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“Quando nelle cose che facciamo ci mettiamo tutta la nostra passione, finiamo spesso per superare le nostre stesse aspettative. Così, anche nel lavoro, l’importante è non stancarsi mai di ricercare la via che ci consenta di esprimere al meglio le nostre potenzialità e i nostri talenti. Questo per me è vivere con passione”. Giuseppe Giordano
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I PROTAGONISTI
NINO D’ANTONIO
Giuseppe Giordano CIVILTÀ
TASTE VIN
DELLA PIZZA
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“Ricordo il corteo di zuppe invernali, cui seguivano i freschi ortaggi di primavera�. 5
PINO GIORDANO QUASI UN RITRATTO
(Pag. 2) Giuseppe Giordano Varese, 1962
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I trascorsi sono quelli umili ma dignitosi della gente di campagna. E il racconto procede a fotogrammi fra memoria ed emozioni. “Credo di non aver mai sofferto la fame. La poca terra a mezzadria, qualche mucca e una folla di galline erano sufficienti ad assicurare cibo a una famiglia con sei figli. Ricordo il corteo di zuppe invernali, cui seguivano i freschi ortaggi di primavera. Sempre secondo l’andamento delle stagioni. E poi i giochi fra ragazzi. Tutti da inventare, con niente. Dalla palla - fatta con le pezze insaccate di una vecchia calza, cucita poi con lo spago - fino allo slittino, che era il sogno di tutti noi. Niente più di una tavola di legno, con quattro cuscinetti a sfera, allora assai rari e costosi. Costruire questa “macchina” era un’operazione ai confini con la magia. Specie per le misure e l’inserimento di quella “traversina” che faceva da timone, e alla quale erano affidate le sorti di chi affrontava la discesa, ripida e a tornanti verso il mare. Io ne so qualcosa, e per giunta nel giorno del mio onomastico. Lo slittino (ma per noi era il “carruocciolo”) uscì di strada, e io tornai a casa con un bel taglio sulla fronte, a qualche centimetro dalla tempia destra”. A parlare è Pino Giordano - poco meno di settantanni, portati con giovanile baldanza - una carica di contagiosa simpatia e un linguaggio visivo. Procede infatti come se illustrasse un lungo filmato, del quale solo lui conosce il succedersi dei
fatti e delle immagini. Gli esiti sono quelli di una narrazione con un sottile sapore d’epoca, che si mescola agli anni dell’adolescenza e a una comprensibile emozione. Pino è nato a Tramonti, una cupola di vigneti e castagni d’intensa suggestione sulla Costa d’Amalfi. A nord il Valico di Chiunzi sull’ampia pianura fra Nocera e Sarno (da sempre feudo delle grandi industrie conserviere di pomodoro), e a sud il mare di Maiori. E’ terra dalla geografia anarchica, fra rocce, balzi, valloni, forre, dominio di una vegetazione prepotente, che fascia di verde e di quiete il paesaggio. L’abitato è sparso (si contano ben tredici frazioni), raccolto di volta in volta fra la piazzetta e la chiesa, quasi a esaltare autonomie quantomai sentite. Polvica, Gete, Ponte, Campinola, Capitignano non sono che alcuni insediamenti di questa terra, che vanta da sempre i più celebrati latticini d’Italia: fiordilatte, provola, scamorza, ricotta. Tutti derivati da quel latte di mucche agerolesi e podoliche, ma soprattutto da un’antica e sapiente manualità. “Ed è questo straordinario ventaglio di prodotti del latte – un tempo portati a Napoli e a Salerno attraverso impervie strade – a dare nel corso dei secoli un’identità alla gente di Tramonti. Per trasformarli, poi, in un esercito di pizzaioli alla conquista dell’Italia, a partire dalla Valle d’Aosta. Siamo ben oltre le millecinquecento pizzerie, condotte da tramontani, e tutte con pieno successo”. Ma l’avventura non è di quelle da esaurirsi con una 7
citazione. E Pino non si risparmia. Anzi, sfodera insospettabili riferimenti culturali, poco riconducibili alla frequentazione di qualche anno di scuola, per giunta a indirizzo agricolo. Scopro così che il ragazzo di Tramonti (anzi della frazione di Campinola, per rispetto dell’anagrafe) ha vissuto all’insegna di un radicato vizio della curiosità. Che ne ha fatto non solo un imprenditore di successo, ma lo ha spinto verso un imprevedibile area d’interessi, del tutto lontano dai suoi pochi studi e dal mondo della ristorazione. “Quando i filosofi che hanno preceduto Socrate si sono chiesti cosa ci fosse all’origine della Terra, hanno risposto aria, acqua, terra e fuoco. Ci pensi. Il pane e quindi la pizza nascono proprio da questi stessi elementi”. Pino ha ragione. L’aria, calda o fredda, umida o secca, condiziona la crescita dell’impasto. Che d’altra parte si fa con l’acqua. E la farina, a sua volta, viene dalla terra. Resta il fuoco, senza il quale non c’è cottura. Insomma, pane e pizza s’identificano. Ecco perché non è stato difficile alla gente di Tramonti (dove ogni famiglia aveva il forno per il pane, riconosciuto fra i migliori del territorio) allungare il passo fino alla pizza. “Ma c’è di più. Senza averne magari consapevolezza, la pizza era presente sulle nostre tavole, ogni qualvolta si faceva il pane. L’impasto, che superava quello previsto per le varie pagnotte, veniva steso e ricoperto con aglio, olio, pomodoro e origano. Con grande festa di noi ragazzi…”. 8
Pino Giordano è una scatola a sorpresa. E questo rende piuttosto disordinata, ma anche più affascinante la nostra chiacchierata. Ho chiesto di sapere come e perché abbia abbandonato Tramonti ad appena sedici anni. Ma la risposta ha aperto uno scenario di sociologia. Dall’economia strettamente agricola alle particolari relazioni tra la gente del luogo. Non solo nell’ambito delle famiglie, quantomai ramificate, ma anche in quei rapporti di convivenza resi più saldi dai comuni destini. “ Chi aveva dei figli che voleva sottrarre al lavoro dei campi, si guardava intorno. Per vedere quali scelte aveva fatto chi si trovava nelle stesse condizioni. Insomma, c’era un costante piano di verifica, che teneva soprattutto conto di chi era andato via e si era sistemato. Il modello era quello, e serviva anche per capire perché a Torino era duro inserirsi, a Giuseppe Giordano con il figlio del titolare del S. Lucia. Varese, 1964
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cominciare dall’affitto di una casa, rispetto magari a Vercelli o a Novara. Così Pino, poche lire in tasca e tanta voglia di farsi strada, parte per Varese. La scelta non è estranea a una lunga serie di contatti e di conversari con uno zio, sveglio e con il gusto dell’impresa, che andava in giro alla scoperta di locali da rilevare, anziché fare scarpe, mestiere che pure ben conosceva. E’ il 9 marzo 1962. E contrariamente al suo procedere a ruota libera, Pino non manca di tornare due volte sulla data. Varese è la prima tappa di quel percorso che lo porterà negli anni a Gallarate, Biella, Trecate. E poi a Vercelli. Ma è anzitutto l’incontro fra il giovane e la pizza. “Sì, sapevo tutto quello che era patrimonio di famiglia. Anche se, per la prima volta, dovevo mettere le mani in pasta. Ebbi maestro un napoletano, Ciro, uomo simpatico e aperto, che commentava ogni fase della lavorazione con arguti esempi. Allora l’impasto era fatto a mano, un’operazione piuttosto faticosa. Così Ciro mi diceva spesso: ricordati che avrai finito solo quando ti ritroverai con le mani asciutte e pulite. Perché quella è la spia per sapere che l’impasto è pronto”. Il locale a Varese - che Pino aveva intanto rilevato ha dato fondo a tutti i risparmi di una vita del padre e della madre. Due milioni e trecentoottantamila lire. In più non c’è il forno, per cui vanno aggiunte le spese per costruirlo. Un’impresa tutt’altro che facile al Nord, in quegli anni. Esiste infatti un pre10
ciso disciplinare da rispettare, pena il buon esito della cottura. Si va dal foro di apertura, in ferro (la cosiddetta bocca), alla profondità del piano di cottura e all’utilizzo di un particolare refrattario per il fondo. L’operazione, guidata a quattro mani da Ciro e Pino, riesce perfettamente. La pizzeria si chiamerà Santa Lucia, ed è ancora lì. Si profila intanto per il giovane Giordano l’obbligo del servizio militare. Che significa la rinuncia a qualsiasi attività. Così Pino, nell’incertezza che gli venga riconosciuto l’esonero dalla leva (lo otterrà solo più tardi, come maschio primogenito di famiglia numerosa), fa il pizzaiolo zingaro. Nel senso che lavora lì dove serve qualcuno in grado d’imprimere una svolta all’andamento del locale. “La richiesta era sempre la stessa: dar vita a pizze che fossero al top per bontà, e tali da alimentare un diffuso passaparola. Per cui mi ritrovavo spesso dinanzi a proposte di forti compensi, del tutto fuori mercato. E infatti succedeva di frequente che non venivo pagato”. Nel novembre del ’66, prima l’alluvione di Firenze e poi le disastrose mareggiate in Costa d’Amalfi, portano Pino in Lombardia. Comincia al ristorante Malaspina a Pioltello, ma passa il giorno di riposo a Milano, dove le tentazioni della grande città gli fanno bruciare ogni guadagno. Poi la chiamata a Mestre, da parte di un trapanese, con un’offerta da capogiro. Novantamila lire più vitto e alloggio. Il giovane non esita un istante, anche perché dispo11
ne solo di cinquemila lire. “Pagai ottocento lire un cestino da viaggio, e milleseicento il biglietto del treno. Se l’accordo saltava, ero in bolletta…”. La pizzeria esplode al punto che ottenere un tavolo il sabato sera, richiedeva giorni di prenotazione. Ma questa giostra di prestazioni, come ricorda Pino, non fu sufficiente a mantenere le promesse. Si salvarono solo i contributi previdenziali, che consentirono di maturare quarant’anni di lavoro fin dal 2002. “Continuava però a mancarmi qualcosa. Sì, godevo di parecchio prestigio nell’ambiente, e ormai il nome circolava, ma non mi sentivo realizzato. D’altra parte, se hai un progetto, puoi attuarlo solo a tuo rischio. E quindi l’impresa deve essere tua. Anche se alla fine c’è sempre da superare lo scoglio dei soldi….”. L’occasione propizia matura nel ’72: la licenza di un bar con annesso bigliardo nella piazza di Mogliano Veneto. Non è la realizzazione del sogno, ma bisogna accontentarsi. Occorre però, anche in questo caso, un aiuto economico, che gli viene offerto dal fratello. Nasce così “Da Pino e Gianni” che qualche anno dopo accoglierà anche la pizzeria. Ed è questa la prima occasione perché arrivi da Tramonti a gran completo il clan di famiglia. “Sì, Mogliano ha inciso a lungo nella storia della mia vita. Basti pensare che è ancora il luogo dove vivo. Ma allora segnò una svolta radicale, anche 12
nel lavoro. Ai buoni rapporti personali con mio fratello non corrisposero le stesse vedute professionali. Due modi diversi di intendere la ristorazione, che mi hanno portato verso nuovi obiettivi.” Ormai solo, e trentenne, Pino comincia a guardarsi intorno. E bisogna dire che il campo visivo non ha richiesto molti allunghi. Appena uno sguardo sul lato opposto della piazza, per scoprire che l’antica trattoria è condotta da tre belle ragazze. A Marcella toccherà la palma della vittoria, fino alle nozze con Pino nel ’77. “Il matrimonio è sempre una grossa incognita, ma la mia anguria – per usare un’immagine del Sud – è risultata di un bel rosso fuoco. Ho due figli, Francesco e Annalisa, entrambi appassionati e partecipi del mio lavoro”. Avverto che al di là di questo viaggio a ritroso lungo le tappe più significative della sua vita, Pino è porGiuseppe Giordano Mogliano Veneto, 1972
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“Il matrimonio è sempre una grossa incognita, ma la mia anguria – per usare un’immagine del Sud – è risultata di un bel rosso fuoco. Ho due figli, Francesco e Annalisa, entrambi appassionati e partecipi del mio lavoro”. 15
tato a intrattenersi su altri temi, che in apparenza sono marginali rispetto alla ristorazione e alla pizza. E invece…. “La grande inversione di tendenza si è avuta a metà degli anni Ottanta. Ma sono stati in pochi a rendersene conto. La pizza, fino ad allora, era stata soprattutto la cena dei militari in libera uscita e degli studenti fuori sede. Un cibo semplice, sano, e in più capace di riempire lo stomaco. La buona borghesia, quella dei professionisti e degli imprenditori, snobbava la pizza. E non per un fatto di gusto, ma per il locale modesto, il servizio approssimato, i tavoli rivestiti di cartapaglia, la posateria da mensa. Insomma, per quella immagine poco gratificante agli occhi di chi, non avendo esigenze di risparmio, volesse gustare la pizza in un ambiente gradevole”.
(Pag. 14) La famiglia Giordano in occasione dell’inaugurazione del locale di Jesolo, 2010
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Ci risiamo. Da Tramonti al Veneto, la lettura in chiave sociologica continua. Anche perché è qui la prima straordinaria intuizione di Pino. Certo, la pizza ha origini povere, da sempre. Anche prima dell’avvento del pomodoro, e ancor prima della farina. Quando nasceva dall’impasto di miglio o di farro che cuoceva fra due pietre roventi. Ma questo non significa che al prestigio e alla notorietà di cui gode (è candidata all’Unesco per il riconoscimento quale patrimonio immateriale dell’umanità), non vada aggiunta anche un’adeguata presentazione. “Eppure, non è stato facile, mi creda. Ritengo di poter vantare una primogenitura in questo alline-
amento alle mutate esigenze del gusto. Ma ho dovuto procedere a tappe, con quella gradualità che senza allontanare i tradizionali clienti avviasse il percorso per la conquista dei nuovi. Così, a piccoli passi, prima il tovagliato, poi le posate, poi ancora i calici e infine quel tocco agli ambienti e agli arredi, capaci di esaltare identità e valore a quella pizza, fino ad allora ferma al solo retaggio storico”. Mi scuso con Pino Giordano per aver reso male la partecipazione e l’orgoglio che hanno accompagnato le sue parole. Ma credo che bisogna essere protagonisti per sentire in eguale misura questa fase di rinnovamento. Nella calda estate del 1985, Giordano apre a Treviso - Viale della Repubblica, la cosiddetta Strada Ovest - quello che può definirsi il più celebrato feudo della pizza e della ristorazione di eccellenza. Uno spazio dall’architettura nuova e articolata, in grado di ospitare seicento coperti, compreso l’ampio dehors. E’ il terreno per un ulteriore passo avanti. In linea con i tempi, i ritmi della vita, le conquiste della tecnologia. Ancora una volta, provo a tradurre il suo pensiero. “Seicento clienti richiedono per il servizio un piccolo esercito di camerieri. I quali non hanno solo il compito di portare e ritirare i piatti, ma di raccogliere la “commande” e successivamente consegnare il conto ai singoli tavoli. Un’operazione lunga, che richiede parecchi collaboratori, e che spesso dà luogo a noiose lentezze”. Fin qui la diagnosi del male. Perché la terapia – trentanni fa – è 17
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Il locale di Piazza dei Signori a Treviso.
da medicina avveniristica. Le pietanze scelte vengono inoltrate per via telematica alla cucina, senza che il cameriere si sposti dalla sala. In più, ad ogni cliente è assegnato un numero da consegnare a fine serata alla cassa, dove è già bello e predisposto il conto. Insomma un sistema che, a parte la rapidità, evita quello spiacevole scambio di moneta ai tavoli. Siamo a una di quelle innovazioni (ormai largamente imitate) che daranno una particolare fisionomia al circuito delle pizzerie Da Pino, che coprono oggi buona parte del Triveneto. Con gli anni Novanta, la pizza – ormai sottratta alla mortificazione di un ambiente e di un servizio assai modesti – ha un salto di qualità. Diventa cioè il viatico per una cena di tono, curata come meglio non si potrebbe. La pizza funge così da antipasto, tagliata a tranci che reggono bene il confronto con le varie crudités. Insomma, la pizza fa chic, grazie anche a quel suo entroterra carico di storia, e a quei gustosi racconti che alimentano il rapporto fra pizzaiolo e clienti. Il cibo di strada, quello nato per sfamare la povera gente, senza rinunciare al piacere di qualcosa di saporito, deve a Pino Giordano una straordinaria espansione, scandita via via dal magnifico locale in Piazza dei Signori a Treviso, e poi da quelli di Cortina e di San Zenone degli Ezzelini. Ma gli anni Novanta non sono ancora conclusi, quando Pino sfodera un’altra delle sue felici tro-
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vate. Quella Pizzalonga, che segnerà una svolta decisiva nella conduzione delle sue imprese. Il nome ci rimanda a quell’Ombralonga che per decenni ha rappresentato, nel bene e nel male, un momento d’incontro e di aggregazione della gente del trevigiano, all’insegna del buon vino. Un ticket, un calice, e via a bere senza limiti, fino a sera. Con qualche comprensibile conseguenza per il decoro della città. Poi l’evento è stato archiviato, ma a Pino quel termine inteso come continuità, come piacere senza fine gli è rimasto nel cuore. E così l’ha rispolverato, abbinandolo a una pizza, vera e propria creatura della sua genialità. La Pizzalonga non ha infatti niente in comune con soluzioni similari. E’ evidente che non basta disporre a rettangolo il disco di pasta, perché nasca qualcosa di diverso. Qui, a cominciare dalla tecnica di cottura, non ci sono precedenti cui rifarsi. Ne è prova il fatto che la “Longa” veniva preparata nella pizzeria sulla Strada ovest, solo il giovedì. Questo per sperimentare di volta in volta una serie d’interventi, allo scopo di migliorare il prodotto. Fino all’invenzione (perché di questo si tratta) di quel forno rotante, sempre a legna, realizzato su disegno di Pino, e che permette di avere una cottura equilibrata e omogenea, senza spostare la pizza, perché a girare è il forno. Un piccolo capolavoro di ingegneria meccanica, che ha generato più di cinquanta esemplari, distribuiti nelle varie pizzerie Da Pino. 20
Ma il nuovo millennio riserva ancora parecchie sorprese. Anche se in parte scontate, se si considera la genialità e l’irrequietezza del personaggio. Il quale ha fatto della pizza, nella sua espressione più compiuta e nobile, il veicolo per ogni tipo di comunicazione. Così la pizza si fa strada, entra nelle case, è protagonista di quelle serate in famiglia o fra giovani festanti, suscita curiosità e interesse. La Margherita? La Marinara? O quel ventaglio di ingredienti, dove la pizza fa solo da straordinario supporto, col suo fondo di pasta morbido, saporito, gustoso? Di qui, non ultima, l’idea della pizza d’asporto. L’iniziativa è in franchising con un collaboratore delle pizzerie Da Pino, e si avvale ovviamente di questa etichetta. Che è ormai un marchio di fabbrica, un logotipo che non ha riscontri sul mercato, garante di una qualità e di un “mestiere”, che rimangono i due elementi primari per una buona pizza. Segue intanto la stagione dei locali a Caorle, Jesolo, Vicenza e Mestre, nonché la nascita di un capannone di oltre millecinquecento metri per semilavorati di pizze e relativi ingredienti. La panoramica sulle attività di Pino Giordano sembra conclusa. Almeno ci spero, visto che continua a mancarmi un ritratto dell’uomo, più privato, più intimo, non troppo legato al pianeta imprese. Ma dovrò ancora pazientare, perché – imprevisto e degno di ogni lode – scopro il rapporto con l’arte, largamente testimoniato in tutte le pizzerie Da 21
Il Gusto. Particolare del bassorilievo dell’artista Mario Eremita nel locale di Mestre.
Pino. A cominciare da quella in Piazza dei Signori, fino all’ultima nata, nel cuore di Mestre. Qui Pino ha deciso, d’intesa con il pittore Mario Eremita, di realizzare una serie di bassorilievi e di affreschi ispirati ai cinque sensi. Vale a dire a quei particolari caratteri che fanno ogni uomo diverso dall’altro, e che proprio per questa loro unicità hanno interessato la speculazione dei filosofi e l’inventiva degli artisti. Eremita è pittore e scultore, che trascorre con pari talento dall’una all’altra forma espressiva. Si tratta di opere che ci riportano attraverso la suggestione delle immagini a un racconto ai confini col mito. Pino ne parla con evidente prudenza, ma non esita a mostrarsi compiaciuto per la lettura del sesto senso, quello che racchiude - a suo avviso - tutti i piaceri della vita. Arriva un caffè, e la pausa segna lo stacco fra la
giostra delle pizzerie e l’uomo Pino. Al racconto, fluido e aperto ad ogni imprevedibile appendice, si è ora sostituito un parlare frammentario, nel segno della riservatezza. In Pino affiora l’uomo del Sud, capace di tenere banco e suscitare interesse, ma carico di pudore in fatto di scelte di vita, convinzioni, sentimenti. Per fortuna, l’essere io napoletano risulta ancora una volta un buon tramite. Cominciamo dai libri. “Non mi chieda cosa ho letto. Perché sono un disordinato. Continuo a navigare tra storia ed economia, con qualche isolato libro di narrativa. A me piacciono i fatti, e capire perché e come si sono svolti. Per anni mi sono chiesto come fu possibile che il piccolo Piemonte conquistasse il Regno delle due Sicilie. Il più grosso e importante Stato dell’Italia di allora…”. Capisco ora i tanti riferimenti alla storia del Sud, affiorati anche parlando di pizza, e mi spiego anche un certo lessico piuttosto datato. Di qui le preferenze di Pino per un cinema ai confini del documentario. Dove si indaga un territorio, una realtà sociale, un evento. “Una vicenda personale non mi interessa, a meno che non faccia da spia a un contesto sociale ben chiaro e definito. E questo vale anche per quella narrativa, spesso troppo centrata sugli aspetti sentimentali e psicologici dei personaggi”. L’interesse per il sociale avrebbe dovuto portare Pino a impegnarsi in politica. “No, non mi appassiona. Ho ceduto una sola volta alla tentazione di candidarmi alle Comunali di Treviso, ma un po’ 23
per la mia totale estraneità alla competizione, e un po’ per l’equivoco generato da quel Giuseppe Giordano, del tutto estraneo alla popolarità di Pino, ho preso solo i voti dei miei due figli….”. Pino ha un buon legame e un’assidua frequentazione con lo sport, nuoto e sci in particolare. Ma ha iniziato tardi, dopo i trentanni, così è saltata la stagione più entusiasmante e avventurosa. “Sì, d’inverno vado in piscina, e d’estate godo di un lungo soggiorno in Costa Smeralda. La Gallura, da Porto Rotondo a Porto Cervo, offre acque e calette incomparabili. Per lo sci, invece, ho imparato qui, dove frequento le piste di Cortina, Brunico e San Martino di Castrozza. Non posso dirmi uno sciatore, ma uno che fa del suo meglio in rapporto agli anni che ha”. In cambio, i gusti dell’uomo a tavola sono rimasti quelli legati a una cucina autentica, che poi significa povera, fatta di tempi, manualità e tanto amore. Con un assoluto rispetto per i prodotti del territorio e delle stagioni. “No, la cucina creativa non fa business, ma alimenta un’interessante ricerca. Che deve però muoversi sul piano dell’invenzione, senza azzardati interventi su piatti con secoli di tradizione. In questo caso non è ricerca, ma sacrilegio”. Provo a chiudere il cerchio con due domande, che toccano quantomai da vicino i sentimenti e le speranze dell’uomo. A cominciare dal rapporto con la fede. 24
“Sono cattolico per educazione familiare, ma non frequento la chiesa e i sacramenti. Aggiungo che sono convinto (e un po’ me ne dispiace) che la vita obbedisca alle leggi della natura. Per cui non c’è alcun aldilà”. E passiamo ai sogni. Perché anche se Pino ne ha realizzati parecchi, qualcuno deve esserci ancora in cantiere. La risposta, questa volta è secca, fulminante. “Continuo a inseguire la libertà. Quella vera, che mi consente di essere pienamente me stesso”.
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“Continuo a inseguire la libertĂ . Quella vera, che mi consente di essere pienamente me stessoâ€?. 27
LA PIZZA FRA STORIA E COSTUME Per oltre un secolo, non ha avuto casa. E fino ai primi dell’Ottocento è stata ospite della strada, dei vicoli, degli spiazzi, dei mercati, delle banchine del porto. L’uomo – la tipica stufa di rame sul capo e la voce roca e tirata: ’E ttengo caure, caure ‘e ppizze – girava dall’alba a notte alta, con tante puntate al piccolo locale dove venivano preparate le pizze, a mano a mano che la scorta si esauriva. Due ruoli ben distinti: chi faceva le pizze e chi le vendeva. Nessun legame, al più un rapporto fiduciario ogni qualvolta si affidava la stufa ad un nuovo venditore. Il pizzaiolo aveva buone braccia, molto mestiere e la forza di stare in piedi circa venti ore al giorno (la preparazione della pasta è lunga e si faceva di notte); il venditore, gambe da maratoneta e fiato da vendere. Il cliente comprava la pizza e la mangiava in piedi, e il venditore profittava per avviare quattro chiacchiere. In apparenza, era solo un modo per concedersi qualche minuto di distensione, e invece aveva un preciso scopo: intrattenere quanto più possibile il consumatore, in modo che la scena richiamasse qualcun altro e magari un altro ancora. Quel profumo di olio e di basilico e quei morsi così avidi erano una tentazione non facile da vincere. Poi, questo cibo nato dalla fantasia e dalla miseria, si accasò. E a fianco allo stesso angusto locale, dove le pizze venivano lavorate e infornate, fu organizzato alla meglio uno spazio con tavoli e panche. Non era ancora la pizzeria, ma siamo a 28
buon punto. Manca il classico banco di marmo e il forno a cupola, e soprattutto i clienti non hanno modo di assistere alla nascita della pizza, che continua a essere preparata nel locale attiguo. Quando questo avverrà, potremo iscrivere all’anagrafe anche la pizzeria. Ma dove è nata questa pizza, e quando? In fondo, è un po’ come chiedersi quando è nato il pane, o almeno chi sono i suoi progenitori. Ed eccoci allora alla stiacciata, un impasto di acqua e farina, non lievitato, e cotto tra due pietre roventi. Una sorta di pizza a prima vista, realizzata con tutte le componenti del chicco, buccia compresa, grossolanamente pestato in un mortaio di pietra. Non si tratta però di chicchi di grano, bensì di miglio e poi di orzo, schiacciati, intrisi di acqua e ridotti in forme tonde di poco più di venti centimetri, come provano alcuni reperti. Poi gli Egizi scopriranno - forse in maniera del tutto casuale - il processo di lievitazione naturale e con esso la possibilità di cuocere l’impasto al forno, anziché su pietra. E’ la seconda tappa di questo lungo viaggio. Siamo passati alla schiacciata, lievitata, ben cotta, più leggera e digeribile, che risulta tanto gradita da diventare in breve oggetto di baratto. Intanto, al miglio e all’orzo, nella preparazione di questa primordiale pizza, subentra l’avena e il farro: una sorta di grano particolarmente adatto a fare delle polentine e ancora oggi assai diffuso in Umbria e in Toscana. 29
Il farro è un punto nodale nella storia dell’alimentazione, perché da esso discende il frumento (grano) destinato a soppiantare tutti gli altri cereali. La farina (e il nome deriva proprio da farro) che si ottiene dal frumento, è la migliore in assoluto per produrre pane, pasta o altri infornati. E questo spiega il suo successo e segna un altro passaggio nella preistoria della pizza: la nascita della focaccia, che presenta sì le medesime caratteristiche della schiacciata, ma è a base di frumento. Riservata inizialmente al rituale di sacrifici, offerta come cibo agli dei, la focaccia entra a poco a poco a far parte del pasto quotidiano, mentre tutta una letteratura testimonia della sua bontà, chiamandola variamente laganum (Orazio e Apicio), tractum o libum (Catone), placenta (Orazio e Catone), sino a Virgilio che ne tratta nel settimo dell’Eneide.
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Cibo greco e romano per eccellenza, la schiacciata prima e la focaccia poi trovano riscontro anche a Pompei, dove oltre duemila anni fa la corporazione dei Cibari produceva infornati di questo tipo. Senza contare i bassorilievi presenti lungo la Via dell’Abbondanza e raffiguranti dei veri e propri forni, nonché la scoperta di quegli 81 pani, trovati carbonizzati all’interno di un panificium, sepolto dalla cenere. Fin qui gli oscuri progenitori della pizza, tutti piuttosto lontani da quell’impareggiabile pietanza che deve la sua fortuna e la sua consacrazione all’abbinamento con il pomodoro. Perché è solo da allora che possiamo parlare di pizza, così come essa è ormai intesa a tutte le latitudini. Purtroppo anche in questo caso, l’abbinamento non ha una data precisa, perché la pizza col pomodoro non è di certo nata prima del Settecento. Il fatto, poi, che gli Spagnoli abbiano importato nel sedicesimo secolo il pomodoro dal Perù e ne abbiano diffusa la coltivazione in tutta l’Europa, privilegiando – per le favorevoli condizioni di clima - il vicereame di Napoli, non deve portare ad affrettate conclusioni. La pianta fu guardata a lungo con molta diffidenza e coltivata solo a scopo ornamentale. E questo anche per il suo elevato contenuto di solanina, una sostanza che la medicina del tempo e la credenza popolare ritenevano tossica. Poi, inspiegabilmente, cominciarono a circolare voci sulle virtù afrodisiache di questi frutti, tanto 31
che i Francesi li chiamavano pommes d’amour e li offrivano alle donne quale pegno dei loro sentimenti. Così le cose andarono piuttosto per le lunghe, e prima che il pomodoro potesse fare il suo trionfale ingresso in cucina, a condire fumanti piatti di spaghetti o gustosissime pizze, bisognerà arrivare ai primi decenni del Secolo dei Lumi. Perché è solo allora che nasce la pizza che noi conosciamo: quella per intenderci con olio, origano e pomodoro, che va comunemente sotto il nome di Marinara. E visto che ci siamo, proviamo anche a spiegarci perché si chiama pizza. Senza scomodare troppo etimologia e semantica, le tracce più remote del nome sono reperibili in due scritti: il Codex Cajetanus del 997, dove troviamo la parola piza, e un documento redatto a Sulmona nel 1201, dove si legge di pizas casey e di pizas de pane.
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Le tesi sull’origine del nome sono sostanzialmente due. La prima che lo vuole di matrice longobarda, legata all’insediamento di quelle popolazioni nell’altopiano di Abruzzo (e le testimonianze, specie a Pescocostanzo, non mancano), per cui pizza deriverebbe dall’antico germanico bizzo o pizzo, che vale morso, boccone. La seconda che la riconduce invece al latino pistare, cioè pigiare, battere, schiacciare. I panettieri e i fornai nell’antica Roma si chiamavano infatti pistores, e pistus era l’impasto molle pronto a essere lavorato. Di qui la parentela di primo grado con la napoletana pettola: quella sfoglia di pasta sottile con la quale le nostre donne facevano le laganelle, cosiddette perché appiattite con il laganum, ovvero il matterello. Ma torniamo al pistus Che si fa pista, e poi per metatesi (cioè per trasposizione di sillabe) pitza. E infine, per comodità di pronuncia, pizza. Ce l’abbiamo fatta. Una paternità teutonica per il nome del cibo più italiano sarebbe suonata assurda.
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COME NASCE UNA PIZZA Partiamo dall’impasto, o meglio dal rapporto di quantità fra le sue quattro componenti: farina, acqua, lievito e sale. Perché questa è la pizza. Gli ingredienti che aggiungeremo poi servono a farne una Marinara (aglio, olio, origano e pomodoro), o una Margherita (a base di mozzarella o fiordilatte) oppure a dare libero sfogo alla fantasia con i più vari elementi. Ma è l’impasto quello che conta. Per prepararlo bene, ogni pizzaiolo mette insieme in varia misura diversi tipi di farina. E questo è un segreto. Un po’ come per il caffè, dove è il tipo di miscela a renderlo più o meno gustoso. Le altre due componenti sono l’acqua e il sale. La prima, temperatura 20-25 gradi, deve tener conto del tasso di umidità. Un elemento non facile da valutarsi empiricamente, anche se rientra in quelle doti che fanno un buon pizzaiolo. Resta il lievito, che si ottiene da una piccola quantità di pasta lasciata a fermentare il giorno precedente (‘o criscito). E poi avanti a forza di braccia, come è stato per generazioni, perché l’impasto assorba il 50-60% di acqua, e risulti piuttosto elastico, cioè nè troppo asciutto né attaccaticcio alle mani. Si passa quindi a dar forma a una serie di panelli di circa dodici centimetri, da sistemare in apposite cassette di legno. Fin qui l’operazione è avvenuta dietro le quinte, ed è valsa solo a creare la materia prima. Da questo momento si opera a sipario aperto, dinanzi al pubblico che vede nascere la pizza e già ne pregusta il piacere. 34
Il panello è ora sul marmo del banco, appena cosparso di farina. Pochi sapienti colpi e l’originaria forma a fungo si trasforma in un disco da allargare progressivamente a poco più di venti centimetri. In questa fase, la parte centrale deve restare più sottile rispetto alla circonferenza, la quale – proprio perché di maggiore spessore - funge da cornice (e detta appunto cornicione), per fare in modo che i vari ingredienti non fuoriescano. L’operazione di dare al panello questa forma è il banco di prova di ogni pizzaiolo. Le mani (la sinistra trattiene l’impasto, e la destra lo tende) hanno movimenti sincronici. Un dilettante approderebbe a un impasto lacerato, o ad una superficie di vario spessore. Ora la mano esperta affonda nei pomodori rossi, che vengono distribuiti a tutto campo. Poi è la volta degli altri ingredienti, e infine della grande oliera di rame, che serve a disegnare un cerchio d’olio con un punto al centro, come un gigantesco numero sei. Sulla destra del banco, il grosso marmo presenta una scanalatura di qualche centimetro. E’ il punto di appoggio della pala di legno, quella destinata a introdurre la pizza nel forno. Se il bancone del pizzaiolo vanta una sua codificata architettura, il forno ha la sacralità di un tempio. Forno a cupola, anzitutto. E ovviamente a legna, alla maniera di quelli rinvenuti a Ercolano e a Pompei. Fondo in refrattario (meglio se lavorato a mano) e “bocca” in rapporto all’altezza e alla profondità. Regola 35
vuole che il forno non vada mai spento, ma sempre alimentato con ciocchi di legno secco, sistemati nella zona più interna. Introduciamo allora la pizza. L’ondata di calore investe il disco di pasta molle e gli dà nel giro di qualche secondo quel minimo di rigidità. Una leggera inclinazione della pala, appena uno scossone, e la pizza scivola sul fondo arroventato. Ora è il contatto diretto con il forno a cuocerla, mentre la parte più spessa, il cosiddetto cornicione, si gonfia per lievitazione. E’ il momento della seconda pala, quella di ferro, con la quale il fornaio ha per secoli raccolto trucioli e segatura (‘e pampuglie), ammucchiati ai piedi del forno, da lanciare sulla brace. La fiamma è vivacissima e breve, ma basta ad aumentare quel riverbero di calore che completa la cottura della pizza. La quale deve essere avvicinata al fuoco o allontanata, sollevata o abbassata rispetto al piano di cottura, manovrata in modo che l’intero cornicione risulti ben cotto, con qualche minuscolo atollo appena bruciacchiato. Insomma la pizza deve “camminare” nel forno. Se questa operazione è da manuale, ogni ingrediente conserva la sua originaria freschezza, e l’olio soprattutto non avrà assunto quello strano sapore di fritto. Per i cultori della pizza e sono tanti, tutto questo non basta: Adda sapé ‘e furne, deve cioè avere il sapore del forno. Che è qualcosa di indefinibile: una sorta di umore, di sapore che la pizza assorbe 36
dal refrattario sul quale cuoce, dal riverbero di calore che le danno i trucioli, dall’aria che circola intorno. E forse dall’immagine mitica che hanno i suoi “patiti”. Perché la pizza a Napoli non si mangia, non si consuma, se fa. Me faccio ‘na pizza. Jammece a ffà ‘na pizza. E questo ruolo che fa protagonisti i napoletani, è già fantasia.
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LA PIZZA DELLA REGINA O LA REGINA DELLE PIZZE E veniamo alla Margherita, la più celebrata delle pizze, e quella ancora oggi più largamente richiesta. Intorno alla sua nascita c’è tutta un’aneddotica, fatta di geniale invenzione e di accensioni patriottiche. L’unica data certa nella straordinaria avventura della pizza, sembra essere quella della nascita della Margherita, confortata com’è da un sicuro riscontro. E invece è proprio la data a saltare. Ma ricostruiamo la vicenda. A partire dalla lettera con lo stemma dei Savoia che reca la seguente dicitura: Casa di Sua Maestà – Ufficio di Bocca – Capodimonte, 11 giugno 1889. Ed ecco il breve testo: “Pregiatissimo sig. Raffaele Esposito Brandi, Le confermo che le tre qualità di pizze da Lei confezionate per Sua Maestà la Regina vennero trovate buonissime. Mi creda di Lei devotissimo. Galli Camillo, Capo dei Servizi di Tavola della Real Casa”. Quindi il pizzaiolo di via Sant’Anna di Palazzo a Napoli si recò con la moglie Pasqualina Brandi alla Reggia di Capodimonte, dove preparò tre pizze. Una delle quali con pomodoro, basilico e mozzarella, e che da allora – anche per ricordare ai clienti il riconoscimento che gli era venuto -chiamò Margherita. Tutto qui. Se vogliamo rimanere alla fedeltà dei fatti. Niente complimenti diretti della regina (altrimenti che senso avrebbe avuto la lettera), e soprattutto niente patriottismo, ovvero i colori della bandiera riproposti attraverso il verde del basilico, il rosso del pomodoro, il bianco della 38
mozzarella. E ancora di più, nessuna invenzione. Una pizza, con l’aggiunta della mozzarella, è già citata nel Pizzaiuolo (edizione de Bourcard, 1847) dal giurista Emmanuele Rocco e sempre nel 1847, Gaetano Valeriani, nel racconto Porta Capuana, scrive che sulla pizza “talora vi pongono pomodori crudi tal’altra pesci, tal’altra ancora latticini”. Questo vuol dire che al di là dell’abbinamento al nome della regina (in realtà la vera “invenzione” di Esposito Brandi), a Napoli esisteva già, e da tempo, una pizza con pomodoro e mozzarella. Gabriele Benincasa nel suo La Pizza Napoletana avanza un’interessante interpretazione. Allora i Savoia a Napoli non è che fossero granché amati. La città non aveva ancora smaltito la perdita del ruolo di capitale, goduto per circa mille anni. Per cui un segno di simpatia della Corona verso una delle forme più sentite della tradizione popolare, poteva avere i suoi riflessi, specie se opportunamente propagandato. Di qui la scelta del pizzaiolo più noto, l’invito a corte e l’ufficialità della lettera a testimonianza dell’avvenimento. Andarono davvero così le cose? E chi l’avrebbe mai detto che una gustosa Margherita avesse alle spalle tanti intrighi.
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“Pregiatissimo sig. Raffaele Esposito Brandi, Le confermo che le tre qualità di pizze da Lei confezionate per Sua Maestà la Regina vennero trovate buonissime. Mi creda di Lei devotissimo. Galli Camillo, Capo dei Servizi di Tavola della Real Casa”. 41
COSA BERE CON LA PIZZA Preferibilmente vino. Magari un bianco asciutto, o leggermente frizzante. L’abbinamento pizza e birra continua ad essere assai diffuso, ma non è certo dei più felici. Non dimentichiamo che la pizza ha gli stessi ingredienti del pane, che mai bagneremmo nella birra, cosa che invece i nostri nonni facevano col vino. L’uso della birra è legato all’occupazione americana a Napoli, nell’ultima guerra, quando l’abbandono delle campagne aveva reso il vino introvabile e costoso. Così i napoletani fecero scoprire la pizza ai soldati alleati, sostituendo il vino con la Birra Peroni, che fu una delle prime aziende a riprendere l’attività nello stabilimento di Capodimonte. Pietà di campanile mi fa tacere sulla scelta di quei giovani che accompagnano la pizza con coca cola o aranciata. Per un napoletano, vecchio stampo, è un vero sacrilegio.
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RECA LA FIRMA DI UN GIORDANO LA PRIMA PIZZERIA DEL NORD Loreto di Novara. Un posto alla fine del mondo per chi, nel ’47, vi arriva da Tramonti (Costa d’Amalfi) in servizio di leva. Due i giorni e passa di treno, fra veloci fotogrammi di un’Italia ancora in macerie. Eppure il luogo non è estraneo all’ambiente e al mondo di esperienze della recluta Giordano Luigi. E’ terra di mucche, e qualche caseificio utilizza il latte per formaggi da stagionare. I prodotti cosiddetti freschi - le scamorze, il fiordilatte, la provola – qui sono invece del tutto sconosciuti. La cosa non può sfuggire a Luigi, che, smessa la divisa e passato a nozze con la figlia di un piccolo allevatore locale, propone al suocero di fare provole e scamorze, piuttosto che vendere il latte alla cooperativa. “Vedrai, si guadagna assai di più… E avremo una nostra azienda”. Ma l’impresa si rivela ben presto un fallimento. I negozi di alimentari, da Novara ad Asti ad Alessandria, si rifiutano di trattare un prodotto che non conoscono. E altrettanto vale per i ristoratori, che stentano ad accettare l’idea di servire affianco ai loro celebrati antipasti caldi i latticini di Luigi. Poi, faticosamente, attraverso una paziente trama di incontri con relativi assaggi, il fiordilatte fa capolino anche presso i più riottosi. Resta però il problema del prodotto rimasto invenduto, sia a livello di caseificio che di clienti, e questo si trasforma in una pesante perdita. Un problema che a Tramonti non si poneva, perché ogni rimanen43
za veniva il giorno dopo venduta a una selva di pizzerie, da Napoli a Salerno, che hanno da sempre richiesto un latticino bene asciutto, tale da evitare che bagnasse il disco di pasta della pizza. Ma a Novara e in tutto il Piemonte alla soglia degli anni Cinquanta non esistono pizzerie, sicché le rimanenze continuano a rappresentare un forte passivo nell’economia del piccolo caseificio. E qui scatta la seconda trovata di Luigi Giordano: mettere su una pizzeria alla quale destinare tutto il latticino avanzato. Vista così, oltre cinquant’anni dopo, l’idea può anche non apparire geniale, ma allora è qualcosa in più di un’avventura. Intanto non ci sono in zona precedenti cui riferirsi, né esistono pizzaioli da poter assumere. Gli unici campioni di questo antico mestiere vivono al di là del Garigliano, il che vuol dire a mille chilometri di distanza. Anche il locale nasce all’insegna di questo amarcord delle pizzerie di Napoli: il bancone in marmo bene in vista, il palchetto con i contenitori per il pomodoro, l’origano, l’aglio, il posto d’onore per la tipica oliera in rame. E in un angolo, il forno a cupola: la bocca in ferro, la base in refrattario, e sotto il deposito per la legna. La risposta del pubblico tarda a venire. La pizza è sconosciuta e non fa proseliti. Così la prima pizzeria da queste parti rischia di non avere eredi. Poi, per quei nuovi orientamenti del gusto e del costume, sempre imprevedibili, esplode la mania 44
della pizza. Già nel ’54 Giordano inaugura una seconda pizzeria, e da allora ogni anno ne aprirà una nuova. Ora ha bisogno di braccia, e quelle dei familiari rimasti a Tramonti sono le prime ad essere impegnate. Poi il discorso si allarga. E’ una sorta di corsa all’oro, alla quale nessuno vuole rinunciare. Luigi Giordano, il capostipite riconosciuto di questa dinastia di pizzaioli, è prodigo di consigli, di incoraggiamenti, di aiuti. Le sue pizzerie sono anzitutto una scuola per quanti arrivano da Tramonti: una tappa d’obbligo prima di tentare l’avventura in proprio. E anche chi non ha mai visto un forno (e alle nuove generazioni è mancata la grande esperienza del pane fatto in casa), nel giro di qualche mese maneggia impasto e pala con sufficiente abilità. Oggi le pizzerie condotte da tramontani superano le tremila, e sono tutte ubicate nel CentroNord. Così, grazie anche a loro, questo cibo povero, nato per far tacere i morsi della fame, è diventato a poco a poco un peccato di gola.
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TRAMONTI: UN PAESE E UN VENTO La storia in Costa d’Amalfi è merce a buon mercato. E Tramonti, sotto questo aspetto, non fa eccezione. I suoi trascorsi sono infatti tutti legati alle vicende gloriose e infauste della Repubblica Marinara. Le origini di questo antico centro, che si sviluppa sul boscoso e ondulato territorio del Chiunzi, risalgono al 500-550 d.C., quando alcune popolazioni di origine romana, provenienti dalla città di Melfi, giunsero in vista della catena dei Monti Lattari. Erano profughi, miracolosamente scampati a una serie di attacchi saraceni alla loro città. La quiete del luogo, il suo isolamento, le naturali caratteristiche difensive, e ancor più la ricchezza di boschi e di acque suggerirono l’insediamento fra questi monti. Il primo nucleo fu assai modesto, ma nel corso dei secoli crebbe a tal punto che dai monti si estese sino al mare, vale a dire a Maiori, Minori, Cetara. Si verifica in sostanza lo stesso fenomeno che ha visto gli abitanti di Scala lasciare i loro castagneti, alti sui monti, per scendere a valle verso il mare, e fondare Amalfi. Tramonti, Triventum, diventa un grosso centro difensivo contro ogni possibile attacco proveniente dalla pianura nocerino-sarnese. Oggi dell’antico castello non rimangono che pochi resti, fatta salva la torre di Chiunzi, ultima vestigia dell’imponente mastio. Una massiccia costruzione che peraltro non valse a salvare né Tramonti, né Amalfi dall’attacco dei Pisani nell’agosto del 1163. I Toscani vinsero ogni resistenza e dilagarono giù per i 46
Una vista di Tramonti.
monti, sino ad Amalfi, saccheggiando e distruggendo. Una curiosità interessante ci riporta al vento di Tramontana, il cui nome è forse riconducibile al paese. Furono infatti i marinai amalfitani a definire così il vento che, forte e freddo, soffiava da Tramonti verso la costa. E Tramontana continua a chiamarsi, per i marinai di tutto il mondo, qualunque vento soffi dal nord. Centro tipicamente agricolo e pastorale, Tramonti ha legato in passato il suo nome anche all’artigianato delle ceste, dei panieri e delle spaselle (un cesto a forma di guantiera in uso nelle pescherie), realizzati con la corteccia dei castagni, di cui è ricca la montagna, tagliati e intrecciati a larghe strisce. Ma Tramonti vanta anche generosi vigneti, che danno uve (Tintore, Ginestra, Bianca Zita, Pepella) e vini che hanno meritato il riconoscimento della Doc Costa d’Amalfi, unitamente a Ravello e a Furore.
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Napoletano, con un patologico Vizio della Curiosità - come recita il titolo di un suo fortunato libro - Nino D’Antonio tira a far tardi per meglio legittimare le scialate di sonno mattutino. Già docente di Letteratura Italiana, giornalista, oltre trenta libri fra narrativa e saggistica, miracolosamante esauriti, una serie di documentari televisivi aggiungono poco a una vita da giramondo. Che la condizione di scapolo (da ex capulo, senza cappio) - alla quale non ha mai rinunciato - ha reso ancora più irrequieta e per molti aspetti anarchica. Ha vinto vari premi; il Vicenza Economia; Il Sanremo; nonchè il Premio Cultura della Presidenza del Consiglio. E’ stato segretario dell’Accademia Pontano e poi Presidente della Dante Alighieri di Napoli. Due suoi documentari sulla Costa d’Amalfi sono risultati vincitori al Festival Internazionale del Film Turistico. Al mondo del vino, come testimonianza di civiltà e di cultura, si è avvicinato nei primi anni Cinquanta. Ne è prova una collezione ormai storica di bottiglie selezionate. Collabora con la rivista “Taste Vin” da oltre vent’anni. Per le Città del Vino ha scritto: Costa d’Amalfi, borghi divini; Vini e gente di Sicilia; Don Calò, venti racconti intorno al vino; Il vino si fa immagine; Campania, le 40 Città del Vino; Uomini e Vini; Incontri in cantina; Dietro la bottiglia; Riccardo Cotarella, quasi un ritratto; Un tris vincente; Monrubio, la nostra casa; A passo d’uomo nelle terre del vino.
NINO D’ANTONIO.
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