INDICE
6# Punk lifestyle
7# Punk Today
5# Il Punk in Italia
STILE PUNK.
Esteticamente forse è stato uno dei movimenti che più di tutti ha adottato forme e codici singoli, contrapposti a tutto ciò che c’era e c’è stato. Abbigliamen to, acconciature, make-up, sono un modo per marcare la propria identità e comunicare un messaggio chiaro di disagio. Abiti “borghesi”, come giac ca e cravatta, nelle mani dei punk si “SPORCANO” e si riempiono spille e borchie.
Con lo stile Punk nasce anche la moda del piercing: si utilizzano spille da ba lia e lamette da barba per perforare la pelle. Manifestano la loro contestazio ne attraverso il dolore e il masochi smo. Ogni cosa, dalla musica all’arte, hanno come unico denominatore una rabbia profonda che ciclicamente rie splode e si manifesta contro la situa zione sociale ed economica del mondo. Altri elementi dell’abbigliamento punk sono le giacche di pelle, in parti colare il “chiodo”, talvolta decorate da scritte spray, spille e vestiti da bondage. Come calzature invece i punk in dossano brothel creeper, conver se, winklepicker e Dr. Martens.
L’ ENTRATA DEL PUNK NELLA MODA.
Nell’idea iniziale, lo stile Punk do veva caratterizzarsi come un rifiu to dei canoni della moda stessa. Ma nei fatti, fu tutt’altro che così… La consacrazione del Punk nel la moda la si deve a Vivienne We stwood e Malcom McLaren con l’apertura del loro negozio di abbiglia mento a Londra negli anni ’70: le crea zioni erano stravaganti e provocatorie.
La Westwood fa sfilare i suoi modelli per la prima volta a Londra nel 1981, con la collezione Pirate. Questi non trova no più ispirazione soltanto dalla moda di strada e dal mondo giovanile, ma anche dalla tradizione e dalla tecnica.
abbigliamento punk si è diviso in moltissimi sottostili con caratteristiche peculiari.
L’
Punk Rock
Che cos’è la musica Punk Rock: significato e gruppi.
LE ORIGINI DEL PUNK ROCK
Il punk rock, spesso abbreviato in punk, è un genere di musica rock che si è sviluppato princi palmente fra il 1976 e il 1979, da forme musicali precedenti, de rivate dal garage rock, oggi note come proto-punk. I brani com posti dai gruppi punk possedeva no ritmiche veloci, sonorità dure, generalmente tracce di breve durata, strumentazioni essenziali e testi dai contenuti provocatori e violenti, anche con una forte connotazione politica. La cultura punk abbracciò poi l’etica del Do it Yourself, creando un circuito di registrazioni autoprodotte.
Il termine “punk” fu originaria mente utilizzato dalla critica mu sicale americana per descrivere i cosiddetti “gruppi garage” ed il loro pubblico. Già nel tardo 1976, alcune band statunitensi, Ramones, Heartbreakers, Dead Boys, Voidoids, Television, o bri tanniche, Sex Pistols, Damned, Clash, furono riconosciute come la prima ondata di un nuovo mo vimento musicale. Gli anni che seguirono videro un’ampia dif fusione del punk rock in tutto il mondo, diventando presto in In ghilterra un fenomeno culturale alle quali le major iniziavano a
puntare con interesse, anche se, perlopiù, il genere trovò la sua ra gion d’essere nelle scene locali che tendevano a rifiutare la cultura do minante. Nacque così la sottocultura punk, caratterizzata da uno specifico stile di abbigliamento e da una vasta gamma di ideologie anti-autoritarie.
Verso l’inizio degli anni ottanta na scono stili musicali più aggressivi e veloci come l’hardcore punk o l’Oi! che diventarono modalità predomi nanti nel punk rock. Inoltre, musici sti cresciuti ed inizialmente identifi cati con l’area punk, oppure da esso ispirata, si orientarono verso un’am pia gamma di variazioni stilistiche, dando origine al post punk da una parte, ed al rock alternativo dall’altra.
Sul finire del XX secolo la rinascita delle sonorità punk rock coinvolse attivamente i circuiti della cultura dominante, con band come i Gre en Day, The Offspring, Rancid o blink-182, dando al genere un’ampia popolarità.
Vanity Sex Pistols
I Sex Pistols vennero formati nel 1975 a Londra e segnarono una prima vera rottura con il rock ‘n roll classico. Nonostante cinque anni appena di attività e un solo album all’attivo sono ancora oggi considerati una delle band più influenti della storia della musica e un faro per la prima ondata del punk.
Nel 1975, infatti, Malcolm McLaren, manager della band The Strand decise di cambiare nome in Sex Pistols e di licenziare l’allora bassista Del Noo nes. Anche il chitarrista Wally Nightingale lasciò il gruppo e alla formazione vennero aggiunti Glen Matlock e Johnny Rotten (pseudonimo di John Lydon). Questi due si unirono ai già presenti Ste ve Jones e Paul Cook dando vita a un esperimento musicale destinato a fare la storia. Nonostante non avesse un background da cantan te, Johnny Rotten prese il posto di Steve Jones che passò alla chitarra. In un documentario pro dotto dalla Bbc, McLaren spiegò che la scelta del lo stesso Rotten come voce del gruppo fosse nata da un’incomprensione con Vivienne Westwo od. Quest’ultima gli avrebbe infatti suggerito di far entrare nel gruppo “il ragazzo di nome John” come cantante. McLaren scelse Rotten, Vivienne intendeva John Simon Ritchie (poi divenuto fa moso come Sid Vicious).
Il suggerimento di Vivienne sarebbe stato col to comunque poco tempo dopo. A un solo anno dall’ingresso nei Sex Pistols, Glen Matlok abban donò il gruppo. Dopo aver ripiegato sul “John sbagliato”, McLaren aprì le porte della band a Sid Vicious. L’ingresso di Sid segnò una svolta nella storia del gruppo. Alla musica si affiancò il gusto per la provocazione e per lo scandalo. La parabo la dei Sex Pistols si esaurì nell’arco di tre anni, durante i quali produssero quattro singoli e un album in studio. La BBC li definì come “la sola punk rock band inglese”. Anarchici, controversi e non convenzionali fu rono a più riprese protagonisti di scandali e controversie. I loro concerti vennero in diverse occasioni ostacolati dalle autorità e le loro appa rizioni pubbliche sfociarono in risse e disordini. Dopo aver attirato l’attenzione del mondo disco grafico, il 10 marzo 1977, in una cerimonia tenuta
all’esterno di Buckingham Palace, i Sex Pi stols firmano un contratto con la A&M Re cords.
Poco dopo, nella sede dell’etichetta discogra fica, Sid vomitò sulla scrivania del direttore generale. Il contratto venne rescisso a distan za di 6 giorni dall’episodio. Due mesi dopo, in maggio, il gruppo firmò quello che sareb be stato l’ultimo contratto discografico della carriera con la Virgin Records.
Il 27 maggio 1977 pubblicano il singolo “God Save the Queen”. Fatto uscire nell’anno del giubileo d’argento della Regina, il brano sca tena le ire dei sudditi di Sua Maestà. Il singo lo viene considerato un vero e proprio attac co alla monarchia e al nazionalismo inglese. Nonostante le oltre 60mila copie vendute fu criticato e osteggiato, la BBC lo cancellò ad dirittura dalle sue rotazioni.
“Never Mind the Bollocks, Here’s the Sex Pistols”, primo e unico album della band esce nello stesso 1977. A Novembre le copie vendute nel solo Regno Unito sono più di 200mila, nessuno fa meglio.
Sid Vicious, accusato dell’omicidio della fidan zata nel 1978, morì di overdose da eroina dopo essere stato rilasciato dal carcere. John Lydon, che dopo l’uscita dal gruppo ha abbandonato per sempre lo pseudonimo “John Rotten”, fondò il gruppo post-punk Public Ima ge Ltd. Chiuse il rapporto con l’allora manager McLaren (morto nel 2010), ma non con il resto della band. Nel 2007, in occasione della ristampa in “special anniversary edition” dell’album Never Mind the Bollocks, il gruppo si riunì per una se rie di date che si tennero a Los Angeles, Londra e Manchester, con una tappa anche all’Heineken Jammin’ Festival a Mestre. Nel gennaio 2021, Variety ha annunciato che il re gista premio Oscar Danny Boyle starebbe lavo rando ad una mini-serie in sei episodi sulla storia della band. Andrà in onda su FX e si baserà sul memoir scritto nel 2018 dal chitarrista Steve Jo nes, Lonely Boy: Tales from a Sex Pistol.
Il successo viene certificato anche dal disco d’oro. Nel 1978, dopo un burrascoso tour negli Stati Uniti, John Rotten annunciò la sua de cisione di abbandonare il gruppo. Sid Vicious decise di partire per New York, mentre McLa ren, Cook e Jones volarono per una vacanza in Brasile. Rotten fu così abbandonato negli States senza soldi e biglietti per l’aereo. Solo dopo aver chiamato il capo della Virgin Radio, Richard Branson, riuscì a farsi comprare un biglietto per Londra. Cook, Jones e Vicious continuarono a esibirsi come Sex Pistols. Cercarono un nuovo solista senza successo. Il gruppo fece solo un’appa rizione, il 15 agosto 1978 all’Electric Ballroom di Londra, prima di separarsi definitivamente alla fine del 1979.
SEX PISTOLS AL COMPLETO
TOUR POSTER
FRONTMAN, JOHN LYDON
SEX PISTOLS, LA STORIA DEL
DEL PUNK ROCK BRITANNICO
SEX PISTOLS CHE CAMBIÒ LA STORIA
46 anni fa alla Lesser Free Trade Hall di Manchester il concerto dei Sex Pistols che cambiò per sempre la storia della musica
I Sex Pistols alla Lesser Free Trade Hall
Forse il nome Lesser Free Trade Hall non dirà molto ai più, un loca le di Manchester nemmeno tra i più famosi, una venue, però, diventa ta leggendaria nel giro di una notte. Era lì che il 4 giugno 1976, esattamente 46 anni fa, si esibì un gruppetto di punk che si stava facendo strada nella scena live di Londra ma che ancora in po chi conoscevano al Nord, i Sex Pistols. Responsabili dello show furono altri due nomi simbolo della scena alternative inglese, Howard Devoto e Pete Shelley dei Buzzcocks che affascinati da quella musica decisero di portare a casa loro un po’ di quella rivoluzione culturale. I due ragazzi di Manchester, dopo aver letto una recensione del primo live dei Pistols sul NME, decisero di vede re Rotten e soci in azione con i pro pri occhi andando a Londra nel feb braio del 1976. Una folgorazione vera e propria che li spinse ad organizzare lo show di Manchester dove, tra l’al tro, recuperando in corsa un bassista e un batterista tentarono il debutto live come Buzzcocks - nome che avevano scelto mentre tornavano da Londra - prima di lasciare il palco ai Pistols. Ma perché il concerto dei Sex Pi stols alla Lesser Free Trade Hall di Manchester è così importante? Cru ciale al punto da essere considera to il concerto che cambiò per sem pre la storia della musica inglese? La mitologia della Lesser Free Trade Hall è tutta racchiusa nel pubblico, an cor più che nella scintilla generatrice data
dalla band sul palco. Un che di ‘leggendario’ c’è già banalmente nel numero dei presenti: una cifra impre cisata che oscilla tra i 40 e i 100 spettatori, ma quasi sicuramente non si arrivò ai due zeri, anzi. Se chiedete in giro, però, tutti diranno che quel venerdì sera erano proprio lì, a Manchester, manco si trattasse di una Wo odstock in salsa punk. Chi era davvero alla Free Lesser Trade Hall il 4 giugno 1976 entrò in ogni caso nella sto ria della musica rock, del punk, dell’indie o facendola quella storia o testimoniandola in the making. Ma del resto non sempre quantità vuol dire qualità e nel caso dello show di Sex Pistols mai considerazione fu più vera. Difficile pensare ad una platea così sparuta rap portandola all’impatto enorme che riuscì ad aver sulla creazione della scena indipendente britannica e, a ca scata, di tutto il rock moderno.
LA NASCITA DI UNA GENERAZIONE...
Ma chi c’era tra il pubblico che si parava davanti ai se misconosciuti Sex Pistols? C’erano i giovani Bernard Sumner e Peter Hook che fu colpito talmente tanto dalla performance da correre a comprare un basso il giorno dopo. Di lì a poco i due formeranno i Joy Division prima e, dopo la morte di Ian Curtis, i New Order influenzando per sempre la scena post punk (e poi anche quella dance), diventando una della band più influenti dell’epoca moderna.
C’era Steven Patrick Morrissey un ragazzo con qualche problema di socialità e la passione per i New York Dolls che poi avrebbe formato un’altra band, gli Smiths. Con gli Smiths prima e da solista poi riuscì a mettere in versi e sotto i riflettori gli sfigati chiusi nelle camerette di tutto il mondo, diventando a sua volta una vera e propria icona e lasciando un segno indelebile nella storia dell’indie e della cultura popolare allo stesso tempo. C’era lo spigoloso Mark E.Smith che dopo il concerto dei Sex Pistols formò un’altra delle gloriose formazione di Manchester, The Fall, titani del post punk britannico. C’era Mick Hucknall, che anni dopo avrebbe formato i Simply Red. C’era Tony Wilson (con il futuro produttore Martin Hannett) - anche se qualcuno giura che lui sarebbe apparso solo al secondo show nella stessa venue poche settimane dopo - una figura cardine per la promozione della musica nuova in televisione grazie al suo show So It Goes su Granada Television e, soprattutto, grazie alla creazione della Factory Records e dell’Hacienda. Con la Factory, Wilson e i suoi soci diedero voce a band come Joy Division/New Order, A Certain Ration ed Happy Mondays e con l’iconico club Hacienda gettarono le basi per un’altra grande rivoluzione culturale: quella della club music e della rave culture. I Sex Pistols quella sera avevano dimostrato a quei ragazzi di Manchester che tutti potevano fare musica se avevano l’attitudine e qualcosa da dire in modo spontaneo, che poi è la vera lezione del punk, e che potevano farlo anche loro pur essendo lontani dai circuiti londinesi.
I SEX PISTOLS PRIMA DEL LIVE CON IL CELEBRE
“LESSER FREE TRADE HALL” DI MANCHESTER.
Non era necessario lasciarsi il Nord alle spalle e andare nella capitale per cercare un contrat to, magari con una major, entrare nei giri giu sti e sperare di realizzare qualcosa. No, bastava prendere degli strumenti, provare, registrarsi, fare rete e realizzare tutto da soli proprio come avevano fatto i Buzzcocks quella sera e come avrebbero fatto pochi mesi dopo pubblicando uno dei primi dischi indipendenti del punk: l’EP di debutto “Spiral Scratch”. Una sola sera, una manciata di canzoni, i Buz zcocks, i Sex Pistols e una concerto - quello alla Lesser Free Trade Hall nel giugno 1976senza cui nel 2021 non parleremmo di indie, di post punk, di new wave, di club culture, di shoegaze, di britpop, di garage revival, di nien te di niente.
Quel venerdì sera le pareti di quella sala concerti di Manchester videro con i loro ‘occhi’ la nascita di una generazione. E scusate se è poco.
La musica certo, 50 anni di rock declinato in tutti i modi possibili e unici ma anche icona di stile, originale, provocatoria, definitiva ancora oggi: David Bowie ha interpretato la sua vita in una dimensione artistica completa e sempre d’avanguardia che lo ha consegnato alla storia non solo per la musica.
Non è un caso che la Bbc tre anni fa lo avesse messo al primo posto, più di qualunque altra personalità, Re dello stile, in una classifica di Storia definendo David Bowie il britannico meglio vestito di tutti i tempi, precedendo la regina Elisabetta I e la prima delle socialite moderne, Georgiana Cavendish, duchessa di Devonshire.
Che si presentasse con gli stivali rossi e le zep pe altissime, i capelli arancioni o androgino con la testa scolpita o elegantissimo in panta loni affusolati e camicia bianca da Duca, David Bowie lasciava il segno da vera style fashion icon, trendsetter capace di influenzare moda, arte, design, persino beauty. Un segno tangibile della sua popolarità anche come mito di cultura contemporanea si è visto nel 2013 quando la mostra-omaggio al Victoria & Albert Museum di Londra - David Bowie is - è andata sold out con un record di spettatori, oltre 300 mila in poco più di 4 mesi. Tutti in fila per vedere l’archivio del Duca Bianco e anche il suo guardaroba, una retro spettiva completa del musicista continuamen te cangiante, da artista performer che non si è mai sottratto al gusto non tanto della provoca zione (la sessualità indefinita e l’omosessualità degli anni ‘70) dell’originalita’. Una Bowie-mania ciclica e affettuosa ha colpi to per cinque decadi il pubblico non solo dei
Vanity David Bowie
dischi e dei concerti, sorpreso ogni volta dalle sue cover stilose, dai video trasgressivi o dalle immagini di cronaca. Magari non abbiamo osato la tuta a pelle ma chi non ha provato a rifare il suo ciuffo punk o gli ombretti metallici sugli zigomi? Alla Mostra non aveva collaborato direttamente, limitandosi a mettere a disposizione il suo archi vio, lasciando che il museo scegliesse autonoma mente dal suo passato.
Vanity Fair
Audaci e...
Ribellione, gioventù e rottura. Queste sono le tre parole che al meglio descrivono il mo vimento punk, nato come rifiuto generale nel conformarsi con il resto della società. Leggings aderenti realizzati in pelle, stivali alti dalle sfu mature cupe, chiodo in pelle nera e per con cludere le spille da balia.
Un trend nato per le strade delle capitali del mondo, che poi con il tempo ha ispirato le sfilate dei brand più conosciuti nel fashion realm. Dal maglione over realizzato con patchwork, e gon na con spacco in pelle di Alexander McQueen. Al look dalle nuance bordeaux, con gonna corta in tartan e catene drappeggianti di Marine Serre.
Vanity Fair
Vivienne Westwood e la cultura punk:
Che una maestra elementare originaria di Tintwistle, un piccolo villaggio del Derbyshire in Inghil terra, diventasse il personaggio più influente della cultura punk e il perno attorno al quale si ponessero le basi di una vera e propria rivoluzione culturale.
VIVIENNE WESTWOOD
Vivenne Westwood, nata Dame Vi vienne Isabel Swire nel 1941 da Gor don e Dora Swire, passa la sua in fanzia tra le difficoltà e la povertà del secondo dopoguerra, in quella che potremmo definire una famiglia pic colo borghese, osservando la madre Dora cucire i vestiti per lei e i suoi fratelli, Gordon e Olga, adoperan do ogni pezzo di tessuto recuperato. Nel 1958 la famiglia si trasferisce a Londra dove Vivienne studia moda e oreficeria mentre si appassiona alla lettura e all’arte. Nel contesto britan nico degli anni ’60 la Westwood com prende quanto sia importante avere un lavoro stabile e “serio”, lascia l’u niversità, studia stenografia e tro va lavoro come maestra elementare. Nel 1961 incontra Derek Westwood – da cui prenderà il cognome – che sposa lo stesso anno indossando un abito rea lizzato cone le sue mani, da questo ma trimonio nascerà il figlio Ben nel 1963.
Le bastano pochi anni, due per l’esat tezza, per comprendere che quella non è la vita che desidera.
Nel 1965 conosce un amico di suo fratel lo, Malcom McLaren, quell’incontro cam bierà per sempre la sua vita e la cultura bri tannica, e non solo, per sempre, diventando i simboli di quello tsunami chiamato punk. I due iniziano a frequentarsi quasi per caso ma vanno d’accordissimo, si sentono com plici l’uno dell’altra. Fanno un figlio, Joe, e decidono di aprire un piccolissimo nego zio di abbigliamento al 430 di King’s Road. Nel corso del tempo il negozio cambierà svariate volte nome assecondando le ispirazioni di Vivien ne: “Let it Rock”, “Too Fast To Live Too Young To Die”, “SEX”, “Seditionaires” e infine “Worlds End” con l’iconico orologio che gira al contrario. Quando il negozio assunse il nome “SEX” nel 1974, la ricca e bigotta comunità di Chel sea manifestò la propria indignazione vista la mossa audace della Westwood, che consoli dò la sua posizione anti-establishment e come punto di riferimento del movimento punk. Le vetrine opache del negozio sembrava no essere quelle di un attuale sexy shop e ciò spingeva i potenziali clienti a entrare per scoprire cosa venisse venduto all’interno. Non era un semplice negozio ma un punto di ri trovo per i migliaia di giovani londinesi che non
Nel 1965 conosce un amico di suo fratello, Malcom McLaren, quell’in contro cambierà per sempre la sua vita e la cultura britannica, e non solo, per sempre, diventando i simboli di quello tsunami chiamato punk. I due iniziano a frequentarsi quasi per caso ma vanno d’accordissi mo, si sentono complici l’uno dell’altra. Fanno un figlio, Joe, e decido no di aprire un piccolissimo negozio di abbigliamento al 430 di King’s Road. Nel corso del tempo il negozio cambierà svariate volte nome assecondando le ispi razioni di Vivienne: “Let it Rock”, “Too Fast To Live Too Young To Die”, “SEX”, “Se ditionaires” e infine “Worlds End” con l’iconico orologio che gira al contrario. Quando il negozio assunse il nome “SEX” nel 1974, la ricca e bigotta comunità di Chelsea manifestò la propria indignazione vista la mossa audace della Westwood, che consolidò la sua posizione anti-establishment e come punto di riferimento del movimento punk. Le vetrine opache del negozio sembravano essere quelle di un attuale sexy shop e ciò spingeva i potenziali clienti a entrare per scoprire cosa venisse venduto all’interno. Non era un semplice negozio ma un punto di ritrovo per i migliaia di giovani londinesi che non non sopportavano il capitalismo, il materialismo britannico ma soprattutto l’intera opinio ne pubblica fortemente filo-monarchica che vedeva nei punk solo dei “giovani teppisti”.
Vivienne Westwood e Malcom McLaren hanno plasmato la moda punk e dettato i canoni estetici del movimento che conosciamo ancora oggi: silhouette strette, spille da balia, T-shirt bianche con la svastica come insulto alla classe dirigente, il bondage, il latex, lo smodato uso del tartan e ovviamente i Sex Pistols, che scandalizzarono il Regno Unito e il mondo intero grazie anche e soprattuto al bassista del gruppo (anche se non suonò mai realmente), Sid Vi cious e al suo stile di vita nichilista e ribelle, di cui MacLaren era il manager e Vivienne la stylist.
Fair
7 look iconici di Vivienne Westwood
La guida agli outfit di Dame Viv per vivere oltre cinquant’anni nel mondo del la moda senza mai annoiarsi.
Da pioniera della moda punk negli anni ‘70 a leader del New Romantic dei pri mi ‘80, passando per il revi val di corsetti e scarpe con plateau negli anni ‘90 e fino al salto nell’industria come brand di risonanza globale, quello di Vivienne Westwo od è stato—ed è ancora oggi—un intenso viaggio a rotta di collo nel mondo della moda. Manifestante e attivista, la designer compie proprio oggi 81 anni, ma tra innumerevoli sfilate mozzafiato, pubblicazioni, mostre e documen tari, non sembra mostrare alcun segno di rallentamento. Per festeggiare la Principessa del Punk, abbiamo ripercorso più di cinque decenni per selezionare alcuni dei suoi look più memorabili, quegli outfit che hanno costellato la sua vita e carriera rendendola un’icona di stile.
Dal 1971 in poi, Vivienne e Malcom McLaren (morto nel 2010) hanno lan ciato una serie di rivoluzionari esperimenti di vendita nel loro negozio prima chiamato Let it Rock, Too Fast to Live Too Young to Die, SEX, Seditionaries e infine Worlds End situato al 430 di King’s Road, nel quar tiere Chelsea di Londra. La prima di queste iniziative proponeva capi simbolo di un atteggiamento nostalgico verso la cultura pop: abiti rockn-roll originali degli anni ‘50 rielaborati, esposti tra arredi, dischi e riviste retrò dello stesso decennio. Questo scatto di più di cinquanta anni fa mostra una giovane Vivienne con un look senza tempo e un’acconciatura decisamente all’avanguardia—dopotutto, a quei tempi era impensabile che le donne portassero i capelli corti!
Vivienne e Malcolm si sono stancati di Let it Rock nel 1973 e l’hanno trasformato in Too Fast to Live, Too Young to Die, progetto con cui han no voluto concentrarsi sui classici look da motociclista. Nel 1974, poi, il duo irrequieto ha cambiato nuovamente rotta ribattezzando il negozio in SEX, proponendo audaci e stravaganti abiti in PVC, gomma e pelle. La clientela di SEX era un mix selvaggio di adolescenti alla ricerca di look audaci, appassionati di fetish, prostitute, regine e re della moda hardcore e i futuri membri dei Sex Pistols (band gestita da Malcom), un grup po eterogeneo che ha reso il negozio il punto zero del punk londinese. Vivienne indossava costantemente tutte le sue creazioni punk, come la t-shirt in garza con la scritta “Destroy”, i cui sample sono oggi sogno di ogni collezionista e venduti nelle aste a oltre 1000 sterline.
Sulla cover della rivista Tatler mentre imita Margaret Thatcher, 1989
Nel 1989 Vivienne ha scioccato l’intero Regno Unito quando una fotografia che la ritraeva identica alla Prima Ministra britannica, Maggie Thatcher, è apparsa sulla copertina del numero di aprile della rivista Tatler e su enormi cartelloni pubblicitari durante la London Fashion Week di quella stagione. Per il suo makeover in versione Thatcher, Vivienne ha indossato un classico abito Aqua scutum accessoriato con un filo di perle, una borsetta e i capel li rigidamente laccati. L’immagine è stata scattata dal fotografo Michael Roberts, che ha personalmente incoraggiato Vivienne a fare da protagonista. “Margaret Thatcher era un’ipocrita. Questo è ciò che mi sono messa in testa,” ha ricordato Vivienne nel suo libro del 2016 Get a Life!. Inutile dire che la designer non fosse una fan della Prima Ministra, anche se nel 2015 ha confessato a The Telegraph un’ammirazione per lo stile della famosa Tory: “Nella sua vita è stata sicuramente la donna meglio vestita.”
A Buckingham Palace 1992
Nel 2006 Vivienne ha ricevuto un DBE dalla Regina in persona, in onore dei suoi “servizi alla moda”. Forse immemore di quando, alla fine degli anni ‘70, Dame Viv indossava la sua maglietta di Seditionaries che sbeffeg giava la monarchia—decorata con il collage fotografico di Jamie Reid che vedeva la Queenie con una spilla da balia nel naso—la designer ha ricevuto così l’approva zione reale dalla Regina. Precedentemente, nel 1992, aveva già ottenuto un OBE dalla famiglia reale e in vero stile Vivienne è riuscita a trasformare anche que sta occasione in un’esperienza da tabloid. Come? Dopo aver ritirato la sua medaglia dalle mani della Regina a Buckingham Palace, la designer si è girata allegramente con la sua gonna lunga proprio davanti ai paparazzi, che per l’occasione si erano riuniti nel cortile del pa lazzo. Peccato che, proprio quel giorno, Viv dev’essersi scordata delle mutande e quando la gonna ruotando è salita sulla vita, tutto il mondo ha potuto vedere cosa c’era sotto.
Vanity Fair
Fotografata da Jurgen Teller, 1993
Questo sognante ritratto in bianco e nero di Vivienne stesa sulla panchina di un parco è stato uno dei suoi primi ritratti firmati dal celebre fotografo Juergen Teller. Vivienne appare rilassata ed elegante, sfoggiando uno degli svolazzanti abiti viola della sua collezione S/S 93 e un paio di scarpe con pla teau della sua linea A/W 93—lo stesso modello che ha pro vocato l’iconica caduta di Naomi Campbell sulla passerella di Westwood alla Paris Fashion Week di quella stagione. Nel corso del tempo Juergen è diventato un ottimo amico di Vi vienne e Andreas, collaborando a molte delle loro campa gne pubblicitarie. Anni dopo aver scattato questa fotografia, Juergen ha ricordato con orgoglio che Vivienne riteneva lo scatto una delle fotografie più sexy che qualcuno le avesse mai fatto. Anche il V&A Museum di Londra ha pensato che questo fosse davvero un ottimo scatto e nel 1997 ne ha acquisito i diritti per la sua collezione permanente.
Con un buzzcut, 2014
A differenza di molte altre celebrity, Vivienne non è mai caduta nella trappola di cercare disperatamente di sembrare più giovane. Lontana dall’ago del botox e dai filtri Instagram, nel 2002 ha dichiarato a The Independent che “la vita diventa ricca man mano che invecchi” aggiun gendo che “mi piace il processo di invecchiamento e non ho problemi con questa cosa.” E anche se non è più una ragazzina, Vivienne non ha certo perso il suo lato ribelle e sa come utilizzare la propria fama e immagine per generare dibattiti sulle cause in cui crede. Nel 2014, per esempio, ha drasticamente tagliato i suoi lunghi capelli rossi sostituen doli con un buzzcut color argento: “Vivienne si è tagliata i capelli perché tutti dobbiamo accorgerci del cambiamento climatico”, ha riferito il suo portavoce a The Telegraph. Questo drastico taglio è stato anche un gesto con cui Vivienne ha potuto dimostrare di essere totalmente a suo agio con l’essere anziana: “Ha eliminato il rosso in favore del bianco per mostrare che è orgogliosa della sua età,” ha confermato il portavoce.
Durante la quarantena 2020
Per molti anni, Vivienne si è impegnata instancabilmente per innescare azioni efficaci contro il cambiamento climatico e per un completo ripensamento globale sui sistemi democratici e capitalisti. Anche nel 2020, durante i primi mesi di pandemia, quando era insieme ad Andreas nella loro casa a Clapham, l’at tivista non ha perso occasione per scrivere incessantemente su blog e vlog sottolineando il modo in cui Madre Natura ha ripri stinato la terra durante la nostra quarantena. E secondo que sto video, pubblicato nell’aprile 2020, Vivienne durante il suo lockdown non è certo scesa a patti con pantaloni da ginnastica e pantofole: sullo sfondo del suo giardino alberato, Dame Viv predica in un favoloso abito verde e su di giganteschi tacchi in pieno stile Westwood.
Ci siamo innamorate dello stilecandypunk!
Step 1# Cartoon Heroes
Supereroi? Nooo. Per raggiungere le vette del can dy punk style, meglio puntare su cartoon dai risvolti pop.
Vogliamo parlare dei cari, vecchi My Little Pony?
Tutte noi da piccole avevamo almeno uno di que sti giocattoli a forma di cavallo arcobaleno, che oggi diventano i protagonisti di una speciale capsule col lection firmata dal brand in collaborazione con Ha sbro.
La mania anni Novanta è già esplosa e nessuna di noi può esimersi dall’avere un capo o un accessorio con uno di questi coloratissimi pony!
Step 2# Biker Accents
Non c’è candy senza punk: così Jeremy Scott abbi na sulla passerella di Moschino i classici stilemi del mondo pop con dettagli super rock. Indossa pure la maglietta total pink, ma non dimen ticare choker metallici, biker jackets, cappelli vinyl, bracciali a catena, cinture ricoperte di borchie o capi in pelle nera. Un gioco di contrasti davvero cool!
Step 3# Tulle
C’è qualcosa di più candy punk del tulle? Il tessuto del tutù da ballerina di danza classica, se abbinato con stile, può diventare davvero rock.
La mini in tulle è stata uno dei capi protagonisti della sfilata di Moschino: in nero, anche in versione midi, è un capo passe-partout che va a nozze con semplici t-shirt e biker boots.
Step 4# Candy colors
Azzurro pastello, rosa baby, giallo sole, fino alle sfu mature arcobaleno: i candy colors sono tutto ciò di cui abbiamo bisogno per fare il pieno di stile secon do Jeremy Scott.
Irresistibili come le caramelle gommose, uno tira l’altro: da abbinare anche insieme, spezzati da tocchi di bianco o accenti black.
Step 5# Add some flowers
Azzurro pastello, rosa baby, giallo sole, fino alle sfu mature arcobaleno: i candy colors sono tutto ciò di cui abbiamo bisogno per fare il pieno di stile secon do Jeremy Scott.
Irresistibili come le caramelle gommose, uno tira l’altro: da abbinare anche insieme, spezzati da tocchi di bianco o accenti black.
NEO-PUNK
RETROSUPERFUTURE x A-COLDWALL*
Industrial Heritage x Futuristic Design
Storia e origini del taglio punk.
Sebbene oggi sia conosciuto come il taglio di capelli simbolo del punk, il movimento gio vanile di protesta nato in Inghilterra alla fine degli anni Settanta, il Mohawk ha origini ben più lontane. Questa acconciatura prende il suo nome dai Mohawk (i nostri Moicani), in digeni del Nord America che originariamente abitavano la Mohawk Valley, nell’attuale stato di New York. I Mohawk, come il resto delle po polazioni irochese (Seneca, Cayuga, Ononda ga, Tuscarora e Oneida) portavano, infatti, un quadrato di capelli sulla parte posteriore della sommità della testa. Tuttavia, per realizzarlo, i capelli non venivano rasati, bensì strappati a piccoli ciuffi. I capelli punk sono diventati ce lebri in tutto il mondo, insieme alla musica e all’estetica della sottocultura giovanile, grazie a band come Sex Pistols, The Clash e Rancid, che sceglievano per i loro look teste spettina te, rasate, coloratissime. Ma nella storia sono tantissimi gli esempi precedenti di quella che è un’acconciatura diffusa in tutto il mondo da sempre.
I capelli punk sono diventati celebri in tutto il mondo, insieme alla musica e all’estetica della sottocultura giovanile, grazie a band come Sex Pistols, The Clash e Rancid, che sceglievano per i loro look teste spettinate, rasate, coloratissime. Ma nella storia sono tantissimi gli esempi pre cedenti di quella che è un’acconciatura diffusa in tutto il mondo da sempre.
Risale a un periodo variabile tra il 392 e il 201 a.C., quindi all’Età del Ferro, la mummia conosciuta come Uomo di Clonycavan, ritrovata in Ir landa, che aveva i capelli acconciati con la tipica “cresta” punk, addirittu ra sollevati con una specie di “gel”, probabilmente per farlo apparire più alto e minaccioso. Più o meno alla stessa epoca risalgono gli affreschi presso i luoghi di sepoltura della cul tura di Pazyryk, nell’attuale Ucraina, che ritraggono uomini a cavallo con la testa rasata e la striscia di capelli centrale rimasta sollevata. E, ancora, l’hanno portata soprattut to con lo scopo di intimidire il nemi co i cosacchi ucraini del XVI secolo (che spesso legavano o intrecciavano il ciuffo) e molti soldati americani, sia durante la Seconda Guerra Mondiale (come i paracadutisti della 17a divi sione aviotrasportata) che durante la Guerra del Vietnam. Tra l’altro all’i nizio degli anni ’50, i mohawk veni vano portati da alcuni musicisti jazz come il sassofonista Sonny Rollins e persino da alcune ragazze adolescen ti.
Capelli Punk: i tagli delle celebrities Vanity Fair
E oggi? Chi sceglie il taglio punk vuole trasmettere un certo anticonformismo, ma soprattutto grinta e forte personalità.
Lo abbiamo visto, negli ultimi anni, sulle teste di molte cantanti e musiciste, ma anche attrici.
Sebbene il taglio “classico” Mohawk prevede la rasatura su entrambi i lati della testa e una striscia di capelli solo al centro, sono diverse le versioni più soft, le varianti più in voga. Si va dall’undercut, con rasatura solo da un lato e capelli più lunghi che cadono come un ciuffo dall’altro, al fauxhawk, un pixie cortissimo con una piccola cresta centrale.
Machine Gun Kelly
Nascita dell’arte Punk
Naturalmente, l’approccio DIY non si limita all’abbigliamento, ma viene spesso esteso alla musica e alle grafiche: copertine di dischi e lo candine di concerti sono spesso opera di gio vani ragazzi, e non necessariamente di profes sionisti del settore.
Sono inoltre gli stessi punk a dar vita i propri canali di comunicazione, che – nell’era pre-In ternet – sono costituiti principalmente dalle fanzine, la cui realizzazione è facilitata dalla diffusione di ciclostili e macchine fotocopia trici.
Ci troviamo, quindi, di fronte alla nasci ta dell’arte punk, che è spesso caratterizzata dall’uso di mezzi a basso costo e dall’impiego di tecniche in parte improvvisate.
Si assiste alla ricerca di un linguaggio visivo che esprima l’interiorità della sottocultura: gli artisti, i grafici e tutti coloro che producono manufatti figurativi, danno vita a immagini for ti, scioccanti, ironiche, anticonformiste e dissa cratorie, e quindi di rottura con l’esistente.
La fonte d’ispirazione è spesso costituita da avanguardie artistiche, come ad esempio il da daismo, nato durante la prima guerra mondia le, i cui aderenti miravano da un lato a sba lordire e provocare il pubblico, e dall’altro a colpire con l’ironia e la satira i regimi respon sabili degli orrori della guerra.
I dadaisti amavano la spontaneità, che espri mevano tramite tecniche come il collage, il fotomontaggio e altri procedimenti che non richiedevano profonde conoscenze tecniche e accademiche. Il dadaismo è un crogiuolo di idee e di atteggiamenti anarchici e nichilisti, e si caratterizza per l’assenza di un vero e pro prio manifesto artistico e politico.
Il punk – soprattutto quello inglese – prende in prestito molti elementi dal dadaismo, tanto che alcuni lo vedono quasi come il figlio – o meglio nipote, per questioni anagrafiche – di quella corrente artistica.
I punk, quindi, attraverso le proprie grafiche, cercano di criticare e ridicolizzare il potere e la cultura dominante, così come i dadaisti aveva no fatto prima di loro.
Esempi di arte punk: le copertine dei dischi
Passiamo quindi ad esaminare alcuni esempi di arte punk, talvolta realizzati dalle stesse band o dai loro collaboratori, e in altri casi affidati ad artisti che – come l’anarchico Jamie Reid – hanno contribuito enormemente alla definizione dell’estetica punk.
Il più noto lavoro di Reid in ambito punk rock è probabilmente la copertina dell’album Never Mind the Bollocks (1977) dei Sex Pistols.
I suoi collage estremi e diretti caratterizzano inoltre altre grafi che della band, come quelle di God Save the Queen (1977), Pretty Vacant (1977), The Great Rock ‘n’ Roll Swin dle (1979), ecc.
Siouxsie and the Banshees, per la copertina del singolo Mittageisen / Love in a Void (1979), utilizzarono invece una porzione di un lavoro già esistente.
Si trattava di un fotomontaggio realizzato nel 1935 dall’artista dadaista berlinese John Heartfield, che raffigurava una famiglia intenta a mangiare degli oggetti metallici. Lo scopo dell’artwork era quello di ridicolizzare una dichiarazione del militare e politico nazista Hermann Göring: «L’acciaio fortifica i regni, il burro e il lardo ingrassano le genti».
Ha intenti sarcastici anche l’artwork di Orgasm Addict (1977), singolo dei Buzzcocks, realizzato dalla designer Linder Sterling. La copertina consiste in un collage ironico ed erotico, raffigurante una donna che al posto della testa ha un ferro da stiro, e in luogo dei capezzoli ha delle bocche sorridenti. Si tratta forse di un riferimento al Cadeau del dadaista statunitense Man Ray.
Le foto che compongono il collage furono ritagliate da una rivista e da un catalogo: si tratta, qundi, di immagini appartenenti alla cultura di massa, che vengono però ri contestualizzate in ottica punk.
Nell’arte punk ritroviamo, quindi, non solo le tecniche del collage e del fotomontaggio, ma anche un altro elemento della poetica dadaista, ovvero l’objet trouvé, termine che designa un oggetto naturale o un manufatto di uso comune, trovato casualmente dall’artista ed esposto come opera d’arte compiuta, oppure come elemento costitutivo di quest’ultima.
Altre tecniche frequenti sono il ready-made e l’assemblage, nonché il cut-up, procedimento che consiste nel sottoporre fonti testuali di diversa prove nienza a tecniche di frammentazione e composizione aleatoria, il cui risultato finale è un collage di lettere. Questa tecnica si ritrova ad esempio nella copertina del The Murder of Liddle Towers (1979) degli Angelic Upstarts – dedicato a un pugile morto nel ’76, mentre era in custodia della polizia – dove le scritte sembrano quasi comporre una lettera minatoria.
Collage e cut-up fanno mostra di sé pure sulla copertina dell’album That’s Life (1978) degli Sham 69: queste tecniche vengono qui spinte all’estremo, dando luogo a un artwork che suggerisce un turbinio di visioni e pensieri.
Altra cosa che appartiene a questo discorso è il ricalcare la grafica shock dei giornali scandalisti, con l’uso di font colorati e immagini forti, come nella grafica del singolo Gary Gilmore’s Eyes / Bored Teenagers (1977) degli Adverts.
Vanity Fair
In questo caso si nota l’utilizzo di colori pieni e accesi, e inoltre i componenti della band hanno gli occhi coperti, a mo’ di censura, nella maniera adot tata da certi giornali scandalistici o di cronaca nera.
Altra importante corrente presente nell’arte punk è il surrealismo, movimento molto esplorato dai grafici della nuova cultura popolare del secondo dopoguerra. Come i dadaisti, i surrealisti volevano provocare, scandalizzare, alterare o capovolgere la percezione ordinaria del mondo, in modo tale da impressionare l’osservatore. Molti artisti di questa corrente erano apertamente di sinistra e ritenevano la propria arte un contributo a un cambiamento radicale della società. Nella copertina di Thinkin’ of the USA (1977) de gli Eater, vi è una raffigurazione surreale della band, che è sovrastata da una New York disfatta, affianca ta da Godzilla e dalla Statua della Libertà, che però ha in mano un hamburger in luogo della fiaccola.
I punk – così come gli artisti a cui talvolta si affidano – usano immagini d’impatto, irriverenti, sessualmente esplicite, violente, visionarie e oniriche, atte a di storcere e la realtà.
Sono frequenti i disegni in bian co e nero, a matita o a china, così come i collage, i fotomontaggi, le immagini fotocopiate e colorate nello stile di Andy Warhol, e inol tre tutte queste tecniche possono essere mescolate in varie manie re.
L’insieme di tecniche e fonti d’i spirazione viste finora furono uti lizzate, come abbiamo visto, non solo dai grafici e dagli artisti di professione, ma anche dai punk di tutto il mondo. Si tratta, quin di, di una grande innovazione, in quanto la produzione artistica non è più riservata a un numero ristretto di individui.
La diffusione, a partire dalla fine degli anni ’70, delle macchine fotocopiatrici contribuì a far na scere ed espandere l’autoprodu zione delle grafiche, siano esse destinate alle copertine dei di schi, alle t-shirt o a materiali di altro genere (adesivi, poster, flyer, ecc.).
Al giorno d’oggi si utilizzano mezzi più moderni, soprattutto digitali, che sono spesso alla por tata di tutti. Questi permettono sia di creare di oggetti materiali (fanzine, dischi, locandine, ecc.) che di dar vita a nuovi mezzi d’e spressione, come ad esempio i siti web, i blog come il Crombie Media e i post che appaiono sui social network.
Attraverso le nuove tecnologie si manifesta, insomma, il vecchio spirito punk, che consiste nel produrre di persona contenuti e manufatti, che permettano di manifestare la propria indole e le proprie idee. Il nostro auspicio è che questa attitudine non soltan to sopravviva, ma torni a espan dersi, spingendoci a non essere dei semplici e inerti consumatori.
I Daft Punk sono un duo formatosi a Parigi nel 1992 e composto da Thomas Bangalter e Guy Manuel De Homem-Christo. Nel 1995 il singo lo “Da Funk”, intelligente aggiornamento di motivetti elettronici anni 80 come “Pop Corn” e “Pop Muzik”, ottiene un notevole successo: sarà uno dei pezzi forti del loro primo album, datato 1996, Homework. In questo primo disco i Daft Punk sfoggiano dell’ottima musica “da cameretta”: minimalista nei suoni, tra vocoder e tastiere dance, orecchiabile quanto basta e debitrice di una non precisa corrente musicale elettronica, tanto che si possono scorgere echi di Kraftwerk, ma anche della disco-music de gli anni ‘70 e del synth-pop esploso negli anni Ottanta.
Le composizioni dei Daft Punk si basano su un’idea che viene reiterata in continuazione, con l’aggiunta di piccoli suoni e con il costan te ritmo martellante tipico di certa musica te chno. Eppure sarebbe riduttivo definire i Daft Punk come dei “rielaboratori” di antiche idee: il loro disco è pieno di piccoli capolavori che, anche grazie all’accompagnamento di ottimi videoclip, riescono a sfondare e a creare un vero e proprio caso.
Più che “Da Funk”, è “Around the World” che catalizza l’attenzione e diventa un clamoroso successo commerciale.
Ciò che all’apparenza potrebbe sembrare una hit usa e getta, nasce in realtà da un irresistibile ritmo, da un orecchiabile giro di basso in sottofondo e soprattutto dalla voce sintetica che ripete, in continuazione, le stesse tre parole che danno il titolo al pezzo. Talmen te semplice da essere geniale. Lo stesso si può dire per altre composizioni del disco: “Phoenix”, “Fresh”, “Teachers”, per esempio, si basano su un’idea melo dica che viene riproposta incessantemente, tanto da risultare irresistibilmente orecchiabile. In “Burnin’” e “Rollin’ & Scratchin’” cardine della canzone è sempli cemente un suono elettronico, sgradevole all’inizio ma che diventa familiare proprio per la sua continua riproposizione, nonché grazie al ritmo e ai suoni di sottofondo. “Alive” è il pezzo più maturo del disco, in quanto possiede una carica innovativa e assoluta mente originale che lo distingue dagli altri. Nel 2001 esce il secondo album, Discovery. Con maggiori mezzi a disposizione, i Daft Punk sfornano un prodotto che è innovativo, retrò e critico al tem po stesso. E’ innovativo perché sfoggia un’altra non indifferente quantità di trovate e idee, è retrò perché anche in questo caso sono evidenti i rimandi al pas sato.
Attenzione, però: è critico perché non è esclusiva mente un “bignami” della musica degli ultimi decen ni, ma un rimiscelamento attento e mirato, un gigan tesco “blob” che ingloba, taglia, aggiusta, ma che alla fine risulta un prodotto totalmente nuovo.
“Aerodynamic”, per esempio, sembra un nor male strumentale elettronico ma poi, d’im provviso, contiene un riff ultrakitsch alla Van Halen filtrato e suoni che richiamano avan guardie del passato. Lo stesso si può dire per “Digital Love”, “One More Time” e “Harder, Better, Faster, Stronger”: suoni più maturi, im mensi calderoni e, allo stesso tempo, ballabi lissimi e trascinanti ritmi. La voce è presente in forma maggiore che nell’album precedente, mentre è lasciato da parte il minimalismo so noro che aveva reso i Daft Punk inconfondibi li. A metà disco compiaiono “Nightvision”, un breve interludio ambient, “Superheroes”, che sembra davvero una delle tante hit tipiche de gli anni 80, e anche un brano jazz-funk come “Something About Us”. Le ultime cinque trac ce non reggono il confronto con la freschezza e la floridità delle precedenti e paiono sem plicemente esercizi di stile un po’ compiaciu ti, anche se non si possono non menzionare “Short Circuit” (che ha il suo punto di forza in un suono ultrakitsch alla “Beverly Hills Cop”) e la conclusiva “Too long”, dieci minuti (pleonastici) di soul elettronico che strizza un po’ troppo l’oc chio a certa dance modaiola da club. Ciò che conta maggiormente, dunque, in questo secondo disco, è l’operazione: i Daft Punk stra volgono i canoni della disco-music di Moroder, e realizzano così un prodotto squisitamente pop (non solo nel senso musicale del termine) e consapevolmente kitsch. Come nel primo disco, anche in questo caso l’idea è semplice, ma geniale. Se in Homework avevano giocato a inventare piccoli affreschi elettronici con il minimo dispiego di forze possibile, in Discovery, la missione è più ar dua ma egualmente compiuta: rielaborare idee musicali degli ultimi decenni (se stessi compresi) per fornirne un’interpretazione critica e nostalgica. Tutto questo senza cadere in intellettualismi o sperimentalismo puro, ma costruendo tracce che non manchino d’orecchiabilità e di ritmi coinvol genti. Un’opera di esplorazione delle nuove frontiere del pop elettronico non dissimile da quella compiuta parallelamente dai loro “cugini” e connazionali Air.
Nel 2005, con il loro terzo disco, Human After All, i Daft Punk riescono a spiazzare tutti: ancora una volta il gruppo cambia registro e propone un disco inciso in gran fretta (per loro stessa am missione), senza riuscire questa volta a sfornare singoli di successo, come era accaduto per gli album precedenti. Ma non per questo il disco non fa parlare di sé, anzi, divide nettamente: chi lo considera un grande disco trova che la ripetitività, qui esagerata e sottolineata, sia quasi un gesto di protesta che, insieme alle sonorità senz’altro più rock dei dischi precedenti, ne fa un disco quasi “punk” nel significato; chi lo ritiene un clamoroso passo falso vede in questo disco una totale man canza di creatività resa evidente dalla pochezza della qualità dei pezzi, allungati a dismisura, quasi indistinguibili fra loro e con omaggi che sembrano più scopiazzature che citazioni (il fantasma dei Kraftwerk aleggia pericolosamente in almeno metà dei pezzi). Qualcosa, comunque, si salva: le divertenti “Robot Rock” e “Technologic”, per esempio, ma siamo davvero distanti dalla grandezza delle prove precedenti e il disco sembra avere divertito più i Daft Punk nella composizione che l’ascoltatore, spaesato nell’ascolto di un disco così semplice, eppure così complesso. E’ banale dirlo ma in un caso come questo, dove ci si ritrova fra chi grida al capo lavoro e chi alla totale insufficienza, c’è bisogno di tempo, forse anni, per capire da che parte sta la ragione. A cinque anni di distanza da Human After All, Guy-Manuel de Homem-Christo e Thomas Bangalter decidono di soddisfare le dorate lusinghe disneyane, rimandando un po’ inaspettata mente l’atteso rientro a pieno titolo. Una scelta condivisibile quella dei due francesini, che spacca allo stesso tempo critica e platea, come nella migliore delle tradizioni. Annusata soprattutto la tra ma e le ambientazioni del film in questione, con Tron Legacy Original Motion Picture Soundtrack (2010) parrebbe ovvio ipotizzare uno sciame robotico e incessante di orchestrazioni à-la Daft Punk.
Senza considerare che il perfetto incastro tra la pel licola dell’esordiente Joseph Kosinski e le classiche sonorità dei due alfieri della dance elettronica tran salpina avrebbero potuto far scattare qualcosa di intrigante. Niente di tutto questo. Il “disco” contie ne solo due bordate degne del marchio originario. Il resto è il più classico dei sottofondi fantascienti fici a stelle e strisce. Un vero e proprio polpettone grassissimo di rarefazioni pseudo-Jarre con tanto di aperture alari e palpitanti intermezzi di circostanza (“Recognizer“). La sola “Arena” incarna il tema sono ro dominante dell’intero lungometraggio. Momenti come “Rizler”, “Outlands” e “The Game Has Can ged” enfatizzano gli attimi centrali e più significativi dell’intera faccenda. Ma, come già accennato poco sopra, sono due i guizzi strettamente cibernetici, po sti l’uno dietro l’altro e pregni dell’ultrakitsch robo ante che ha reso inconfondibili i Daft Punk: “End Of Line” e “Derezzed”. La prima è una marcia pachider mica alla stregua dei Kraftwerk con tanto di tastie rone imperante e pathos intergalattico. La seconda è una vera e propria scheggia fatta partire in quattro quarti e spedita oltre l’orbita terrestre. Due minu ti scarsi di rotazioni sintetiche e stop&go smorzati a casaccio che fungono da aperitivo all‘incombente futuro.
Preceduto da un’attesa smisurata, magistralmente gestita dai due francesi con tecniche di promo zione raffinate (inclusa la parata di stelle dei collaboratori a illustrare il progetto sul web), Random Access Memories (2013) mostra un carattere quasi autoreferenziale e romantico E’ l’album dell’infanzia, dei ricordi, dei Seventies, infarcito di tutto quel che appartiene ai due. Herbie Hankcok e compagnia, gli immaginari da cinema di serie B anni 70, sci-fi a palla. Una sorta di patina disco-lounge, inserti funky e prog sullo sfondo. Il mood del disco e lo spirito con il quale è stato concepito lavorano in perfetta simbiosi. E deve aver pesato parecchio anche la strizzatina d’occhi tra Guy-Manuel e Sebastien Tellier nella bollen te esperienza “Sexuality”, visto che da quel contatto il parigino sembra aver tirato fuori la parte più erotica di sé e della sua musica. Le pulsazioni di “Whitin” emanano così calore e una fottuta carnalità. Mentre in “Beyond” salta fuori l’orchestrona soul da preambolo a un giretto funky legge rissimo, con l’immancabile voce-vocoder in salsa lounge sullo sfondo.
L’assetto disco-funky dell’introduttiva “Give Life Back To Music” con Nile Rodgers ci suggerisce invece di spalmarci la crema solare. Si marca il territorio calpestando la sabbia e bevendo Martini. E’ la vita che scorre tra le onde negli aperitivi estivi. Nelle notti d’agosto. Sulla medesima scia ma gnetica si destreggia il battito di “Instant Crush” con Julian Casablancas che palleggia alla gran dissima e tanto di space-groove (alla Kosinsky, per intenderci) a far impennare allegramente anima e culo. Cosa che riesce ancora meglio nel tiro immensamente browniano di “Loose Yourself To Dance”. Dove abbiano poi pescato il compositore Paul Williams (vincitore tra l’altro di un premio Oscar nel film del 1976 di Frank Pierson “È nata una stella”) resta un mistero. “Touch” si presenta dunque come il pezzo più “elaborato” e cinematografico del lotto. Parte con uno svolazzo alla Gong (!) versione “Flute Salad”, muta nella fase centrale in un’emozionante e broadwayana soft-ballad, tra bollori analogici, l’ambient, la disco baldelliana in un pastiche che fotografa l’album più di mille parole, un leggiadro cambio di ritmo fino a calare in un vortice spa ziale con tanto di cori e violini in bella mostra.
“The Game Of Love” è al contrario un’istantanea dalle consuete sfuma ture lounge, porno all’occorrenza, graziosa e ben armonizzata quanto basta per cullare i fianchi e ben altro.
Ma il fatto che Thomas e Guy-Ma nuel possano permettersi qualsiasi cosa lo dimostra soprattutto “Giorgio
By Moroder”, una sorta di audio-do cumentario con la voce dello stesso Moroder, con bordate sci-fi e chitar roni in climax.
In coda, “Motherboard” gioca di so spensioni e svolazzi pindarici quasi canterburiani, laddove invece Pan da Bear in “Doin’ It Right” riporta le lancette all’indie del 2013. La con clusiva “Contact” la butta definitiva mente in una grandeur space-caciara in dissolvenza. Decollo e atterraggio. Random Access Memories è il disco integralista, passatista e autoreferen ziale dei Daft Punk. Ed è ortodosso e assolutamente fedele alla linea, ten ta di giocare spesso su un equilibrio che a volte si spezza. E’ la rivendica zione di quel che sono e di quel che sono stati i Daft Punk.
Il punk nella cultura di massa di oggi
Spiegare l’ideologia Punk non è facile ma, come accade per molte cose non comuni e anticonformiste, non è mai stata capita. Il punk oggi, reduce dalla profonda incomprensione della società, viene associato ai teppisti di strada e alla sovversione delle regole.
Il cinema e la critica musicale bigotta, ne hanno demonizzato quasi tutti gli aspetti, trasformandolo anche oggi come simbolo di una generazione che ha rovinato intere schiere di giovani. Eppure la moda punk è molto di più, ripresa da numerosi artisti contem poranei per sconvolgere la moda stessa. Lo stesso Gianni Versace riprese moltissimi temi del punk e li adattò ad un gusto estetico classicheggiante: spille da balia, cotte di maglia, pelle e borchie nelle sapienti mani di Gianni tornarono sulle passerelle.
Quando eravamo punk : la ribellione in graffiti bianco e nero
Se un ventenne si chiedesse che senso abbia tornare agli anni del punk ita liano e dell’anarchismo militante, gli basterebbe leggere uno dei flyer del Virus di Milano, troverebbe discorsi sulla guerra, sul tempo rubato, sul la voro, l’attaccamento al denaro, i padro ni. Temi ormai poco frequentati a sini stra che all’epoca venivano gridati con un linguaggio e un’estetica corrosiva e che, oggi, verrebbero etichettata quan to meno come scandaloso. Questo e molto altro si può trovare in Virus il punk è rumore 1982-1989 (pp. 544 illu strate, euro 39) pubblicato da Goodfel las Edizioni e curato da due vecchie conoscenze dell’underground milane se, Marco Teatro e Giacomo Spazio. Il centro sociale Virus a Milano, fra l’82 e l’89, è stata l’alternativa sperimentale e attiva al pensiero capitalista, nel li bro il materiale – tanto – è in ordine cronologico, diviso per anni, ci sono i ciclostilati distribuiti ai passanti alle manifestazioni, fogli che parlano di protesta, antimilitarismo, gli sgomberi, la storia emerge da sola senza nessun commento o didascalia, evitando così anche il rischio di un’operazione no stalgia.
I documenti pubblicati sono incredi bilmente attuali, certe volte ingenui ma genuini, Marco Teatro, classe ’68, entrò nel collettivo del Virus nell’85, oggi è un artista visivo e molto altro: «È un linguaggio di trent’anni fa, sono ciclostili, la fotocopiatrice è arrivata dopo… adesso solo per par condicio nessuno si met terebbe a scrivere in quel modo. Da lì però possiamo vedere la libertà di pensiero e di parola, non abbiamo incluso foto, né documentazione personale, né testimonianze postume, siamo stati più fedeli a un’operazione archivistica e didattica». Nella copertina c’è lo stencil con la V del Virus, la A anarchica/punx e la siringa rotta. Uno dei primi comunicati dell’81, è un incontro “contro l’eroina”, un’attitudine radicale che contraddistingueva il Virus: «È stato uno dei primi spazi a prendere
di petto il problema dell’eroina che a Milano in quegli anni falcidiava a più non posso L’attitu dine di chi lo frequentava era quella più cras siana (da Crass, band punk rock inglese, ndr) e legata al movimento della musica hardcore. Non c’era il punk modaiolo, per essere punk in Italia in quel momento bisognava essere radica li. Quando il punk ha preso piede c’erano alme no 100 centri sociali in Italia, quasi tutti avevano un’estetica legale al punk. Il movimento era ve ramente vasto».
All’interno ci sono delle vere chicche, come la punkzine Risi e Sorrisi. Tutto il volume trasu da un’estetica travolgente: «Il libro vuole essere anche di grafica, è difficile da spiegare ma ha una forza irresistibile, basta soffermarsi sulla copertina. Le immagini sono per lo più colla ge particolarmente brutti, improvvisati, fatti da persone che, come dire, non avevano uno stile accademico (ride, ndr).
Si percepisce la spontaneità, non c’erano i colo ri della generazione psichedelica e non c’erano ancora quelli alternativi, i graffiti della genera zione hip hop. Nel decennio del punk dominava il bianco e il nero».
QUANDO SI PENSA al punk si guarda sempre fuori confine, a nord, ma la storia di quanto è successo in Italia è emblematica: «C’era un po’ il mito del nord Europa ma non era così influen te, l’Inghilterra era importante dal punto di vista musicale, ma dal punto di vista politico e meto dico era più avanti l’Italia. In Inghilterra non tro vavi nemmeno gli squat e i gruppi suonavano nei pub. Anche dai volantini si vede quanto da noi fosse seria l’organizzazione, non c’era un senso di inferiorità, anzi c’era l’orgoglio di essere un punto di riferimenti per i gruppi che venivano a suonare da tutta Europa e dagli Usa. Una volta qui restavano sorpresi della qualità degli squat o dal pubblico numeroso, abituati com’erano a suonare in piccoli locali». Nei flyer viene preso di mira ciò che inizia a prospettarsi come alternati vo ma all’interno di un contesto istituzionalizza to, come l’Arci: «Si aveva un senso di autoprodu zione, creativo e di autorganizzazione, considera che negli anni ’80 metà dei concerti live a Milano si facevano nei centri sociali.
Con i ’90 questo capitale si è dissolto eppure ha continuato a contaminare, centinaia di loca li sono stati aperti successivamente da chi aveva avuto qualche esperienza nel centro sociale. È stata una scuola».
La ricchezza e la varietà di quell’esperienza anco ra potrebbe essere di riferimento per gli odierni movimenti alternativi e politici: «Prima di tutto è una storia da conoscere, mi sono reso conto che non c’è stato un passaggio di testimone e Geno va è stata uno spartiacque. Oggi queste situazio ni non esistono più, da un lato è positivo, quello però che io ancora non vedo è l’underground, ma forse è già tutto nella rete e non me ne sono accorto».
Che cosa era il punk e perché spaventava il mondo?
Tutti conoscono il sound del punk: senza filtri e senza respiro, un assalto di claustrofobia sonora catturato in modo grezzo in uno studio, garage, salotto, addirittura nei vicoli. I riff di chitarra sono taglienti e sregolati, guidati da una batteria potente e veloce su una linea di basso grintosa e determinante. Le voci sono grezze ed espres sive, urlano testi carichi di messaggi superando gli strumenti. Aggressività, frustrazione, ironico sarcasmo – e tutto questo ad alto volume. An che il look punk è riconoscibile: capelli corti e spettinati, vestiti strappati, catene, borchie, in dumenti in pelle e trucco. Per i suoi creatori e il suo pubblico, il punk rap presentava un’identità culturale che esprimeva rabbia, frustrazione e ribellione.
L’impennata della scena punk – e il riscontro del pubblico – tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 non si limitarono al solo settore musi cale. Divenne un’ideologia che influenzò lette ratura, poesia, moda e ribellione politica.
Tuttavia, come rappresenta la serie originale “Pi stol” creata da Craig Pearce e diretta da Danny Boyle, disponibile in streaming dal 7 settembre su Disney+, la musica ne divenne il centro gra vitazionale, fornendo ritmo e identità a un ge nere che sarebbe esploso, imploso e reinventato nell’arco di decenni, in tutto il mondo.
Definire l’indefinibile
Come movimento, il punk per sua natura sfug ge a ogni definizione. Nel suo libro Punk Style, Monica Sklar lo definisce come “un nuovo modo vitale di esprimere idee di una sottocultura che comprendeva aspetti artistici, musicali, di moda e stile di vita…normalmente radicato in coloro che in qualche modo si sentono emarginati dalla società”.
La parola punk originariamente era un termine arcaico per “prostituta” – il termine “puncke” è stato usato in questo senso da Shakespeare in Misura per misura, seppure in modo ambiguo – e più tardi divenne un termine gergale per indicare in generale buoni a nulla miscredenti o carisma tici in opposizione all’autorità, come i personaggi interpretati da James Dean e Marlon Brando in film come Gioventù bruciata e Il selvaggio. Era inoltre ampiamente usato nello slang dei carce rati per definire una vittima di atteggiamenti di sottomissione sessuale.
La sua nascita come corrente musicale non è chiara, ma probabilmente risale a molto prima di quando è stata percepita. Una nota sul quo tidiano San Francisco Call del 3 ottobre 1899 ri portava il commento indignato di un tale Otto Wise, che definiva il canto di un compagno di confraternita come “il canto più punk che abbia mai sentito”.
In questo e in altri contesti musicali, che furono numerosi, la parola punk veniva usata come aggettivo per descrivere qualsiasi tipo di musica che fosse volutamente grezzo e non tecnico – riflettendo le caratteristiche di chi la faceva. Ben lungi dall’essere la semplice espressione di idee alternative o musica banal mente di natura poco colta, quando si affermò, il “punk rock” era percepito come parte di una missione intenzionalmente provocatoria. Il dizionario Miriam-Webster definisce questo stile musicale “caratterizzato da espressioni estreme e spesso volutamente offensive di alienazione e malcontento sociale” – sebbene il termine non fosse di uso comune quando il movimento cominciò a farsi sentire. Era nell’aria, comunque: nel numero di maggio 1971 della celebre rivista musicale Creem, il giornalista Dave Marsh, in una retrospettiva sulla band statunitense degli anni ’60 “Question Mark and the Mysterians”, li descriveva come un “esempio di riferimento del punk rock”, segnando una delle prime volte in cui il termine veniva usato per definire il genere.
Gruppi americani come i New York Dolls e i Ramones (“New York rock”), The Stooges e gli MC5 a Detroit (“garage rock”) erano carat terizzati da una musicalità lontana dalla tecnica e da un approccio spavaldo.
Ma questo termine così associato a mascalzoni di vario tipo non era visto di buon occhio, e veniva usato principalmente dai giornalisti per classificare gli elementi della loro musica. Un articolo del 1976 di John Ingham sulla rivista UK’s Sounds era intitolato “Welcome to the (?) Rock Special” (Benvenuti allo speciale sul rock (?), N.d.T.), dove il punto interrogativo indicava chiaramente come nessuno sapesse come chiamare il nuovo movimento che stava emergendo in USA, Australia e nel Regno Unito. Quantomeno sul versante orientale dell’Atlantico, il punk rock non ebbe una sua definizione identitaria finché non ci fu una band adatta a rappresentarla.
Punto di svolta:
E qui entrano in scena i Sex Pistols. La scena punk della metà degli anni ’70 nel Regno Unito emerse in un contesto di declino economico e di sordini civili. L’economia era in piena recessione, gli scontri tra la polizia e i cittadini sulle strade erano frequenti, la Gran Bretagna scendeva la classifi ca delle potenze economiche e – sul lo sfondo di un impero decadente e sempre più costoso – le prospettive per i giovani erano sconfortanti. Uno “Stato fallito” e ingovernabile, come lo sintetizzò il giornalista Simon Jen kins, che scrisse: “La parola ‘sciopero’ era su ogni pagina di ogni giornale quasi ogni giorno. I servizi pubblici erano al collasso. Questo Paese era veramente nel caos”.
In questo contesto, nella metà degli anni ’70 l’emergere di una variopinta controcul tura di gruppi musicali che sembravano dare voce alle frustrazioni della popola zione, ha rappresentato un allettante cata lizzatore per i giovani disillusi.
La musicalità del punk rock – o la mancanza di musicalità, come veniva percepita in alcuni ambienti – fu già di per sé una reazione. Se dal punto di vista artistico le canzoni facevano pensare che i musicisti avessero solo una vaga co noscenza degli strumenti che suonavano (una recensione del 1973 dei New York Dolls paragonava le sonorità del gruppo a quella di un tosaerba), si trattava di una reazione conscia alle grandiose band che riempivano gli stadi e propone vano uno sconnesso rock progressivo e performance operistiche e indulgenti.
Il punk rock, quando arrivò, proponeva una musica tagliente, rapida e grezza, con certi caotici e imprevedibili che a volte incitavano le folle represse alla violenza. Niente assolo virtuosi e scintillante scenotecnica: l’abilità musicale veniva dopo l’at teggiamento e la sensazione di accessibilità; sul palco non c’erano rock star agiate e viziate, ma persone comuni con difficoltà e frustrazioni, e qualcosa da dire. I testi erano spesso politicizzati o critici verso quello che appariva sempre di più un Paese governato da istituzioni oscure e retrograde.
Il punk rock, quando arrivò, proponeva una musica tagliente, rapida e grezza, con certi caotici e imprevedibili che a volte incitavano le folle represse alla violenza. Niente assolo virtuosi e scintillante scenotecnica: l’abilità musicale veniva dopo l’at teggiamento e la sensazione di accessibilità; sul palco non c’erano rock star agiate e viziate, ma persone comuni con difficoltà e frustrazioni, e qualcosa da dire. I testi erano spesso politicizzati o critici verso quello che appariva sempre di più un Paese governato da istituzioni oscure e retrograde. Questo stile ruvido ma carismatico contribuì a creare una moda “a prova di reces sione”. Il look ascetico e trasandato di rock band americane come i Ramones e i Television e di artisti come Lou Reed e Patti Smith – jeans strappati tenuti insieme da spille da balia, indumenti e magliette riciclate da negozio dell’usato – si diffuse da un lato all’altro dell’Atlantico e si trasformò in stili individualistici che erano per definizione un’affermazione di unicità.
Alcune delle espressioni più audaci fu rono realizzate da Vivienne Westwood, che al tempo aveva una relazione con Malcolm McLaren, personalità in vista e promoter. Quest’ultimo, dopo un periodo negli USA come manager dei New York Dolls, si dedicò a una band locale chiamata The Strand, che lui e Westwo od usarono come una sorta di manifesto musicale per la loro boutique di moda a Chelsea. Con l’aumento di popolarità della moda fetish, Westwood e McLaren avevano cambiato nome alla boutique, da Too Fast To Live, Too Young To Die a SEX – nonché il nome dei The Strand a Sex Pistols, con McLaren che descrive va l’estetica concepita per la band come quella di “sexy e giovani assassini”. Successo e popolarità erano scomoda mente in antitesi alla filosofia punk, ma questa fu anche la conseguenza inevi tabile della connessione con un grande numero di compratori di dischi. Questo portò a un episodio che fece scandalo nel dicembre 1976, quando il presentato re televisivo della BBC Bill Grundy – che per un cambiamento dell’ultimo minuto si trovò a intervistare i Sex Pistols invece dei Queen in un programma in prima serata – provocò la band sull’autenticità del loro antimaterialismo, con una domanda sulle 40.000 sterline (circa 47.300 euro al cambio attuale, N.d.T.) accettate per un contratto discografico.
Il cantante John Lydon, che allora si fa ceva chiamare Johnny Rotten (Johnny “marcio”, N.d.T.), borbottò una parolac cia sottovoce, che Grundy gli chiese di ripetere, a dispetto delle rigide politiche della BBC. Dopo ulteriori insistenze, il chitarrista Steve Jones si scagliò in un’invettiva contro il presentatore, che fu trasmessa interamente dal vivo. La carriera di Grundy ne rimase irrimedia bilmente segnata, e i Sex Pistols in un attimo divennero famosi.
Anarchia nel regno unito.
La percepita minaccia che il punk rock rappresentava per la società era chiara mente espressa da quello che sarebbe diventato un inno contro l’ordine co stituito. Come obiettivo, in quanto capo dello Stato di un Paese sottoposto ad au sterità, la Regina era perfetta.
Nonostante la band abbia negato che “God Save the Queen” sia stata concepi ta appositamente per l’evento, McLaren fece in modo che il singolo uscisse in concomitanza con il Giubileo d’argento della Regina Elisabetta, il 27 maggio 1977.
Originariamente promossa usando il ri tratto della Regina con una spilla da ba lia appuntata sulla bocca e la copertina che la ritraeva con sulla bocca e sugli occhi lettere ritagliate dai titoli dei gior nali, nello stile “richiesta di riscatto”, la canzone fu vista – non a torto – come un attacco alla famiglia reale e ai suoi valori.
Bandita dalla BBC, divenne un successo popolare ma al contempo mise la band nel mirino dei sostenitori della monarchia: il batterista Paul Cook fu aggredito fuori da una stazione della metropolitana da sei uomini armati di coltelli; John Lydon fu attaccato da alcune persone con dei rasoi fuori da un pub a Highbury, riportando lesioni al viso e a una mano.
Lydon – che scrisse il testo – ha sempre sostenuto che la canzone, originariamente intitolata No Future, sia stata fraintesa. Nel libro Isle of Noises, Lydon dichiara all’au tore Daniel Rachel che quel singolo ha catturato “la sensazione di rabbia, dell’in differenza della Regina nei confronti della popolazione e il distacco rispetto a noi come persone”. Ma sul The Times nel 2022, ha dichiarato: “Non provo alcun astio nei confronti di nessun membro della famiglia reale. Né l’ho mai provato. È l’istituzione che mi infastidisce, e il presupposto che debba pagarla io”. 45 anni dopo, una nuova pubblicazione della canzone raggiunse per la prima volta il primo posto delle classifiche nel Regno Unito, il 4 giugno 2022 – proprio nel weekend del Giubileo di platino della Regina.
La provocazione insita nelle dichiarazioni anti-sistema, anti-capitalismo e anti-con formismo della cultura punk inevitabilmente l’hanno portata verso atmosfere più cupe, che hanno ampliato il gap tra la generazione più vecchia e conservatrice e i punk stessi. Come il teorico culturale Dick Hebdige scrive in Subculture: The Mea ning of Style (Sottocultura, il significato dello stile, N.d.T.), “Nessuna sottocultura ha cercato con più cupa determinazione del punk di staccarsi dal paesaggio scontato delle forme normalizzate, né di tirarsi addosso una tale veemente disapprovazione”.
La violenza raramente mancava nelle serate e nei concerti punk – sia tra la folla, tra la folla e i membri della band e tra il pubblico più “puritano” che cercava lo scontro con una sottocultura vista come una vera e propria minaccia allo stile di vita britan nico. Quindi anche i punk stessi divennero degli obiettivi.
“Gli atteggiamenti e le prese di posizione trasgressivi e irriverenti del punk hanno causato una feroce reazione da parte della cultura normativa”, scri ve Andrew H. Carroll in ‘Run ning Riot’:Violence and British Punk Communities, 1975-1984 (Verso lo scompiglio: violenza e comunità punk britanniche, 1975-1984, N.d.T.), “e li hanno ulteriormente isolati dalla società normata; le reazioni degli oppositori hanno spinto i punk sempre più profonda mente nella loro comunità al ternativa”.
Un’altra teoria collegava l’aggressivi tà percepita del punk al vertiginoso aumento dei divorzi e alla dissolu zione di ciò che molti consideravano i valori della famiglia “tradizionale”. Come scrive Connell, “uno dei modi con cui i giovani hanno reagito a questo è stato attraverso la costru zione di una nuova comunità, incen trata sulla musica punk, che usava la violenza per definirsi”.
Venivano usati anche sinistri acces sori come catene per cani e coltelli. Sempre con l’intento di attaccare e impressionare le vecchie generazioni, sui vestiti veniva spesso riportata la svastica e altri simboli del nazi smo, come palese provocazione nei confronti di chi trent’anni prima aveva combattuto la Seconda guerra mondiale.
Quest’ultimo aspetto fu ampiamente ostentato da John Richie – meglio cono sciuto con il suo nome d’arte Sid Vicious – che divenne il bassista dei Sex Pistols nel 1977. Vicious incarnò il lato più autodistruttivo del punk: privo di talento come musicista, divenne un eroinomane, aggrediva il pubblico, si incideva slogan sul petto durante le performance e nel 1978 fu arrestato per omicidio di secondo gra do per la morte della sua ragazza Nancy Spungen, avvenuta dopo una festa a New York. Vicious morì di overdose mentre era in attesa di giudizio, a febbraio 1979.
Il punk diventa Mainstream.
La morte di Vicious suonò come una cam pana a morto per il punk stesso. Tra le band che si susseguirono ai Sex Pistols ci furono i Buzzcocks, The Damned e The Slits, e tutti contribuirono a sviluppare il punk rock come genere con vari temi po litici, dall’austerità all’uguaglianza, e alcu ni – tra cui i The Clash – raggiunsero un notevole successo. Proprio i The Clash fe cero delle tensioni razziali una delle loro bandiere di protesta, dopo che il cantante Joe Strummer fu testimone di episodi di violenza tra la polizia e alcuni partecipanti neri al Carnevale di Notting Hill nel 1976, sui quali scrisse la canzone White Riot. Quando gli anni ’70 cedettero il passo agli anni ‘80, il punk divenne ancora più dif fuso. Ma con l’avanzare del decennio, l’in flazione diminuì, l’economia migliorò e nuove – più volatili – band attirarono l’at tenzione delle giovani generazioni.
Meno minacciosi e audaci, i colori accesi, i tagli di capelli creativi, l’uso del trucco e altre manifestazioni più tranquille della moda musicale degli anni ’80 apparvero come naturale evoluzione del punk. Ma stilisticamente molte delle band che seguirono si posero in esagerato contrasto con i loro predecessori. Artisti influenzati dal movimento punk come i Duran Duran, gli Spandau Ballet, i Siouxsie, i Banshees e gli Adam and the Ants si guadagnaro no il soprannome di “peacock punks” (pa voni punk, N.d.T.). La rabbia si placò, le motivazioni divennero meno aggressive; le chitarre furono potenziate con nuove tecnologie, come i sintetizzatori, che an cora una volta portarono a canzoni che i punk della prima ora come i Sex Pistols avrebbero direttamente cestinato. Il punk come sottoscultura rimase, ma la musica popolare si evolse. La loro filosofia, tuttavia, non fece lo stes so, e da allora è periodicamente riemer sa, con movimenti come il gothic rock, il grunge e l’EMO, che mostrano molti de gli attributi anarchici che caratterizzaro no il punk. Alcuni degli album prodotti in quella prima ondata spesso compaiono nelle classifiche degli esperti tra i migliori album di tutti i tempi.
Una delle band identificate come una sorta di erede spirituale dei Sex Pistols è nata a Seattle nel 1987. Ma per il cantante del gruppo era la filosofia, non la musica, che accomunava le due band: “L’unico motivo per cui potrei essere d’accordo con chi ci chiama “i Sex Pi stols degli anni ‘90” è che, per entrambe la band, la musica è un’espressione mol to naturale, molto sincera”, disse Kurt Cobain, dei Nirvana. “Tutta la notorietà che hanno avuto i Sex Pistols era total mente meritata, hanno meritato tutto il successo che hanno avuto”.
La “filosofia” punk.
Il vero punk è, per i puristi e gli stori ci del rock, il Punk 77, che compren deva, come detto, gruppi britannici quali: Sex Pistols, Clash, The Dam ned, Buzzcocks, Vibrators ecc.; ma anche gruppi americani come: Ramo nes, Dead Boys, The Stooges e New York Dolls.
Il 1977 fu un anno fondamentale per la storia del punk, perché fu l’anno di uscita dell’unico album inciso dai Sex Pistols: “Never Mind the Bollocks, Here’s the Sex Pistols”. L’album conteneva quello che sarebbe poi diventato il vero e proprio inno del movimento punk: “Anarchy in the U.K”. (uscito come singolo nel novembre del 1976).
“Never Mind the Bollocks, Here’s the Sex Pistols”, non fu però il primo album punk della storia; questo pri mato va infatti attribuito ai Ramones, che uscirono con un album omoni mo, “Ramones” appunto, nel 1976.
L’ideologia del primo punk britanni co rispecchia pienamente il pensiero dei Sex Pistols, e cioè: l’anarchia, l’an ticristo, la distruzione di qualunque cosa assomigli anche lontanamente a una forma di società.
I veri seguaci del punk si differenziavano da tutto quello che era venuto prima di loro, compreso il rock and roll “classico”, che stava diventando un qualcosa solo per pochi, visto che i gruppi rock di quel periodo proponevano un rock basato sulla mu sicalità e sulla sola bravura musicale.
La differenza principale tra Punk e Rock è proprio questa: nel punk la tecnica e la bravura non erano più l’aspetto più importante; ciò che era invece fondamentale è la diffusione delle proprie idee e del proprio credo. Da tutto ciò nacque poi anche la “favoletta” messa in giro dai “nemici” del punk, e cioè che i gruppi punk “non sapevano suonare”; è vero che usavano solo tre accordi per sfogare la rabbia, ma era ciò che volevano, quindi… E’ vero anche che le canzoni punk solitamente non durano più di tre minuti, ma è anche vero che in quei tre minuti poteva succedere di tutto!
Lo slogan lanciato dai Sex Pistols (che divenne poi anche lo slogan di tutto il mo vimento punk era “No future”), una filosofia di vita che rifiuta in blocco il passato e nega, allo stesso tempo, la possibilità di un futuro, o meglio “Non se ne preoccupa”. Si può quindi dire che il movimento punk viva costantemente nel presente.
Un altro gruppo protagonista del punk britannico di quel periodo sono sicuramente i Clash. L’atteggiamento dei Clash è però abbastanza diverso da quello dei Sex Pi stols; infatti, i Clash, a differenza dei Sex Pistols, raccontarono sempre storie di vita quotidiana, di ordinaria disperazione. Facevano quindi, palesemente riferimento al Reggae.
Oggi...
Dall’inizio degli anni ’90, si è verificata una commercializzazione di alcuni gene ri, come il Pop Punk o Punk Revival, da non confondere con il vero punk; questo avvenimento ha portato alla formazione di una schiera di appassionati dei sotto generi più commerciali e orecchiabili del Punk, ma che non devono assolutamente essere scambiati per punks, poiché vesto no anche in modo differente e, talvolta, non ascoltano nemmeno la stessa musica. Essi vestono essenzialmente seguendo la moda dello Skater, e cioè:
T-shirt e giacche in tessuti techno e im permeabili; Bomber molto pronunciati; Spille da balia o pins; Jeans particolarmente usurati o stracciati e larghi, militari, o pantaloni a quadri con attaccati portachiavi in metallo; Grosse scarpe da ginnastica Skater, in al ternativa anfibi o le classiche “Converse All Star”; Felpe con scritte di tipo Murales; Piercing.
Il modo di vestire è indiscutibilmente caratterizzato dalla trasgressione dei canonici stili dell’eleganza e dell’appartenenza di classe. La mia personalissima opinione è che il punk si è evoluto, e che è sbagliatissimo ascoltare solo gli esponenti del Punk 77 (quello vero), ma che non si può nemmeno autodefinirsi punk solo perché si ascoltano le canzoni di gruppi moderni e commerciali, quali ad esem pio i Simple Plan o i Good Charlotte, ignorando la vera storia e le vere origini del Punk e di gruppi che ne hanno fatto la storia, quali ad esempio i Sex Pistols. Personalmente, poi, preferisco vestire seguendo i canoni del punk moderno, ascoltando però spesso e volentieri canzoni di gruppi come Ramones, e, appunto, Sex Pistols. Concludendo, mi chiedo come ci si può definire punk se poi non si conosce nemmeno quello che è indiscutibilmente diventato l’inno della ideologia e della cultura del movi mento punk, e cioè “Anarchy in the U.K.” dei Sex Pistols…
Il punk in Italia:
Il movimento punk si affacciò presto anche in Italia, già alla fine degli anni settanta si notava no i primi rari esponenti. Nei primi anni ottanta esso emerse con maggiore evidenza, soprattutto nel nord, e in particolare a Pordenone, Bologna, Milano, Pavia, Torino, Padova e Venezia.
Uno dei punti di riferimento del movimento punk italiano fu il centro sociale occupato Virus di Milano, attivo tra il 1982 e il 1985.Tra i maggio ri animatori del Virus c’era Marco Philopat, che poi raccontò in versione romanzata nel suo libro Costretti a sanguinare la storia e l’atmosfera del Virus.
Il genere si sviluppò in diverse frange: sotto un profilo non ideologico nascevano band che face vano del divertimento la loro filosofia. Dove le sonorità erano più orecchiabili e i testi spesso de menziali, o critici nei confronti della società, ma sempre con una vena ironica e implicita. Questo filone ebbe origine con gruppi come Skiantos, HitlerSS, Tampax, Kandeggina Gang, Mercenary God ecc. e fanzine-punkzine (giornaletti autopro dotti dai punk stessi) come Dudu, Xerox, Pogo, Punkreas, Leave Home, T.V.O.R. Teste Vuote Ossa Rotte, Attack punkzine ecc.
Parallelamente, il punk si sviluppava anche in Italia nella sua parte ideologica, anticommerciale e anticonformista. Una parte di questo, l’anarcho punk, era molto forte in Italia già nei primi 80. Anche lo straight edge cominciò a migrare in Ita lia in questo periodo. Secondo il filone “ideologi co”, sorsero quindi gruppi hardcore punk come Bloody Riot, Klaxon, Traumatic, Wretched e Na bat (questi ultimi diventati quasi subito Skinhe ad), tralasciando altre esperienze come quella dell’anarcho punk che hanno rivestito pur loro dei ruoli molto importanti, ma al di fuori dall’ot tica punk tradizionale. La scena Punk italiana di questi anni era fra le più ferventi al mondo. Gruppi come Total Chaos o i Negazione si ricor dano anche negli Stati Uniti per le loro tournée americane.
Un discorso a parte meritano i CCCP - Fedeli alla linea di Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni, che si definivano “emiliani e filosovietici”.
Un altro gruppo che influenzò una buona parte dei gruppi hardcore punk italiani fu rono i Nerorgasmo, tra le più radicali punk band italiane proponevano un hardcore punk cupissimo e nichilista, proprio in opposizione all’anarcho punk.
Il punk rock italiano “non ideologico”, diversamente dall’hardcore/anarcho punk, è molto in voga tra i giovani, ed è attivo con gruppi come Cattive Abitudini, Porno riviste e Derozer; anche se è spesso molto più indirizzato sulla melodia, toccando quindi gli stilemi del pop punk e non connotando alcun tipo di ideologia relativa al punk, se non alcuni leggeri accenni impliciti all’anticonformismo, il più delle volte indirizzato a sinistra.
La prima canzone definibile punk, in Italia, è stata “Mamma Dammi La Benza” dei Gaznevada, saliti su di un palco a Bologna nel settembre del ‘77 durante il Convegno sulla Repressione. Il primo disco punk italiano è l’EP HitlerSS/Tampax.