Stampa d’epoca
il basso Giuseppe Frezzolini, primo interprete di Dulcamara
Il sempiterno fascino della giovinezza Breve introduzione a “L’elisir d’amore”, seconda opera in cartellone per la 43° Stagione lirica della Provincia di Lecce di Fernando Greco
autoritratto di Donizetti
A quasi due secoli dalla sua creazione, “L’elisir d’amore” mantiene intatta un’innata freschezza. Se il canovaccio dell’opera rispecchia apparentemente i canoni dell’opera buffa settecentesca, compreso un palese riferimento alle maschere della Commedia dell’Arte, il lirismo infuso dal tessuto musicale è già Romanticismo vissuto con tutta l’ingenuità e la forza della prima “cotta” adolescenziale (o “scuffia” che dir si voglia). Per tali motivi, l’Elisir rimane per eccellenza l’opera della giovinezza, contrapposta al “Don Pasquale”, l’altro capolavoro buffo di Gaetano Donizetti (1797 – 1848), che invece rappresenta l’autoironica constatazione del decadimento.
CAPOLAVORO PER CASO
Felice Romani
Come molti capolavori, “L’Elisir d’amore” sarebbe stato creato in fretta e per caso, se si dà credito alla celebrativa biografia di Felice Romani, librettista dell’opera, scritta da sua moglie Emilia Branca. L’impresario Alessandro Lanari (soprannominato all’epoca il “Napoleone degli impresari”) si era trovato nell’emergenza di avere entro due settimane un nuovo titolo per il cartellone del Teatro alla Canobbiana a causa dell’improvvisa defezione di un ignoto compositore; pertanto egli propose a Donizetti quest’insolito tour de force. Come dire di no a quello che era il teatro milanese più importante dopo il Teatro alla Scala? E soprattutto, come dire di no al celebre impresario dopo il mezzo fiasco ottenuto alla Scala qualche mese prima con l’opera “Ugo, conte di Parigi”? Fu così che Donizetti propose la titanica impresa a Felice Romani: “Io mi sono obbligato a mettere in musica un poema entro quattordici giorni. Concedo a te una settimana per apparecchiarmelo; vediamo chi ha più coraggio di noi due!”
UNA LACRIMA FURTIVA… E OCCASIONALE In accordo con il musicista, Romani tradusse in italiano il libretto scritto da Eugène Scribe per l’opera “Le philtre” di Daniel Auber allestita all’Opéra-Comique di Parigi nel 1831, aggiungendo di suo soltanto il quartetto “Adina credimi” e la splendida aria di Adina “Prendi, per me sei libero”. Secondo il racconto della Branca “... Tutto procedette rapidamente e pienamente d’accordo fra Poeta e Maestro, fino alla scena ottava dell’atto secondo; qui il Donizetti volle introdurre una romanza
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La Trama Atto Primo Scena Prima – In campagna, in una calda giornata estiva, un gruppo di mietitori fa una pausa all’ombra di un albero mentre la fittavola Adina legge ad alta voce un libro che parla di come Tristano fosse riuscito a conquistare il cuore della regina Isotta ricorrendo a un farmaco miracoloso. In disparte Nemorino, innamorato di Adina, osserva la scena lamentando la propria inferiorità intellettuale rispetto alla ragazza. La lettura viene interrotta dall’arrivo di alcuni soldati comandati dal sergente Belcore che, tronfio di una goffa virilità, chiede ad Adina ospitalità per la truppa offrendole dei fiori, sicuro che nessuna donna possa resistere al suo fascino. La giovane sembra stare al gioco, suscitando la gelosia di Nemorino che, rimasto solo con lei, rinnova le proprie profferte amorose, puntualmente respinte. Adina ribatte di essere per natura incostante e gli consiglia di correre piuttosto in città ad assistere lo zio malato nella speranza di un’eredità futura. Scena Seconda – Nella piazza del villaggio giunge il dottor Dulcamara che, presentandosi come un medico di fama internazionale, propone ai paesani l’acquisto del suo “specifico”, ovvero un elisir in grado di guarire qualsiasi malattia. Diradatasi la folla, Nemorino si avvicina a Dulcamara per chiedergli se possieda il miracoloso elisir d’amore della regina Isotta. L’astuto imbonitore, intuita la dabbenaggine del giovane, gli vende una bottiglia di Bordeaux spacciandola per il miracoloso elisir che, ventiquattr’ore dopo essere stato bevuto, avrebbe procurato al giovane tutte le ragazze che avesse desiderato. In realtà le ventiquattr’ore sarebbero servite a Dulcamara per svignarsela. Rimasto solo, Nemorino comincia a bere e, un sorso dopo l’altro, si ubriaca. Al giungere di Adina egli fa l’indifferente, sicuro che il giorno dopo la donna gli sarebbe caduta tra le braccia. Ella, indispettita dal comportamento di Nemorino, si propone a Belcore come sua sposa. Frattanto viene consegnato al sergente un dispaccio che ordina alle truppe di cambiar sede seduta stante e perciò Adina accetta di sposarsi in quello stesso giorno. Davanti a questa novità, l’euforia di Nemorino si trasforma in disperazione ed egli supplica la ragazza di rinviare le nozze di almeno un giorno, poiché spera che nel frattempo si manifesti l’effetto dell’elisir. Adina è irremovibile ed invita tutti i presenti a casa sua per il banchetto di nozze. Atto Secondo Scena Prima – E’ in atto la festa nuziale: tutti mangiano, brindano e cantano in onore degli sposi. Al sopraggiungere del notaio per la stesura del contratto, Adina si mostra contrariata poiché, per poter gustare appieno il sapore
della vendetta, vorrebbe che Nemorino fosse presente alle nozze. Tutti si allontanano al seguito del notaio, tranne Dulcamara che invece rimane a tavola per strafogarsi in piena libertà. Giunge Nemorino in preda alla massima afflizione e chiede a Dulcamara se esista un modo per anticipare l’effetto dell’elisir d’amore. Il falso dottore consiglia al giovane di berne un’altra bottiglia, ma Nemorino non ha più il becco di un quattrino per acquistarla. Torna Belcore, meravigliato del fatto che Adina abbia differito le nozze di qualche ora, e propone al giovane di arruolarsi nella sua truppa, non soltanto per poter guadagnare subito la bella somma di venti scudi, ma anche per godersi per tutta la vita gli innumerevoli vantaggi della vita militare. Detto, fatto! Nemorino firma con una croce il contratto di arruolamento, riscuote il denaro e poi corre felice da Dulcamara per l’acquisto del “mirabile liquore”. Scena Seconda – Alcune contadine si trasmettono l’una l’altra una notizia sensazionale che ha cominciato a diffondersi in paese: lo zio di Nemorino sarebbe morto lasciando il nipote unico erede di un’immensa fortuna. Al giungere di Nemorino, ancora ignaro della sua eredità, tutte si profondono in esagerati corteggiamenti poiché ognuna spera di diventarne la moglie; il giovane, lusingato da tante attenzioni, crede che ciò sia frutto dell’elisir d’amore, di cui si è già scolato la seconda bottiglia. La scena non sfugge agli sguardi di Dulcamara e di Adina: finalmente la ragazza si scopre triste e gelosa, e Dulcamara le chiarisce la faccenda, quasi quasi convinto anch’egli che tutto il merito sia da ascrivere al magico elisir. Ma Adina, appena informata su come il giovane, pur di colpire il cuore di una donna crudele, si fosse procurato l’elisir d’amore della regina Isotta a costo di arruolarsi nell’esercito e perdere la libertà, comprende tutto e, sinceramente pentita, si propone di recuperare l’amore di Nemorino. D’altro canto quest’ultimo, comparendo da solo in scena, si mostra commosso e speranzoso poiché gli è sembrato che dagli occhi di Adina, durante il corteggiamento da parte delle donne, spuntasse una “furtiva” lacrima, forse segno di un nascente affetto. Sopraggiunge Adina la quale restituisce a Nemorino il contratto di arruolamento che ella ha appena riscattato da Belcore, ma il giovane, poiché la ragazza non ha apparentemente null’altro da dirgli, le grida che preferisce morire soldato piuttosto che non essere amato. Adina allora si getta tra le sue braccia, ammettendo finalmente il proprio amore, mentre a Belcore non resta che rassegnarsi e partire, sicuro di trovare presto un’altra donna sensibile al fascino dell’uniforme. Giunge anche la carrozza di Dulcamara che, dopo aver venduto qualche altra bottiglia di farmaco miracoloso, saluta tutti e lascia il villaggio, nella soddisfazione generale.
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per tenore, a fine di sfruttare una musica da camera, che conservava nel portafogli, della quale era innamorato […] Romani in sulle prime ricusò dicendo: - Credilo, una romanza in quel posto raffredda la situazione! Che c’entra quel semplicione villano, che viene lì a fare una piagnucolata patetica, quando tutto deve essere festività e gaiezza? – ” Il tempo avrebbe dato ragione al compositore: la romanza osteggiata da Romani sarebbe diventata il brano più celebre dell’opera, quella “Furtiva lagrima” che tanta fortuna avrebbe portato a nomi del calibro di Schipa o di Pavarotti.
Tito Schipa, Elisir d’amore 1931 (Arch Schipa-Carl)
UN SUCCESSO INSPERATO La sera della prima, il 2 maggio 1832, il successo giunse talmente strabiliante e inatteso al punto che “il Napoleone” si affrettò a programmare ben trentadue repliche, che videro tutte il plauso del pubblico e della critica, persino quella solitamente più maldisposta nei confronti di Donizetti, tra cui citiamo Francesco Pezzi, che sulla “Gazzetta Privilegiata” si profuse in un largo encomio: “... Lo stile musicale di questo spartito è vivo, brillante... Una stromentazione che si scorge lavoro di gran maestro accompagna un canto or vivo or brillante or passionato...” Il Bergamasco però sarebbe rimasto per tutta la vita ipercritico nei confronti del suo “Elisir” e francamente perplesso dinanzi a tanta popolarità: dopo aver letto la recensione del Pezzi, egli si affrettò a scrivere al suo maestro Simone Mayr le seguenti parole: “La Gazzetta dice troppo bene dell’Elisir, troppo, credete a me... troppo!” Il successo della prima avrebbe ricevuto una definitiva conferma tre anni dopo, al Teatro alla Scala, grazie anche ad un cast di prim’ordine che includeva la celeberrima Maria Malibran.
IL NUOVO LIRISMO Dopo le molteplici farse scritte per i palcoscenici napoletani, di certo Donizetti non era nuovo al genere buffo, che in Elisir egli affronta mostrando di conoscere perfettamente gli stereotipi della Commedia dell’Arte. E’ facile riconoscere nel personaggio di Belcore l’epigono del “Miles Gloriosus” di Plauto, quel militare goffo nella sua spacconeria che nel tempo aveva assunto il nome di Capitan Fracassa o Capitan Spaventa. Altrettanto agevole è individuare nella figura di Dulcamara i tratti tipici del Dottore così come viene rappresentato nella Commedia dell’Arte, ovvero l’imbonitore saccente e ciarlatano, che peraltro compare in scena sillabando alla maniera rossiniana. Tuttavia la vera novità dell’Elisir consiste in un’atmosfera di patetico lirismo (sempre a lieto fine) che fa sì che quest’opera si discosti decisamente dalla tradizione buffa settecentesca e si accosti a quel genere semiserio che avrebbe caratterizzato la transizione tra Settecento e Ottocento (si pensi a titoli come “La Cecchina” di Piccinni o “La gazza
ladra” di Rossini), e ciò è evidente soprattutto nel personaggio tenorile di Nemorino. L’Elisir è spesso ricordato come “l’opera della Furtiva Lagrima”, non solo per la struggente bellezza di questa pagina, ma anche perchè il personaggio di Nemorino ci commuove e ci seduce fin dall’inizio dell’opera per la sua fresca ingenuità e il suo giovanile ardore. Nella sua dabbenaggine (non per niente si autodefinisce un “idiota”) egli è un puro di cuore, e troverà nel vino spacciatogli per farmaco miracoloso (il “magico liquore”) il coraggio per credere in sé stesso, scoprendo una sopraggiunta maturità. Anche l’amata Adina, che compare in scena come una donna sicura di sé, civettuola e poco avvezza a sentimentalismi, imparerà da Nemorino il valore dell’amore autentico e saprà trovare nel suo canto accenti accorati di sublime bellezza (è il momento dell’aria “Prendi, per me sei libero”). In conclusione, per dirla con lo studioso Oreste Bossini, “L’Elisir d’Amore entra nel cuore prima che nel cervello, ed io annovero quest’opera tra le cose per le quali val la pena di vivere”.