Maria Luce Bondì è nata a Palermo nel 1976. Dal ’96, dopo aver frequentato un corso di regia cinematografica e teatrale, si è dedicata alla sua prima passione, il cinema, dirigendo e interpretando cortometraggi selezionati e premiati in tutta Italia. Ha poi iniziato a collaborare con la Rai in qualità di montatore. I suoi racconti sono apparsi sulla rivista siciliana Margini, sulla romana Toilet 9, sulle raccolte “Il filo della dorsale” del Laboratorio Gutenberg, “Fili di Parole” e “Siculiana” della Giulio Perrone editore, su “Pazzità” della Navarra editore. Nessun peccato è il suo primo romanzo.
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Palermo, oggi. Gianni, trent’anni, insegnante privato e traduttore per una piccola casa editrice, in un piovoso giorno di marzo si ritrova unico depositario del segreto di Adele, la sua allieva di greco: un mistero, un piccolo miracolo che diverrà per lui l’ultima occasione per affrancarsi dall’affetto opprimente della sua famiglia e dimostrare a se stesso un inutile eroismo. Traditi da un medico e inseguiti lungo le strade della Sicilia da un giornalista fin troppo capace e dalla curiosità del suo pubblico invisibile, Gianni e Adele decidono che passare inosservati è forse l’unico modo per evitare che la società calpesti i prodigi, come un adulto distratto che passi su un castello di sabbia.
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frammenti. Marta
Ci sono cose che si fanno e altre no, ma per quale ragione? Avete mai tentato, voi, di violare qualche regola? E come è andata? Certi giorni io mi pianto lì, sulla soglia del cesso, come su un limite invalicabile ma già violato. Gianni tende la pelle della guancia cosparsa di schiuma e sembra la incida senza sentire dolore, con la bocca da una parte e nella mano una lama. Come in uno spot della tivù mi pare di spiare la sua rivelazione di virilità e mi appoggio allo stipite per sostenere le ginocchia incerte. Mi si dipinge sul viso una smorfia di desiderio che lui possa interpretare come sorriso e ricambiarmi, e Gianni la ricambia, con cauta dolcezza, non appena la coda dell’occhio mi scopre, infantile, a rapire l’immagine più intima che mi sia concessa di lui. La sua pelle bruna mi tenta. Tenta la mia fantasia, anche più veloce dell’età. È vero, cresco come cammina una lumaca, ma la mente no: la mente vola verso i ma e i perché, per niente soddisfatta delle regole. Uguali da sempre, da prima che io nascessi. Il rasoio annega in un mare di spuma da barba, gesto che le pupille scannerizzano, immortalano, passano al vaglio di un pensiero che una sorella non dovrebbe fare. Tra mezz’ora lui uscirà di casa: questa serata non la passerà con me. Guiderà, apparentemente calmo, nel traffico da ultimo dell’anno; un paio di bottiglie in una busta, da bravo ospite, e la sua mano governerà il volante, la posizione del cambio. Tranquillo, in apparenza. Ma dentro, io sola 9
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conosco quello che gli si agita dentro. Gianni si spreme le meningi a forza di pensare a quanto vorrebbe essere diverso. Anche stasera si tormenterà, mentre io, annoiata sul divano di qualche amico dei miei, eviterò persino – neppure vista – di brindare. Penserò al suo arrivo a casa di Francesco. Gianni col mento basso spinge il campanello, attende, tirando su col naso e sorridendo d’un tratto appena la porta si spalanca. Tormenta le ciocche nere sulla fronte, due frecce rotonde si affacciano sulle guance a illuminare il suo ingresso e lui inizia subito a parlare, perché questo ci si aspetta da lui, quasi che nessun altro possa sforzarsi di animare la serata. Bacia sulla guancia ognuno dei presenti, senza risparmiarsi; senza negarsi a nessuno fa il giro della stanza. Francesco raccoglie la sua giacca. Adele è già là e gli sorride da lontano per non essere dimenticata in quella ridistribuzione di ricchezza che un bacio di Gianni può rappresentare. Lui non se ne scorda, al contrario. Arrivato all’altezza della poltrona si piega sulle ginocchia e le sorride. «Come va?» dirà e riceverà in cambio un sorriso timido. «Ti sei riposata durante le vacanze? Hai studiato? Tra poco si ricomincia e ti metto sotto sul serio!» Ma Adele non lo teme, non Gianni, non lo scherzo che, anzi, serve a metterla a suo agio, a farglielo considerare un amico, più che altro. E poi toccherà agli altri. Massimiliano ad esempio, il quale già si è isolato per dedicarsi tutto alla collezione di dischi di Francesco, perfettamente diviso tra l’invidia per ciò che gli manca e l’esibizione delle proprie rarità. 10
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«Tu lo conosci questo, Gianni? A casa ho il primo vinile del gruppo, ancora incellofanato, mai ascoltato. Sto cercando di scaricarlo da internet adesso, per poterlo sentire». A volte, sempre più spesso, mi sembra che a quelle persone Gianni appartenga più che a me, più che a noi. È diventata quella la sua famiglia, l’allieva che gli pende dalle labbra e tenta di non deluderlo; il bel Francesco, da invidiare e prendere in giro per aver ceduto alle lusinghe di una convivenza; i compagni di sbronze che condividono la sua passione per gruppi di cui non ho mai sentito parlare. Per ultima Lia. Lia da sola, già bevuta, Lia pazza d’amore per il suo Francesco. Lia con le rughe attorno agli occhi. Sorride se Gianni le va accanto, se finge un inchino. «Mia Madonna, come state?» Che possiamo fare noi per riconquistarlo? Noi che lo osserviamo muoversi per la casa come uno straniero che vi sia rimasto troppo a lungo e non trovi la strada per lasciarla? È con il suo gruppo anche oggi, mentre ad un tot di chilometri, in attesa di crescere, ci sono io col mio terzo bicchiere di vodka e un abito scollato che mio padre tollera solo grazie alla ricorrenza da festeggiare. Sto pensando a Gianni, a quei pochi anni che ci separano e che a me sembrano infiniti: voglio sposarti – dicevo da piccola – mi sposerai, Marta – prometteva. E lo annotavo sul diario, per rammentarglielo un giorno, perché qualcosa mi faceva temere che sarebbe venuto meno a quell’impegno.
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il sogno
Sedette al tavolo pregustando nel vapore l’aroma del suo caffè d’orzo. Aveva i piedi nudi e così pure le braccia. Per un attimo, mentre assaporava il primo piacere della giornata, la vide, attraverso l’unico passaggio ricavato nella parete, oltrepassarne lo specchio e scivolare nella stanza da bagno. Sorrise, come tutte le mattine, di quell’incanto conquistato, suo oramai. Lia aveva il passo felpato di un soriano indipendente e capriccioso, le stesse abitudini immutabili che lui conosceva a memoria. Avrebbe udito il suo sbadiglio e lo sciabordio della pipì giungere dalla porta aperta, e poi lo scatto dell’accendino a inaugurare il giorno; riparata solo dalla canottiera lo avrebbe raggiunto in cucina e non gli avrebbe parlato prima che il caffè le fosse entrato in circolo. «Vuoi mangiare qualcosa?» glielo chiedeva ancora, perché adorava quell’impercettibile scattino del capo che valeva per no e la smorfia d’avvicinamento che stava per grazie. Già le sorrideva, violandone il silenzio e facendole arruffare il pelo, fino a quando Lia non si sottometteva al proprio bisogno di contatto biascicando un «C’è un posacenere?» e lui lo aveva già preparato, per spingerglielo vicino e ottenere finalmente uno sguardo. Francesco l’aveva rapita ad un altare improcrastinabile, alle nozze fissate da più un anno. Quella sera lui aspettava di incontrare Gianni e Massimiliano e sorseggiava la sua zero cinquanta rossa fissando la donna magrissima accanto a sé, convinto che non se ne fosse nemmeno accorta. La osservava da sopra il boccale, inebriato dalla sua 13
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esitazione nello sfilare una dietro l’altra le sigarette dal pacchetto, dalla rabbia con cui le accendeva, dalla sensualità che ci metteva nel consumarle. Era leggera Lia, bruna, magra e leggera, e pareva che nessun altro ne avesse notato la presenza. Lei, i gomiti poggiati sul bancone del pub, a un tratto lo aveva guardato, e senza ridere aveva detto a voce appena percepibile quello che tutti pensavano. «Certo che sei bello!» «Scusa?» «Beg you pardon?» lei lo canzonò rituffandosi nel Margarita, e suonò come un “hai capito bene!”. «Ho detto: certo che sei bello… ma non sai che fartene di tutta questa bellezza». Francesco allora aveva cercato il coraggio che lo caratterizzava, profondamente radicato in quei lineamenti da invidiare, e si era accorto che in un attimo lei ne aveva minato le fondamenta e che forse non ne sarebbe rimasta conquistata più di tanto. «Sono una donna quasi sposata, perciò è inutile che ci provi» aveva mormorato senza degnarlo d’uno sguardo. «Non stavo provando a fare niente». «E allora mi fissavi per che cosa?» «Il fumo ti è andato negli occhi» cambiò argomento lui «o è il succo di limone?». «No, piango,» si voltò a guardarlo e schiacciò l’ennesimo mozzicone nel piattino davanti a sé «non si può?». «Sì, certo, scusa. Vuoi che mi sposti?» Il modo in cui lei ostentava la propria fragilità lo faceva sentire goffo. «Ci mancherebbe, e perché? Prima mi guardi per mezz’ora e appena ti faccio un complimento scappi?» «Be’, complimento non lo so» era a disagio davvero, per una volta. «Mi hai detto che ho una bellezza inutile 14
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e mi hai intimato di stare alla larga ché sei quasi sposata. Poi ti metti a piangere: non direi che scappo!» «Smentiscimi,» aveva suggerito Lia, leccandosi il sale dalle dita da pianista «per che cosa lo usi il tuo bell’aspetto?». Francesco fece una pausa e poi affrontò i suoi occhi: «Per flirtare con le ragazze». «Ah» Lia fintamente ammirata aveva ripreso a bere. «Ma ora che mi hai detto questo non mi sento più tanto sicuro» aggiunse. Chissà perché, non gli andava di chiudere la chiacchierata. «Finiscila! Non mi dire che una frase buttata lì da una sconosciuta cambierà tutto il tuo stile di vita!» Anche Lia cominciava a cedere, stanca del proprio gioco, ansiosa di scambiare quell’attraccaggio da bar con una conversazione che la avvincesse. «Non tutto, ma, vedi, volevo corteggiarti e già non mi riesce più». «Quello è perché ti ho detto che sono sul punto di convolare. E poi perché non sono neppure una ragazza. Sono bella matura, sai?» «Tipo?» rise Francesco. «Questo non si chiede». «Non si provoca! Stai facendo tutto tu, non posso neppure sapere se ho a che fare con Matusalemme?» «Ho trentaquattro anni. Tu cosa avresti detto?» Lui respirò a fondo, poi «Che sei troppo magra,» cominciò lentamente «che ti chiami Ginevra e hai disegnato una chaise longue che ora è al Guggenheim. Avrei sbagliato?». Lia sorrise, e per una volta lo guardò con dolcezza: «No. Ma non è colpa mia se sono magra».
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*** Francesco ripose nel lavello la tazza – tutta dipinta dei finti mosaici alla Gaudì – che lei gli aveva portato quando era impegnato con gli esami e non aveva i soldi per un biglietto aereo. Sparecchiò prima di andarsi a vestire e filò mollemente nella giornata che li attendeva: Lia avrebbe raggiunto l’agenzia e si sarebbe chiusa in una stanza quasi tutta occupata dal tavolo da disegno; prima di iniziare avrebbe bevuto altro caffè e fumato ancora, leggendo le strisce del giorno precedente e pensando alle sensazioni della sua notte d’amore. E infine la china – a marcare ogni vignetta – per consegnare all’esterno la parte fanciullesca di tutto questo. Lui invece, la saracinesca da tirare su e gli scaffali da rassettare: minuscoli oggetti arrivati da tutto il mondo. A volte, se c’erano pochi clienti e l’archivio era curato, se non aveva da leggere o se solo gliene mancava la voglia, prendeva una delle matite del commercio equo, un foglio di carta riciclata e abbozzava il sorriso della sua musa, il dettaglio commovente del suo piedino che calzava una scarpa; o semplicemente il suo collo, l’ombelico. Dopo, come quel giorno, entrava Gianni per dargli una mano e magari lo scopriva. «Non c’era niente da fare» spiegò timidamente, appallottolando il foglio. «Non ti giustificare, offrimi un gelato piuttosto!» scherzò l’amico, divenendo in fretta il pretesto per una pausa dal lavoro. «Come no? José,» si rivolse all’altro commesso che metteva in ordine le confezioni di caffè «torno tra un minuto». L’aria di gennaio gli entrò nelle ossa. «Non ce l’hai una giacca seria?» 16
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«No, non serve, è qui dietro» fece Francesco, ma rabbrividì e sollevò il cappuccio della felpa, dirigendosi senza incertezze verso la gelateria. Dalla strada arrivava il suono dei clacson e il vociare della gente, ma il marciapiedi era semideserto, chiazzato qua e là dal passaggio di un cane o da cartacce affidate al vento. «Com’è?» chiese Gianni addossandosi al bancone, e si tuffò nella sua brioche paffuta, zeppa di pistacchio e cioccolato. «Calo delle vendite, speravo nei ritardatari dei regali di Natale, ma un cazzo! Ti devo raccontare una cosa». Francesco si scaldò ricordandosi di avere in serbo qualcosa per l’amico. «I denti, mi si sono gelati i denti!» Senza curarsi della lamentela, continuò «Ho fatto un sogno angosciante stanotte». «Se è angosciante non lo voglio sentire» bofonchiò Gianni e si strofinò con forza la guancia. «No, dài, ascoltami. C’era un unicorno…» «Un unicorno?» «Sì, un unicorno» spiegò Francesco e, iniziato il racconto, si dimenticò del suo cono. «C’è un unicorno bellissimo, in una specie di bosco. Sta brucando in mezzo all’erba, e a un certo punto sente qualcosa, un rumore, non so. Fatto sta che capisce di essere in pericolo e comincia a correre». «Ma è un unicorno tipo quelli dei cartoni animati?» «Perché, ci sono cartoni animati con gli unicorni?» «Sì, quando ero piccolo io c’era un cartone con un unicorno» disse Gianni: aveva finito il grosso della crema, stretto tra loro le due facce della brioche e cominciato a morderla come un panino. Ma ora seguiva la storia con assoluta attenzione. 17
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«No, comunque questo unicorno non ha i contorni tutti sfumati come quelli là. Questo è in carne e ossa» continuò «ed è in pericolo. Si mette a correre perché qualcuno lo sta inseguendo. Forse è l’uomo del circo o forse di uno zoo, non lo so, è uno che vuole prenderlo, vuole esporlo e diventare ricco. L’uomo gli sta dietro e lo bracca e la povera bestia corre, ma l’uomo sembra più veloce…» «Ma nel sogno sei tu l’unicorno?» «Non interrompere, Gianni!» sbuffò Francesco, richiamando lo sguardo dell’unico altro avventore del bar «Il povero animale corre in mezzo ai rovi, si ferisce, si graffia, sanguina, ma sente che quello sta per raggiungerlo. Insomma è fottuto! E comincia a dirsi “Pensa, pensa, pensa” e allora pensa». Francesco abbassò la voce e ripeté in un soffio «Ad un tratto l’unicorno pensa. Si infratta in mezzo ai cespugli e sceglie una pietra. E prende a colpirla, con forza, gemendo, finché il corno gli si stacca dalla fronte. Si piega sulle zampe, è esausto. I suoi occhi grandissimi piangono, ma sul muso ha una specie di sorriso perché se anche il suo inseguitore lo trovasse, non saprebbe più che farsene di lui». Tacque, con gli occhi rossi di sforzo. Poi Gianni parlò: «Si è staccato il corno?» chiese. «È bello, vero? Mi sono svegliato di scatto, come nei film. Credevo che nella realtà non potesse succedere e invece sì, ero sudato e spaventato come se fossi stato io a correre». «Allora vedi che eri tu l’unicorno?» «Ma no che non ero io, io ero tipo un occhio dall’alto, seguivo quello che succedeva e non potevo fare niente» spiegò Francesco. «Ti si è squagliato tutto il gelato». «Cazzo!» 18
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Gianni si mise a sghignazzare e non la finiva piĂš di sfotterlo, neppure quando furono tornati in negozio e si furono messi a lavorare. Ma quella sera non potĂŠ prendere sonno che a tarda notte: fissava sul tetto i riflessi di luce provenienti dalla strada e continuava a pensare al sogno di Francesco.
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Maria Luce Bondì è nata a Palermo nel 1976. Dal ’96, dopo aver frequentato un corso di regia cinematografica e teatrale, si è dedicata alla sua prima passione, il cinema, dirigendo e interpretando cortometraggi selezionati e premiati in tutta Italia. Ha poi iniziato a collaborare con la Rai in qualità di montatore. I suoi racconti sono apparsi sulla rivista siciliana Margini, sulla romana Toilet 9, sulle raccolte “Il filo della dorsale” del Laboratorio Gutenberg, “Fili di Parole” e “Siculiana” della Giulio Perrone editore, su “Pazzità” della Navarra editore. Nessun peccato è il suo primo romanzo.
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Palermo, oggi. Gianni, trent’anni, insegnante privato e traduttore per una piccola casa editrice, in un piovoso giorno di marzo si ritrova unico depositario del segreto di Adele, la sua allieva di greco: un mistero, un piccolo miracolo che diverrà per lui l’ultima occasione per affrancarsi dall’affetto opprimente della sua famiglia e dimostrare a se stesso un inutile eroismo. Traditi da un medico e inseguiti lungo le strade della Sicilia da un giornalista fin troppo capace e dalla curiosità del suo pubblico invisibile, Gianni e Adele decidono che passare inosservati è forse l’unico modo per evitare che la società calpesti i prodigi, come un adulto distratto che passi su un castello di sabbia.