He would have been pleased to know that the way he concluded his life, regretting nothing until the end, did not go unmarked. Silent and unnoticed. Furious and genteel, almost Tuscan, one might say. Fronzoni, born in Pistoia in 1923, arrived in Milan
Fotografia di/Photography by Fotobergami
Fotografia di/Photography by Luciano Soave
archivio. In lui tutto era scelto in modo naturale, dall’intonazione della voce alla bontà. Entrambe gravi e pedagogiche. Gli piaceva essere identificato come un trasgressore. C’è riuscito resistendo, più che disobbedendo. Era consapevole dell’enorme istruzione necessaria per praticare l’anarchia. Vedeva la vita in bianco e nero e in tutte le sue sfumature; ammetteva di avere un particolare debito per il genere umano femminile dai capelli rossi. Il suo italiano era raffinato e succinto. Rispondeva lui stesso al telefono con un secco “Chi parla?”. Diceva che una società la si può giudicare dallo stato delle sue carceri. Credeva nel sociale più che nella società. Tra i giovani godeva di un successo strepitoso. Ironico, acuto e con un gran senso del pudore, fu uno dei rari casi di maestro riconoscente che non mitizzava il passato. Nella sua scuolabottega tutti passavano, transitavano, si fermavano; nessuno rimaneva più del previsto e nessuno se ne andava per non ritornare. Una volta sola, attraverso un annuncio su un giornale cercò un assistente. Trovò Myrna Cohen, arrivata di recente dall’Egitto. La formò e si presero cura l’uno dell’altro per quarant’anni. Era capace di soddisfare senza illudere. “Il destino dell’uomo” ripeteva, “è stare solo. E di questo destino dobbiamo imparare a diventare esperti”. Come un archetipo di maestro sapeva e avvertiva che le grandi ambizioni costano care. “La forma è la bellezza” diceva “e qualcuno ha detto che salverà l’uomo. Non so se sia vero, ma so che la forma mi è utile, anzi indispensabile, anzi preziosa per inviare un messaggio che è messaggio di pensiero”. I suoi strumenti di lavoro erano la geometria, il dizionario Devoto-Oli, una riga, una squadra e una matita. Le sue opere sono concetti, non prodotti. Eppure sono esposti in musei, come il MoMA di
Domus Aprile April 2002 133
gesture. He regarded everything as valid material for design analysis. That was his utopia. He loved the language and ideas of Buckminster Fuller. Both had arrived from the world of typography and signs. When Fronzoni spoke of him, Leonardo da Vinci came to mind. Leonardo da Vinci, he said: ‘He died in the French court designing urban plans; architecture is the embracing mother but nowadays cross-disciplinary action emerges above all; that is the most up-to-date image’. At an early age he became a socialist and came to understand its infinite field of application. He understood where he had started from, individually and collectively, and he formed a clear idea of where he should be heading, personally and collectively. He declared with resignation that the Bauhaus had never come to Italy. The lyricism of his work as a graphic designer evoked the output of the artists in concrete and visual poetry of the 1950s and 60s. ‘One has to lay one’s hands on the warm body of poetry’, he suggested. In line with the peak of classical tradition, he conceived education as training in the act of thinking, and thinking as an introduction to knowledge. In his workshop/school, little attention was paid to technique, although his ‘instructions on the human being’ were specific and cutting. Referring to his own origins: ‘I come from the working realm’ he insisted, ‘the average man is ignorant, he must free himself from necessity and not fear space’. He believed in a modernist project in which he had decided to participate from the visual arena. He had a lucid understanding of the need to distinguish, differentiate and choose. He recognised forward movement as the only possible condition. He took the risk of confusing God with man. He attributed reality with a physical value and himself, the designer, with a responsibility to
transform it. He made space his material and the void a feasible practice. Form was everything. He carefully chose words like a craftsman chooses his tools, specifically, with a profound understanding of the effect. He decided to refer to reality – space – with a word: ‘Scratching it is not only possible but an obligation’. He was a politician in that sense. With his roots in the post war generation, he adhered to rationalism and the city. He was passionate about the construction of persons. He excluded certain strands of logic from his rationalism and forecasted within the labyrinth some cul-de-sacs: the accumulation of everything that was not knowledge, the immorality of waste, personal accumulation of wealth as a goal. He planned to oppose the latter by exaggerating, challenging it without recurring to indifference and denouncing its vulgarity with Christian devilry and Eastern parsimony. ‘I managed to do it’ he said, ‘I reached 70 without owning anything!’. His legacy: a magnificent archive which he meant for civil destination. Everything in him was naturally deliberate, from the tone of his voice to his goodness. Both deep and pedagogical, he liked to be identified as a transgressor. He achieved it through resistance rather than disobedience. He was aware of the enormous education required to practice anarchy. He saw life in black and white and all its nuances. He confessed a particular weakness for the redhead variety of the female gender. His Italian was refined and succinct. He would answer the telephone himself with a dry ‘Who’s that?’. He declared that society should be judged by the condition of its prisons. He believed in the social more than in society. He was overwhelmingly successful with young people. Ironic, subtle and with a great sense of modesty, he was one of the
Fotografia di/Photography by Luciano Soave (5)
during the post-war years. His professional career embraced various design realms. He designed museum installations, objects and clothing. He lived and worked alongside the great names in the field from the second half of the last century. He never wanted recognition for anything specific other than being a designer. An outsider to Milan himself, he delighted, when introducing acquaintances, in proclaiming their place of origin, attached as an adjective to their vocation, as if that were the key to their mystery. He began his professional career in 1949 and lectured for 20 years at the Umanitaria in Milan, the Monza Art Institute, the Senior Institute for the Art Industry in Urbino and the Milan Institute for visual communication before he opened his own workshop-school in 1982. His courses were biennial and the subjects ranged from “how to sit at a table” to the acquaintance of architecture. He was familiar with the architecture of Giuseppe Terragni and dreamed of Mies. His teaching method was learning by working. When asked what was taught at his school, he would reply: to design in 2D and 3D. Courses included graphic design concepts and reading the newspaper. He would focus, for example, on items such as: ‘The Pope blesses the latest Ferrari produced at Maranello’s factory’, comments on the photo included. His students heard about the school by word of mouth. His courses were never advertised, and those who entered were in their 20s, generally foreigners. As usual in Fronzonian issues, every event had a dual quality, casual and unequivocal, functional and abstract, all arising from necessity, brandishing total freedom of choice. Each action was subjected to provocation, which in itself was cause for meditation, an exercise he practised constantly and through which he filtered each mundane
Fronzoni ha sempre dimostrato grande creatività nella ricerca di nuove soluzioni per la stampa, a incisione o a rilievo. In alto, a sinistra, libro per la presentazione dello scultore Mario Nanni (1969); in alto, a destra, libro per Fiat Engineering (1983); a fianco, Arte e materie plastiche, libro con copertina in polimetilmetacrilato realizzato nel 1975 per Montedison Fronzoni was constantly inventive in his exploration of new formats for the printed word, die-cutting, embossing: top left, book presenting the sculptural work of Mario Nanni (1969); top right, book created for Fiat Engineering (1983); left, Arte e materie plastiche, book with polymethylmetracrylate cover designed in 1975 for Montedison
134 Domus Aprile April 2002
Fotografia di/Photography by Pino Guidolotti
rare cases of a recognised maestro who did not mystify the past. Everybody visited, went through or stopped at his workshop/school. Nobody stayed longer than necessary and nobody left to never return. Just once he sought an assistant through a newspaper advertisement. He found Myrna Cohen, recently arrived from Egypt. He trained her and they nurtured each other for 40 years. He was capable of fulfilling without creating false illusions. ‘Man’s destiny’ he would repeat, ‘is to be alone. And we
should learn to afford this destiny’. The paradigm of a wise master, he warned that great ambition exacts a great price. ‘Form is beauty’, he declared, ‘and somebody has said it will save man: I am not sure if that is true, but form is useful to me, better still indispensable or better still invaluable for sending a message – a message of thought’. The tools of his trade were geometry, the DevotoOli dictionary, a ruler, a triangle and a pencil. His works were concepts, not products, yet they are on display in museums like MoMA in New York, they are produced in factories like Cappellini, they are sold by companies like Valextra, they are inhabited in cities like Milan, islands like Capraia, and they are even used as corporate trademarks. The epitome of a city for him was Venice, where man and his constructions are not mediated by transportation, but rather they measure themselves with the water. He worked for Genoa and studied London. Strong elective affinities tied him to them. With the former, it was reciprocal recognition, synthesised in a political-cultural exercise, ArteCittà, from 1978 to 1984. With the latter it was admiration for the pre-conceived city. Guido Giubbini identifies him with the most highly exalted period of modern Genoese culture. He was a person who preferred religiousness to religion, the profane to the sacred. Fashion flirted with him and called him minimalist. He acknowledged that more space is needed as one grows, and that society has a duty to provide it, and when this does not happen, it is only fair to claim it. The artist Enzo Mari said, referring to Fronzoni the graphic designer, that like some Germans he confused religion and science. Mari himself chose Fronzoni as his graphic designer when left-wing intellectuals were called on to back the Breda factory workers in 1968. The result was a poster (or
rather a manifesto) designed to be a public, urban plea that plastered the streets. Mari was himself the victim of the greatest provocation: ‘Only hours before the demonstration, there was no sign of anything in the streets: somebody told me to look out the window. I saw a piece of paper measuring one metre by seventy, all white and empty. I got closer, and in tiny print in five point, I discovered a line of letters crossing the paper’. They greeted each other in the street once every day, each one believing he was familiar with the other, both involved in the same struggle, passionate, alone and parallel. From England, the architect John Pawson regarded him as a European who reminded him of a fellow islander. ‘Before I met him, I never imagined that there could be a Western version of Shiro Kuramata: one became dazzled just by meeting him’. The language they used to communicate was silence and mutual admiration. Pawson said he was a benchmark who, like Kuramata, enjoyed denying the any glittering points in his work – English subtlety in the recognition of discretion and its irony. When from his narration begins to emerge an almost carnal Japanese, an almost Zen Italian and an almost emotional Englishman, one is surely faced with the original paradox embodied by all three. We met and acknowledged each other. Actually, I arrived from architecture and briefly passed through the graphic arts under his guidance. Between ideas and ironies, we designed a magazine; I envisaged it as a tiny architectural piece in three dimensions and he enjoyed it; he reconstructed the contents and I admired him. He took pleasure in outlining: ‘We haven’t been able to change the world but we certainly have been able to scratch ourselves’.
Fronzoni lavorava e faceva lezione ai suoi allievi nell’appartamento milanese in cui abitava. Ha disegnato, fra l’altro, anche una bomboniera (in alto); tra gli ultimi lavori, il progetto grafico della rivista Area Working and teaching his students from the same Milan apartment in which he lived, Fronzoni designed a wedding gift, top. One of his later project was an identity for the magazine Area
Domus Aprile April 2002 135
136 Domus Aprile April 2002
Fotografia di/Photography by Pino Guidolotti (6)
Questa casa nell’isola toscana di Capraia, posta come un fienile accanto a una preesistente fattoria, è uno dei pochi progetti di architettura di Fronzoni This house in Capraia island, Tuscany, alongside an existing barn-like farm building, was one of Fronzoni’s few architectural projects
Domus Aprile April 2002 137
138 Domus Aprile April 2002
L’esterno della casa di Capraia rientra nella tradizione locale di un’architettura vernacolare in pietra, semplice e senza pretese; nell’interno Fronzoni ha invece usato materiali più raffinati con la stessa immediatezza The exterior of the house in Capraia belongs to the simple traditions of unpretentious stone-built vernacular architecture. Inside Franzoni used more refined materials with the same directness
Domus Aprile April 2002 139