IL TURISMO CULTURALE - N. 1 - new edition

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Viaggiare per conoscere Anno v

numero 01 a utu n n o 2 0 1 0

5 euro

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incanto popolare

la Roma di Pasolini

Abbazia di Santa Maria di Follina Pinacoteca De Nittis Le Dimore di San Crispino Le Langhe, terre di vino e letteratura le rocche di Francesco di Giorgio Martini






in questo numero La città di Roma, così come il popolo delle sue borgate, è uno degli orizzonti espressivi prediletti di Pier Paolo Pasolini. Pasolini s’innamora di Roma fin dal suo arrivo, nel 1950, ma a suo modo, perché il patrimonio monumentale della Città Eterna sembra non essere di suo interesse. Pasolini guarda la Roma dei pischelli e del romanesco, quella periferica, primitiva e non ancora corrotta dal processo di normalizzazione borghese. Ripercorriamo i luoghi della Roma pasoliniana, quelli raccontati nei suoi lungometraggi, nelle pagine dei suoi romanzi e nelle sue poesie.

copertina /

20

incanto popolare la Roma di Pier Paolo Pasolini

rubriche

agenda

Agenda Autunno 2010 a cura di Paola Biribanti /

8

gran Bazar

122 124 126

Parole in tasca

A cura di Gianfranco Franchi

Assaggi divini

A cura di Samuel Cogliati

Assaggi Gourmet

A cura di Massimo Roscia


Un gioiello medievale tra i colli trevigiani L’Abbazia di Santa Maria di Follina

veneto /

62 TERRE DI VINO E LETTERATURA Tre giorni nelle Langhe

piemonte /

76

lo sguardo impressionista La Pinacoteca Giuseppe De Nittis

puglia /

84 fortezze d’autore Le architetture difensive marchigiane di Francesco di Giorgio Martini

marche /

la buona notte

Le Dimore di San Crispino di Luciano Vanni /

108

saperi e sapori

Buffalo Soldier di Massimo Roscia /

114

96

di sosta in sosta

Trattoria Ai Tre Garofani di Claudia Giordano e Martino Calvo /

118



editoriale

Editore - Vanni Editore Direttore Editoriale - Luciano Vanni luciano@vannieditore.com Caporedattore - Paola Biribanti paola.biribanti@ilturismoculturale.it

DI luciano vanni

Photo editor - Elena Chiocchia elena.chiocchia@ilturismoculturale.it

Semplificando, possiamo individuare due tipologie di esperienza applicata al viaggio: una prima destinata a modificarci in profondità, a segnarci intimamente sotto il profilo umano e caratteriale; e una seconda più immediata, epidermica ed esclusivamente estetica. In entrambi i casi si tratterà di eventi capaci di trasferirci emozioni, di metterci a confronto con qualcosa di nuovo (nel caso in cui il viaggio ci conduca a una meta sconosciuta) o di familiare (nel caso in cui quel viaggio sia un viaggio di ritorno). Da “esperienza” deriva non a caso il sostantivo “esperto”, letteralmente colui cui appartiene il sapere, una competenza e una conoscenza; per sillogismo, potremmo quindi considerare il viaggio una delle esperienze privilegiate di conoscenza e di sapere. La nostra rivista nasce proprio con questo presupposto, dal desiderio di raccontare esperienze di viaggio, approfondimenti attorno a monumenti e testimonianze d’arte di alto interesse culturale; viaggi destinati a trasformarci.

Hanno collaborato Paola Biribanti, Martino Calvo, Greca Campus, Samuel Cogliati, William Dello Russo, Gianfranco Franchi, Claudia Giordano, Valentino Griscioli, Alessandra Liuzzo, Luca Martello, Angela Molteni, Lorenzo Parolin, Barbara Rigon, Massimo Roscia, Francesco Santucci, Carlo Santulli, Massimiliano Valente, Luciano Vanni Progetto Grafico - Emanuele Serra www.emanueleserra.it Abbonamenti e Distribuzione - Arianna Guerin abbonamenti@vannieditore.com Pubblicità - Arianna Guerin adv@vannieditore.com Direttore Responsabile - Enrico Battisti

Storia di copertina: la Roma di Pier Paolo Pasolini Una delle novità più rilevanti di questo numero è il nuovo modello giornalistico applicato alla storia di copertina, un approfondimento tematico scritto a più mani, nel caso specifico dedicato alla Roma di Pier Paolo Pasolini. Un viaggio inedito e singolare, profondamente spirituale e per ciò solo apparentemente geografico. L’idea è nata dal desiderio di tornare a visitare le borgate, i quartieri, i vicoli e le piazze celebrate nel corpus letterario e cinematografico di Pasolini, partendo dai luoghi raccontati nelle pagine dei suoi romanzi, dai volti e dai vicoli ripresi nei suoi film, dal dedalo di viuzze, borgate, quartieri e palazzi citati nelle poesie e nei tanti racconti. È stato un lavoro articolato ma estremamente affascinante, la cui realizzazione è stata possibile grazie alla collaborazione di Angela Molteni, Massimiliano Valente, Luca Martello, Gianfranco Franchi, Carlo Santulli, Massimo Roscia, Valentino Griscioli, Elena Chiocchia, Chiara Giordano, Greca Campus, Silvia Ferretti, Paolo Mandrelli, Luca Altobelli, e Antonio Vanni, cui vanno i miei più sentiti ringraziamenti.

Stampa - Arti Grafiche Celori, Terni Iscrizione al Tribunale - n. 25 del 22.12.2006 Redazione Via Villa Glori, 3/a - 05100 Collescipoli (TR) Tel. 0744.817579 - Fax 0744.801252 www.ilturismoculturale.it - info@ilturismoculturale.it Abbonamenti Per abbonarsi a un anno de Il Turismo Culturale e ricevere a casa propria i quattro numeri della pubblicazione, versare 20 euro sul c/c 94412897 intestato a Vanni Editore Srl Via Villa Glori, 3/a - 05100 Collescipoli (TR) Distribuzione Il Turismo Culturale è distribuito in tutta Italia in edicola, presso i nostri punti vendita (librerie, caffè letterari, scuole professionali e osterie) e dalla VE, tel. 0744.817579. Crediti fotografici L’editore ha fatto il possibile per rintracciare gli aventi diritto ai crediti fotografici non specificati e resta a disposizione per qualsiasi chiarimento in merito.

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VIDEO

Credito di copertina Herbert List/Magnum/CONTRASTO

Gli altri viaggi Abbondante anche la sezione dedicata alle emergenze culturali e paesaggistiche che rendono unico il nostro Paese: è il caso della splendida Abbazia di Santa Maria di Follina, in provincia di Treviso o del weekend proposto da Gianfranco Franchi a spasso tra le Langhe, tra i suoi profili collinari e le sue pieghe enogastronomiche e letterarie; e poi ancora a Barletta, in visita alla Pinacoteca De Nittis, straordinariamente interessante per la collezione del pittore impressionista, e al tempo stesso per la meraviglia del complesso monumentale barocco che la ospita. E, per finire, un inedito quanto affascinante viaggio nel cuore delle Marche alla scoperta delle rocche e dei castelli rinascimentali disegnati da Francesco di Giorgio Martini. L’esperienza del viaggio si manifesta in tutta la sua forza anche quando scegliamo con cura e attenzione i luoghi deputati all’accoglienza e all’ospitalità; a tal proposito siamo andati a visitare le Dimore di San Crispino, ad Assisi, e il ristorante Ai Tre Garofani, a Trento. Abbiamo inoltre incontrato Antonio Lauretti, allevatore bufalino d’eccellenza.


ottobre novembre dicembre

agenda 2010

arte di Paola Biribanti

ANDRIA (BA)

PERUGIA

FINO AL 1° NOVEMBRE

FINO AL 9 GENNAIO 2011

Baci rubati e amorose passioni nell’arte e nella letteratura fra ’700 e ’800 Trenta dipinti provenienti da importanti collezioni pubbliche e private dell’Italia centro-settentrionale (Hayez, il Piccio, Previati…) e sette opere realizzate da artisti meridionali (Giaquinto, De Matteis, Altamura…) propongono un appassionante percorso sull’amore e la passione all’interno del più noto e suggestivo tra i manieri di Federico II di Svevia: Castel del Monte.

TEATRO DEL SOGNO. DA Chagall a Fellini Espressioni del simbolismo, dell’arte contemporanea, del cinema e dei vari “surrealismi”, accomunate dal tema del sogno e sapientemente accostate da Luca Beatrice, sono ospitate fino all’inizio del nuovo anno nella Galleria Nazionale dell’Umbria. Tra gli artisti, oltre a De Chirico, Botero, Man Ray e Paladino, anche Chagall, di cui sono esposte sei opere. Grande spazio è dedicato alla settima arte, con Buñuel, Warhol e Fellini. www.gallerianazionaleumbria.it

www.casteldelmonte.beniculturali.it PADOVA SAN SEVERINO M ARCHE (MC) E ALTO M ACER ATESE FINO AL 12 DICEMBRE

Osvaldo Licini, Marina, 1931 olio su tela, collezione privata

MERAVIGLIE DEL BAROCCO NELLE MARCHE La mostra intende portare alla luce aspetti poco conosciuti del barocco marchigiano, grazie all’importante campagna di restauri sul patrimonio del territorio. Tra le opere, esposte tra Palazzo Servanzi Confidati, la Pinacoteca Civica P. Tacchi Venturi e la Chiesa della Misericordia, anche il berniniano busto bronzeo di Urbano VIII del Palazzo Comunale di Camerino, finalmente visibile da vicino. www.meravigliedelbarocconellemarche.it

DAL 2 OTTOBRE AL 27 FEBBRAIO 2011

DA CANOVA A MODIGLIANI. IL VOLTO DELL’OTTOCENTO La mostra padovana vanta due primati: è la prima a concentrarsi sul ritratto lungo tutto l’800 italiano, e la prima a far apprezzare molte opere inedite di grandi pittori (Appiani, Hayez…). Dipinto, scolpito, neoclassico, verista, macchiaiolo, futurista, di personaggi noti, sconosciuti, giovani e vecchi, il ritratto ottocentesco è proposto secondo tutti i canoni di bellezza e gli stili esecutivi del secolo. www.palazzozabarella.it

NAPOLI FINO AL 25 OTTOBRE

TrasparenzE. L’arte per le energie rinnovabili Obiettivo della mostra è sensibilizzare l’opinione pubblica e il mondo produttivo sull’importanza delle energie alternative come unico modo per salvare il Pianeta dal disastro ambientale, con l’esposizione di opere che invitano alla discussione, presentano gli aspetti poetici delle nuove tecnologie, esprimono l’energia concettuale dell’arte contemporanea. Tra gli artisti, Bruna Esposito, Robert Rauschenberg, Vito Acconci, Yoko Ono. www.museomadre.it

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ROM A

TERNI

FINO AL 7 GENNAIO 2011

DAL 16 OTTOBRE AL 30 GENAIO 2011

TAGLI D’ARTISTA Cinquant’anni dopo la sua realizzazione, l’Ambiente spaziale con tagli, il soffitto in gesso realizzato da Lucio Fontana per la residenza milanese di Antonio Melandri, suo amico ed estimatore, è il fulcro attorno a cui ruota la mostra della Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Affiancano il capolavoro alcune delle opere più significative del secondo ’900, appartenenti alle collezioni del museo, che preludono alla rivoluzione del concetto di prospettiva.

GIULIO TURCATO. LIBERTÀ In occasione del restauro delle sette grandi sculture in ferro verniciato (Le Libertà) che Turcato realizzò negli anni Ottanta e che dal 1989 impreziosiscono la riva del ternano Lago di Piediluco, il caos - Centro Arti Opificio Siri si fa cornice per l’esposizione di circa 60 opere dell’artista, uno dei più significativi interpreti dell’astrattismo pittorico internazionale, tra cui alcune inedite, concesse dall’Archivio Turcato di Roma.

www.gnam.beniculturali.it

http://caos.museum


FERRARA DAL 17 OTTOBRE AL 30 GENNAIO 2011

CHARDIN. IL PITTORE DEL SILENZIO MILANO DAL 20 OTTOBRE AL 30 GENNAIO 2011

AL-FANN. ARTE DELLA CIVILTÀ ISLAMICA In mostra a Palazzo Reale oltre 350 oggetti (tappeti, sculture, miniature ecc.) del VII fino al XVII secolo e provenienti da varie parti del mondo, che permetteranno di ripercorrere mille anni di storia dell’arte islamica. A parte l’iniziale sequenza cronologica, i tesori esposti, appartenenti alla Collezione al-Sabah, sono collocati secondo un’organizzazione tematica: calligrafia, geometria, arabeschi, figure, gioielli. www.comune.milano.it TORINO DAL 24 OTTOBRE AL 31 GENNAIO 2011

OSVALDO LICINI. I CAPOLAVORI Cento i capolavori di uno dei maestri dell’arte astratta che saranno presentati alla gam - Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino. La mostra offrirà ai visitatori la possibilità di ripercorrere la vicenda artistica e personale dell’artista a partire dagli esordi agli anni Dieci, fino al 1958, anno della sua morte e del conferimento del Gran Premio Internazionale per la Pittura alla XXIX Biennale di Venezia. www.gamtorino.it MILANO DAL 27 OTTOBRE AL 30 GENNAIO 2011

Piero della Francesca: un pittore per due nemici Ambiziosi capitani di ventura, Sigismondo Pandolfo Malatesta, signore di Rimini, e Federico da Montefeltro, duca di Urbino, si combatterono a lungo. Li accomunava l’erudizione e l’attorniarsi di artisti celebri come Piero della Francesca, a cui affidarono i ritratti ufficiali. I più noti (Ritratto di Sigismondo Pandolfo Malatesta e la Pala Montefeltro) vengono ora messi a confronto presso la Pinacoteca di Brera.

Jean Siméon Chardin: Bambina che gioca col volano o La bambina col volano, 1737 olio su tela, collezione privata © The Bridgeman Art Library (ph. Peter Willi)

N

essun’altra città meglio della “silenziosa” e “magica” Ferrara avrebbe potuto essere la cornice più adatta a una mostra – la prima in Italia – interamente dedicata all’opera di Jean-Baptiste Siménon Chardin (1699-1779), artista che, nel secolo dei fasti della corte di Francia e delle fantasie rococò, seppe riportare al centro della rappresentazione artistica il silenzio delle nature morte, l’intimità degli interni domestici e la semplicità dei gesti quotidiani. La mostra, che da febbraio 2011 sarà ospitata al Prado di Madrid, propone opere appartenenti alle varie fasi della produzione del grande protagonista dell’arte del Settecento (dagli oli dell’apprendistato ai pastelli della vecchiaia), la cui poesia e tecnica sopraffina gli procurarono sin da subito l’ammirazione di accademici, colleghi, pubblico e dello stesso Luigi XV, che gli concesse il privilegio di dimorare e lavorare al Louvre. www.palazzodiamanti.it

www.brera.beniculturali.it

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ottobre novembre dicembre

agenda 2010

cinema teatro danza di Paola Biribanti

PADOVA

MILANO

FINO AL 12 DICEMBRE

DALL’8 AL 17 OTTOBRE E DAL 16 AL 21 NOVEMBRE

FESTIVAL DEL TEATRO PER RAGAZZI Giunto alla 29ª edizione, quello padovano è il primo festival del teatro per ragazzi nato in Italia. Tutti i sabati e le domeniche fino alla metà di dicembre, presso il Piccolo Teatro Don Bosco si assisterà ad alcuni degli spettacoli più apprezzati sull’attuale scena nazionale. Si segnalano: Le sommelier, dei Freakclown di Milano (30-31 ottobre) e Nel bosco addormentato, della Compagnia Bottega degli Apocrifi di Manfredonia (11-12 dicembre). www.teatroragazzi.com

Una danzatrice dell’Alonzo King Lines Ballet, in tournée in Italia dal 16 al 21 novembre al festival MilanOltre

MILANOLTRE Al suo 24° anno, la kermesse si svolgerà nella rinnovata sede del Teatro Elfo Puccini e nello Spazio Pim Off, dove si potranno apprezzare due eccellenze della danza americana (Stephen Petronio e Alonzo King) e una della danza italiana (Adriana Borriello), attraverso spettacoli, incontri e workshop. Novità dell’edizione è la sezione Vetrina Italia, in cui nove artisti emergenti della scena teatrale e coreutica nazionale presenteranno i propri lavori. www.milanoltre.org

PORDENONE

roma

DAL 2 AL 9 OTTORBE

dal 28 ottobre al 5 novembre

LE GIORNATE DEL CINEMA MUTO Ricchissimo il programma dell’edizione 2010 del festival friulano, la cui sezione principale è dedicata al cinema giapponese dei maestri della storica casa di produzione Shochiku: Kiyohiko Ushihara, Yasujiro Shimazu e Hiroshi Shimizu, accomunati dall’influenza del cinema americano. La kermesse prevede, tra i vari appuntamenti, un omaggio a due personalità del cinema sovietico, come Michail Kalatozov e Abram Room.

Festival Internazionale del Film di Roma

www.cinetecadelfriuli.org

5ª edizione per il festival che, dall’Auditorium Parco della Musica, si estenderà a vari luoghi storici dell’Urbe con iniziative dedicate al cinema. Quattro le sezioni: Selezione ufficiale, all’interno della quale verranno assegnati i Premi Marc’Aurelio; L’Altro Cinema-Extra, in cui si celebra il Premio alla Carriera; Alice nella città, laboratorio di cinema giovane; Occhio sul mondo-Focus, sezione aperta alle arti contemporanee. www.romacinemafest.it

ROM A FINO AL 2 DICEMBRE

ROMAEUROPA FESTIVAL La kermesse capitolina festeggia il 25° anno con 20 prime nazionali e 3 prime mondiali, che vedono il ritorno di alcuni protagonisti delle passate edizioni (Romeo Castellucci, José Montalvo…) e la presenza degli esordienti Guy Cassiers, Wajdi Mouawad, Laurie Anderson e Massimiliano Civica. Diretto da Fabrizio Grifasi, il festival propone una programmazione all’avanguardia nella sperimentazione tecnologica, in cui si intrecciano teatro, danza, arti visive e musica. www.romaeuropa.net

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MODENA

GENOVA

DAL 2 OTTOBRE AL 2 FEBBRAIO 2011

DAL 28 OTTOBRE AL 6 NOVEMBRE

Danza Autunno Apre la rassegna autunnale del Teatro Comunale di Modena il debutto del Nederlands Dans Theater II, giovanissima compagnia di fama internazionale, composta da 16 danzatori dai 17 ai 22 anni, provenienti da tutto il mondo. Gli altri appuntamenti del 2010 sono con lo spettacolo InCanto, di Arteballetto (10 novembre); e con lo Schiaccianoci di Ciaikovskij, del Balletto del Teatro Nazionale Croato di Zagabria (4 e 5 dicembre).

IL VIAGGIATORE ONIRICO Continua, al Teatro della Tosse, la riscoperta delle opere di Boris Vian (19201959), lo scrittore-musicista di cui lo scorso anno il teatro genovese ha celebrato l’anniversario della morte con lo spettacolo Gala De Musique de Boris Vian. Apre la stagione la prima nazionale de Il viaggiatore onirico, regia di Emanuele Conte, ispirato al romanzo dell’artista francese Autunno a Pechino. Illustrazioni e immagini di scena di Gregorio Giannotta.

www.teatrocomunalemodena.it

www.teatrodellatosse.it


REGGIO EMILIA DAL 10 AL 14 NOVEMBRE

REGGIO EMILIA FILM FESTIVAL L’“Acqua” è il tema della 9ª edizione della rassegna reggiana, dedicata ai cortometraggi realizzati dai filmaker di tutto il mondo. Articolato in tre sezioni (Concorso, Spazio libero, Non uno di meno), il festival, oltre alla proiezione delle pellicole, prevede numerosi eventi collaterali legati al tema prescelto, e incontri con personaggi di spicco del mondo della settima arte, tra cui Ivan Maximov, artista russo noto per i corti d’animazione. www.reggiofilmfestival.it FIRENZE DAL 22 AL 25 NOVEMBRE

LO SCHERMO DELL’ARTE FILM FESTIVAL 3ª edizione per il festival fiorentino e tre le sezioni previste: Sguardi (film dedicati ai principali protagonisti delle arti contemporanee, quali Francesca Woodman, Jean‐Michel Basquiat ecc.), Cinema d’artista (film realizzati da artisti che hanno eletto il cinema a strumento espressivo privilegiato), Festival Talks (incontri con personaggi noti, come Phil Collins, autore di Marxism today - prologue, proiettato durante la kermesse). www.schermodellarte.org Courmayeur (AO) DAL 7 AL 13 DICEMBRE

Courmayeur NOIR FILM FESTIVAL Ormai da vent’anni torna puntuale, nel cuore dell’inverno, il festival all’insegna del brivido in una delle stazioni sciistiche più prestigiose. Come da tradizione, i film in gara sono selezionati tra le novità del genere dell’anno in corso, al migliore dei quali verrà conferito il Mystery Award. La kermesse prevede anche retrospettive, una sezione Mini Noir per i più giovani e incontri con noti giallisti italiani e internazionali. www.noirfest.com

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ottobre novembre dicembre

agenda 2010

letteratura e fumetto di Paola Biribanti

GENOVA

PIEMONTE - VARIE LOCALITÀ

FINO AL 20 OTT.E DAL 18 AL 20 NOV.

DALL’11 AL 17 OTTOBRE

PREMIO CHATWIN L’appuntamento internazionale con la dimensione del viaggio giunge, “camminando per il mondo”, alla 9ª edizione, con un programma fitto di incontri, presentazioni, anteprime, proiezioni e testimonianze. Già aperto (fino al 20 ottobre) è il concorso che premierà i migliori reportage di video, narrativa e fotografia. Tra le novità, la presenza di due presidenti: lo scrittore Ermanno Rea e Mario Dondero, il padre del fotogiornalismo italiano.

I LUOGHI DELLE PAROLE Per il settimo anno, undici comuni della provincia di Torino si riuniscono in un Festival Internazionale di Letteratura per celebrare il libro e i suoi autori. Il programma è, come di consueto, denso di incontri, workshop, incontri con gli scrittori, mostre e spettacoli. L’edizione 2010 avrà come tema la “Musica dei libri” e dedicherà uno spazio particolare all’opera di Gianni Rodari e alla letteratura della Spagna contemporanea.

www.premiochatwin.it

Il manifesto dell’edizione 2010 del Festival Internazionale del Fumetto di realtà Komikazen

www.fondazione900.it

R AVENNA

POTENZA

DALL’8 AL 10 OTTOBRE

DAL 23 AL 24 OTTOBRE

KOMIKAZEN Il Festival Internazionale del Fumetto di realtà giunge alla 6ª edizione. Oltre alle anteprime di autori di fama internazionale, ma ancora inediti in Italia, e a note firme del panorama dello Stivale, anche quest’anno ci saranno incontri con gli autori, workshop e perfomance. Tra le mostre (aperte fino al 7 novembre) si segnala quella presso il mar (Museo d’Arte della Città di Ravenna) degli originali della giovane promessa francese Maximilien Le Roy.

PREMIO LETTERARIO BASILICATA 39ª edizione per il premio fondato dal Circolo Culturale Silvio Spaventa Filippi, e diventato negli anni una delle maggiori manifestazioni culturali italiane. Con lo scopo di favorire la produzione letteraria, artistica e scientifica, con particolare riguardo al Mezzogiorno, si divide in tre sezioni: Narrativa, Letteratura spirituale e poesia religiosa, Saggistica, quest’ultima ampliata con altri due premi riservati agli studiosi lucani. www.premioletterariobasilicata.it

www.komikazenfestival.org VARESE ENTRO IL 18 OTTOBRE

IL CORTO LETTERARIO E L’ILLUSTRAZIONE Promossa dall’Associazione Culturale Il Cavedio, è in corso la 7ª edizione del Concorso internazionale dedicato al racconto breve e all’illustrazione. Dopo l’apertura all’Europa, la novità del 2010 è la categoria Fumetto, a cui è possibile partecipare con una tavola a tecnica libera, che si ispiri agli stessi temi della sezione Racconto. La tavola deve essere autoconclusiva: contenere cioè storie complete nel rispetto dello stile “corto”. www.ilcavedio.it

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LUCCA CAMPOBASSO DAL 6 OTTOBRE

TI RACCONTO UN LIBRO Aprirà la seconda parte della 10ª edizione della kermesse Gherardo Colombo, con la presentazione del suo ultimo libro, Sulle regole, seguito (14 ottobre) da Lella Costa, che si esibirà in due spettacoli teatrali, e da Corrado Augias, che calcherà le scene con il suo Raccontare Chopin (29 ottobre). Tornano a novembre il Laboratorio di scrittura, quest’anno coordinato da Lidia Ravera, gli Incontri con gli autori e il progetto Ti racconto un libro Infanzia. www.unionelettoritaliani.it

DAL 29 OTTOBRE AL 1° NOVEMBRE

LUCCA COMICS & GAMES Dedicata alla beat generation, e con lo slogan “Tutta un’altra musica”, l’edizione 2010 della kermesse offre un carnet ricco di eventi e ospiti. Questa “Woodstock dell’immaginario fantastico e della nona arte” disseminerà di stand piazze, palazzi storici e vie del centro. La manifestazione è articolata in: Comics (mostre sul fumetto), Games (ospite lo scrittore fantasy Terry Brooks), Junior, e Music & Comics (ospiti Gipi, Cristina d’Avena ecc.). http://lucca2010.luccacomicsandgames.com


PADOVA DAL 30 OTTOBRE AL 1° NOVEMBRE

MOSTRA-MERCATO DEL DISCO E DEL FUMETTO Le Fiere di Padova ospiteranno anche quest’anno la Mostra-Mercato del Disco e del Fumetto usato e da collezione. Organizzata dall’Associazione Culturale Kolosseo, la manifestazione è uno degli appuntamenti più attesi dai collezionisti del Nord Italia. Oltre ai classici e alle nuove tendenze del fumetto, vi saranno settori dedicati all’editoria sportiva, con riviste, album e figurine; e ai giochi di ruolo e videogames. www.kolosseo.com REGGIO CALABRIA 26 NOVEMBRE

PREMIO MONDIALE DI POESIA NOSSIDE Palazzo Campanella farà da cornice alla premiazione dell’unico concorso globale per opere inedite, senza confini di lingue e di forme di espressione (poesia scritta, in video e in musica). Il premio, che ha fatto della salvaguardia delle diversità linguistiche la sua bandiera, è dedicato alla poetessa Nosside di Locri (III sec. a.C.) e ha come logo un’opera di Umberto Boccioni (nato a Reggio Calabria), ispirata al mondo greco classico. www.centrostudibosio.it REGGIO EMILIA DAL 4 AL 5 DICEMBRE

MOSTRA-MERCATO DEL FUMETTO La kermesse reggiana taglia il traguardo della 45ª edizione. Organizzata dall’anafi e dall’arci di Reggio Emilia nei padiglioni delle Fiere di Reggio, nell’ambito della 22ª edizione di Cambi & Scambi, è un paradiso per quanti collezionano e scambiano albi, giornalini, riviste che hanno acquistato la patina del tempo. Ospiti tanti autori e personaggi del mondo del fumetto. Sabato 4, convegno su Carlo Bisi, il creatore di Sor Pampurio. www.amicidelfumetto.it

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agenda 2010

musica di Paola Biribanti

VENEZIA

PADOVA

DAL 2 OTTOBRE AL 2 NOVEMBRE

DAL 20 OTTOBRE

LUIGI CHERUBINI (1760-1842) E I PRIMI ROMANTICI Per il 250° anniversario dalla nascita del compositore, il Palazzetto Bru Zane-Centre de musique romantique française intende esplorare, attraverso l’opera di Cherubini e di alcuni suoi contemporanei, la ricchezza di un periodo spesso trascurato. Tra i fondatori del romanticismo musicale francese e riformatore dello stile sacro, Cherubini diresse per vent’anni il Conservatorio di Parigi, esercitando un’influenza decisiva.

APERTURA STAGIONE LIRICA La Stagione Lirica 2010 del Teatro Verdi sia apre con la Carmen di Georges Bizet, in scena il 20, il 22 e il 24 ottobre. Il cast prevede Rinat Shaham nel ruolo di Carmen, Andrea Carè in quello di Don Josè, mentre Daria Masiero sarà Micaela. Secondo titolo in cartellone, il Rigoletto di Giuseppe Verdi (21, 23, 27, 29 dicembre), con cui si conclude la cosiddetta trilogia popolare verdiana, dopo gli allestimenti de La Traviata (2008) e de Il Trovatore (2009).

www.bru-zane.com

Il sassofonista Sonny Rollins, al Bologna Jazz Festival il 16 novembre prossimo con l’80th Birthday Tour

http://padovacultura.padovanet.it/

LIVORNO

TREVISO E PROVINCIA

DAL 12 AL 16 OTTOBRE

DAL 30 OTTOBRE AL 4 DICEMBRE

PREMIO PIERO CIAMPI Il Teatro Goldoni farà la cornice all’esibizione dei vincitori del concorso musicale nazionale, e di molti ospiti che ogni anno salgono sul palco in onore di Piero Ciampi. Nel cast: Bandabardò, Shel Shapiro, Gina Trio con Niccolò Fabi, Brunori Sas ecc. Il premio, giunto alla 16ª edizione, si svolgerà nell’anno del 30° anniversario dalla morte del poeta e cantautore livornese, al quale verrà dedicato uno spazio all’interno del teatro stesso.

VIVAVOCE Sesta edizione per il festival trevigiano, che con sei appuntamenti porterà nella Marca il meglio della musica a cappella internazionale, riconfermandosi come punto di riferimento a livello europeo. La voce, in tutte le sue declinazioni, dal rock al pop, dal jazz allo swing, sarà la protagonista della manifestazione, grazie al talento degli Stouxingers, delle Aquabella, dei Gothic Voices, dei Vocal Six, dei Sei Ottavi e degli Oblivion.

www.premiociampi.it

www.vivavoce.tv

NUORO ENTRO IL 15 NOVEMBRE

BARRIOS COMPETITION Fino al 15 novembre è possibile partecipare alla 6ª edizione dell’Agustin Barrios International Guitar Competition, concorso aperto ai chitarristi di ogni nazionalità, dedicato a uno dei grandi maestri della chitarra, che si svolgerà dal 19 al 21 dello stesso mese. Al vincitore andrà, oltre a un consistente premio in denaro, un diploma, una chitarra da concerto e tre concerti in Italia organizzati dalla Associazione Musicare, promotrice della competizione. www.barrioscompetition.com

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ROM A

TORINO E GENOVA

16 OTTOBRE

DAL 31 OTTOBRE AL 5 DICEMBRE

V-ACCORDION FESTIVAL Giunge alla 4ª edizione il Festival internazionale della Fisarmonica digitale. Di fronte a una giuria composta da personaggi di spicco del mondo della fisarmonica, artisti da 15 paesi si sfideranno con i suoni della V-Accordion, presso la prestigiosa location della Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica. Disponibile in 16 modelli, la V-Accordion si è imposta tra i giovani, grazie anche a star internazionali della musica pop, rock, latin e jazz.

MUSICHE IN MOSTRA La 25ª edizione del festival porterà a Torino (Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea) e a Genova (Palazzo Rosso) grandi protagonisti internazionali della musica da camera storica e contemporanea. Un’occasione unica per una contaminazione tra musica, arte e letteratura che, per sei domeniche e due sabati, offrirà un’immersione totale nelle arti. Tra i protagonisti, il Fabrizio Festa Ensemble e il violinista francese Pierre Hommage.

www.v-accordionfestival.com

www.arpnet.it


SAN REMO (IM) DALL’11 AL 13 NOVEMBRE

PREMIO TENCO I vincitori della 35ª edizione della Rassegna della canzone d’autore saranno premiati, come di consueto, nella “classica” cornice del Teatro Ariston di San Remo, in cui verranno assegnate le Targhe e i Premi Tenco. Sono Carmen Consoli, Peppe Voltarelli, Piero Sidoti e Avion Travel i vincitori delle ventisettesime Targhe, i riconoscimenti ai migliori dischi dell’anno, assegnate dal Club Tenco in base ai voti di una giuria di circa 170 giornalisti. www.clubtenco.it BOLOGNA DAL 13 AL 20 NOVEMBRE

BOLOGNA JAZZ FESTIVAL L’appuntamento più atteso dell’edizione 2010 del festival, che coinvolge anche Modena e Ferrara, è quello con il “colosso del sassofono” Sonny Rollins, a Bologna il 16 novembre con l’80th Birthday Tour, tournée internazionale con cui celebra i suoi ottant’anni. Con 5 teatri e 7 locali coinvolti, oltre alla Cineteca di Bologna e alla Galleria Civica di Modena, e circa 100 musicisti, il festival è un evento imperdibile per gli appassionati di jazz. www.festivaljazzbologna.it PADOVA DAL 15 AL 20 NOVEMBRE

PADOVA JAZZ FESTIVAL Tredicesimo anno per uno degli appuntamenti musicali tra i più attesi del Nordest, cresciuto nel tempo grazie alla qualità artistica delle proposte nel panorama del jazz italiano e internazionale. Negli spazi dell’Hotel Plaza, del Teatro MPX e del Teatro Comunale Giuseppe Verdi, si esibiranno le formazioni più interessanti della scena jazz contemporanea, come l’Alboran Trio (17 novembre) o il Charles Lloyd New Quartet (20 novembre). www.padovajazz.com

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ottobre novembre dicembre

agenda 2010

tradizioni e sapori di Paola Biribanti

ZAFFER ANA ETNEA (CT)

TREVI (PG)

3-10-17-24-31 OTTOBRE

DAL 30 OTTOBRE AL 1° NOVEMBRE

OTTOBRATA ZAFFERANESE Nata agli inizi degli anni Ottanta, quella della cittadina siciliana è una delle più rinomate e apprezzate mostre-mercato dei prodotti tipici dell’Etna. Ogni domenica, gli stand tenteranno i visitatori del centro storico con le specialità del luogo, tra cui il miele d’arancio, di limone, millefiori, eucalyptus, castagno e ficodindia (Zafferana uno dei maggiori produttori di miele in Italia), il vino, l’uva, le mele, l’olio e i funghi porcini.

FESTIVOL Trevi, capitale dell’”oro verde” e capofila della Strada dell’Olio dop Umbria festeggia l’olio nuovo con una serie corposa di eventi a carattere gastronomico e culturale, che ne esalteranno le eccellenze sia artistiche che alimentari, come il sedano nero, che dell’olio è il partner ideale. Oltre alla mostra-mercato, tra le iniziative è prevista la possibilità di partecipare alla raccolta delle olive e al trekking urbano e naturalistico con muli e cavalli.

www.zafferana-etnea.it

Un’immagine della scorsa edizione di Einprosit, a Malborghetto e Tarvisio (UD)

www.festivol.it

SIENA E PROVINCIA

MER ANO (BZ)

DAL 7 OTTOBRE AL 4 NOVEMBRE

DAL 5 ALL’8 NOVEMBRE

GIROGUSTANDO Nata nel 2002, la manifestazione si articola in serate “a quattro mani” in diverse località del Senese, durante le quali due chef italiani propongono ai partecipanti un menu condiviso, che prevede alcune delle rispettive specialità regionali. Ai vari piatti vengono abbinati vini selezionati, serviti da sommelier e illustrati da esperti di settore. A rendere le serate ancora più appetitose concorrono intrattenimenti musicali, teatrali e ludici.

MERANO INTERNATIONAL WINE FESTIVAL Dedicato alle eccellenze viti-vinicole italiane e internazionali e al patrimonio gastronomico dello Stivale, il festival è uno degli eventi del settore più elitari d’Europa e un appuntamento immancabile per appassionati e addetti ai lavori. Nel Palazzo del Kurhaus verranno ospitati 462 aziende vitivinicole, 50 di vini biologiche e biodinamiche, 100 artigiani, 17 distillatori, 12 birrifici artigianali, 13 wine resorts e una gourmet arena.

www.girogustando.tv

www.meranowinefestival.com PROVINCIA DI PAR M A

LUCCA

FINO AL 31 OTTOBRE

DAL 20 NOVEMBRE AL 12 DICEMBRE

L’APPENNINO VIEN MANGIANDO Tutti i fine settimana di ottobre, i comuni di Tizzano Val Parma (1-3), Lesignano De’ Bagni (8 -10 ottobre), Neviano Degli Arduini (15-17), Corniglio (22-24) e Langhirano (29-31) rinnovano l’appuntamento con la rassegna che propone appuntamenti con i prodotti tipici dell’Appennino Parma Est. Protagonisti sono il parmigiano reggiano, il tartufo nero di Fragno, i funghi porcini, i tortelli di patate, i vini dei Colli di Parma e molto altro.

IL DESCO I tre chiostri e le sale del Real Collegio si preparano a celebrare, tutti i fine settimana fino al 12 dicembre, un prodotto tipico del territorio: il fagiolo della piana di Lucca (20 e 21 novembre), il farro della Garfagnana (27 e 28 novembre), la castagna della valle del Serchio (4 e 5 dicembre) e il pane e l’olio delle colline lucchesi (11 e 12 dicembre). La novità dell’edizione è EscodalDesco, percorso di degustazioni nei locali e nelle botteghe cittadine.

www.appenninoparmaest.it

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www.ildesco.eu

M ALBORGHETTO E TARVISIO (UD) DAL 19 AL 23 NOVEMBRE

EINPROSIT 12ª edizione per il principale evento enogastronomico del Friuli Venezia Giulia, dedicato ai vini da vitigno autoctono italiani e internazionali. La kermesse, la cui sede principale sarà il Palazzo Veneziano di Malborghetto (UD), che già ospita il locale Museo Etnografico, si articolerà in una Mostra-assaggio di prodotti enogastronomici nazionali ed esteri, in Degustazioni guidate, Seminari e Incontri, Laboratori di sapori e Itinerari del gusto. www.einprosit.org


TORINO DAL 21 AL 25 OTTOBRE

Salone Internazionale Del Gusto E Terra Madre CANDELAR A DI PESARO (PU) DAL 4 ALL’8 DICEMBRE

CANDELE A CANDELARA L’inizio di dicembre rappresenta per Candelara un’immersione totale nell’atmosfera natalizia: per cinque giornate, in tre momenti del pomeriggio (17.30, 18.30, 19.30), la cittadina resta illuminata solo dalle candele. Completano l’evento il mercatino di candele e oggettistica natalizia per le vie del borgo, che attira visitatori da tutta la Penisola, laboratori in cui i bambini imparano a realizzare candele ed esibizioni di artisti di strada. www.candelara.com GRECCIO (RI) 24 E 26 DICEMBRE

RIEVOCAZIONE STORICA DEL PRIMO PRESEPE Il primo presepe della storia, realizzato nel borgo reatino nel Natale del 1223 da san Francesco con l’aiuto del signore di Greccio Giovanni Velita, viene rievocato ogni anno in sei quadri viventi, la cui scenografia spettacolare, i giochi di luce e la devozione degli interpreti ne fanno un momento di grande suggestione. I visitatori possono ristorarsi all’interno delle tensostrutture riscaldate, in cui sono allestiti stand gastronomici.

Il manifesto della nuova edizione del Salone Internazionale del Gusto di Torino

www.presepedigreccio.it PUTIGNANO (BA) 26 DICEMBRE

FESTA DELLE PROPAGGINI A Putignano il Carnevale inizia il 26 dicembre con la tradizione delle Propaggini. La festa risale al lontano 1394, quando le spoglie di santo Stefano, poi patrono della città, furono traslate a Putignano da Monopoli. Gli abitanti, allora impegnati nei campi, interruppero le attività improvvisando un corteo canzonatorio, rievocato nelle “propaggini”: declamazioni in dialetto di versi in rima baciata, che punzecchiano i potenti sulle questioni del paese.

L

’8ª edizione del Salone del Gusto e la 4ª di Terra Madre si svolgeranno negli stessi giorni presso l’area del Lingotto Fiere. Le due manifestazioni biennali, unite nella promozione del cibo sano e di qualità, offriranno ai visitatori un ampio calendario di appuntamenti. Il Salone del Gusto, che sin dalla prima edizione si è imposto come uno dei rari luoghi in cui contadini, artigiani, cultura accademica, cuochi, cultori dell’enogastronomia e neofiti si possono realmente incontrare, oltre ai Laboratori e Teatri del Gusto, conferenze e spazi per i più piccoli, presenterà anche film e corti dal festival Slow Food on Film, a cui si sommeranno gli incontri con le comunità del cibo e le iniziative di Terra Madre, dal 2004 impegnata nella difesa e nella promozione della modalità di produzione locale, tradizionale e rispettosa dell’ambiente. www.salonedelgusto.it - www.terramadre.org

www.carnevalediputignano.it

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altre latitudini DÜSSELDORF

PRAGA

LIVERPOOL

NAM JUNE PAIK al Museum Kunst Palst

STRUNY PODZIMU (CORDE D’AUTUNNO)

LIVERPOOL BIENNIAL

Un’importante retrospettiva dedicata al padre della videoarte riempie (è proprio il caso di dire) le sale del Museum Kunst Palst di Düsseldorf. Oltre a video, opere storiche, registrazioni di performance e creazioni del periodo Fluxus, i visitatori potranno infatti osservare più di trenta grandi installazioni realizzate tra gli anni Settanta e Novanta.

Nato nel 1996, il festival calamita ogni anno un pubblico sempre crescente grazie a una formula che contempera la musica classica, il jazz e le sonorità delle diverse parti del mondo. Tra gli appuntamenti, si segnala il concerto conclusivo della kermesse (21 novembre), in cui Dianne Reeves proporrà il proprio tributo all’indimenticabile Sarah Vaughan.

La Biennale di Liverpool è l’evento più importante d’Inghilterra dedicato all’arte visuale, capace di attrarre una moltitudine di artisti di fama internazionale. Giunta alla 6ª edizione, non smette di stupire con la molteplicità degli appuntamenti proposti. Peculiarità del festival: considerare la città come un museo, disseminandola di opere d’arte.

www.museum-kunst-palast.de

www.strunypodzimu.cz

www.biennial.com

PARIGI

LONDRA

AMSTERDAM

CENT POUR CENT BANDE DESSINÉE

GAUGUIN: MAKER OF MYTH

La Biblioteca Forney, collocata all’interno del cinquecentesco Hôtel de Sens, ospita un’originale mostra dedicata all’arte del fumetto (le “strisce disegnate”). Una vetrina che è, allo stesso tempo, un tributo a cento grandi disegnatori del passato, e una sfida rivolta ad altrettanti fumettisti contemporanei, invitati a reinterpretare i grandi classici.

Con oltre 100 opere, provenienti da collezioni di varie parti del mondo, quella che la Tate Modern dedica al genio del Post-Impressionismo é la prima mostra nel Regno Unito sull’artista dopo oltre cinquant’anni. Dipinti, incisioni e oggetti decorati verranno esposti insieme materiale documentario meno conosciuto (illustrazioni, schizzi, memorie).

ALESSANDRO MAGNO L’IMMORTALE

www.paris-bibliotheques.org

www.tate.org.uk

FINO AL 21 NOVEMBRE

FINO ALL’8 GENNAIO 2011

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di paola biribanti

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FINO AL 21 NOVEMBRE

FINO AL 16 GENNAIO 2011

FINO AL 28 NOVEMBRE

FINO AL 18 MARZO 2011

Il mito, la realtà, i viaggi, l’eredità di Alessandro Magno vengono celebrati nella prima mostra che l’Olanda dedica all’Ellenistico, che a 2.500 anni di distanza continua a esercitare un fascino imperituro. All’Hermitage Amsterdam è possibile ammirare più di 350 capolavori, tra cui le raffigurazioni del sovrano su dipinti e oggetti dei secoli XVII-XIX. www.hermitage.nl


GHENT

DAL 12 AL 23 OTTOBRE GHENT FILM FESTIVAL Trentasettesima edizione per uno dei più importanti festival cinematografici d’Europa, che ogni anno attrae oltre 125.000 spettatori e prevede un calendario fitto di proiezioni (circa 100 film e 50 corti), mostre e retrospettive. Un’attenzione particolare è dedicata alla musica, con concerti di musiche da film e l’assegnazione del prestigioso World Soundtrack Awards. www.filmfestival.be

ZURIGO

DAL 15 OTTOBRE AL 30 GENNAIO 2011 PICASSO Al Kunsthaus Zürich

VIENNA

DAL 21 OTTOBRE AL 3 NOVEMBRE VIENNALE

Al Kunsthaus Zürich verrà riproposta la mostra che nel 1932 Picasso allestì nel museo scegliendo personalmente le opere da esibire, rivoluzionando così la consuetudine secondo cui era il direttore del museo, e non l’artista, a scegliere i pezzi. Attraverso 70 originali si potranno ripercorrere tutte le fasi della produzione del padre del Cubismo.

Il Vienna International Film Festival, tra i più conosciuti eventi dedicati al cinema dell’area teutonica, si distingue da sempre per la felice combinazione di pellicole vecchie, nuove e prime visioni che, lontane delle tendenze del momento, propongono soluzioni alternative. Un’attenzione particolare è dedicata al documentario e al cortometraggio.

www.kunsthaus.ch

www.viennale.at

BERLINO

STOCCOLMA

LISBONA

László Moholy-Nagy. Art of Light

STOCKHOLM INTERNATIONAL FILM FESTIVAL

ARTE LISBOA Fiera dell’Arte Contemporanea

Al Martin Gropius Bau, uno dei più bei palazzi di Berlino, nei pressi di Potsdamer Platz, sarà possibile ammirare, fino all’inizio del 2011, più di 200 opere, tra dipinti, fotografie, fotogrammi, collage, film, grafica di László Moholy-Nagy, realizzate dall’artista negli anni Venti, quando sviluppò la propria teoria dell’arte come arte della luce.

21ª edizione per il festival svedese: una delle più importanti vetrine del Nord Europa. Come ogni anno, verranno proiettati più di 170 film da oltre 40 paesi. Ci sarà una sezione competitiva, una espressamente dedicata agli incontri con il pubblico, la critica e gli addetti ai lavori. Tra le pellicole in programma, anche Rubber, di Quentin Dupieux.

La 10ª edizione della Fiera dell’Arte Contemporanea di Lisbona avrà luogo nel Pavilhão do Rio, il Centro Congressi della città. Progettato da Francisco Keil do Amaral, il palazzo è la location ideale per ospitare i lavori di circa 45 tra le più prestigiose gallerie nazionali ed europee e dibattiti con artisti, collezionisti, direttori di musei ecc.

www.berlinerfestspiele.de

www.stockholmfilmfestival.se

www.artelisboa.fil.pt

DAL 4 NOVEMBRE AL 16 GENNAIO 2011

DAL 17 AL 28 NOVEMBRE

DAL 24 AL 28 NOVEMBRE

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incanto popolare la Roma di Pier Paolo Pasolini

La città di Roma, così come il popolo delle sue borgate, è uno degli orizzonti espressivi prediletti di Pier Paolo Pasolini. Pasolini s’innaroma di Roma fin dal suo arrivo, nel 1950, ma a suo modo, perché il patrimonio monumentale della città eterna sembra non essere di suo interesse. Pasolini guarda la Roma dei pischelli e del romanesco, quella periferica, primitiva e non ancora corrotta dal processo di normalizzazione borghese. Ripercorriamo i luoghi della Roma pasoliniana, quelli raccontati nei suoi lungometraggi e nelle pagine dei suoi romanzi e delle sue poesie.

1 Appunti biografici 2 Il poeta dei luoghi 3 L’incanto popolare di Roma 4 Gli anni a Monteverde 5 La Roma cinematografica 6 i luoghi dei Ragazzi di Vita 7 Sapori corsari 8 I luoghi della roma pasoliniana

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21 Š Carlo Bavagnoli//Time Life Pictures/Getty Images


copertina | la roma di pier paolo pasolini

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Appunti biografici

Gli anni della prima giovinezza e della guerra a Casarsa, il primo processo e il trasferimento a Roma, la “scoperta” delle borgate, le opere cinematografiche e letterarie, la fine. Notizie e ricordi della vita e della morte di un poeta del nostro tempo di Massimiliano Valente e Angela Molteni

P

Pagina a fianco Pier Paolo Pasolini nel 1938 ca. a Casarsa, in Friuli

ier Paolo Pasolini nasce a Bologna il 5 marzo 1922, primogenito di Carlo Alberto Pasolini, tenente di fanteria, e di Susanna Colussi, maestra elementare. Il padre, di antica famiglia ravennate di cui ha dissipato il patrimonio, sposa Susanna nel dicembre del 1921, a Casarsa, in provincia di Pordenone. I due sposi si trasferiscono in seguito a Bologna. “Sono nato in una famiglia tipicamente rappresentativa della società italiana [...]. Mio padre discendeva da un’antica famiglia nobile della Romagna, mia madre, al contrario, viene da una famiglia di contadini friulani che si sono a poco a poco innalzati, col tempo, alla condizione piccolo-borghese” scriverà più tardi il poeta. A Bologna la famiglia Pasolini resta poco: si trasferiscono a Parma, Conegliano, Belluno, Sacile, Idria, Cremona, ancora Bologna e altre città del Nord: “Hanno fatto di me un nomade. Passavo da un accampamento all’altro, non avevo un focolare stabile”. Nel 1925, a Belluno, nasce il secondogenito, Guido. I primi anni di scuola sono compiuti tra innumerevoli trasferimenti che, comunque, non intaccano il rendimento scolastico di Pier Paolo. Frequenta la scuola elementare con un anno d’anticipo. Nel 1928, l’esordio poetico: Pier Paolo annota su un quadernetto una serie di poesie accompagnate da disegni. Ottiene il passaggio dalle elementari al ginnasio, che frequenta a Conegliano. “La mia infanzia finisce a 13 anni. Come tutti: tredici anni è la vecchiaia dell’infanzia, momento perciò di grande saggezza. Era un momento felice della mia vita. Ero stato il più bravo a scuola. Cominciava l’estate del ’34”. Pier Paolo conclude gli studi liceali e, a diciassette anni, si iscrive all’Università di Bologna, facoltà di Lettere. Collabora a «Il Setaccio» e scrive poesie in friulano e in italiano, che saranno raccolte in seguito in un primo volume, Poesie a Casarsa. Partecipa alla redazione di una rivista, «Stroligut», con altri amici letterati friulani. E venne la guerra

La Seconda Guerra Mondiale rappresenta per Pasolini un periodo estremamente difficile. Il suo stato d’animo s’intuisce anche dal tenore delle lettere: “Quanto a salute non c’è male, anzi bene. Quanto a morale, anche, quando tutto è calmo, cioè raramente. Del resto, molta paura. Paura di lasciarci la pelle [...]. E non soltanto la mia, ma quella degli altri. Siamo tutti così esposti al destino; poveri uomini nudi […]”. La famiglia Pasolini decide di recarsi a Versutta, piccola frazione di Casarsa, luogo meno esposto ai bombardamenti alleati e agli assedi tedeschi. Qui insegna ai ragazzi dei primi anni del ginnasio. Ma l’avvenimento che segnerà quegli anni è la morte del fratello Guido. Nel 1945 Pasolini si laurea, discutendo una tesi intitolata Antologia della lirica pascoliana. Introduzione e commenti e si stabilisce definitivamente in Friuli. Lì trova lavoro come insegnante in una scuola media di Valvasone, in provincia di Pordenone. In quegli anni comincia la sua militanza politica. Nel 1947 aderisce al pci, iniziando una collaborazione con il settimanale del partito «Lotta e lavoro». Pasolini diventa segretario della sezione di San Giovanni di Casarsa, ma non viene visto di buon occhio nel partito: in lui molti comunisti vedono del disinteresse per il realismo socialista, un certo cosmopolitismo, e un’eccessiva attenzione per la cultura borghese. 22

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Š Archivio GBB / CONTRASTO

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copertina | la roma di pier paolo pasolini

Il treno doloroso per Roma

“Fuggii con mia madre e una valigia e un po’ di gioie che risultarono false, su un treno lento come un merci, per la pianura friulana coperta da un leggero e duro strato di neve. Andavamo verso Roma”

Il 15 ottobre del 1949 Pasolini viene segnalato ai Carabinieri di Cordovado per corruzione di minorenne: è l’inizio di una delicata e umiliante trafila giudiziaria che cambierà per sempre la sua vita. Viene accusato di essersi appartato, il 30 settembre 1949, nella frazione di Ramuscello, con due o tre ragazzi. I genitori dei ragazzi non sporgono denuncia, ma i Carabinieri di Cordovado, venuti a sapere delle voci che girano in paese, indagano sul fatto. Ecco quanto riportato da «l’Unità» del 29 ottobre: “La federazione del pci di Pordenone ha deliberato in data 26 ottobre l’espulsione dal partito del Dott. Pier Paolo Pasolini di Casarsa per indegnità morale”. Pasolini si trova proiettato, nel giro di qualche giorno, in un baratro apparentemente senza uscita. La risonanza a Casarsa dei fatti di Ramuscello avrà una vasta eco. È espulso dal pci, perde il posto di insegnante, si incrina momentaneamente il rapporto con la madre: è la disfatta. Pasolini decide di fuggire da Casarsa, dal suo Friuli spesso mitizzato; insieme alla madre si trasferisce a Roma, è l’inizio di una nuova vita per Pier Paolo. Scriverà in seguito: “Fuggii con mia madre e una valigia e un po’ di gioie che risultarono false, su un treno lento come un merci, per la pianura friulana coperta da un leggero e duro strato di neve. Andavamo verso Roma”. A Roma: gli anni della disperazione

I primi anni romani sono difficilissimi per Pasolini, proiettato in una realtà del tutto nuova e inedita, quale quella delle borgate romane: “Era un periodo tremendo della mia vita. Giunto a Roma dalla lontana campagna friulana: disoccupato per molti anni; ignorato da tutti; divorato dal terrore interno di non essere come la vita voleva […]. Non vorrei mai rinascere per non rivivere quei due o tre anni […]. Nei primi mesi del ’50 ero a Roma, con mia madre: mio padre sarebbe venuto anche lui, quasi due anni dopo, e da Piazza Costaguti saremmo andati a abitare a Ponte Mammolo […]. Ero disoccupato, ridotto in condizioni di vera disperazione: avrei potuto anche morirne. Poi con l’aiuto del poeta in dialetto abruzzese Vittorio Clemente trovai un posto di insegnante in una 24

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scuola privata di Ciampino, a venticinque mila lire al mese”. Tenta la strada del cinema, ottenendo la parte di generico a Cinecittà; fa il correttore di bozze e vende i suoi libri nelle bancarelle rionali. Pasolini prepara le antologie sulla poesia dialettale e collabora con «Paragone», la rivista di arti figurative e letteratura fondata da Roberto Longhi. I primi successi letterari: La meglio gioventù e Ragazzi di vita

Il giornalista e scrittore Giovanni Battista Angioletti lo chiama a far parte della sezione letteraria del giornale radio, accanto a Carlo Emilio Gadda, Leone Piccioni e Giulio Cartaneo. Sono definitivamente alle spalle i difficili primi anni romani. Nel 1954 Pasolini abbandona l’insegnamento e si stabilisce a Monteverde Vecchio e pubblica il suo primo importante volume di poesie dialettali: La meglio gioventù. Nel 1955 viene presentato all’editore Garzanti da Attilio Bertolucci, e con Garzanti pubblica il romanzo Ragazzi di vita, che ha un vasto successo, sia di critica che di lettori. Il giudizio della cultura ufficiale del pci è in gran parte negativo. La Presidenza del Consiglio promuove un’azione giudiziaria contro Pasolini e Livio Garzanti. Il processo dà luogo all’assoluzione perché “il fatto non costituisce reato”. Il libro, per un anno tolto dalle librerie, viene dissequestrato. Nel 1957 pubblica le raccolte di poesie Le ceneri di Gramsci con Garzanti e, l’anno successivo, con Longanesi, L’usignolo della Chiesa cattolica. Nel 1960, per Garzanti esce la raccolta di saggi Passione e ideologia, e, nel 1961, un altro volume di versi: La religione del mio tempo. In quegli anni Pasolini collabora con la rivista «Officina» accanto a Leonetti, Roversi, Fortini, Romanò, Scalia. L’esordio cinematografico

Nel 1957, insieme a Sergio Citti Pasolini collabora al film di Fellini Le notti di Cabiria, stendendone i dialoghi nella parlata romanesca. Firma sceneggiature insieme a Bolognini, Rosi, Vancini e Lizzani, col quale esordisce come attore nel film Il gobbo, nel 1960. Nel 1961 realizza il suo primo film da regista e soggettista, Accattone, e, nel 1962, gira Mamma Roma. Nel 1963 l’episodio La ricotta, diretto da Pasolini e inserito nel film Ro.Go.Pa.G., viene sequestrato, e Pasolini è accusato di vilipendio della religione dello Stato. Nel 1964 dirige Il Vangelo secondo Matteo, nel 1965 Uccellacci e uccellini, nel 1967 Edipo re, nel 1968 Teorema, nel 1969 Porcile, nel 1970 Medea. Tra il ’70 e il ’74 la Trilogia della vita, ovvero Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle mille e una notte. Il suo ultimo film, Salò o le 120 giornate di Sodoma, è del 1975. Il cinema lo porta a intraprendere numerosi viaggi all’estero: nel 1961 è, con Elsa Morante e Alberto Moravia, in India; nel 1962 in Sudan e Kenia; nel 1963 in Ghana, Nigeria, Guinea, Israele e Giordania (dove girerà un importante documentario dal titolo Sopralluoghi in Palestina). Nel 1966, in occasione della presentazione di Accattone e Mamma Roma al festival di New York, compie il suo primo viaggio negli Stati Uniti; rimane molto colpito da quel paese e soprattutto da New York. Nel 1968 è di nuovo in India per girare un documentario. Nel 1970 torna in Africa: in Uganda e Tanzania realizzerà il documentario Appunti per un’Orestiade africana. Gli ultimi anni di vita

Nel 1970 acquista quel che resta di un castello medievale nei pressi di Viterbo. Lo ristruttura e lì comincia la stesura dell’opera che resterà incompiuta, Petrolio. Nel 1972, per Garzanti pubblica i suoi interventi critici, soprattutto di critica cinematografica, nel volume Empirismo eretico. Negli anni della contestazione studentesca, Pasolini assume una posizione originale rispetto al resto della cultura di sinistra. Sebbene accetti e appoggi le motivazioni ideologiche degli studenti, ritiene che questi siano antropologicamente dei borghesi, e, in quanto tali, destinati a fallire nel loro tentativo rivoluzionario. Dal 1973 comincia a collaborare con il «Corriere della Sera», con interventi critici sui problemi del paese. Nel 1975, presso Garzanti pubblica la raccolta di interventi critici Scritti corsari, e ripropone le poesie in friulano con il titolo La nuova gioventù. La mattina del 2 novembre 1975, sul litorale romano di Ostia, in un campo incolto in via dell’Idroscalo, una donna, Maria Teresa Lollobrigida, scopre il cadavere di un uomo. È Ninetto Davoli a riconoscervi il corpo di Pier Paolo Pasolini.

VIDEO Fotografa questo codice e guarda il video sul tuo cellulare. A pagina 7 le istruzioni per attivare il servizio

Raggiungiamo l’Idroscalo di Ostia ripercorrendo il tragitto cinematografico di Nanni Moretti in Caro Diario (1993). Il monumento dello scultore Mario Rosati ricorda il luogo dove fu ucciso Pier Paolo Pasolini il 2 novembre del 1975.

© Valentino Griscioli

IDROSCALO DI OSTIA

Monumento alla memoria di Pasolini

La stele realizzata dallo scultore Mario Rosati nel 2005 è posta all’Idroscalo di Ostia e sostituisce il primo monumento eretto nel 1980, ad opera dello stesso artista, in memoria di Pier Paolo Pasolini, proprio nel luogo dove fu rinvenuto il cadavere del poeta. L’area è oggi completamente bonificata e inserita nel progetto “Porto di Roma e Parco Pasolini”. Il disegno è lo stesso del monumento precedente, abbandonato per circa venti anni e più volte danneggiato da atti vandalici.La scultura consta di un tronco verticale in marmo travertino volto a simboleggiare una vita spezzata: completano l’opera due colombe ad ali spiegate ed una luna piena. Sul basamento della scultura è stata incisa una citazione pasoliniana: “Passivo come un uccelletto che vede tutto, volando, e si porta in cuore nel volo in cielo la coscienza che non perdona”.

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copertina | la roma di pier paolo pasolini

Il poeta dei luoghi “Questa Roma così ultima e vicina che solo chi la vive in piena incoscienza è capace di esprimerla… tutti sono impotenti davanti a lei, il papa o Belli redivivo, tutti arrossiscono davanti alla sua bellezza troppo nuda” (“Squarci di notti romane”, 1951, da Alì dagli occhi azzurri, 1965)

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di Luciano Vanni

P

ier Paolo Pasolini è stato innanzitutto un poeta. Ed è con gli occhi del poeta che scrive i suoi romanzi, le sue poesie, i suoi saggi, le sue traduzioni e i suoi articoli; che gira i suoi film. Il suo, sempre e comunque, è uno sguardo candido, anche quando la rappresentazione diventa cinica, sguaiata, sporcacciona, eretica, laida e volgare. Tutto ciò che Pasolini racconta – momenti di vita, perimetri urbani, avvenimenti storici o volti di popolo – viene filtrato attraverso lo sguardo incontaminato e puro tipico del poeta, con grazia e precisione. Proprio questo sguardo attento e vigile fa di Pasolini uno straordinario interprete del suo tempo. Un intellettuale, diremmo. Da poeta, guarda nel profondo delle cose con spirito materno; da intellettuale osserva tutto ciò che accade con attenzione e disincanto: è in questa personalissima combinazione d’identità che risiedono il suo côté artistico e il suo lascito spirituale. Pasolini è un poeta militante già in tenera età. Quando inizia a scrivere versi in dialetto friulano, negli anni Trenta, già emerge un profondo senso civico e laico. Compone liriche che esprimono un forte carattere sociale, perché la condizione di vita esistenziale e materiale del popolo è al centro della sua indagine: “sono direttamente interessato a quelli che sono i cambiamenti storici. Cioè, tutte le sere e tutte le notti, la mia vita consiste nell’aver rapporti diretti, immediati, con tutta questa gente che io vedo che sta cambiando” (da un’intervista rai). La minaccia antropologica

Pagina a fianco Pier Paolo Pasolini sul set cinematografico del film Mamma Roma

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Ecco il punto. Il cambiamento. Pier Paolo Pasolini considera la nuova società dei consumi, borghese e capitalista, come una minaccia volta a cancellare per sempre il mondo barbaramente puro della civiltà contadina e del sottoproletariato. Il poeta corsaro sente che c’è una minaccia che insiste sul paesaggio umano: lo stato primordiale e innocente tipico di una società arcaica è destinato a essere contraffatto per sempre, travolto nella sua coscienza e nella sua identità, manipolato dallo strumento di omologazione sociale rappresentato dai media di massa (“perché un medium di massa non può che mercificarci e alienarci”, cfr. Biagi intervista Pasolini, 1975). Al Pasolini disilluso e apocalittico, quindi impotente, non resta che registrare ciò che considera un vero e proprio genocidio culturale. Alla borghesia (“considerata come vuoto e finzione”, cfr. Roberto Carnero, Morire per le idee, 2010) sente di attribuire la responsabilità storica dello sradicamento e del processo di alienazione del sottoproletariato. Il passato dei valori autentici, dell’umiltà dei poveri, sarà abbattuto; l’orizzonte bucolico e ingenuo del suo Friuli cesseranno per sempre di esistere. Questa la sua profezia.


Š Angelo Novi/Cineteca di Bologna Š Evening Standard/Getty Images il turismo culturale 27


copertina | la roma di pier paolo pasolini

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Le traiettorie incontaminate di Roma

Quando giunge a Roma, il poeta di Casarsa “ritrova gli echi del suo passato della campagna friulana nelle borgate, popolata da gente con la stessa coscienza contadina, villana, timida ma al tempo stesso violenta; per Pasolini sono questi luoghi e questa gente a conquistare il centro del suo interesse e più in generale il centro della storia” (cfr, pasolini.net). Pasolini s’innamora di Roma, ma a modo suo. Il patrimonio monumentale della Città Eterna non sembra essere di suo interesse. Pasolini guarda gli angoli più sgradevoli della città, quelli privi della storia tanto nobile ma prepotente della sua civiltà. La sua Roma è quella più violentemente sporca e bestemmiatrice. La Roma periferica, delle borgate, quella primitiva e non ancora corrotta dal processo di normalizzazione borghese; quella “del mondo zozzo e cane” (cfr. “Mignotta. Relazione per un produttore”, 1954, in Alì dagli occhi azzurri, 1965); quella che parla il romanesco, quella dei pischelletti, delle mignotte e dei papponi; quella che “non è Roma, è Testaccio, che brucia sotto il sole: con le fogne, sotto la terra, intasate di terra e merda” (cfr. “Storia Burina”, 195665, ivi); quella dei ragazzi di borgata, che nell’opera pasoliniana diventano, non a caso, gli assoluti protagonisti della narrazione. L’interesse di Pasolini sembra essere lo stesso di Giovanni Verga e di Émile Zola, tanto è veritiero e spietato il suo sguardo. Ma Pasolini ribalta la concezione letteraria verista e naturalista, e preferisce una visione morbosamente cinica della realtà senza alcuna traccia di pietas o di redenzione. Protagonisti assoluti delle prime opere – i romanzi Ragazzi di vita e Una vita violenta, così come i lungometraggi Accattone e Mamma Roma – sono appunto i “ragazzi di vita”, il popolino che abita nella baraccopoli ai margini della città, “con i suoi contrasti sociali, con i suoi profumi e olezzi, con sue traiettorie architettoniche” (cfr. pasolini.net). Gli occhi del poeta diventano così gli occhi del sottoproletariato e come tali carichi di rabbia e di vita. Pasolini passeggia per Roma alla ricerca di una realtà popolare ancora autentica. Guarda, annusa, assiste e partecipa alla vita di periferia per poi trasferire le sue emozioni nelle opere. Casette, vicoli, piccole fontanelle, binari di tram, cumuli di pietra, fango, polvere e baracche non saranno una semplice quinta scenografica dei suoi romanzi e dei suoi film, ma agiranno essi stessi da co-protagonisti.

La finzione-non finzione dell’indagine letteraria e cinematografica in Pasolini si associa a un utilizzo della lingua “volgare”, adottando il romanaccio e non il romanesco poetico di Belli o di Trilussa, e con esso il gergo impuro, ma straordinariamente efficace. Nessuno, meglio dei ragazzi di borgata, attori-non attori, saprà parlare la lingua quotidiana del popolo

© archivio storico del cinema / afe

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Lo sguardo frontale

“Sono direttamente interessato a quelli che sono i cambiamenti storici. Cioè, tutte le sere e tutte le notti, la mia vita consiste nell’aver rapporti diretti, immediati, con tutta questa gente che io vedo che sta cambiando”

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“Facendo il cinema riproduco la realtà e quindi sono immensamente vicino a questo primo linguaggio umano che è l’azione dell’uomo che si rappresenta nella vita” (cfr. intervista televisiva). I luoghi romani letterari e cinematografici di Pier Paolo Pasolini svelano la propria identità vitale. I suoi amici, i ragazzi di vita, quelli che ha incontrato e conosciuto nei bar e nei vicoli di borgata diventeranno fatalmente i protagonisti delle sue opere; saranno attori, interpreti e registi. L’interesse verso l’uomo in relazione all’ambiente è profondo. Salvo rari casi, peraltro d’eccellenza (Totò, Anna Magnani, Orson Welles, Laura Betti, Silvana Mangano, Domenico Modugno, Franco Franchi, Ciccio Ingrassia ecc.) Pasolini coinvolge, nella rappresentazione di luoghi veri uomini veri, che chiama a recitare sé stessi con un lessico elementare e primitivo, talvolta osceno. L’esordio cinematografico di Pasolini avviene nei primi anni Sessanta, quelli della definitiva modernità italiana, destinata – per il poeta – a modificare la coscienza del sottoproletariato. La sua condanna antropologica viene messa in scena con efficacia nei ritratti di due sradicati destinati all’autodistruzione nel momento in cui tentano di modificare la propria posizione sociale: è il caso di Accattone e di Mamma Roma, puttana e madre, che sogna una redenzione e un salto di qualità borghese per il figlio. La finzione-non finzione dell’indagine letteraria e cinematografica in Pasolini si associa a un utilizzo della lingua “volgare”, adottando il romanaccio e non il romanesco poetico di Belli o di Trilussa, e con esso il gergo impuro, ma straordinariamente efficace. Nessuno, meglio dei ragazzi di borgata, attori-non attori, saprà parlare la lingua quotidiana del popolo. Le altre periferie e il terzo mondo

Dopo aver rappresentato il Friuli contadino in gioventù e la Roma popolare negli anni di maturità, Pier Paolo Pasolini vive e racconta altre periferie, altri luoghi minori, altri borghi e altre latitudini. Sono le spiagge di Sabaudia, la Torre di Chia, Orte, l’Idroscalo di Ostia e Soriano nel Cimino, territori osservati e raccontati con lo stesso sguardo malinconico, in quanto luoghi minacciati e corrotti nella loro geografia, e quindi anche sotto il profilo antropologico. Lo sviluppo urbano si materializza anche e soprattutto attraverso un processo di selvaggia urbanizzazione; sono i grattacieli di Roma e i casermoni costruiti a ridosso di antichi borghi. “Io ho scelto una città: la città di Orte. Cioè, praticamente ho scelto come tema ‘la forma di una città’, il suo profilo. Ecco, quello che vorrei dire è questo: io ho fatto un’inquadratura che prima faceva vedere soltanto la città di Orte nella sua


Sopra Pasolini durante il suo soggiorno in India A sinistra In Africa per le riprese del documentario Appunti per un’Orestiade africana In basso Pasolini e Moravia in India

perfezione stilistica, cioè come forma perfetta, assoluta […]. Basta che io muova questo affare qui, nella macchina da presa… ed ecco che la forma della città, il profilo della città, la massa architettonica della città, è incrinata, rovinata, è deturpata da qualcosa di estraneo, cioè quella casa che si vede là a sinistra. […]. E quante volte mi hai visto soffrire, smaniare, bestemmiare, perché questo disegno, questa purezza assoluta della forma della città era rovinata da qualche cosa di moderno, da qualche corpo estraneo [… ]. Che cosa mi offende in loro? È il fatto che appartengono a un altro mondo” (cfr. intervista rai, 20 dicembre 1973). Il desiderio di confrontarsi con altre geografie e con altri perimetri sociali porta Pasolini a intraprendere numerosi viaggi all’estero. Ovviamente lungo direttrici periferiche, quelle del Terzo Mondo: “Nel 1961 è, con Elsa Morante e Moravia, in India; nel 1962 in Sudan e Kenia; nel 1963 in Ghana, Nigeria, Guinea, Israele e Giordania (dove girerà un importante documentario dal titolo Sopralluoghi in Palestina). Nel 1968 Pasolini è di nuovo in India per girare un documentario. Nel 1970 torna in Africa: in Uganda e Tanzania realizzerà il documentario Appunti per un’Orestiade africana” (cfr. Angela Molteni). Pasolini sente il desiderio di vivere e rappresentare questo mondo arcaico, protagonista di un ampio progetto chiamato Appunti per un poema sul Terzo Mondo, che doveva essere composto da cinque frammenti ambientati in Africa, India, paesi arabi, America del Sud e America del Nord. il turismo culturale

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L’incanto popolare di Roma In viaggio con Pier Paolo Pasolini alla ricerca di un’Italia lontana dai riflettori: i volti e le realtà più umili della Capitale ritratti da un poeta controcorrente e coraggioso, negli anni de La dolce vita e del boom economico. Uno sguardo, di ieri e di oggi, sui quartieri romani che lo scrittore ha conosciuto e in cui ha vissuto a lungo, fino alla tragica e prematura scomparsa di Luca Martello

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oma è una città particolare, altamente popolata, talvolta popolare, senz’altro popolosa. Un fattore chiave che la caratterizza da sempre è il suo antico e perenne cosmopolitismo. Si possono intravvedere, a ben guardare, tre volti distinti della Capitale, che corrispondono ad altrettanti punti di vista. Il primo è quello del turista; zaino in spalla e gote bruciacchiate dallo spietato sole romano, in fila per entrare ai Musei Vaticani o per vedere i resti del Colosseo. Il secondo è quello degli abitanti dell’Urbe, un volto stressato, spesso cinico; una dimensione brulicante al centro, labirintica nella periferia, che spesso diventa il microcosmo in cui rifugiarsi a vita. Infine, c’è un terzo volto da non dimenticare, quello che i romani e i turisti spesso ignorano, e che talvolta non riescono a comprendere fino in fondo. È la Roma che si profila davanti agli occhi di chi va a viverci per la prima volta. Quello che avverte un friulano o un veneziano o un barese o un bolognese, o un abitante di qualche paesino sperduto non è il fascino della Capitale intesa come sede del Parlamento, città papale, figlia dei Cesari. No. La solenne povertà

La Roma che vede un cittadino di provincia è un mondo dove tutto è amplificato, anche e soprattutto la povertà. La stessa che, molto probabilmente, deve patire il bolognese di Casarsa Pier Paolo Pasolini quando, dal gennaio del 1950, si trasferisce nel ghetto ebraico di Roma, in piazza Costaguti. Il poeta, al contrario di quello che generalmente si pensa, non ha abitato subito in borgata. Il ghetto si trova infatti in centro, a due passi da via delle Botteghe Oscure e da via Caetani, la strada tragicamente nota per il ritrovamento del corpo di Aldo Moro. Nel 1950 la guerra è finita da poco, la miseria è diffusa: De Sica, all’inizio di Ladri di biciclette, ben rappresenta l’assurda ambizione di trovare un lavoro in quei giorni. La povertà è ovunque, letale, senza compassione. E la solennità della cupola di San Pietro mal si armonizza con i visi scavati e le braccia magre di una popolazione desiderosa del seppur minimo segnale di ripresa economica. 32

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© Walter Sanders/Time Life Pictures/Getty Images

Sopra La Roma popolare negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale

I primi giorni romani

Ponte Mammolo: difficile dimenticare un nome del genere. A Rebibbia, nei pressi del fiume Aniene, Susanna e Pier Paolo Pasolini si trasferiscono nell’estate del ’51 e vi restano per i due anni successivi, in via Tagliere 3. “Era un periodo tremendo della mia vita” ricorda lo scrittore in Un paese di temporali e primule, e aggiunge: “Non vorrei mai rinascere per non rivivere quei due anni”. Ecco: ora il rapporto tra Pasolini e la borgata è alla pari. Non l’intellettuale che andrà a conoscere i “ragazzi di vita” per ammantarli d’un velo di letterarietà, ma un professorino che guadagna il tanto che basta per sfamare sé e la propria madre, armato per lo più di gambe e desideroso di scoprire Roma nelle sue molteplici sfumature. Tra i suoi piccoli alunni, nella scuola di Ciampino, troviamo Vincenzo Cerami. E non è il solo nome noto che s’incontra in questi primi tempi: il futuro cineasta Sergio Citti del Pigneto è ora il passe-partout per il dedalo linguistico capitolino. Questi luoghi, Ponte Mammolo, l’Aniene, la borgata di Pietralata saranno raccontati in uno dei suoi libri-capolavoro: Una vita violenta. il turismo culturale

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Monteverde

Monteverde è il cuore del suo romanzo più noto e attaccato, Ragazzi di vita. Del quartiere lo scrittore frequenta entrambe le parti in cui esso si divide: la parte nuova, autentica borgata popolare, protagonista del romanzo; e quella vecchia, rinomata per gli artisti e i letterati che la affollano. Esplode qui la notorietà del letterato, presto dimenticata fra la gente del posto, ma sempre ricordata dai giornali. E aumenta anche il peso del ruolo sociale del poeta: in poco tempo diviene economicamente più sereno e può permettersi di portare un po’ di denaro anche tra i bambini che, come ricordano i testimoni di quei giorni, infilano le braccia dal finestrino aperto della sua 600 e lui fa in modo che trovino sempre qualche banconota o monetina da portarsi via. Prenestina, Tiburtina, Casilina e Tuscolana

Sopra Pier Paolo Pasolini in mezzo a una folla di manifestanti

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È attorno alle arterie principali della Capitale che si sono formati i quartieri periferici che da queste strade prendono il nome. Nonostante il miracolo economico degli anni Sessanta e il rifiorire dell’Italia, Pasolini continua a vedere quelle famiglie disagiate, costrette a vivere in ghetti fangosi, su alture non ancora coperte di cemento, nelle viuzze strette come via del Mandrione, in zona Tuscolana, vero e proprio ingresso di una baraccopoli dalle fosche atmosfere medievali. Ecco che, nei giorni felliniani di via Veneto e dei paparazzi, il poeta illustra la realtà infernale di chi non ha acqua per lavarsi, né luce, né una porta d’ingresso, spesso sostituita da una tenda. I palazzoni si alternano alle baracche a un piano nella Borgata Gordiani, in zona Prenestina, a Tor Pignattara, vicino alla Casilina, alla Magliana, sulla Portuense. Più Pasolini si allontana dal centro e più le tristi realtà si fanno manifeste. Con il suo modo di fare atletico, Pasolini sa inoltrarsi nei quartieri più desolati e desolanti e nelle zone più impervie e ostili, probabilmente non negando esibizioni di forza fisica in cui eccelle. La conoscenza, la frequentazione, l’amicizia, il sesso notturno talvolta rapace, ne delineano un rapporto di amore autodistruttivo, che sa ben tradurre nella denuncia sociale, grazie agli amici letterati che spesso incontra al Caffè Rosati di Piazza del Popolo, o all’Antico Caffè Greco di via Condotti. La sua crescente notorietà, le amicizie negli ambienti più disagiati diventano, col tempo, un utile lasciapassare nelle selve più oscure del sottobosco romano.


Il bacetto lungo il Mandrione

Ecco una delle prime fascinazioni, spiegate con le parole dello stesso Pasolini: “Ricordo che un giorno passando per il Mandrione in macchina con due miei amici bolognesi, angosciati a quella vista, c’erano, davanti ai loro tuguri, a ruzzare sul fango lurido, dei ragazzini, dai due ai quattro o cinque anni. Erano vestiti con degli stracci: uno addirittura con una pelliccetta trovata chissà dove come un piccolo selvaggio. Correvano qua e là, senza le regole di un giuoco qualsiasi: si muovevano, si agitavano come se fossero ciechi, in quei pochi metri quadrati dov’erano nati e dove erano sempre rimasti, senza conoscere altro del mondo se non la cassettina dove dormivano e i due palmi di melma dove giocavano. Vedendoci passare con la macchina, uno, un maschietto, ormai ben piantato malgrado i suoi due o tre anni di età, si mise la manina sporca contro la bocca, e, di sua iniziativa tutto allegro e affettuoso ci mandò un bacetto” («Vie Nuove», 1958). E conclude: “La pura vitalità che è alla base di queste anime, vuol dire mescolanza di male allo stato puro e di bene allo stato puro: violenza e bontà, malvagità e innocenza, malgrado tutto”. Verso la scomparsa dell’identità popolare

I dannati di Pasolini sono davvero gli ultimi, gli abbandonati, che conservano in loro il gene puro dell’essere umano senza mezze misure: bene e male insieme. La purezza dei gesti è studiata nei dettagli dal regista e scrittore, se ne innamora, specie perché, frequentando altri ambienti, gli viene spontaneo fare dei confronti. La televisione, intanto, si diffonde nel Paese e i cittadini italiani diventano telespettatori, scompaiono i dialetti, si smarriscono le identità. Da principio la borgata è illesa. Qui i poveri sono in qualche modo protetti, secondo lo scrittore, ma, nello stesso momento in cui ne denuncia le inumane condizioni di disagio, mostra loro i diritti conquistati da chi è più fortunato. E presto si avvera ciò che Pasolini non avrebbe voluto mai. A un tratto anche i borgatari si emancipano, non culturalmente, ma © Valentino Griscioli apprendendo vizi e virtù dell’italiano televisivo: il capitalismo colpisce anche chi, secondo lo scrittore, ne è stato immune fino a ieri. Allora il bacetto spontaneo del bambino al Mandrione sarà forse l’ultimo; la malizia furbetta dei pischelli diverrà omologazione e negli anni Settanta, rintanato in via Eufrate 9, all’eur, il poeta dirà basta. Il popolo di Roma che ha conosciuto dieci, venti anni prima è sparito per sempre, trasformatosi in qualcosa di inafferrabile e di corrotto. In una realtà violata per sempre.

“Era un periodo tremendo della mia vita. Giunto a Roma dalla lontana campagna friulana: disoccupato per molti anni; ignorato da tutti; divorato dal terrore interno di non essere come la vita voleva; occupato a lavorare accanitamente a studi pesanti e complicati; incapace di scrivere se non ripetendomi in un mondo ch’era cambiato. Non vorrei mai rinascere per non rivivere quei due o tre anni” (“Il treno di Casarsa”, da Un paese di temporali e di primule)

A destra Via del Mandrione oggi, un tempo baraccopoli e luogo della Capitale tra i più amati e frequentati da Pasolini

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Gli anni a Monteverde

C’è una storia che nessuno ha raccontato ancora, quella delle tre targhe di Pier Paolo Pasolini nel quartiere Monteverde, Vecchio e Nuovo. È una storia che spiega bene quanto complessa e contraddittoria sia stata la fortuna dell’artista, e quante volte la sua eredità sia stata rifiutata di Gianfranco Franchi

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ra 1953 e 1964 Pasolini visse a Monteverde, prima in via Fonteiana 86, quindi in via Carini 45, vicino di casa di Attilio Bertolucci e dei suoi figli, Bernardo e Giuseppe. Via Fonteiana si trova a una manciata di passi di distanza da Donna Olimpia, cuore popolare del quartiere, salutato dai cittadini della zona come Monteverde Nuovo. Via Carini si trova nel centro del quartiere, a cento passi dagli eleganti villini di via Poerio e di via Alberto Mario, puro Monteverde Vecchio, per gli abitanti e non solo. In via Carini 45 oggi c’è una targa, luminosa e sorridente, che ricorda gli anni in cui il poeta abitò in quella casa. I monteverdini sono abituati, passando da quelle parti, a indicarla agli amici che vengono da fuori con un pizzico di orgoglio. In via Fonteiana 86 la targa c’è, ma non per tutti. Bisogna suonare al citofono di uno dei condomini, chiedere graziosamente di poter entrare, e subito a destra, nell’atrio, visibile soltanto agli abitanti del palazzo ecco il prezioso ricordo. Che cosa significa? Significa che per lungo tempo le due anime di questo quartiere, aristocratico e popolare, sono state apertamente in contrasto: non tutti volevano rivendicare la memoria di Pasolini. È un fenomeno che, soltanto adesso, sembra poter avere fine. Le ragioni sono difficili da spiegare. Soltanto qualche anno fa è apparsa, in via Abate Ugone, al termine di via Fonteiana, a un sospiro di distanza da via di Donna Olimpia, una targa commemorativa esposta al pubblico. Era il trentennale della sua tragica morte, il 15 ottobre 2005. Fino a quel momento c’era qualcuno che s’era opposto: che prometteva di staccarla, che non aveva nessuna intenzione di rispettarla. Da queste parti si diceva fossero i “ragazzi di vita” che aveva raccontato, o i loro familiari, o i loro figli: qualcuno si vergognava, qualcuno s’era sentito diffamato, qualcuno non aveva dimenticato che il poeta non era stato sempre lirico, diciamo così, nei confronti dei ragazzini. E giù cattiverie, più o meno credibili. A difenderlo a tutto spiano c’era uno dei bambini descritti nel suo primo romanzo, Pecetto, all’epoca dei fatti un pischello di pochi anni: oggi ha una bottega a via Ozanam, scrive poesie e dipinge, spesso sogna il poeta – e un po’ gli somiglia, anche, e questo sì che è strano. Ma tanti altri s’opponevano all’affissione della targa. Non si trattava di una questione politica, si badi bene. Si trattava di qualcosa che non si doveva dire ad alta voce, si poteva soltanto dire a mezza bocca. E non certo ai giornalisti. Via Fonteiana: tra il Vecchio e il Nuovo

Monteverde Vecchio non ha avuto remore: via Carini saluta Pasolini, e non ancora la famiglia Bertolucci. Figuriamoci. Duecento metri più in basso, via Regnoli saluta il poeta Caproni, vissuto per tanti anni in una modesta dimora borghese, maestro di tanti ragazzini. Via Fonteiana, invece, che pure il poeta aveva cantato con tanto amore – così 36

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Sopra Piazza Ottavilla nel cuore di Monteverde Vecchio


accecato da aver inventato una “luce marina” che da queste parti, ammettiamolo, non abbiamo visto mai, e nemmeno sospettavamo esistesse – non ha rivendicato né accettato pubblicamente la sua eredità. Perché via Fonteiana non è del tutto Monteverde Vecchio, ed è quasi Monteverde Nuovo. Sente d’appartenere, per un vago snobismo borghese, alla dimensione provinciale ma elitaria del quartiere degli artisti e dei grandi professionisti, un tempo periferia, ma sa che il suo sangue e la sua natura sono inclinati nella dimensione popolana delle case costruite sotto Regime e popolate sotto Italia repubblicana, spesso abitate da cittadini sfrattati da Trastevere o dal centro. E così, nel 2010, via Fonteiana è rimasta l’unica a non benedire il poeta con un ricordo pubblico. Ha preferito murarlo dentro un palazzo anonimo, segreto allo sguardo dei viandanti. Io che abito qui so bene come entrare in quel palazzo, ma mi limito a mostrarlo da fuori agli amici che vengono a trovarmi da altri quartieri, o altre città. Questione di pudore. Oppure, semplicemente, poca voglia di spiegare. Almeno, di spiegare certe cose. Quando Pier Paolo Pasolini e la sua famiglia sbarcarono a Monteverde, nel 1953, la fama di Donna Olimpia era ancora decisamente sinistra, e larga parte del quartiere era in costruzione. I taxi – vuole la leggenda – non andavano fin sotto le case popolari, si fermavano ben distanti e facevano scendere i passeggeri. C’era una forte rivalità tra i ragazzi di Monteverde e quelli della Magliana. I più vecchi, ancora adesso, si ricordano leggendarie sassaiole, e parecchi occhi neri. Altri tempi, altra Roma, altri romani.

“Ed ecco la mia casa nella luce marina di via Fonteiana in cuore alla mattina: la mia tana, indifesa, cieca di speranza, dove bruciare l’ultima remora che mi avanza” (“Récit”, 1956, in Le ceneri di Gramsci, 1957)

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Sopra Le vecchie case popolari di Monteverde Vecchio Pagina a fianco Le due case di Pier Paolo Pasolini nel quartiere Monteverde, dove visse tra il 1953 e il 1964. La prima (sopra) in via Fonteiana 86 e la seconda (sotto) in via Carini 45

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Monteverde com’era

Pasolini descrive, nei suoi primi due romanzi e in tante sue poesie, spaccati e squarci architettonici e sociali del quartiere che oggi non più esistono. Da tempo nulla è più in costruzione, da queste parti, da tempo Monteverde ha cessato d’essere infrequentabile – il Nuovo è diventato come il Vecchio, da questo punto di vista: ci siamo, diciamo così, assimilati, in un certo senso, senza tuttavia snaturarci. Curioso –, da tempo sono sparite le industrie che il poeta de Le ceneri di Gramsci aveva descritto. E così, ritrovarci a leggere passi come quello che stiamo per apprezzare è un’esperienza dal valore ormai storico-documentaristico, è una fascinazione tutta letteraria: “Così passavano i pomeriggi a far niente, a Donna Olimpia, sul Monte di Casadio, con gli altri ragazzi che giocavano nella piccola gobba ingiallita al sole, e più tardi con le donne che venivano a distenderci i panni sull’erba bruciata. Oppure andavano a giocare a pallone lì sullo spiazzo tra i Grattacieli e il Monte di Splendore, tra centinaia di maschi che giocavano sui cortiletti invasi dal sole, sui prati secchi, per via Ozanam o via Donna Olimpia, davanti alle scuole elementari Franceschi piene di sfollati e di sfrattati”. Erano gli anni Cinquanta. La scuola Franceschi, dopo un drammatico crollo, è stata ricostruita e dà ancora soddisfazione e consolazione e sicurezza a tante famiglie. Via Ozanam e via Donna Olimpia stanno sempre lì, soffocate dai loro palazzoni – da queste parti li chiamiamo “grattacieli”, perché, sebbene non siano così alti da meritare quel nome, sono mostruosamente più alti rispetto alle case di Monteverde Vecchio. Ma non c’è più nessuno spazio per giocare a pallone, se non in qualche oratorio o nei parchi. Dimenticate i “cortiletti invasi dal sole” e i “prati secchi”. Dimenticate anche i ragazzi raccontati nelle prime pagine di Ragazzi di vita. Questo quartiere è cambiato. È cresciuto, da tanti punti di vista. E ha saputo serbare ricordi e rancori con la stessa eccezionale intensità, sino a pochissimi anni fa.


Cosa è rimasto intatto? Scendete per via Fonteiana, dopo aver peregrinato di fronte la sua vecchia casa, e andate verso Donna Olimpia. Sprofondate nel cuore di quel territorio. Una volta potevate incon© Valentino Griscioli trare qualcosa di simile a questo, da quelle parti: “Quattro palazzoni tutti collegati tra loro, in modo che le file e le diagonali di finestra non avevano interruzioni e si allineavano tutt’intorno per centinaia e centinaia di metri in lungo e in largo, e così le trombe delle scale, che si riconoscevano all’esterno per le enormi file verticali di finestre rettangolari: mentre sotto, tra arcate, sottopassaggi, portichetti, in stile Novecento fascista, si stendevano sei o sette cortiletti interni, di vecchia terra battuta, con i resti di quelle che avrebbero un tempo dovuto essere aiuole, tutti cosparsi di stracci e carte, in fondo all’imbuto delle pareti che si alzavano fino alla luna”. Adesso, semplicemente, palazzoni, negozi e negozietti, figli del popolo un po’ imborghesiti e tanta piccola borghesia. Un bel dialetto romanesco, qualche sguardo da parte dei vecchi borgatari per capire al volo se siete o no di quelle parti, e tanto orgoglio popolare. Verace. Abitare a Monteverde, oggi, soprattutto a Monteverde Vecchio, è una © Valentino Griscioli scelta a volte elitaria, tendenzialmente snob. Si sceglie un quartiere che non è centrale, ma non è del tutto periferico. Si abita a cinque minuti di macchina da Trastevere, a mezz’ora a piedi dal centro. Si abita in piccoli condomini o in villette, i negozi sono sempre a portata di mano, non manca niente. Non c’è traffico, e il parcheggio, almeno dalle parti del vero “vecchio”, è facile e gratuito. Chi entrasse nel quartiere per la prima volta, visitando certe stradine come via Valla, o via Silvagni, o via Mario, sarebbe decisamente stupito dal saperle “monteverdine” come quelle raccontate da Pasolini. Grondano benessere e ricercatezza. Ma è a Monteverde Nuovo che dovete andare, puntando via Fonteiana e di lì Donna Olimpia, misurando i passi come Lo Cascio nel film di Giordana, per provare a immaginare cosa ha vissuto e conosciuto l’artista friulano con la sua famiglia, quando ha scelto di vivere in una delle periferie (allora!) più estreme di Roma, fianco a fianco di chi lottava per sopravvivere con decoro e dignità, nell’Italia massacrata dal disastro del fascismo e dalla guerra. Provate a entrare nei giardini delle case popolari, e contate le mille e mille stanze in cui si dorme, da quelle parti – ben più delle mille di via Fonteiana. C’è forse rimasto, a ben guardare, qualcosa di pasoliniano, adesso: quella “luce marina” è nello sguardo di certi abitanti. Dei contrasti di cui è intriso il nostro quartiere ci siamo nutriti, e di quei contrasti, culturali, sociali ed estetici siamo composti. E siamo comunque e sempre riconoscenti al poeta che seppe nominarli quando vagivano, seppe cantarli e farne arte, senza nascondere le nostre macchie, senza sporcare le nostre vergogne, senza enfatizzare le nostre bellezze. Semplicemente, lui ci incarnò. E seppe eternarci.

VIDEO

Monteverde com’è

Fotografa questo codice e guarda il video sul tuo cellulare. A pagina 7 le istruzioni per attivare il servizio Le residenze romane di Pier Paolo Pasolini

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05 La Roma

cinematografica

Alla ricerca dei set pasoliniani perduti: seguiremo le impronte lasciate da Totò e Anna Magnani, da Franco Citti e Ninetto Davoli a spasso per le periferie romane. Visiteremo i luoghi dove il regista ha girato le sue pellicole più famose, facendo un salto nel passato e osservando quanto è cambiato, in questi anni, il volto della città che il poeta ha ritratto di Luca Martello

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impossibile, per un appassionato del cinema pasoliniano, non ricordare la scena finale di Mamma Roma (1962). La disperazione di Anna Magnani, lo sguardo stravolto di una madre che ha appena perso il suo unico figlio e lei, la cupola della Chiesa di Don Bosco, dietro una fila di palazzoni, che tace. E poi Roma, che non risponde alla domanda che la donna porge con gli occhi gonfi di lacrime. Roma che guarda e tace davanti alla violenza che la popola, all’ingiustizia che ogni giorno si ripete sempre uguale. Ma è necessario fare un passo indietro. Pier Paolo Pasolini passa dalla letteratura al cinema con una convinzione: il mezzo cinematografico è più facile da gestire, perché elimina la fatica di descrivere una scena, la mostra direttamente. E con questa opinione – poi saggiamente rigettata – decide di realizzare il suo terzo romanzo romano, questa volta con personaggi in carne e ossa.

A destra Una scena tratta dal film Accattone, girata presso il Ponte degli Angeli (nell’immagine grande), e accanto (nell’immagine piccola) lo stesso ponte oggi

© Valentino Griscioli

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copertina | la roma di pier paolo pasolini

Accattone (1961), tra il Pigneto, Centocelle e Testaccio

© Valentino Griscioli

Sopra La scena del bar tratta dal film Accattone, girata in via Fanfulla da Lodi (nell’immagine grande) e sotto (nell’immagine piccola) l’edificio in cui era ospitato il bar, oggi abitazione privata

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Dopo Ragazzi di vita e Una vita violenta, Accattone (1961) è una nuova storia di periferia scritta su pellicola; e Roma si rivela un set già pronto, che non ha bisogno di scenografie artificiali. Le strade, i quartieri, i rifiuti, i monumenti, ogni cosa è al posto giusto, perché la città deve rappresentare se stessa. Roma, si è visto, ha molte anime con altrettanti nomi e il regista sceglie il quartiere del Pigneto per il suo primo lungometraggio, una zona tutto sommato vicina alla Stazione Termini, nei pressi di Porta Maggiore, ma che, in qualche modo, è un mondo a sé rispetto al centro storico della città. Al Pigneto ci abitano due suoi amici. Il primo è Sergio Citti, che diverrà l’erede artistico del poeta dopo la sua morte; l’altro è il fratello di Sergio, Franco, assurto a ruolo di protagonista. C’è un luogo pasoliniano per eccellenza in questo film, che nella storia ha un ruolo fondamentale e che tuttora, a chiunque passi da quelle parti, non può non ricordare il mondo di Accattone. Si tratta del bar in via Fanfulla da Lodi 46, oggi garage di un’abitazione privata. Il palazzo e le prime case attorno sono identici ad allora, così come è riconoscibile la casa di Accattone, a due passi dal bar, nella parallela via Ettore Giovenale. Al posto della baracca del protagonista c’è ora una casa di dimensioni simili. Chi acquista la sceneggiatura di Accattone, pubblicata da Garzanti, vi trova una descrizione di Pasolini del luogo delle riprese: “Erano giorni stupendi, in cui l’estate ardeva ancora purissima, appena svuotata un po’ dentro, dalla sua furia. Via Fanfulla da Lodi, in mezzo al Pigneto, con le casupole basse, i muretti screpolati, era di una granulosa grandiosità, nella sua estrema piccolezza; una povera, umile, sconosciuta stradetta, perduta sotto il sole, in una Roma che non era Roma”.


È dunque questa Roma “altra” che il regista vuole immortalare. Uno scenario per metà urbano e per un’altra metà ancora contadino, con abitazioni più simili a cascine che non ai grandi palazzi che già negli anni Sessanta proliferano in ogni dove. Certo, Franco Citti nel film percorre anche stradoni che corrono lungo i muri dei grattacieli della città, come l’ampia via Casilina o quelli del quartiere Centocelle. E proprio a Centocelle vediamo Accattone e Stella, la sua ragazza, spuntare da via dei Castani, e fermarsi davanti alla Chiesta di San Felice da Cantalice, sulla piazza omonima. La chiesa è stata costruita in epoca fascista e la sua facciata in laterizio ha un fascino tutto particolare: “perforata” da cinque archi, il più alto dei quali, quello centrale, accoglie l’affresco del santo eponimo in ascesa verso il Cielo. L’elemento che colpisce lo spettatore è, però, un altro, e cioè il degrado delle baracche della Borgata Gordiani, che prende il nome dalla strada e dal parco omonimi, riconoscibile nelle sequenze in cui Accattone va a trovare suo figlio, che gioca nel fango, e la moglie che lo ha lasciato. Nella borgata, tra palazzine semidistrutte si ammassavano casette a un piano; l’acqua e i bagni erano in comune, la prima si prendeva alla fontanella, i secondi erano pubblici e in pessime condizioni. La baraccopoli – demolita negli anni Ottanta – si estendeva su lotti da via dei Gordiani fino al viale della Primavera, in una zona a metà fra il Pigneto e Centocelle. Il primo film pasoliniano, dunque, si è concentrato essenzialmente su queste tre zone, salvo qualche scena girata al centro, come il finale, ambientato a ridosso del fiume che attraversa la città. Il furto, la fuga e la morte del protagonista avvengono infatti sul Lungotevere Testaccio e sul Ponte Testaccio, nei pressi dell’ex Mattatoio. Riconoscibile, sullo sfondo, è il gazometro, uno dei nuovi simboli dell’Eterna, punto di riferimento, già da allora, di un rinnovato e ambizioso assetto urbanistico.

Sotto Un frame tratto dal film Accattone in cui si vede via Ettore Giovenale, dove abita il protagonista (nell’immagine grande) e sopra (nell’immagine piccola) la stessa strada oggi

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copertina | la roma di pier paolo pasolini

Sopra Pier Paolo Pasolini insieme a Orson Welles, uno dei protagonisti del film La ricotta

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La ricotta (1963) e Mamma Roma (1962): Via dell’Acqua Santa, Casal Bertone e il Quadraro

Un’altra opera del regista girata nelle vicinanze dei luoghi di Accattone è La ricotta (1963), il suo terzo film, che vede come protagonista il regista considerato il più grande fra i grandi: Orson Welles. L’opera, un mediometraggio, è uno dei quattro episodi che compongono Ro.Go.Pa.G., un lavoro in cui vengono accostate quattro storie di quattro celebri registi (Rossellini, Godard, Pasolini, Gregoretti), accomunate, per dirla con le parole del produttore Alfredo Bini, dal tema del “condizionamento dell’uomo nel mondo moderno”. La ricotta è ambientato in un grande prato nei pressi di via dell’Acqua Santa, in una zona delimitata da via dell’Appia Antica e via dell’Appia Nuova, una terra di confine immersa nel verde ingiallito dell’erba selvaggia e contornata di file di palazzoni in lontananza. Stavolta non è la borgata ad assumere la valenza di simbolo di umiltà e perdizione, ma la città stessa, ritratta con un violento bianco e nero, in contrapposizione ai colori vivaci dei capolavori di Pontormo e di Rosso Fiorentino, che Pasolini cita costantemente per tutta la durata del film. Se per La ricotta ci siamo postati un po’ a sud della Casilina di Franco Citti, ora si deve tornare indietro, molto più a nord, oltre la Prenestina, a Casal Bertone. È qui che troviamo la prima casa di Ettore, in Mamma Roma. Chi passa nella grande piazza Tommaso de Cristoforis con un po’ d’attenzione può scorgere l’arco d’ingresso del “palazzo dei fer44

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rovieri”, con due alte colonne ai lati, sovrastate da due cervi. Nel film, il lento carrello della macchina da presa ci mostra quell’entrata e, leggero, ci invita a guardarlo nei dettagli, mentre per mano ci porta sotto il passaggio, in una foresta di palazzi. E sentiamo: “Guarda che qua stamo solo n’antro po’ de giorni”. È la Magnani che si rivolge al figlio, e che aggiunge: “Poi vedrai in che casa te porta tu’ madre!”. Il trasloco della famiglia porta con sé anche le vicende della storia che, abbandonato Casal Bertone, si svolgono nel quartiere Quadraro-Don Bosco, un po’ più vicino ai luoghi de La ricotta. Il Quadraro è una borgata sorta negli anni Dieci, grazie alle effimere certezze economiche derivate dalla vicinanza dell’industria cinematografica di Cinecittà. Allora non erano pochi quelli che ogni mattina trovavano lavoro come comparsa o capo-comparsa nei teatri di posa. Il quartiere aveva al suo interno casi di povertà estrema, come testimoniano le baracche, ormai scomparse, poggiate sull’Acquedotto Felice, davanti ai campi che Pasolini ha descritto. La strada principale in cui si riversavano giovani e anziani era via dei Quintili, e lo scrittore friulano decide di ambientare la nuova vita di Mamma Roma ed Ettore proprio lì vicino, in via Calpurnio Fiamma, fra le case appena costruite. Lì sta il cuore del film, il mercato di Cecafumo, in cui la Magnani lavora e da cui partono i “pellegrinaggi” di Ettore e dei suoi amici fino al centro. Fino a “dentro Roma”, come si diceva allora, confermando un’identità periferica estranea ed esterna alla Capitale.

Sopra Piazza Tommaso de Cristoforis in un frame del film Mamma Roma (nell’immagine grande), luogo dove la protagonista abita, mentre a sinistra (nell’immagine piccola) ritroviamo lo stesso edificio in una foto recente

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copertina | la roma di pier paolo pasolini

Sopra La scena finale del film Mamma Roma (nelle due immagini grandi), in cui si vede Mamma Roma che tenta il suicidio (campo) e la vista sulla città con la Chiesa di Don Bosco che spicca tra i palazzi (controcampo) A destra (nell’immagine piccola) ritroviamo un panorama simile, con la stessa chiesa che domina ancora il paesaggio

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A due passi da via Fiamma c’è la Chiesa di Don Bosco. Eccola la cupola che più rimane impressa del cinema pasoliniano: non la casa di Cristo in cui trovare conforto e speranza, ma un luogo architettonico come un altro, un edificio dalla forma dissimile, eppure della stessa “sostanza” degli altri. Cemento. Solo un ammasso di cemento senza pietà. Non c’è alcuna critica nei confronti della Chiesa di Don Bosco o del quartiere; tutto diventa simbolo, un’occasione per parlare d’altro, di delusioni, di pecorelle smarrite, di un Vaticano che vive dentro Roma, ma guarda altrove. Di un Parlamento che guarda altrove. E le povere madri, umili e offese, devono ingoiare i rospi più grossi per non perdere la propria dignità. Perché la rabbia della Magnani, che guarda con disperazione alla chiesa di periferia, non è un insulto o un eccesso d’orgoglio, è solo la presa di coscienza dell’abbandono delle istituzioni. Il film ha un raggio d’azione più ampio rispetto al primo, e le riprese si spostano in via Flaminia, nei pressi del Palazzetto dello Sport, per le avventure notturne di Mamma Roma; in piazza dei Navigatori, vicino all’arteria Cristoforo Colombo, dove c’è l’ospedale in cui Ettore viene scoperto a rubare e arrestato; e in un luogo che Carlo Di Carlo – l’aiuto regista di Pasolini – descrive nel suo diario così: “Da oggi, e per alcuni giorni, siamo confinati in un luogo terribile: è chiamato ‘canalone’. Sembra il letto di un fiume, abbastanza largo, con l’erba gialla, arido, infuocato dal sole bruciante di questa estate


VIDEO

Fotografa questo codice e guarda il video sul tuo cellulare. A pagina 7 le istruzioni per attivare il servizio Viaggio nei luoghi di Accattone e Mamma Roma © Valentino Griscioli

senza vegetazione. Dobbiamo girare le scene del prato, cioè gli incontri di Ettore con Bruna, con gli amici, la lotta. L’altro luogo, ancora per queste scene, sarà quel meraviglioso prato di Cecafumo attorno al quale abbiamo ruotato per tanti giorni, all’inizio” (pasolini.net). Uccellacci e uccellini (1966): il Trullo, la borgata Petrelli e l’eur

L’ultimo film in cui il regista affonda nella Roma sottoproletaria è Uccellacci e uccellini (1966). Si tratta di un’opera diversa e, di conseguenza, il paesaggio capitolino presenta un significato nuovo. Le borgate del Monte del Trullo, la Borgata Petrelli, gli scorci in lontananza dell’eur sono luoghi di confine in cui il poeta inserisce Totò e Ninetto Davoli e dà loro il via per un lungo deambulare, tra la campagna e le piane, tra le baracche e le autostrade in costruzione, guidati da un corvo marxista di cui non comprendono le parole. Ninetto e il suo padre-padrone-buffone sono due anime goffe e libere. Fuori dalla Storia, innocenti, perché non sanno e non capiscono. Roma diventa adesso un non-luogo, è improvvisamente terra fiabesca, sfondo surreale e lirico, che solo dentro quelle immagini in bianco e nero andrebbe ricercata. La visita dei luoghi si interrompe qui, perché davanti alla bellezza delle fiabe non possiamo che limitarci ad ascoltare e guardare, per imparare qualcosa di nuovo. il turismo culturale

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06 I luoghi

dei ragazzi di vita

Una panoramica sul periodo di via Fonteiana, a mezza via sulla discesa che porta da Villa Doria Pamphili alla pianura, detta dei “prati del papa”, che si affacciava sul Tevere quasi di fronte alla Basilica di San Paolo. Pianura oggi densamente urbanizzata e nella quale sarebbe difficile ripercorrere gli itinerari pasoliniani senza storicizzarli. Uno sguardo attento e spietato su una parte della città attraverso il primo capitolo di Ragazzi di vita: “Il Ferrobedò” di Carlo Santulli in collaborazione con Progetto Babele e pasolini.net

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ier Paolo Pasolini trascorse quasi tutta la sua vita adulta a Roma, abitandovi dal 1950 al 1970. La lunga permanenza nella Capitale può essere a sua volta suddivisa. Dopo un breve e molto difficile periodo al Portico d’Ottavia, presso l’antico ghetto ebraico dal gennaio 1950, c’è il periodo della borgata Rebibbia, a via Giovanni Tagliere (1951-53), quindi il periodo di Monteverde (due case, in via Fonteiana, dal 1953 al 1959, poi in via Carini, dal 1959 al 1964) e infine il periodo dell’eur, in via Eufrate, dal 1964 al 1970. Negli ultimi anni Pasolini si trasferì dalle parti di Viterbo, in una torre medievale che aveva acquistato. Il dato della residenza non sarebbe particolarmente significativo, come per tanti scrittori non lo è, se il rapporto di Pasolini con Roma non si fosse significativamente evoluto nel tempo. Se il periodo di Rebibbia è quello della conoscenza della città, della gente e del dialetto, quello di via Fonteiana rappresenta la presa di coscienza dell’espressività e dell’interesse letterario del vissuto, mentre, da via Carini in poi, si assiste a una sublimazione di quello stesso vissuto, non come fuga, o distanziamento, ma piuttosto come ricomposizione della sua essenza mitica e ancestrale. I grattacieli

Dal 1953 al 1959 Pasolini visse in via Fonteiana, molto vicina alle case popolari costruite durante il fascismo su via Donna Olimpia, i cosiddetti “grattacieli”. Oggi, a Donna Olimpia, si arriva dal Ponte Bianco, realizzato nel 1931 secondo il gusto dell’epoca, facendo grande sfoggio di piccoli obelischi di travertino e di leoni (uno dei quali è attualmente nascosto dal chiosco di un fioraio) e di fasci littori (oggi scalpellati). Ponte Bianco serviva a eliminare un passaggio a livello e a facilitare l’accesso all’Ospedale del Littorio, oggi San Camillo, venendo da Trastevere. In realtà, all’epoca di Pasolini i grattacieli si trovavano al fondo di una valle tra Monteverde Vecchio e Monteverde Nuovo, e la strada da Ponte Bianco era una specie di sentiero; mentre via Donna Olimpia scendeva verso i grattacieli e si fermava poco oltre, presso la scuola Franceschi, una costruzione del 1939, quella stessa scuola che, proprio di fronte ai grattacieli, piena di sfollati della guerra, crollò in parte nel 1951, come Pasolini racconta. La scuola 48

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esiste ancora, piuttosto imponente, con ampio portico a pilastri, tipico dell’architettura civile dell’epoca. I grattacieli furono costruiti per alloggiare la popolazione spostata di forza da due nuclei urbani demoliti: alcune case medievali nella parte di Trastevere più addossata al fiume, e la cosiddetta “spina di borgo”, la cui demolizione portò, nel dopoguerra, all’apertura di via della Conciliazione, che rende visibile Piazza San Pietro dal fiume. Anche quando, dopo la guerra, via di Donna Olimpia fu completata fino a Ponte Bianco, i grattacieli non godevano di buona fama (non facile dire quanto meritata). Qualche vecchio monteverdino vi dirà anche che i tassì ci si avventuravano malvolentieri, al punto da lasciare a Ponte Bianco l’occasionale viaggiatore che chiedeva un indirizzo su via Donna Olimpia, cosa piuttosto scomoda, perché la salita è abbastanza ripida nella parte finale, specie con bagaglio. La Ferrobeton, o Ferrobedò

Salendo da Ponte Bianco, in una specie di conca si trovava una fabbrica di binari, la Ferrobeton (Ferrobedò, in Pasolini). La Ferrobeton, una parte della quale, in basso, era nota come Bagno Traverse (dove le traversine venivano impregnate con il catrame), esisteva dai primi del Novecento, ed era raccordata alla stazione di Trastevere da un binario che attraversava in obliquo l’attuale piazzale Dunant, dove c’era anche un ponte (di ferro, senza leoni) oggi sparito. L’area un tempo occupata dalla Ferrobeton è ancora oggi piuttosto evidente, benché della fabbrica non vi siano più tracce, essendo la zona molto densamente costruita. Le zone ex-industriali, infatti, consentivano, poiché venivano considerate già “compromesse”, di costruire al limite di quanto permesso dal piano regolatore. Di qui strade di dieci o dodici metri totali, con marciapiedi di un metro e mezzo per lato. Lo spazio libero in ogni lotto è costituito dalla sola rampa del garage, per le palazzine di quattrocinque piani, e tre metri di giardinetto con rete protettiva e muretto con lastroni di travertino su tutto il perimetro, per i palazzoni di otto piani. Come osserva Italo Insolera in Roma moderna (Einaudi, 1993), “in dieci anni tutta la zona tra il vecchio e il nuovo Monteverde è stata riempita di palazzine che sfruttando come al solito i dislivelli del terreno riescono a superare notevolmente il numero dei piani regolamentari”. La Raffineria di Roma, o Purfina

Se questo è vero per la zona ex-Ferrobeton, lo è anche per la zona, più a sud, dove sorgeva la Purfina, detta anche Raffineria di Roma, che fu in opera per un quindicennio, dal 1951 al 1965, e dunque pienamente funzionante nel periodo dei Ragazzi di vita. Tra l’altro, alla Purfina, e in parte in alcuni baraccamenti della Portuense, ora scomparsi, e sull’argine del Tevere, è ambientato un bel film neorealista di Carlo Lizzani, Ai margini della metropoli (1952). Un film con risvolti gialli, che si avvale dell’interpretazione, for50

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midabile, di Giulietta Masina. Nel film si vedono con chiarezza i cantieri della zona dei Quattro Venti, citati anche da Pasolini. La Purfina viene chiamata Permolio nel romanzo pasoliniano, e anch’essa, una volta dismessa, divenne facile preda dei costruttori, con cubature abbastanza soffocanti. È la cosiddetta “isola”, che si estende in un’ampia zona del Portuense; a differenza della Ferrobeton, ne rimane traccia in un’estensione di terreno nota come “pozzo di san Pantaleo” ed è tagliata in due dal viadotto di via Quirino Majorana, ultimato nel 1971. Vi si trovarono, una volta sparita la Purfina, un tratto di basolato con basamento (crepidine), lungo circa sessanta metri, identificato con l’antica Via Campana, un edificio funerario con inumazioni a fossa, un edificio termale con figure a mosaico bianche e nere e i resti di una probabile stazione di sosta. Insieme con altri ritrovamenti in zona vicina, si può far risalire i manufatti a un periodo che va dalla seconda metà del I al IV secolo d.C. La parate di questo pratone a destra di via Quirino Majorana, scendendo da Monteverde, confinante con la ferrovia dell’aeroporto, è, se possibile, ancora più abbandonata, e a tutt’oggi di proprietà dell’eni. Riccetto, Marcello e la “razzia ar Ferrobedò”

In breve, mentre il Riccetto sale e scende dal Ferrobedò verso i grattacieli, Marcello scende da altri fabbricati popolari, siti al Buon Pastore, e cioè circa un chilometro a ovest del termine di Monteverde, a piazza San Giovanni di Dio, su via di Bravetta, per sentieri, verso lo stesso Ferrobedò. Dopo una serie di vicende, i due si ricongiungono, come segue: “Lì su alla vasca del Buon Pastore non sapeva ancora niente. Il sole batteva in silenzio sulla Madonna del Riposo, Casaletto e, dietro, Primavalle. Quando tornarono dal bagno passarono per il Prato, dove c’era un campo tedesco. Essi si misero a osservare, ma passò di lì una motocicletta con la carrozzella, e il tedesco sulla carrozzella urlò ai maschi: ‘Rausch, zona infetta’. Lì presso ci stava l’Ospedale Militare. ‘E a noi che ce frega?’ gridò Marcello: la motocicletta intanto aveva rallentato, il Tedesco saltò giù dalla carrozzella e diede a Marcello una pizza che lo fece rivoltare dall’altra parte. Con la bocca tutta gonfia Marcello si voltò come una serpe e sbroccolando con i compagni giù per la scarpata, gli fece una pernacchia: nel fugge che fecero, ridendo e urlando, arrivarono diretti fino davanti al Casermone. Lì incontrarono degli altri compagni. ‘E che state a ffà?’ dissero questi, tutti sporchi e sciammannati. ‘Perché?’ chiese Agnolo, ‘che c’è da fa?’. ‘Annate ar Ferrobedò, si volete vede quarcosa’. Quelli c’andarono di fretta e appena arrivati si diressero subito in mezzo alla caciara verso l’officina meccanica. ‘Smontamo er motore’, gridò Agnolo. Marcello invece uscì dall’officina meccanica e si trovò solo in mezzo alla baraonda, davanti alla buca del catrame. Stava per caderci dentro, e affogarci come un indiano nelle sabbie mobili, quando fu fermato da uno strillo: ‘A Marcè, bada, a Marcè!’. Era quel fijo de na mignotta del Riccetto con degli altri amici”. La razzia di Marcello e del Riccetto e degli altri al Ferrobedò farebbe veramente pensare a un 25 luglio, anche se la presenza in massa dei tedeschi sembra abbastanza incongrua in quel frangente: “Così Marcello ridiscese al Ferrobedò col fratello, e questa volta portarono via da un vagone copertoni di automobile. Scendeva già la sera e il sole era più caldo che mai: già il Ferrobedò era più affollato d’una fiera, non ci si poteva più muovere. Ogni tanto qualcuno gridava: ‘Fuggi, fuggi, ce stanno li Tedeschi’, per fare scappare gli altri e rubare tutto da solo”. A Donna Olimpia, ai Grattacieli e sul Monte di Casadio: i pomeriggi a far niente

“Così Marcello ridiscese al Ferrobedò col fratello, e questa volta portarono via da un vagone copertoni di automobile. Scendeva già la sera e il sole era più caldo che mai: già il Ferrobedò era più affollato d’una fiera, non ci si poteva più muovere. Ogni tanto qualcuno gridava: ‘Fuggi, fuggi, ce stanno li Tedeschi’, per fare scappare gli altri e rubare tutto da solo” (Ragazzi di vita, 1955)

Sopra La copertina della seconda edizione di Ragazzi di vita (Garzanti, 1955)

Dopo il racconto di una discesa, stavolta infruttuosa, ai Mercati Generali sulla via Ostiense, detti la Caciara, il giorno dopo si apre uno scorcio descrittivo interessante, e sembra di essere tornati al ’52, o giù di lì, su viale dei Quattro Venti (dove indubbiamente non c’erano enormi cantieri edilizi nel ’43). “Dietro il Ponte Bianco non c’erano case ma tutta una immensa area da costruzione, in fondo alla quale, attorno al solco del il turismo culturale

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viale dei Quattro Venti, profondo come un torrente, si stendeva calcinante Monteverde”. Ed ancora ai primi anni Cinquanta risale la descrizione che segue, confermata dai ricordi di alcuni dei ragazzi di Donna Olimpia che conobbero Pasolini, come Giuseppe Parrello, conosciuto in borgata come “il Pecione”, per via della pece che usava nel suo mestiere di calzolaio: “Così passavano i pomeriggi a far niente, a Donna Olimpia, sul Monte di Casadio, con gli altri ragazzi che giocavano nella piccola gobba ingiallita al sole, e più tardi con le donne che venivano a distenderci i panni sull’erba bruciata. Oppure andavano a giocare a pallone lì sullo spiazzo tra i Grattacieli e il Monte di Splendore, tra centinaia di maschi che giocavano sui cortiletti invasi dal sole, sui prati secchi, per via Ozanam o via Donna Olimpia, davanti alle scuole elementari Franceschi piene di sfollati e di sfrattati”. Donna Olimpia, numero 30

Se il periodo di Rebibbia è quello della conoscenza della città, della gente e del dialetto, quello di via Fonteiana rappresenta la presa di coscienza dell’espressività e dell’interesse letterario del vissuto, mentre, da via Carini in poi, si assiste a una sublimazione di quello stesso vissuto, non come fuga, o distanziamento, ma piuttosto come ricomposizione della sua essenza mitica e ancestrale

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Il gioco del pallone e la lotta erano tra le passioni di Pasolini, e i due monti (in realtà prati in pendio), Casadio e Splendore, erano presumibilmente uno su via Ozanam, dietro i grattacieli, l’altro sul fianco dei grattacieli, dove oggi c’è via Paola Falconieri. Lo stesso poeta e scrittore Silvio Parrello ricorda il crollo della scuola Franceschi nel 1951 in quest’intervista: “Fu l’ala sinistra della Giorgio Franceschi a crollare, quella attualmente compresa fra via Donna Olimpia e via Abate Ugone. La mattina ci fu il crollo e il pomeriggio gli adulti si riunirono e decisero di occupare le case popolari di via Donna Olimpia 56, che erano ancora in costruzione, anche se praticamente già finite. Molti di quegli appartamenti furono in seguito assegnati agli occupanti dall’Istituto. Io è da allora che abito lì”. Eppure, nel finale del capitolo, si torna (forse) ancora al ’44, in un luogo dove tuttavia Pasolini tornava a farsi il bagno durante il suo periodo di Donna Olimpia: “Tutto il quartiere di Monteverde, all’orizzonte, sopra le scarpate putride e bruciate, con le sue vecchie villette come piccole scatole svanite nella luce. Proprio lì sotto c’erano i piloni di un ponte non costruito con intorno l’acqua sporca che formava dei mulinelli; la riva verso San Paolo era piena di canneti e di fratte”. Il ponte non terminato era ponte Marconi, su viale omonimo, che doveva essere la seconda strada di accesso all’eur, dopo la via Cristoforo Colombo. Viale Marconi fu tracciato nel 1939-40, anche se non asfaltato, ma il ponte non fu completato che nel 1953. Conclusioni: il territorio consumato

Un paio di osservazioni, per concludere questo piccolo itinerario pasoliniano: la presenza della Ferrobeton, oltre che della Purfina, nella vita del gruppetto dei ragazzi del romanzo, ci ricorda che qualcosa è accaduto nelle grandi città italiane, dal dopoguerra a oggi, ed è la sparizione di un certo tessuto imprenditoriale presente nella zona, che si saldavano idealmente con la zona industriale di San Paolo-Ostiense di là dal fiume, di cui restano (in piedi, anche se inoperosi) il gazometro, la centrale elettrica Montemartini e poco altro. Il fatto è che questa de-industrializzazione non poteva mancare di influire sul tessuto sociale del quartiere, e in generale della città. Si cita spesso Pasolini per le sue intuizioni quasi profetiche sulla gioventù dell’era del consumismo, in particolare nell’ultimo periodo della sua vita (cfr. Scritti corsari, 1973-75), e, in effetti, è giusto riconoscere che la de-industrializzazione ha forse accelerato questo processo di straniamento rispetto al territorio, che viene “consumato” (in puro stile nord-americano), ma non più “vissuto” come proprio. è curioso pensare come, in case popolari tutt’altro che accoglienti e in un ambiente tutt’altro che gradevole dal punto di vista naturale, i ragazzi di vita di Pasolini avessero un senso di appartenenza che probabilmente gli attuali abitanti di Donna Olimpia, forse di quelle stesse case, hanno perduto.


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Š Ralph Crane/Time Life Pictures/Getty Images


copertina | la roma di pier paolo pasolini

Sopra L’assegno con il quale Pasolini pagò la sua ultima cena da Pommidoro la sera del primo novembre 1975, prima della sua morte all’Idroscalo di Ostia

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07 Sapori

corsari

Incorniciato insieme a un foto-ritratto in bianco e nero, e appeso a una parete come il più laico degli ex voto. Un sottile strato di polvere rende tutto più autentico. Cassa di Risparmio di Roma. Undicimila lire. È l’assegno che Pier Paolo Pasolini staccò per la cena consumata insieme all’amico Ninetto Davoli, la sera del primo novembre 1975, poco prima della sua tragica fine all’Idroscalo di Ostia. Siamo nella Città Eterna, nel cuore del popolare quartiere di San Lorenzo, alla trattoria Pommidoro. Qui l’orologio si è fermato. Cacio e pepe, abbacchio alla scottadito, un quarto di vino, tanti ricordi e una serie di personaggi evasi dalle pellicole e dai romanzi pasoliniani Testo di Massimo Roscia Fotografie di Valentino Griscioli

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a sensazione che si prova passeggiando per le vie di San Lorenzo è quella di non essere a Roma, ma in un microcosmo a se stante. Le Mura Labicane, lo scalo merci, la Tiburtina e il cimitero del Verano sono confini invisibili che da sempre separano questo quadrilatero proletario dal resto della città preservandone l’identità sociale. Il quartiere, del resto, sembra essere nato proprio allo scopo di “resistere”. Ha resistito opponendosi alla marcia su Roma; ha resistito ai bombardamenti degli Alleati; ha resistito alla povertà, al degrado e alla malavita; ha resistito all’omologazione e al cambiamento. Oggi – in una babele di lingue e di dialetti – immigrati, studenti universitari e altre tribù metropolitane affollano i vecchi e scalcinati alloggi che un tempo furono di operai e ferrovieri; artigiani, artisti e intellettuali, hanno trovato qui, in questa Montmartre de noantri, l’ispirazione e l’habitat naturale. Le luci e i decibel della movida tengono sveglia la notte; la forza fagocitante e meltingpotteggiante della Capitale è sempre più incombente, ma San Lorenzo, ancora una volta, resiste. E, gagliardamente, conserva immutata quella sua anima originaria, così ingenua, fiera, sofferta, strafottente e viva. In questo piccolo mondo autarchico e popolare – dove ci si saluta dandosi ancora del tu e dove persino il brutto e lo sporco esercitano il loro irresistibile fascino – il tempo non è riuscito a scalfire il passato. Perché, oggi, come sessant’anni fa, al centro di tutto c’è un’umanità schietta, integra e anticonformista, che non si è mai asservita alla modernità, all’ideologia del consumo e – meno che mai – alla normalità. Un’umanità isolata, emarginata, a volte rifiutata e respinta, che non ha subito mutazioni antropologiche ed è rimasta straordinariamente ricca, diversa e pulsante. A San Lorenzo è ancora l’uomo, con il suo carico di gioie, istinti e miserie, l’attore principale, l’eroe borgataro della sopravvivenza, amato e narrato da Pier Paolo Pasolini.

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Pommidoro, un’istituzione

INFORMAZIONI

Sopra Aldo Bravi, detto “Pommidoretto”, titolare della trattoria Pommidoro

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Trattoria pommidoro

Piazza dei Sanniti, 44 00185 Roma Tel. 06.4452652

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A piazza dei Sanniti sta, come un monumento eterno, Pommidoro. Titoli di testa. Tutto ha inizio verso la fine dell’Ottocento quando nonna Clementinona, una donna grande quanto un armadio a due ante, apre la sua osteria Al vero Frascati, e inizia a mescere “tubi” (litri), fogliette, quartini e chierichetti. Le succede il figlio Ettore, uomo semplice e dai sani principi, capace di parlare sia la lingua forbita dei professori universitari, che il dialetto dei bulli, degli ubriaconi e dei disperati. Come il “pommidoro”, sta sempre in mezzo. Nel bene e nel male, con i buoni e con i cattivi. Qualche aneddoto ed eccolo risorgere nelle parole asciutte e affascinanti del figlio, il vero protagonista della storia: Aldo Bravi, settantacinque anni che meriterebbero una biografia a quattro tomi. È sufficiente osservare lo sguardo, profondo e triste come un pozzo, di questo oste filosofo, di questo custode della memoria che, ogni mattina, alza la serranda di una trattoria che è ormai divenuta una sorta di istituzione culturale e affronta la vita a testa alta, con coraggio e con una passione commovente. Aldo puntella saldamente il gomito sullo schienale della ssedia e racconta. I primi ricordi sono drammatici e prendono corpo sotto forma di una lacrima visibile appena. La mente torna alla mattina del 19 luglio del 1943, una data impossibile da dimenticare. Lucky Lady, Geronimo II, Pretty Boy e gli altri B-17 oscurano il cielo, sganciano tremila bombe e, per un’infausta coincidenza numerica, uccidono tremila persone, tra cui la madre e le sorelle di Aldo, sepolte sotto le macerie del ristorante. Il quartiere viene raso al suolo. Polvere, fiamme, distruzione, urla, sangue e poi il silenzio. Un istante, uno schiocco della lingua e le sue labbra tornano a flettere verso l’alto. Riaffiorano i ricordi più belli. Gli amici dal cuore enorme che, col ricavo della vendita di una botte di vino, aiutano il padre a ricostruire il ristorante. Perché San Lorenzo non può stare senza la sua osteria; perché Pommidoro non è un posto come gli altri, Pommidoro è un’istituzione.


Vita vera

“La catena martellata, Cacarella s’è ’mpegnata, e pe’ fa’ ’l giro de li Castelli, s’è ’mpegnato pure l’anelli”. E giù a ridere, de core, fino a quando, come un dardo avvelenato, arrivava la risposta in rima. “’Sta canzone a me me scoccia, ma l’anelli ce l’ho in saccoccia”. Il vino scorreva al pari del Tevere, e gli stornelli dei vetturini, nati dall’improvvisazione e dalla fantasia dell’attimo, rimbalzavano da un tavolo all’altro saturando l’aria di allegria, sberleffi, satire pungenti e malinconiche ironie. Artigiani, operai, ferrovieri, muratori e maestri stuccatori, ma anche ladroni, farabutti, accattoni, mezze tacche e omini senza speranza. Tutti venivano a bere da Pommidoro, accontentandosi di quei cinque minuti di effimera felicità. “La gente allora sì che sorrideva” rammenta Aldo. “Non aveva i soldi per campare, non aveva niente, ma il sorriso sulle labbra non mancava mai”. Scorrono veloci i ricordi dei fagottari, di quelli che si portavano dietro il fagotto con il cibo preparato a casa e consumavano solo vino, tanto vino; dei clienti divenuti così abituali da improvvisarsi camerieri e aiutare nel servizio ai tavoli; del quartiere che era un’unica grande famiglia e al primo starnuto “ti ritrovavi cinquanta mamme intorno a chiederti se t’eri raffreddato e a suggerirti rimedi e medicine”. E le partite a zecchinetta. Carte e pugni battuti sui tavolacci. Otto litri, cinque litri, sei litri. Era la lavagna su cui venivano segnati i “buffi” (debiti di gioco). Alternanze di emozioni. L’onta di vedere il proprio nome sull’infame ardesia e il sollievo quando, al sabato, il debito veniva saldato e si poteva finalmente dire, ad alta voce: “Scancella Pommidò”. Era la vita vera, una vita vissuta a forza di morsi, strappi e spintoni; una vita in cui miseria materiale e miseria morale andavano a braccetto. Nei racconti di Aldo sono tutti presenti. I Riccetto, i Lenzetta e gli altri “ragazzi di vita”. Erano questi i personaggi del quartiere, quelli che passavano più tempo all’osteria che a casa. E poi c’era anche quel tale che, disoccupato, trascorreva l’intera giornata seduto a un tavolo a giocare a carte e puntuale, alle cinque del pomeriggio, si alzava, si sfilava dal capo il cappello da muratore, quello fatto col giornale, e diceva: “È ora de staccà”.

Aldo si intratteneva spesso a conversare con lui. “Il cliente ignorante lo servi bene come tutti gli altri, ma non ci perdi tempo a parlare; con quello intelligente invece sì che ti ci fermi; quello intelligente te fa scola. E Pasolini non era intelligente, de ppiù. Era uno che vedeva oltre”

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Sopra Gli interni della trattoria Pommidoro, dove Pier Paolo Pasolini si recava spesso a mangiare, ma soprattutto a osservarne l’“incanto popolare”

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Bistecca, mozzarella e patate fritte

Pommidoro e quella bizzarra fauna di reietti, dannati e subalterni erano per Pasolini come il miele per gli orsi. Luoghi e individui ammalianti, irresistibili. Tanto che, col tempo, della trattoria era divenuto cliente abituale. Ci andava di frequente; da solo, qualche volta con la divina Maria Callas, quasi sempre con Ninetto Davoli, che “era amico suo vero”. Aldo si intratteneva spesso a conversare con lui. “Il cliente ignorante lo servi bene come tutti gli altri, ma non ci perdi tempo a parlare; con quello intelligente invece sì che ti ci fermi; quello intelligente te fa scola. E Pasolini non era intelligente, de ppiù. Era uno che vedeva oltre”. Insieme parlavano di politica, di calcio (“una sua grande passione”), della vita in generale, ma mai di cucina. Il poeta-corsaro non era certamente un gourmet; il suo pasto era sempre lo stesso: bistecca, mozzarella e patate fritte. “Sembrava un atleta che doveva preparare una gara. E nun beveva manco un goccio de vino”. I sapori, quei sapori corsari, non li cercava nei piatti, ma nell’atmosfera, nelle parole, negli occhi, nei gesti e nello spleen di quegli uomini degradati, immersi nel fango, ridotti a marionette di loro stessi, ma veri e vivi. E a San Lorenzo e da Pommidoro di questi “sapori” poteva farne un’abbuffata. Pasolini non aveva bisogno di gustosi manicaretti per alimentarsi. Coerente fino al midollo con le sue convinzioni, si teneva lontano dalle “indigestioni borghesi” e rinunciava a quei “beni superflui che rendono superflua la vita” accontentandosi di poco. Anche a tavola. Proprio come fece quella funesta sera del primo novembre 1975. L’ultima cena di Pasolini – un’espressione ai limiti della blasfemia – fu, ancora una volta, a base di bistecca, mozzarella e patate fritte.


Pasolini non aveva bisogno di gustosi manicaretti per alimentarsi. Coerente fino al midollo con le sue convinzioni, si teneva lontano dalle “indigestioni borghesi” e rinunciava a quei “beni superflui che rendono superflua la vita” accontentandosi di poco. Anche a tavola

Lunga vita a Pommidoro

Sopra Fotografa questo codice Una vecchia immagine di Piazza Ottavilla nel quartiere e guarda il video sul tuo cellulare. A pagina 7 le di Monteverde Vecchio. istruzioni per attivare il servizio

VIDEO

Oggi il testimone della trattoria è passato dalle mani di Aldo e della moglie Anna, “la professoressa del forchettone a tre punte”, a quelle delle figlie Rossana, Sandra e Dina e dei generi Amedeo e Valentino. Tutto è cambiato, nulla è cambiato. Le proposte gastronomiche sono quelle di un secolo fa, così come i sapori, rimasti inalterati, schietti e genuini. Carbonara, amatriciana, gricia, pajata, aglio e olio, arrabbiata e cacio e pepe. È un trionfo di spaghetti e maccheroni. L’occhio indugia su una vetrina frigo rétro da cui traspaiono pezzi di carne cruda e sanguinolenta; di lato arde un enorme braciere. Queste le premesse per i secondi piatti. Coda alla vaccinara, trippa alla romana, animelle alla cacciatora, abbacchio. E poi bolliti di manzo, castrati in umido, spuntature e zampetti di maiale, polli, conigli e, naturalmente, carne alla brace. I clienti svuotano avidamente i piatti, fanno la scarpetta. Pommidoro osserva in silenzio, soddisfatto. Ogni tanto si aggira in sala, scambia qualche chiacchiera “con quelli intelligenti”, per tornare poi a sedersi fuori, all’ingresso del locale, e a raccontare dei vetturini che nascondevano i litri sotto al tavolo per pagare di meno, di Sor Capanna e dei cantanti di strada o di quella volta che persino Pasolini sorrise.

Intervista ad Aldo Bravi, titolare della trattoria Pommidoro.

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copertina | la roma di pier paolo pasolini

08 I luoghi della Roma pasoliniana

L

a struttura narrativa del servizio di copertina è stata pensata immaginando un ritorno nei luoghi dove il regista girò le sue pellicole più famose (seguendo le impronte lasciate da Totò e Anna Magnani, Franco Citti e Ninetto Davoli) o ambientò i suoi romanzi (Ragazzi di vita e Una vita violenta), facendo un salto culturale nel passato e osservando quanto sia cambiato in questi anni il volto della città ritratto dal poeta. E poi c’è una storia che nessuno ha raccontato ancora, quella delle tre targhe di Pier Paolo Pasolini nel quartiere di Monteverde, tra Vecchio e Nuovo, tra via Fonteiana e via Carini. È una storia che spiega bene quanto complessa e contraddittoria sia stata la fortuna dell’artista, e quante volte la sua eredità sia stata rifiutata.

1. Via Giovanni Tagliere, 3

Abitazione di Pasolini (p. 33)

2. Via Carini, 45

Abitazione di Pasolini (p. 36)

3. Via Fonteiana, 83

Abitazione di Pasolini (p. 36)

4. Via di Donna Olimpia

Abitazione di Pasolini (p. 38)

5. Via Eufrate, 9

Abitazione di Pasolini (p. 35)

6. Via del Mandrione Luogo amato da Pasolini (p. 35)

7. Via Fanfulla da Lodi

Set cinematografico Accattone (p. 42)

8. Piazza Tommaso De Cristoforis

Set cinematografico Mamma Roma (p. 44)

9. Via Calpurnio Fiamma

Set cinematografico Mamma Roma (p. 45)

10. Piazza dei Sanniti, 44 Trattoria Pommidoro (p. 54)

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veneto | abbazia di santa maria di follina

Un gioiello medievale tra i colli trevigiani L’Abbazia di Santa Maria di Follina Immergersi nell’atmosfera dell’orgogliosa e antica Marca Trevigiana, lasciarsi inebriare dagli effluvi dei suoi vini, ripercorrere la storia degli ordini monastici che vi hanno lasciato tracce indelebili, scoprire le suggestioni di un luogo religioso lontano dalle mete turistiche più battute Testo di Lorenzo Parolin Fotografie di Barbara Rigon

I

n bicicletta. È meglio salire in bicicletta, preferibilmente con le prime brume d’autunno a pennellare di malinconia il paesaggio, e le colline tutte vigneti a trasformarsi in un caleidoscopio di colori, per cogliere appieno le atmosfere antiche che la cistercense Abbazia di Santa Maria di Follina sa offrire. Il percorso a saliscendi che si snoda in direzione est-ovest, inizia a Valdobbiadene, patria di vini frizzanti e uve da prosecco, a un tiro di schioppo dal greto del Piave. Subito dopo la piazza – una cantina qui e una lì, dappertutto insegne che dicono “spumante” e offrono bollicine –, un tratto di strada ripido, che può scoraggiare anche i pedalatori più tenaci. A San Pietro di Barbozza, di fronte alla 62

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chiesa e al frontone che, un po’ enfatico, commemora i caduti della Grande Guerra sulle alture del Montello (lo si vede sullo sfondo) e lungo il corso del Piave, la strada si spiana e c’è modo di riprendere fiato. Si attraversano i vigneti, e ancora su, fino ai quasi quattrocento metri di altitudine di Combai. Vigneti dappertutto, i borghi che si incrociano, una pedalata dopo l’altra, hanno qualcosa della Toscana: una chiesa, case antiche di pietra color ocra, filari di uve sul versante sud e castagni sul lato in ombra dei colli. È la Marca Trevigiana, ma il Nordest dei capannoni non abita qui, e la cintura di colline che cinge l’orizzonte nasconde anche un’urbanizzazione incontrollata che ha portato, sì il benessere, ma


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veneto | abbazia di santa maria di follina

Vigneti dappertutto, i borghi che si incrociano, una pedalata dopo l’altra, hanno qualcosa della Toscana: una chiesa, case antiche di pietra color ocra, filari di uve sul versante sud e castagni sul lato in ombra dei colli. È la Marca Trevigiana, ma il Nordest dei capannoni non abita qui...

anche lo snaturamento del territorio. A Combai, che sarà pure “solo” un borgo, ma attira per tre stagioni all’anno un numero di turisti più che gratificante, un cartello in caratteri d’antan annuncia l’ingresso in “Valsana”. La strada scollina e per chi arriva da ovest la discesa si fa ripida. Qualche ciclista sale a ritroso ansimando e il paesaggio cambia nuovamente. Non troppo, giusto lo spazio per qualche nuova, piacevole sorpresa. Vigneti – poteva essere altrimenti? – sul versante baciato dal sole e castagni dove prevale l’ombra. Colline a sud, ma il lato settentrionale della valle presenta, ed è qui la sorpresa, un décor che è già tutto alpestre. Monte Cimon (1.438 metri), poco più basso il Monte Crep, ma più dell’altitudine sono le creste, le pareti ripide, i prati in quota e qualche abete che fa capolino nel bosco a lasciar intuire che le prime 64

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Dolomiti non sono lontane. Basta percorrere poco meno di trenta chilometri a settentrione, appena sopra la città di Feltre, per trovarsi in piena montagna: le pareti di roccia e il clima, che d’inverno può toccare i meno venti gradi, segnano una cesura netta con le colline della Marca. Ma questa è un’altra storia. Quanto al lato nord della Valsana, potrebbe essere un pezzo di Baviera – altro che Treviso! – e allora si può anche vedere la Toscana, guardando a sud. Ma quando lo sguardo si volge dall’altra parte è già Mitteleuropa a pieno titolo. In fondo è il destino di queste terre fungere da cerniera tra mondo tedesco e Mediterraneo, coniugando due anime nei sapori della cucina, nei linguaggi dell’arte, nella toponomastica e nelle vicende umane che, un po’ storia e un po’ leggenda, ancora oggi si raccontano quando c’è il tempo per ascoltarle.

Arrivati a Combai, in ogni caso, è quasi fatta: l’ultimo tratto è una comoda discesa, quasi una caduta in picchiata verso il fondovalle. Un paio di colpi di pedale e la bicicletta inizia a correre da sé. Sullo sfondo, nel frattempo, vanno a delinearsi la facciata dell’antica abbazia, sempre più nitida e visibile, e la struttura urbana del paese (Follina) che ne è figlio. Prima di arrivare bisogna ancora fingere di non vedere un paio di edifici (il cartello “vendesi” è in questo senso abbastanza eloquente), probabile prodotto del boom edilizio degli anni Sessanta e degni di un museo degli orrori architettonici contemporanei, ma è il complesso medievale ad attirare (inevitabilmente e fortunatamente) tutta l’attenzione. Quella di Follina non è la più antica, né la più imponente abbazia d’Italia e, sorta in origine lungo un’importante via di tran-


sito tra Belluno (quindi Tirolo e Baviera) e Venezia (quindi Roma e il resto d’Italia), ha perso man mano il suo ruolo di stazione di posta, al punto da essere, anche tra i residenti in Veneto, oggi relativamente poco conosciuta. “Follina… dove?” è una domanda sempre più frequente. Tuttavia, per ragioni non facilmente spiegabili, che vanno dal vero e proprio dialogo attivo col paesaggio ai linguaggi architettonici e mistici che la permeano, l’Abbazia di Santa Maria in Follina sa ancora incantare. E tra i non numerosissimi turisti che

ne varcano (specie nei fine settimana) le soglie, uno stupore composto e carico di ammirazione è il sentimento senza dubbio prevalente. Guadagnata la piazza del paese – uno sguardo alle costruzioni, uno alle montagne –, dopo qualche sorso d’acqua si può lasciare la bicicletta, salendo la piccola scalinata che porta al sagrato e alla facciata della chiesa. C’è ancora un giardino piuttosto grazioso da attraversare e l’Abbazia di Follina si rivela in tutta la sua bellezza. È tempo di osservarla e di ripercorrerne la storia.

Sopra A sinistra una veduta delle campagne in cui il paese di Follina è immerso A destra il chiostro dell’abbazia, a pianta quadrata e caratterizzato dalla fontana ottagonale in pietra, posta al centro

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LA STORIA

veneto | abbazia di santa maria di follina

LA STORIA DELL’ABBAZIA

“Queste terre sono abitate almeno dall’Età del bronzo” dice padre Ermenegildo Zordan, vicentino, da vent’anni custode premuroso delle memorie dell’abbazia, “e, se parti dal Veronese, percorrendo tutta la cintura delle Prealpi, senza dimenticare, un po’ più a sud, i Colli Euganei, non sono rari i resti o le testimonianze nelle denominazioni dei luoghi che rimandano ai ‘castellieri’, le fortificazioni primitive messe a guardia dei pascoli”. Vero: una recentissima scoperta, datata marzo 2010, avvenuta per opera di un architetto di Bassano del Grappa, ha riportato alla luce del sole le tracce di uno di questi castellieri sul massiccio del Monte Grappa, appena trenta chilometri a ovest di Follina. Il ritrovamento, seguito attualmente dagli archeologi dell’Università di Padova, sembra proprio aver completato un mosaico in base al quale, anche sulle balze del Monte Crep, la presenza umana sarebbe antica di almeno tremila anni. Presenza stanziale o semistanziale attestata in montagna, non nel fondovalle, perché il fiume Soligo, stretto ma di portata costante (quindi “fiume” non per vezzo, ma a tutti gli effetti), percorrendo l’attuale Valsana si allargava in palude almeno fino alla tarda epoca romana compresa, e solo una bonifica medievale avrebbe garantito definitivamente la salubrità dei luoghi. Salubrità annunciata già dal quel toponimo (Valsana), scritto a chiare lettere sul cartello graziosamente démodé che accoglie il visitatore diretto a Combai. Dell’antico acquitrino è rimasta testimonianza qualche chilometro più a est di Follina, nei laghetti di Revine, a ridosso della cittadina di Vittorio Veneto. Due piccoli specchi d’acqua gemelli, sviluppatisi tra collina e montagna dove il fondovalle e il fiume che lo attraversa si allargano. C’è, sulla riva, anche una zona dedicata alla balneazione e, con la stagione propizia, le barche a remi o a pedali punteggiano la superficie dell’acqua: un bel luogo, capace di trasmettere serenità e perfetto per una gita fuori porta. Anche qui, non essenziale, ma consigliato, l’arrivo in bicicletta. “In epoca romana, a Follina è attestato 66

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l’Ordine Cistercense L’Ordine cistercense (Ordo Cisterciensis) è un ordine monastico di diritto pontificio. Ebbe origine dall’Abbazia di Cîteaux (Cistercium), in Borgogna, fondata da Roberto di Molesmes sul finire dell’XI secolo. Sorse in seno alla congregazione cluniacense, obbedendo al desiderio di austerità e di ritorno alla stretta osservanza della Regola di san Benedetto. L’Ordine è tutt’oggi organizzato in monasteri autonomi riuniti in congregazioni, ciascuna delle quali dotata di costituzione propria. È retto da un abate generale che risiede a Roma.

un castrum, un accampamento militare” è ancora padre Zordan a parlare, “perché il valico di San Boldo era considerato un passaggio strategico, di primaria importanza per i traffici che seguivano la rotta nord-sud”. Già, il valico di San Boldo: 706 metri sul livello del mare, non troppo impegnativo da raggiungere (oggi la strada è asfaltata) e ideale per i cicloamatori o cicloturisti che vogliono provare la gamba in vista di salite più impegnative. Assieme al vicino passaggio (il passo di Praderadego), il valico ha visto transitare mercanti, soldati e, nei secoli successivi, con il cristianesimo, fedeli e pellegrini. Per veder sviluppare Follina come centro

religioso si dovette però attendere il IV secolo e, indirettamente, l’eresia ariana, che aveva attecchito nelle regioni orientali del Nord Africa. Un folto gruppo di cristiani d’Egitto, volendo fuggire e trovare riparo sulla sponda settentrionale del Mediterraneo, si rivolse alla potente diocesi di Aquileia, “sorella” di quella di Alessandria. Il vescovo di Aquileia, che aveva allora giurisdizione su buona parte degli attuali Veneto e Friuli, assegnò agli esuli d’Egitto delle terre, meglio se naturalmente riparate da alture, nelle quali condurre la loro esistenza. Fu scelta anche Follina che, così, conserva nelle proprie origini un legame con le regioni attraversate dal corso del Nilo.


Chiostro dell’abbazia Aveva anche la funzione di grande quadrante solare, poiché aveva sempre un lato in ombra d’estate e uno al sole d’inverno

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veneto | abbazia di santa maria di follina

Sopra L’affresco della Madonna con Bambino del 1527, opera di Francesco da Milano, sulla navata destra della chiesa Pagina a fianco La navata centrale della chiesa

Storie di Leggende

Quella che collega il fiume più lungo del mondo allora conosciuto e il grazioso fiumicello trevigiano, è – come è facile intuire – una storia che sconfina per buona parte nella leggenda, ma si continua a raccontarla a testimonianza, comunque, di un’unità culturale e religiosa mediterranea, che si sarebbe spezzata solo dopo Maometto. Leggende a parte, la storia documentata, quindi “ufficiale”, delle vicende monastiche di Follina prende avvio dopo l’anno Mille. “Merito di un gruppo di Benedettini” spiega padre Zordan, “arrivati da San Fermo Maggiore di Verona. Il loro scopo era prendersi cura dei pel68

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legrini in viaggio verso Roma o verso la tomba di San Giacomo a Compostela, in Galizia. Follina all’epoca era uno snodo importante tra due itinerari fondamentali della cristianità: uno, che ne aveva come meta il cuore geografico, Roma; l’altro, che guardava all’estremo confine occidentale, il finis terrae dell’Iberia atlantica”. Qualche decina d’anni e, a Follina, arrivarono i Cistercensi, che, chiamati molto probabilmente per bonificare il corso del fiume, fecero di Santa Maria in Sanavalle (l’attuale abbazia) un centro di vita spirituale, contribuendo in maniera definitiva allo sviluppo del paese che circonda il complesso monastico. Fedeli alla Regola di san Bernardo, i monaci di Follina realizzarono, nel periodo della loro permanenza, un complesso considerato ancora oggi tra i più rappresentativi dei dettami dell’Ordine, nonché tra i più capaci di attraversare i secoli pressoché intatti. Nel XV secolo, con la soppressione dell’Ordine cistercense da parte della Serenissima (1439), il complesso di Santa

Maria fu retto per oltre un secolo da abati detti commendatari. Si trattava di vescovi o cardinali che amministravano dall’esterno, pur godendo delle rendite dell’abbazia, fino al subentro dell’Ordine camaldolese, anch’esso di Regola benedettina. Soppressi anche i Camaldolesi (sempre per opera della Repubblica di Venezia nel 1771) il secolo XIX portò il complesso religioso a uno stato di totale decadimento, al punto che parte degli edifici destinati al culto e alla vita comunitaria fu murata o adibita ad abitazione privata. Si dovette attendere, dunque, il 1915 e l’arrivo di un’altra famiglia religiosa, quella dei Servi di Maria, perché l’abbazia fosse restituita all’antico splendore. Il resto, più che storia, è cronaca, e racconta di una complessa struttura architettonica che, pur avendo mutato il proprio ruolo nei secoli, nella magia del silenzio e della luce conserva il fascino di un passato, in cui le montagne della Marca Trevigiana hanno incrociato il destino di un gruppo di esuli d’Egitto.


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veneto | abbazia di santa maria di follina

L’ARCHITETTURA

Il complesso abbaziale, un interessante esempio della transizione tra il romanico e il gotico, sorse in primo luogo per rispettare i canoni di rigore dell’architettura cistercense. La pianta, in scala ridotta, è la stessa delle abbazie di Clairvaux, Fontenay e Fossanova. Sul lato che guarda a Oriente sorge la chiesa, con l’abside orientata, come tradizione, verso il sorgere del sole, perché, da tradizione, luce dell’alba doveva toccare l’altare e illuminare i monaci riuniti per il mattutino. All’interno, è particolarmente rilevante la grande ancona dorata dell’altare: si tratta di una copia ottocentesca dell’originale gotico conservato a Venezia, nella Chiesa di San Zaccaria. Gotiche, con elementi romanici, sono pure le architetture delle navate, mentre totalmente romanica, secondo il canone lombardo, è la torre campanaria. I restauri del XX secolo hanno rivelato sulla parete della navata destra una Madonna con Bambino del 1527, opera di Francesco da Milano e, nella navata opposta, i resti di un affresco del XV secolo, che raffigura san Tommaso d’Aquino, naturalmente con un libro. All’esterno è notevole, anche per l’atmosfera che lo permea, il chiostro. Anch’esso cistercense, a pianta quadrata, è aperto al proprio interno a simboleggiare l’ordine e l’armonia dell’universo. Al centro presenta una fontana ottagonale in pietra. Dal punto di vista pratico, il chiostro funzionava anche come grande quadrante solare, presentando sempre un lato in ombra d’estate e uno al sole d’inverno. Lungo il perimetro del quadrilatero corre un muretto, aperto al centro di ogni lato per garantire l’accesso al cortile. Sopra quest’ultimo – elemento architettonico particolarmente interessante – poggiano colonnine realizzate in pietra locale, che sorreggono delle arcatelle. Queste colonnine, binate e tortili, formano una strut70

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tura particolarmente dinamica che, come accade per l’abside all’interno della chiesa, dialoga con la luce nelle diverse ore del giorno e nelle diverse stagioni dell’anno. Numerosi capitelli del chiostro sono, poi, ornati con soggetti simbolici medievali, quali l’aquila, il gallo, la palma e la croce greca. Un disegno armonico che, ancor prima del restauro successivo alla Prima Guerra Mondiale, faceva apprezzare il chiostro di Follina come uno tra i più sug-

gestivi e ricchi, costruiti dai Cistercensi nelle loro abbazie italiane. Quanto agli altri ambienti del monastero, la disposizione è, anche in questo caso, classica, nel rispetto del canone cistercense. Sul lato orientale si trova la sacrestia, la cui fonte conserva una traccia della visita effettuata a Follina dell’abate commendatario più famoso, san Carlo Borromeo. Ancora oggi, infatti, un’iscrizione su pietra testimonia che “Qui san


Sotto La facciata dell’Abbazia di Santa Maria di Follina

eventi culturali

Pagina a fianco I resti dell’affresco del XV secolo, raffigurante san Tommaso d’Aquino con un libro in mano, ritrovati nella navata destra della chiesa

Follina e la musica

INFORMAZIONI

Non più regolata dai ritmi del monachesimo, la vita dell’abbazia ha stretto un abbraccio sempre più forte e fecondo con i ritmi della musica, divenendo un centro importante di rassegne e concerti di musica classica, capaci di richiamare, nella cornice suggestiva delle architetture cistercensi, i nomi più prestigiosi del panorama internazionale. Grazie all’infaticabile opera di promozione culturale delle sorelle Ivana e Maria Giovanna Zanon, tra i fedelissimi di Follina c’è anche il violinista Uto Ughi, il cui prossimo concerto si svolgerà alla fine di ottobre.

Abbazia Santa Maria di Follina Via Convento, 3 31051 Follina (TV) Tel. 0438.970231 Fax 0438.971458 per prenotare visite di gruppo Orari di visita: tutti i giorni dalle 7.00 alle 12.00 e dalle 14.15 alle 19.15

Carlo si lavò le mani”. Accanto alla sacrestia, l’ambiente che serviva in origine da sala del Capitolo fu decorato interamente a stucchi nel Settecento e trasformato in una piccola cappella. Procedendo verso est, si trova la sala di riunione dei monaci, nella quale è conservata una pala del XVII secolo, firmata da Egidio Dall’Oglio, e un grande dipinto del XIX secolo di Giovanni De Min, entrato nel patrimonio dell’abbazia grazie a una donazione di privati.

Al centro del lato meridionale del chiostro, un portone immette nel refettorio, sopravvissuto nei secoli a non poche devastazioni, incluse quelle che lo videro utilizzato, in due diversi periodi, prima come fienile e poi come teatro. Nel 1933 il vecchio refettorio fu trasformato in cappella votiva per i caduti in guerra, con l’inserimento di un altare-monumento. Superato il refettorio, una scala conduce al posto riservato al lettore durante le lectiones quotidiane,

mentre il lato occidentale dell’edificio era destinato agli alloggi dei conversi, ai magazzini e ai locali di servizio. Usciti sul lato meridionale, si trova il piccolo chiostrino fatto realizzare dall’abate commendatario Livio Podacataro nel 1535, al posto delle antiche cucine. Tra queste ultime e il refettorio, c’era (e c’è) infine una piccola stanza: era l’unica riscaldata di tutta l’abbazia, riservata ai monaci nelle fredde giornate d’inverno. il turismo culturale

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veneto | abbazia di santa maria di follina

Ex lanificio Andretta Restaurato nel 1985 è oggi adibito a sede di servizi comunali. Lungo la parte settentrionale dell’edificio (pagina a fianco) scorre il primo tratto del fiume Soligo

OLTRE ALL’ABBAZIA, IL PAESE DI FOLLINA

Per quanto figlio del complesso monastico, il paese di Follina presenta altri luoghi interessati, che meritano uno sguardo anche da parte del turista più frettoloso. Dal sacro al profano, dal Medioevo e Rinascimento alla rivoluzione industriale, merita una visita l’ex lanificio Andretta, oggi restaurato e adibito a sede di servizi comunali. Lungo il lato settentrionale dell’edificio, tra l’altro, scorre il primo tratto del fiume Soligo: grazie all’abbondanza d’acqua e alla regola monastica fondata sull’ora et labora, l’industria laniera si sviluppò a Follina già nel XIV secolo. Il complesso oggi visibile risale all’Ottocento, ed è una fabbrica a piani sovrap72

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posti. L’energia necessaria alle lavorazioni era fornita da un impianto centrale, idraulico e a vapore, che veniva trasmessa ai macchinari tramite un sistema piuttosto complicato di alberi, snodi e pulegge. La necessità di non disperdere il lavoro imponeva, all’epoca, di concentrare le macchine in un’area il più possibile ristretta: da qui la costruzione della fabbrica a piani sovrapposti. Curiosamente – e la cosa nel Nordest dei capannoni non è di poco conto – dopo il lanificio Andretta, a Follina, non sono stati costruiti altri complessi industriali, e la Valsana odierna non appare troppo differente da quella dei secoli passati. Oltre all’abbazia e dell’antica fabbrica, merita una visita anche il resto del paese:

visita che, procedendo con calma (la bicicletta può restare sempre appoggiata al muretto che circonda il complesso monastico), richiede poco più di una mezz’ora. Ripercorrendo la struttura urbanistica originale, gli edifici più antichi si trovano tra le attuali piazza IV Novembre, via Pallade, vicolo Paradiso e via Santa Scolastica. Si tratta di rifacimenti di rustici, in origine appartenenti al convento. Di quest’ultimo hanno conservato lo schema, con la muratura che all’esterno non presenta soluzione di continuità, interrotta all’interno da cortili. Dal sagrato è poi visibile una casa, sulla cui facciata una lapide ricorda l’abate Jacopo Bernardi (1813-1897). Gloria locale e personaggio ancora oggi ben presente nei racconti degli anziani, fu sacer-


dote, erudito, filantropo e uomo dedito alla causa dell’Unità d’Italia. Ricercato dalla polizia austriaca per attività sovversive, nel 1851, con una fuga rocambolesca, riparò in Piemonte, dove proseguì le sue numerose attività. Da casa Bernardi inizia via Santa Scolastica, e in cinque minuti si arriva all’omonima sorgente. Sembra essere, questa, una traccia dell’originaria presenza benedettina in zona, perché pare che proprio i Benedettini scelsero di intitolare lo zampillo che sgorgava ai piedi del monte alla sorella del loro padre fondatore, Scolastica, appunto. Il corso dell’acqua porta a un lavatoio e, tramite vicolo Paradiso, alla piazza che, fino a cinquant’anni fa, era uno dei rari esempi urbanistici, almeno in Veneto, di piazza chiusa. Aperta al traffico automobilistico in concomitanza col boom economico degli anni Sessanta, ha in parte perso oggi il ruolo di antico cuore del paese e molto del fascino che la caratterizzava, ma conserva ancora alcuni edifici notevoli, quali la piccola sede della Società Operaia all’inizio di via Pallade e Palazzo Barberis sul lato orientale. Sul lato sud della piazza, via Roma si ricongiunge al corso dell’acqua, terminando poi in una piazzetta. Il giro turistico del piccolo borgo si completa dove è iniziato: sull’attuale sagrato della chiesa, che in origine serviva da cimitero. “Fronte alla facciata dell’abbazia,” come specificano i depliant turistici, “è possibile ammirare da breve distanza l’impianto tra il romanico e il primo gotico, evidenti soprattutto negli archi acuti”. Al centro si vede un rosone, dono della Serenissima e testimonianza indiretta del rapporto di amore-odio tra Venezia i Camaldolesi; in alto un oculo; ai lati due finestre e sopra il portale una lunetta affrescata nel XV secolo. Si legge la storia, dunque, nelle stratificazioni dalle quali ha preso vita il complesso monastico di Follina. Una storia che, nel silenzio della Valsana, per essere apprezzata appieno bisogna dimenticare almeno per una mezza giornata le automobili. Meglio la bicicletta, quando le prime brume d’autunno arrivano a pennellare di malinconia il paesaggio, e le colline tutte vigneti si trasformano in un caleidoscopio di colori.

dove... Follina (TV) Punti di interesse storico-artistico del Comune trevigiano

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veneto | abbazia di santa maria di follina

Itinerario

Arrivare a Follina da Bassano del Grappa Tra i vigneti e i centri d’arte della zona pedemontana vicentina e trevigiana

G

li edifici di culto dell’antichità erano orientati in modo tale da incrociare il sole mattutino. E allora è bene seguire la regola secolare e andare incontro all’Abbazia di Follina muovendosi verso oriente, tra la zona pedemontana vicentina e quella trevigiana. Il breve viaggio, poco più di cinquanta chilometri tra le colline in vista delle Prealpi, può iniziare a Bassano del Grappa, centro che tocca oggi i circa quarantamila abitanti, e dalla visita al suo ponte di legno (Ponte degli Alpini la denominazione ufficiale, per tutti Ponte Vecchio), costruito su disegno 74

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dell’architetto vicentino Andrea Palladio. Il manufatto è tuttora una delle poche strutture coperte del genere rimaste intatte e, fino a pochi anni fa, poteva essere attraversato anche in automobile. Più volte distrutto dalle piene del fiume – l’ultima, davvero rovinosa, nel 1966 – è stato sempre ricostruito seguendo il progetto rinascimentale. Pregevoli, a Bassano, anche il centro storico, che conserva numerose tracce del dominio veneziano, e la romanica Chiesa di San Francesco con l’attiguo Museo Civico. Imperdibili, al tramonto, uno sguardo da piazza Terraglio (dove

sorse il nucleo più antico della città) e, al mattino, il panorama verso le montagne di cui si può godere da viale dei Martiri (martiri della Resistenza). Dirigendosi verso est, a una ventina di chilometri dalla partenza, meritano una visita Possagno, paese di nascita di Antonio Canova, e Asolo. Luoghi notevoli del primo centro sono la chiesa neoclassica e la vicina Gipsoteca che, di Canova, raccoglie di fatto l’opera omnia. Asolo, invece, già sede della corte della veneziana regina di Cipro, Caterina Cornaro, è un piccolo gioiello arroccato su un colle. Si fa apprezzare per le architetture rinascimentali e per l’intensa attività culturale, storicamente incrementata dalla presenza di artisti e poeti. Da Asolo, deviando a sud, ci si può dirigere a Castelfranco Veneto, la città murata che diede i natali a Giorgione. Visitato il centro, si può tornare a nord verso Valdobbiadene e i suoi vigneti. Da Valdobbiadene il percorso è un piacevole saliscendi collinare, che si snoda tra borghi, vigneti e boschi di castagni. Arrivati a Follina, si può procedere per una decina di chilometri fino ai laghetti di Revine e, da qui, fino a Vittorio Veneto, centro della Pedemontana, divenuto simbolo della vittoria italiana nella Prima Guerra Mondiale.


veneto

Hotel Villa Abbazia

Ristorante Da Gigetto

Quattro stelle per quattro secoli di storia, l’Hotel Villa Abbazia sorge nel centro storico di Follina. Intima ed elegante, la struttura (un palazzo del XVII secolo) si trova nel cuore di un percorso ideale che comprende le rocce rosate delle Dolomiti, i sapori della Strada del Prosecco e le bellezze artistiche di Treviso e di Venezia. Particolarmente indicato per una vacanza di metà stagione tra i vigneti e i colli che fiancheggiano il corso del fiume Soligo.

Appena prima di Follina, arrivando da ovest, il ristorante Da Gigetto vanta una storia ormai più che centenaria, nascendo come luogo di ristoro agli inizi del XX secolo. L’attuale proprietario (nonché nipote della prima locandiera), Gigetto, negli anni e assieme ai figli e alla moglie Elda ha apportato notevoli cambiamenti, valorizzando le specialità locali, quali l’immancabile radicchio rosso, e ampliando la cantina, che oggi comprende oltre milleseicento etichette.

Piazza IV Novembre, 3 31051 Follina (TV) Tel. 0438.971277 www.hotelabbazia.it Prezzo camera doppia: a partire da € 160

Via A. De Gasperi, 5 31050 Miane (TV) Tel. 0438.960020 www.ristorantedagigetto.it Prezzo medio: € 40-50 (vini esclusi) Chiuso il lunedì sera e il martedì tutta la giornata

IL PROSECCO DI CONEGLIANO VALDOBBIADENE docg

I MARRONI DEL MONFENERA

Il Prosecco di Conegliano Valdobbiadene docg è un vino prodotto nella fascia collinare compresa tra Vittorio Veneto e Valdobbiadene. Originario del Triestino, è ottenuto da uve a bacca bianca, da cui si ricavano vini dal caratteristico retrogusto amarognolo. Le tipologie di prosecco in commercio sono il tranquillo, il frizzante e lo spumante. Il metodo di spumantizzazione più usato è lo Charmat, da cui si ottengono le versioni brut, extra dry e dry.

I Marroni del Monfenera igp, frutti della specie Castanea sativa, sono un prodotto agricolo tipico di alcuni comuni della provincia di Treviso, presenti nella zona sin dal XIV secolo. La castanicoltura ebbe nei secoli alterne fortune sino al censimento dei castagni, ordinato dalle autorità asburgiche a metà dell’800. Una vera ripresa si ebbe però solo dal 1980, favorita anche da eventi promozionali, come la Mostra Mercato dei Marroni del Monfenera, che ogni anno viene organizzata dal Comune di Pederobba (TV).

www.prosecco.it

follina (tv)

www.marronidelmonfenera.it

BISI DE BORSO Prodotti locali al punto da essere conosciuti solo col nome dialettale, i bisi de Borso (piselli di Borso) crescono sul versante meridionale del Monte Grappa, entro i confini del comune di Borso, nel Trevigiano. Celebrati da una festa locale, si sposano particolarmente bene con il riso e i carciofi che crescono sulle sabbie di Malamocco, nel settore meridionale del Lido di Venezia. Ciochi e bisi, cotti assieme in pentola, abbinano il sapore dolce del legume all’amarognolo del carciofo per un piatto allo stesso tempo semplice e originale. il turismo culturale

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weekend | a spasso per le langhe

TERRE DI VINO E LETTERATURA Tre giorni nelle Langhe

Un’esperienza enogastronomica e letteraria d’avanguardia: un patrimonio culturale unico, orgoglio nazionale. Tutta una serie di borghi da scoprire, e un mondo di cantine da esplorare di Gianfranco Franchi

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e nel 2010 parti per vivere l’esperienza del vagabondaggio nella “provincia granda”, vale a dire il cuneese, confinante con la Liguria, con Asti, con Torino e con la Francia, non puoi che ritrovarti piacevolmente disorientato per la ricchezza, la varietà e la duttilità dei panorami, della natura, dei piatti e dei vini, e non puoi che decidere, a un tratto, a quale microcosmo adattarti, e in quale sprofondare. Se sei uno che in gioventù s’è nutrito della grande letteratura di Beppe Fenoglio, il badogliano Partigiano Johnny, e di Cesare Pavese, massimo esempio della pietas della gente del Piemonte, una è la tua destinazione elettiva: le Langhe. Delle Langhe ti sorprende la rigorosa geometria, la misura, razionale e metodica, della dedizione e del sacrificio dei suoi agricoltori; delle Langhe ti meraviglia l’innocenza selvatica, e la potenza delle reminiscenze letterarie. Tra le Langhe trovi percorsi enogastronomici di primo livello: e a quel punto t’accorgi che sei partito per mangiare bene, bere bene, riempirti gli occhi di un paesaggio unico, ritrovare una buona scusa per rileggere i narratori della prima metà del Novecento che più avevi amato. Non è poco.

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weekend | a spasso per le langhe

Sotto La città di Alba

Alba sembra sonnecchiare, compiaciuta del suo benessere, del suo ordine e della sua pulizia, come molte altre cittadine, da queste parti. Questo territorio è un patrimonio. Il forestiero è un ospite

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p giorno

©AnneConway/Cuboimages

Alba Roddi Grinzane Cavour

“A

lba è una città molto antica, ma a chi la guarda dalla collina i suoi tetti sono rossi come nuovi” scriveva Fenoglio nel suo I ventitré giorni della città di Alba. E così, eccoti nella cittadina che prima festeggiò la Liberazione, e che fu benedetta dall’intelligenza e dall’ispirazione di uno dei suoi figli più famosi. Puoi soltanto fantasticare quella che un tempo era famosa come “la città delle cento torri”: qualche secolo più tardi, sono state abbattute o integrate nei palazzi e negli edifici moderni. Con un po’ di for78

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tuna, riesci, in qualche circostanza, a riconoscerle e individuarle senza fatica. In compenso, parcheggiata fortunosamente la macchina in centro, ci si ritrova proprio sotto la scultura di Mastroianni dedicata alla Libera Repubblica di Alba, a pochi passi dall’abitazione storica della famiglia Fenoglio: puoi immaginarti l’artista in finestra, sorridendo della vicinanza della bottega paterna, una macelleria. Da piazza Rossetti eccoci subito in piazza Risorgimento. E cominciano le emozioni forti: il Palazzo Comunale, nato su antichi edifici d’epoca romana, è uno dei più suggestivi esempi di architettura locale. Tra i dipinti ospitati, una notevole Vergine con il Bambino di Macrino d’Alba, cinquecentesca, e affreschi del Trecento. Sempre in piazza, ecco la Cattedrale. Cominci ad ambientarti e punti il corso principale, via Vittorio Emanuele, la strada che gli albesi chiamano via Maestra. Andando avanti per questa strada passi per tutto il delizioso centro storico della

cittadina. Apprezzi le classiche sovrapposizioni di stili architettonici, innamorandoti tuttavia delle suggestioni medievali; poggi lo sguardo sulle facciate delle chiese, e poi ti ritrovi rapito dall’eleganza delle enoteche, e dal profumo dei tartufi. Dio che profumo. Già: da queste parti, madrepatria del tartufo bianco campione del mondo, si tiene ogni anno una fiera, meta prediletta di gourmet e cultori della grande gastronomia. Si tratta della Fiera Internazionale del Tartufo Bianco, ideata nel lontano 1928 e viva e scintillante di vitalità e ospiti di rilievo ancora oggi. Alba è una cittadina borghese che sembra poter nutrire, a ragione, l’ambizione di diventare provincia autonoma; oltre trentamila abitanti, settantamila includendo l’area urbana, confermano che ci troviamo semplicemente in quella che è salutata come “la capitale delle Langhe”. Il tenore di vita, stando a quanto al viandante è dato di capire, osservando i negozi e le vetrine, e la sobria eleganza dei citta-


Sotto Il Castello di Grinzane Cavour

PRODOTTO TIPICO

Il tartufo bianco di Alba Il tartufo bianco di Alba, raccolto con internazionale apprezzamento nei dintorni delle Langhe, è uno dei grandi classici del territorio. Il successo mondiale è stato tributato negli anni Trenta del secolo scorso, quando il prestigioso «Times» di Londra salutò l’albergatore e ristoratore di Alba Giacomo Morra, instancabile promotore delle qualità divine del frutto, come il “Re dei Tartufi”. Il resto è leggenda di insuperabile bontà. © I.Ivan/fotolia

dini, è decisamente buono. Alba sembra sonnecchiare, compiaciuta del suo benessere, del suo ordine e della sua pulizia, come molte altre cittadine, da queste parti. La sensazione è che il turista venga accolto con moderato entusiasmo, perché è come se i locali avessero paura di vedere in qualche modo svilito o violato il loro amato territorio. Questo territorio è un patrimonio. Il forestiero è un ospite. Dopo aver camminato per la cittadina, esserti seduto a sorseggiare una buona gazzosa – non è blasfemia: per il vino verrà il momento, e ce ne sarà più d’uno –, decidi di avviarti sulla strada che porta al Castello di Roddi. Il paese di Roddi, un migliaio di abitanti, è noto per ospitare l’unica università al mondo per cani da tartufo, fondata centoventi anni fa da un abitante del posto. Il castello, che domina il paese, è stato costruito nel quattordicesimo secolo, su resti probabilmente risalenti ad almeno duecento anni prima, dalla famiglia albese dei Falletti di Barolo; fa parte di un circu-

ito di otto castelli, i Castelli doc, assieme a quelli di Barolo, Govone, Mango – altra località cara a Fenoglio –, Benevello, Grinzane Cavour, Magliano Alfieri e Serralunga d’Alba. Ricordati che sarà possibile tornare a visitarlo soltanto tra maggio e ottobre. Dal castello di Roddi, allora, decidi – probabilmente per la fascinazione del nome – di puntare verso Grinzane Cavour. Grinzane ha avuto l’onore di vedere sindaco del paesino proprio il Conte, per circa diciott’anni, tra il 1832 e il 1850. Camillo Benso sperimentò, nel castello di proprietà della sua famiglia e nei suoi territori, tutta una serie di nuove tecnologie in cantina. Oggi, il castello è famoso, tra le varie ragioni, sia per via del premio letterario caduto, ahinoi, recentemente in disgrazia (ma si riprenderà, va da sé), sia per essere la sede dell’Enoteca Regionale Piemontese – è visitabile dalle 9.30 alle 19, da aprile a ottobre, e dalle 9 alle 18 da novembre a marzo; chiuso il mar-

tedì e tutto il mese di gennaio. Va detto che il castello è magnificamente conservato, sia negli esterni che negli interni. È un’esperienza che merita d’essere vissuta. È quasi ora di cena. È stata una giornata intensa, tra spettacolosi monumenti medievali e emozionanti ricordi letterari. Dove fermarsi? Decidi di domandare se, lì a Grinzane, nel castello, è possibile essere uno degli ospiti del famoso ristorante. Sei fortunato: c’è posto. Si rivela l’occasione per apprezzare i piatti tipici, cucinati dallo chef Alessandro Boglione (magistrali i plin di fonduta e tartufo nero), tra le massime promesse piemontesi, e per degustare vini sinceramente favolosi, dopo aver contemplato con emozione tutta una serie di bottiglie, in enoteca. Alloggi da quelle parti, in una delle dodici stanze del piccolo, ma elegante e accogliente Hotel Casa Pavesi. Si prospetta un’altra giornata di piacevole e rigenerante camminata per le Langhe, e per i paesi delle Langhe. Servirà dormire sodo. il turismo culturale

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weekend | a spasso per le langhe Sotto Una veduta di Barolo

Tra boschi e grandi vigne, ti puoi ritrovare a camminare per antiche fontane, punti panoramici e chiesette. Senti un po’ di stanchezza, a questo punto della giornata, ma t’accorgi, contemplando la natura, che niente più di questo può avvicinarti a un autentico stato di grazia

02econdo s giorno

Serralunga d'Alba Castiglione Falletto Barolo La Morra

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l programma della giornata prevede quattro visite. La prima, è interamente dedicata a Serralunga d’Alba, piccolissimo borgo medievale rimasto sostanzialmente intatto: ti perdi con piacere per le stradine e per i vicoletti del paese, emozionandoti al pensiero che cammini per un luogo riconosciuto tra i protagonisti della produzione di Barolo e per il restauro del castello del tredicesimo secolo, dovuto alla 80

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generosità del Presidente della Repubblica Luigi Einaudi. È un unicuum sul suolo nazionale, per via della sua struttura: è un donjon, con una torre circolare considerata, all’epoca, assolutamente d’avanguardia. All’interno, merita una menzione la visione degli affreschi del quindicesimo secolo, dedicati al martirio di Caterina d’Alessandria, nel Salone dei Valvassori. Da Serralunga, eccoti in marcia per Castiglione Falletto. La destinazione è l’antico maniero, a struttura quadrangolare, con giardino su due livelli sovrapposti. È il protagonista incontrastato d’un piccolissimo paese (neanche mille abitanti), che ospita, tra l’altro, una piacevolissima cantina, ai piedi del castello, nel piano interrato dell’edificio comunale. Gestita dal giornalista e chef Alan Tardi, è il classico crutin, ossia l’antica cantina un tempo classica d’ogni abitazione, destinata a conservare i pro-

pri prodotti. Vale la pena raccontare che è possibile regalarsi, nella Cantina di Castiglione, un’appagante degustazione di Barolo, Barbera e Dolcetto d’Alba. Si pranza così, volendo. È caldamente consigliato. A questo punto senti qualcosa di speciale, nell’aria. È l’irresistibile richiamo di Barolo. S’avvicina il momento d’una visita che ha – ammettiamolo – l’invincibile retrogusto del pellegrinaggio. Naturalmente non perdi l’occasione di scoprire e di apprezzare il Castello, complice la presenza dell’Enoteca Regionale del Barolo, della Biblioteca Storica (oltre tremila testi), ordinata da Silvio Pellico, e del Museo delle Contadinerie. Barolo è un paese che vive esclusivamente per il suo vino, e tutte le sue attività commerciali sono espressione della più raffinata cultura enogastronomica. Tutto intorno, il paese è circondato da vigneti.


IL MUSEO

Il Museo dei cavatappi Ma nel cuore di Barolo si annida una sorpresa, un luogo piccolo, unico al mondo, di autentica e sincera intelligenza: il sorprendente Museo dei Cavatappi. Si trova giusto in piazza Castello – è aperto tutti i giorni, eccetto il giovedì, dalle 10 alle 13 e dalle 14 alle 18.30 –, e ospita una collezione unica al mondo, completa di cinquecento esemplari, dal Settecento a oggi, di cavatappi provenienti da tutte le nazioni del pianeta e da diverse epoche storiche. E così si va dai “cavatappi sospesi” a quelli in ferro, ottone, osso, ebano, alluminio, bronzo, avorio, tartaruga; da quelli più

elementari a quelli più complessi. Da quelli tascabili a quelli multiuso. Da quelli a tema erotico a quelli a tema animale. Non mancano, last but not least, cartoline con cavatappi come soggetto. La sensazione è quella di una sfavillante dimostrazione dell’ingegno e della creatività dell’essere umano, che, a partire da un oggetto così semplice e d’uso così comune e quotidiano, ha saputo dare vita a creazioni sempre più sofisticate. Visitare questo museo è una vera e propria lezione di sociologia, oltre che di storia. www.museodeicavatappi.it

©ClaudioPenna/CuboImages

Per le stradine del piccolo paese di Barolo si fa fatica a incontrare turisti italiani: la maggioranza assoluta è composta da americani, inglesi, orientali e tedeschi, conquistati e rapiti dal favoloso spirito del posto e dalla felicissima opportunità di poter abbracciare una cultura enogastronomica unica al mondo, direttamente nel suo cuore. Da Barolo prendi e riparti alla volta di La Morra, paesotto che si staglia in una posizione invidiabile, sulla collina. E tornano in mente parole di Pavese. Queste: “Stavo in collina tutto il tempo. Ci camminavo sotto il sole, sui versanti boscosi. Dietro le Fontane, la terra era lavorata a campo e vigna, e ci andavo sovente, in certe conche riparate, a raccogliere erbe e muschi, mia antica passione di quando ragazzo studiavo scienze naturali. A ville e giardini io preferivo la campagna dissodata, e i suoi margini dove il selvatico riprende terreno”

(La casa in collina). È chiaro che tra le Langhe di Pavese, che visiterai domani, e quelle di La Morra, c’è qualche differenza. Qui non c’è quella fascinazione selvatica che aveva saputo indovinare l’artista di Santo Stefano Belbo; e tuttavia è piacevole riconoscere suggestioni seducenti, simili e analoghe. L’essenza è indubbiamente inalterata. Al di là del borghetto, che ricorda un poco Barolo, La Morra è la patria dei Sentieri del Vino. Sono sette percorsi differenti. Tra boschi e grandi vigne, ti puoi ritrovare a camminare per antiche fontane, punti panoramici e chiesette. Senti un po’ di stanchezza, a questo punto della giornata, ma t’accorgi, contemplando la natura, che niente più di questo può avvicinarti a un autentico stato di grazia. Scegli un sentiero breve – si fa per dire, comunque sono circa quattro chilometri – e poi, naturalmente, non puoi che aver

ritrovato il tuo appetito. Da quelle parti c’è il Ristorante Belvedere: si trova nell’antico castello di La Morra, già abitato dal poeta medievale Sordello da Goito, e offre, oltre alle spettacolari specialità del territorio, la possibilità di visitare la cantina. Qualcosa comincia a suggerirti che, in fin dei conti, il gran romanzo di Rex Pickett, Sideways, e il successivo film, non sono nient’affatto improbabili, come lezioni estetiche ed esistenziali. Ti stai avvicinando alla grande illuminazione. A dormire, dopo l’ennesima grande giornata, si va in un agriturismo a pochissima distanza dal ristorante: è un luogo da favola, si chiama Bricco dei Cogni, e può vantare, al di là dell’incanto romantico della posizione panoramica, camere arredate con mobili d’epoca. Come se non bastasse, è circondato da un giardino (con piscina) di singolare bellezza, nella sua essenzialità, molto curato ed elegante. il turismo culturale

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03erzo

t giorno

Sotto Cesare Pavese

Santo Stefano Belbo I Sentieri Pavesiani

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opo una squisita colazione, ti ritrovi in testa una descrizione che sembra una poesia. È questa, e suo padre è il poeta e il narratore de La Luna e i falò, Cesare Pavese da Santo Stefano Belbo: “Già in altri tempi si diceva la collina come avremmo detto il mare o la boscaglia. Ci tornavo la sera, dalla città che si oscurava, e per me non era un luogo tra gli altri, ma un aspetto delle cose, un modo di vivere. Per esempio, non vedevo differenza tra quelle colline e queste antiche dove giocai da bambino e adesso vivo: sempre un terreno accidentato e serpeggiante, coltivato e selvatico, sempre strade, cascine” (La casa in collina). E così, prendi la macchina e vai, verso est, ai margini delle Langhe, a omaggiare la madrepatria dell’artista, e scopri che la sua cittadina ha ben predisposto un museo dedicato alle sue opere e alle sue esperienze biografiche. Santo Stefano Belbo è esattamente come lo immaginavamo: “quattro tetti”, grande semplicità, pochissimi abitanti, un sincero culto e un autentico rispetto per il loro grande concittadino, morto suicida nel 1950. Il comune offre la possibilità di vivere un percorso turistico per i luoghi di riferimento della narrativa pavesiana; e tuttavia è un peccato privarti della possibilità di andare per le strade del borgo e per i campi completamente soggiogato dalle reminiscenze e dalle suggestioni pavesiane, secondo un tuo percorso indivi82

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duale. Cesare scriveva che “un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Ma non è facile starci tranquillo” (La luna e i falò). Questa sua scarsa tranquillità è stata una delle ragioni della sua altrimenti imprevedibile e incomprensibile grandezza: è sinceramente sbalorditivo pensare che in un contesto così periferico e ultraprovinciale si sia fondata l’immaginaria patria di un’intelligenza e una sensibilità letteraria come la sua. Santo Stefano Belbo prevede tre Sentieri Pavesiani: la Collina della Gaminella, la Collina del Salto, la Collina dei Mari del Sud. È l’occasione per provare la suggestione di andare per i luoghi che hanno plasmato e forgiato la sua visione della realtà. Dopo aver festeggiato le terre del Barolo, e dopo aver assaggiato tutte le varietà pos-

sibili del gran vino delle Langhe, in questo paesotto potrete apprezzare la presenza della vite da cui deriva il Moscato d’Asti. È l’occasione, insomma, per una apprezzabile variazione sui vostri abbinamenti: è un gran vino da dolce, e quindi è saggio e opportuno che nel corso delle vostre degustazioni scegliate qualcosa di degno. Niente consigli, stavolta. Per il pranzo, ultima tappa della nostra breve, ma folgorante esperienza nelle Langhe, scegli un ristorante di cui hai sentito parlare un gran bene. Si tratta di Guido da Costigliole, con una signora cantina da trentacinquemila bottiglie, autentica perla della ristorazione piemontese. Si trova all’interno del Relais San Maurizio, un convento cistercense completamente restaurato. Si mangia nelle antiche cantine del monastero: tra le specialità, vitello tonnato, i formidabili agnolotti di Lidia e il parfait al tartufo d’Alba. Davvero difficile pretendere di più da un fine settimana.


piemonte

provincia di cuneo

Ristorante Belvedere La Morra

La Ciau del Tornavento

Le Masche

Uno degli scenari più suggestivi dell’intera regione è quello che ospita il Ristorante Belvedere, con vista mozzafiato sulle Langhe. Si trova nell’antico castello di La Morra, già abitato da Sordello da Goito. La cucina è consacrata alle tradizioni locali; tra le specialità, gli agnolotti ai tre arrosti e il filetto con coppa di fungo porcino. In stagione, non perdete i tartufi bianchi d’Alba. Notevole, e degna di approfondita visita, la cantina.

A pochi chilometri da Alba, in un ex asilo costruito durante il Ventennio, con balcone panoramico sulla meravigliosa natura langarola, si trova il caratteristico e ricercato La Ciau del Tornavento. L’ambiente è eccezionalmente spazioso e curato; la cucina punta sia sulle grandi materie prime del territorio, sia su un pizzico di ricercatezza internazionale. Eccellenti gli agnolotti del plin, servizio cortese e vini all’altezza della fama delle colline.

Regione che vai, leggenda che trovi. La più sinistra e romantica, da queste parti, testimone di un passato tutt’altro che turistico e sontuoso, è quella delle masche, streghe dalle incredibili capacità maligne, tramandate di madre in figlia, non sempre bellissime e considerate responsabili di eventi negativi o almeno irrazionali: dai disastri naturali a quelli lavorativi, passando per i problemi del parto. Si dice fossero molto solitarie e – curiosamente – molto rispettate.

Piazza Castello, 5 -12064 La Morra (CN) Tel. 0173.50190 www.belvederelamorra.it Prezzo medio: € 25 (bevande escluse) Chiuso la domenica sera e il lunedì

Piazza Baracco, 7 - 12050 Treiso (CN) Tel. 0173.638333 www.laciaudeltornavento.it Prezzo medio: € 70 (menu degustazione bevande escluse) Chiuso il mercoledì e il giovedì a pranzo

© Stefano Pertusati

Wi-Mu: il Wine Museum di Barolo Inaugurato il 12 settembre nel Castello Comunale Falletti, quello di Barolo è il più innovativo museo del vino d’Italia. Nelle sue 25 sale, schermi, fumetti ed effetti speciali celebrano non solo il “re delle Langhe”, ma la millenaria storia del vino, ricordandone l’importanze nei diversi culti e il suo ricorrere da sempre nelle arti. Il museo ricorda anche i personaggi illustri che lo hanno abitato, come la marchesa Giulia Colbert e Silvio Pellico, che del castello fu bibliotecario. www.wimubarolo.it

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puglia pinacoteca de nittis

lo sguardo impressionista La Pinacoteca Giuseppe De Nittis Eleganti signore alle corse, salotti aristocratici, frammenti di una Parigi innevata, paesaggi meridionali e delicate scene d’intimità familiare: tra il blu dell’Adriatico e la pietra lustra delle strade di Barletta, il tocco del più grande impressionista italiano nello scrigno barocco di Palazzo Della Marra di William Dello Russo

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puglia | pinacoteca de nittis

“B

arletta fu destructa per la inimicizia de li barlettani” è l’enigmatica iscrizione che si legge sul retro della Cattedrale. Una frase che condensa molto della storia di questa cittadina, la cui celebre Disfida non è che uno dei tanti fatti d’onore e di sangue che ne hanno costellato la storia. Fu a causa del tradimento dei Della Marra, barlettani, che nel 1528 la città venne presa e saccheggiata dai francesi, nell’ambito della secolare contesa con gli spagnoli sul suolo italico. Ma, come spesso accade nelle grandi dinastie che hanno segnato la lunga storia della Penisola, il desiderio di potere non fu disgiunto dal mecenatismo e dall’amore per le arti. Una dimora barocca tra i vicoli medievali

Arrivare a Palazzo della Marra percorrendo una delle “sette rue” (strade) che scendono al mare, oppure imboccando via Cialdini, l’antica via delle Carrozze, produce una curiosa sensazione, quella cioè di trovarsi come per magia in un angolo di Lecce trapiantato in Terra di Bari. Chi ha avuto la fortuna di perdersi tra le fantasmagorie barocche dei palazzi e delle chiese leccesi non avrà difficoltà a riconoscervi quell’estro creativo, e un po’ bizzarro, che ha caratterizzato una stagione felicissima per la Puglia. In realtà, ben prima che Cesare Penna, il “visionario” scultore che lavorò a Lecce alla facciata della Basilica di Santa Croce, animasse la decorazione del palazzo, nello stesso luogo, già in età gotica, esisteva un edificio orientato verso il mare, di cui non rimangono che scarsi resti. Per incontrare la prima notizia certa sull’attuale dimora bisogna portarsi indietro fino alla seconda metà del XVI secolo, quando risultava di proprietà di Lelio Orsini. Il nobile abruzzese provvide, negli ultimi decenni del Cinquecento, alla ristrutturazione del palazzo, utilizzando la pietra proveniente dall’isola di Curzola e dalle cave leccesi, nonché allo spostamento dell’accesso principale, dal prospetto a mare alla strada attuale. Dopo un cambio di proprietà, l’edificio passò nelle mani dei della Marra, potente famiglia barlettana: fu Vincenzo, a par86

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tire dal 1633, a convertirla nelle forme che tuttora conserva, coltivando l’ambizione di trasformare il palazzo rinascimentale in una dimora al livello di quelle dell’aristocrazia napoletana. Estintasi tuttavia la dinastia ai primi del XVIII secolo, il palazzo, con i suoi circa trenta ambienti, divenne proprietà del marchese Niccolò Fraggianni, con il quale si arricchì di una pregevole collezione di pittori seicenteschi e di una fornita biblioteca, aprendo le sue porte a ricevimenti sontuosi. Le sorti successive non furono delle migliori: solo grazie all’appassionato mecenatismo di Donato Ceci il Palazzo della Marra poté sfuggire al crollo, causato dall’incuria e dalla pericolosa infiltrazione di acque sotterranee; e soltanto nel 1959 entrò finalmente a far parte del

demanio pubblico, con l’obiettivo di farne la sede della Pinacoteca, la cui realizzazione avrebbe attraversato mille difficoltà e intoppi burocratici. Colpisce dapprima l’alta fascia a bugnato a grossi conci che circonda il palazzo come un nastro, inquadrando il portale; un allegro festone di puttini danzanti e musicanti corre lungo la cornice superiore, ritmando le lettere che compongono il nome della casata. La pietra consunta delle colonne del portale ricorda la fragilità di questo materiale, costantemente soggetto all’usura del tempo, del sole e dei venti. Due finestre si aprono nella balconata superiore sostenuta da cinque mensole raffiguranti mostri, grifi e teste di cane; sopra i loro timpani spezzati due grandi aquile spie-


LA STORIA gano le ali, sotto le quali si dispongono putti alati; sopra la colonna è scolpito lo stemma di famiglia. Ai lati della colonna centrale due fauni barbuti guardano sull’altro lato della finestra due faunesse, una giovane e procace, l’altra vecchia e grinzosa, in una tradizionale allegoria delle età. Una cornice finemente cesellata, che finge un merletto, chiude la balconata. Più semplice si presenta la finestra superiore, dai timpani scolpiti. Dall’oscurità dell’androne, la cui volta convessa è affrescata con due episodi mitologici (a sinistra si riconosce il Rapimento di Ecuba, a destra la Lotta tra Centauri e Lapiti), si esce nella luminosità del cortile, su cui si erge il monumentale porticato, a tre ordini sovrapposti di arcate a tutto sesto. La scenografica scalinata con-

I Della Marra Una storia familiare di almeno mille anni è quella dei della Marra, che hanno legato indissolubilmente il loro nome alla più sontuosa dimora di Barletta. Tra gli esponenti più illustri vi fu Onorio I, pontefice del VII secolo. E poi medici, uomini di chiesa, giureconsulti, mecenati e amanti delle lettere e delle arti. Divennero tuttavia potentissimi grazie all’esazione delle tasse per il sovrano: un intero quartiere di Barletta portava il loro nome. E tra le loro fila non mancarono mai uomini d’arme e capitani di ventura, la cui fama di personaggi sanguinari è ricordata anche da Giovanni Boccaccio.

duce al primo piano, la cui loggia con volte a crociera è impreziosita da affreschi di scuola napoletana, probabilmente della metà del XVII secolo. Incuriosiscono i plinti delle colonne, scolpiti con busti di imperatori romani. Questo livello è riservato alle esposizioni temporanee, mentre la Pinacoteca è ospitata nelle sale del palazzo che si snodano al secondo piano. Lungo il lato che guarda il mare si apre la maestosa loggia, dalla quale si può godere di uno straordinario panorama, che spazia dalle alture garganiche a buona parte della costa adriatica. Ognuna delle cinque campate di cui si compone la loggia consta di una copertura a crociera e di un portale finemente scolpito, la cui decorazione, incentrata su figure allegoriche, si addensa soprattutto sui timpani. il turismo culturale

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biografia

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Giuseppe De Nittis Nato a Barletta il 25 febbraio 1846, “Peppino” perse presto i genitori, ritrovandosi quattordicenne con i fratelli a Napoli, attratto dalla natura selvaggia e mosso da uno spirito antiaccademico che lo portò a dipingere en plein air, diventando uno degli animatori della Scuola di Resina. Cominciò subito a intrecciare quei legami con pittori, mercanti e critici d’arte che avrebbe coltivato per tutta la vita: Adriano Cecioni, Adolphe Goupil, i Macchiaioli fiorentini e, dopo il definitivo trasferimento a Parigi nel 1868, Diego Martelli, édouard Manet, Telemaco Signorini, Edgar Degas, Berthe Morisot ecc. L’incontro con Léontine Gruvelle lo segnò per sempre: alla donna il pittore sarebbe rimasto legato per tutta la sua esistenza e da lei avrebbe avuto il figlio Jacques. La partecipazione alla Prima

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Mostra degli Impressionisti nello studio di Nadar (1874) marcò una svolta decisiva nel suo orientamento artistico, sempre più a macchie di colore e svincolato all’aderenza al dato reale. Nello stesso periodo s’infittirono i rapporti con il mondo letterario francese: Edmond de Goncourt, Alphonse Daudet, Alexandre Dumas figlio, émile Zola, Guy de Maupassant, in un crescendo di riconoscimenti per la sua arte, che raggiunse presto quotazioni ben più elevate di quelle degli Impressionisti. Il legame con la sua città natale non venne mai meno, alternando la vita parigina e la permanenza londinese ai viaggi a Firenze e a soggiorni più o meno lunghi a Barletta. Il destino era tuttavia in agguato, e un’emorragia cerebrale si portò via appena trentottenne lo straordinario “impressionista pugliese”.


Un sogno lungo un secolo

Quando, il 31 marzo 2007, si inaugurava la Pinacoteca in Palazzo della Marra si chiudeva finalmente una delle più lunghe e spiacevoli ferite al patrimonio artistico italiano, alla memoria e alla generosità di un illustre italiano. Da quando, nel 1912, la vedova di De Nittis, Léontine Gruvelle, aveva donato alla comunità barlettana tutte le opere rimaste nell’atelier dell’artista, lungaggini amministrative e dimenticanze, sommate all’abbandono e alla fatiscenza del palazzo, avevano costretto la collezione a un lungo peregrinare, prima in una scuola elementare, poi presso il Palazzo San Domenico, quindi nelle sale del Castello, con una parentesi a Castel del Monte, in periodo bellico. Appariva stridente il contrasto tra il crescente suc-

cesso e la rivalutazione critica dell’artista, dovuti anche alle tournées dei dipinti barlettani in giro per l’Europa, e l’impossibilità di godere dell’opera denittisiana nella sua amata città natale. Ammontano a duecentoundici le tele, gli acquerelli, i pastelli, i disegni e le acqueforti donati al Comune di Barletta, che la vedova De Nittis aveva custodito per oltre trent’anni dalla morte del marito, trattenendosi dal venderli anche nei più bui momenti di difficoltà economica. Soltanto una parte di questo corpus, la più significativa, ha trovato collocazione nelle sale del secondo piano di Palazzo della Marra, assecondando una presentazione tematica piuttosto che cronologica, che raggruppa intorno ai temi centrali della poetica dell’artista opere tra loro anche distanti nel tempo.

Sopra Il salotto della principessa Matilde, Giuseppe De Nittis, 1883, olio su tela

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INFORMAZIONI

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Pinacoteca Giuseppe De Nittis

Palazzo Della Marra Via Cialdini, 74 70051 Barletta (BA) Tel. 0883.538372 www.pinacotecadenittis.it Orari: dal martedì alla domenica dalle 10.00 alle 20.00 (la biglietteria chiude alle 19.15) Giorno di chiusura: lunedì

“Cieli, cieli soltanto, e belle nubi”

Sin dagli esordi De Nittis partecipò attivamente a quel clima culturale che, nella seconda metà dell’Ottocento, spinse progressivamente i pittori fuori dall’atelier portandoli a dipingere all’aria aperta. “A volte, felice, restavo sotto gli improvvisi acquazzoni. Perché, credetemi, l’atmosfera io la conosco bene e l’ho dipinta tante volte. Conosco tutti i colori, tutti i segreti dell’aria e del cielo nella loro intima natura” dichiarò più tardi. Solo in quest’ottica si possono spiegare i vibranti effetti della luce che filtra attraverso le nubi in Procella (1868), in Lungo l’Ofanto (1870) e in Foschia (1871), accompagnati da un nutrito gruppo di Studi di nubi. In queste opere lo stile netto e polito degli esordi lascia precocemente il campo a una visione “pre-impressionistica” della realtà, in cui è proprio l’indefinitezza a creare la suggestione. Fu tra Barletta e Napoli che si compì la formazione artistica del pittore il quale, annoiato dagli sterili insegnamenti dell’Accademia di Belle Arti, finì per vagare dalla campagna al mare, dal Vesuvio all’Ofanto, rapito dalla desertica bellezza di alcuni paesaggi meridionali (Paesaggio sotto il sole, 1872), dagli esaltanti fenomeni naturali (Eruzione del Vesuvio [II], 1872), dal “romanticismo” delle tempeste, come in Mare in burrasca (1877), dalla vivace spontaneità dei popolani. Ma anche i treni, con il “moderno” sbuffo della locomotiva che risvegliava l’arcana campagna, costitu90

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“A volte, felice, restavo sotto gli improvvisi acquazzoni. Perché, credetemi, l’atmosfera io la conosco bene e l’ho dipinta tante volte. Conosco tutti i colori, tutti i segreti dell’aria e del cielo nella loro intima natura”

irono un motivo per un’indagine sull’evanescenza del vapore, come nell’eccezionale tela intitolata Passa il treno (1878-79) e anche in Incrocio di treni (1884). Faceva notare precocemente un critico del tempo come il genio di De Nittis fosse in grado di cogliere “con la stessa passione la Strada di Castellammare e il Tunnel di Charing Cross”. Un ventenne appena ricettivo non poteva che esaltarsi all’impatto con la città moderna, incarnata in quegli anni al massimo grado da Parigi,

che De Nittis avrebbe amato per tutta la vita, nonostante le iniziali difficoltà. Non più i palazzi di pietra delle città medievali, ma le strutture in ghisa della metropoli ottocentesca in tumultuosa crescita (Ponte sulla Senna, 1876; Cantiere, 1883), i volti della borghesia come scrutati dai finestrini delle carrozze (In fiacre, 1883). Ma anche Londra, la metropoli che lo accolse a braccia aperte, gli scatenò sensazioni uniche, che avrebbe riversato sulla tela con enfasi tale da far esclamare a un


critico che le sue vedute erano “così vere da far venire lo spleen”, come nel profilo inconfondibile dello skyline londinese immerso nella nebbia di Westminster Bridge (1878). L’uso del pastello, tecnica sperimentata con successo da De Nittis, enfatizza la volatilità delle sensazioni e la morbidezza del segno (Paesaggio con cigni, 1881). Il bianco puro, assoluto della neve trionfa nella sezione successiva, ricca di oli e pastelli che testimoniano il fascino che

questo fenomeno naturale esercitò su di lui: accanto a Tramonto nebbioso (1876), Passeggiata invernale (1879) e Passeggiata in slitta (1880), due autentici capolavori di composizione e concentrazione sono Effetto di neve e Presso il lago, entrambi del 1880. Nel primo, in particolare, protagonista della superficie dipinta è il manto nevoso, contro cui si ritaglia, quasi fosse una silhouette giapponese, l’incisivo profilo della donna seduta e immersa in meditazione.

Sopra Colazione in giardino, Giuseppe De Nittis, 1884, olio su tela

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Il peintre des parisiennes

L’affermazione sociale e artistica di De Nittis passò anche attraverso la celebrazione dei riti in cui si identificava la modernità borghese tardo ottocentesca, primo tra tutti quello delle corse dei cavalli. Se ne Le corse a Longchamp (1883) il punto di vista distanziato getta uno sguardo “documentario” sulla brulicante frenesia della competizione, nel capolavoro inti92

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tolato Alle corse di Auteuil – Sulla seggiola (1883) si fa palpabile la tesa concentrazione dei due protagonisti: la donna è addirittura salita su una sedia per cogliere al meglio il guizzo del suo cavallo. E si resta stupefatti dalla maestria tecnica che, accanto all’uso impressionistico del colore, indugia con piacere sui dettagli più tangibili di una borghesia compiaciuta del suo status sociale.

De Nittis è però anche il cantore dell’intimità domestica, della gioia della vita coniugale. È Léontine stessa l’incarnazione dell’ideale femminile, una donna elegante e seducente, mondana e raffinata, così come trapela in Figura di donna (1880) e in quella formidabile sinfonia di tinte pastello che è Giornata d’inverno. Ritratto della signora De Nittis (1882), molto ammirato da de Goncourt, tutto


Pagina a fianco Signora napoletana, Giuseppe De Nittis, olio su tela A destra Figura di donna, Giuseppe De Nittis, 1880, olio su tela

giocato sul contrasto tra il glaciale biancore nevoso e il tiepido bianco dell’abito. La donna fu per lui non solo compagna di vita, ma modella, confidente e una sorta di “braccio destro” nell’ascesa sociale. Ma forse non c’è dipinto che abbia celebrato l’intimità domestica ottocentesca meglio di Colazione in giardino (1883), i cui singoli pezzi di natura morta, “ritratti” con amore indicibile e intrisi di luce primaverile, si ricompongono in un universo di delizie familiari, in cui sembra di poter partecipare alla grazia del bien vivre nel villino di rue de Viète, nell’elegante quartiere parigino di Monceau, in cui la coppia si era trasferita nel 1880. Rattrista scoprire che un altro delizioso quadretto d’intimità familiare, Sull’amaca (1884), sia stato anche l’ultimo dipinto dall’artista prima di morire. Come contraltare alla tranquillità domestica, la frenesia della vita parigina esplode nella penultima sezione, anch’essa incentrata sull’universo femminile. Ne Il salotto della principessa Matilde (1883) pare quasi di udire il brusio delle chiacchiere e la musica di sottofondo in questo ambiente brulicante di gente del bel mondo, elegante e spensierata. E i toni carichi, tutti giocati sui rossi e sui gialli, evocano opulenti salotti ingombri di tappeti, tendaggi, tessuti, grossi dipinti e fiori. La stessa abitazione dei De Nittis divenne uno dei più ambiti salotti parigini dell’epoca, gremiti di artisti e letterati che, peraltro, andavano pazzi per i maccheroni preparati personalmente dal pittore. La visita nella Pinacoteca si chiude con una serie di ritratti, in cui il pittore riuscì a cogliere con fresca immediatezza i tratti di un volto. All’uscita, con gli occhi pieni dei suoi dipinti e della gioia infusa da essi, ritornano alla mente le parole stesse di “Peppino”: “è la vita per la quale sono nato: dipingere, ammirare, sognare”. E non possiamo che essere d’accordo con lui. il turismo culturale

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Itinerario

Due chiese “segrete” a Barletta Una passeggiata alla scoperta dei luoghi storici della città, addentrandosi nei vicoli che portano alla Chiesa di Sant’Andrea Apostolo e alla Chiesa dei Greci

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mpossibile a Barletta evitare di far visita al Castello, alla Cattedrale e al Santo Sepolcro, risucchiati in un dedalo di viuzze dal sapore medievale che sanno tanto di mare. Così com’è difficile resistere al richiamo di farsi scattare una foto sotto il Colosso, la misteriosa scultura bronzea alta oltre 5 metri, ancora in cerca di un’identità. Nel Castello si può avere, provando una certa soggezione, l’incontro ravvicinato con l’unico ritratto riconosciuto dell’imperatore Federico II; la Cattedrale di Santa Maria Maggiore è uno straordinario concentrato di architettura romanica e gotica, le cui fasi sono facilmente individuabili; la Basilica del Santo Sepolcro evoca, nella sua arcana atmosfera e nell’articolata struttura, la presenza dei Templari a Barletta. Ma poche guide turistiche vi condurranno nella Chiesa di Sant’Andrea Apostolo, gioiellino seminascosto tra i vicoli nei pressi della Cattedrale, sopraelevato su un’alta scalinata. La profonda strombatura del portale s’interrompe poco sotto l’architrave, lasciando scoperta la lunetta raffigurante una Deesis, la tipica iconografia bizantina che prevede la presenza del Cristo Giudice affiancato dalla Vergine e da san Giovanni Battista, databile al XIII-XIV secolo. L’interno della chiesa a tre navate, recentemente sottoposto a un lavoro di restauro, denuncia il suo rifacimento in età tardo rinascimentale (la consacrazione 94

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avvenne nel 1592) sul luogo della più antica Chiesa del Santissimo Salvatore. Un’autentica scoperta è il primo altare della navata sinistra: all’interno di un ricco fastigio ligneo intagliato è una splendida tavola firmata e datata “Alvise Vivarini 1483” raffigurante la Madonna in trono con Bambino. Un’altra tavola quattrocentesca è sull’altare successivo: si tratta di un Sant’Antonio, attribuito ancora al Vivarini. Una bella Madonna del Soccorso (seconda metà del XVI secolo) occupa l’altare maggiore, ma la sorpresa più grande è nella Cappella delle Reliquie, sul fondo della navata destra, che conserva un prezioso altare suddiviso in ventiquattro nicchie contenenti busti di santi in legno dorato; altri tre busti si

collocano sul fastigio al di sopra di una bella tavola tardo cinquecentesca. Non occorre fare molti passi per raggiungere, in via Santa Maria degli Angeli, un pezzo d’Oriente in Terra di Bari: la Chiesa greca è una eccezionale testimonianza della presenza ellenica in città. L’iconostasi, la parete che nelle chiese ortodosse separa l’area destinata ai fedeli da quella sacra, riservata all’officiante, è un vero e proprio “mosaico” di icone bizantine, alto ben dieci metri. Tra le icone più antiche e preziose, quelle dipinte nella seconda metà del XVI secolo da Thomàs Bathàs (Cristo Pantocrator e Madonna Odegitria). Le restanti icone sono state realizzate entro il XIX secolo.


puglia

barletta

Bed & Breakfast Saint Patrick Una vera guest house nel cuore del centro storico di Barletta. Cinque ampie camere ispirate ai grandi della letteratura irlandese (tra cui Beckett, Joyce, Wilde), arredate con grazia e cura rare, mescolando alle antiche atmosfere qualche elemento di design. Della proprietà fanno parte anche il noto risto-pub le cui specialità, oltre alle birre, sono le carni provenienti da tutto il mondo. Corso Garibaldi, 145 70051 Barletta (BT) Tel. 0883.880748 www.saint-patrick.it Prezzo camera doppia: a partire da € 60

La Battaglia di Canne

Antica Cucina 1983

Il 2 agosto 216 a.C., a quindici chilometri da Barletta, precisamente a Canne, tra le sponde dei fiumi Fortore e Ofanto, si combatté una delle più cruenti battaglie di sempre: protagonisti di quella campagna militare furono l’esercito romano, guidato dai due consoli Lucio Emilio Paolo e Terenzio Varrone, e quello cartaginese, guidato da Annibale. Grazie alla sua abilità, il condottiero sconfisse i Romani nonostante avesse un contingente di fanti inferiore. Quel territorio è oggi selvaggiamente offeso da una stazione di servizio nonostante costituisca una delle più rilevanti aree archeologiche italiane.

L’ambientazione è sobria: sembra quasi di mangiare in casa propria! E la cortesia del patron Lello è una vera sorpresa. Ecco un menu ideale: veli di pesce crudo filati d’olio e agrumi o frittura di ortaggi come antipasti; strascinati con bietole, coste di zucchina e ricotta marzotica o ruote pazze con battuto di pesce in bianco e capperi come primi; tonno arrosto su fondo di cipolla rossa d’Acquaviva o il pescato del giorno come secondo. Via Milano, 73 - Barletta (BT) Tel. 0883.521718 - www.anticacucina1983.it Prezzo menu degustazione: a partire da € 30 (bevande escluse). Chiuso il lunedì e il martedì e la sera dei giorni festivi

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fortezze d’autore Le architetture difensive marchigiane di Francesco di Giorgio Martini

Da oltre cinque secoli costellano il Montefeltro e la Valle del Metauro. Dall’alto di speroni rocciosi e situate in posizioni strategiche si guardano tra loro fiere, ma senza più l’aspetto minaccioso di una volta. Sono le fortezze progettate da Francesco di Giorgio Martini, innovatore dell’ingegneria militare nel Rinascimento di Paola Biribanti

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el periodo altomedievale, la lontananza delle Marche rispetto al centro del potere imperiale favorì il sorgere di autonomie comunali, che, tra il Trecento e il Quattrocento, portarono alla nascita di stati autonomi retti da famiglie in lotta tra loro, tra cui si distinsero, per litigiosità e potenza, i Malatesta, i Montefeltro e i Della Rovere. Di qui l’abbondanza di rocche e castelli nella regione, che fu per molto tempo un 96

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fertile terreno di sperimentazione per i più validi e audaci architetti militari dell’epoca. Filippo Brunelleschi, Matteo Nuti, Luciano Laurana, Baccio Pontelli sono solo alcuni dei nomi più celebri che s’incontrano nella storia della progettazione delle fortificazioni della zona. E, tra tutti, ce n’è uno che ricorre con più frequenza degli altri, quello di Francesco di Giorgio Martini, fido collaboratore di Federico

Sopra Una veduta dalla rocca di San Leo


da Montefeltro, nominato dal pontefice duca e gonfaloniere della Santa Sede per la sua alleanza con il papa nella lotta contro l’espansione malatestiana. Per il duca, Martini operò non solo come architetto militare, civile e religioso, ma anche come ambasciatore e coadiutore nelle imprese belliche che, allo scorcio del Quattrocento, mettevano in luce come stesse cambiando il modo di fare la guerra. Nel 1453, durante l’assedio turco

di Costantinopoli, il sultano Maometto II aveva infatti impiegato per la prima volta un gigantesco pezzo d’artiglieria per abbattere le mura avversarie, segnando così l’ingresso del cannone nella storia dell’Occidente. Da quel momento, anche in Italia le armi da fuoco iniziarono a essere utilizzate in modo sempre più massiccio, inducendo sovrani e signori a rivedere le proprie strategie difensive, ad adeguare alle

nuove esigenze le strutture preesistenti e a ordinarne la costruzione di nuove. Nel Montefeltro e nella Valle del Metauro, tra una moltitudine di rocche, in alcuni casi in sorprendente stato di conservazione, è ancora possibile osservare l’opera di Francesco di Giorgio Martini e apprezzare quella felice unione di gusto per il decoro, funzionalità e cognizioni tecniche, che ne ha fatto un maestro del Rinascimento italiano. il turismo culturale

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Francesco di Giorgio Martini: scultore, pittore, architetto

Francesco di Giorgio Martini nacque a Siena nel 1439 da una famiglia di origine contadina. Secondo il primo documento sicuro conosciuto, in cui lo si qualifica come “pittore”, nel 1464 era impegnato in un “Santo Giovanni di rilievo” per la Compagnia di San Giovanni della Morte. In base all’analisi delle opere e dei documenti successivi, si può dedurre che, negli anni della formazione, subì l’influenza di Lorenzo di Pietro detto il Vecchietta, pittore, architetto militare e fonditore, e di Mariano di Jacomo detto il Taccola, autore di un trattato di archi98

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tettura militare e tecnologia pratica. A Siena si applicò in opere diversissime, che subito ne misero in risalto la versatilità – tra il 1469 e il 1470 curò la manutenzione degli acquedotti cittadini; nel 1472 terminò la grande pala dell’Incoronazione per la Chiesa di Santa Caterina (oggi nella Pinacoteca Nazionale di Siena) e, tra il 1470 e il 1476, un angelo in noce per la Chiesa di Santa Maria della Scala (perduto) –, caratteristica questa che dovette impressionare positivamente Federico di Montefeltro, al soldo del quale lo si ritrova a partire dal 1477. Come confermato anche dal Vasari (Vite) e da Giovanni Santi (Cronaca rimata),


approfondimento

Il Trattato di architettura civile e militare Summa dell’esperienza di architetto di Francesco di Giorgio Martini è il suo Trattato di architettura civile e militare, a cui iniziò a lavorare dopo il 1482, presso la corte del duca di Urbino. Indicato tradizionalmente come il “Leonardo senese”, Francesco di Giorgio, per quanto abbia condiviso con il maestro vinciano il problema della struttura fortificata alla luce della diffusione delle nuove armi da fuoco, ne risulta assai lontano per l’organicità della trattazione dell’argomento – gli scritti di Leonardo sono notoriamente disordinati, tipici di chi non è sfiorato dal problema della didattica – e per l’essersi posto il problema del pubblico a cui comunicare le proprie conoscenze. L’abbondanza di progetti e di disegni, inoltre,

quelli urbinati furono anni cruciali per l’attività del Martini, il cui “tocco” è ravvisabile in alcuni interventi nella Chiesa di San Bernardino, nel Duomo e nel Palazzo Ducale, lasciato interrotto dall’architetto dalmata Luciano Laurana, partito da Urbino alla metà del 1472. Gli anni fino al 1482 (quando il duca morì), a cui risale la rocca di Sassocorvaro, uno dei suoi capolavori ingegneristici, furono particolarmente movimentati, portandolo a lavorare, in vari ruoli, tra Urbino e Siena. Nel 1478, infatti, scoppiò la guerra tra i Fiorentini e uno schieramento costituito dal papa, Alfonso d’Aragona, il duca di Urbino e Siena, durante la quale

il Martini si trovò ad affiancare il duca nelle operazioni guerresche, e ad avvicinarsi così all’architettura militare. Al periodo risalgono due opere fondamentali della sua produzione: il progetto della rocca di Cagli e la prima stesura del Trattato di architettura civile e militare. Dalla morte del duca al 1489, quando, cinquantenne, tornò a stabilirsi definitivamente a Siena cedendo alle pressioni del nuovo governo cittadino capeggiato da Pandolfo Petrucci, il Martini alternò, al soggiorno urbinate, numerosi viaggi a Gubbio, Siena, Ancona, Chianciano, Jesi, e Cortona, dove, per invito di Luca Signorelli, compì la Chiesa di Santa Maria delle Grazie al Calcinaio (1484-1485). Da quel momento i viaggi per la Penisola aumentarono di numero e di durata: andò a Milano – dove incontrò Leonardo e collaborò alla costruzione del tiburio del Duomo –, a Pavia e a Napoli; e si divise tra vari e prestigiosi committenti, come i D’Aragona e i Della Rovere. Tornato a Siena, si spense nel 1502.

rende particolare il trattato, facendolo distinguere dalle opere coeve di tematica affine, come De re aedificatoria di Leon Battista Alberti o il Trattato di architettura di Filarete. Se a quelli lo accomunavano l’intenzione di rifarsi all’antico e il vagheggiamento della città ideale, da quelli si differenziava per la consapevolezza forte dell’hic et nunc e per la coscienza di un’urgenza storica che induceva a mettere in discussione i traguardi raggiunti sino a quel momento. I setti libri in cui il trattato è diviso affrontano anche l’architettura civile e religiosa, ma si concentrano essenzialmente sul modo di fabbricare fortezze e su come corredarle. E, in ogni parte dell’opera, il tecnico non si rivela certo inferiore all’artista.

A sinistra La Rocca Ubaldinesca di Sassocorvaro

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dove... Il Montefeltro marchigiano Sassocorvaro Monte Cerignone San Leo Sant’Agata Feltria

La valle del metauro Fossombrone Frontone Mondavio Cagli

Il Montefeltro: San Leo ...

Immaginando un weekend alla scoperta delle fortificazioni di Francesco di Giorgio Martini, si può pensare di soggiornare a Pesaro o a Fano. Accarezzate entrambe dal mare, la cui vicinanza rende più dolci i rigori dell’inverno che avanza; e ricche di vestigia rinascimentali che preparano l’occhio alla visione dell’opera martiniana, sono situate in una zona intermedia rispetto al Montefeltro marchigiano e alla Valle del Metauro, da loro equidistanti e quindi ideali come punto di partenza. Iniziando da nord la visita delle rocche, il baluardo più estremo del Montefeltro, a pochi chilometri dal confine con l’Emilia Romagna e la Repubblica di San Marino, è la fortezza di San Leo, ricordata anche da Dante nel IV canto del Purgatorio e dal Machiavelli nell’Arte della guerra. Il forte, sia per l’ottimo stato di conservazione, sia per la posizione altamente suggestiva – domina la Valle del Marecchia da una cuspide rocciosa con cui si fonde –, sia perché luogo di prigionia di uno dei personaggi più misteriosi della storia d’Italia, il conte di Cagliostro (17431795), è senza dubbio il più conosciuto tra le fortezze del Montefeltro. La potenzialità strategiche della posizione fu sfruttata sin dall’età medievale, periodo a cui 100

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risale la struttura originaria, che, nel 1441, quando i Montefeltro la conquistarono, non si dimostrava in grado di sostenere l’avvento delle armi da fuoco. Su quell’impianto operò il Martini, che progettò una forma che potesse di garantire una risposta pronta ai tiri incrociati del nemico, da qualunque parte provenisse l’attacco. Il risultato fu una doppia cortina muraria, tesa in punta tra i torrioni circolari delle tre piazze d’armi. All’ingresso al forte, ci si trova subito nella prima piazza d’armi, la principale, dove sorge la Torre grande, chiusa in fondo dalla Torre piccola, frutto di una ricostruzione avvenuta dopo il terremoto del 1789, quando San Leo era adibito a carcere pontificio (dal 1631). L’intervento fu opera di Giuseppe Valadier, il quale si trovò a dover alterare la simmetria del progetto martiniano, che prevedeva la punta della cortina equidi-

stante dai due torrioni. All’interno è possibile visitare una mostra permanente sull’Arte della fortificazione e della guerra nell’età di Francesco di Giorgio Martini e Leonardo, e le celle di punizione con gli strumenti di tortura appartenenti alla mostra (permanente) Cagliostro, la tortura, l’Inquisizione. Impressionante è la vista della “cella del pozzetto”, dove fu rinchiuso il conte di Cagliostro: un ambiente angusto, illuminato da una finestra con triplice serie di sbarre e, originariamente, senza vie d’accesso: il temutissimo Cagliostro vi fu calato dal sovrastante posto di guardia attraverso una botola. Alla figura del mago-avventuriero-veggente è dedicata la mostra che conclude la visita, divisa in sezioni che ne illustrano la vita, l’incontro con Casanova, l’adesione alla massoneria e la passione per l’alchimia.


Lo sperone roccioso sul quale sorge la rocca di San Leo

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marche | francesco di giorgio martini

A destra La Rocca Fregoso di Sant’Agata Feltria

... Sassocorvaro, Monte Cerignone, Sant’Agata Feltria

Procedendo verso sud, a pochi chilometri da Urbino, si arriva a Sassocorvaro, al centro del quale si erge, splendidamente conservata, la Rocca Ubaldinesca. Trionfo di linee curve, struttura compatta e dal profilo sinuoso, con la sua pianta a forma di testuggine è uno dei massimi capolavori dell’architettura del Rinascimento. Anche se, dal punto di vista del Martini, rappresentò un vero e proprio fallimento, tanto da portarlo a riconsiderare alcune convinzioni maturate in materia di architettura difensiva. Da quanto si evince dal suo trattato, il senese era arrivato a ritenere che, nel progettare una fortezza, si dovesse realizzare un complesso dalla superficie sfuggente, che si presentasse all’assalitore convesso da qualsiasi angolazione. Quando, tuttavia, passò alla realizzazione, si rese conto di come, in realtà, le forme curvilinee riducessero la possibilità di difendere il perimetro, e da quel momento sconsigliò di adottare quella forma, preferendole conformazioni segmentate. La fortezza, fatta costruire da Ottaviano degli Ubaldini della Carda nel 1475 per volere di Federico da Montefeltro, abbandonò quasi subito l’aspetto e la funzione militareschi, per diventare una residenza aristocratica: nel 1510 la contea di Sassocorvaro venne concessa al conte 102

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Filippo Doria di Genova, che, di fatto, fu primo abitante della rocca, dato che non era stata ancora ultimata nel 1498, alla morte di Ottaviano. All’Ubaldini, filosofo, astrologo e alchimista, si dovette probabilmente l’idea della piata a forma di tartaruga, simbolo per eccellenza dell’alchimia. Dopo vari passaggi di proprietà, la rocca è oggi sede degli uffici comunali, del Museo

della Rocca Ubaldinesca e ospita uno splendido teatro, decorato nel 1895 dal pittore sassocorvarese Enrico Mancini. Curiosità: durante la Seconda Guerra Mondiale la struttura custodì oltre 6.500 capolavori provenienti dal nord e dal centro della Penisola, tra cui anche La tempesta di Giorgione. Fautore del salvataggio fu Pasquale Rotondi, l’allora soprintendente delle Belle Arti delle Marche, a cui,


nel 1997, è stato intitolato un premio, ogni anno assegnato ai “salvatori dell’arte”. Sempre nel Montefeltro, tra San Leo e Sassocorvaro, anche per altre due rocche è stato fatto il nome di Francesco di Giorgio Martini: quelle Monte Cerignone e di Sant’Agata Feltria. Se, per la prima, la paternità della ristrutturazione del castello medievale, passato poi ai Montefeltro, è contesa tra il

Martini e Leon Battista Alberti, certezze maggiori circa l’attribuzione al senese si hanno per la Rocca Fregoso di Sant’Agata Feltria. Postazione militare di grande importanza, similmente a San Leo la Rocca Fregoso domina la valle sottostante da uno dei massicci calcarei tipici del Montefeltro: il Sasso del Lupo. Sebbene risalga al X secolo, al tempo del conte Raniero Cavalca di Bertinoro, il

suo aspetto è fortemente rinascimentale, grazie all’intervento voluto da Federico da Montefeltro, che anche in quell’occasione si valse dell’opera di Francesco di Giorgio. Del suo lessico architettonico si ritrovano alcuni motivi: le alte cortine compatte dalla scarpa fortificata, la sagoma del puntone sul lato sud-orientale, il torricino poligonale a controllo dell’accesso e la consueta sobrietà lineare. il turismo culturale

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marche | francesco di giorgio martini

La Valle del Metauro: Fossombrone, Frontone, Mondavio, Cagli

Spostandosi più a sud, a una ventina di chilometri da Urbino e a circa quaranta da Fano, si arriva a Fossombrone, il centro più importante della media Valle del Metauro, che si distende sul versante di un colle sovrastato dai resti di quella che un tempo era la Rocca Malatestiana. Sorta nel Duecento e ampliata dai Matalatesta, la rocca assunse l’assetto definitivo dopo il 1444, quando Federico da Montefeltro, acquistato il feudo, ne ordinò l’adeguamento alle nuove esigenze militari. Con la regia del Martini, il forte divenne una struttura complessa, uno dei capisaldi del sistema difensivo dell’appena nato ducato di Urbino: fu trasformato il torrione sudoccidentale in piccolo bastione con alto saliente e fu introdotto un possente rivellino dal profilo carenato (“caput carenato”). Smantellata nel 1502 da Guidobaldo da Montefeltro, per evitare che passasse a Cesare Borgia, la rocca cadde in rovina, e della sua mole imponente sono visibili oggi solo pochi resti sulla sommità del colle Sant’Abelardo, dove successivamente fu eretta la chiesa omonima. La presenza di un puntone triangolare scarpato, che richiama gli interveti martiniani a Fossombrone e San Leo, ha fatto ipotizzare la mano dell’architetto senese anche nel progetto di ammodernamento della rocca di Frontone. Passata dalla famiglia dei Gabrielli di Gubbio ai Malatesta e infine ai Montefeltro, la rocca si presenta come con una singolare conformazione a vascello, con la prua in corrispondenza dell’imponente puntone martiniano. Lì, all’interno del luogo più rappresentativo della costruzione, è conservata la scultura lignea che raffigura san Frontone benedicente, databile alla seconda metà del XIV secolo. 104

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Molto più complesso, rispetto all’intervento frontonese, risulta il progetto per la Rocca Roveresca di Mondavio, costruita per Giovanni Della Rovere, nipote di papa Sisto IV e genero di Federico da Montefeltro. La rocca fu realizzata nell’ultima fase del soggiorno marchigiano del Martini (1482-1492) e, non avendo mai subito assedi né distruzioni, si presenta oggi, come allora, in tutta la sua bellezza, dominata al centro da un possente mastio poligonale a dieci facce, dai lati scoscesi e gli spigoli affilati. Ideato per consentire alle truppe di guardia di sorvegliare tutti i lati del fossato asciutto – nel fossato sono state collocate ricostruzioni delle macchine da guerra ideate da Francesco di Giorgio Martini –, il mastio è fornito di numerose bocche di fuoco su tutti i livelli. A questo si allacciano un torricino di rinfianco, un torrione semiellittico di rin-

Sopra La rocca di Frontone Pagina a fianco Il torrione martiniano di Cagli


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forzo e, alla fine del ponte d’ingresso, il rivellino. All’interno, è possibile (e divertente) avventurarsi nel dedalo di corridoi e cunicoli, fino a raggiungere gli alloggi del castellano, in cui sono ospitati l’Armeria e il Museo della Rievocazione Storica. Una complessità ancora maggiore presentava il progetto della rocca di Cagli. La fortezza, costruita agli inizi degli anni Novanta per volere di Giovanni Della Rovere, venne concepita come un sistema difensivo innovativo distinto in due nuclei: la rocca vera e propria che, dall’aspetto planimetrico romboidale con torri circo-

lari lungo il perimetro e un alto mastio, dominava la città dall’alto; e un torrione sottostante, collegati da un lungo corridoio sotterraneo (“soccorso coverto”). Distrutta nel 1502 da Guidobaldo da Montefeltro, che non voleva cedere a Cesare Borgia, della rocca restano solo poche tracce. È giunto fino a noi, invece, perfettamente conservato, il torrione ellissoidale, oggi adibito a museo, che presenta alcuni degli elementi caratteristici del repertorio architettonico martiniano, come le lisce cornici marcapiano in pietra e i beccatelli in laterizio allungati.

Sotto La Rocca Roveresca di Mondavio

informazioni - www.montefeltro.net - www.lavalledelmetauro.org Rocca Ubaldinesca di Sassocorvaro Piazza Battelli 61028 Sassocorvaro (PU) Tel. 0722.76177

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Castello della Porta di Frontone Piazzale della Rocca, 1 61040 Frontone (PU) Tel. 0721.790716 www.comune.frontone.pu.it

Fortezza di San Leo Ufficio Turistico iat Tel. 0541.926967 www.san-leo.it

Rocca Roveresca di Mondavio Ufficio Turismo Comune di Mondavio Tel. 0721.977758 www.comune.mondavio.pu.it


marche

provincia di pesaro urbino

Hotel Orfeo ***

Agriturismo Poggio Duca

Trattoria Da Maria

L’hotel si trova nel centro storico di Fano, in una posizione strategica – all’inizio del corso principale (Corso Matteotti), a pochi passi dalle mura della città e dalla Strada Statale Adriatica – che ne fa un luogo di soggiorno ideale per chiunque voglia visitare il Montefeltro e l’entroterra e la costa pesaresi. La struttura, gestita da decenni dall’affabile famiglia Radi, comprende diciotto camere.

Autenticamente rustico e immerso nella natura rigogliosa e appuntita marchigiana, il podere Poggio Duca è un complesso composto da due ampie case coloniche. Mario Duro, il titolare della struttura, non ha snaturato l’anima contadina dell’azienda, mantenendo attivo anche l’allevamento di suini, bovini, ovini, caprini e daini, e l’ampio terreno di proprietà coltivato a vite, olivo, cereali e foraggio; senza dimenticare la produzione di frutta, abbondante anche a ridosso del terrazzo panoramico.

L’arrivo al ristorante non è dei più semplici ma l’orizzonte panoramico che ci accoglie è davvero superbo, immerso nella natura marchigiana. Dopo un assaggio di polentina con carne di vitello, tra i primi sono irrinunciabili i tortelli di ricotta fresca. La carne, cucinata o cotta alla brace, regna sovrana: si possono assaggiare gli spiedini di coniglio oppure, giusto per rappresentare al meglio il territorio, una splendida tagliata di razza marchigiana servita nella più autentica semplicità.

Castello di Montemaggio Agenzia di San Leo (PU) Tel. 0541.924263 www.poggioduca.it

Via Cavallara, 2 61040 Fraz. Cavallara Mondavio (PU) Tel. 0721.976220 Prezzo Medio: € 30 (vini esclusi) Chiusura: domenica sera e lunedì

L’olio extravergine d’oliva dop Cartoceto

La Casciotta di Urbino dop

Corso Matteotti, 5 61032 Fano (PU) Tel. 0721.803522 www.hotelorfeo-fano.it Prezzi: camera matrimoniale € 70

La Moretta di Fano Corroborante e dalle proprietà digestive, la Moretta è la bevanda tradizionale dei pescatori di Fano, che la gustavano quando, stremati, rincasavano dopo una giornata sulle paranze. Usata generalmente come correzione del caffè espresso, consiste in una miscela di anice, rum e brandy, dosati in parti uguali. Il modo ideale per apprezzarla prevede che, una volta scaldata con lo zucchero e una scorzetta di limone, si aggiunga il caffè caldo, facendolo scendere lentamente in modo da non mescolarlo con il liquore.

Prodotto nei comuni di Cartoceto, Saltara, Serrungarina, Mombaroccio e nell’area collinare di Fano, quest’olio eccellete è realizzato attraverso procedimenti tradizionali, come la raccolta a mano e la pettinatura meccanica. Verde intenso, all’olfatto è un fruttato di media intensità, dai sentori vegetali di carciofo, erbe di campo e note balsamiche e di mandorla in chiusura; al gusto è un fruttato di media intensità, ricco di toni di verdi di erbe officinali, carciofo e armoniche note di mandorla dolce.

Prodotta già ai tempi dei duchi di Montefeltro e Della Rovere, la Casciotta di Urbino ha vantato nel tempo numerosi e illustri estimatori, come papa Clemente XIV e Michelangelo Buonarroti, che avviò l’acquisto di un podere a Urbania con l’obiettivo di assicurarsene una fornitura costante. Si tratta di un formaggio di latte ovino (3/4) e vaccino (1/4), con crosta sottile, dovuta alla breve maturazione (15-30 giorni) e caratterizzato da una pasta compatta e chiara e da un sapore dolce e fresco.

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la buona notte | le dimore di san crispino

la buona notte

L’incantevole quiete Le Dimore di San Crispino Assisi custodisce testimonianze di fede di alcuni tra i grandi pittori di sempre, come Cimabue, Giotto e Simone Martini. Nel suo centro storico, a pochi passi dalla Basilicata di Santa Chiara, ciò che un tempo fu dimora della Confraternita di San Crispino è oggi un’incantevole residenza d’epoca di Luciano Vanni

L

a storia di Assisi ha radici che affondano nel secondo millennio a.C., con il popolo degli Umbri, che Plinio il Vecchio, nel suo Naturalis Historia (III, 112-113), considerava gens antiquissima Italiae, ovvero la popolazione più antica d’Italia. La cittadina umbra fu vitale e rilevante municipio romano, noto con il nome di Asisium, fin quando, in seguito alla caduta dell’Impero Romano, fu costretta a vivere un periodo di decadenza a causa delle invasioni dei Goti, dei Bizantini e infine dei Longobardi. Ma Assisi deve molto anche e soprattutto alla memoria di San Francesco e Santa Chiara, sua stretta collaboratrice e fondatrice dell’Ordine delle Clarisse. Francesco Giovanni di Pietro Bernardone, questo il suo nome di battesimo, fu mistico e religioso, ma anche militare, prosatore latino e missionario. Ciò che ha reso eterno il suo predicare è cer108

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tamente la Laudes Creaturarum, un componimento scritto in volgare per celebrare la meraviglia dell’universo, la cui stesura definitiva è datata 1226; l’opera è conosciuta anche come Cantico di Frate Sole o Cantico delle Creature, ed è da considerarsi una delle prime manifestazioni della letteratura italiana, una canzone, “dal momento in cui l’inno pare fosse provvisto anche di una melodia per lasciare ai suoi confratelli un testo di una loda al Signore così semplice da poter essere insegnato anche al popolo analfabeta” (cfr. Giorgio Petrocchi, La letteratura italiana, rcs, 2005). La straordinaria forza della testimonianza di San Francesco d’Assisi è tale da condurre papa Gregorio IX, due anni dopo la sua morte, nel 1228, a proclamarlo santo e a dare avvio al cantiere della basilica all’interno della quale fu sepolto, per la cui decorazione furono chiamati Cimabue, Giotto e Simone Martini.

Sopra Una veduta di Assisi


Le dimore di San Crispino, ieri e oggi

Ad Assisi, in epoca medievale, furono censite ben undici confraternite, regolate da appositi statuti. Le confraternite erano vere e proprie associazioni pubbliche di fedeli, molto spesso emanazione di mestieri. La struttura che oggi ospita le Residenze di San Crispino appartenne a tre distinte confraternite già a partire dal Trecento: nello specifico alla Fraternita dei Disciplinati (o Flagellanti) di Santa Maria Maggiore o del Vescovado, alla Confraternita di San Biagio e infine, nel 1790, alla Confraternita dei Santi Crispino

e Crispiniano. Quest’ultima deve il suo nome a Crispino, martire cristiano giustiziato nel 287 dall’imperatore Diocleziano, oggi protettore dei ciabattini e calzolai – si festeggia il 25 ottobre – proprio perché in vita risuolava le scarpe. Il complesso aveva una posizione strategica essendo a ridosso della via che collegava Assisi agli altri borghi umbri attraverso l’antica porta di Mojano. L’area della fraternita comprendeva una chiesa, uno o più orti, alcune case e un vasto complesso al cui ingresso, sopra l’ampio portale, fu dipinta un’edicola votiva raffigurante

una Madonna con Bambino tra i Santi Francesco e Chiara intorno all’anno 1330. Parallelamente al processo di decadenza della Confraternita di San Crispino l’intero stabile subì un declino e un degrado a cui fu posto rimedio solo tra il 1937 e il 1940, con un primo intervento di restauro; fino a quando, più di recente, la famiglia Franceschini acquisì l’intero immobile, compresa l’antica chiesa, prodigandosi non poco in una faticosa opera di restauro inaugurata nel 1998, a seguito del violento sisma che ha colpito l’Umbria nel settembre 1997. il turismo culturale

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la buona notte | le dimore di san crispino

Ciò che colpisce maggiormente chiunque entri all’interno delle Dimore di San Crispino è l’imponenza e l’odore delle antica mura, il calore del pavimento in cotto fatto a mano, il fascino dei tendaggi e dell’arredo in legno e ferro battuto, e infine l’affaccio panoramico che si gode da ciascuna delle sette suite, quello sconfinato sguardo aperto sulle colline umbre e sui profili dei monumenti della città

Il fascino di una dimora d’epoca

Le Dimore di San Crispino rappresentano, su tutto, il profondo desiderio di Giulio Franceschini e di sua moglie Anna Maria, e nondimeno delle loro tre figlie, Chiara, Giulia e Federica, di riportare alla luce una pezzo di storia di Assisi tanto nobile quanto caduto in disgrazia nei secoli. Ciò che un tempo appartenne alla Confraternita dei Santi Crispino e Crispiniano oggi è una residenza d’epoca con sette suite indipendenti ristrutturate con cura estrema rispettandone l’impianto architettonico originale fatto di 110

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archi, caminetti e mura medievali lasciati a vista, e nell’arredo interno, grazie ad antichi tavoli in stile fratino, panche in castagno, letti e scale in ferro battuto, tendaggi, quadri, lampade ricavate da antichi candelieri in legno e portacandele in ferro, battuto secoli fa. La nuova proprietà ha voluto recuperare, per quanto è stato possibile, non solo l’edicola della Confraternita San Crispino posta all’esterno dell’immobile ma anche gli stucchi e gli affreschi interni alle sale trasformate in suite; ed ecco finestre o pareti decorate da pittori umbri uti-

lizzando le medesime tecniche usate da Giotto nella Basilica di San Francesco, affinché ciascuna stanza potesse riacquisire il sapore di un’antica identità. Ma non solo: l’ingresso e l’ambiente riservato all’accoglienza non è stato adattato alle più moderne necessità ma è stato mantenuto integro così come pensato un tempo. Altra scelta responsabile in fase di ristrutturazione è stata quella di consentire l’accesso al terrazzo panoramico e all’ampio giardino – spazi aperti per un totale di 750 metri quadri – ai clienti delle camere.


Ciò che colpisce maggiormente chiunque entri all’interno delle Dimore di San Crispino è l’imponenza e l’odore delle antica mura, il calore del pavimento in cotto fatto a mano, il fascino dei tendaggi e dell’arredo in legno e ferro battuto, e infine l’affaccio panoramico che si gode da ciascuna delle sette suite, quello sconfinato sguardo aperto sulle colline umbre e sui profili dei monumenti della città. La proprietà ha scelto di riconoscere a ciascun ambiente una precisa identità, a partire dal nome, che fa riferimento al Cantico delle Creature di San Francesco

d’Assisi: Madre Terra, arredata con tessuti dalla gradazione color pesca; l’ampia Sora Luna e le Stelle, con il suo azzurro tenue e l’accesso al giardino con pozzo medievale; Beatitudo, ex sala riunioni della confraternita, dagli ampi affreschi d’epoca e un soppalco raggiungibile con una scala in ferro battuto; Frate Foco, con il suo rosso pompeiano nei tendaggi; Sora Acqua, dalle tonalità verde acqua, ampio soggiorno e il suo terrazzo panoramico; Frate Sole, mansarda dalle dominanti giallo oro e con caminetto nel soggiorno, due bagni e terrazzo; e infine Frate Vento, dalle sfumature cerulee.

BENESSERE

Le sette suite

l’albergo diffuso Le Dimore di San Crispino fanno parte di una più ampia proprietà della famiglia Fraceschini, che comprende un Resort con Natural Spa, un ristorante gourmet, due ville di charme e Villa Salus, clinica del benessere coordinata dal dott. Giulio Franceschini, specializzato in dermatologia e medicina estetica

Assisi Wellness www.assisiwellness.com

Pagina a fianco Resort sala del ristorante Rubicondo A fianco La suite Frate Sole

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la buona notte | le dimore di san crispino

INFORMAZIONI

La Domus Book Cafè, un’ambiente raffinato ed elegante che ha il privilegio di ospitare una domus romana, raccoglie pubblicazioni di editori della regione ed è utilizzata per servire la colazione ai clienti, ricca e abbondante, preparata con una selezione di prodotti coltivati nell’Orto di Fra’ Crispino

La Domus Romana e l’Orto di Fra’ Crispino

A pochi metri di distanza dal complesso delle Dimore di San Crispino, la famiglia Franceschini ha rilevato un piccolo ma affascinante spazio polivalente, la Domus Book Café, un’ambiente che ha il privilegio di ospitare una domus romana. L’ambiente, raffinato ed elegante, raccoglie pubblicazioni di editori della regione ed è utilizzato per servire la colazione ai clienti, ricca e abbondante, preparata con una selezione di prodotti coltivati nell’Orto di Fra’ Crispino, sempre di proprietà. L’orto biologico regala erbe aro112

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Le Dimore di San Crispino

Via Sant’Agnese, 11 06081 Assisi (PG) Tel. 075.8155124 www.assisibenessere.it

matiche (alloro, prezzemolo, menta, salvia e rosmarino), olio extravergine, frutta (uva, mele, pere, pesche, susine, mele cotogne, ciliegie, fichi, noci, cachi, fragole e nespole) con cui vengono prodotte ottime confetture e poi legumi quali lenticchie, farro, orzo e cicerchie. L’orto ospita anche un piccolo allevamento di api dal quale viene prodotto miele di castagno, di acacia, millefiori; e poi ancora un vigneto, da cui si produce un Rosso Torgiano Orto di Fra’ Crispino doc da vitigni di Torgiano e un Grechetto Orto di Fra’ Crispino igt ricavato da uve Grechetto

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Sopra Il giardino del resort e la Domus Book Café, sala colazioni e degustazioni della residenza d’epoca


approfondimento

Cenni storici sulle Dimore di San Crispino e sull'Edicola votiva a cura del prof. Francesco Santucci

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el Trecento erano attive in Assisi una decina di fraternite di Disciplinati o Flagellanti o Battuti, alcune delle quali fondate ai primi del secolo (qualcuna parrebbe addirittura negli ultimi anni del XIII), a dimostrazione del fatto che il Moto penitenziale, sorto a Perugia nel 1260 per opera di fra Raniero Fasani, si era qui profondamente radicato, grazie soprattutto alla presenza dei francescani. La più antica menzione riguardante la Fraternita di Santa Maria del Vescovado è rintracciabile nel catasto dei beni delle chiese della diocesi di Assisi, che data dall’anno 1354. Da un atto del 1448 si ha notizia di case appartenenti alla fraternita, certamente vicine o annesse alla medesima (in domibus fraternitatis S. Marie episcopatus). Si tratta quasi certamente delle costruzioni tuttora esistenti e attigue alla chiesa e sede del sodalizio laicale. Tali case nel 1482 sono dette “confinanti”, da un lato, con la “strada pubblica” (l’odierna via Sant’Agnese), mentre sugli altri tre lati confinavano con i beni dell’ospedale dei lebbrosi, che sorgeva a Santa Maria Maddalena de Arce. Dell’esistenza di una chiesa-oratorio si ha una prima menzione soltanto nel 1426, anno in cui vi si tiene un capitolo della fraternita; ma ciò non significa che la chiesa non esistesse ancora prima. Notizia analoga si ha per il 1453, allorché si dice anche che la chiesa è situata nel rione di Porta Santa Chiara. L’edicola votiva Sopra il portale d’accesso all’area della fraternita – comprendente chiesa e case – intorno all’anno 1330 venne dipinta da un anonimo seguace del Maestro Espressionista di Santa Chiara un’edicola votiva raffigurante una Madonna col Bambino tra i santi Francesco e Chiara e, nell’intradosso, l’Agnello Mistico e i Santi Biagio e Ignazio. All’esterno dell’edicola era

A sinistra Ingresso del complesso delle Dimore di San Crispino con l’edicola votiva raffigurante una Madonna col Bambino tra i santi Francesco e Chiara

raffigurato un San Cristoforo, oggi pressoché interamente scomparso. Davanti a questa Maestà, tra l’orto e la porta dell’oratorio, da un lato, e i beni del notaio Angelo di ser Giovanni, posti sull’altro lato della via, il 2 febbraio 1424 venne stipulato un atto di vendita fra privati cittadini di Assisi: segno dell’importanza del luogo. Dall’oratorio o Chiesa della Fraternita di Santa Maria del Vescovado o di San Biagio, vengono pure alcuni affreschi del ricordato pittore, finiti in parte nella Pinacoteca Comunale di Assisi e in parte al Museo di Belle Arti di Budapest. Dalla soppressione della Confraternita di Santa Maria del Vescovado ai giorni d’oggi Finchè, nel 1772 per volere dell’allora vescovo di Assisi mons. Nicolò Sermattei, la Confraternita di Santa Maria del

Vescovado (ex Fraternita dei Disciplinati di Santa Maria Maggiore o del Vescovado) fu soppressa insieme con altri consimili sodalizi laicali cittadini (San Gregorio, San Vitale, San Lorenzo, San Pietro) per dotare “di nuove rendite il Seminario” di Assisi. Passati al Seminario i beni dell’ex Confraternita di Santa Maria del Vescovado, la chiesa, che era stata oratorio del sodalizio, nel 1790 venne assegnata dal vescovo mons. Zangari all’antica Società dei Calzolai o Confraternita di San Crispino, rimasta senza sede. Da quel momento la nuova denominazione della chiesa e annesso complesso fu quella di San Crispino, giunta fino ai giorni nostri. Nei primi decenni del ’900 la Confraternita di San Crispino, ormai in ineluttabile decadenza con l’insieme dei fabbricati, compresa l’antica chiesa, passò definitivamente nelle mani di privati.

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saperi e sapori

BUFFALO SOLDIER Agricola Zootecnica Lauretti

Nella Valle dell’Amaseno, tra la Ciociaria e l’Agro Pontino, milita un soldato d’eccezione, Antonio Lauretti. Nessun’arma, se non la tenacia con cui organizza l’attività dell’azienda agricola e zootecnica di famiglia; nessuna strategia segreta, se non il lavoro dettato dall’amore per la propria terra e da una versatilità straordinaria, che lo fa essere a un tempo allevatore, macellaio, commerciante e studioso del bufalo.

testo di Massimo Roscia foto di Alessandra Liuzzo

B

asso Lazio. A circa un’ora da Roma, in una valle incontaminata che marca il confine tra la Ciociaria e l’Agro Pontino, il verde smeraldo dei prati è screziato da migliaia di minuscole macchie brune. Zoom. Sono bufali e bufale. Le bestie, dal pelo folto e le corna smussate, stazionano flemmatiche nei pantani miasmatici e fangosi, ruminando erbe acquatiche. Non siamo in uno zoo safari, ma nel piccolo comune di Amaseno dove l’allevamento bufalino è il mestiere. E il giovane Antonio Lauretti non sfugge alla regola. Si guadagna il pane nell’azienda di famiglia, aiuta il padre ad allevare e macellare bufali da carne, si documenta e documenta, presta generosamente la sua penna a un territorio rurale paradisiaco, ancora fortemente legato alle tradizioni locali, che di storie da raccontare ne ha tante. 114

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Il soldato Antonio

Niente dreadlock rasta. E nessun riferimento direttamente riconducibile ai versi immortali di Noel G. Williams, alias King Sporty, e del monumentale Bob Marley. Del resto, Antonio non ha mai prestato servizio nel decimo reggimento di cavalleria dell’esercito a stelle e strisce, né combattuto in the heart of America. Gli unici trascorsi pseudomilitareschi sono quelli del suo vecchio gruppo di softair. Capacità di mimetizzarsi, rapidità di movimento, ottima mira e qualche proiettile di vernice a imbrattare gli indumenti con patacche fosforescenti e a procurare i rimbrotti della mamma. Nulla più. Ciononostante, Antonio è un vero buffalo soldier. Mano al cuore, ha giurato solennemente onore e fedeltà alla sua terra, a quella valle integra e fertile, la Valle dell’Amaseno, alla

sua storia, al suo sviluppo e, naturalmente, al bufalo che – da queste parti – non è il bisonte americano (il Bison bison), ma quello mediterraneo (Bubalus bubalis). Antonio Lauretti ha trent’anni e lavora nell’azienda agricola zootecnica di famiglia che, da oltre un secolo, alleva e commercia bestiame. Partendo dal trisavolo e dopo un’alternanza di nomi quasi simmetricamente perfetta (una lunga sequela di Antonio e Giuseppe), siamo arrivati, con lui, alla sesta generazione. Irrefrenabile, passa con disinvoltura da un convegno sulla progettazione integrata di filiera, all’aggiustamento delle dosi della salamoia di una bresaola; dalla ricerca di antichi statuti comunali nei polverosi archivi di Stato, all’organizzazione di una degustazione guidata. Definirlo eclettico è riduttivo. Perché Antonio è sì allevatore, macel-


Antonio è un vero buffalo soldier. Mano al cuore, ha giurato solennemente onore e fedeltà alla sua terra, a quella valle integra e fertile, la Valle dell’Amaseno

laio e commerciante, ma anche studioso, giornalista e scrittore. E i bufali – questi buffi animali già noti all’uomo primitivo nel Pleistocene – non si limita ad allevarli e a lavorarne sapientemente le carni, ma li studia con abnegazione. Approfondimenti multidisciplinari. Antonio scrive del buffalo, del water buffalo, spaziando tra la storia e l’economia, la zootecnia e la gastronomia. E chissà se sul tozzo ruminante, un giorno, comporrà anche una canzone. Reggae, ovviamente. Undicimilacinquecento

Una valle immersa nel verde, incastonata tra le catene montuose dei Lepini e degli Ausoni, solcata da quel fiume cantato da Virgilio nell’Eneide, l’Amaseno, che corre “rapido spumando” e “se ne gìa de le ripe ondoso e gonfio”. E al centro di questa

piana calcarea, ricca di acque, falde sotterranee, sorgenti, fontane e acquedotti rurali, tra capolavori della natura e importanti emergenze archeologiche volsche e romane, sta – cinta di mura turrite – la cittadina di Amaseno. Millecinquecento nuclei familiari (che corrispondono a circa quattromilacinquecento anime), duecentoventi aziende, undicimilacinquecento capi bufalini. Come dire, quasi otto bufali a famiglia. Numeri stravaganti – farebbero la gioia di antropologi, demografi, statistici, numerologi e, persino, di incalliti giocatori del lotto – che stanno a testimoniare come questa piccola comunità, illusa e delusa dal sogno industriale, sia riuscita negli ultimi anni a riscoprire la propria identità agricola, recuperando e implementando una tradizione secolare, trasformando l’alleva-

mento zootecnico in un’attività produttiva redditizia, ma stando bene attenta a non compromettere l’ambiente e il paesaggio. Chiamatela come vi pare. Un’eccellenza, un caso di scuola, un modello di sviluppo sociale, culturale ed economico, perfettamente sostenibile, che forse non ha eguali. La carne di bufalo

Il bufalo è un animale a triplice attitudine: lavoro, latte e carne. Il suo impiego nel dissodare zolle, trainare carri e trasportare merci è soltanto un ricordo ingiallito che rievoca un passato di stenti e povertà; il latte non abbisogna certo di presentazioni, è quello utilizzato per la produzione della rinomata mozzarella dop; la carne, invece – nonostante le sue eccezionali caratteristiche –, è ancora poco conosciuta e non ha incontrato il giusto apprezzamento da il turismo culturale

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Il CAB Consorzio Allevatori Bufalini della Valle dell’Amaseno

parte dei consumatori. Ne è trascorso di tempo da quando Vito Antonio Ascolese, autore del Manuale economico, pratico, rurale, ossia Raccolta di pratiche agrarie, pastoreccie, rurali e veterinarie, asseriva con repulsione che “la carne del bufalo è dura e disgustosa al palato, e ripugnante all’odorato”. E come dargli torto. A metà dell’Ottocento le bestie da cui si ricavavano carni erano vecchie, allevate male e nutrite peggio, spossate per i duri lavori nei campi. Oggi, quella del bufalo – la parola è declinata al maschile perché le bestie da cui si ricava la carne sono soltanto quelle di sesso maschile – è tutta un’altra carne e, nel confronto diretto con quella bovina, non c’è partita. Sul profilo dietetico e nutrizionale è la carne di bufalo, tanto sana quanto saporita, a stravincere. Minore concentrazione di grassi intramuscolari e di lipidi totali, percentuali inferiori di acidi grassi saturi e superiori di acidi grassi monoinsaturi e poliinsaturi, contenuto di colesterolo nettamente più basso, livelli più alti di ferro e zinco e un festival di vitamina B6 e B12. Per non parlare poi delle caratteristiche organolettiche. Il maggior potere di ritenzione idrica rende la carne bufalina più succosa e i contenuti ridotti di idrossiprolina – termine scientifico che ai più non dirà nulla, ma che si riferisce a un partico116

il turismo culturale

lare aminoacido non essenziale contenuto prevalentemente nel collagene – la fanno risultare ancora più tenera. Per la gioia dei commensali pigri, che saranno affrancati da una lunga e affaticante masticazione.

Il Consorzio Allevatori Bufalini della Valle dell’Amaseno, costituito nel 2005 e presieduto dal dinamico ingegner Salvatore Rinna, è una struttura consortile che riunisce una cooperativa di raccolta latte e una quarantina di aziende agricole zootecniche (tra cui quella di Antonio Lauretti), dislocate nei comuni di Amaseno, Villa Santo Stefano e Prossedi. Il suo compito principale è quello di promuovere, valorizzare e commercializzare i prodotti bufalini (carne, mozzarella e formaggi), favorendo uno sviluppo sostenibile degli allevamenti e dell’intera valle. www.cabvalleamaseno.it

Non solo fettine

Che questa carne risulti assai versatile in cucina è empiricamente verificabile nella macelleria dei Lauretti, in via Circonvallazione, nel centro storico di Amaseno, dove i genitori di Antonio, il simpatico Pino e la moglie Fiorella, sono indaffarati nella marinatura di un carpaccio. Tra quarti, mezzene, fettine, bistecche, filetti, scamoni e altri tagli tradizionali (i nomi sono gli stessi delle carni bovine), si intravvedono sul bancone di marmo un paio di girelli. È un continuo viavai di clienti fanatici della qualità, perché tutte le carni proposte – vale la pena sottolinearlo – sono provenienti da bufali aziendali, una cinquantina di capi allevati allo stato semibrado, “in maniera umana” – puntualizza Antonio – e alimentati con foraggi spontanei. Delizioso è il carpaccio, un pezzo di carne tenerissima, di bestie tra gli undici e i sedici mesi, del peso di circa cinque chili, ottenuto dal girello o dal controgirello. “Ma anche dal fiocco della rosa” è lesto ad aggiungere, “per quanto, essendo di forma triangolare, sia geometricamente

A destra Antonio Lauretti e il giornalista Dario Facci, le “quattro mani” che hanno scritto la pubblicazione L’Oro bianco dell’Amaseno

difficile da tagliare e produca molti scarti”. Un paziente lavoro di lama quasi zen e la carne viene immersa, per intero, in una salamoia a base di acqua, sale, vino, bacche di ginepro, finocchio selvatico, pepe nero in grani, erbe di montagna e un ingrediente segreto che tale resterà. Una marinatura che varia dai quattro agli otto giorni – dipende dal peso – e il parente prossimo della carne salada trentina è pronto per diversi consumi. Il più indicato: tagliato a fette, condito con un filo di olio extravergine di oliva e gustato just in time. In un’altra salamoia, che differisce dalla precedente per quantità e impiego di sale, è immersa la bresaola. Ancora il girello – o, alternativamente, la noce –, lasciato a marinare per quindici

L’ASSOCIAZIONE

saperi e SAPORI | BUFFALO SOLDIER


INFORMAZIONI

giorni, asciugato, trattato con vino, brandy e spezie, massaggiato manualmente, con delicatezza, in tutti i suoi chakra, fatto stagionare a temperatura e umidità controllate, affumicato con foglie di salvia e alloro. Nessun agente livellante, nessun intervento della chimica, nessun processo standardizzante. Tutto rigorosamente artigianale: cinquanta pezzi l’anno per pochi fortunatissimi eletti e un sapore che non si dimentica facilmente. Così come quello dei salamini. Magistrali capolavori a grana fine. Carne di bufalo pulita accuratamente dalle cartilagini, grasso suino e spezie. Niente spedizioni, né commercio elettronico. “Per gustare questi prodotti” afferma Antonio, fermo, deciso e istituzionalmente

corretto neanche fosse il presidente di una qualche azienda di promozione turistica, “occorre venire qui ad Amaseno”. Ha ragione. La merita davvero una visita questo piccolo paese ricco di monumenti e luoghi di interesse, in cui la natura è sovrana, l’aria è mite, i ritmi sono piacevolmente rilassati, “le pagnotte si pagano ancora a pezzo e non al chilo” e dove il peggio che può capitare è una gustosissima abbuffata a base di mozzarella, formaggi, carne bufalina e altri prodotti tipici altrove irreperibili. L’Oro bianco dell’Amaseno

Via il coltello, è tempo di penna. Antonio è riuscito, dopo mesi di lunghe e faticose ricerche, a dare alle stampe un libro dal

Antonio Lauretti

Agricola Zootecnica Lauretti Via Circonvallazione, snc 03021 Amaseno (FR) Tel. 0775.658044

titolo L’Oro bianco dell’Amaseno. Scritto insieme al brillante giornalista Dario Facci, promosso dal cab (Consorzio Allevatori Bufalini della Valle dell’Amaseno), per i tipi di Ciociaria Turismo Edizioni, il volume – centoquarantaquattro pagine – raccoglie e cataloga, in maniera ragionata e con attenzioni diderottiane, una complessa serie di informazioni sul bufalo e sulla sua presenza nella valle dell’Amaseno. Storia, tassonomia, zoognostica, tecnica e marketing, ma anche aneddoti, curiosità e ricette sul simpatico quadrupede e sui prodotti che da esso si ottengono. “Buffalo Soldier, Dreadlock Rasta, There was a Buffalo Soldier, in the heart of America”. A questo punto, manca soltanto la canzone

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il turismo culturale

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di sosta in sosta

la tradizione creativa L’antica trattoria Ai Tre Garofani

Un superbo opificio di sapori e, al tempo stesso, in virtù della sua antica origine nel lontano 1275, rappresenta un pezzo di storia della città di Trento. Incontriamo i suoi titolari, Niko e sua moglie Giovanna, la chef, tra aneddoti e specialità sensoriali di Claudia Giordano e Martino Calvo

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pesso l’oste di una trattoria ha la capacità di raccontare meglio di qualsiasi trattato scientifico la storia di una comunità, attraverso i suoi vizi, i suoi pregi e le sue dominanti caratteriali; perché a tavola si discute, ci si sazia, si scherza, ci s’innamora e ci si lascia per sempre, si lavora, si beve e affiorano i ricordi. Ed ecco che dall’incontro con i titolari della trattoria Ai Tre Garofani, Niko e Giovanna, riusciamo a ricostruire non soltanto le vicende di una famiglia e di un locale, ma una più ampia lezione di storia che sfiora Giuseppe Mazzini, Benito Mussolini, Cesare Battisti e Renato Curcio. A partire dal 1275, l’anno di nascita della trattoria stessa. Partiamo dagli inizi. Come nasce la vostra attività? Ci sono due storie parallele. La prima è la grande Storia, che percorre i secoli. La trattoria esiste dal 1275, anno in cui, secondo i documenti della città di Trento, 118

il turismo culturale

Bartolo da Ravina “pose una palma” in Borgo Nuovo. La palma, o la “frasca”, veniva appesa fuori dalle trattorie per indicare che lì c’era il vino nuovo, e quindi vitto e anche alloggio (ancora oggi diversi locali, soprattutto in Friuli, mantengono il nome di “frasca”, ndr). Storicamente questo locale è sempre stato frequentato da facinorosi. Durante i moti del 1848 sembra lo frequentò anche Giuseppe Mazzini, poi sicuramente Mussolini nel 1909, all’epoca in cui era un sindacalista e scriveva su «Il Popolo» (il cui direttore, Cesare Battisti, frequentò anch’egli il locale, ndr). Voci popolari raccontano che Mussolini, alla fine, avesse accumulato con il locale un debito di 10.000 lire, che non avrebbe mai saldato. Si racconta, inoltre, di un episodio in particolare: gli operai avevano fatto una colletta per regalargli un vestito nuovo, dato che girava sempre con abiti vecchi, non avendo tanti soldi; glielo diedero durante una riunione politica nel locale, ma lui lo

prese e in segno di sdegno – voleva usare solo vestiti vecchi che gli operai non usavano più – lo sbatté per terra e lo calpestò. Gli operai, vedendo trattato così il loro sacrificio, gli spaccarono un piatto in testa e lo costrinsero a mangiare col bavaglio. Allora, Trento era parte dell’Austria-Ungheria, e i documenti della polizia segreta del Kaiser dichiaravano il locale “malfamato e frequentato da italiani”. All’epoca in cui il locale era anche una mensa per studenti; fu frequentato da Renato Curcio nel corso dei suoi studi di sociologia all’Università di Trento. Il livello era decisamente diverso!


La seconda storia cui accennavi immagino si riferisca alla vostra acquisizione del locale… Esatto. Nel 1947 il locale fu acquisito dal nonno di Giovanna Linardi, l’attuale cuoca, nonché mia moglie. Il nonno Maurizio era podestà di Ardeno, durante la guerra. Era un affarista nato, aveva addirittura comprato l’auto di Galeazzo Ciano. La sua attività era l’import/export di verdure verso la Germania. Comprò dapprima la licenza della trattoria, nel 1947, e in seguito il locale vero e proprio, che intestò alla moglie. Quando, a causa di uno sciopero in Germania,

si trovò con carichi di verdura marciti e fallì, fu costretto a vendere tutte le sue proprietà e a cedere la licenza di import/ export a un suo dipendente, non potendogli pagare la liquidazione. Il locale però restò, essendo di proprietà della moglie e quindi inalienabile. Il padre di Giovanna fu il primo a occuparsene, costretto a lavorare per ripagare i debiti del padre, aiutato da un vecchietto del mestiere. Non era per niente contento, perché era un locale assolutamente malfamato, pieno – a suo dire – solo di puttane e di cimici. Un ambiente del tutto diverso da come lo vedete voi oggi, anche estetica-

mente: muri che si sgretolavano, poggioli rotti che nessuno aveva i soldi per riparare… Tutto era cadente. E la cucina? All’epoca era comunque un trattoria classica, che fungeva anche da mensa per gli universitari. A pranzo si facevano due turni, il primo per gli operai, il secondo per i dipendenti pubblici. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, capitava anche che la locanda fosse piena e che ci fosse gente che dormiva sul tavolo da biliardo. In particolare i tedeschi, che, riassaporando la libertà, scendevano dal Brennero per visiil turismo culturale

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ospitalità | ai tre garofani

ANTIPASTO SALMONE MARINATO NELLE SPEZIE CON CESTINO DI RISO NERO VENERE E SPUMA DI AGLIO ORSINO

INGREDIENTI per 4 persone 350 gr di filetto di salmone Per la marinata Spezie miste: curcuma, curry, masala a piacere 100 gr di sale grosso 100 gr di zucchero Per la spuma di aglio orsino tre cucchiai di aglio orsino panna q.b. sale q.b. Per il cestino di riso nero Venere 150 gr di riso nero Venere un albume

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tare il “paese del sole”, arrivando in bicicletta. C’era un solo tavolone da quattordici persone, a cui tutti sedevano insieme. Poi, nel 1980 il locale diventò pizzeria, su idea del padre di Giovanna. Fu un’ottima intuizione, perché era la seconda o terza pizzeria che nasceva a Trento. E tu, Niko, quando entri nella storia della locanda? Io arrivai nel 1984, per dare una mano in cucina – ero già il fidanzato di Giovanna –, dato che si era ammalato uno dei garzoni. Di lì decisi di fare un percorso formativo puntando proprio a questo mestiere, quindi mi diplomai sommelier, e in seguito diventai degustatore di grappa e di formaggi. Mi venne così la passione per la cucina di alto livello e con essa il desiderio di dare un’impostazione diversa al locale. Il passaggio non fu semplice: scendemmo da dodici a sette tavoli, perdendo un certo numero di clienti abituati al menu di una 120

il turismo culturale

trattoria semplice. Nel 2000 cercavamo un cuoco bravo. Prima ne trovammo uno che sembrava in gamba, ma in tre giorni scomparvero nove bottiglie di vino; era alcolista! Alla fine, essendo luglio e quindi alta stagione, decidemmo di mettere ai fornelli Giovanna, che in realtà era maestra elementare e aveva lavorato lì solo a tratti, quando serviva. Era sempre stata bravissima in cucina, ma in cose semplici. Per fortuna nacque una collaborazione con Rudy Flaim, un cuoco bravissimo che aveva cucinato in diversi ristoranti stellati Michelin e che accettò la proposta di insegnare a Giovanna, soprattutto le tecniche. Per creare i piatti nuovi spesso facevano un brainstorming, in cui ognuno partiva da uno spunto dell’altro e lo correggeva, modificava o migliorava fino a giungere a un’idea di piatto che spesso era del tutto lontana da quella da cui erano partiti, un ping pong cui io assistevo sempre affascinato.

INFORMAZIONI

ettere il filetto di salmone intero a marinare nel mix di spezie, sale grosso e zucchero per dodici ore. Verificare che il pesce sia ben coperto dalla marinata sia sopra che sotto. Per la spuma: mettere l’aglio in un frullatore con sale e panna e frullare fino ad avere un composto omogeneo da poter introdurre in un sifone che verrà poi messo in frigorifero a raffreddare. Bollire il riso in acqua salata fino a renderlo molto morbido, quindi scolarlo e frullarlo con l’albume. Il composto verrà poi steso con un cucchiaio su carta forno in forma di circoli sottili e di medie dimensioni. Il foglio verrà posto su una teglia, messa poi in forno per circa dieci minuti a 80° C. Quando i dischi saranno quasi asciutti, ma ancora morbidi, andranno messi su stampi dove verrà data la forma di un cestino. Guarnire con spuma all’aglio orsino, sporcare il piatto con polvere di curcuma e spargere peperoni spadellati.

Trattoria Ai Tre Garofani

Via Giuseppe Mazzini, 33 38122 Trento Tel. 0461.237543

E oggi cosa mettete nel piatto? La nostra cucina è imperniata sui prodotti del territorio, con molta attenzione alla stagionalità. Nel tempo i piatti cambiano, in dieci anni Giovanna non ne ha mai rifatto uno. La proposta dei piatti è un percorso parallelo all’evoluzione della sua persona. La creatività si sviluppa e cambia nel tempo. Per esempio adesso Giovanna ama molto l’abbinamento dolce-salato o dolce-acidulo, per questo oggi (sabato 26


dessert PIRAMIDE DI CIOCCOLATO FONDENTE RIPIENA DI MOUSSE DI GUAJAVA E TÈ VERDE CON GELATINA AL LIMONE

INGREDIENTI per 4 persone Per la mousse 200 gr di cioccolato fondente 80% 100 gr di polpa di guajava due tazze di tè verde 100 gr di zucchero 100 gr di yogurt 150 gr di panna montata tre fogli di colla di pesce Per la gelatina succo di due limoni 100 gr di sciroppo di zucchero cinque fogli di colla di pesce

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ciogliere il cioccolato a bagnomaria, poi con un pennello foderare uno stampo in silpat a forma di piramide con il cioccolato fuso. Mettere lo stampo in frigo fino all’indurimento del cioccolato. Ripetere l’operazione in un secondo e, se necessario, terzo passaggio fino ad avere una piramide dalle pareti robuste. Preparare il tè verde. Frullare finemente la polpa di guajava, aggiungendo zucchero e tè verde, togliere dal frullatore il composto e aggiungere lo yogurt e i fogli di colla di pesce precedentemente ammorbiditi in acqua tiepida; alla fine aggiungere la panna montata. Lasciare il composto a riposare in frigo per almeno due ore. Per la gelatina di limone: al succo dei due limoni aggiungere lo sciroppo di zucchero e la colla di pesce (ammorbidita in acqua tiepida), mettere il tutto in uno stampo rettangolare che verrà messo in frigo fino all’addensamento. Prima di servire il dessert riempire le piramidi con la mousse di guajava e tè verde e decorare con cubetti di gelatina al limone. Per colorare il piatto, del coulis di fragole, ottenuto frullando fragole con zucchero e una goccia di limone.

Ogni nuova creazione viene fatta assaggiare a tutto il personale del ristorante, per essere certi che si proponga un prodotto di livello adeguato. Il pane è fatto in casa, e anche quello cambia continuamente: stasera, per esempio, abbiamo proposto pane al cumino e anice, pane di soia e Kamut

settembre, ndr) nella carta c’erano due o tre piatti che presentavano l’accostamento di carne e frutta. Ogni nuova creazione viene fatta assaggiare a tutto il personale del ristorante, per essere certi che si proponga un prodotto di livello adeguato. Il pane è fatto in casa, e anche quello cambia continuamente: stasera, per esempio, abbiamo proposto pane al cumino e anice, pane di soia e Kamut, e la focaccia di patate, che è un classico sempre pre-

sente. Nella scelta degli ingredienti siamo poi sempre attenti, al fine di ottenere una cucina leggera. Dove vi procurate le materie prime per la vostra cucina? Ricerchiamo prodotti di qualità, come olio biologico di Puglia e verdure freschissime. Giovanna va personalmente a fare la spesa ogni mattina, per avere sempre prodotti freschi dai suoi negozi di riferimento e sce-

glie personalmente gli ingredienti che le servono. In estate, poi, molte verdure arrivano dall’orto del padre di Giovanna che, dopo aver smesso il lavoro in trattoria, ha cominciato a coltivare un terreno di 1.000 metri quadrati. Compriamo solo formaggi a latte crudo e, se non ne troviamo uno di qualità, piuttosto non lo prendiamo. Abbiamo notato una buona selezione di vini sulla carta. Chi se ne occupa? Io, in persona. Tutti gli anni faccio quella che mi piace definire la mia “via crucis”, durante la quale faccio il giro di tutte le cantine per assaggiare i prodotti di quell’anno, e decidere quali inserire nella nostra carta. Può succedere, ad esempio, che ne venga eliminato qualcuno, perché non più buono come l’anno precedente, oppure il contrario. Questo ci permette di avere sempre una carta dei vini di altissimo livello

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Parole in tasca

Romana Petri

Fulvio Ervas

Cavallo di Ferro 2010 pagg. 140

Marcos Y Marcos 2010 pagg. 300

olce, intenso, elegiaco e umanissimo romanzo corale, ambientato nell’isola di Pico. L’io narrante, un’italiana partita in cerca di rigenerazione e quiete nuova, e di un contatto mozzafiato col mare, man mano si mostra capace d’aderire con una naturalezza totalizzante all’umanità e alle culture che popolano l’isola, come ogni estate. Il tutto, con buona pace di quanti danno per acquisito che l’unico letterato italiano capace di raccontare microcosmi lusitani con autentico slancio empatico e perfetta adesione sia Tabucchi. Un successo internazionale.

©istockphoto.com/trigga

il turismo culturale

FINCHÉ C’È PROSECCO C’È SPERANZA

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a cura di Gianfranco Franchi

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LA DONNA DELLE AZZORRE

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uarta avventura per l’ispettore Stucky, mezzo persiano e mezzo veneziano. È un buon bevitore, senza essere un intenditore, buon lettore (Manganelli), scapolone molto ricercato. Stavolta indaga sulla misteriosa morte del conte Ancillotto, fornitore di prosecco dell’osteria di Secondo, grande amico dell’ispettore. È uno strano suicidio, perché il conte era uno che amava le donne, camminare, guardare il fuoco e il buon vino: uno così non vorrebbe mai uccidersi. Lascia una bella eredità, ettari di collina. E il mistero d’un suicidio un po’ troppo coreografico. Cin-cin.

LA VIGNA DI UVE NERE

IL SIGNOR MOZART SI È SVEGLIATO

Livia De Stefani

Eva Baronsky

isbn 2010 pagg. 233

Elliot 2010 pagg. 310

ivia De Stefani esordì in narrativa per Mondadori con quest’opera, passata, nell’arco di cinquant’anni, per una ristampa Rizzoli e per questa nuova edizione isbn: quando scrisse il romanzo pensava che avrebbe avuto successo solo in Sicilia, invece i siciliani disprezzarono il libro, lo considerarono un’offesa, tanto che per molto tempo l’autrice non poté tornare sull’isola. Sono dovuti passare venticinque anni perché l’atteggiamento mutasse. In quegli anni, ricorda il curatore, la mafia era ancora un tabù. La letteratura l’ha sconfitto.

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antasatirica commedia degli equivoci, Il signor Mozart è un piacevole omaggio al genio dell’artista, perduto il 5 dicembre 1791, appena trentacinquenne. Wolfgang Amadé Mozart, nell’operetta barocca della Baronsky, si risveglia, la notte dopo gli ultimi, angosciosi lavori sul Requiem, nella Vienna del 2006. Ricorda perfettamente tutto quanto, soltanto fatica – ragionevolmente – a raccapezzarsi in una realtà tecnologicamente, culturalmente, socialmente, architettonicamente diversa (eccezionalmente diversa) da quella abbandonata un attimo prima. Grottesco.


UNA FAMIGLIA PERFETTA

IOLAVOROINTIVU

CRIMINI LETTERARI

Silvia Ricci-Lempen

Mauro Garofalo

Charles Nodier

Iacobelli 2010 pagg. 256

Alacran 2010 pagg. 185

Duepunti 2010 pagg. 106

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omanzo familiare concentrato sull’interpretazione e sulla trasfigurazione del sofferto e contrastato rapporto tra la narratrice e suo padre; una notturna, articolata e complessa elaborazione d’un lutto che sembra stratificato. Non è soltanto la sofferenza per la perdita del padre, è – in un certo senso – la nostalgia per l’Italia conosciuta e perduta, per l’Italia che poteva essere e non è mai stata, rovinata dalla corruzione e dall’arroganza, dalla superficialità e dall’incoscienza politica. L’autrice, svizzera d’adozione, non ci ha dimenticati.

B

U

na vita agra catodica e ribelle, dominata da una impressionante capacità di assimilazione del lessico ultrainglese dell’informatica, del marketing e della comunicazione, capace d’essere, a un tempo, libro satirico di denuncia delle condizioni dei lavoratori nelle aziende di oggi, a un tempo libro drammatico di sintesi e trasfigurazione delle nuove forme di alienazione contemporanea, a un tempo diario di ascolti, visioni, letture ed esperienze. L’autore, Mauro Garofalo, ha esordito un anno fa col libro-intervista a Morgan, il cult In pArte Morgan.

A

circa duecento anni di distanza dall’originaria pubblicazione francese, scopriamo quella che, secondo Speziale, Schifani e Carbone, è “un’opera-mondo”, in cui il mondo è l’universo della Repubblica delle Lettere. In altre parole, “un mondo strutturalmente criminale, dove l’appropriazione indebita, la rilettura scorretta, il plagio, il sovvertimento della regola sono motore generativo, ragione della fecondità stessa”. Prova principale delle regole sbagliate di questo mondo? Nodier, che le denunciò, nel tempo plagiò Potocki.

LA COMMEDIA DEI FILOSOFI

STORIE DI PUGNI

LE CONFESSIONI DI UN TERRORISTA ALBINO

Albert Camus

Jack London

Breyten Breytenbach

Via del Vento 2010 pagg. 32

Piano B 2010 pagg. 128

Alet 2010 pagg. 288

reve pièce teatrale del giovane Camus, inedita in Italia. Secondo il curatore, Antonio Castronuovo, è una “precoce incursione critica verso precise posizioni”, scritta con ogni probabilità nel 1947. Si tratta di un divertissement anti-esistenzialista, protagonista assoluta la lucida follia del signor Nulla, “sedicente filosofo”, matto fuggito dal manicomio. Nulla è uno dei molti nuovi Messia che popolano Parigi. Predicano queste verità: “nulla ha causa e tutto è caso”, perché il mondo è assurdo. Ne deriveranno stravaganti ortodossie.

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accolta di quattro pezzi del papà di Martin Eden: si tratta dei racconti socialisti “Il messicano” e “Una bistecca”, del dramma sentimentale “Il gioco” e del reportage, sin qui inedito in Italia, “Il match del secolo”. Quando London scrive di boxe tendenzialmente sta parlando di qualcosa di ben più alto: sta parlando di rivoluzione delle classi sociali più deboli e oppresse, sta parlando dell’infelice condizione di quei figli del popolo che, finita la carriera, si ritrovano a campare di stenti: va mostrando tutto il suo idealismo.

S

ette anni di carcere (1975-1982) per un artista e un intellettuale colpevole d’aver militato contro l’apartheid: unica sua difesa, dall’alienazione, dalla sofferenza, dalla disperazione figlia della privazione di qualsiasi libertà, la scrittura. È lo stesso autore a parlarne come di un “mezzo di sopravvivenza”, ideale per suddividere il suo ambiente in “bocconi digeribili”, per afferrare, capire e interiorizzare tutto quel che stava vivendo. Breytenbach ci accompagna negli abissi d’una nazione allora intossicata da una “mutazione del potere e dell’avidità”. De profundis.

il turismo culturale

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www.monterossa.com

Franciacorta Extra-Brut Salvàdek Monte Rossa 2006 Nome commerciale: Salvàdek Denominazione geografica: Franciacorta (docg) Luogo di produzione: Bornato di Cazzago San Martino (Franciacorta, Brescia) Vitigni: chardonnay (100%) Tipo di vino: spumante bianco secco Prezzo: € 35 circa in enoteca

Assaggi divini

www.biancaravini.it

Pico La Biancara Angiolino M aule 2008 Nome commerciale: Pico Denominazione geografica: Veneto (igt) Luogo di produzione: Gambellara (Vicenza) Vitigni: garganega Tipo di vino: bianco secco fermo Prezzo: € 16 euro circa in enoteca

©istockphoto.com/carlosalvarez

a cura di Samuel Cogliati

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il turismo culturale

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a Franciacorta è una zona viticola giovane. Nonostante una tradizionale produzione contadina per l’autoconsumo e tanto marketing per sottolineare l’antica presenza della vite, la viticoltura moderna resta divisa tra due anime: una vocazione commerciale prevalente, e qualche lampo di ricerca qualitativa disinteressata. Qualità non significa però confezionare spumanti – o “bollicine”, come amano dire i franciacortini – ben fatti e senza difetti: la vera scommessa del futuro, per la Franciacorta, è produrre vini espressivi e originali. Uno sforzo in questa direzione viene dal Salvàdek, ultimo nato in casa Monte Rossa. Questo extra-brut (dal dosaggio quindi intelligentemente molto contenuto) è un Franciacorta tipico, cioè facile da bere e improntato alla note di burro fuso e frutta dello chardonnay (più un piacevole tocco di pomodoro giallo). Oltre che per questa semplicità, si apprezza però anche per la ricerca di una essenzialità e di una purezza (centrate solo in parte), che lo avvicinano ai gusti dei veri intenditori. Un Franciacorta che funziona bene all’aperitivo, ma ancora meglio a tavola: provatelo con i cappelletti in brodo di carne.

Q

uando, più di trent’anni fa, Angiolino Maule iniziò a coltivare la vite, aveva in animo di fare un vino molto diverso dai tanti bianchi anonimi e industriali di Soave e Gambellara. Sono occorsi tempo, caparbietà, pazienza, apprendimento, passione... ma l’obiettivo è stato pienamente raggiunto. Oggi, nonostante i suoi tanti dubbi, frutto di un’onesta capacità critica, Maule è uno dei produttori di vino più interessanti e più bravi d’Italia. Nei suoi vigneti di Gambellara, l’eccellente terroir vulcanico delle prime Prealpi vicentine è rinato grazie a un approccio agricolo rispettoso e il più naturale possibile. Da anni i prodotti chimici di sintesi sono banditi. Nelle sue bottiglie, il bianco frutto della garganega – nobile vitigno locale – è stato valorizzato. Il Pico 2008, pur ancora giovane, promette di essere una delle annate più riuscite degli ultimi vent’anni. È un bianco secco affascinante, leggermente velato nel colore, perché Maule non filtra nessuno dei suoi vini. Polposo, minerale, elegante, fine e complesso, con l’energia di un vino rosso. Un compagno perfetto per il baccalà, ma anche per molti formaggi a pasta molle.


www.redondel.it

www.vininobili.it

Teroldego Rotaliano Rosato Assolto Redondèl 2009

Valtellina Superiore Sassella Nobili 2006

Ligera Birrificio Lambrate

Nome commerciale: – Denominazione geografica: Valtellina Superiore Sassella (docg) Luogo di produzione: Poggiridenti Piano (Sondrio, Lombardia) Vitigni: nebbiolo (detto anche chiavennasca) Tipo di vino: rosso secco fermo Prezzo: € 14 circa in enoteca

Nome commerciale: Ligera Tipo: birra stile American pale ale Luogo di produzione: Milano (Lombardia) Ingredienti: acqua, malto, luppolo, lievito Prezzo: € 10-12 circa in negozio

Nome commerciale: Assolto Denominazione geografica: Teroldego Rotaliano (doc) Luogo di produzione: Mezzolombardo (Trentino) Vitigni: teroldego rotaliano Tipo di vino: rosato secco fermo Prezzo: € 10 circa in cantina

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aolo Zanini “fa vino” – come dice lui stesso in una sorta di manifesto o breve autobiografia – nella ricerca di una comunione ideale con la natura, i vigneti di Mezzolombardo (pochi ettari), la tradizione e la memoria del padre, che qualche decennio fa l’iniziò alla viticoltura. Tra i tanti (forse troppi) vitigni trentini, Zanini è alle prese con il teroldego, il fuoriclasse di queste valli, ma anche una “brutta bestia”, non così facile da domare e nobilitare. Il Dannato, teroldego rosso della stessa azienda, inciampa infatti in una durezza “scura” e in una legnosità troppo pronunciata per lasciarlo esprimere. Questo Assolto, invece, è un rosato ben riuscito e godibile, senza i limiti di personalità della stragrande maggioranza dei rosé in commercio, che li rendono impopolari. L’Assolto è anche al riparo da eccessi tecnicistici e furori enologici – tentazioni di tanti produttori di rosato – che rendono i vini non solo anonimi ma anche indigesti (mal di testa e mal di stomaco). Dal bel colore cerasuolo brillante, dall’aroma fruttato e dal gusto succoso, morbido con un piacevole contrappunto amarognolo, questo vino sarà il compagno adeguato di una torta salata con uova, erbette e formaggio.

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nsieme all’Oltrepò Pavese, la Valtellina è probabilmente la zona lombarda a più alta vocazione vitivinicola. Strettamente legata al suo vitigno d’elezione, il nebbiolo – chiamato anche “chiavennasca” in loco, salvo poi dimenticare questa dicitura da quando il nebbiolo piemontese ha fatto fortuna –, sa dare vini rossi peculiari e al tempo stesso molto differenti dai cugini langaroli. Ma negli ultimi anni i nebbioli valtellinesi sono stati spesso alterati dalla preoccupazione di ottenere vini scuri e densi, incoerenti con la tradizione locale. A casa Nobili, invece, non mancano i Valtellina ben riusciti e rispettosi dell’espressività di questa varietà d’uva: elegante, nervosa ma al tempo stesso in un certo senso “lieve”, soprattutto in aree montane. Il Sassella 2006 ha un bel colore granato vivo e giustamente leggero. Vinoso e appena brusco, ha già belle note classiche di viola, mandorla e cacao. In bocca è compatto e piuttosto morbido; il tempo dovrebbe stemperare una lieve insistenza amara che ne fa un Valtellina austero. Benissimo, ovviamente, con i pizzoccheri. Ma provatelo anche su dei ravioli di carne in salsa di noci o funghi.

www.birrificiolambrate.com

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li appassionati sanno bene che la classe di una birra non si valuta in gradi alcolici, ma nella sua compiuta originalità, nella bevibilità, della pulizia esecutiva e nella misura del suo equilibrio. Il Birrificio Lambrate è diventato una piccola istituzione milanese. La Ligera – termine che in milanese indicava la malavita “povera” d’un tempo – è una birra ad alta fermentazione, fondata più sulla schietta definizione della beva che sul desiderio di impressionare. Per questo motivo, si gusta con immediata facilità e invita a un secondo boccale. Il profumo di erbe amare, di alghe, dado di carne, melanzane alla griglia e un leggero tocco di caramello è composto e invitante. In bocca la birra dichiara subito il suo amaro, che accompagna tutto il sorso fino alla chiusura con diligenza. Sottile, elegante, possiede una gradevole “acquosità”, che è più leggerezza che diluizione. I suoi soli 4,5% di alcol aiutano a goderla senza stanchezza. A tavola, questa Ligera è da provare sui filetti di sgombro, ma anche semplicemente sulle uova al tegamino.

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www.controne.net

FAGIOLO DI CONTRONE AZIENDA AGRICOLA MICHELE FERR ANTE Azienda Agricola Michele Ferrante Via degli Orti, 2 84020 Controne (SA)

www.silvisabinasapori.it

OLIO EXTR AVERGINE DI OLIVA MONOCULTIVAR SALVIANA SILVI SABINA SAPORI Silvi Sabina Sapori Strada Ponte delle Tavole Località Stazzano 00018 Palombara Sabina (RM) Tel. 0774.635423

Assaggi gourmet a cura di Massimo Roscia

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enza macchia e senza paura. Il fagiolo di Controne ha semi e baccello completamente bianchi. Nessun occhio o screziatura compromette quel suo immacolato candore che procura invidia a borlotti, anellini gialli, bobis a grano nero e a tutti gli altri cugini della leguminosa famiglia. Quel suo essere quasi sferico pare poi alludere a una capricciosa disubbidienza alle geometrie della natura, a un ardimentoso tentativo di ricerca della perfezione. Le originali caratteristiche morfologiche, la buccia assai sottile e impalpabile e l’alta digeribilità fanno di questo Phaseolus vulgaris un prodotto di inestimabile qualità. A Controne, nel Cilento, in una terra fertile che giace ai piedi degli Alburni ed è solcata dal fiume Calore, Michele Ferrante, orgogliosamente contadino, lo coltiva nelle sue tenute aziendali dal 1989, ripudiando le colture intensive, tutelando la straordinaria biodiversità della terra e privilegiando la sintonia con la natura. Non resta che gustarlo con una pasta fatta in casa, lesso in bianco o con la scarola, lasciando che il suo ricco corredo di proteine, vitamina B, ferro e calcio protegga il fegato e irrobustisca il cor.

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il turismo culturale

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osì come accade per i vini, anche negli oli capita frequentemente di riscontrare una perfetta corrispondenza tra il carattere del produttore e le peculiarità del suo prodotto. Tale correlazione è più che evidente in Pietro Silvi, olivicoltore di terza generazione e titolare – con la sorella Daniela – dell’azienda agricola di famiglia Silvi Sabina Sapori, a Palombara Sabina, una quarantina di chilometri a nord-est della Capitale. Pietro è un uomo mite, cordiale, piacevolmente bilanciato nei modi, limpido e solare nel suo appassionato affaccendarsi tra oliveto (una decina di ettari e un migliaio di piante) e frantoio, e nel relazionarsi con gli altri. Lo sguardo e le parole rivelano un perfetto equilibrio tra il suo essere avido di conoscere e generoso di far conoscere, tra una rotonda passione e una piccante determinazione. Dei tre oli aziendali, l’extravergine di oliva Monocultivar Salviana è quello che più gli somiglia. Giallo oro con riflessi verdolini, spiccate note floreali di ginestra, mimosa, margherita e altri piccoli fiori gialli combinate, su un sottofondo di erbe officinali, con i toni erbacei della foglia di pomodoro. In bocca colpiscono l’equilibrio amaro-piccante e la lunga persistenza. Assai piacevole, proprio come Pietro.


www.fattoriefiandino.it

marioparente@virgilio.it

www.labonausanza.it

GR AN KINAR A FATTORIE FIANDINO

PESCHIOLE AZIENDA AGRICOLA VERTICELLI

LONZINO DI FICO LA BONA USANZA

Azienda Agricola Verticelli di Mario Parente Via G. Marconi, 11 81059 Vairano Patenora (CE) Tel. 0823.988716

La Bona Usanza Artigianato Alimentare di Qualità Via Ceresani, 11 60030 Serra de’Conti (AN) Tel. 0731.878568

Fattorie Fiandino Via Termine, 25 12020 Villafalletto (CN) Tel. 0171.930014

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recento anni di storia patria e di epopea casearia che si intrecciano, svelando una straordinaria congerie di episodi, aneddoti, gioie e dolori che, da sola, farebbe la fortuna di ogni romanziere. Fra traiettorie occitane e riti della pastorizia, eventi bellici e mungiture si arriva al presente. I cugini Egidio e Mario Fiandino, casari in Villafalletto, lavorano latte piemontese mettendo in pratica gli insegnamenti di Nonno Magno e si dicono felici. Felice e fortunato è senza dubbio il loro Gran Kinara, primo formaggio a lunghissima stagionatura (dodici mesi) con vero caglio vegetale. E sono proprio i fiori del Cynara cardunculus, il cardo selvatico di columelliana memoria, a conferire a questo formaggio, dalla pasta granulosa e saporita, una ricca dote olfattiva fatta di fresche sensazioni floreali e vegetali di erba di pascolo appena sfalciata. Degni compagni sono gli altri prodotti aziendali: il profumato Lou Bergier, un latte crudo con sale marino integrale delle saline di Culcasi; la cremosa Toma del Fra’ stagionata nel fieno; la monumentale Riserva oltre 20 mesi; il Formaggio alla birra Baladin; il caleidoscopico Lou Sande che inebria con le sue note di latte, nocciole e frutta secca, erba bagnata e muschio. E il Burro 1889, un burro salato da panne riposate su cui si potrebbe scrivere un’intera laude.

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imenticate quanto appreso nei libri di storia. Ma quale Teano! È a Vairano Patenora, in località Taverna della Catena, che, secondo alcuni, il 26 ottobre 1860 avvenne lo storico incontro tra Garibaldi e Vittorio Emanuele II. Le fonti sono discordanti, la controversia è ancora aperta, gli studiosi discutono animatamente, salvo poi rappacificarsi in questo angolo verde di Campania Felix, davanti a un piatto di squisite peschiole. Le peschiole sono pesche lillipuziane, grandi quanto un’oliva, raccolte pochi giorni dopo l’allegagione (ovvero la fase iniziale dello sviluppo dei frutti successiva alla fioritura), fatte maturare in contenitori chiusi ermeticamente ed esposti al sole per tre mesi, lavate, selezionate e conservate al naturale in agrodolce (acqua, sale, aceto di vino e zucchero), in barattoli di vetro. Tutto nel rispetto dei dettami tradizionali e di un’antica ricetta che rende questi bocconcini fruttati compatti, croccanti e appetitosi. Le peschiole hanno un papà: Mario Parente dell’Azienda Agricola Verticelli. Ottanta ettari in una cornice naturale incontaminata (a pochi passi dal Parco Regionale di Roccamonfina); terreni coltivati con tecniche agronomiche a basso impatto ambientale; peschiole, pomodorini, ortaggi di stagione e altri prodotti trasformati e conservati artigianalmente.

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ualcuno” scriveva Columella nel suo De re rustica, “colti i fichi, toglie il peduncolo e li stende al sole. Quando si sono seccati un po’, prima che diventino duri, li ammassa dentro delle vasche di terracotta o di pietra. Allora, lavatisi i piedi, li pesta allo stesso modo della farina e vi mescola sesamo abbrustolito con anice d’Egitto, seme di finocchio e di cumino. Dopo averli ben pestati e aver impastato tutta la massa dei fichi sminuzzati, forma dei piccoli salsicciotti. Li avvolge con foglie di fico, legandoli con un giunco o un’erba qualsiasi e li ripone sui graticci aspettando che si asciughino”. A distanza di duemila anni, nella marchigiana Vallesina si realizza ancora questo gustoso salame di fichi appartenente all’antica tradizione rurale “che non sprecava mai nulla” e che è stato, per fortuna, sottratto all’oblio e all’estinzione. L’impasto (fichi dottati o brogiotti essiccati e amalgamati con mandorle, noci, semi di anice stellato e un goccio di mistrà o di sapa) viene lavorato a forma di salame e avvolto in foglie di fico legate con un filo di lana. Tagliato a fette e servito come dessert, il morbido e profumato lonzino si scioglie in bocca, libera i suoi aromi e regala ricordi d’infanzia. Un gruppo di giovani agricoltori associati, quelli de La Bona Usanza, ne curano la produzione e la commercializzazione.

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Il Turismo Culturale luglio agosto settembre 2010




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