La Gioconda

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Copertina della prima edizione


Al tramonto del Romanticismo Breve introduzione a “La Gioconda” di Amilcare Ponchielli, prima opera in Cartellone per la 43° Stagione Lirica della Provincia di Lecce di Fernando Greco

Particolare dalla copertina di un libretto de “La Gioconda” dei primi del Novecento

L’ultimo trentennio del XIX° secolo segna un momento cruciale nella storia dell’opera lirica italiana. Al tramonto dell’estetica romantico-risorgimentale si fa strada la modernità, l’ideale borghese, mentre si cercano affannosamente nuovi modi di fare musica che tengano conto sì del nuovo sinfonismo di matrice mitteleuropea, ma senza rinunciare del tutto a quel Belcanto squisitamente italiano che aveva garantito fama imperitura a nomi del calibro di Rossini, Donizetti e Verdi, che peraltro è ancora in attività ed impera sulle scene internazionali. Pur compressa tra due inarrivabili monumenti verdiani (l’”Aida” del 1872 e l’”Otello” del 1887), “La Gioconda” di Amilcare Ponchielli (1834 – 1886) è sicuramente il titolo più pregevole di questo periodo di transizione che si sarebbe concluso con il sorgere del luminoso astro pucciniano.

La Trama Atto Primo: “La bocca dei Leoni” Siamo nel Seicento a Venezia, repubblica marinara. Nel cortile di Palazzo Ducale si accalca una folla festosa che si prepara ad assistere a una regata. In disparte, qualcuno osserva sinistramente la scena: è Barnaba che, sotto le vesti di cantastorie, è in realtà una spia a servizio dell’Inquisizione di Stato. Compare Gioconda, procace cantatrice ambulante, che accompagna amorevolmente l’anziana madre cieca; Barnaba fa alla giovane delle profferte amorose, freddamente respinte. Mentre la Cieca recita il Rosario seduta sugli scalini della chiesa, Gioconda si allontana alla ricerca di Enzo, l’uomo di cui è innamorata. Barnaba, irritato per il rifiuto, pensa di servirsi della Cieca per poter ottenere l’amore di Gioconda. Il popolo ritorna in scena festoso, acclamando al vincitore della regata e sbeffeggiando Zuàne, il vogatore sconfitto. Barnaba gli si accosta e gli rivela che la Cieca è in realtà una strega che ha fatto il malocchio alla sua imbarcazione. La calunnia passa di bocca in bocca amplificandosi tra i presenti, che si scagliano contro la povera vecchia per linciarla. A nulla vale l’interposizione di Gioconda e di Enzo, che corre a chiamare aiuto. Dall’alto della scalinata di Palazzo Ducale compare Alvise Badoero in compagnia della moglie Laura Adorno, la quale indossa sul viso una maschera. Il nobile veneziano, membro dell’Inquisizione, si informa sui motivi del tumulto. Sua moglie gli fa notare che la Cieca

non può essere una strega poiché ha in mano un Rosario: pertanto Alvise comanda che ella sia salva. In un commovente atto di riconoscenza, la Cieca regala il suo Rosario a Laura. Alla voce della fanciulla, Enzo dissimula un turbamento che non passa inosservato a Barnaba. Quest’ultimo, rimasto solo con Enzo, gli rivela di conoscere la sua vera identità: lui non è un marinaio dalmata come vorrebbe far credere, ma il genovese Grimaldo principe di Santafiore, proscritto dalla repubblica di Venezia, ancora innamorato di Laura, andata nel frattempo sposa a Badoero. Barnaba, al fine di separare Enzo da Gioconda, si rivela a lui come spia di Stato e, piuttosto che denunciarlo, gli propone di fuggire per mare con l’amata Laura, poiché Barnaba stesso avrebbe procurato che ella lo raggiungesse nottetempo alla sua imbarcazione. Enzo accetta il patto e corre via, poiché il suo amore per Laura è più forte sia dell’affetto che prova per Gioconda sia del ribrezzo che nutre nei confronti del sinistro Barnaba. Quest’ultimo, credendo di esser rimasto solo, chiama lo scrivano Isepo e gli detta una delazione anonima con la quale informa Alvise della tresca tra Enzo e Laura. La lettera viene imbucata nella “bocca dei Leoni”, ovvero il posto di Palazzo Ducale dove è possibile lasciare delle delazioni per l’Inquisizione. In disparte Gioconda ha udito la dettatura e perciò, mentre la folla riempie la piazza per una danza mascherata (la “furlana”), lei si dispera per il tradimento da parte di Enzo.

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UN’ACCOPPIATA VINCENTE

Amilcare Ponchielli

Il complesso libretto approntato da Arrigo Boito per “La Gioconda” fa riferimento ad “Angelo, tyran de Padoue”, farraginoso dramma di Victor Hugo, già messo in musica da Mercadante nel 1837 con l’opera “Il giuramento”. L’accoppiata Boito – Ponchielli si rivelò ben assortita e pertanto vincente: le irruenze del poeta, sempre attento alle ragioni della drammaturgia e della verosimiglianza, venivano puntualmente mitigate dal diligente musicista che, preoccupato fino all’inverosimile del gradimento da parte del pubblico, spingeva sul pedale della melodia e della cantabilità. Sembra di sentirlo quando, per fare a Boito le sue rimostranze sul terzo atto, Ponchielli gli scriveva “… In un melodramma il pubblico vuol sentire la musica, la melodia; invece qui il pubblico resta distratto dal parlante, interessantissimo, ma che per lui son parole!”

Atto Secondo: “Il Rosario” L’imbarcazione di Enzo, denominata Hecate, è ormeggiata all’approdo di Fusina. Mentre la ciurma si prepara per la partenza, Enzo attende con trepidazione l’arrivo di Laura, sotto gli occhi di Barnaba travestito da pescatore. Giunge la donna, che finalmente può riabbracciare l’amato dopo una lunga separazione: partiranno insieme al tramontar della luna. Enzo torna sulla nave per ultimare i preparativi. Gioconda, celata da una maschera, affronta Laura rivendicando il proprio amore per Enzo e brandendo un pugnale contro di lei, ma poi intravede tra le sue mani il Rosario e si blocca, pensando che Laura è stata causa della salvezza di sua madre. Perciò decide di salvarla: le dona la sua maschera e la fa fuggire con la sua barca, mentre frattanto si sta avvicinando l’imbarcazione di Alvise. Quando Enzo ricompare in scena alla ricerca di Laura, Gioconda lo schernisce dicendogli che Laura è fuggita poiché il rimorso è stato più forte dell’amore. Al colpo di cannone partito dalla nave del nemico, l’equipaggio di Enzo fugge a riva mentre lui, tornato sull’Hecate, dà fuoco all’imbarcazione con una fiaccola e si tuffa in mare pronunciando il nome di Laura. Atto Terzo: “La Ca’ d’Oro” Mentre è in corso una festa alla Ca’ d’Oro, in una stanza attigua Alvise rinfaccia a Laura il suo tradimento e le impone di suicidarsi: egli stesso le fornisce un’ampolla di veleno e le indica un catafalco nascosto dietro una tenda, che dovrà diventare il suo letto di morte prima che sia cessata una gaia canzone che si ode fuori scena. Nella stanza si trova nascosta anche Gioconda, la quale, una volta uscito Alvise, offre a Laura un potente narcotico che, bevuto al posto del veleno, simulerà la morte. Torna Alvise che, accertatosi della morte della donna, continua ad intrattenere i suoi ospiti offrendo loro una “mascherata di vaghe danzatrici” (la Danza delle Ore). La Cieca, sorpresa da Barnaba nelle stanze segrete del palazzo, viene trascinata al cospetto di Alvise; ella rivela che stava pregando per un’anima agonizzante. In contemporanea si odono dei rintocchi funebri ed Enzo, avendo appreso da Barnaba che

si tratta di Laura, getta via la maschera che gli copriva il volto e si rivela al nemico. Alvise, dichiarando pubblicamente di essere stato oltraggiato da sua moglie, scopre il catafalco su cui giace Laura, apparentemente morta. Enzo si scaglia contro di lui, ma viene arrestato dalle guardie. Gioconda, in disparte, promette a Barnaba sé stessa in cambio della vita dell’amato. Nel generale trambusto, Barnaba rapisce la Cieca. Atto Quarto: “Il canal Orfano” In un palazzo diroccato sull’isola della Giudecca, Gioconda ha fatto condurre il corpo di Laura ancora in catalessi. La donna, che possiede il veleno sottratto a Laura, è in preda ad opposti pensieri. Da un lato medita il suicidio, poiché è sicura di aver perduto per sempre sia l’amore di Enzo sia quello di sua madre, misteriosamente scomparsa; dall’altro pensa che potrebbe liberarsi di Laura gettandola nelle acque del canale, riconquistando così l’amore perduto. Enzo, fuggito dal carcere grazie a Barnaba, si scaglia contro Gioconda dicendole con rabbia e scherno che si è disturbata inutilmente nel liberarlo dalle catene, poiché lui ormai desidera soltanto baciare la tomba di Laura e morire. Gioconda, con fare misterioso, gli rivela di aver rapito il corpo di Laura: Enzo, a cui ancora non è chiaro il progetto della donna, diviene ancor più furibondo e, pugnale alla mano, minaccia di ferirla a morte. Colpo di scena: Laura si risveglia dal coma e dall’alcova chiama l’amato per nome. Enzo comprende finalmente la bontà di Gioconda che, scorgendo al collo di Laura il fatidico Rosario, benedice i due amanti facendoli fuggire su una barca. Rimasta sola, Gioconda si accinge ad uscire alla ricerca della madre, ma sull’uscio viene raggiunta da Barnaba, che le impone di essere fedele al loro patto concedendosi a lui. Apparentemente tranquilla, Gioconda indossa abiti e trucchi di scena per essere più appetibile, ma, nel momento in cui Barnaba sta per afferrarla, si uccide trafiggendosi con un pugnale. All’uomo non rimane che un ultimo sarcasmo: si curva su Gioconda gridandole all’orecchio di aver ucciso sua madre, ma ella non può più udirlo perché è già morta.

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Dopo due anni di tira e molla, finalmente “La Gioconda” debuttò alla Scala l’8 aprile 1876 e tutte le ansie si dissolsero dinanzi alla calorosa accoglienza del pubblico, il cui applauso chiamò il compositore in proscenio per ben ventidue volte. Quella magica alchimia era destinata a non ripetersi più: le altre opere di Ponchielli, già accolte meno calorosamente al loro debutto, sarebbero ben presto cadute in oblio, mentre la morte del compositore ne avrebbe interrotto prematuramente la carriera, non prima però che egli stesso, diventato maestro di composizione al conservatorio di Milano, potesse annoverare tra i suoi allievi un giovanissimo Giacomo Puccini.

UNA PARTITURA “A TRAFORI” Le ragioni della bellezza e della popolarità di “Gioconda” sono già individuabili nella recensione comparsa su “Lombardia” all’indomani della prima: “… il merito principale di questo spartito è lo strumentale robusto, elegantissimo, di quella pastosità nervosa che pochi posseggono. Benchè pieno e nutrito, è insieme leggero, come vi girasse per entro l’aria, come fosse a trafori”. E’ tutto qui: la musica di Ponchielli scorre come un fiume per tre ore senza mai perdere in bellezza e fascino, a tratti piegata alle fosche tinte del libretto, a tratti sfoderando formidabili temi melodici, come nelle romanze, divenute molto popolari nel tempo, e nella celeberrima Danza delle Ore. Se l’articolazione generale ammicca al Grand-Opéra francese, compreso il ricorso ai ballabili ed ai momenti corali, la partitura rappresenta di fatto una rara sintesi tra tradizione belcantistica italiana e sinfonismo d’Oltralpe, con tanto di leitmotiv di wagneriano ricordo, ovvero lo struggente tema “del Rosario” che compare fin dal preludio, per essere poi cantato dal personaggio della Cieca. Come nei grandi titoli verdiani, ancora ne “La Gioconda” il rapporto genitore-figlio determina l’evolversi della

vicenda: tutte le volte in cui comparirà il tema “del Rosario” Gioconda non potrà fare a meno di proteggere Laura, nonostante siano rivali in amore, poiché la stessa Laura all’inizio ha messo in salvo la Cieca, madre di Gioconda, ed è stata da colei benedetta.

TRA LEONORA E TOSCA Un altro elemento che sembra accomunare “La Gioconda” al GrandOpéra è la spettacolarità, e ciò può esser vero se si considerano i grandi spazi scenico-sonori che fanno riferimento al mare di Venezia o l’enorme dispendio di masse corali e di voci protagoniste (ben tre primedonne!), ma quando la spettacolarità fa perno sull’orrido, qui siamo nell’ambito della Scapigliatura, corrente letteraria di cui Boito fa parte, che estremizza la passionalità Romantica stigmatizzandone i suoi aspetti deteriori. Pensiamo in particolare all’improvvisa comparsa del presunto cadavere di Laura nel finale terzo o all’incendio della nave nel finale secondo, per non parlare poi, nel finale dell’opera, del grottesco agghindarsi di Gioconda davanti al sadico Barnaba. Quest’ultimo, in quanto rappresentazione del male nella sua veste più cinica, è l’antieroe scapigliato per eccellenza, sovrapponibile al personaggio di Iago presente nell’Otello verdiano. Il personaggio di Gioconda, pur essendo ancora quello di un’eroina Romantica alla maniera verdiana, che muore per amore alla maniera verdiana, si colloca a metà strada tra la Leonora del Trovatore e la Tosca di Puccini. Per non doversi concedere al suo nemico, Gioconda si uccide come già a suo tempo aveva fatto Leonora, entrambe vittime del destino (“Suicidio! Ultima voce del mio destin!”); tra qualche anno Tosca avrebbe deciso attivamente di far cambiare direzione a quella lama, volgendola contro il suo aggressore. Ma questa è già storia del Novecento. Ponchielli seduto tra gli interpreti della prima


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