Giuseppe Butera
La fine della paura romanzo
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Giuseppe Butera
La fine della paura romanzo
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La vita è l' arte dell' incontro. VINICIUS DE MORAES
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.1 IL PRIMO MONDO
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FRANÇOIS si svegliò nel letto di Lucienne, senza sapere che era lunedì, che alle sette doveva già essere cominciata la sua lezione di Anatomia e persino il semplice fatto di essere una matricola di medicina e di chiamarsi François de La Roche. — Chi sei? — chiese a Lucienne, convinto di starsi a guardare allo specchio. Aveva conosciuto la ragazza in metropolitana, la sera prima, senza ancora la mente annebbiata dal fumo dell’hashish e dalla dose abbondante del prezioso Bourgogne offerto dalla giovane, appena entrato nella sua stanza. — Sono Lucienne, non ti ricordi? —- rispose la ragazza, con una voce che rimbalzava tra i suoi neuroni come una pallina da flipper fino ad accomodarsi nella morbidezza accogliente della stessa sacca crepuscolare che l’aveva emanata. — Ah, sì — sospirò lo studente, e borbottava altre parole e frasi sconnesse, ripiombando immediatamente in quella melma onirica decantata di qualsiasi sogno o ricordo. — Sveglia, François! Parbleu! — gli gridò all'orecchio l'altra. — I miei genitori stanno arrivando. Vai via o sono perduta. Lo trascinò sull'orlo del letto e fu allora che l'automa riuscì finalmente ad alzarsi, svelando così tutta la sua splendida nudità diciottenne, molto ben nutrita da formaggi, latte, uova, polli, salsicce, prosciutti, olive, olio d'oliva, vino... Tutto naturale, prodotto nella sua tenuta Allons-enfants dei De la Roche, a Aix-enProvence. Lucienne fu costretta a placare la sua incontenibile fretta, per contemplare, per lunghi istanti, quell'animale maestoso, senza veli né marre, che si risvegliava dagli amori recenti. I muscoli del collo formavano un vero pilastro di sostegno a un cranio perfettamente modellato e avvolto dalla voluminosa chioma biondic-
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cia, sciolta in una cascata casuale sulle spianate simmetriche delle larghe spalle. Gli occhi, di un blu pungente che insisteva a diventare grigio a ogni ondulare della tendina di pizzo provenzale. Il naso e la bocca, copiati dalla copertina del suo libro di storia d'arte greca che riproduceva, a corpo intero, la statua d'Apollo di Prassitele. Se fosse riuscito a vedere la propria immagine riflessa negli occhi frettolosi della compagna, l'apprendista stregone avrebbe potuto verificare tutte le sue nozioni di miologia, riconoscendo, uno a uno, i gruppi muscolari del suo corpo, modellando le fasce aponevrotiche e l’epidermide intatta da dentro a fuori e plasmandogli attorno la campana di aria climatizzata della casa-dibambola della ragazza. Lucienne era figlia di monsieur Jean Blanchard, un tranquillo funzionario del Bureau de Rente. Con sua moglie Clarisse e il figlio dodicenne Antoine si era concesso un raro week-end in campagna, a casa di parenti di Fontainebleau. Aveva lasciato Lucienne da sola, dopo molte esitazioni, perché altrimenti sarebbe arrivata in ritardo alla lezione di pittura barocca del lunedì successivo, alla scuola di belle arti Cosette d’Artimagnac. E, in ogni caso, c’era sempre la cugina Mariette con cui passare la notte e che per giunta aiutava a custodire la casa. Lucienne aveva avuto molti ragazzi, fin dai quattordici anni. Ma non era mai andata oltre alcune carezze, sempre con coetanei e, con i più spinti, aveva persino arrischiato qualche bacio sulla bocca. Era ancora molto timida e conservava gelosamente i suoi segreti in un diario iniziato il giorno della sua prima comunione, in un linguaggio volutamente ermetico, allo scopo di confondere eventuali curiosi. Gli argomenti si andavano adeguando allo sviluppo delle situazioni e dei mutamenti nella sua personalità adolescente, riflettendo tutte le sfumature di una vita sentimentale in piena effervescenza. 10
Le pareti della sua cameretta riassumevano i gusti e le preferenze degli ultimi anni. La bambola Froufrou, che aveva ricevuto in regalo nel giorno del suo nono compleanno, era ancora molto attraente e vistosa. C'era ancora il poster con la sua foto a dodici anni, al centro della parete, fra quelli dei Beatles e dei Rolling Stones, che si era comperati in occasione dei rispettivi show dell'anno prima al Bois de Boulogne. C’era andata insieme a dei compagni di scuola e si era esaltata, aveva pianto ed era persino svenuta per le stravaganze di quei gruppi di mocciosi di talento che destavano tanta passione, aggrovigliando la lingua barbarica sotto una tempesta di migliaia di megawatt. Proiettato in quello sfondo di simboli, souvenir e idoli di carta, François brillava ora come un’allegoria di tutti i suoi valori e sogni giovanili. E proprio adesso avrebbe dovuto disfarsi, ancorché a malincuore e al più presto possibile, di tutto quel concentrato di bellezza e di energia che gli aveva fatto provare un piacere sconosciuto nella gioia più intensa. Un bagno di schiuma restituì la memoria e i movimenti a quel morbido robot, che le mani della fata premurosa si attardavano a carezzare, scivolando, ancora un po’ sulla pellicola di sapone profumato, nonostante l’urgenza inesorabile. Fu allora che la fretta contagiò finalmente quel dio scomodo, al quale bastarono solo tre minuti, non di più, per una fulminea uscita di scena, ancor prima di preoccuparsi di identificare definitivamente la compagna. Lucienne rimase con l’espressione di una visionaria alla fine di una rivelazione soprannaturale e a malapena riuscì a tornare in sé per terminare di riordinare, pulire e liberare la casa da ogni traccia della visita inaspettata e sedersi infine, alcuni istanti, a registrare qualcosa delle innumerevoli sensazioni che avevano composto l'evento. 11
"Oggi ho capito il vero senso della parola abisso. Non è tanto profondo come l’immensità della voragine che sottende. É però più concreto di tanti altri nomi di cose che esistono soltanto nella testa della gente: amore, patria, libertà... François è solo un nomignolo." Suonarono alla porta e lei non aveva neppure sentito il rumore della macchina in arrivo o le voci festose di bambini o di adulti di ritorno da un viaggio. Preparò comunque il sorriso più allegro di cui fosse capace per ricevere i suoi genitori e il fratellino. Dietro la porta c'erano invece due agenti con la divisa della Sûreté. — Mademoiselle Blanchard? Siamo della Pubblica Sicurezza. Lei conosce un certo François De la Roche? — (François è un nomignolo) — pensò la ragazza. — Chi è François De la Roche? — domandò ingenua, invece di rispondere. Lo sguardo cortese, ma severo, del gendarme respinse con fermezza la malcelata ironia della giovane. — Non so se lo conosco — rispose, alla fine. — (Ma sono sicura che lui neanche sa chi sono io) — concluse, solo per se stessa. François era ricercato perché era stato tra i contestatori che avevano inscenato una manifestazione ai Champs-Élysées alcuni giorni prima. Il suo volto era stato ripreso in super-8 da un cineamatore, il quale aveva venduto la pellicola alla polizia e adesso tutti quanti i capi della rivolta studentesca venivano sottoposti ad una inchiesta. È vero che lui aveva collaborato alla preparazione di qualche striscione, dietro invito del coordinatore di cultura del centro universitario, insieme al gruppetto di compagni del primo anno, ma ancora non poteva avere neanche la più pallida idea di tutte 12
le istanze e meno ancora della portata di quei primi scioperi studenteschi che avrebbero finito per scatenare un vero e proprio movimento culturale di grandi conseguenze per tutta la civiltà occidentale. — Non possiamo continuare a tollerare questo sistema feudale che si trascina dalla fondazione della Sorbona. Abbiamo le tasche piene della prepotenza dei baroni che lottizzano le cattedre, i curricula, le biblioteche, i tirocini, i laboratori. Tutto sotto il potere di vita e di morte di quei figuroni scansafatiche che promuovono soltanto i loro leccapiedi e i figli di papà — spiegava con tono professorale Alfred Carel, il quale tentava per la quinta volta l’esame di clinica chirurgica con il professor Latarjet Jr. François era rimasto ad ascoltare in silenzio tutti gli interventi dei principianti e dei veterani, che si esercitavano a ripetere i ritornelli più stropicciati e anche le idee più deliranti, come se si trattasse delle scoperte più originali e recenti. — Io penso che dovremmo proclamare l’avvento dell’anarchia come unico sistema di governo consono alla repubblica francese — aveva sparato a zero Léonard Rubin, che cominciava il terzo anno e non era ancora riuscito a far pratica in una sola infermeria di un qualsiasi ospedale. — Secondo me — disse Jean-Luc Camdessus, che frequentava la stessa mensa universitaria e alloggiava alla casa dello studente provenzale di François, — dovremmo farla finita con i preti e le monache, e vedrete se non rimettiamo in piedi questo paese una buona volta. — Neppure sapeva che stava semplicemente ripetendo una delle tesi meglio sedimentate degli ultimi duecento anni di enciclopedismo. François pensò a suo padre, a cui sarebbe venuta la pelle d'oca nell’ascoltare tante stupidaggini e soprattutto nel vedere suo figlio in una riunione come quelle. La sua famiglia era una delle 13
più tradizionali della regione e i suoi genitori si distinguevano in tutte le manifestazioni religiose o civiche che esigessero una dimostrazione del più incondizionato nazionalismo. Però in François era prevalsa la voglia di partecipare. Indossò il camice e si recò alla piazza della Camera dei Deputati, il giorno stabilito. Si radunò presto una folla che occupò tutti i dintorni, fino in fondo alla piazza Des Invalides. Lo scenario della piazza si trasformò in un'unica macchia bianca surreale, a eccezione delle migliaia di testoline che pullulavano al di sopra dei camici, della neve recente, sullo sfondo dei marmi antichi delle facciate neoclassiche. Slogan e canzoni attraversavano la spianata da un capo all'altro, mentre un gruppo di maoisti ripeteva fino allo stremo le parole del maestro, come avrebbero fatto i loro colleghi dagli occhi a mandorla sulla piazza Tian-an-men di Pechino. I libretti rossi che agitavano erano le uniche gocce di colore e di movimento, oltre i caratteri degli striscioni e dei cartelloni che punteggiavano quella mappa delle varie tendenze politiche, e il grande tricolore che ritagliava un pezzetto del cielo cinereo sulla vetta della cupola del Parlamento. Poco dopo la macchia cominciò a fluire in un immenso torrente bianco-sporco che incrociò la Senna e sfociò ben presto in piazza De la Concorde, svoltando subito dopo per i Champs Élysées. La folla raggiunse rapidamente l´Arc-de-Triomphe, come una freccia incendiaria o l’ogiva di un razzo entrando nell’atmosfera di ritorno dallo spazio. Li aspettava però una vera e propria barriera di poliziotti armati di manganelli e protetti da elmetti e scudi di plastica trasparente. Per quanto possa sembrare incredibile, non ci furono scontri, ma immediatamente i camici bianchi si sparpagliarono per tutta l’estensione della Place de l'Étoile
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e vi rimasero per ore e ore, seduti a gridare i loro slogan e ad agitare i loro striscioni e cartelli. Mentre al megafono si succedevano i vari difensori improvvisati della riforma universitaria, François ebbe tutto il tempo di riflettere su se stesso, sul suo futuro e sul suo passato. A dire il vero, sapeva molto bene che non gli piaceva gran che la politica e neanche la medicina, bensì l’arte e la letteratura. Aveva dovuto invece assecondare il volere di suo padre, il quale, come tutti a casa sua, sognava d’avere un docteur in famiglia. E non aveva potuto fare la benché minima obiezione, poiché il suo impegno per gli esami di baccalauréat era stato brillante sotto tutti gli aspetti. I membri della commissione di materie scientifiche erano rimasti sbalorditi tanto quanto quelli delle materie umanistiche. Era, senza nessun dubbio, un individuo notevole, che avrebbe potuto emergere in qualsiasi campo di attività professionale. Ciò che l’aveva reso più fiero, però, era stato l’esame di greco, quando poté sfoggiare la sua padronanza dei classici senza bisogno di aprire un libro. Lasciò l’esaminatore a bocca aperta quando cominciò a recitare in lingua originale, interpretando il prologo dell’Alcesti di Euripide e brani del coro che il professore si era divertito a citare a caso. Il giovane recitò impeccabilmente il testo, diede la versione in francese, coniugò i verbi, districò i complicati nessi sintattici e persino gli artifici della metrica ionica. Per lui non fu poi tanto difficile, perché aveva già affrontato simile impresa durante le lezioni di greco, in un recital che lui stesso aveva organizzato con il suo gruppo. Sentì fremere le ragazze nel vederlo entrare in scena nei panni succinti di un giovane Apollo che tornava alla casa del re Admeto per consolarlo, poiché sua moglie Alcesti sarebbe dovuta mo-
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rire al suo posto, vittima della vendetta degli dei e del suo stesso amore per il marito. Ὦ δώματ᾿ Ἀδμήτει᾿, ἐν οἷς ἔτλην ἐγὼ θῆσσαν τράπεζαν αἰνέσαι, θεός περ ὤν.
...O case di Admeto, ove fui costretto a servil mensa, pur essendo un dio... La rappresentazione aveva avuto un successo strepitoso e le ragazze l’avevano coperto di mille elogi, come pure fecero i professori, ma lui se l’era squagliata immediatamente per andar a far festa nel letto di Rosemarie, con cui aveva fatto per molto tempo le prove e che aveva appena finito di interpretare una deliziosa Alcesti. — O sole, o luce del giorno, o nuvole erranti pel cielo... — esordì la Rosemarie-Alcesti, mentre François le andava sbottonando la camicetta. — Il sole vede te e me, che soffriamo orribilmente — le sussurrava all'orecchio l’Apollo, che adesso stava impersonando lo sposo Admeto, — eppure non abbiamo recato agli dei offesa alcuna per cui tu abbia meritato la morte. — O terra natia, o casa paterna, dove c'era la mia camera virginale, a Iolco! — La ragazza era di già sotto le coperte, con il dio-sposo completamente nudo al suo fianco. — Fatti animo, o misera! Non abbandonarmi — mugugnava François ad occhi chiusi, non tanto per ricordarsi la parte, quanto per sentire fino all’ultimo il contatto magico con quella pesca vellutata che scivolava piacevolmente sotto il suo corpo. — Prega gli dei potenti di aver pietà di noi.
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— Lasciatemi, lasciatemi; deponetemi al suolo, poiché non posso più reggermi in piedi — gridava adesso un’Alcesti forsennata, mentre Admeto perdeva anche lui il nesso tra il dramma e l'apoteosi, tra la felicità e la morte. — L’Ade s’avvicina e le tenebre mi coprono gli occhi. Figli, figli miei, la mamma non c’è più. Vivete felici. Addio...
Una scaramuccia aveva luogo in quel momento, lì vicino. Un gruppetto di neo-fascisti gridava una serie d’improperi contro gli esaltati del libretto rosso. Immediatamente cominciò la rissa e la polizia ne approfittò per avanzare e mettersi a percuotere a casaccio e a sparare i suoi petardi di gas lacrimogeno. Allora sì che divenne un vero campo di battaglia davvero. François riuscì a svignarsela, senza sapere come, fra l’ala dei neri e quella dei rossi, poco prima che uno sciame di divise bleu-nuit si riversasse sull'aiuola che l’aveva lasciato pensare in pace ai fatti suoi, fino allora.
Quando entrò nella metropolitana, di ritorno da casa Blanchard, ai Sablons, François già sapeva che aveva perduto la lezione sulla vascolarizzazione dell’encefalo e che avrebbe dovuto raddoppiare lo sforzo e il tempo dedicati allo studio dell’argomento, per evitare sorprese dopo. Ma non resistette al suo hobby preferito. Per ciò, invece di prendere la coincidenza per la città universitaria, si fermò alla stazione del Louvre ed entrò direttamente nel museo.
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Pensò a Lucienne, soltanto quando si trovò nella sala dei grandi quadri dell’epoca napoleonica a contemplare il pannello dell'incoronazione dell'imperatore. C’era là il giovane Bonaparte, dalla statura maggiorata grazie alla visione cortigiana dell’artista, mentre il papa malaticcio e contrariato inghiottiva il disappunto, alla ricerca di possibili casistiche che potessero giustificare il comportamento inedito del nuovo padrone del mondo. La novella consacrata Joséphine, con quel suo atteggiamento composto da imperatrice-per-caso, cedette il posto al viso ugualmente enigmatico di Lucienne, al momento del suo risveglio di poche ore prima. Ciò che François trovò più strano di tutto fu il fatto di scoprirsi, là nel bel mezzo dei potentati di corte, indossando una divisa sproporzionata, che conferiva un pizzico d’umore in più alle sue divagazioni. Vide pure Rosemarie, con quell'aria da monaca rilassata, Marie Ménuet, la sua prima innamoratina ad Aix, e Stéphanie Lacan, la cameriera che gli aveva svelato i primi segreti del sesso, tutte quante con i loro vestiti di broccato e di lino, a pigiarsi nel gruppo delle matrone di inizio Ottocento. Vide Leonard, Jean-Luc, Alfred, in divisa di gala fra i cadetti della truppa di scorta. Antoine Rouanet, uno dei suoi vecchi compagni di scuola, ancora ragazzino che fungeva da paggio al servizio della professoressa Marguerite, elegantissima nel suo vestito di seta ricamata con fili d’oro. Fra il clero, la sua immaginazione a briglie sciolte aveva messo vari amici di suo padre, Monsieur Philippe Pantin, il macellaio, il panettiere Paul Riquet, il calzolaio Jacques Bonsergent insieme ai suoi vicini di stanza, Louis Laumière, Michel Charenton, Richard Lachaise e Fabien Goncourt. Era una folla che andava aumentando progressivamente riempiendo la navata di Nôtre-Dame e trasformandola in una Place de l’Étoile in più, 18
mentre echeggiava una musica d’organo e di canto gregoriano frammischiati al vocìo delle guardie rosse e dei vari gruppi di manifestanti di alcuni giorni prima. Sentiva gli scoppi delle bombe a gas lacrimogeno, le grida dei percossi, gli zoccoli dei cavalli che battevano sull'asfalto e qualcuno che ripeteva il suo nome a bassa voce: — François De la Roche. François. Era una signora anziana, che sembrava star parlando da sola, mentre, seduta al suo fianco nella sedia sotto la finestra e compenetrata lei pure ad osservare il dipinto, ripeteva all'infinito il nome del giovane e un avviso: — C’è un amico di Ramses II che t’aspetta da basso. François s'alzò immediatamente e la moltitudine del quadro si mise a spingerlo in giù, verso il luogo dove sarebbe dovuto avvenire l’incontro assegnatogli da estranei, al quale sentiva che sarebbe stato meglio sottrarsi. Scese lentamente la scalinata barocca, come se stesse cercando la prima scappatoia per andarsene lontano, anche se per ciò avesse dovuto rintanarsi nel laboratorio d'anatomia, ad annusare formalina e a districare arterie in pezzi di coscia di cadavere. Se ne andò invece dritto dritto verso l’immenso scantinato che ospitava il settore di egittologia e assomigliava piuttosto a un cimitero di faraoni. C’erano sarcofagi a non finire. Di tutte le misure. Alcuni aperti, che mettevano in mostra mummie anonime, completamente ricoperte dalle loro bende e sfilacciate vestimenta mortuarie o svelavano parte del volto raggrinzito o la punta dei piedi antichi. Non c’era altro che morti, nel sotterraneo del Louvre. Ramses II lo stava davvero aspettando da molto tempo, nell’angolino assegnatogli dagli archeologi di Napoleone dopo le furie cleptomani della campagna d’Egitto e messo in discreta evidenza dagli addetti alle luci di De Gaulle. 19
Sotto lo sguardo dorato del faraone c’era un uomo immerso in un cono d’ombra e immobile come una mummia in più, eccetto il fatto ch’era seduto su una sedia a rotelle ed esibiva un faccione ben nutrito al di sopra di un vestito impeccabile che occultava il corpo obeso insieme alle gambe inutili. — Ho un incarico da affidarti — disse questi, con una voce d’oltretomba. — Chi sei? — domandò tremando François. — Puoi chiamarmi Ramses. Ma non avrai mai bisogno di farlo. Ci saranno altri a dirti, giorno dopo giorno, che cosa fare. Tu dovrai soltanto obbedire. — La voce dell’handicappato suonava come un’imposizione, nonostante non ci fosse ragione perché François si sentisse in obbligo. — Perché dovrei obbedire agli ordini di chicchessia? — La polizia ti sta alle calcagna. — François impallidì, ma il Ramses paraplegico neanche lo stava guardando in faccia e proseguiva con la sua voce monocorde: — In questo momento, ti stanno cercando alla casa dello studente. Il tuo primo compito consisterà nel lasciar che le cose facciano il loro corso. In prigione qualcuno ti dirà il da farsi. Non ti preoccupare. Ci sarà pure chi baderà a farti prosciogliere. Segui le istruzioni e tutto andrà per il meglio. — Certo che sono preoccupato — riuscì a ribattere il giovane con quel filo di fermezza che ancora gli restava. — Sono soltanto uno studente in medicina. Non voglio mettermi a far cose che non so. — Sappiamo tutto di te. Conosciamo le tue qualità e i tuoi punti deboli. Se ti rifiuti, la tua scheda completa finirà nelle mani della Sûreté e metterai in una brutta situazione anche Lucienne, Rosemarie, Stéphanie, Emmanuelle, Lorette... La sedia a rotelle si mosse, con un ronzio d’ape sperduta e lasciò il nuovo adepto davanti alla mummia, immobilizzato dal 20
terrore per lo sconosciuto, più che per la paura della morte, e sconvolto dalle indefinite minacce che scuotevano la sua spina dorsale con brividi più intensi di quelli prodotti dal macabro ambiente. Lo portarono in prigione senza contestazioni non appena ebbe messo piede alla casa dello studente. I compagni rimasero tutti sull’entrata e sarebbe bastato un segno da parte di François per scatenare uno scontro con i gendarmi. Ma sapevano benissimo che la polizia stava arrestando molti studenti semplicemente allo scopo di sottoporli a interrogatorio e rilasciarli subito dopo. Inoltre l’atteggiamento tranquillo di François aveva suscitato più un frisson d’ammirazione che velleità bellicose, soprattutto fra i colleghi provenzali. Dovette rimanere in una cella strapiena di carcerati di tutti i tipi: l’aria era carica dell’odore di quell’estratto di scorie dei sottofondi parigini. Dovette stare due ore in piedi, a fianco di un gigante barbuto che, ogni cinque minuti, sprigionava un’eruttazione rumorosa con la stessa libertà di un naufrago su di un isolotto deserto. Per un istante François pensò persino all’ipotesi che un medico pazzotico avesse prescritto all’energumeno quella emissione periodica di gas, come misura di sicurezza per alleggerirlo dai cattivi pensieri propiziati da quell’ambiente deprimente. L’idea spiritosa fornì a lui pure l’occasione di dare certo sfogo alla profonda frustrazione che l’aveva sommerso. Seduto in un angolo c’era un uomo di mezza età, che doveva essere stato arrestato anche lui da poco. Se ne stava infatti tutto imbacuccato nel suo cappotto alla Humphrey Bogart e con in capo un cappello a larghe falde, tanto da sembrare appena uscito dalla sequenza finale di “Casablanca”. Il volto lungo, segnato da solchi profondi e gli occhi sbarrati, con cui lo fissava silenziosa-
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mente, gli conferivano un’espressione dolorosa, soprattutto quando tentava di abbozzare un sorriso. Mentre gli altri continuavano a chiacchierare o a pensare a se stessi, lo strano personaggio cominciò all’improvviso a recitare una poesia di Jules Laforgue, “Riguer à nulle autre pareilles”, che François riconobbe immediatamente, perché l’aveva dovuta imparare a memoria quando faceva la terza media. Dans un album, Mourait fossil Um géranium Cueuillit aux Îles. É un’interpretazione fantasiosa di ciò che avrebbe detto una statuetta d’avorio, raffigurante un trovatore, a un geranio raccolto nelle colonie, morente fossilizzato in un album. Un fin jongleur En vieil ivoire Rallait la fleur Et ses histoires. Il trovatore, nell’immaginazione del poeta simbolista, starebbe irridendo il fiore che si vantava di aver molte storie da raccontare. Il fiore gli chiede un po’ di requie, mentre il trovatore crudele gli augura invece un’eterna inquietudine. — “Un réquiem!” Demandait-elle. — “Vous n’aurez rien, Mademoiselle!...” 22
De quatre en quatre, Les premières six. Quarante quatre, Mieux qu’obéisses. Alle dieci giunse l’ordine di uscire per il bain-de-soleil. Era la ricreazione imposta ai carcerati, nel grande cortile della prigione. François si mise in fila con quei compagni sconosciuti e incominciò a ripetere lui pure, mentalmente, la poesia di Laforgue che l’improvvisato dicitore aveva appena finito di recitare. — De quatre en quatre, les premières six — si mise a riflettere. — Che significa? Questa frase non c’è nella poesia. — Sorrise ricordando la maniera con cui lo aveva guardato quello strano tipo: aveva la faccia di un cobra, pronto ad accecarlo. — Di quattro in quattro, le prime sei — ripeteva. — Quattro che cosa? E il resto della frase? A un certo punto, prese a contare le lettere dei primi versi e si rese conto che il “cobra” voleva trasmettergli un messaggio, la cui chiave si trovava in quella frase apparentemente senza senso. E il destinatario era proprio lui. Le lettere formavano la parola d.u.b.o.i.s. e quaranta quattro doveva essere il numero della via, sicuramente vicino al Bois de Boulogne, dove avrebbe dovuto incontrare qualcuno o qualcosa. Ed era meglio che obbedisse, minacciava per giunta la strana poesia. Tornò in cella demoralizzato e frastornato come un vero e proprio galeotto. Aveva perduto il controllo della propria vita. Si sentiva invischiato in una improvvisa trappola e il senso di colpa che cominciava a impadronirsi di lui gli impediva persino di attribuire la responsabilità ad altri.
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L’abitudine all’hashish, innocua all’inizio, aveva avuto il sopravvento sulla sua capacità di volere, diventando presto una necessità imprescindibile per calmare le sue ansie e per fornirgli una costante sensazione di fiducia in sé. E la stessa attrattiva per la caccia alle belle donne, che aveva costituito un motivo d’orgoglio uguale o maggiore di quello dei suoi successi scolastici, si trasformava adesso in un motivo di disappunto e di rimorso. Passò il resto del tempo in prigione a rimuginare sulla sua rivolta silenziosa contro l’ingiustizia che gli stavano infliggendo, privandolo persino della capacità di difendersi. Tuttavia ebbe chiara la dimensione della voragine in cui era caduto soltanto quando il direttore del carcere lo chiamò per sottoporlo a interrogatorio. — François De la Roche, perché ti sei andato a mettere con quei fannulloni arruffapopoli? Non avevi di meglio da fare? Tu, uno studente sempre così brillante e giudizioso — incominciò con tono paterno il signor Laparrette, mentre sfogliava uno scartafaccio che doveva essere la sua pratica personale. Fu una predica come si deve, con tutti gli ingredienti dell’ammonimento, della seduzione e persino della più sfacciata intimidazione. — Perché mai, a un tratto, tutti sembrano così interessati ai fatti miei? Chissà se qualcuno non si è dato la pena di pubblicare persino la relazione giornaliera dei miei pensieri? — pensò il giovane. — Che succede a tutta questa gente? — reagì infine con mal dissimulata calma. — I tuoi genitori rimarranno sicuramente delusi, nel venire a conoscenza di questo tuo atteggiamento — rincarava la dose il vecchio tignoso. — Sono persone disciplinate e patriottiche. Non potrebbero neanche immaginare che il loro figlio, così intel-
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ligente e studioso, se la sarebbe andata a fare con quei fetenti nemici della patria. — Vecchia canaglia — grugniva a bassa voce il giovane, guardando sottecchi quel verme pallido e sconcertante. — Mi getterebbe in faccia persino sua madre. — Cos’è la patria? — continuò a contestare in silenzio, con gli occhi che sprigionavano faville di rivolta e di disprezzo. — É questo fior fiore di rifiuti umani che sono riusciti a riunire in un solo posto? O quelle mummie rubate da cimiteri stranieri? O chissà quei trafficanti di merde, a cui non importa un bel niente se è francese o giamaicano o turco colui che creperà nel consumare le loro merci del diavolo? Chiaro che mi piacerebbe credere, come mio padre, in una terra ricca di cultura, di arte, di beni e di potere, perché no? E invece guarda un po’ che bella roba mi stanno offrendo! La vecchia canaglia aveva continuato la sua reprimenda terminando alla fine, con il proscioglimento del giovane. — Grazie alla tua parentela e a certi amici che ti trovi intorno, mi vedo obbligato a lasciarti in libertà anche perché sei un reo primario. Ma bada bene, però, che potresti ritornare da un momento all’altro e allora verresti trattato con tutto il rigore della legge. — Crepa! — pensò François. E se ne uscì da quella bolgia pensando ai begli amici che si era procurato. Nella “Casa dello Studente” l’accolsero come un eroe, ma cercò di smorzare l’entusiasmo dei colleghi con la scusa dello studio in più che l’aspettava per il recupero del tempo perduto. — Chi te l’ha detto che ci saranno esami quest’anno? — anticipò Jean-Luc. — É tutto fermo e nessuno è in grado di scommettere niente quanto alla ripresa delle lezioni.
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Giovedì, 21 marzo 1968. Oggi comincia la primavera, ma ancora fa molto freddo a Parigi. Le burrasche di neve sembra che non finiscano mai. Ed io che debbo uscire tutte le mattine alle sette per prendere la metropolitana, fino alla stazione di Montmartre ed affrontare un’équipe di professori, uno più seccante dell’altro. Ma devo ammettere che mi incantano le loro materie. Perché mai i professori migliori devono essere sempre i più insopportabili? L’arte dovrebbe render le persone più comprensive e serene. E invece diventano tutti nevrotici e truculenti, come se il talento che hanno ricevuto dalla natura arrogasse loro il diritto di imporsi agli studenti con male maniere. Venerdì, 22 marzo 1968. Son già passati quindici giorni da quando la Sûreté ha bussato alla mia porta. I miei genitori sembra che si siano un po’ dimenticati il pandemonio che il commissaire Targut aveva montato sull’episodio. I miei colleghi dicono che i liceali si stanno mobilitando pure loro a favore di una riforma dell’insegnamento universitario. Alla fin fine saremo noi le vittime dell’immobilismo secolare che ci sta facendo perdere terreno di fronte ai paesi più arretrati. Mia madre è molto apprensiva perché ha sentito anche lei certe voci e mio padre sembra sempre sul punto di esplodere, a causa dell’incertezza che io possa terminare l’anno scolastico. Ed ha pienamente ragione, poiché mi toccherebbe in ogni caso rimandare i miei esami di baccalauréat. Sabato, 23 marzo l968. Sono al settimo cielo. Jeannette mi ha dato notizie dell’Abisso. Mi ha rattristato un po’ il fatto che, a quanto pare,
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l’abbiano trattenuto alcuni giorni al commissariato dell’Île-dela-Cité, ma lo hanno prosciolto senza ulteriori complicazioni. Non vedo l’ora di incontrarlo. Chissà se si ricorda ancora di me? Come sarebbe bello se si fosse davvero invaghito. Io sarei la ragazza più felice del mondo. Qualcuno l’ha visto nei paraggi. Forse stava cercando di rintracciare casa mia non ricordandosi più l’indirizzo esatto?
François aveva perduto un pomeriggio alla ricerca del numero 44 di via du Bois. Per questo aveva percorso tutto il quartiere dei Sablons, ma aveva evitato di proposito di passare davanti a casa Blanchard, per non correre il rischio di vedere Lucienne, di cui adesso si ricordava fin troppo bene. Jeannette, vicina di casa e compagna di scuola di Lucienne, era insieme con lei sulla metropolitana, quando costei conobbe François. Ed era stata proprio lei a telefonare alla cugina di Lucienne, Mariette, che non ci sarebbe stato bisogno di venire a casa sua, poiché sarebbero rimaste insieme a studiare tutta la notte. Questa versione delle cose, inventata lì per lì dalla sua amica e complice, aveva risparmiato la ragazza da ulteriori disagi quando l’ispettore Targut aveva voluto approfondire la relazione di Lucienne con François. Era stata anzi la stessa Jeannette che aveva tranquillizzato il signor Blanchard, giurando che François era solo che un vecchio compagno di scuola, senza altre implicazioni con i fatti che avevano giustificato le indagini della polizia. Quando già aveva desistito, sull’imbrunire, François era ancora in piazza L’Atre de Tassigny, proprio davanti ad una delle due entrate del parco, nell’esatto momento in cui i negozi tutt’intorno alla piazza circolare illuminavano le loro insegne e vetrine, in attesa di numerosi bohémiens e turisti. Fu allora che
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comprese realmente il messaggio dell’Humphrey Bogart della prigione. Proprio davanti a lui c’era infatti il Restaurant du Bois che faceva l’occhiolino al parco con centinaia di luci colorate. Si mise immediatamente alla ricerca del tavolo numero 44, con la sicurezza e allo stesso tempo il timore di chi sta andando incontro al proprio destino. Il ristorante era completamente vuoto, mentre alcuni camerieri erano occupati a togliere la polvere dalle decine di bottiglie di vino adagiate sugli scaffali di legno vicino alla cassa. Non si trattava di un ristorante di lusso, ma non gli mancava niente di quell’aria accogliente e bonacciona delle trattorie genuinamente francesi che incantano tanto i turisti stranieri e li fanno sentire come se fossero a casa propria, non meno di qualsiasi cliente di provincia. La scoprì sotto una pergola di plastica, con grappoli d‘uva bianca e nera, grandi pampini e forme di formaggi appese con grazia contadina. La tavola era coperta, come tutte le altre, da tovaglie ricamate con motivi floreali, che andavano d’accordo con le sedie, simili a troni reali, in grottesco contrasto con la rusticità dell’arredamento. Il cassiere doveva essere il padrone, poiché non usava lo stesso abito di velluto bordeaux dei camerieri. L’intenzione sicuramente era di vestirli come contadini del settecento, con il berretto della stessa stoffa, sovrastato da un bel pompon, rosso come il foulard che portavano annodato alla vita, e che li rendeva invece molto più simili a un drappello di marinai. Egli se ne stava dietro uno scrittoio di noce abbrunita dal tempo, con a fianco un centenario registratore di cassa solennemente sistemato, da sembrare solo un monumento in più, invece di essere un magnifico esemplare di quella stessa invenzione, così francese quanto l’arte culinaria che aiutava ad amministrare. Non appena François si fu seduto, il padrone, o direttore del ristorante fece un sobrio segno a uno dei camerieri, che colse 28
subito la presenza del primo commensale della serata e andò immediatamente a stendergli davanti il voluminoso ménu in cuoio riccamente lavorato. — Bienvenu, monsieur — ruppe il ghiaccio l’ossuto ganimede, prodigo di salamelecchi. — Buona sera — tagliò corto il giovane cliente. — Un bicchiere d’acqua soltanto, s’il-vous-plâit. La silhouette flessuosa e longilinea del garçon quasi s’era irrigidita come un immenso punto esclamativo, prima di dinoccolarsi in una sinuosa interrogazione, doppiamente punteggiata dagli occhi spalancati. — Sono François De la Roche — lo perforò con il suo sguardo dritto e sereno l’altro, affogando in un effluvio azzurrino la perplessità persistente dell’interlocutore. Il cassiere, insieme agli altri camerieri, aveva seguito la scena da lontano e immediatamente, come avrebbe fatto un padrone di casa, si alzò dallo scrittoio e venne a mettersi proprio davanti al cliente, svelando un ridicolo grembiule fissato con grandi spille da balia all’austero vestito da gran gala. Se non fosse per l’estrema serietà dell’intenzione, François si sarebbe lasciato andare a una clamorosa risata. — Pardon, monsieur — si scusò l’anfitrione, mentre allontanava senza altre cerimonie il servo che a quell’ora si trovava completamente sbalordito. — Il signore potrà scegliere a suo piacere i piatti che più le convengano. È un omaggio della casa — e sostituì in un batter d’occhio il ménu portato dal cameriere, con un altro, dall’apparenza molto più modesta, dalla copertina di cartoncino rivestito con cellophane. — Questo, il signore potrà portarselo a casa — si giustificò. Stavolta, chi rimase trasecolato fu François, mentre i camerieri cominciavano a bisbigliare tra di loro e cercavano di sviare lo sguardo quando si rendevano conto che il padrone li stava osser29
vando. Il volto del giovane omaggiato andava rilassando le rughe artefatte, man mano che procedeva nella lettura del malloppo, senza perdere tuttavia quell’aura di serietà composta, illuminata dalla cornice dorata della sua chioma. Il ménu era in effetti un’agenda, che prevedeva vari particolari della sua vita, per i prossimi cinque anni.
Ménu Beverages: Aperitifs: Scotch - Gin - Campari - Vodka. Continuare normalmente gli studi. Abbandonare la politica e il vizio. Corteggiare Lucienne Blanchard. Chiedere la sua mano per la prossima festa di San Valentino.
Vins: Rouge/blanc - Bière - Liqueurs - Cognac. Distinguersi nelle attività tradizionali del paese. Gita culturale per le vacanze estive: con Lucienne, interno della Francia e dell’Italia. Corrispondenza sempre attraverso la casella postale 3247 delle poste dell’Opéra.
Couvert: Petit Pain - Beurre. Viaggio di Lucienne da sola: Grecia, Egitto e Israele. François da solo: Turchia, Iran, Singapore e Tailandia.
Hors-d'Oeuvre: Terrine de Saumon et Sole. Matrimonio maggio 1974. Viaggio di nozze in Canada. Formazione di équipes per la produzione e la distribuzione della mercanzia a Toronto, Montreal e Niagara Falls.
Entrée: Suprême de Poulet Crecy - Haricots Verts au Beurre - Riz au Safran. Organizzazione dell’importazione dall’America meridionale. Viaggi in Cile, Perù, Bolivia e Colombia.
Dessert: Tarte au chocolat - Café du Brésil. Organizzazione della rete di New York. Intercambio con le reti di Detroit e Los Angeles
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François era ormai deciso a prendere sul serio l’organizzazione senza più domande o recriminazioni. Aveva persino cambiato il suo stile personale, nelle relazioni con i colleghi e amici. Adesso era più riservato e cauto. Evitava le polemiche e sviava sempre il discorso, quando qualcuno lo provocava a dare dichiarazioni di spunto politico. Ma nonostante tutto cercava sempre di dimostrare molta serenità. Il che aveva contribuito a renderlo ancor più ammirato e disputato, tanto per lo studio in gruppo, che per i divertimenti. In occasione della settimana santa, approfittò per far visita ai genitori e la loro tenuta divenne presto il centro delle feste di tutto il villaggio. François fu coccolato non soltanto dalla mamma, donna Généviève, ma da tutti i parenti e conoscenti senza distinzione. E doveva pur ammettere a sé stesso che tutto ciò gli piaceva moltissimo, soprattutto dopo essere passato per un’esperienza così traumatica che l’aveva posto di fronte a un progetto di vita totalmente estraneo ai suoi sogni e ai suoi ideali. Gli piacevano le lunghe passeggiate per i campi di grano ancora verde, ma già abbastanza cresciuto, e alle volte si intratteneva a contemplarlo mentre ondeggiava sotto la brezza dell’imbrunire, con i suoi riflessi mutevoli che accompagnavano sommessi il sibilare del vento. E presto il pensiero divagava in un’incursione capricciosa, attraverso i ricordi dell’infanzia o tra le brume dell’ipotetico futuro, ormai sbozzato da altri. Le ombre degli ulivi sparsi per la campagna si allungavano adagio adagio, come delle grandi gonne bige, sulle onde del frumento sottostante, fino a svanire in una macchia unica e imprecisa, mentre François cercava di delineare con fattezze meno nebulose gli avvenimenti, i volti e le cose che popolavano il suo mondo immaginifico del mai avvenuto. In certi momenti si trovava a chiacchierare con una donna dalla fisionomia andina, come alcune viste in certe illustrazioni 31
dell’enciclopedia. Costei portava sul dorso un bambino il quale, appeso all’aguayo, uno di quei drappi tipici dai mille colori, lo fissava con gli occhi spalancati, dietro la spalla di sua madre. Quest’ultima stava parlando in una lingua strana, ma François riusciva, con sorpresa, a cogliere perfettamente il senso di quel che gli voleva dire. — La voce del vento non sarà mai scritta nei libri, perché il fuoco la brucerebbe e la pioggia la bagnerebbe — diceva l’indiana, e poneva in mostra le otturazioni d’oro e i vari denti cariati. Aveva il cappello di feltro e i vestiti delle abitanti degli altipiani andini. — Ma il vento può spegnere il fuoco e asciugar l’acqua — interloquiva François, come se stesse seguendo una linea di ragionamento tutta sua. — Vince sempre il più forte. — Nessuno può vincere se stesso. Sarebbe come bisticciare con la propria madre — continuava l’indiana, ridendo. E il resto del dialogo era piuttosto un vero e proprio monologo che lasciò François convinto di trovarsi di fronte alle reminiscenze dei sonetti di Pablo Neruda. — Nessuno riesce a fermare il fiume dell’aurora. Nessuno riesce a fermare il fiume delle tue mani, gli occhi del tuo sogno. Tu sei il fremito del tempo che trascorre fra la luce verticale e il cupo sole... Con Antoine Rouanet, con il quale si era rincontrato anche lui in visita ai suoi in occasione delle festività pasquali —, aveva organizzato una festicciola, quasi un addio alla vita da scapolo, nella tenuta d’Henriette Vendôme, la giovane padrona dell’unica trattoria del villaggio. François se ne stette con Marie Menuet, che non vedeva da quando aveva lasciato la casa paterna per seguire i suoi studi liceali a Grenoble. Devastarono la cantina centenaria, scolandosi innumerevoli bottiglie di riserve immemorabili. Corsero a cavallo per i campi,
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sotto la luce della luna pasquale, ormai quasi abbacinante. Ballarono e cantarono a più non posso e infine andarono a dormire nella più grande euforia. François era entusiasta di quel revival con la sua prima ragazza. La trovò identica a come l’aveva conosciuta in passato e le molteplici esperienze con donne di varie età con cui si era messo in seguito non avevano cancellato per nulla quell’immagine soave e allo stesso tempo maliziosa di cui tanto aveva goduto nei suoi primi fervori giovanili. Quella sera di mercoledì santo, nessuno riuscì a dormire nella tenuta d’Henriette Vendôme e l’esercito di galli campestri che annunciavano l’aurora per tutto il vicinato, riuscirono con difficoltà a coprire i sussurri e i gridi che continuavano a inondare la cascina in piena mattinata. Così avvenne che il gruppo festaiolo neanche si rese conto che c’era stato un Giovedì Santo, 11 aprile 1968. Ma si ritrovarono tutti quanti, puntuali e già in pieno possesso delle loro facoltà mentali, alla cerimonia della Via Crucis, il pomeriggio di venerdì. Anzi Antoine si era preso l’impegno di far la parte di Gesù Cristo nella crocifissione e François ne aveva fatto addirittura una questione d’onore, di partecipare serio e compunto a quell’atto sacro, nonostante il conflitto interno per la sua incipiente perdita di fede e il suo radicale libertinaggio. Antoine fu estremamente convincente nel sostenere il suo ruolo e arrivò al punto di strappare lacrime sincere non soltanto alle donne, perfino quelle stesse che avevano partecipato alla festa due giorni prima, ma anche e soprattutto agli uomini di tutte le età che seguivano la rappresentazione della Passione. La commozione generale, tuttavia, si trasformò in vera e propria costernazione ed orrore, quando, alla fine della messa in scena, i circostanti si avvidero che Antoine stava versando un
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fiotto di sangue vero, dalla ferita che la lancia del centurione avrebbe prodotto nel petto di Gesù Cristo. François rimase di stucco al riconoscere la faccia di quel soldato romano, che presto era svanito nello stesso nulla da cui era appena uscito pochi minuti prima: aveva quello sguardo inconfondibile da cobra, con cui l’aveva trafitto in prigione, quel delinquente camuffato da Humphrey Bogart. Con la differenza che adesso costui era l’assassino del suo miglior amico.
Giovedì, 30 maggio 1968. Difficilmente potrò portare a termine il mio corso d’arte. Ne approfitterò per visitare la mostra delle opere grafiche di Marc Chagall al museo d’arte moderna e per vedere qualche altra novità altrove. Le manifestazioni studentesche si stanno intensificando e giorni fa ho preso parte anch’io a una sfilata, insieme ai miei compagni di classe, ai Champs Élisées. Ho gridato e ho cantato la Marsigliese, a fianco di Jean-Paul Sartre e di altri intellettuali che hanno aderito al movimento degli studenti. Non ho avuto paura di essere arrestata, come è già successo all’Abisso. Venerdì, 31 maggio 1968. Ero già disposta a ricominciare a studiare, sia pure nell’incertezza di poter fare gli esami di baccalauréat. Ma è avvenuto l’imprevisto più desiderato della mia vita: L’Abisso è tornato. Non è incredibile? E per giunta è tornato a me. Adesso so davvero cos’è la felicità. Ma purtroppo, sto imparando anche e a spese mie, cos’è l’incertezza e l’ansia. Perché la 34
vita è fatta così? Perché tutto ciò che c’è di buono al mondo deve pur finire un giorno? Ciononostante, voglio tuffarmi in quest’avventura emozionante e pericolosa. Sono sicura che ne vale la pena. Sabato, 1º giugno 1968. Non so cosa gli succeda. Mi sorprende a ogni pie’ sospinto. Da tanto audace e focoso che mi era sembrato la prima volta, adesso è diventato silenzioso e timido. Direi quasi circospetto. E mi dice che vuole abbandonare completamente ogni attività politica e pensare solo agli studi. E che anch’io devo preoccuparmi solamente dei libri e degli esami. E se ho avuto una cattiva impressione di lui, quando lo vidi fumare l’hashish, adesso posso esser sicura che ciò non si ripeterà mai più. Io invece sto diventando sempre più disinibita e credo che presto finirò per perdere la testa. Ho perfino paura che lui mi giudichi una di quelle. Voglio soltanto abbracciarlo e baciarlo a non finire. Non so più dove nascondermi per non farmene accorgere dai miei genitori e dalle amiche. Non penso ad altro. E lui sa molto bene come farmi arrampicare sui vetri. Arriva sempre più frequentemente a casa di Jeannette, che abita con una collega anche lei studentessa in medicina. Io ci vado con la scusa di studiare con Jeannette e così posso approfittare per passare alcune ore indisturbata con lui, tutti i giorni. Domenica, 2 giugno 1968. Oggi son rimasta un po’ di più a... studiare con Jeannette. L’Abisso è venuto e abbiamo chiacchierato a lungo riguardo la politica, l’arte, la letteratura, il passato ed il futuro. Lui pensa che finirà per sposarsi con me. Te lo immagini? Ha appena compiuto diciannove anni e io ne ho soltanto diciotto. Dipendesse da
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lui, l’anno venturo festeggeremmo il nostro compleanno con l’anello di fidanzamento al dito. Che buffonata! Ma io voglio solo amarlo. E ciò mi basta. E come sa bene quel che mi rende ossessa! E non mi sazio mai. Lo voglio, senza sosta. Vado agli appuntamenti con lui già senza biancheria. Voglio sentire la mia pelle nuda sotto le vesti. D’altronde è primavera. E mi piace infinitamente impregnarmi del profumo dell’aria e delle fragranze dei giardini, quando cammino per strada. E lui arriva e ha una gran voglia di chiacchierare. Dolce e posato, irradia quel suo sguardo azzurro, offuscato dalla corona d’oro dei capelli. Non può esistere niente di più bello e buono al mondo. E quando le sue mani incominciano a toccarmi, non importa dove, io mi metto a navigare nella quarta dimensione. E lui mi bacia e sembra che la vita voglia uscire da me come un gettito d’intensa dolcezza. E i miei capezzoli s’irrigidiscono e il mio cuore li spinge in una danza frenetica. E lui mi tocca soavemente in ogni angolo del mio corpo e mi bacia e mi succhia e mi mordicchia e mormora al mio orecchio e mi lecca e finalmente entra fin in fondo alle mie viscere, per strappare quel che resta delle mie forze e delle mie certezze e dei miei dubbi, e riversa tutto nel turbine di un luminoso niente. Come sarà il mondo dopo tutto ciò? Che ne sarà di noi? Chi risponderà del bene e del male, al tribunale del tempo? Io no. Di questo almeno ne sono sicura.
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.2 IL MASSACRO
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ERA stato avvisato dal Condorito circa la data e l’ora. Questi gli aveva fornito anche la parola d’ordine. Tutte le volte che lo vedeva allontanarsi, dopo ogni contatto, Roberto rimaneva per alcuni istanti a chiedersi come poteva riuscire a sfuggire a una polizia così attenta un individuo così notevole e singolare. Forse per via di quel sorriso, un po’ triste, un po' gioviale, perennemente appeso all’immenso naso? O forsde era quell’andatura dinoccolata, più da cammello che da llama, che lo rendeva meno sospetto per merito dell’aura di disinvoltura che gli restava appiccicata, mentre annunciava e subito cancellava ogni pista? La strada era una serpentina di schegge di basalto che le conferivano un aspetto da dinosauro steso da millenni al sole andino. L’aria gelida fasciava il suo volto con nastri di spilli e lasciava i raggi solari disseccargli le labbra e la pelle. La salita era deserta fino alla curva che riusciva a intravvedere al di sopra delle ciglia ghiacciate. Si rese conto all'improvviso che c'era una ragazzina ferma all’angolo quando quel mucchio di panni dai colori sgargianti lo raggiunse con la sua voce da clarinetto: — La puerta del sol, caballero? — Cosa? Era stato soltanto l’effetto della sorpresa, perché, ancor prima di girare gli occhi verso di lei, aveva associato a quelle parole tutto ciò che gli aveva martellato il cervello nelle ultime dodici ore. — Atahuallpa! Non dovrai rispondere altro —, aveva detto il Condorito, senza spegnere il suo perenne sorriso da Gioconda. — Atahuallpa — le rispose Roberto e fu allora che notò gli occhi della ragazza. Soltanto gli occhi neri emergevano da sotto il cappello di feltro, copia perfetta di tante migliaia che ormai da 38
tempo conosceva così bene: ritagliati sulla pelle di terra, come olive di porcellana, segnati da ciglia scure e forti. Il resto del viso e del corpo ondulava armoniosamente insieme alla gonna, al grembiule, al corpetto e allo scialle che lo guidavano al luogo dell’incontro. Percorse insieme a lei il labirinto di vicoli e camminamenti bizzarri che sembravano costruiti apposta per depistare eventuali ficcanaso. C’erano tratti che avresti supposto senz’uscita, ma subito spuntava un passaggio insospettato o una scala di legno o semplicemente c’era da fare un salto persino di mezzo metro o da scavalcare un muretto. Roberto aveva rinunciato quasi subito a fissare in mente l’itinerario, fiducioso nella previdenza dell’organizzazione, quanto al ritorno. Lo stesso edificio dove si erano introdotti era un complicato rompicapo di porte, stanze, scale, tutto quanto nella penombra e nell’umidità di una costruzione incompiuta. A ogni istante doveva schivare un’asse inclinata lasciata là a sostegno di una travatura o di una gettata di cemento. Improvvisamente la luce fioca di una fenditura gli segnalò in tempo la presenza di uno spuntone di ferro sporgente da una parete, risparmiandogli danni irreparabili alla vista o una ferita alla fronte. La cholita scivolava senza una parola e il minimo rumore in quello zigzag di ombre e di luci, entrate e uscite senza fine. Quando meno se lo sarebbe aspettato, una porta di assi rustiche aprì loro il passaggio verso una sala le cui pareti erano rivestite da antica carta da parato, impolverata da anni, con un pulviscolo impalpabile e appiccicoso che conferiva ai colori della decorazione floreale un’apparenza stanca. L’edificio incompiuto era evidentemente appoggiato alla costruzione antica, la cui entrata era stata eliminata, e l’itinerario appena percorso era l’unica via di accesso agli appartamenti alti
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del palazzo di adobe, che li avrebbe protetti da sguardi indiscreti per almeno due ore. La stanza era arredata modestamente con un vecchio divano accostato a una finestra di legno. Una tendina di plastica, che aveva la pretesa d’imitare un fine merletto bianco, vi si adagiava con l'abbandono di una donna innamorata. La finestra era ermeticamente chiusa da assi di legno inchiodate a sostegno anche della fessura della parete, mal dissimulata dai raccordi delle strisce della carta da parati, lungo il lato sinistro dell’infisso. Vista dalla strada, la costruzione doveva sembrare ai passanti un castello fantasma con il vecchio intonaco scrostato che metteva a nudo le ferite dei blocchi di adobe sovrapposti nei secoli dagli antenati, dotati di una invidiabile saggezza nell’edificare case e palazzi senza l'aiuto di cemento di nessun genere. Attraversarono la sala, passando dalla penombra del salotto alla luce sommessa di due lumi a gas appesi alla parete opposta. Nel bel mezzo c’era un tavolo coperto da un tappeto marron e le sedie attorno erano occupate da uomini e donne che chiacchieravano a bassa voce. Quando Roberto entrò, la piccola guida si era dileguata. Soltanto il giovane barbuto seduto a capotavola davanti a lui aveva notato la sua presenza. Si alzò e in modo gioviale, ma contenuto, girò intorno al tavolo per raggiungerlo con la mano tesa e chiamandolo con la familiarità di un vecchio amico: — Olá, viejo. Qué tal? — Bién, no más. Y tu? — L’aveva riconosciuto subito. Era Alvaro dell’Unione degli studenti liceali di Pucaranga. — Cos’è successo a Pucaranga? Ho saputo che l'Armata Studentesca non voleva che fossi tu il rappresentante. — Solo in un primo tempo. Pensavano che il braccio politico dell’Unione avrebbe ceduto facilmente alle proposte demagogiche del ministro della pubblica istruzione e l’avrebbe rotta con il 40
braccio armato, facendo così il gioco del governo. Ma sembra che il malinteso sia stato chiarito e tutto va col vento in poppa. E adesso siamo qui per veder se spunta fuori lo sciopero generale. — Sai bene che ne pensano le comunità di base, soprattutto i contadini della zona sud: non ne vogliono neanche sentir parlare di spargimento di sangue fraterno. Ormai sono tutti stanchi di vedere la violenza spadroneggiare nei nostri quartieri. E d’altronde un governo di macellai come il nostro non sentirà neanche il solletico al gracidare dei nostri mitra. Mentre parlava, Roberto aveva dato un’occhiata intorno ed aveva notato il grande affresco della parete al di sopra della porta d’entrata. Era uno dei tanti esempi di quei capolavori dell'arte popolare che adornavano la maggior parte dei muri e molte facciate degli edifici del centro delle città, spuntati quasi magicamente negli ultimi giorni, con una frequenza e una rapidità che la calce del municipio non ce la faceva a cancellarli tutti. E chissà che la bellezza espressiva di tutti quei volti e spalle e gesti solenni, quelle nervature delle mani ciclopiche che sorreggevano armi e scritte, o quell’aura mistica irradiata dalle frasi incise sulla pietra da militanti ispirati, non avrebbero impedito agli stessi esecutori del loro annientamento di eseguire gli ordini del potere superiore? «Il silenzio degli oppressi rimbomba più alto degli altoparlanti dei potenti», c’era scritto a caratteri cubitali sopra le spalle di uomini e donne che sprigionavano un indicibile senso di rivolta dalle rughe dei loro visi angolosi. «Ci chiamano sovversivi perché vogliamo farla finita con i loro bagordi e le loro orge», dicevano giovani ordinatamente raggruppati in file numerose, con libri e fiori tra le mani. — È il risveglio della coscienza collettiva, dopo l’anestesia della dittatura — sentenziò Alvaro con tono pacato.
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— Ma debbono succedere ancora molte cose prima che i giovani tornino ad essere la vera truppa d’assalto che sempre hanno costituito per la nostra nazione. — La dittatura non è ancora finita — gli ricordò Roberto. — Sembra invece ancora più truculenta di prima. — Siamo qui proprio per affrontarla — chi aveva parlato era il vicino di sinistra. Barbuto anche lui, ma con il viso ascetico che si perdeva in un guazzabuglio di capelli più rossi che biondi, mentre il celeste annacquato dei suoi occhi si salvava a malapena da quel naufragio, grazie al fluttuare assente delle lenti a fondo di bicchiere. Lo spagnolo strascicato ne tradiva l’origine straniera e Roberto rimase sbigottito nel sapere che era proprio lui il recentemente eletto presidente nazionale dei docenti universitari. Com’era riuscito ad arrivare a quel livello, malgrado la xenofobia ufficiale e la ritrosia degli stessi quadri sindacali? Alvaro ebbe appena il tempo di presentargli in modo sbrigativo gli altri partecipanti alla riunione, quando il presidente iniziò il suo discorso. Roberto ascoltò il preambolo e subito i ricordi più assillanti lo portarono ai tempi della rivolta di Pucaranga.
Stavano andando, lui e altri tre compagni, alla ricerca di alcuni amici che erano rimasti bloccati sulla strada di Santa Fé. Arrivati alla diga, i soldati li fermarono e li avvertirono che a cinquecento metri c’era una barricata dei campesinos, ubriachi e armati di machetes e fucili. Un’auto blindata era ferma sul ciglio della strada e un soldatino, dalla divisa mimetica nuova di zecca, faceva riposare il suo irreale bazooka sul parapetto della diga. Si sentivano rauche e repentine raffiche di mitra a rimbeccare l’impertinenza di spari vaganti senza destinazione. La voglia di
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non-esser-più-là incombeva negli sguardi erratici e interrogativi del gruppo, che tentava l’inutile impresa di indovinare la provenienza e l’orientamento delle prossime pallottole. Stretti nelle spalle, i muscoli tesi, non contribuivano per niente ad alleviare la certezza di essere ancora dei voluminosi bersagli. Le guardie non impedirono loro di proseguire la giustificata ricerca degli amici ritardatari. Soltanto ribadirono che la responsabilità era completamente loro. La land-rover avanzò adagio adagio fin quando avvistarono il primo gruppo di manifestanti. Roberto era al volante e non appena ebbe fermato la jeep, l’ombra di un machete gli annunziò la presenza di un campesino, calmo e amichevole, accostato al finestrino della macchina. Il suo sorriso fluttuava sull’onda di un masticare pacifico e accogliente, intervallato da puntuali inghiottite di succo secreto dalla saliva, a partire dal bolo di coca che gli gonfiava la guancia destra. Perfino il livore minaccioso e metallico del coltellaccio si era trasformato in un elemento di composizione pittorica, di una neutralità quasi domestica. L’aria quotidiana della valle di Pucaranga non aveva perduto nulla della sua trasparenza mattutina. L’eccezionalità degli avvenimenti non pareva averla privata di nessuna sfumatura della freschezza verdastra che avvolgeva i contorni del paesaggio e i tratti spigolosi dei visi degli indios, attenuati soltanto dalla dolcezza familiare dell’accento quéchua. — Non si passa, signore. è tutto bloccato, a causa dello sciopero. Altri contadini si erano avvicinati senza premura e l’amico Gerardo era sceso dalla macchina e stava chiacchierando con alcuni di loro, mentre chiedeva e forniva notizie. I giornali pubblicati a Pucaranga davano notizie tranquillizzanti sugli avvenimenti, ma in città si sapeva molto bene che la retorica ufficiale nascondeva sempre ciò che era realmente successo e, molte vol43
te, doveva persino ignorare i dati reali. Peraltro la stessa calma festante dei rivoltosi sembrava confermare la versione riduttiva della stampa e il clima pacificatore del paesaggio. Dovettero aspettare alcuni giorni per farsi un’idea di ciò che stava succedendo. Gli elicotteri del governo, che dichiarava che stava cercando l’unità nazionale e l’armonia degli spiriti, stavano invece decimando, a poco più di due chilometri e nelle altre tre uscite della città, i manifestanti ammucchiati nelle carreteras, armati soltanto di coltelli e di bastoni. Quando il generale Vargas-Doria riuscì a ottenere una tregua, nella sua qualità d’intermediario gradito ai ribelli, più di quattrocento persone avevano trovato la morte a causa delle pallottole e delle bombe. Ma in quel momento neanche gli stessi protagonisti di quella scena avevano una nozione chiara della portata del massacro. Ciononostante gli scioperanti riuscirono a convincere il gruppo sulla convenienza di soprassedere dal proseguire in mezzo a tutta quella gran confusione. Però già sulla strada di ritorno in città, Roberto avrebbe subito un altro soprassalto, che avrebbe segnato quella giornata con il sangue e la morte. Fu infatti spettarore e protagonista in un incidente apparentemente banale, ma con tutte le connotazioni di un presagio. Rientrando in città, un cane, attraversava la strada, decise improvvisamente di ritornare sui suoi passi e finì per rimanere schiacciato dalle ruote della land-rover, con lo schianto di un solo istante. Sentimenti di compassione e di colpa si trascinavano ancora nella memoria di Roberto, attenuati solo in parte dalla razionalizzazione e dalle incrostazioni del tempo, ma resistente, forse per per il confronto con il cinismo degli aguzzini di Pucaranga.
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Un senso di impotenza si era impadronito della sua immaginazione quando tornò a prestar attenzione al discorso del presidente dell’incontro. L’aveva riconosciuto fin dal primo momento e forse il fatto di essere anche lui di Pucaranga era stato la leva che aveva sciolto quel ricordo. Questi abitava nel quartiere più miserabile della città, nonostante fosse arrivato a essere ministro di stato durante il primo governo di Lutz-Vega. Aveva raccontato personalmente a Roberto vari particolari della sua vita, come quando dovette vendere la sua biblioteca ai Gesuiti per potersi sposare o quando aveva dovuto indossare un vestito affittato per partecipare alla cerimonia di insediamento del suo gabinetto ministeriale. All’epoca era riuscito a resistere soltanto pochi mesi nella confortevole dipendenza del ministero del lavoro, il che era stato sufficiente per rendersi conto, e sbigottirsi, degli intrallazzi che sembravano di far parte dell’esercizio del potere. Aveva rinunciato e si era ritirato nella modestia di una vita anonima che, d’altro canto, l’aveva salvato fino allora dalle inesorabili rappresaglie dei suoi avversari politici. Quando Roberto l’aveva conosciuto, l’ex-ministro era un contadino inurbato che abitava in una casa d’adobe, pavimento di terra battuta, pareti senza intonaco, come migliaia di altri discendenti dei nobili Incas. Sandali ricavati da ritagli di gomme d’auto, vestiti scuri sgualciti, l’orgoglio ancestrale rinchiuso nei tratti immobili del volto d’argilla, nel colloquio dolce e sicuro, nello sguardo ogivale che trafigge e sfugge. La sapienza millenaria del suo popolo e l’essenza della cultura occidentale più attualizzata venivano a galla, come in un campionario, nel suo linguaggio stringato e obiettivo, ma non per questo meno raffinato ed elegante. La sua esposizione era trasparente e dispensava delucidazioni. Si arrivò così, rapida-
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mente, alle proposte alternative, che sarebbero state approvate con una votazione. Si decise per lo sciopero generale, con poche obiezioni provenienti soprattutto dai rappresentanti cattolici. Suor Olga era stata la più incisiva, nel manifestare preoccupazione per eventuali reazioni della truculenza poliziesca, che avrebbe potuto provocare l’intervento della resistenza armata. Aveva ricordato fatti del passato, come il massacro di Pucaranga, nonostante si considerasse personalmente poco intimidita dalle recenti dichiarazioni rilasciate davanti alle telecamere dal giovane istrione che occupava il posto di ministro degli Interni: — I nemici del governo, uscendo di casa, possono portarsi il testamento sottobraccio, giacché per nessuna ragione al mondo lasceremo sovvertire l’ordine o destabilizzare il nostro potere. Ben vestito, ben nutrito, mascherava il suo cinismo sotto una giovialità volgare, con quell’aria da sorridente presentatore televisivo. Ma tutti coloro che assistevano a quelle dichiarazioni, sapevano molto bene che la facciata serena del personaggio non attenuava per niente la gravità delle minacce più inquietanti. Lo sciopero era pertanto deciso. Quindi tutti i presenti si alzarono e si salutarono, confortati dalla linea d’azione finalmente assunta, perfino rinfrancati, la forza di solidarietà personificata in tanti patrioti, fiduciosi nonostante il peso delle conseguenze soltanto intraviste, ma non per ciò meno angosciose e desolanti. Fu allora che incominciò il massacro. Porte e finestre inesistenti si spalancarono con un frastuono da stordire, fatto di raffiche e di grida e di fuoco e di polvere e di corpi inerti ammonticchiati e di rantoli e di ultimi sospiri, in una messa in scena fulminante che cancellava in un istante sogni e spreranze e ombre contorte negli occhi degli spettatori abbacinati.
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Roberto cadde insieme agli altri, in mezzo a sedie e tavolini e pallottole che stracciavano e riposavano nella sua carne, a un tratto indolenzita e urlante e subito sommessa e intorpidita e rassegnata. Le figure austere delle pareti e tutte quelle lettere cubitali si curvarono su di lui, impaurite e sollecite, mentre i volti anonimi degli aguzzini rimanevano nella penombra, rispecchiandosi negli sguardi sopravvissuti degli altri, senza più domande né dubbi. Roberto era intrattenuto ad accettare la morte, mentre pullulavano i ricordi acuti che la lucidità cinica del rimpianto non riusciva a fissare nemmeno un momento, nel suo affanno di soddisfare la memoria affamata.
Quel giorno Roberto aveva ingoiato in fretta e furia il pranzo, aveva coniato battute stereotipate per nascondere i veri motivi del suo malcelato nervosismo ed era uscito. La jeep serviva a Jonas cosicché dovette correre fino all’angolo della piazza per prendere la circolare. Assaporava con la fantasia incandescente i momenti dell’incontro che l’attendeva. Lei sarebbe arrivata con il mezzo successivo, emergendo dal polverone con quel suo passo sospeso sul ritmo delle mani intente a carezzare l’alone che ne fasciava il corpo. L’incanto dei pensieri impressi sul viso angustiato da una pace preoccupata. La sua figura minuta caracollando, approssimarsi. Da lui. Viene. Roberto si sentiva proprio in gamba. Per questo fece il tentativo di scendere dal bus in movimento, come mille volte lo aveva visto fare ai ragazzi che con tre o quattro passetti riducevano la velocità ormai insignificante.
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— Scendo? Non scendo? Tutto per fermarsi proprio davanti all’entrata del centro sociale. Si buttò alla fine, mettendo in pratica la serie di movimenti ricapitolati in fretta un minuto prima. Cadde bocconi, facile preda dell’insospettabile forza d’inerzia. Chiamiamola inerzia!
La sera era scesa rapidamente a raccogliere gli ultimi baci distribuiti con il ritmo disordinatamente armonioso del pittore, il quale insiste a dar gli ultimi ritocchi al quadro che il cliente frettoloso quasi gli strappa dalle mani. In realtà non era stato altro che l’adorabile abbozzo di un vero e proprio capolavoro. I convenevoli se li erano inghiottiti insieme all’intensa dolcezza che l’attesa, oggettivata in quell’istante d’incantesimo, aveva fatto confluire nella gola. — ¿Qué tal? — disse lei, mentre decollava in direzione di quelle labbra cristallizzate dalla felicità in un indescrivibile sorriso di gloria. — Bién, entra — sussurrò Roberto. E ci mise ancora del tempo fra quelle parole per conferire il ritmo giusto all’ondulazione soffice di quel primo bacio che varcava irrevocabilmente la soglia della sua storia. Entrarono, ma non si sedettero, nonostante stessero tremando, già legnose, le gambe di entrambi. S’appoggiarono soltanto ai rispettivi polpastrelli e i loro spiriti si fusero, al contatto delle palme delle mani. Fu uno scontro indolore e istantaneo, come il battito delle palpebre che ne ac-
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compagnò l’evento. Le loro anime si sfiorarono ondeggianti e finalmente si rappacificarono, nella spuma malleabile di un secondo bacio senz’alito né tempo. La bocca di Suzy era dolce. Sarà stata una caramella o il rossetto quasi impercettibile? La successiva convivenza avrebbe riconosciuto il giusto merito alla gomma da masticare, quando lei stessa sarebbe stata la prima a scherzarci su, per considerarla, come tutti, una cattiva abitudine da tentare, anche se inutilmente, di sradicare. Ma la tenerezza dell’epitelio delle sue labbra era autentico e inalienabile. Roberto l’assaporava con il compiacimento dell’intenditore, più che con la voluttà dell'affamato. Prevaleva in lui, infine, l’alloro della sublimazione. — Te quiero — disse, quando glielo permise la respirazione, regista incontrastato della scena. Parole ovvie, ma insostituibili e indispensabili. Seguirono altre frasi e movimenti che si districavano ordinatamente con ritmo e logica interna, ma che pure sbocciavano da un’originalità primordiale conferendo al rituale il tocco dell’invenzione estetica. — Non vorrai sbranarmi, spero — già altre volte l’aveva supplicata così, in tono scherzoso, in alcune delle interminabili conversazioni telefoniche, quando cominciava a fantasticare sui primi giorni di matrimonio. — Sarò una diavoletta — aveva assicurato lei, facendo allusione alle notti che avrebbero passato insieme —, e tu perderai il sonno. Adesso lei stava ridendo in una nuvola di capelli, sospesa in aria per una facile prova di volo simulato. Egli l’aveva abbracciata con forza, cercando in quell’estasi pensile la bocca palpitante, immersa nel vacuo degli occhi chiusi. 49
— Andiamo in cucina — la sorprese ad un tratto, — debbo offrirti il caffè preparato con la mia caffettiera italiana. Le fenditure tra le tendine avevano attratto la sua attenzione, riportandolo alla realtà, nonostante non ci fosse la più piccola ombra di scrupolo nelle sue cure per evitare sguardi indiscreti. La convinzione che non stava facendo niente di riprovevole si era formata in lui non senza una laboriosa gestazione di pochi, interminabili mesi. Si era sovrapposta insensibilmente al suo essere come uno strato di licheni sul tronco di un grande albero. Era cresciuto retto e schivo, in ambienti protetti e allo stesso tempo aperti a qualsiasi tipo di influenza. Il pudore era la corteccia creata attorno alla sua spina dorsale dalla dolcezza di sua madre e ispessita sempre più, sotto l’azione robusta dell’esuberante moralismo delle suore dell’orfanotrofio. E quando finalmente il suo precoce amore alla vita s’era alleato al favore delle circostanze per restituirgli l’alito fortificante d’una infanzia vera, era stata paradossalmente la poesia ad afferrarlo tra le spire della norma.
Era un pomeriggio di primavera, con il ritaglio di cielo azzurro di sempre, stirato con cura ed applicato perfettamente ai complicati ghirigori della facciata del municipio della sua città natale. I nidi delle rondini disegnavano trine di cemento saggiamente combinate con le erose modanature, in un elaborato giuoco d’architettonica vetustà. Roberto non avrebbe mai più dimenticato la tessitura dei voli tracciati, e subito cancellati, delle rondinelle che sfidavano com coraggio il labirinto delle lunghe canne, improvvisato per i loro voli radenti dai ragazzotti riuniti in piazza, ed esercitavano con determinazione il ruolo di materne eroine. I loro piccoli aspetta-
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vano pigolando. Ce n’erano alcuni affacciati all’apertura, per osservare l’esibizione delle madri e rinnovare l’ansia irrefrenabile, nei brevi intervalli fra un ritorno e l’altro. L’aria annacquata del crepuscolo appannava i pensieri e le immagini delle persone, messe in rilievo dalla loro impersonalità per fissarsi sullo schermo del ricordo, senza più volto, ma vive grazie alla coralità plastica della loro presenza. Roberto indossava ancora i pantaloni corti, come tutti i ragazzi della sua età, e quando si era azzardato ad andare a scuola con abiti da adulto, aveva dovuto subire le canzonature dei compagni, riservate a tutti quanti avessero inaugurato tale tipo di abbigliamenti. Per di più lui aveva soltanto dieci anni, nonostante frequentasse già la prima media insieme a ragazzi tutti più grandi di lui. Aveva fatto amicizia con Angelo Presti, famoso per essere lo studente più pigro della classe e aver presto imparato ad abborracciare i compiti su di una sbrigativa copiatura dal compagno, accettando il ruolo d’onesta incompetenza sfoggiato invariabilmente al momento delle interrogazioni in classe. Adesso costui era diventato un eccellente funzionario dell’amministrazione bancaria, ma allora era un vero e proprio campione dell’arte del savoir-faire, mentre offriva a Roberto generose lezioni su argomenti vari, nel corso di lunghe passeggiate per la frusta topografia della città. Era stato così che Roberto aveva imparato che le ragazze, a tredici anni diventano signorine, perché dai loro seni già formati escono alcune gocce di sangue, e aveva avuto conferma delle nozioni, che si rifiutava ancora di credere, provenienti dalle chiacchierate oziose dei giovani compagni di giuoco nei sudati pomeriggi d’estate, che i bambini nascono dall’aperturina che le donne hanno tra le cosce e per tirarli fuori il medico usa un’enorme pinza e che tutti i ragazzi devono avere una fidanza51
tina e che se ancora lui non ce l’aveva, poteva pur scegliere quella brunetta che frequentava ancora le elementari. Fu così che Roberto, essendo più giovane di un anno, rimase con Caterina, della quarta, mentre Angelo si sarebbe goduta Liliana, la biondina ben cresciutella della quinta. Per questo Roberto dovette farla a pugni, per la prima volta nella sua giovane vita, con il grassottello dall’occhio offeso della classe di Liliana il quale, incitato dalla piccola ciurma dei suoi compagnetti, aveva scelto, a sua insaputa, la stessa Caterina da corteggiare. La gravità della storia, oltretutto, era stata la rivelazione ripugnante di un amico che quella banda di mascalzoncelli aveva tentato di abbassare le mutandine alla piccola. Era un abuso che era ormai suo dovere vendicare. Non è che si fosse reso perfettamente conto della malizia del rivale, ma era tassativa l’urgenza di dar battaglia. Fino allora non aveva mai praticato nessun tipo di pugilato, ma era ormai scoccata l’ora di esibire l’amore incondizionato per quel visino sempre aperto al sorriso, inquadrato da due trecce di seta nera. Caterina era graziosa davvero, e Roberto era sicuro d’esserne perdutamente innamorato, malgrado non avesse trovato ancora l’occasione di esternarle tanto amore. Anche quel giorno era andato ad aspettarla all’uscita dalla scuola, ma non sembrava che le fanciulle si fossero accorte del duello che gli appassionati pretendenti stavano ordendo a causa di una di loro. Fu una lotta breve e incruenta. Una scaramuccia da niente, subito bloccata dagli stessi tifosi dell’avversario, forse interessati a qualcos’altro, senza dubbio più urgente per loro, ma il tutto fu sufficiente per poter tesserci intorno tutta una retorica da grandi occasioni ripetendo mille volte la storia agli amici assenti. Tutti vincitori, tutti soddisfatti.
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Durava ancora quel pomeriggio il fantasioso fidanzamento di Roberto con Caterina ed era già passato più di un anno dal duello. Come è lungo un anno per chi ne ha soltanto undici! Ancora non era riuscito a trovarsi da solo con la sua fidanzatina, anche se era impossibile che costei non avesse ancora notato la costante corte del piccolo pretendente. Lui sempre con Angelo, nell’intervallo tra l’uscita di lei e l’entrata a scuola di loro due, continuava a seguirla con perseveranza e ogni volta che si trovava da quelle parti, non poteva fare a meno di lanciare uno sguardo fin lassù, al balcone dell’ultimo piano dell’ultimo isolato di Via Vittorio Emanuele. Un giorno Aldo, il fratello maggiore di Roberto, l’aveva intravisto da lontano e a casa si mise a fare un interrogatorio. Roberto si fece rosso in viso, mentre tentava d’incassare con noncuranza i sorrisetti e la presa in giro di sua madre e di sua sorella che facevano finta di essere rimaste scandalizzate dalla precocità del piccolo conquistatore. Quel pomeriggio Angelo non c’era nel gruppetto di compagni di scuola che si era attardato sulla piazza del municipio, senza una meta ben definita. E lo stesso Roberto non sapeva come si era potuto trovare a suo agio in mezzo a quegli amici occasionali. Quel che sempre si sarebbe ricordato però, fu l’improvviso invito di uno di loro, quando la permanenza in quel luogo aveva già perduto ogni attrattiva: — Andiamo all’Oratorio? Roberto ci andò insieme agli altri, mentre da alcuni di loro ascoltava racconti entusiastici che descrivevano quel luogo come il paese dei balocchi, frequentato da ragazzi e preti gioviali e sorridenti. Aveva conosciuto quel posto quando vi era andato un anno prima, ma adesso doveva esser tutto cambiato, come pure lui era diverso, una volta che dalla quarta elementare aveva fatto il salto alla prima media, dopo aver sostenuto gli esami d’ammissione da 53
esterno, e la sua famiglia si era trasferita da Via Montemaggiore a Via Dei Rossi. Ma i giuochi troppo movimentati non l’allettavano troppo. Ciononostante si era unito a un gruppetto animato da un pretino dove tutti ridevano tanto per ogni nonnulla, nessuno sapeva perché. E aveva osservato da lassù alcuni di quei tramonti che ancor oggi si sprecano nell’indifferenza degli abitanti della parte alta della vecchia città. Il sole, quando arrivarono, si stava pavoneggiando con una delle sue variazioni sul medesimo tema, lo stesso che deve aver ispirato, nell’antichità, anche qualche rude colono greco, elevandolo alle sublimi considerazioni estetiche che il tempo si sarebbe incaricato di stilizzarle in scarsi residui archeologici. Il cielo a pecorelle riverberava all’infinito l’effetto magico del disco di fuoco che il dorso polveroso del Monserrato aveva appena nascosto. Non c’era più il sole, ma ci avresti scommesso che in quel momento doveva starsene a ridere sornione, vedendoti con il naso all’in su verso la fuga di nubi abilmente pigmentate con una gamma lentamente cangiante di rossi e di viola. Il rumore assordante dei ragazzi sembrava una fanfara spensierata, che accompagnava quel quotidiano ammaina-bandiera atmosferico. Impressionante, senza dubbio, quella brutta copia di tram, che andava e veniva senza mai stancarsi, sull’impiantito dell'immenso cortile, e scivolava rumorosamente sui robusti cuscinetti a sfere, che sostenevano il rudimentale cassone fatto di tavole da imballaggio nonché i sei passeggeri ammucchiativi dentro che gridavano a squarciagola. Anche Roberto aveva provato la rara sensazione di viaggiare dentro quel veicolo fantastico, con gli occhi chiusi e la gola spalancata: — Aaaaghhhhhhrrrbbbrrrrrhhooouuaaaaggggghhhhhhhhhh. Alla fine di ogni corsa gli occupanti scendevano, non sempre di buon grado, e si mettevano a spingere l’aggeggio dove si ac54
comodavano gli stessi che l’avevano mosso fino allora. Il piacere era senz’altro identico tanto nel trascinarlo come nel viaggiarvi dentro. E perfino gli astanti si sentivano coinvolti da quel turbine di voci e di incanto, fatto d’innocenza e di prestanza fisica. Fu così che Roberto si era lasciato sedurre dal fascino di quell’ambiente felice e aveva stretto legami di amicizia sempre più stretti con il giovane prete che comandava quel simpatico frastuono. Cominciò a dedicarsi alla religione ed alla letteratura, incoraggiato da lui, che notava entrambe le passioni svegliarsi in quel ragazzo. Egli era il giudice e il correttore, serio e tollerante, delle sue poesiole, dispensandogli innumerevoli e preziosi consigli, come avrebbe fatto un vero critico letterario. Roberto finì così per allontanarsi da quella vita da “donnaiolo” e si gettò a capofitto nel misticismo. Già in terza media era in seminario, pieno di pentimenti per gli ultimi anni di vagabondaggio, mentre ingigantiva tanto il senso di colpa quanto il rimorso, sotto l’azione delle sue fantasie infantili.
Adesso non era più un bambino, ma stava riscattando dal fondo della sua memoria l’onda di sentimenti che ormai dominavano completamente il Roberto adulto, senza interferenze da parte dei tanti anni di radicale adesione al celibato. Egli stava amando. Libero e innocente come in quel carrozzone sui cuscinetti a sfere. — Il caffè è molto buono. Anche tu sei buono. E io ti amo. — Sono innamorato e felice... “Perché così tardi ti ho conosciuta, perché così tardi ti ho amata”?
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La frase di Sant’Agostino suonava blasfema. Tuttavia purificata dall’innocenza della scoperta di quel nuovo mondo interiore insorgeva come espressione originale e urgente, a tradurre tutta la magnificenza e la serenità di quello stato emozionale, ugualmente mistico e decisamente irripetibile. In fin dei conti egli era ancora un prete. Dal giorno in cui aveva conosciuto i Salesiani, fra seminari e attività ecclesiastiche, erano trascorsi diciotto anni. Per loro aveva accettato di andare in missione nell’America Latina, assegnato a una parrocchia della miserabile periferia di Pucaranga. Ed era esattamente nella cucina della sua casa parrocchiale che stava giocando all’amore con una ragazza di diciotto anni appunto. Come poteva essere arrivato a tanto? Non era comunque il momento per fare quel tipo di domande. Sapeva soltanto che stava abbracciando il paradiso intero e che i tormenti di tanti dubbi si disfacevano in quella certezza soffice e vibrante, con il viso d’angelo e la bocca da donna, chiamata Suzy. — Suzy, può darsi che un giorno ciò arrivi a turbarti e che incominci a sentir vergogna di me o a maledire il giorno in cui mi hai conosciuto, ma intanto non posso nascondere che ti amo. E niente più m’importa a questo mondo, né il mio passato, né i miei ideali, né i miei credo, né le mie convinzioni morali, né i miei impegni, né i miei progetti di vita. Quel che m’importa sei solo tu.
Fu con questa sensazione di piacere intenso, quasi doloroso, che si era svegliato, sommerso ancora da quel groviglio di braccia e di gambe, inzuppato di sangue proprio ed altrui, impassibile e attonito.
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Aveva capito subito che si trovava in mezzo ai suoi amici morti, e lo stavano portando in uno di quei cimiteri clandestini che tutti quanti sapevano che esistevano da qualche parte, ma di cui le autorità militari continuavano a negare l’esistenza. Il camion, sul cui cassone erano stati gettati, vibrava e ondulava a ogni minimo accidente del terreno. Attraverso una breccia, tra i vestiti dei compagni ammucchiati su di lui, riusciva soltanto a intravvedere il cielo limpido e uniforme che il vento dell’altopiano spazza instancabilmente con le sue raffiche orizzontali. Dovevano esser diretti a Capicurana. Ne aveva avuto conferma quando era riuscito a emergere dai cadaveri e a scorgere da lontano la figura imponente dell’Illampu rivestito di nevi eterne. Roberto aveva fatto quel viaggio già una volta, qualche tempo prima, ma in un giorno di festa, insieme a una comitiva di pellegrini, che andavano a rendere omaggio alla madonna di Capicurana, il tre di maggio. C’era gente proveniente da tutti gli angoli del Paese. Molti con i loro abiti folcloristici, che sfoggiavano durante la sfilata di danze tipiche, intorno alla piazza della Virgencita. Aveva preso parte alla gioia di quel popolo semplice che sfoggiava gli abiti più variopinti che aveva, distribuiva cibi e bevande e ostentava i propri argenti e gli umili addobbi sulla carrozzeria dei camion e delle vecchie automobili. Aveva già potuto apprezzare il sapore acidulo della chicha, la bevanda casereccia profusa in omaggio alla vergine ed alla pacha-mama. Il sincretismo religioso impregnava quel sentimento popolare che regola il calendario e scandisce la vita quotidiana di tutta una popolazione. Aveva masticato perfino alcune foglie di coca e aveva bevuto un infuso di quella pianta e aveva chiacchierato in quéchua con quella gente che proteggeva una cultura millenaria semplice-
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mente ripetendo le tradizioni, a dispetto dell’invasione della tecnologia e dei capitali stranieri. Ora egli stava partecipando a un’altra passeggiata, assurda e macabra, come protagonista di una disfatta che avrebbe procurato gioia a poche persone soltanto, completamente alienate dalla sorte del loro popolo e avide esclusivamente di potere e del consenso della loro casta. Quando il camion si fermò era già notte inoltrata e Roberto sentì che il cassone stava sollevandosi e subito dopo si rese conto che, insieme a quella montagna di cadaveri, stava precipitando in un lungo salto nel buio.
Sancte Petre... Ora pro nobis... Sancte Paule... Ora pro nobis. Roberto era là, prostrato sul grande tappeto davanti all'altare maggiore della cattedrale di Messina, mentre monsignor Vaino andava pizzicando la litania, e consegnava un’implorazione alla volta alla chiesa affollatissima, in un sonoro andirivieni d’invocazioni, simile a una partita di tennis, dove il pubblico, oltre a oscillare la testa da destra a sinistra, partecipi attivamente restituendo la palla di incomprensibili espressioni latine. Roberto era in pace con se stesso. Negli ultimi tempi era vissuto domandandosi e ripetendo a coloro che lo provocavano con la domanda di sempre: — Perché hai voluto farti prete? Perché vuoi arrivare fino in fondo?
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— Forse perché non sono riuscito a trovare ancora un buon motivo per rinunciarvi. Sì, è proprio così. E qualcuno, d’altronde, deve pur farlo. Sapeva benissimo, in fondo, che per lui era appena incominciato un periodo ben diverso della sua vita, in cui si sarebbe trovato solo, in mezzo a una moltitudine di gente che sarebbe dipesa da lui, a volte ostile, poche volte cordiale, chissà. Sentiva, in quell’istante, un gran vuoto intorno e le stesse vertigini che si erano impadronite di lui, dieci anni prima, quando si era trovato sull’orlo del cratere centrale dell’Etna, dopo sei ore di marcia sui fianchi di cenere vulcanica, nel Pian del Lago. ...A subitanea et improvisa morte... Libera nos Domine... Un vento crepuscolare si andava formando dalle pianure nebbiose dell’interno dell’isola e dalle brezze del Mediterraneo, ormai quasi invisibile laggiù, lontano, e fustigava le orecchie del gruppo di novizi venuti a respirare l’aria rarefatta, mescolata a quei fumi nerastri che venivano dal bordo del cratere di nordest. Sereno e un po' spento, Roberto riceveva adesso gli sbuffi delle preghiere ondulanti, che venivano ad avvolgere il suo corpo rivestito di bianco, abbattuto al centro del presbiterio, in mezzo ad una fila di giovani come lui, che presto sarebbero altrettanti preti. Magnificat anima mea Dominum, et exultavit spiritus meus in Deo Salvatore meo...
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Angosciato, cercava di emergere da quell'inerzia anodina. Con una forza incredibile in un corpo così intorpidito e sanguinante, s’era riuscito a liberare dal mucchio di cadaveri conosciuti e ignoti, ispirando finalmente la stessa aria della cima dell’Etna, là sull’altipiano andino. La voce materna di monsignor Vaino non finiva di risuonare nella notte sudamericana, ma stavolta era il vento a rispondere alle litanie, mentre si sbizzarriva in giravolte invisibili e spruzzava sul viso di Roberto manciate di polvere impalpabile. Roberto cominciò subito a trascinarsi verso il nulla, ancora cullato dalla congerie dei ricordi e anestetizzato dalla serie di scossoni immediati e remoti che la facevano finita una buona volta con ogni traccia della sua vita di santo convinto. Non vedeva più né soldati, né operai, né case, né luci. Sapeva soltanto che doveva camminare e camminare. Si fermò quando la voce di monsignor Vaino la smise com l’elenco interminabile di santi e di angeli. In quel momento egli non era più prete, non sapeva più di latino, non pensava neanche più a Suzy, non gli faceva male più niente.
Quando si svegliò, una cholita stava cantando sottovoce un takirari pieno di tradimenti e di gelosie, mentre faceva bollire sul cucinone a legna un impiastro che diffondeva un gradevole odore d’eucalipto e d’oleandri. La stanza era fatta di adobe, come tutte le case del suo quartiere, là a Pucaranga. Senza rifiniture, con cartoni al posto dei vetri rotti della finestra. La porta, di rustico legno massiccio, era l’unico passaggio da dove filtrava una luce dritta e tagliente, che riduceva la penombra dell’ambiente a fette triangolari.
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Il pavimento, di argilla come le pareti, aveva lo stesso colore delle tegole a vista sulle travi grigiastre, irreali. In più, un letto e un rozzo tavolino con alcune cassette da frutta a mo’ di sedili. La cholita era Rosa, la ragazza che lo aveva guidato al luogo della riunione, a Labareda. Era la figlia di Silvia, la dirigente del movimento campesino del quartiere di Mirador. La giovane si rese presto conto che Roberto aveva aperto gli occhi e andò subito ad avvisare sua madre. Silvia apparve sulla soglia, con il suo viso di india plasmato sui tratti ripetitivi dell’eredità inca e raffinato da luci proprie emanate dalla lunga esperienza intellettuale e dalle recenti angosce dovute all’eccidio di Labareda. Alvaro era suo fratello e il rancore per i boia del governo riusciva a stento a mantenersi contenuto e occulto dietro quella dignità millenaria che Silvia incarnava. Il lutto, umile e rigoroso, esaltava le linee del corpo emaciato e i solchi e il pallore bruno del volto, ravvivato un po’ dalla presenza intempestiva del cloasma. Le ciglia aggrottate dimostravano l’ansia di informazioni sull’evento, soprattutto sulla morte del fratello e allo stesso tempo la preoccupazione di non affrettare troppo il pur desiderato risveglio dell’unico sopravvissuto. — Que bueno, chango. Finalmente sei tornato? — Che piacere rivederti — sospirò Roberto, quasi impercettibilmente. — Ho avuto un incubo spaventoso. — Vorrei che mi raccontassi il tuo sogno — intervenne Silvia venendo via dalla soglia ed andandosi a sedere svelta svelta, sul bordo del letto. Silvia conosceva già molti particolari di quel sogno. Adesso voleva soltanto verificare la veridicità dei suoi sospetti più inquietanti, pronta a confermare i suoi timori e a dar sfogo a tutte le sue amarezze. 61
La morte di Alvaro e di tutti i partecipanti alla riunione di Labareda era impressa con tutti i suoi dettagli macabri, nella memoria di Roberto come un ricordo nebuloso. Bisognava tuttavia distinguere gli avvenimenti che la memoria intorpidita facilmente frammischiava, sovrapponendo le sue varie componenti e creando una congerie di fatti, di volti, di parole e di suoni che lo lasciavano frastornato. Le lunghe pause fra una narrazione e l’altra, che Silvia attribuiva alla debolezza della convalescenza, erano dovute invece all’intima lotta che il giudizio doveva costantemente sostenere dentro di lui, per scegliere fra il recente e il remoto, fra il reale e il fittizio, fra l’auspicabile e il possibile. Tutta la sua storia d’amore con Suzy e la sua infanzia e adolescenza ritornavano a galla, con impertinente urgenza, ed egli doveva purgarla drasticamente, poiché creava strane combinazioni chimeriche, confondendo l’ordine cronologico degli avvenimenti e anche la priorità dei suoi stessi desideri o la sua gerarchia dei valori.
Era come quando, da ragazzino, passava in mezzo alla folla durante la festa patronale della sua città natale. Erano risa, grida, scoppi di fuochi d’artificio attorno a lui. E il caldo di piena estate, che lo faceva traspirare violentemente. E tutto a un tratto, il visino sorridente della piccola Caterina, che salutava da lontano e spariva fra le migliaia di altri volti. Ed ecco venire, uno dietro l’altro, i suoi compagni della scuola media, con un frastuono infernale. Non soltanto Angelo Presti, ma anche Giacomo Graci, Gerlando Palamenghi, Filippo Agozzino, Giovanni Musumeci, Carmelo Di Grazia, Giuseppe Onora-
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to, Francesco Di Marco e tanti altri, di cui non ricordava neanche più il nome. E insieme a loro veniva il professor Pietro Arancio, stranamente con il viso del Condorito, mentre li accompagnava per una visita archeologica esclusiva alla sua città natale, tale e quale Roberto l’aveva visto fare innumerevoli volte con le comitive dei turisti. Il cappello a larghe falde, gli occhiali a fondo di bicchiere, il seggiolino da campagna militare, con una gamba soltanto, che si portava sottobraccio come un ombrello, per conficcarne la punta in terra ovunque si trovasse, e rimanere in equilibrio sul piccolo sedile, con le gambe come contrappeso, mentre faceva da cicerone. E cominciava sempre con la frase di Goethe: Non godremo più, per tutta la vita, un così magnifico quadro di primavera come quello che viene offerto ai nostri sguardi. E non si stancava di tessere l’elogio per l’incantevole posizione della città di Agrigento, poggiata sulla collina che s’erge sulla stupenda valle dei Templi, verdeggiante di mandorli e di ulivi. Il Mediterraneo azzurro con la sua costa piana e dorata di fine sabbia. L’incomparabile clima, eternamente primaverile. La proverbiale ospitalità dei suoi abitanti e, infine, i resti millenari di numerosi templi dorici. — Divinamente bella e ridente è questa città, circondata da mura e da rocce gialle, fra le quali si elevano, come a continuarle e da esse sbocciando, le colonne dei templi —, declamava con vera passione. E camminava per i campi come se stesse sfogliando le pagine di un libro, davanti agli occhi di quella gioventù, apparentemente distratta, ma che assorbiva, perfino attraverso i
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pori della giovane pelle, i profumi della cultura greca insieme alle folate del vento della vallata. Percorrevano il cinturone di pietra su cui sono allineati i templi di Giunone, della Concordia e di Ercole, mentre ascoltavano tutte le storie e le leggende che gli antenati mescolavano in una mitologia popolata di dei molto umani e di superuomini fin troppo caricaturati. Entravano nel buio del tempio di Demetra in equilibrio sui giganteschi resti del telamonio, del maggior tempio dell’antichità, di Giove Olimpico. Seguiva, a partir da lì, l’Hypsas, il fiumiciattolo che menava al Kaos, campagna di Pirandello, da lui stesso descritto in un raro sonetto come esposto al mare africano su di uno sperone “di argille azzurre”. Era quando entrava in scena lo stesso Pirandello, con quel suo sorriso schivo che Roberto conosceva da certe fotografie, seduto sul muretto del pozzo davanti a casa sua, con un bambino in braccio, o durante la sessione di consegna del premio Nobel di letteratura del 1934, a Stoccolma, o insieme all’attrice Marta Abba, durante una tournée in Argentina. — Da questo sentieruolo tra gli olivi, di mentastro e di salvie profumato, m’incamminai pel mondo ignaro e franco — recitava il suo proprio sonetto il drammaturgo ormai famoso, davanti al giovane pubblico attento. — Tanto e tanto, o fiorellini schivi tra l’erma siepe, tanto ho camminato, per ricondurmi a voi, deluso e stanco. Roberto non era riuscito a formulare al suo illustre concittadino, neanche una delle tante domande che frullavano nella sua curiosità senza limiti, e già si trovava a visitare il museo della cattedrale. Quel che l’aveva impressionato colà era stata la “lettera del diavolo”, ivi conservata fin dall’11 agosto 1676, che satana aveva scritto con caratteri indecifrabili ed in una lingua sconosciuta, per le mani dell’ex-principessa Isabella Tomasi di Lampedusa, antenata dell’autore de “Il Gattopardo”). Costei si era 64
fatta monaca carmelitana del monastero di Palma di Montechiaro, dopo una vita tribolata da nobile della corte del re delle Due Sicilie. E subito dopo Roberto si vedeva seduto nella conchiglia dell’abside della cattedrale a chiacchierare a bassa voce con la suora, ferma sulla soglia della navata principale, approfittando del curioso effetto acustico che tanto lo divertiva quand’era fanciullo. — I popoli cristiani si stanno facendo rimbecillire dall’alcol e la loro gioventù è abbrutita dagli studi classici e dalla precoce rilassatezza dei costumi — bisbigliava a 85 metri di distanza la monaca, senza disturbare, per questo, i pochi fedeli inginocchiati nei vari punti della chiesa. — La religione esiste proprio per aiutare gli uomini a superare le miserie che li affliggono e a moderare le passioni che li corrompono — rispondeva Roberto dal suo seggio, come se stesse intrattenendosi in una discussione accademica con il suo professore di filosofia e non con lo stesso principe delle tenebre travestito da suora. — Gli uomini dai cattivi istinti saranno sempre più numerosi di quelli dalle buone inclinazioni — sussurrava dal suo angolino suor Maria Crocifissa — e pochi sono disposti a sacrificare i propri interessi a difesa del bene comune. Per questo non servono a nulla le buone parole. Il diritto risiede nella forza. — La violenza genera violenza — ribatteva Roberto — e i governi oppressori sono destinati a essere distrutti, poiché gli uomini aspirano costantemente alla libertà. — Questa è la visione ingenua dei liberalismi di sempre — l’interrompeva la religiosa, con sarcasmo. — La libertà è soltanto una parola vuota di significato ed è totalmente irrealizzabile, perché nessuno sa usarla nella giusta misura. Gli uomini sono orientati esclusivamente dalle loro meschine passioni, dalle loro 65
superstizioni, dai loro costumi, dalle loro tradizioni e teorie sentimentali. Essi sono schiavi della discordia fra i partiti e s’oppongono a qualunque armonia razionale. — Ma la maggioranza sbaglia forse meno delle minoranze. — Niente affatto! Le moltitudini formano maggioranze occasionali e superficiali. Le loro decisioni sono generate dall’ignoranza della politica e dagli interessi del momento. Quel che regge i governi è la legge del più forte, di chi più sa e di chi più persistentemente vuole. — Ma tutto ciò è immorale! — quasi gridava Roberto, alzandosi dal suo scranno secolare. La voce della donna invece divenne un soffio, intervallata da lunghi silenzi, composta e paziente. — Ogni governo possiede due tipi di nemici: uno interno e l’altro esterno. Se usasse tutte le sue risorse contro il nemico esterno, non agirebbe forse moralmente? E perché dovrebbe essere immorale pertanto la lotta con tutti i mezzi possibili contro il nemico interno che è molto più pericoloso poiché riesce a rovinare l’ordine sociale e la proprietà? La politica non ha niente in comune con la morale. Le grandi virtù popolari, la franchezza e l’onestà, in politica sono vizi. — Ma esistono diritti naturali e inalienabili, che bisogna rispettare. — La parola “diritto” è solo un’idea astratta come quella di “libertà”. In uno stato dove il potere è male organizzato, dove le leggi e il governo diventano impersonali a causa degli innumerevoli diritti che il liberalismo ha creato, avanza un nuovo diritto, quello del più forte, quello del potersi opporre e demolire tutte le regole e l’ordine stabilito; quello di mettere le mani sulle leggi e di rimodernare le istituzioni, divenendo così questo stato il padrone assoluto di coloro che hanno rinunciato volontariamen-
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te ai diritti che la propria forza consentiva loro. Il risultato è ciò che importa e giustifica i mezzi... Pietro Arancio lo conduceva adesso alla porta skea, costruita come quelle di Troia, celebrate da Omero nella sua “Iliade”. Roberto l’aveva vista soltanto nell’illustrazione di un libro e sapeva molto bene che nella sua città non esistevano più mura e porte, ma in quel momento lui era là, proprio in mezzo ai nemici invasori di duemila anni fa, trafitto dalle lance e frecce scagliate dai difensori della città appostati sull’alto delle mura. Essi erano in chiaro vantaggio, grazie alla posizione avanzata di uno dei due lati delle mura rispetto alla porta, il che permetteva loro di decimare gli invasori più audaci che fossero riusciti a raggiungerla... Al suo fianco c’era suor Olga, con una freccia infilzata nel bel mezzo del petto e sembrava Santa Tereza d’Avila durante l’estasi scolpita nel marmo dal Bernini. E quasi a coprirla interamente, il corpo di Francesco Guiscardi, il presidente dei docenti universitari, con gli occhiali schiacciati sotto il gomito di Alvaro. Quest’ultimo aveva la barba e la chioma intrisa di sangue, come se fosse una corona inamidata, e le sue labbra erano socchiuse come se avessero interrotto in quell’istante le ultime istruzioni del giovane leader.
Il risveglio, senza dubbio, aveva recato un certo sollievo a Roberto, mentre la sua narrazione aveva procurato ancor più sgomento e senso di rivolta in Silvia e Rosa, le quali lo stavano ascoltando con la morte impressa sul viso. Quando Roberto ebbe terminato, si convinse che non aveva per nulla sognato.
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Gli sguardi commossi delle due donne erano scossi da singhiozzi silenziosi, impregnando di certezze non desiderate la coscienza ancora intorpidita del sopravvissuto. Egli era vivo, ma avvolto nello stesso sudario di compassione indignata che madre e figlia stendevano sul ricordo delle vittime, decimate dalla brutalità degli usurpatori, impadronitisi di un governo molto simile a una banda di assassini. In quel momento arrivò don Alonzo con sua moglie doña Emilia e i figli adolescenti Juan, Bolívar e Alice. I figli, quando tornavano da scuola, aiutavano i genitori a tenere in ordine la biblioteca del centro comunitario del quartiere. I libri erano gli oggetti più preziosi per tutta quella gente umile e i primi a fruire tale beneficio erano proprio loro, i membri della famiglia dei bibliotecari. Dietro loro vennero don José, il calzolaio e sua moglie doña Eleuteria. I loro figli più grandi studiavano a Dunas e presto sarebbero diventati uno ingegnere e l’altra assistente sociale. I figli piccoli Walter, Sancho e Manuelito erano rimasti a casa, a giocare nel cortile. Arrivò Dolores, la padrona della chicheria, e sua figlia Matilde, con un paniere di vivande. Arrivò don Arturo, il falegname, insieme ai suoi due figli: Olegario di quindici anni e Aureliano di dodici. La stanza si riempì presto di vicini dando a Roberto la vera dimensione della sua importanza in mezzo a quella gente che era diventata la sua amiglia, la sua protezione e l’oggetto e il significato di tutto quanto aveva fatto fino allora.
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.3 LA FUGA
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L’ESAME di laurea era stato una vera apoteosi per François. Suo padre aveva scelto personalmente il vitello per i festeggiamenti in suo onore, prima di indossare il vestito delle grandi occasioni e prendere il treno diretto per Parigi. La signora Généviève aveva mobilitato famiglia e vicinato, affinché tutto fosse pronto per il loro ritorno dalla capitale. Per la sua tesi di laurea, François aveva scelto un tema di salute pubblica: “La prevenzione delle malattie endemiche mediante l’uso della medicina naturale”. Presentò, con voce cadenzata e sicura, i principali argomenti della sua tesi e rispose con determinazione alle domande che ogni membro della commissione gli poneva. Alla fine ricevette elogi e congratulazioni da tutti, a cominciare dallo stesso direttore della facoltà. — Felicitazioni vivissime, docteur De la Roche. Lei sta espletando degnamente il suo compito — si premurò esprimendo la propria soddisfazione il professor Savigny e mettendo in mostra una luminosa entiera. François ringraziò con lo stesso sorriso che aveva appena sfoderato alla professoressa Dielafoi. Ma il professore non si ritenne soddisfatto e, mantenendo ancora stretta la mano che il novello dottore gli aveva porto, si stiracchiò tutto nel tentativo di raggiungere il suo orecchio e bisbigliando con un sorriso di complicità: — Ramses è molto contento di lei. Il neolaureato tornò a fissare il docente con quei suoi occhi d’oltremare, adesso carichi di sorpresa e di perplessità. Aveva sempre considerato quel professore soltanto una persona corretta ed educata, stracarica di titoli che giustificavano il possesso della cattedra di Medicina Legale nell’Università più importante della Francia. L’aveva notato, anche se era rimasto nascosto il tempo intero, lì in fondo al tavolo della commissione esaminatrice, che assisteva alla cerimonia con il volto visibil71
mente compenetrato e sempre più radiante, come se ad ogni segno di preparazione da parte dell’esaminando, stesse ottenendo una vittoria personale lui pure. L’inattesa comunicazione intanto, aveva rovinato immediatamente la festa interna a cui il successo autorizzava François. Ciononostante dovette continuare a sorridere e a stringere la mano a professori e colleghi che si erano premurati a rendere omaggio al suo talento e al risultato — peraltro prevedibile — della summa cum laude. Quindi andò ad abbracciare genitori, fratelli, cugini e cugine, zii e zie e amici e vicini che avevano fatto quel viaggio in comitivafino alla capitale esclusivamente per partecipare all’evento. Finalmente abbracciò Lucienne, per un lunghissimo istante, che lo compensava un po’ per l’amarezza della felicità menomata, mentre la coscienza dei suoi sentimenti strumentalizzati da altri lo faceva fremere in una rivolta impotente.
Aveva reso ufficiale il suo fidanzamento già da quattro anni — come previsto nei piani di chissà chi —, in occasione della festa di San Valentino, quando era al secondo anno di medicina, con una cerimonia molto semplice, a casa dei Blanchard. Il signor Blanchard si era sentito particolarmente lusingato nel sapere che sua figlia si stava impegnando con un giovane che cominciava a farsi notare nel campo della scienza medica e dimostrava già di avere tutti i presupposti per un luminoso avvenire. E François aveva finito per innamorarsi della ragazza, la quale, d’altronde, non non era seconda a nessuna delle tante che il giovane rubacuori aveva conosciuto prima.
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Era delicata e snella, con un viso da madonna del Botticelli e possedeva una fonte inesauribile d’affetto che lo coinvolgeva e lo faceva andare in estasi anche, e soprattutto, nei momenti di depressione e di incertezza. Era diventato da tempo un assiduo frequentatore della casa di Lucienne e presto si era accattivata la simpatia dei futuri suoceri e del cognatino.
Adesso stava ritornando al suo village, insieme all’allegra comitiva, portandosi dietro, inoltre, tutta la famiglia della fidanzata. Quando arrivarono, la mattina del 21 ottobre 1973, le campane della chiesa suonarono perché era domenica e anche perché il figlio del signor De la Roche — un benemerito della chiesa madre — era diventato medico. La festa durò tutto il giorno, a cominciare dalla messa solenne, cantata in latino, durante la quale il padre del festeggiato ebbe il privilegio di suonare il campanello per la consacrazione, e il giovane dottore dovette confessarsi e comunicarsi, al centro dell’attenzione di tutti gli abitanti del paese. Quando tornarono alla tenuta Allons-enfants per il ricevimento, c’era già un esercito di camerieri e di amici, che finivano di preparare i tavoli e le sedie all’aperto, per approfittando dell’eccezionale bel tempo ed evitando così il disagio dell’angusto salone parrocchiale. Lo stesso François diede il via all’allegria generale, togliendosi il vestito attillato e le scarpe nuove e indossando un paio di pantaloni larghi di fustagno con degli stivali già resi morbidi dalle lunghe camminate di varie vacanze precedenti. Volle andare in cucina e seguire personalmente la confezione di un piatto in cui,
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oltretutto, si considerava più abile che nell’arte medica, dove altro non era che un principiante. Sua madre, che conosceva molto bene l’hobby del figlio, aveva messo da parte mezza dozzina di anatre già debitamente spennate e cotte, affinché il suo straordinario gourmet-dottore potesse sbizzarrirsi nella sua, e ben meritata, festa di laurea. Perciò, egli si diede subito da fare togliendo le punte delle ali, il collo, i piedi e le carcasse, lasciandoli a tocchetti in una pentola a parte. Fece scaldare dell’olio in un tegame e mise le anatre a rosolare daí due lati, fra gli schizzi del condimento. Dopo le tolse e le lasciò riposare. — François, guarda chi è arrivato! — gli gridava Lucienne dalla spaziosa veranda il cui immenso pergolato ombreggiava l’entrata della cucina. — È Jeannette con il fidanzato. In quel momento François stava abbrustolendo nella stessa pentola in cui erano state messe a dorare le anatre, le carcasse, le zampe, le punte delle ali e i colli che rimescolava con un cucchiaio di legno per non farli bruciare. — Ma bravi! — si entusiasmò lo chef dilettante mentre aggiungeva a quel fritto misto cipolle, carote, cipolline, sedano, aglio, alloro, salvia, rosmarino e prezzemolo, lasciandoli friggere fino ad acquistare il desiderato colore marron scuro. — Sono contentissimo che siate venuti — festeggiava, mentre badava alla cucina a legna, per non far rovinare niente. Abbracciò gli amici e strinse loro le mani, ma non si dimenticò di incaricare la vecchia Thérèse per ritirare dalla pentola tutto il contenuto, eccetto i residui. Thérèze, che tra l’altro era stata la sua balia, rimise le anatre sul fuoco a friggere per cinque minuti insieme agli altri ingredienti oltre a pomodori interi, vino rosso e acqua. Poi mise il
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tutto nel forno già caldo per cinquanta minuti, mentre François riceveva gli ultimi arrivati e faceva il giro degli invitati. In realtà tutto il villaggio si era riversato là. E tutti quanti a loro agio, gli uomini a gruppi numerosi, ognuno con un bicchiere di vino in mano. Le donne alle prese com i loro piccoli che sgambettavano tutt’intorno, o sedute in circolo a pelar patate e a raccontare ultime le novità, o in piedi davanti ai musicanti che già stavano eseguendo brani tradizionali, elegantissimi nelle loro uniformi di gala. La vecchia nutrice, lusingata per quel privilegio in più, aveva tolto le anatre dal sugo ed aveva lasciato la pentola a fuoco basso, mentre le altre donne sventagliavano a turno le braci per mantenere i tizzoni accesi, badavano alle altre pentole, apparecchiavano la tavola e mandavano via i mocciosi che si arrischiavano a entrare in cucina. Quindi prese mezzo bicchiere di sugo per sciogliervi un cucchiaio di farina, versandolo nel resto del sugo e rimescolando leggermente per evitare la formazione di grumi o che bruciasse, mentre il liquido si riduceva a metà. Colò il sugo e lo rimise a bollire per un minuto ancora per togliere tutta la schiuma e il grasso. Quando François ritornò, tutto era pronto per ricevere i suoi ritocchi magistrali. Mise il vino bianco in una padella fonda insieme al brodo e a olive nere e verdi, per farli bollire per sette minuti esatti. Aggiunse la panna e mescolò pian pianino. Tolse la pelle e le ossa delle anatre, cercando di non rompere i petti. Le immerse nel brodo e le fece scaldare fino a rendere omogeneo, quantunque leggero, il brodo. Tutti quanti avevano preso posto a tavola e c’era persino una certa impazienza nell’aria, sottolineata dall’irrequietezza dei bambini che cominciavano a prendere le posate e dalle donne che si sedevano e si alzavano continuamente, per vedere se potevano cominciare a servire i commensali. 75
Finalmente François si fece vedere sulla veranda sorreggendo un vassoio spettacolare con canards aux olives vertes et noires, contornati da purè e riso allo zafferano. L’accolsero come se fosse un re con tutta la sua corte. La banda suonò più forte e con maggior solennità di un’orchestra reale e tutti applaudirono, con grida e ovazioni prolungate, l’illustre festeggiato nonché cuoco e cameriere occasionale. Dietro di lui veniva suo padre con la porchetta à la romaine confortevolmente adagiata sul vassoio, che sprigionava anch’essa allegria, con quella fogliolina di prezzemolo dietro l’orecchio e una mela nella bocca socchiusa. Sua madre portava i contorni, aiutata da Thérèze, con le focacce quiche lorraine ed i rocamboles di spinaci e tacchino affumicato. Nel corteo si intromisero anche i genitori di Lucienne e lei stessa che portava altri piatti dal buffet insieme alla cugina Mariette, e distribuiva sorrisi a tutti gli invitati, i quali non ci vedevano più dalla fame. Nel bel mezzo del banchetto, il signor De la Roche alzò il calice e tutti tacquero. Gli stomaci rappacificati avevano anche reso gli uditi più docili. Ciò permise all’oratore improvvisato di fare il suo breve discorso di circostanza e, dopo aver manifestato tutta la sua felicità e il suo orgoglio per il successo del figlio, diede la notizia che tutti si aspettavano. — Mademoiselle Lucienne e mio figlio, il docteur François, annunziano le loro nozze che avverranno il 4 maggio dell’anno prossimo. Fu come un segnale per ravvivare l’allegria, favorita dalla fisarmonica con chitarra e clarinetto, e dal residuo vigore dei giovani che invitavano le ragazze alla danza e ai baci. François apriva il primo ballo, tessendo il valzer antico lungo l’ampio cortile, con Lucienne in un abito azzurro, lieve e vaporosa come un volo rasante di rondini.
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Si era resa una compagna adorabile e François aveva finito per metterla a conoscenza di tutti i suoi segreti. Era totalmente cosciente di essere stata scelta per decisione di estranei. Ma a lei non importava niente della maniera né dei motivi che avevano portato il suo fidanzato a voler rimanere con lei. L’amava. Ed era tutto ciò che le interessava realmente. — Devo scoprire chi ha ucciso e chi ha fatto uccidere Antoine — si era confidato un giorno con Lucienne, ancor prima di chiederne la mano. — Nel frattempo però devo far tutto ciò che loro mi ordinano. Perché non esiste altra di districare questa maledetta matassa. — Sarò sempre al tuo fianco — gli assicurava la giovane, con una determinazione sorprendente. — È un posto estremamente pericoloso — l’avvertiva François. — Non immagini neppure il rischio che stai correndo restando vicino a me. E d’altra parte non puoi allontanarti, poiché anche tu fai parte dei loro piani... — Rimarrei con te comunque. Io ti amo — insisteva la ragazza, fissandolo con quegli occhi scuri immersi nell’incantesimo della sua passione senza ritorno. — Mi dispiace di averti trascinata in questa situazione — sentì il bisogno di chiarire il giovane, visibilmente afflitto. — Mi piacerebbe assai esser tornato da te spontaneamente e mi costa moltissimo accettare il fatto che ti ho cercata soltanto dietro ordine di questi maniaci che si sono intrufolati nella nostra vita come ripugnanti sanguisughe. — La vita è piena di sorprese. E difficilmente possiamo prevedere il futuro. Per me quei cialtroni sono stati solo l’occasione che mi mancava, e che mille volte ho desiderato, per rimanere con te.
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François fece una carezza alla ragazza, che di fronte al destino dimostrava tanto coraggio, sbocciato da un’irriducibile capacità d’amarlo. Era diventata la sua confidente e la sua consigliera e la sua amica e amante e compagna, e perfino il suo unico motivo per continuare a vivere e a combattere. L’impeto e la sensualità dei primi tempi si erano tradotti in un affetto profondo per quella giovane che era stata forzata a entrare nella sua vita, ma che adesso era divenuta una fonte inesauribile di buoni sentimenti. La stessa amarezza e rivolta che dominavano il cuore di François, si stemperavano in una pace provvisoria, che dava respiro e ispirazione per continuare a studiare e a programmare la propria vendetta, in modo calcolato e con relativo sangue freddo. — Sei bella — riconobbe il giovane, con quella voce vellutata che faceva tremare le fondamenta della personalità della ragazza. — Sarà per me la più grande gioia poter costruire una famiglia con te, fosse anche su una polveriera. — Dovunque tu voglia — confermava la fanciulla, immersa in quell’onda di voluttà, mentre lui raccoglieva con le mani l’aura del suo corpo, in una lenta passeggiata lungo le spianate e le pieghe persino più recondite. Le vesti divenivano, poco a poco, dettagli effimeri della sua figura, mentre venivano deposte con la stessa cura con cui il soldato ammaina la bandiera. E la pelle rosea veniva smussata al sapore della penombra della stanza verginale, e tutti i suoi rilievi volevano imporsi all’attenzione dell’amante ormai soggiogato da quell’alluvione di piacere senza limiti.
Così avvenne che gli anni del corso di Medicina andarono scorrendo tra i gelidi inverni parigini e le estati profumate della
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sua terra. E negli intervalli, i viaggi programmati. I soldi sufficienti, sempre alla casella postale 3247 dell’ufficio delle poste all’Opéra. Insieme a Lucienne fece il viaggio in treno attraverso in Francia e in Italia, durante le vacanze estive del 1969, utilizzando i biglietti circolari che aveva trovato nel pacchetto insieme a tutto l’itinerario tracciato minuziosamente. Dovevano fare varie consegne nelle molte città dove sarebbero passati. I pacchi erano sigillati con cura e la missione consisteva soltanto nel consegnarli personalmente al destinatario. — È evidente che mi stanno usando come un piccione viaggiatore. Ma perché hanno voluto che andassimo insieme? Sarà sufficiente questo servizio? Oppure dovrò uccidere qualcuno solo per soddisfare le loro voglie? E poi, perché Antoine è stato ucciso? — I dubbi interminabili occupavano tutti gli intervalli delle sue normali attività di studente e i momenti di dialogo amoroso con la compagna. — Dovremo aspettare per vedere che cosa succede — tentava tranquillizzarlo Lucienne con fare materno, mentre lei stessa andava cercando le ragioni che giustificassero tutto quel garbuglio di domande sospese in aria. Viaggiarono di giorno, godendosi la piacevole vista della campagna dell’interno della Francia, nonostante i campi fossero per lo più gialli di stoppie, dove non c’erano distesi vigneti ad addolcire il paesaggio con quelle loro grandi macchie verdi. Indossavano abiti leggeri, lui in maglietta e pantaloncini e lei con una larga veste di cotone a bretelle, poiché il caldo era intenso e l’afa opprimente, soprattutto quando il treno passava per le stazioni intermedie: Sens, Joigny, Montbard, Digione. A Digione sostarono quasi mezz’ora, in una stazione molto movimentata, dove poterono rifornirsi d’acqua fresca alla fonta79
nella più vicina. Molte persone scesero dal treno e tante altre salirono. Loro due se ne stettero per qualche tempo da soli nel loro scompartimento di seconda classe, con i bagagli, i pacchetti e l’immancabile album da disegno per le annotazioni grafiche di Lucienne. Ne approfittarono per scambiarsi tenerezze e parole amorose, finché non sopraggiunsero altri passeggeri ad affollare lo scompartimento. Arrivarono a Lione all’imbrunire e andarono immediatamente all’hôtel Saint-Fons, vicino alla stazione. I documenti trovati insieme ai biglietti li dichiaravano come signor e signora Berliet. Non trovarono perciò difficoltà a prenotare una stanza matrimoniale, con bagno e persino aria condizionata. François riempì la vasca e andò subito a bearsi dell’acqua tiepida ricolma di spuma. Lucienne apparve subito dopo, sulla soglia del bagno. Nuda e verginale come la venere del Botticelli. François stette ad ammirarla, fissandone la bocca sottile, la fronte ampia e la cornice dei capelli sul castagno, fini e ondulati, che le cadevano sulle spalle esigue. La carnagione chiara le rivestiva i seni da ninfetta, con i capezzoli protesi sulle areole rosee. Le lunghe braccia languidamente incrociate sul ventre non permettevano alle mani di occultare il pube già da adulta e le anche graziosamente arrotondate formavano un elegante capitello dai bordi allineati alle cosce formose e le ginocchia delicate e le gambe snelle disegnavano due armoniose colonne solidamente sostenute dai pur piccoli piedi. Però quel che più lo affascinava, erano gli occhi. Sereni e sicuri, senza arroganza né timidezza. Due grandi olive d’avorio, marcate dalle pupille scure, simmetriche ed equilibrate sotto le sopracciglia altere. — Vieni e amami — l’invitò con semplicità. E quindi lasciarono che i loro corpi dicessero il resto, in una dimensione fatta d’acqua e di sospiri e di conforto. 80
I pacchetti portavano l’indirizzo scritto a mano con una calligrafia ricercata che ricordava la scrittura di un amanuense del medio evo, e François uscì, quella stessa sera, a consegnare il primo collo. La via era situata nella vecchia Lione e lui vi andò a piedi, fiancheggiando il margine destro del fiume Saône, e raggiungendo il complesso degli edifici medievali e rinascimentali che circondano la cattedrale. La via du Rhône era, in realtà, una viuzza poco illuminata che difficilmente avrebbe consentito il passaggio di un furgoncino. La pavimentazione era fatta di sassi di fiume, lisci e rotondi, che formavano bizzarri disegni geometrici, con gli interstizi riempiti da una malta grossolana opera, sicuramente, di muratori del 1200. François ascoltava il rumore dei passi che risuonavano come se fossero propagati da un amplificatore. E a ogni istante si aspettava che uscisse qualche antico abitante da uno di quei portoni rosi dai tarli, per indagare su quel che stesse facendo un intruso in quel rimasuglio di mondo che apparteneva soltanto al passato. La sua ombra si allungava e si accorciava, sempre aderente a tutti gli anfratti del selciato e alle cantoniere dei portali delle case, a seconda che si stesse allontanando da un lampione o avvicinando a un altro appeso anch’esso alla facciata d’un edificio. Presto fu invaso da un vero e proprio panico, come quella notte, quando aveva solo undici anni, in cui era dovuto tornare a casa da solo, a Aix-en-Provence, dopo essere stato al cinema a vedere un film di marziani che invadevano il pianeta terrestre. Dovette controllarsi e far squillare la campanella tirando un cordoncino che pendeva a fianco di una piccola targa, dove a gran fatica riuscì a leggere il nome del proprietario che corri-
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spondeva perfettamente a quello segnato sul pacco: Mr. Claude Bourgelat. Quel nome gli provocò anche un brivido alla schiena perché gli ricordò il famoso fondatore della prima scuola di Veterinaria del mondo, vissuto in quei paraggi, intorno al 1762. — Chi è? — gridò una voce di donna attraverso lo spiraglio di una persiana socchiusa, esattamente al di sopra del portone. — Devo consegnare una missiva al signor Bourgelat — si fece coraggio François. — Sono appena arrivato e domani dovrò proseguire il mio viaggio — tentò di giustificarsi, senza che nessuno glielo avesse chiesto. Aspettò cinque interminabili minuti prima che il pesante portone di legno cigolasse sui suoi cardini e comparisse la figura di un uomo alto, faccia lunga e angolosa e capelli appena ravviati, tutti all’indietro, vestito con una robe de chambre di seta nera con motivi floreali copiati da antichi vasi cinesi. — Chi ti ha mandato? — rispose appena la figura ritta in controluce, con voce cavernosa. — La vérité, l’âpre vérité — dovette dire François, senza logica alcuna. In quel momento, dire la verità, la dura verità sarebbe stato un motivo sufficiente per indisporre qualsiasi sconosciuto, se non fosse stato per il tono incolore preso in prestito dalla celebre frase di Danton e che qualcuno l’obbligava a ripetere. — Entri e faccia come se fosse a casa sua — l’invitò, improvvisamente cerimonioso, l’enorme gentiluomo, senza alcun segno di compiacimento sul viso. François tentennò dinnanzi ai suoi pro e contro, mostrando all’anfitrione soltanto l’indecisione dell’invitato com l’obbligo di rifiutare, mentre allo stesso tempo il rituale gli impone di accettare l’invito. La “dura verità” era che aveva la pelle d’oca a causa di quel salto solitario nel passato remoto. 82
Il salone da séjour era ampio e austero come l’aula delle udienze di un tribunale. Claude Bourgelat aveva indicato all’ospite una poltrona di cedro rabbrunito, sulla sinistra del grande camino, ricevendo in consegna la missiva senza degnarla di uno sguardo. Un orologio a pendolo dominava la parete di fondo del salotto, di fianco a una grande finestra gotica formata da tre archi ogivali, dietro lunghe tendine di pizzo. La brezza notturna faceva danzare le tendine in un’ondulazione lenta e periodica, entrando da un’anta aperta di legno scuro a piccoli riquadri di vetro. Il battito del pendolo misurava il tempo silenzioso che scorreva dalle dita veloci di una giovane ricamatrice seduta su una sedia di cedro dalla spalliera alta, di fronte alla poltrona in cui François si era seduto. Un cocker se ne stava comodamente sdraiato nel bel mezzo della sala, mescolando i suoi lunghi peli con la lana del grande tappeto bianco. L’arrivo dell’estraneo aveva meritato da lui soltanto una strizzatina d’occhio, senza nessun altro movimento del corpo pigro. — Mia moglie Larisse — fece le presentazioni il padrone di casa. — Il signor... — non gli aveva chiesto il nome. — Marcel Berliet, enchanté — continuò il visitatore, senza esitazione, rivolto alla giovane signora. Le mani di costei non interruppero neppure per un istante il lavoro meticoloso e veloce dell’ago preciso, come se avessero fretta di terminare la lunga tovaglia di lino che andavano coprendo di ori e di colori luminosi. Portava una cuffia bianca con rifiniture di merletto, allacciata sotto il mento con un nastro di seta. Alzò soltanto gli occhi, verdi come alghe marine, e concesse un’impercettibile riverenza con la testa, tornando immediatamente all’ordine dei suoi pensieri. Il viso regolare e la bocca composta avevano l’atteggiamento rasse83
gnato delle antiche compagne di uomini d’affari, dedite alla funzione anonima di scudo e rifugio nelle tormente della vita. — Horret animus temporum nostrorum ruinas persequi — cominciò il colloquio lo strano padrone di casa. Ci mancava solo questo. Dover mettersi a chiacchierare in latino con un doppiatore di fantasmi. — In qualsiasi epoca della storia umana la realtà del momento fu sempre considerata, dai contemporanei, più terribile di quella dei tempi passati — tentò di generalizzare il giovane, dimostrando che aveva capito benissimo il senso della frase di San Girolamo, e persino usandola come contraddittorio, disorientato al tempo stesso a causa dell’irrazionalità dei fatti, molto più che per la mancanza di logica dei discorsi. — Tuttavia la vita ci spinge sempre nella direzione del possibile, mentre ci impone la contingenza del reale — filosofò ancora à la Boutroux, cercando forse di esorcizzare l’assedio di un passato così distante. — Sono pienamente d’accordo — concesse l’altro, con la voce che tradiva una subitanea, anche se contrariata, ammirazione. — Nam quis iniquæ tam paciens urbis? — avrebbe detto Giovenale, ancora nel primo secolo dopo Cristo. E oggi stesso, chi sopporta più questa gente? Sembra che siano tutti impazziti. — Ma senti chi parla — pensò François e fu quando gli balenò nella mente chi era, nell’antichità, che doveva assomigliare a quel tipo singolare. L’imperatore Caligola. E il riferimento a Giovenale gli riportò alla memoria un altro brano della prima satira dello stesso scrittore che ricordava l’episodio dell’imperatore pazzo, il quale aveva obbligato i perdenti di un concorso di oratoria, organizzato proprio nella città di Lione, a premiare i vincitori e a tesserne le lodi. I peggiori, però, avrebbero dovuto cancellare i propri scritti con la lingua, a meno che non avessero accettato di sottoporsi allo scudiscio o di essere gettati nel fiu84
me. — Accipiat sane mercedem sanguinis et sic palleat ut nudis pressit qui calcibus anguem aut Lugdunensem rethor dicturus ad aram (Riceva il prezzo del proprio sangue e impallidisca come chi mette il calcagno scalzo su di un serpente o come un oratore che s’avvicina all’ara di Lione) — citò senza esitazione, agli occhi sbarrati dell’anfitrione. François si rese conto che, grazie alla sua erudizione, non avrebbe sofferto la vergogna riservata agli antichi oratori mediocri, vittime, chissà, dell’unico atto sensato di chi era stato capace di nominare il proprio cavallo senatore della repubblica. — Avrei piacere di farti vedere la mia biblioteca — lo sorprese quel Bourgelat dell’ultima...incarnazione, dopo che si furono centellinato un infuso di erbe innominate, che aveva avuto il merito di far scomparire finalmente la tensione del giovane. Si avvicinò al camino spento e si curvò per prendere un alare, uno di quegli aggeggi che servono a smuovere i tizzoni ardenti e a ravvivare il fuoco. Solo che, stranamente, mise la punta in una piccola fessura che François non aveva notato fino a quel momento. Si sentì il lieve rollio d’una porta scorrevole e a fianco del camino si era creato un vano nella parete, come se fosse l’imboccartura di un tunnel oscuro. Presto si aprì davanti a loro una grande stanza tenuamente illuminata. Nonostante le pareti fossero tutte quante foderate da librerie di legno pregiato, strapiene di libri e di fascicoli, sembrava piuttosto il laboratorio d’un alchimista che una biblioteca,. Fra una libreria e l’altra, c’erano vari tipi di animali selvaggi imbalsamati appesi in ordine sparso, sotto la luce fioca diffusa dall’abat-jour dell’immensa scrivania al centro della stanza, che sembrava voler rianimare i loro movimenti o restituir loro gli sguardi ferini, più con la crudezza delle ombre che con la modestia del suo chiarore. Sul tavolo s’ammucchiavano carte, alambicchi e apparecchi rudimentali che dovevano essere stati co85
struiti e usati dai padroni del palazzo di varie generazioni addietro. Negli angoli della stanza, alcuni tavolini con altre carte e macchine. L’attenzione del visitatore fu subito attratta da uno di questi, su cui giacevano soltanto due teschi sotto una campana di vetro, con le mandibole spalancate come se si stessero scambiando una perenne sghignazzata. François trasalì a quella macabra visione, nonostante si fosse già reso perfettamente conto della prevedibilità di qualsiasi sorpresa. Il suo orrore, tuttavia, si trasformò presto in meraviglia, quando il singolare personaggio premette un bottone vicino al tavolo e la campana di vetro fu subito inondata da radiazioni azzurrine, trafiggendo le orbite e le bocche e i nasi dei teschi con il loro scintillio capriccioso, misto a un’allegria civettuola e a una misteriosità senza pretese. — Uno dei miei antenati fu il precursore dei raggi laser che oggi stanno suscitando grande sensazione nei più qualificati laboratori di fisica — spiegò Bourgelat, subito dopo aver toccato un punto qualsiasi della parete, il che fece richiudere il vano per il quale eran passati poco prima, quasi senza rumore. — I teschi sono veri? — domandò interessato il giovane studente d’anatomia. — Ma certo — completò l’altro, mentre gli faceva vedere tante altre cose interessanti. — Fu il figlio più giovane dell’inventore che si preoccupò di conservare in tale modo qualcosa dei suoi genitori. François era completamente spaventato e perplesso, ma la sua curiosità era divenuta sempre più assillante e voleva veder tutto e quasi implorava il cicerone affinché gli mostrasse e spiegasse ogni più piccolo dettaglio. — È semplicemente sorprendente la ricchezza della nostra cultura e quante cose ancora ci sono da scoprire o da togliere dal dimenticatoio — vibrava, con ingenua spontaneità il ragazzo, 86
mentre il padrone di casa sceglieva alcuni volumi impolverati dalle librerie straripanti. — Il punto debole della nostra cultura, tuttavia, risiede nel concetto di libertà, che fu mal interpretato fin dall’epoca della rivoluzione — osservò Bourgelat. — Lei non crede che gli ultimi duecento anni ci abbiano fatto progredire enormemente, proprio grazie a tale concetto? — È chiaro che c’è stato un enorme progresso dell’umanità. E il merito è stato senz’altro principalmente del nostro popolo. Ma D’Alambert, Diderot, Montesquieu e altri intellettuali dell’epoca si rattristerebbero molto se vedessero quel che ne abbiamo fatto dei loro ideali e dei loro sforzi. La maggior parte dei nostri mali é opera nostra. — Vuol dire che non serve a niente voler migliorare l’umanità con i mezzi offerti dalla scienza e dalla riflessione filosofica? — Quando da un lato si considerano gli enormi lavori degli uomini, tante scienze profonde, tante arti inventate, tante forze impiegate, abissi superati, montagne rase al suolo, rocce frantumate, fiumi resi navigabili, terre bonificate, laghi solcati, paludi prosciugate, enormi costruzioni innalzate sulla terra, il mare affollato da navi e marinai e, d’altro si cerca, con un po' di riflessione, i veri benefici che da tutto ciò ne derivano per la felicità della specie umana, non si può non rimanere colpiti dall’impressionante divario esistente tra le cose e deplorare la cecità dell’uomo che, per alimentare il proprio pazzo orgoglio e chissà qual vana autocelebrazione, corre dietro a tutte le miserie che la natura benevola aveva fatto di tutto per allontanare da lui — quel Caligola estemporaneo stava leggendo Rousseau senza neppure aprire il libro che aveva preso dalla libreria. La copertina di cuoio aveva un titolo che François non ebbe neanche bisogno di leggere per poterlo immediatamente riconoscere: Di-
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scours sur l’Origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes. — Gli uomini sono davvero naturalmente buoni? Gli interessi ed il benessere individuale sono davvero e fatalmente inconciliabili con la felicità di tutti quanti? — Obiettò François. — Rousseau direbbe di sì. In realtà, la società spinge gli uomini a odiarsi, mentre li esorta a coordinare i propri sforzi per il bene comune... Quando tornarono in salotto, François ebbe l’impressione di essere entrato da una porta sbagliata. Soltanto il cocker era rimasto al suo posto, nella stessa posizione in cui l’aveva visto prima. Però un po’ troppo rilassato. Anzi completamente immobile. Il tappeto e anche il pelo immacolato del cagnolino avevano macchie di sangue, il cui tocco di vivacità contrastava in modo stridente con il suo sguardo fisso e smorto. Pure Larisse era ancora là. Le sue mani tuttavia avevano sospeso il fine e interminabile fremito che andava illuminando di colori il candore della stoffa. Era là, prostrata sulla spalliera della sedia che qualcuno aveva rovesciato. Il viso sul dorso della mano sinistra guardava qualche punto del battiscopa sul lato opposto, senza nessun interesse. L’altro braccio riposava lungo il corpo, che seguiva anche lui la linea angolare del sedile, ormai perpendicolare al pavimento. La cuffia della giovane donna era diventata uno straccio in più, insieme ai suoi vestiti sparsi alla rinfusa tutt’intorno, in un caos di poltrone, carte, cocci di cristalli e piatti e quadri e porte d’armadio e vasi e piante e terra... Le tendine continuavano a danzare al vento della sera, ormai simili, però, alle vele sfilacciate di una nave sorpresa da una tempesta in alto mare. La chioma rossiccia di Larisse, finalmente libera, partecipava anch’essa a questa danza silenziosa ed era l’unica cosa che movimentasse un po’ quella scena di distruzione. La sua bocca era 88
rimasta socchiusa e sembrava che volesse rompere adesso il silenzio che aveva conservato a lungo durante la sua vita. Il suo corpo nudo poneva in mostra, con inaudita irriverenza, le natiche rosee, mentre il resto della pelle affidava la tenerezza pudica ai livori della morte. — Marsigliesi bastardi! — mormorò Bourgelat. E quell’uomo colto e superiore era adesso l’immagine stessa della sconfitta inaccettabile. Nemici silenziosi ne avevano invaso la casa, forse in cerca del plico appena ricevuto e gli avevano messo tutto a soqquadro. Avevano violentato la moglie e stritolato il cane. Una fatalità temuta, anche se pareva attesa. — Vai, finché sei in tempo — disse l’ospite, con il volto impassibile. — Che sta succedendo? — domandò il giovane. Ma non aspettò la risposta. Se ne andò di corsa, in preda al terrore e all’angoscia. — Lo scoprirai da solo — lo sentì gridare, mentre usciva dalla stanza. E la voce dell’uomo grande e sapiente si mescolava a singhiozzi rauchi, soffocati da una rivolta impotente.
François trovò Lucienne adorabilmente viva, abbandonata alla beatitudine del sonno che sopravviene alle fatiche dell’amore. La svegliò dolcemente con un bacio e non ci misero neanche cinque minuti a rifare le valigie e a saldare il conto dell’albergo. I loro sforzi per dimostrare naturalezza non dovevano aver convinto neanche un po’ il maître che, pur con ammirevole tatto professionale, eseguiva lo sgradevole compito di chiudere i conti in piena notte. Durante il viaggio, François fece il resoconto dell’avvenuto alla fidanzata.
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— Evitiamo Marsiglia, suggerì Lucienne. Dev’esserci qualcuno che conosce il nostro itinerario e vorrà interferire nei piani che altri hanno tracciato per noi. — Forse potremo imparare molte cose, se proseguiamo esattamente come predisposto. Perché sono ancora completamente all’oscuro e tutto pare sempre più complicato — contestò François. Alla stazione di Marsiglia, François fece nascondere Lucienne nel bagno del vagone, mentre lui stava tutto pigiato fra il finestrino e il bagagliaio dello scompartimento a osservare la banchina affollata di viaggiatori. I bastardi marsigliesi dovevano stare al varco e quei due tipi laggiù in fondo alla banchina, avrebbero potuto essere degli appartenenti alla banda che aveva fatto quel macello a casa dei Bourgelat. La coppia finì perciò per rimanere sul treno e proseguire con le tendine abbassate fino a Milano, entrando in Italia per Ventimiglia.
Scesero alla stazione centrale e si tuffarono nella marea di gente che andava e veniva, di bagagli, di portabagagli che spingevano i carrelli stracarichi, capistazione che davano ordini e fischi, fischi e frenate stridenti di treni, venditori di panini imbottiti, giornali illustrati, caramelle, bomboloni, birra, acqua minerale... L’estate è calda e afosa a Milano. Per questo la popolazione si riduce alla metà, quando il resto fugge, anche per una sola settimana, verso le spiagge della penisola, soprattutto del nord, Rimini, Viareggio, Alassio... In compenso ci sono molte comitive di turisti del nord Europa che iniziano i loro tours, esattamente a Milano, sfruttando le sue ricchezze artistiche e culturali o sem-
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plicemente approfittando delle comodità di una delle città più avanzate del mondo. François non era riuscito ancora a completare la narrazione dell’avventura che aveva appena vissuto Lione e sperava di poterlo fare con calma, mentre svuotava la valigia a doppio fondo, da lui stesso montata seguendo le istruzioni una volta sistemati nell’albergo che era stato prenotato per loro due. Proprio all’uscita dalla stazione, però, arrivò un taxi esattamente nel momento in cui loro stavano occupando il primo della fila davanti al marciapiede. Era un’utilitaria FIAT 650 fiammeggiante, guidata da un autista che portava un berretto marron. Con la cortesia di un vero gentiluomo invitò la coppietta a salire sulla sua macchina e lui stesso si premurò di portare i bagagli e di sistemarli nel bagagliaio, dopo essersi spiegato con il collega. — Il principe vi aspetta — quasi cantò sottovoce il tipo — Prego, mettetevi a vostro agio. Giacomo Organdi era molto di più di un semplice autista. Era un maggiordomo. Il berretto gli teneva in ordine la chioma brizzolata, ancora folta, contro i capricci del vento che invadeva l’abitacolo. Nonostante fosse il vento più caldo che i due giovani avessero mai conosciuto, la velocità dell’auto lo rendeva persino gradevole e rinvigorante, in quell’afa insopportabile dell’estate milanese. Percorsero tutta la città e Giacomo si rivelò una guida entusiasta ed eloquente nel mostrare i principali luoghi turistici. Sfoggiava con profusione il suo francese, anche se adulterato da espressioni tipicamente lombarde, che rendevano la sua spiegazione ancora più attraente e pittoresca. — La Scala è il più importante teatro lirico del mondo — affermava con convinzione. E anche a rischio di esagerare un po’, soggiungeva: — Più del Metropolitan di New York o dell’Opéra di Parigi. 91
Il duomo sembrava sbocciare in quell’istante dall’effervescenza religiosa che aveva dato inizio, nel 1386, a cinque secoli di opere edili. Le pareti respiravano come la pelle di una donna, su cui ad ogni uomo piace appoggiare il capo ed ascoltarne i battiti. La pietra, fra l’argento e l’avorio, né la nebbia della città industriale era riuscita a offuscare, né il vento e la pioggia l’avevano privata della sua morbidezza levigata e tiepida. La galleria Vittorio Emanuele, con quell’aria da shopping center della nobiltà estinta, imprestava all’eloquenza del maggiordomo l’opportunità ideale per qualsiasi sproloquio. Nella Piazza dei Mercanti Giacomo ricordò che in epoca medievale vi si svolgeva il mercato. Tre palazzi di quell’epoca ancora la isolavano dai rumori delle vie limitrofe, sommergendo i passanti in un silenzio sepolcrale. E finalmente arrivarono al castello. Si erano infatti meravigliati dell’assenza di costruzioni residenziali nella regione della pianta della città corrispondente all’indirizzo indicato sul pacchetto. Il castello sforzesco in realtà è un grande museo ricco di capolavori artistici del rinascimento italiano. Nel centro della sala principale c’é la Pietà Rondanini, con un Cristo morto incompiuto e il viso della madre appena abbozzato dai colpi dello scalpello di Michelangelo, sporgente dal blocco difforme. Lucienne girò per un lungo tempo senza istanti, attorno alla materia amorfa che aveva fissato per sempre un momento del genio fiorentino in quella massa di ombre e di luci da cui emergeva, sospesa anch’essa nel fluire del tempo, la tragedia dell’umanità riversata dalla superficie immacolata del marmo di Carrara. François vedeva sempre e solo davanti a sé il volto dell’amico Antoine, senza vita e senza risposte ai dubbi che la Vergine e Giuseppe d’Arimatea, e tutti gli altri che non entravano in quel guazzabuglio, ponevano, con la loro espressione attonita: 92
— Perché? Era la domanda che lo tormentava ovunque. Il dolore per la perdita dell’amico e il disappunto per non essere riuscito a trovare il modo di liberarsi da quella dipendenza programmata, divenne particolarmente pungente quando si trovò dinnanzi al piccolo quadro del Cristo morto del Mantegna, alla pinacoteca di Brera. Era ancora una volta il viso sconcertato del giovane amico proiettato a partire dai piedi, dal grande pioniere della prospettiva, sulla minuscola tavola di quaranta centimetri, proprio come l’aveva visto subito dopo il colpo mortale della lancia del centurione. Per Lucienne, invece, gli affreschi, gli arazzi, le statue, i vasi e la mobilia secolare rappresentavano soltanto l’habitat naturale delle sue fantasie sedimentate in tante ore di studio e di scuola. Il quel momento, tutto si rivestiva dei colori della realtà residua di un passato persistente, gratificante. Videro le opere di Giovanni Carpaccio, Caravaggio, Raffaello, Leonardo, El Greco, Rubens e Goya, in una volata che toglieva persino il respiro a Lucienne, che non riusciva mai a soddisfare il desiderio di vederne ancora.. — Come mi piacerebbe essere vissuta in quell’epoca e aver conosciuto personalmente quei geni insuperabili — si esaltava la ragazza. — Avresti dovuto affrontare anche gente come Lucrezia Borgia o la meschinità dell’aristocrazia dell’epoca, preoccupata a nascondere le proprie tare con l’opulenza del modo di vivere o anche grazie alle elargizioni a favore dell’arte — commentava cupamente François. Erano stati ospitati in un appartamento veramente principesco. Negli armadi monumentali c’erano abiti femminili che le principesse del casato, e chissà di quali altre corti ancora, dovevano aver indossato nei secoli passati. 93
Lucienne si divertì a indossarne alcuni e si perdeva in sonore risate per le smorfie che François faceva nel vederla scomparire in mezzo a quei fronzoli stravaganti o strangolata da grandiosi colletti. Finalmente, si coricarono nell’alcova rinascimentale, stavolta senza più panni di nessun genere. Affogarono in un mare di voluttà, rivestiti soltanto di sogni iridescenti, dai quali allontanavano con determinazione le ombre e le incertezze, le paure e le preoccupazioni. Si svegliarono solo quando un lacchè in divisa settecentesca li chiamò di mattina presto per condurli al salone dei ricevimenti... Quando arrivò il principe, François ebbe la netta impressione che si trattasse dello stesso Giacomo Organdi, dentro quei paludamenti ostentatamente eleganti. Dopo le presentazioni, gli consegnò la missiva, fissandolo negli occhi, senza soggezione. Incredibile, ma quell’anziano tronfio e flemmatico aveva qualcosa dell’agitato e cerimonioso maggiordomo. Ne fece segno a Lucienne che fino a quel momento non aveva fiutato nulla di strano e tornò ad assumere il proprio ruolo di messaggero involontario, con naturalezza e cortesia. Il principe era Ludovico Sforza, forse l’ultimo della casa, visto che era scapolo e solitario. Parlò poco di sé, ma quanto bastasse per convincere definitivamente François che il principe era Giacomo e che il travestimento da maggiordomo doveva servirgli per difendere l’eredità o persino la vita stessa. Il padrone di casa condusse con benevolenza gli ospiti a conoscere il palazzo, come aveva già fatto Giacomo. I suoi commenti però acquistavano il peso e la posa non soltanto delle parole di un competente, ma soprattutto di chi possiede esperienza e autorità ataviche.
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E il colloquio trattò presto e naturalmente dell’autorità e del potere. In fin dei conti erano una giovane coppia di plebei sai di talento, che stavano dialogando con un vecchio e nobile saggio. — Senza il dispotismo assoluto, la civilizzazione non potrebbe esistere. Le masse trasformano facilmente la libertà in anarchia, la più grave forma di barbarie. Un progetto condiviso da tante teste, quante ce ne sono nella massa, può perdere di unità e diventare inintelligibile e irrealizzabile. — Ma a che servirebbe l’ordine e la civilizzazione se non fossero un prodotto della libertà? — obiettò il giovane plebeo. — La forza soltanto è capace di creare l’ordine e il progresso. La nostra parola d’ordine dev’essere: autorità, astuzia e ipocrisia. Il nostro maggior obiettivo: il potere, esercitato con violenza e determinazione. Non esiste progresso senza ordine e non esiste ordine senza il dispotismo degli illuminati. François sentiva un misto di fascino e di rispetto verso il vecchio, nonostante ripudiasse profondamente quell’atteggiamento così retrogrado e comprensibilmente anacronistico. Deviò l’argomento, nella ricerca intenzionale d’informazioni, più che nel vano tentativo di convincere chicchessia delle proprie idee. Apprese così, che esisteva una vera e propria organizzazione mondiale, i cui capi erano alcune intelligenze privilegiate, scelte appunto in base ai meriti personali, oltre a una eventuale ascendenza nobiliare. — Cosa m’aspetta a Roma? — chiese alla fine il giovane che aveva a sua disposizione soltanto alcune indicazioni sull’itinerario, ma non capiva per niente il senso di tutto quell’andirivieni. — Un solo rintocco ti orienterà — suggerì il principe, con aria di complicità paterna, mentre congedava i due giovani con la stessa maestà e amabilità con la quale li aveva ricevuti.
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A Roma i due erano solo dei giovani turisti che si godevano l’estate della capitale italiana. Dopo aver trovato sistemazione in un albergo vicino alla Stazione Termini, Lucienne andò per conto suo a visitare tutte le pinacoteche, musei e rovine che la sua insaziabile fame di sapere spingeva a divorare. François, invece, si mise immediatamente a eseguire il lavoro che le istruzioni, anche se un po’ enigmatiche, l’obbligavano a svolgere. Salì per la scalinata di marmo del palazzo dei senatori, percorse i corridoi, i saloni, i giardini di quello e di tutti gli altri edifici che compongono l’insieme imponente del Campidoglio, come avrebbe fatto qualunque visitatore compulsivo di quei monumenti della megalomania imperiale. Quando ebbe raggiunto l’ultima rampa della torre del palazzo senatorio, François andò dritto dritto agli ingranaggi del grande orologio. Percorse tutti i camminamenti e le scalette che, da quattro secoli, consentono l’accesso per la manutenzione dei macchinari, sicuro di trovare in qualche angolo un messaggio o un plico. Cercò perfino dentro la campana paterina, che suona soltanto nelle grandi occasioni. Non c’era niente in nessun posto. I finestroni della torre lasciavano la luce folgorante della mattinata canicolare invadesse senza cerimonie tutti gli angoli della torre. Da lassù si scorgeva la piazza progettata da Michelangelo, con il monumento dell’imperatore Marco Aurelio rimosso dal Laterano nel 1535 e proprio al centro di una stella di dodici punte. Da questa si dipartivano forme ogivali che davano l’impressione di una grandiosa trina di chiaro travertino, con i cubi scuri del basalto incastonati in un giuoco di prospettiva
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sferica, come se il Campidoglio fosse, insomma, la cupola del mondo. Tutto a un tratto, un rintocco dell’orologio risuonò nelle sue orecchie, riverberando per tutto il corpo. In quell’istante egli stava osservando l’ombra del monumento e notò il braccio del cavaliere proiettato esattamente sulla punta corrispondente all’una, nella grande stella di marmo. Sudato fradicio — per il caldo e per l’ansietà, — François scese in fretta fino in piazza e se ne andò verso la direzione indicata da Marco Aurelio. Dietro l’angolo del palazzo del museo capitolino c’era un venditore ambulante cieco, che ripeteva all’infinito: — Roma, caput mundi. Roma, caput mundi — e tendeva una fotografia della piazza del Campidoglio, vista dallo stesso punto di osservazione da cui François era appena sceso. — Quanto costa? — provò com il suo italiano François. — Ne voglio una. — Roma è la capitale del mondo — insisteva il cieco, fissando l’infinito —. Quanti rintocchi? — domandò a un tratto, curiosamente. — Uno soltanto — rispose François, che aveva carpito al volo il senso della strana domanda. — Mi orienterà o mi confonderà ancor di più? — aggiunse tra sé. Il cieco fece allora una cosa davvero sorprendente. Alzò la foto all’altezza degli occhi, nonostante stesse ancora fissando il nulla, e con la punta duno stiletto, scarabocchiò la lettera greca ψ, esattamente nella punta dell’ogiva corrispondente alla bisettrice tra le 10 e le 11 della stella di Marco Aurelio. Alla fine la consegnò a François, senza dar segno di voler ricevere somma alcuna. — Chi sei? — volle sapere François. — Che significa tutto ciò? 97
L’altro non gli diede retta. Mise insieme in fretta e furia i propri aggeggi e sparì in un gruppo di turisti che si dirigevano verso la chiesa di Santa Maria in Aracœli. François rimase con la fotografia in mano, simile a un ragazzo timido che si sia appena tolto le scarpe da tennis davanti a estranei. Guardandosi attorno perplesso e impotente e sconcertato, percorse a casaccio le linee di travertino della piazza capitolina, urtando i turisti, mentre cercava di orientare i propri pensieri verso una qualsiasi direzione plausibile. Sapeva però che nulla sarebbe riuscito a placare la sua sete di risposte. Si ricordò, tutto a un tratto, della targa che era riuscito a intravedere, nonostante la fretta e il buio, sulla porta dei Bourgelat, a Lione. Sotto lo stemma c’era infatti una lettera greca, il λ. E gli venne in mente anche la giacca dei camerieri di casa Sforza a Milano, dove si notava il numero romano XXIII ricamato in oro sui taschini. A quel punto, non capì proprio più niente.
Quando Lucienne vide la fotografia della piazza del Campidoglio fu come se fosse stata colpita da un fulmine. — Sembra una carta astrologica — quasi gridò, mentre abbracciava alla vita il fidanzato — o una costellazione, o una carta astronomica, o un mandala. Si tratta di un messaggio soprannaturale. — È soltanto la foto della piazza del Campidoglio — minimizzò François.
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— Lo so benissimo — sorrise Lucienne, nonostante i tratti del volto ancora tesi. — Non hai ancora capito? Michelangelo, quando disegnò la piazza, volle sintetizzare lo schema del potere che regge il mondo. Niente più conforme di questo centro della storia e del potere, rappresentato dal Campidoglio dei Cesari e dei Papi, per riassumere la trama delle forze che governano gli uomini. Vi sono dentro le concezioni induiste, babilonesi, ebraiche, greche, romane e perfino quelle celtiche, maia e incaiche, delle relazioni di comunicazione e di decisione, che devono sussistere nel mondo — spiegò, senza prender fiato, la ragazza. — Chi ti ha dato la foto? — volle sapere — È stato un venditore ambulante cieco — raccontò François, con tutti i particolari sull’accaduto recente che la sua fidanzata ancora non conosceva. — Ma quel che mi ha frastornato di più è stata la precisione con cui l’uomo è riuscito a incidere la lettera , senza vedere. — E non ce n’era neanche bisogno — l’interruppe Lucienne. — Gli angeli non hanno bisogno di occhi per vedere, né di orecchie per udire. — Perché mi prendi in giro? — protestò il giovane, sempre più confuso. — Sto cercando soltanto una spiegazione a tutto ciò che ci sta succedendo. — Non scherzo affatto — disse la ragazza, mentre andava scarabocchiando alcuni punti della fotografia con una penna. — Guarda un po’. Tu saresti ψ. Bourgelat è λ e Sforza è XXIII. Sicuramente la vecchietta che hai visto al Louvre dovrebbe essere la κ, e il tipo della prigione oppure lo stesso tuo amico Antoine, chissà, potrebbe essere XXI. Vedi come tutto quadra. Le dodici punte della stella sono come le dodici tribù d’Israele o i dodici apostoli e c’è qualcuno che vuol dirigere il mondo di oggi, per mezzo di dodici capi, i quali possono essere rappresentati dalle
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prime dodici lettere maiuscole dell’alfabeto greco. Al posto delle ore, avremo così: Α, Β, Γ, Δ, Ε, Ζ, Η, Θ, Ι, Κ, Λ, Μ. Nel secondo rango, avremo i numeri romani, da I a XII, e nel terzo, continuano le altre dodici lettere maiuscole dell’alfabeto greco: Ν, Ξ, Ο, Π, Ρ, Σ, Τ, Υ, Φ, Χ, Ψ, Ω. — Come puoi essere così sicura? — si stupì François. — E perché tutto questo garbuglio di linee e di incroci? — Divide et impera!, bello mio. È il principio fondamentale dell'impero romano. Tu potrai governare il mondo, se saprai tenere tutti gli altri impegnati nel distruggersi reciprocamente, dipendendo gli uni dagli altri. L’importante è che tutti i fili convergano nelle mani di uno solo. Machiavelli non ha inventato niente. Chi aspira al potere sa tutto ciò da sempre. — Vuol dire che siamo stati obbligati a entrare in una trappola e adesso dobbiamo perfino passare sul cadavere altrui per poterci rimanere? Non ne voglio neanche sapere. Io voglio svignarmela. — Non si può più. Guarda come ti hanno abbindolato. La tua posizione attuale é di ultimo rango, come pure quella di ω, ν, ξ, ο, π, ρ, σ, ς, τ, υ, φ e χ, in senso orario. La κha ricevuto da XXI gli ordini che avrebbe trasmesso a te, senza la minima relazione diretta con il suo rango, formato dalle prime dodici lettere minuscole dell’alfabeto greco: α, β, γ, δ, ε, ζ, η, θ, ι e — dopo la κ — e Si è formata così una linea decisionale, a partire da che arriva fino a te attraverso VIII, , XXI e , mentre dovrebbe partire una linea di informazioni, che dovrebbe coinvolgere successivamente, , XXIII, Ω, XII e . Questi, a sua volta, dirigerà la linea di decisione I, Ξ, XIV, γ e π, rendendo conto soltanto al grande capo, come gli altri leader intermedi.
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— Chi ha ucciso Antoine? E Larisse? — chiese ancora una volta François. — E perché? — Qual è allora il perché di tante guerre, rivoluzioni, violenze e distruzioni e paure, in tutto il mondo, durante tanti secoli della storia umana? — Chiese Lucienne, invece di rispondere. — Nel giorno delle nozze, François e Lucienne avevano solamente un unico progetto in testa, oltre al proposito sincero e definitivo di una reciproca fedeltà coniugale e di una convivenza amorosa per tutta la vita. Fuggire.
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.4 IL LEOPARDO
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SUSY aveva conosciuto Omar quando erano tutti e due dei semplici impiegati della sezione stupefacenti, alla polizia. Omar era un appuntato a disposizione degli uffici della centrale di Pucaranga, mentre Suzy aveva ottenuto l’impiego di radio-telefonista, nella sua stessa ripartizione, come civile a contratto. Avvenne che sua sorella si era sposata con un colonnello dell’esercito, molto amico di un loro zio, il famoso generale Vargas-Doria. Helena aveva conosciuto il marito, il colonnello Arnobio Arce, un amabile cinquantenne divorziato, a Labareda, quando era assistente sociale di un dipartimento del genio militare, sotto il suo comando, e finì per sposarlo appena ventitreenne. Serio e innamorato, il colonnello era divenuto un membro rispettato della famiglia di Helena e aveva preso a proteggere e a promuovere anche Suzy. Costei era riuscita così a ottenere quell’impiego con il quale avrebbe potuto mantenere da sola i due figlioli, anche dopo la traumatica separazione da Henrique. Omar era sempre stato considerato un individuo corretto e disciplinato. Era stato un bambino calmo e ubbidiente, come ogni fanciullo pucaranghino. Abituato a osservare e a riflettere. Risposte essenziali e obiettive, molte volte laconiche. Indifferenza apparente verso argomenti che non lo riguardassero. Era estremamente geloso della sua vita privata, nonostante, o forse proprio per certi attributi e prerogative che avrebbero potuto persino promuoverlo agli occhi d’un circolo ristretto di ammiratori. Correvano, è vero, delle voci, ma tutto circoscritto a pochissimi amici. Pochi sapevano che lui poteva esser considerato un campione quanto a casi amorosi, il che avrebbe potuto perfettamente giustificare il nomignolo che gli avevano appioppato per far risaltare la peculiarità più espressiva del suo fisico. Nessuno però avrebbe potuto mai venire a conoscenza dell’autore di 105
quell’idea, e molto meno della coincidenza anagrammatica (perfetta soltanto nella lingua portoghese) con l’altro epiteto, più definitivo e senz’altro meno aggressivo, con cui sarebbe stato riconosciuto in seguito, proprio in conseguenza dei fatti che stiamo per narrare: o (il) Leopardo. Non fosse stato per questo particolare, egli sarebbe rimasto noto per tutta la vita come Palo-de-oro. — Vogliono mandarmi in missione speciale al Chapanal e mi piacerebbe moltissimo che anche tu venissi insieme a me — aveva rivelato un bel giorno Omar a Suzy, così, tra capo e collo. — Sei impazzito? Sono una donna sposata e molto bene oltretutto — gli aveva risposto Suzy, facendosi rossa in viso, per la rabbia e la vergogna. In fondo, sapeva benissimo che la sua relazione con Henrique non era mai stata un gran che, nonostante avesse fatto enormi sforzi per mantenere in piedi il matrimonio. Anche Omar era sposato e aveva due bambini. Ma, soffocato dalla gelosia della moglie Gloria, andava progettando il divorzio, mentre teneva d’occhio Suzy. Costei, a sua volta, manteneva segreto assoluto sul fallimento del suo matrimonio e ancor più sulle vere ragioni che avevano determinato tale situazione. Si era sposata molto giovane e troppo in fretta, a soli vent’anni, e Henrique aveva solo un anno più di lei. L’avviso sul giornale era apparso una settimana dopo la cerimonia. La stessa Suzy aveva insistito che questa avesse luogo a casa sua. — Dobbiamo invitare gli zii di Santa Fé e la cugina Catarina di Surija, — le ricordava sua madre, donna Ivone. — Non voglio avere nessun ficcanaso tra i piedi — brontolava Suzy. — Non vorrai mica darmi in pasto alla curiosità insaziabile di tutti quei pettegoli!
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— Ma che dici, Suzy? Sono nostri parenti che ci hanno trattato sempre con molto riguardo e affetto. Suzy conosceva molto bene i suoi parenti. Soprattutto suo zio, il generale Vargas-Doria, l’equilibrato e ponderato negoziatore del governo militare che era riuscito a debellare una delle rivoluzioni più sanguinose della storia del suo paese, con una chiacchiera affascinante e convincente, subito dopo che i suoi colleghi avevano scatenato una vera e propria azione bellica con inedita crudeltà. C’era poi la cugina Apollinaria, la vedette di tutte le riunioni di famiglia, piena di manie di grandezza, che vantava a ogni pie’ sospinto le proprie relazioni con i medaglioni della nomenklatura nazionale. Conosceva inoltre la zia Juana de Welch, sposata con un funzionario di secondo livello dell’ambasciata americana, che passava il tempo a paragonare gli altri con gli immaginari compatrioti con i quali avrebbe avuto il piacere di condividere la consanguineità e non soltanto le affinità. Da nessuno di costoro aveva mai ricevuto il minimo vantaggio e li detestava apertamente, poiché qualche aiuto ed attenzione li aveva ottenuto solo da estranei, come Arnobio o colleghi dell’università, ma giammai dai propri parenti. Sotto gli sguardi severi e sarcastici di così scomodi osservatori, avrebbe dovuto pronunciare il suo sì, in pieno corso di laurea, a favore di un ragazzo della sua età anche lui assolutamente impreparato a formare una nuova famiglia. Non sopportava l’idea di insinuazioni per niente generose delle vecchie pettegole che non le avrebbero tolto gli occhi dal ventre, per tentar di indovinare il tempo di gestazione della sposina, senza dover ricorrere a accertamenti clinici o di laboratorio. Soprattutto perché continuava oppressa dal senso di colpa che non l’avrebbe abbandonata un solo istante della sua vita. Il fatto di essere sul punto di sposarsi incinta di cinque mesi sarebbe stato solo un semplice 107
intralcio ai suoi progetti di vita così a lungo coltivati, se non ci fosse stata di mezzo la bugia che si era forgiata in un momento di disperazione e che sarebbe diventata una terribile fattura contro se stessa, da cui non sarebbe riuscita a liberarsi mai più: Henrique non era il padre del nascituro. La cerimonia finì per aver luogo. Sembrava più un funerale che una festa, ma infine fu fatta. Suzy e Henrique avevano provveduto al trasferimento dei rispettivi corsi all’università di Labareda e andarono ad abitare in un monolocale in anticrético. Il bimbo arrivò puntualmente. Il parto fu tanto rapido e facile quanto la gestazione era stata complicata e laboriosa.
Omar divenne Leopardo quando passò a far parte del corpo della guardia specializzata in azioni anti-guerriglia contro il traffico di stupefacenti soprattutto nella foresta orientale. Il nomignolo non era altro che un semplice eufemismo, coniato per via delle divise mimetiche usate e, forse, della stessa ferocia con cui gli agenti della sua corporazione eseguivano i loro interventi. Era ancora un modesto impiegato della sezione di Pucaranga quando fu convocato, in forma straordinaria, per pattugliare il centro della città durante lo sciopero dei professori che segnò l’inizio del governo Cañabrava. Durante la sua prima ronda notturna, insieme al soldato Pérez, aveva trovato la piazza centrale quasi deserta. Il pensiero era sempre rivolto a Suzy. Sapeva tutto di lei, nonostante il silenzio con cui la giovane cercava di salvaguardare la propria vita privata. Non aveva imparato invano il mestiere di poliziotto. Era stato allenato nell’arte di ficcare il naso nella vita altrui e, allo stesso tempo, di mantenere una discrezione a tutta prova sulle proprie informazioni.
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Il compagno stava cicalando su naia, donne e calcio, con l’accompagnamento dei passi e delle rare vaghe risposte del caporale. Costui, a sua volta, continuava a pensare a Susy. Immaginava cosa stesse facendo in quel momento. Sapeva che l’interesse per il marito si era spento a poco a poco quando si era accorta che Henrique altro non era che un ragazzino viziato e che la sua apparenza gradevole, i modi affabili e la voce ammaliante, di fatto, nella lunga convivenza, avevano finito per rendere evidente una carenza di maturità e di sentimenti che avevano reso la vita familiare e persino l’attrazione sessuale completamente squallidi e frustranti. Dopo due anni di difficoltà affrontate insieme a Labareda, decisero di ritornare a Pucaranga. I parenti si erano ormai assuefatti all’idea di Susy sposata e la presenza di un angioletto biondo che gironzolava per a casa, aveva già assorbito le attenzioni e le moine dei nonni e degli zii. Susy raccontava a Omar tutto quello che il piccolino faceva, ed era come se stesse parlando con suo padre. Diventava estremamente bella e raggiante quando si metteva a elencare le birichinate del fanciullo e Omar stava a sentire i particolari più insignificanti con l’attenzione che un discepolo dispenserebbe agli insegnamenti di un guru. Lei sottolineava di proposito, a ogni istante, come a Henrique piaceva giuocare con il figlio, elargendogli le cure che, a poco a poco — questo Suzy non lo diceva —, andava negando alla propria moglie... Nelle vicinanze della piazza centrale, la via Calama, che i due poliziotti stavano attraversando in quel momento, non era poi così bene illuminata, e poche persone si arrischiavano a uscire per strada dopo il coprifuoco. Ciononostante, essi poterono notare una coppia che, quasi furtivamente, usciva da un palazzo, costruito sicuramente in epoca coloniale.
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— Lumache senza pioggia? È molto strano. — Borbottò il soldato zero, che odiava il silenzio totale. — E questo non é mare da pesci. — Fece di rimbalzo il caporale, per la prima volta attento alla battola del subalterno. Suzy era scomparsa, come per incanto, dai suoi pensieri, e si era risvegliato il guerriero da sotto la polvere dello scribacchino. — Andiamo a vedere a chi piacciono queste passeggiate estemporanee. Accelerarono il passo dirigendosi, per la via 8 de Maio, nella stessa direzione presa dai due piccioncelli, verso la Calle Colón. Arrivati all’angolo successivo, si fermarono nella penombra, per spiare i due, che avrebbero impiegato più tempo ad attraversare la strada di quanto non avessero fatto loro a percorrere l’intero isolato. Aspettarono alcuni istanti, fino a convincersi che la coppia non si sarebbe più fatta vedere. Girarono l’angolo e mantennero il passo il più naturale possibile fino a raggiungere la 8 de Maio. Completamente deserta. — Devono essere entrati in uno di questi portoni — anticipò il soldato. — Bravo, Pérez. Ti proporrò come investigatore di prima categoria — ironizzò Omar, mentre annusava l’aria della notte. Avrebbe scommesso mille pesos che quei due erano rimasti svegli fino a quell’ora non semplicemente per fare quattro passi in piena notte o per fare l’amore al centro di una città in stato d’assedio. — Il nostro compito é stato compiuto. Vigilare, obbedire, agire... — osservò ancora il soldato, il quale sembrava che stesse recitando il regolamento della guardia civile e, in realtà, stava solo traducendo in parole i propri interminabili deliri. — Siamo appena all’inizio, invece. — Pensò Omar, mentre correva dietro alla capacità deduttiva di cui era dotato. L’immaginazione gli forniva una visione radioscopica dell’interno di quel cupo edificio, costruito alcuni secoli prima 110
dai conquistatori, sicuramente nell’intento di trasmettere quella solennità e compostezza che avrebbero consentito di imporre alle colonie le proprie velleità di perpetuazione della cultura importata dall’Europa. Esso si rivelava invece una semplice caricatura della pompa che le capitali ostentarono per secoli, a prezzo dello spoglio sistematico e spropositato delle colonie stesse i cui governanti, con posa provinciale da mecenati, oltre che con la pigrizia intellettuale caratteristica dei nuovi ricchi, cercavano di riprodurre nelle facciate degli edifici pubblici. Si riusciva quasi a sentire il respiro e persino i battiti del cuore di quei due nottambuli, da dietro il portone di legno massiccio le cui modanature, e anche le figure epiche ivi intagliate, il tempo e le intemperie si erano incaricati di levigare e mutilare. Chi avrebbe offerto un tempestivo rifugio ai due? Una coppia di vecchi temerari o una delicata giovane, avvolta in una semplice vestaglia svolazzante? Persino la fantasia più effervescente doveva inchinarsi alla conoscenza acquisita nel corso degli anni da un individuo come Omar, al quale non piacevano affatto le nozioni libresche, bensì le informazioni più minuziose possibili su tutto ciò che riguardasse il proprio mondo. L’edificio era attualmente adibito a scuola elementare che durante il giorno accoglieva molte classi di ragazzi, divise in tre turni. Lo stesso Omar aveva frequentato questa scuola, durante la terza e la quarta. Aveva giocato pallacanestro nel campetto che aveva preso il posto dell’antico cortile della costruzione ispanica. Aveva passato molte ricreazioni appoggiato alla balaustra della terrazza che delimitava il quadrato centrale. Non ci provava alcun gusto, perché c’erano soltanto maschi e le battute e gli scherzi erano sempre gli stessi, come gli insulti di maricón e di huevón e gli spintoni e le pacche sul sedere. Aveva ormai l’età per apprezzare le forme e le attrattive femminili, ma 111
era obbligato a contentarsi dell’amicizia dei coetanei. Non è che fosse poi tutto così male. C’era stata persino una fase di vera e propria passione per Walter, un ragazzo di dieci anni, che era venuto ad abitare a Pucaranga perché suo padre era funzionario del Consolato del Messico. Era biondo e con tratti delicati da principessa. Omar non si stancava di guardarlo, con ammirazione e vero piacere, senza la minima ombra di malizia. Con gli altri compagni, invece, si permetteva maggiori intimità, in certi momenti di allegria generale, come quel giorno in cui un gruppetto decise di spogliarsi completamente nei bagni e tutti quanti incominciarono a misurarsi i pisellini. Luciano della quarta ‘E’ aveva rabberciato un righello che finì per essere accostato a tutti quei vermicelli eccitati. Il piccolo Omar annotava i numeri su un foglio, fra le grida di approvazione o la baia degli altri. Alcuni giorni dopo, venne invitato da Rubens, il ripetente della quinta ‘C’, perché gli facesse vedere nuovamente — stavolta a lui soltanto —, le dimensioni dello strumento che già all’epoca cominciava a suscitare ammirazione soddisfatta, e persino invidia, nei rumorosi osservatori. Dietro quel portone, c’erano adesso due adulti che strisciavano lungo i muri, con un’ansia incontenibile simile a quella dei due monelli di tanti anni fa. — Non ti muovere da qui e stai in guardia. Vado a fare il giro per prendere quei due farabutti — intimò con un filo di voce al soldato. E scomparve dietro l’angolo della Calama. Fra la gelateria España ed la drogheria Dillerman, lui conosceva uno stretto passaggio che una volta gli permetteva di entrare in scuola e raggiungere la classe, senza dover passare davanti alla portineria. Rimase deluso nel trovare un palazzo in costruzione al posto della vecchia gelateria. Omar si rese conto che da molto tempo non aveva avuto più bisogno di scavalcar 112
muri. Scoprì, tuttavia, un’insospettata agilità nei propri muscoli e una creatività che gli permise di aprirsi un nuovo cammino fra tramezzi e materiali da costruzione, nel buio più nero. Percorse corridoi e saloni come un cieco legge in Braïlle. Arrivò presto nel salone centrale e afferrò la sua Taurus 38, puntandola in aria. Si mise a tastare tutta la parete, mentre cercava di individuare il quadro delle luci. Finalmente, quando l’ebbe sotto mano, spalancò una porta con una vigorosa pedata e accese l’interruttore generale. Un gigantesco fascio rettangolare inondò il giardino e abbagliò i due sospetti, come civette sorprese in piena notte dai fari di un camion solitario. L’ordine d’arresto fu ridondante, quasi un rituale superfluo poiché il giovane si era già arreso, mentre la ragazza sveniva tra il portone e il suo compagno. — Chi siete? Perché vi nascondete? Palo-de-oro leggeva negli occhi rassegnati dell’ostaggio la stessa incertezza e la disillusione, il senso di colpevolezza e di vergogna che si erano impadroniti anche di lui il giorno in cui il professore di Scienze l’aveva sorpreso mentre faceva cose sporche con Rubens. — Mi chiamo Jaime Ortega e questa è la mia ragazza Hortencia. Omar notò il naso prominente dell’interlocutore e pensò subito a un’aquila o a un condor. Non ci fu neanche bisogno di fare un vero e proprio interrogatorio. Ottenne subito, infatti, una scheda completa del nasone. Era un professor e di studi sociali nella scuola Martín Sotero e la ragazza stava terminando la Normal per diventare anche lei insegnante. Avevano cenato presso amici e si erano attardati. Avevano cercato di ritornare a casa, laggiù nel quartiere di Cala-Cala, quando notarono la ronda e si spaventarono, perché venne loro in mente il coprifuoco. — Seguiteci in questura. Siete sospettati. 113
— Siamo sospettati? Di che cosa? — Ancora non lo sappiamo. Ma abbiamo tutta la vita per scoprirlo. I due prigionieri dovettero recarsi a piedi in questura, non lontano, per la verità. Il capo Rodriguez li rilasciò immediatamente. Il giovane professore era il Condorito, un amico del suo figlio più giovane. E la studentessa era davvero Hortencia, una ragazza dolce e di buona famiglia, che, oltre la scuola, frequentava solo gente per bene. Omar rimase piuttosto scornato dalla magra rivelazione e ritornò al lavoro rabbuiato. Il soldato Pérez lo seguiva come un’ombra e persino la sua chiacchiera irrefrenabile aveva ceduto il posto a un molto più scomodo silenzio. La mattina fu ancora più tenebrosa del resto della notte passata per strada. L’alba incominciò soltanto quando l’immagine di Suzy ritornò a esorcizzare la sua immensa frustrazione. Quando arrivò a casa sua, l’occasionale fallimento prendeva consistenza al contatto con la realtà della sua consunta convivenza familiare, fatta della freddezza della moglie e del progressivo allontanamento dei figli. Come avrebbe potuto coltivare il sogno di una nuova famiglia, mentre la sua prima esperienza era divenuta così deludente? E come si sarebbe potuto azzardare a coinvolgere Suzy — nonostante anche lei fosse, senz’altro, una persona profondamente insoddisfatta —, soltanto per compensare il vuoto derivante dalla sua relazione con Gloria? L’immagine di Susy, malgrado tutto, continuava a temperare l’intenso disagio che lo infastidiva. Si arrischiava persino a formulare piani mirabolanti di successo professionale, di riconoscimento pubblico per il suo talento investigativo, con subitanee promozioni e premi notevoli. Sognava viaggi di studio o di puro diletto, costruzione di ville e 114
acquisto di lussuose automobili. Tutto ciò con Suzy a fianco. Sicuramente, un bel giorno. Era solo un sogno. Immediatamente dopo, la modesta realtà in cui si trovava immerso si imponeva alla sua attenzione. — Un giorno dovrò pur farla finita con questa maledetta miseria. Non la sopporto più.
Susy, in quel momento, si addormentava finalmente, dopo ore di insonnia. Henrique aveva russato leggermente accanto a lei per tutto il tempo, abbracciato al piccolo che dormiva alla sua sinistra fra lui e la culla puntellata dal letto matrimoniale, dove avevano adagiato il più grandicello. Erano solo tre bambini. E lei, una vecchia signora di ventiquattro anni che doveva provvedere al cibo, ai vestiti, all’ordine e alle pulizie di tutti. Henrique aveva ormai terminato il corso di economia e commercio, ma conservava ancora il suo impieguccio da cinquecento pesos, presso la Cassa dei Petrolieri, grazie alle conoscenze dei suoi genitori. Il suo contributo al bilancio familiare si riduceva solo a questo, e la sua presenza in casa era soltanto quella di un compagno di giuochi per i due piccolini. Susy lavorava sei ore, tutti i pomeriggi, nel settore delle telecomunicazioni della Narcotici. Di mattina, usciva presto per insegnare presso la scuola municipale Laura de Arce. Dava lezioni di spagnolo, storia, geografia, tutto ciò che poteva racimolare, con tanto che non la mandassero a lavorare fuori di Pucaranga. Di ritorno a casa, passava presso alcuni clienti della Caja de ahorro y credito "Sto. Antonio", per incassare dei loro debiti. Era stato il suo primo impiego, fin dall’epoca del corso di lettere,
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e rappresentava ancora una buona fonte di risparmio, con le commissioni che ne ricavava. Arrivava a casa stanca, ma doveva ancora pensare a mettere tutto in ordine, correggere compiti, preparare le lezioni e cucinare, lavare, stirare... Henrique, a sua volta, usciva sempre elegante e faceva colpo sulle colleghe di lavoro, come sempre aveva fatto con quelle dell’università, tanto a Labareda, quanto a Pucaranga. L’aspetto di Henrique era quello di un ragazzino snello dal fisico ben proporzionato. Suzy se ne compiaceva ancora, nonostante le attrattive del rubacuori fossero ormai quelle di un oggetto estraneo più che una vera e propria parte essenziale del suo essere. Inoltre, da qualche tempo in qua, ogni volta che lo guardava, dietro la figura del marito vedeva sorgere l’immagine di Roberto, come una grande ombra, senza buio né minacce. Confortevole e benefica, come quella di una palma imperiale. Lo stesso succedeva quando indugiava a contemplare il suo primogenito. Gli aveva messo lo stesso nome e cercava di trovare in lui sempre qualche particolare che lo facesse assomigliare al marito. — Guarda. É incredibile. Ha già due fili di capelli bianchi. Come suo padre — aveva osservato un giorno la zia Maria, sorella di Henrique che stava incanutendo precocemente. Suzy, naturalmente, incoraggiava qualsiasi scoperta di questo tipo. Ma l’aiuto maggiore le venne dall’impressionante somiglianza con la zia Helena. Nulla di più naturale che somigliare alla sorella di sua madre. Ciò riuscì a depistare definitivamente tutta la parentela. Ma quel che lei voleva, in realtà, era ingannare se stessa. Suzy riceveva notizie sporadiche di Roberto, per mezzo di Mariita, la sua ex-compagna di classe che manteneva qualche contatto con la Normal dove lui continuava la sua attività di 116
professore di filosofia. Allo stesso tempo badava a quella parrocchia miserabile della zona sud della città, dove era andato ad abitare dopo l’allontanamento da Suzy. Adesso era più riservato nelle sue relazioni con gli alunni, senza tuttavia perder nulla del fascino che lo aveva sempre caratterizzato.
Quando cominciò lo scontro, Roberto stava solo osservando la folla, insieme a Suor Olga e a Gerardo i quali, come lui, non potevano esporsi troppo, per il fatto di essere stranieri. I professori si erano concentrati da tempo all’uscita per Labareda, e gridavano le loro parole d’ordine. Presto si venne a unire anche una squadra di operai della Paraco, una grande fabbrica di scarpe delle vicinanze. La Paraco esportava il novanta per cento della sua produzione negli Stati Uniti e in Europa, riuscendo a battere la concorrenza internazionale grazie ai magri salari concessi ai suoi lavoratori. La maggior parte di costoro, per ironia della sorte, lavorava scalza o con i tradizionali sandali ricavati da gomme di auto tagliate a strisce. Gli animi incominciarono ad scaldarsi quando la truppa d’assalto della polizia militare si mise in posizione dall’altra parte della strada, in una fila impenetrabile di guarditas, con le divise verde-erba, gli scudi di metallo e gli elmetti da guerra, dalle visiere di plastica rigida. — No a los salarios de hambre! — si sentiva gridare di mezzo alla folla. E c’era qualcuno che riusciva persino a essere spiritoso, e a strappare risate ai suoi compagni, già sufficientemente eccitati, nel gridare: — Queremos la cabeza de Cañabrava em escabeche! — Omar era nelle retrovie, insieme a un gruppo di compagni protetti anch’essi da scudi e visiere, ma armati soltanto di un manganel-
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lo. L’imminenza dello scontro con i rivoltosi sembrava infondergli fermezza e determinazione, anziché ansietà e paura, cancellando preoccupazione e rancore. L’immagine di Suzy permaneva in lui come uno stimolo in più per il suo istinto di lotta, come se gli chiedesse a ogni istante: — Devi lottare ed esser forte. Devi farlo per me. Era come se Suzy avesse preso il posto di Gloria, nella sua vita, e capitalizzasse, oltretutto, ogni momento di convivenza con la sposa, però senza il dispendio di forze causato dalle interminabili incomprensioni e senza il tedio dei momenti di apparente tranquillità. Tutto a un tratto ebbe inizio il tumulto e l’unico carro blindato prese a lanciare bombe lacrimogene sui manifestanti. Alcuni di loro si erano premuniti ed usavano fazzoletti o maschere chirurgiche per riparare la bocca e il naso. Potevano perciò avvicinarsi ai candelotti fumanti e raccoglierli per rilanciarli a loro volta contro il plotone più vicino. Si era formata così una vera e propria cortina di fumo, che asfissiava molti d’ambo le parti e provocava un fuggi-fuggi in tutte le direzioni. Lo stesso Omar dovette svignarsela senza indugiare, con il suo ridicolo manganello ancora in mano, mentre inciampava continuamente nell’enorme — quanto inutile — scudo, allorché il gas ebbe raggiunto anche le sue mucose irritandole molto con quel suo odore acre e soffocante. Ben presto perse di vista il suo gruppo e si trovò disperso in un quartiere residenziale dalle stradine completamente deserte. Procedendo con circospezione, mentre cercava qualcuno del suo gruppo, arrivò al callejón La Paz, che pareva un vicolo di un altro pianeta. Il rumore del teatro di guerra della rivolta, arrivava fin là, come le acclamazioni del pubblico di una plaza de toros o di uno stadio di calcio, udite a distanza. Era arrivato proprio nel momento in cui un uomo smilzo, dal giaccone di cuoio nero, 118
si gettava su un biondo erculeo, che rotolava a terra, nell’estremo tentativo di sfuggire all’inseguitore. Ma, in un istante, quest’ultimo era riuscito a raggiungerlo e a fermarlo, grazie a un enorme revolver che aveva tolto dal suo pesante giaccone, con la prestanza d’un mago. Fu allora che l’agile aggressore si rese conto della presenza di Omar, semi nascosto nel vano di un portale barocco, e si voltò immediatamente, puntando il revolver nella sua direzione. — Esci da dove sei, e con le mani in alto! — gridava con voce un po’ smorzata. — Io sono della polizia — rimbeccò l’uomo di legge —, e tu considerati prigioniero. Abbandona l’arma a terra e arrenditi. Il gigante disarmato, nel frattempo, approfittò della distrazione dell’avversario per svincolarsi e saltare, con l’agilità di un gatto, oltre il muro di una delle tante case e svignarsela per i giardini. L’altro rimase con il revolver puntato, cercando di risolvere la questione con il poliziotto il quale, dal canto suo, non si decideva a uscire dal comodo rifugio, finché si fosse trovato svantaggiato dal suo manganello rispetto al ‘cannone’ del rivale. Ciò gli diede il tempo, però, di guardare bene in faccia il tipo e di riconoscere il naso del Condorito — stavolta in posizione di chiaro vantaggio su di lui. Per quanto possa sembrare incredibile, non aveva paura di morire, nonostante non si fosse mai trovato prima d’allora, nonostante i pericoli della sua professione, così vicino e così nel mirino di un’arma da fuoco. Rimase in piedi, a guardarsi dentro, mentre il rumore della rivoluzione, laggiù da lontano, scorrazzava per la valle di Pucaranga, con il clima festoso di un pomeriggio domenicale. Davanti a lui non c’era un nemico in atteggiamento di minaccia, ma sempre Suzy, come una visione di pace che appare d’improvviso dalle brume di una favola. Era una fata 119
graziosa e benefica che gli sorrideva e dialogava con la dolcezza di sempre. — È bello avere un amico come te. Mi infondi fiducia e forza. In realtà sono un po' stanca di svolgere il ruolo di madre, ventiquattr’ore su ventiquattro, per i miei figli e con un marito per giunta. Mi piacerebbe moltissimo potermi prendere anche un solo giorno di vacanza, da questa mia attività costante di procuratrice e cameriera e baby-sitter e... tutto. Ho bisogno di qualcuno che si occupi un po’ di me, che mi dia protezione e sicurezza, che divida con me l’attenzione costante, la responsabilità, la tensione del dovere, degli obblighi, dei compiti, delle compere, delle vendite, delle pubbliche relazioni, dei sorrisi forzati, della paura, della timidezza, degli incubi notturni e delle ansie quotidiane... Vuoi aiutarmi? Prenditi cura di me! Il Condorito leggeva, senza riuscire a decifrarlo, quel monologo sul viso assente della sua vittima, in cui faticava a riconoscere la fisionomia del piedipiatti che, pochi giorni prima, in una situazione esattamente opposta, l’aveva ghermito con la truculenza peculiare dei più convinti uomini di legge. — Dove sono i tuoi genitori? Perché non ti aiutano? — chiedeva, in risposta, il soldataccio innamorato alla compagna, che l’aguzzino del momento non riusciva a vedere. — Potrei forse diventare capace di proteggere qualcuno, quando non mi sento abbastanza forte e sicuro per aiutare me stesso? — I miei genitori abitano di fronte a me e i miei figli passano quasi tutta la giornata con loro. Ma è come se fossi sola al mondo. Mia madre si lamenta a non finire e mi rimprovera ogni momento, o mi rinfaccia qualcosa. Mio padre, che pure è stato sempre affettuoso con me, se ne sta tutto il tempo con la testa tra le nuvole e non si é mai neppure reso conto dei miei problemi. Il viso del poliziotto si trasformava adesso in una strana maschera, una mescolanza di commozione e di perplessità, con gli 120
occhi annacquati simili a due ostriche dalle valve aperte, senza nessun orientamento o senso. Il corpo, immobile agli occhi del Condorito, si stava invece avvicinando a Suzy, mentre le sue braccia si alzavano in cerca del volto dell’amante. Le sue mani adesso entravano in contatto con la pelle morbida della giovane e ne palpavano ogni anfratto. Le accarezzò i capelli come avrebbe fatto con un bambino ed infine la baciò. Sulla fronte, sulle guance, sulla bocca, sul collo. Mentre Suzy, con le sue braccia gracili, gli circondava le spalle robuste, con la forza improvvisa di un naufrago. Il piacere gli inondava tutti gli angoli del corpo mentre accompagnava le vibrazioni del corpo di lei. La sua respirazione rumorosa festeggiava, senza disagio alcuno, le ondate d’orgasmo che si impossessavano del suo cuore galoppante e del suo volto arrossato e del suo ventre e del suo membro proverbiale, a dura pena immobilizzato dalla divisa da battaglia. Lo spettatore stupefatto si arrendeva all’incomprensibilità della scena, mentre riponeva l’arma in tasca e accudiva la sua vittima che già stava affondando in un mare di beatitudine. — Vigliacco di un guastafeste. Che ti prende? — gli gridava all’orecchio, senza potersi rassegnare al fatto di doversi prendere cura di chi l’aveva invece umiliato poco tempo prima. — Sai soltanto mettermi il bastone fra le ruote e mandare in fumo il mio giuoco. — Io sono la polizia — borbottava con voce torpida il caporale, mentre tornava a malincuore alla realtà. — Considerati prigioniero — insisteva senza convinzione. — Stupido che sei. Avrei potuto ammazzarti come un cane. E per di più mi lasci sfuggire il mio trofeo più ambito. — Che stai dicendo? — Reagiva, ormai completamente in sé il poliziotto. — Non sei forse quell’insulso professorino che ho arrestato giorni fa? 121
— Io sono Jaime Ortega. Ma insulso dei miei coglioni sei tu, pezzo di bastardo. Sono un agente dell’Interpol ed ero ormai sulla pista buona per fermare questa banda di agitatori stranieri, quando vieni di nuovo tu a rompermi le palle. Ma quando ti togli dai piedi? Ed ecco che, finalmente, Palo-de-oro comprese tutto in un lampo. E se la prese con se stesso e si mise scagliarsi improperi e a darsi della bestia e con molto più epiteti di quanto ne possa contenere il vocabolario di parolacce dell’altro piedipiatti. Inorridiva nel costatare che aveva svolto il ruolo dell’idiota in presenza degli altri, ma dover ammettere a se stesso che aveva sbagliato era peggio della morte. Ed egli si era sbagliato davvero, quando aveva lasciato correre le cose e aveva perduto un’occasione d’oro, nel primo incontro con quell’essere abbietto, che veniva adesso a trionfare su di lui. Ed era stato un vero imbecille a cadere in balia delle emozioni, in quest’altra circostanza, in cui era imprescindibile mantenere lucidità e determinazione. Il Condorito era un doppio agente che si era infiltrato fra i professori per orientare il servizio segreto del governo sulla pista dei militanti di opposizione al regime. — Adesso dovrai aiutarmi a ritrovare quell’individuo che mi hai fatto scappare. E tieni il becco ben chiuso. Te lo dico per il bene tuo e della tua famiglia, se è vero che ci tieni un po’ — concluse il Condorito, assumendo un sorriso enigmatico che contrastava stridentemente con la tensione dei lineamenti del viso e che Omar non aveva avuto ancora modo di notare nelle due drammatiche occasioni in cui aveva dovuto affrontarlo. Il giorno dopo, Palo-de-oro venne chiamato a rapporto dal capo Rodriguez e si preparava già a ricevere ancor un rimprovero.
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— Da quanto pare, devi aver fatto qualche dabbenaggine in giro — venne subito al sodo, il capo. — Ma c’è senz’altro qualcuno a cui sei davvero caro, lassù negli alti ranghi. Preparati, perciò a tornare all’accademia. Prenderai parte al corso di sopravvivenza nella foresta e vedremo poi che fare di te. — È un premio o un castigo? — ebbe ancora il coraggio di domandare il caporale. — Per un poliziotto esiste soltanto il dovere — teorizzò Rodriguez che sembrava soprattutto un giudice al momento di concludere un processo con il verdetto finale. — Partirai fra quindici giorni. Fu quando Omar comunicò a Suzy che sarebbe partito in missione speciale per il Chapanal e le fece la proposta di andarvi insieme — come se i suoi piani e le sue fantasie si fossero svolti nella sfera della realtà come dialoghi veri con la collega d’ufficio e da lei ne avesse ottenuto piena e completa accettazione.
Se ne andò così da solo al Chapanal, lasciando Gloria da una parte e Suzy dall’altra. E inoltre i figli e gli amici di viernes de soltero — con i quali era solito intrattenersi nei momenti di grande allegria, tutti i venerdì sera, attorno a un tavolino di bar e con un bicchiere in mano, sempre colmo di gradevole birra fredda — e ancora, il clima soave della sua valle e le comodità di casa sua, tutto per addentrarsi nella giungla torrida e perennemente umida della fascia tropicale della regione di Pucaranga. Fece il viaggio seduto sul cassone di un camion militare, che doveva aver partecipato alla guerra del Chaco da tanto era conciato, ma disponeva persino di un telone plastificato per proteggere i passeggeri dalle piogge torrenziali della stagione e, un poco, dal freddo che avrebbero dovuto affrontare durante la traver-
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sata delle montagne. Passò tutto il tempo del viaggio chiuso in se stesso, mentre i suoi compagni tessevano le chiacchiere più sconclusionate che dei soldati potessero intavolare. La visione della sua valle ridente lasciava, a poco a poco, il posto a quella della rada vegetazione che fiancheggiava la strada tortuosa delle montagne del Tunaré. Il camion soffriva, ma conquistava cocciuto ogni metro della salita e, dietro ogni curva, svelava una nuova inquadratura di quella natura avara che diveniva, tutto a un tratto generosa di ruscelli briosi che si sfarinavano in cascatelle scintillanti, o macchie di verde smorto che mostravano fiori senza classificazione e arbusti aggrappati alle fessure delle rocce, e cuscini d’erba dove nessuno aveva mai posto il piede. Omar guardava la bellezza familiare della sua terra con l’apatia di un estraneo. Non avrebbe saputo dire se era rancore quel che stava sentendo o se avrebbe potuto considerarsi piuttosto un debitore di quella natura austera e vibrante, o se invece non aveva forse sempre dato più di quanto avesse ricevuto dal suo paese. Il camion adesso procedeva più calmo, approfittando di un buon tratto pianeggiante, all’altitudine di quattro mila metri. Costeggiò la riva di un lago solitario che s’insinuava sornionamente fra le insenature dei vari colli calvi, e volteggiava lungo la pianura provvisoria. L’acqua liscia rispecchiava il cielo uniformemente grigio e ne riverberava l’alito gelido come se volesse ibernare gli esseri viventi nella stessa immobilità dell’aria e delle pietre immemori. Dietro la collina sorgeva un villaggio, con le case di adobe, a malapena visibili, nella monotonia di colori delle sue falde. Era giorno di mercato, a Punatengo, e le gonne rigonfie delle donne sedute a terra, dietro le scarse mercanzie, movimentavano un po’ lo scenario grazie alla combinazione ossessiva dei loro tessuti 124
iridescenti. Alcuni ragazzi andarono incontro al camion e lo accompagnarono gridando e offrendo ai soldatini le trote e le sogliole che portavano sulla spalla, appese a un bilancino di legno. Le venditrici sorrisero sotto i loro cappelli di feltro, senza muovere il capo e neppure i muscoli del volto. Gli uomini continuarono assorti nei loro affari, mentre mostravano i denti delle loro mule e gli uberi delle loro capre, come se il rumore del camion non fosse altro che un sostegno sonoro per i loro pensieri. Il camion sconquassato e ciondolante si arrampicò per più di mille metri su sentieri impervi coperti di neve, lasciando dietro di sé soltanto una striscia di fango nero. I soldati seguirono quell’interminabile sbuffare e ansimare, chiusi in un silenzio meditabondo, dovuto più all’aria rarefatta che alla scarsezza di argomenti, fino a quando incominciò una discesa ripida e sinuosa e il residuato bellico si lanciò in una corsa precipitosa che ravvivò subito la conversazione, al suono stridente dei freni. La pioggia diede loro il benvenuto quando arrivarono nei dintorni di Villa Tunaré. La strada che fino allora aveva mantenuto, per un bel pezzo, un residuo d’asfalto dei tempi dell’Alianza para el Progreso, sotto la violenza della pioggia di vari anni, aveva perduto persino l’apparenza di carretera. Non era più altro che melma. E i tentativi dei veicoli pesanti di attraversare quella regione avevano creato dei solchi giganteschi, con i bordi così alti e irregolari, che rendevano impossibile il passaggio di qualsiasi mezzo di trasporto. I soldati dovettero scendere e aiutare gli operai e i volontari che si erano già messi a livellare un po’ le deformità della pista sotto una pioggia implacabile che penetrava persino nelle ossa. Omar continuava a pensare alla sua vita e a Suzy. Il che per lui era senza dubbio la stessa cosa. L’attività manuale era un puro automatismo. S’immerse nel fango insieme agli altri e si mise a lavorare con lena, fino allo stremo delle sue forze. Quando 125
il camion riuscì a passare, erano tutti sudici e bagnati fradici, ma l’allegria aveva preso il sopravvento. Avevano fatto amicizia con i civili, anch’essi inzaccherati come si deve, e avevano condiviso persino alcuni sorsi di chicha nonostante le avvertenze del sergente Rojas. — È un omaggio a sua eccellenza il signor presidente — aveva spiegato, senza che nessuno glielo avesse domandato, l’aiutobuttero Malaquias, il quale già ne doveva aver bevuta abbastanza, nelle ultime ore, insieme al suo padrone, el señor doctor Segismundo, tutti e due ricoperti dallo stesso strato di fanghiglia. — Quel che riesce a livellare gli strati sociali, nella nostra terra, è questa bibita degli dei, la chicha — filosofò don Segismundo, ormai visibilmente alticcio anche lui, mentre versava un po’ di liquido a terra per la tradizionale libagione alla Pacha Mama, la madre terra. — Il suolo produce il mais e le nostre donne dedicano ore intere a masticarlo, per lasciare che i lieviti della bocca lo facciano fermentare. Tutto naturale. Tutto salutare. — E poi passano le nottate a rimestarlo con un mestolo di legno, a bagnomaria e a fuoco lento — lo interruppe Malaquias, per complementare la lezione gratuita e non richiesta, approfittando della breccia che l’alcol autorizzava in quel breve intervallo di tolleranza socializzante del padrone. Palo-de-oro non riusciva a liberarsi dall’amarezza che lo avvelenava, neanche in quel momento di baldoria e la bevanda acidula, in altri tempi gradevole e morbida, aveva adesso il sapore del fiele. Proprio all’entrata del villaggio aveva smesso di piovere. I soldati arrotolarono il telone del camion per asciugarsi i vestiti addosso agli ultimi raggi di sole di un pomeriggio che si erano persino dimenticati come sarebbe potuto essere splendido. Videro da lontano, sui due lati del tratto finale della strada, uomini e
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donne seduti, quasi immobili, coperti da un poncho e da grandi cappelli, nonostante l’aria fosse ancora afosa. Non ebbero neanche il tempo di trovare strano tutto ciò quando, con una esplosione spaventosa, il camion volò in aria come un giocattolo. L’autista e il sergente Rojas rimasero là, sfracellati, insieme ai rottami. I soldatini erano già pronti a scendere dal cassone, con lo zaino pieno di effetti personali e con il fucile in mano, quando vennero tutti quanti catapultati dalla furia della mina che li aspettava da tempo. Alcuni rimasero sulla strada o in mezzo alla vegetazione che la costeggiava, contorcendosi dal dolore per le fratture o le ferite causate dalla caduta brutale. In un istante i paesani dall’aspetto pacifico, seduti ai margini dell’entrata di Villa Tunaré, si erano trasformati in terribili guerrieri, armati di mitragliatrici e di fucili che portavano nascosti sotto i poncho. Omar non s’era fatto molto male e non perdette il controllo. Afferrò il fucile e sparò al primo guerrillero che gli venne a tiro. Altri compagni fecero lo stesso e presto il gruppo degli assalitori, che prima era arrivato di corsa incontro ai militari, incominciò a farsi più rado e a rinculare, mentre numerosi combattenti delle due parti cadevano sotto il tiro dei proiettili. — Avanzare! Facciamola finita con queste canaglie! — gridò Palo-de-oro, che diveniva, tutto ad un tratto, il condottiero e il salvatore di quella mezza dozzina di sopravvissuti all’imboscata. — Ritirata! — ordinava ai ribelli un gigantesco biondo capellone armato di una semplice pistola automatica come se fosse un dio vichingo alla guida di un’orda di guerrieri nordici. — Hasta la vuelta! — sorrise con sarcasmo ai nemici, prima di sparire nella macchia. I soldati erano diventati dei leoni che incalzavano i ribelli, ormai impelagati nella fitta boscaglia che circondava il villaggio.
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Omar aveva ordinato ai restanti compagni di sparpagliarsi, ciascuno dietro a un fuggitivo. Per se aveva riservato il capo degli avversari che si distingueva facilmente, oltre che per la statura, per la chioma bionda parzialmente coperta da un basco rosso, mentre le fattezze del volto erano irriconoscibili, per la distanza e per la barba incolta che glielo nascondeva quasi completamente. Per più volte tentò di azzeccarlo, ma l’omaccione sembrava un fulmine, tanto era agile e veloce, nonostante la mole, e presto lo perse di vista, in mezzo agli arbusti. A un tratto, sentì uno schianto intenso e un improvviso fischio vicino all’orecchio. Istintivamente scaricò il fucile verso il punto da cui gli sembrava di aver sentito provenire lo sparo, che quasi lo aveva freddato. Gli parve allora di udire un grido smorzato. Corse in quella direzione e si trovò davanti un uomo che cercava ancora di puntargli un fucile, se non fosse stato per la ferita che grondava sangue dalla spalla destra. Lo spasimo del suo viso di indio accompagnava lo sforzo estremo e inutile di premere il grilletto con le dita della mano rattrappita. — Nome e provenienza! — gli intimò il poliziotto che l’immobilizzava con la punta del fucile piantata ben al centro della fronte. La voce usciva soffocata per la corsa recente. Ma Omar sapeva benissimo che era finalmente arrivata l’ora della sua rivincita anche se non conosceva ancora l’identità del nemico e neppure i motivi di quella battaglia improvvisa. Così avvenne che l’oscuro e maldestro Palo-de-oro, un semplice caporale che era andato per aggiornarsi nella foresta vergine, come un ridicolo burocrate dell’ultimo rango della polizia, cominciava il corso già con il grado di sergente del corpo specializzato dei ‘Leopardi’. Il campesino non apriva il becco e il primo impulso di Omar fu quello di premere il grilletto, per odio e per dispetto, ma riuscì 128
immediatamente a ricuperare il sangue freddo che l’aveva salvato al momento dell’attacco. Trascinò il ribelle e lo mostrò come un trofeo ai capi che, in quell’istante raggiungevano il luogo dell’attentato e contavano i morti e i feriti. Nella caserma il prigioniero cantò persino quel che non sapeva. L’informazione più preziosa che le torture riuscirono a strappargli riguardava il capo della banda. Era conosciuto dai guerrilleros come El nuevo Ché. Era medico, intelligente, alto, forte, barbuto e usava un basco simile a quello di Ché Guevara, solo che lui era biondo e con gli occhi azzurri. E non era argentino, bensì francese. La promozione del nuovo Leopardo fu il momento culminante della cerimonia di inaugurazione del corso. Il comandante non si stancava di esaltare le gesta del nuovo eroe che aveva saputo trasformare una sicura ecatombe in una fulgida vittoria. Tutte le virtù che il corso si proponeva di infondere nei nuovi aspiranti, egli aveva dimostrato di già a profusione. Tutti i membri della corporazione avrebbero dovuto essere orgogliosi di un acquisto come quello... Alla fin fine, era un nuovo Leopardo che era riuscito a sconfiggere in battaglia il nuovo Ché. Fu un’incensazione solenne, che innalzò istantaneamente il livello dell’autostima del Leopardo, e gli permise di intravedere finalmente quella carriera brillante che fino allora era rimasta soltanto nella nebbia dell’illusione. Promise perciò, ai compagni e a se stesso, che avrebbe vinto non solo una battaglia, ma persino la guerra. Nel frattempo l’indio, che pure aveva un nome — si chiamava Estévan Villarroel — andava cedendo. Il suo nome di battaglia era El Chino, il cinese, dovuto ai lineamenti fortemente orientali che l’eredità incaica aveva accentuato soprattutto negli occhi a mandorla. Era diventato famoso per la sua leggendaria scaltrez-
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za, nelle azioni dentro la giungla e anche per l’efferatezza che riservava alle sue vittime. La sua famiglia era stata decimata durante il massacro di Pucaranga, cinque anni prima, e fin d’allora si era unito ai reduci del gruppo di guerrilla che erano stati sotto il comando di Ché Guevara. In quella stessa epoca era spuntato, nel suo gruppo, un giovane francese, che si faceva capire, sul principio, con un portoghese un po’ approssimativo, prima di acquistare la padronanza completa dello spagnolo e persino del quéchua. Il nome di battaglia del francese, da subito, era stato Vallegrande, il nome del luogo dove Ché Guevara era stato ucciso. A poco a poco, però, Vallegrande si era guadagnato la completa fiducia del gruppo che finì per nominarlo capo della operazioni di campo e gli appioppò il nuovo nomignolo, ricavato dallo stesso suo modello e patrono. Per questo, adesso era semplicemente El nuevo Ché. Il vero nome del capo nessuno lo sapeva, come pure quello della sua compagna Violeta. Quest’ultima era una ragazza di puro sangue indio che a malapena apriva bocca per dire qualche parola. Era l’ombra del suo uomo. Si curava della sua alimentazione, gli medicava le ferite e lo ascoltava in silenzio, fissandolo perennemente in viso, come si guarda un dio.
Omar fece tutti gli esercizi di sopravvivenza nella giungla e imparò tutto sulle droghe e sulla guerrilla. Quel che prima aveva praticato per istinto, adesso lo dominava in teoria e si considerava pronto per qualsiasi evento che gli potesse succedere. Per questo, dopo appena tre mesi di addestramento, lo incaricarono di istruire una nuova leva di reclute. E il grado di tenente venne soprattutto come conseguenza dei suoi buoni risultati. 130
Nell’ottenere la licenza per un breve periodo di riposo in famiglia, dopo un anno di lontananza, il Leopardo ebbe ancor un’altra gradevole sorpresa. Al momento della cerimonia di chiusura dell’addestramento, il comandante rimpolpò il suo discorso con riferimenti al Leopardo e, insieme agli elogi, il premio: era stato promosso capitano per meriti di guerra nella foresta. Così il capitano Omar tornò alla sezione stupefacenti della Guardia Nazionale, a Pucaranga, preceduto dalla fama conquistata a Villa Tunaré. L’accoglienza a casa sua era stata glaciale, come c’era da aspettarsi, e Gloria si era persino servita del trionfo del marito per potergli infliggere le stoccate di sempre con il risultato di approfondire sempre più il solco che li andava separando. I compagni d’arma, al contrario, dimostrarono un’ammirazione calorosa e sincera. Venne accolto benissimo in tutte le ripartizioni, accompagnato dal capo Rodriguez, e ricevette congratulazioni e auguri dovunque entrava. Suzy lo accolse con un sorriso amichevole che gli aprì il cuore alla speranza. Notava però sul suo volto e nei suoi sguardi frustrazione e amarezza a malapena dissimulate dalla compostezza professionale. Lui già sapeva che Henrique l’aveva lasciata ormai da due mesi. Così, tra capo e collo. Aveva riempito una valigia con i suoi effetti personali ed era andato ad abitare con i suoi genitori. Tutti i tentativi di Suzy per farlo ritornare erano stati vani. Il figlio più grandicello aveva pianto molto e un giorno aveva afferrato la mano di sua madre per trascinarla fuori, in cerca di un altro papà, poiché si rendeva conto anche lui del gran vuoto che Henrique aveva lasciato. — Sono qui — sorrise nella sua divisa nuova il capitano, illuminato dall'aura del trionfatore. — Mi piacerebbe moltissimo poter tornare a lavorare vicino a te. Ma purtroppo dovrò rimanere ancora, per molto tempo, lontano da qui. 131
— Sono felice nel vederti di ritorno, soprattutto per la soddisfazione e la felicità che traspare dal tuo viso — fu sincera Suzy, mentre deviava gli occhi abbacinati dalla gioia riversata dallo sguardo del Leopardo. — Io sarò sempre qui, sempre più solitaria e infelice — pensò, sollevando il microfono dal gancio, per rispondere alla chiamata di una stazione della radio-pattuglia. Omar era magro e abbronzato e la divisa gli stava molto bene. I capelli e i baffetti ben curati e la barba appena fatta gli conferivano un’eleganza notevole accentuando ancor più lo charme dell’eroe forte e vittorioso. Suzy finì per accettare l’invito di incontrarsi qualche volta, almeno per chiacchierare un po’ e per bere un tè insieme. Il capitano aveva ottenuto una casa del villaggio degli ufficiali e aveva deciso di abitarci da solo, mentre pensava al modo di liberarsi del matrimonio con Gloria. Non fu cosa facile. Ma aveva imparato a essere paziente e questo l’aiutò, da una parte, a conquistare definitivamente Suzy e, dall’altra, a uscire dalla vita della moglie. Un giorno Suzy andò nella nuova casa e quello fu il vero trionfo del Leopardo. Chiacchierarono un bel po’, lui svelando particolari dei propri segreti che l’altra conosceva ormai da troppo tempo. Trovarono facilmente molti punti in comune e numerosi motivi per offrirsi un aiuto reciproco. A poco a poco, però, le parole divennero insufficienti per giustificare la necessità di stare insieme e vicini l’una all’altro. Le mani di lui iniziarono per prime a sostituire i concetti con il tatto. La soddisfazione delle idee condivise dal partner, facilitarono a Suzy il compito di deporre la prepotenza dei precetti lasciandole le mani e le labbra libere di posarglisi sul viso e di sentire i fremiti dimenticati che sorgevano a rivendicare nella bocca il diritto di ritornare. Alla semplicità dell’inizio. All’indefinitezza del non ancora avvenuto. All’irrazionalità della vita.
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Quando i loro corpi intorpiditi si incontrarono nella turbamento della felicità , era già ora di tornare ai doveri e agl’impegni. Ma il sangue aveva ormai ravvivato la rete dei desideri e l’affanno dei giorni passati lasciava il posto a nuove amarezze.
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.5 IL RITORNO
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ROBERTO aveva ormai deciso. Ci sarebbe andato. Non gliene importava niente di quel che Suzy avrebbe detto. Finalmente aveva scoperto perché il suo telefono non rispondeva. Silvia aveva cercato di aiutarlo, aveva telefonato a vari amici che potessero informarla se per caso aveva cambiato numero. Ma costoro o lo ignoravano o non si trovavano a casa. Disturbò persino lo zio generale, il famoso generale Vargas Dória. Questi rispose aspramente che da anni non manteneva più relazioni con quella famiglia. Chissà cosa poteva essere successo? Alla fine Silvia gli suggerì di telefonare al centralino e, dopo una lunga attesa, lo informarono che non c’era stato nessun cambio di numero, ma l’interruzione era dovuta proprio a mancanza di pagamento della bolletta. Andò perciò risolutamente a casa di Suzy. Conosceva molto bene quei paraggi. Quante volte aveva percorso la stessa strada, con la circolare, con il taxi o a piedi. Camminate che lo mettevano a suo agio per ordinare le proprie idee, i propri progetti, la gerarchia dei propri desideri. Leggeva e rileggeva i graffiti e le insegne che ci mettevano anni a essere sostituiti; osservava i rari cambiamenti negli edifici e il crescere degli alberi. L’aria e la polvere sempre le stesse. Le sue labbra ormai asciutte e screpolate, il palato arido e la pelle del viso disseccata e abbronzata. Era il sole di sempre, senza filtri né mezzi termini. L’ombra, vera assenza di luce, calore e vita, ghiaccio soltanto. Fuori di essa, brillio, colore e irradiazione assoluta. Il ponte sul fiume Rocha, con il monumento all’Alcarruá sempre là, sempre a gridare: — Que se rinda su abuela, carajo! E a morire nel bronzo che Roberto aveva visto e ammirato negli ultimi tredici anni. Stavolta aveva notato una bandierina tricolore appiccicata al 137
petto dell’eroe. Gli parve a prima vista uno scherzo, chissà, dei monelli delle vicinanze. Ma si rese conto che doveva trattarsi dell’atto recente di un patriota anonimo, approvato tacitamente e plebiscitariamente dalla popolazione. Il marciapiede multicolore del ponte era ancora là, gli stessi colori vivaci dell’impiantito a scacchiera, il letto del fiume ingombro di ciotoli e di spazzatura, le tre corsie, di cui due adesso asfaltate, ancora un paio di isolati e, finalmente, il vicolo grazioso dove riposava la casa di lei. La prima volta che Roberto ci era andato, veniva da scuola, scendendo a piedi insieme a un gruppo di alunni fino al ponte Tupuraya, mentre il numero si andava riducendo a poco a poco e li lasciavano soli, Roberto e Suzy. Loro due soli. Era un bel po’ di strada per Nacaba, che venivano percorrendo lungo il fiume, in direzione del centro, verso il ponte dell’Alcarruá. Ebbero il tempo di parlare della scuola, del presente, del futuro, e fu allora che Roberto svelò le perplessità che lo affliggevano riguardo la sua professione e i suoi dubbi esistenziali. — Perché hai voluto farti prete? Non lo sapevi che saresti rimasto solo? — Certo che lo sapevo. Ed ho accettato tutto consapevolmente. Ho sempre creduto che la mia vita sarebbe stata felice così. Sempre in attività, sempre con i giovani, sempre disponibile e amabile con i vecchi, i malati, i miserabili e perfino con i fuori legge e con tutti i tipi di malfattori. Nell’ondeggiare dell’andatura varie volte i loro corpi si sfiorarono leggermente e Roberto senti vibrazioni insolite che gli mozzavano il fiato. I capelli della ragazza, fini e ondulati, le ca138
devano sulle spalle e sul dorso in una danza leggera e cadenzata. Indossava la minigonna, come la maggioranza delle ragazze. Le cosce sottili, i seni da adolescente, il corpo snello cui avrebbe potuto dare rifugio con un unico abbraccio. Lei camminava in equilibrio su dei sandali irreali che pure non riuscivano a toglierle niente di quell’adorabile apparenza di fragilità, nonostante lo spessore e la solidità della suola. La voce da fanciulla affabile invadeva il professore e lo avvolgeva completamente, inumidendogli la gola e scandendogli i passi. — Ho catechizzato pericolosi carcerati e ho persino voluto abbracciare dei lebbrosi. Mi sono sottoposto a regimi di lavoro di sedici ore al giorno e ho sempre dimostrato una vitalità e un coraggio che hanno sorpreso me stesso. Mi sono mantenuto rigorosamente distante da qualsiasi coinvolgimento emozionale, soprattutto quando conteneva delle connotazioni sessuali. Proprio così. Neanch’io avrei creduto che ci fosse qualcuno capace di far ciò se non l’avessi provato personalmente. Suzy lo guardava ammirata e commossa, mentre continuava la sua camminata a fianco del giovane interlocutore, adesso rivestito da un’aura che lo rendeva ancor più bello. Dopo una lunga pausa, Roberto la fissò negli occhi e riuscì a dire, con labbra tremanti. — Ti giuro che, se tu ci stessi, sarei capace di lasciar perdere tutto e di sposarmi con te. Un’espressione di terrore silenzioso s’impossessò del volto della ragazza, che poco prima irradiava felicità, immobilizzando Roberto come se fosse un altro Alcarruá, sospeso sul marciapiede del ponte, mentre guardava fissamente il brecciolino amorfo. Due giorni dopo stavano tornando di nuovo insieme da scuola e lei aspettò di arrivare sullo stesso ponte per rompere infine un interminabile silenzio. Lo guardò bene in viso con la stessa espressione attonita di due giorni prima. Ancora seria, sospirò a 139
lungo e, alla fine, sorrise: — Ho pensato a quello che mi hai detto. Sono rimasta sepolta tutto questo tempo sotto una coperta. Ma adesso ho deciso. Voglio sposarmi con te. I violini suonarono e il sole meridiano si mise a girare nei suoi occhi abbacinati. I capelli della giovane svolazzavano al vento, mentre decollava verso le braccia solide di quell’uomo grande, nel volo improvviso di un aliante. In realtà Roberto non era riuscito a muoversi neanche di un centimetro. Le sue braccia rimasero appiccicate ai libri della recente lezione e solo gli occhi parlarono: — Ti amo... E che diranno i tuoi genitori? Ho paura. — Anch’io. Ma so pure che loro finiranno per accettare. — E Henrique? — Gliene ho già parlato: fra noi è finita. Continuerà a essere soltanto un amico di mio fratello e pure mio. — Andiamo avanti, allora. Fissarono un primo appuntamento con la mamma, con cui Suzy si era confidata, ottenendo immediata approvazione. Quando giunsero le due donne, Roberto era sul cancello di entrata del ristorante, con un ridicolo mazzetto di fiori in mano. Dopo le presentazioni aveva già perduto l’ansia, salendo per la vecchia scalinata fino alla veranda coloniale. L’ambiente era di altri tempi, ma confortevole. Si sedettero a un tavolo, lui di spalle al cortile con loro due di fronte. — Suzy mi ha detto che ha intenzione di sposarsi con Lei. — Doña Ivone aveva molto senso pratico e affrontò il problema senza troppi preamboli. Dette ancora una sbirciata al mazzetto di fiori che finalmente riposava sulla sedia accanto, dopo la lunga tortura fra le mani di Roberto, e sorrise con un’espressione da futura suocera: — Ne parlerò con mio marito. Artemio non opporrà molte obiezioni, glielo assicuro. 140
Roberto se ne rallegrò fino al midollo. Una profonda felicità gli rivestiva l’immaginazione, che riusciva a compiere la prodezza di proiettare un futuro paradossalmente chiaro e luminoso sullo schermo di un presente nebuloso e problematico. Doña Ivone sembrava aver soltanto premuto un bottone che lasciava irrompere una cascata di riflessioni, giudizi, opinioni, ricordi, memorandum, impressioni, suggerimenti, ricette di torte, ricette di piatti tipici nazionali, relazioni di opinioni, giudizi e pensieri altrui. Tutto ciò, mentre i due piccioncelli consumavano una cena frugale, immersi negli sguardi reciproci già benedetti dagli affabili vaneggiamenti della matriarca. I giorni seguenti furono di una felicità senza pari.
Roberto si ricordava ancora del primo appuntamento alla casa parrocchiale. Si ricordava del Teatro Villachá, dove stavano realizzando una peña folcloristica. Suzy si era portato appresso il fratellino Félix che, con i suoi dodici anni, sarebbe diventato il più grande tifoso e alleato di quel fidanzamento, nonostante lo trovasse un po’ strano. — Mi piace il modo di cammiranre di “Betto” — si era confidato con la sorella, subito dopo lo spettacolo. — Sembra così sicuro di sé! Aveva visto e ammirato Betto come un eroe mentre disputava per il possesso delle poltrone che dei ritardatari rivendicavano quando lo spettacolo stava per incominciare. — Stai cominciando a guadagnare dei punti, neh, furbacchione? — Suzy festeggiava ogni segno di gradimento da parte della sua famiglia, davanti alla nuova realtà che si veniva delineando. — Perfino Evaristo, mio fratello maggiore, che ritenevi così burbero e che ti metteva in soggezione, adesso parla sempre di te: “È
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una brava persona”, dice lui. Mia madre è sempre più entusiasta e pensa che sono stata fortunata a incontrarti. Le chiacchierate al telefono si prolungavano e Betto andava in solluchero nel rendersi conto che l’amore che lui provava si riverberava nella personalità della sua giovane amata, ingigantendosi velocemente in quel corpo apparentemente così minuto, ma sempre più importante ai suoi occhi. Uno di quei pomeriggi andarono insieme alla sessione pomeridiana del film italiano con le didascalie in spagnolo, Alfredo, Alfredo, con Dustin Hoffmann nel ruolo del marito soffocato dalla moglie bella ma nevrotica, il quale ritrova la felicità grazie a una nuova unione, stavolta informale e all’insegna del culto della libertà e di un rispetto reciproco senza limiti. Fecero delle belle risate e sospirarono insieme, mano nella mano, dandosi persino un bacio nel buio compiacente del cine Palladium. Di ritorno a casa, la accarezzò con delicatezza più volte, mentre con mano sicura teneva il volante della land-rover, e finirono per rimanere molto tempo soli in salotto fino all’arrivo dei genitori di lei. Fu in quella sera che Roberto imparò giochi inediti che potrebbero corrispondere, per la sua esperienza amorosa, a quel che la scoperta di un nuovo pianeta rappresenta per uno scienziato o un’intensa esperienza mistica per un eremita. Sentì le onde del piacere invadere il suo corpo, a cominciare dal contatto reciproco e dal lieve strisciare dei polpastrelli o a partire dalla bocca, le cui labbra carnose, una alla volta, lei si compiaceva di succhiare a lungo, mentre le mani di entrambi viaggiavano lungo il corpo del partner, in una esplorazione fantastica di pianure e di soffici rilievi giammai immaginati prima. Non c’era più bisogno di nulla. Roberto incominciò a prende142
re tutti i provvedimenti necessari per sciogliere i voti. Riempì formulari, parlò con i superiori immediati e persino con il cardinale primate, durante una riunione della conferenza nazionale dei vescovi, a Surquero. — Quando un uomo di Dio trova la ‘donna fatale’, non c’è verso di dissuaderlo — sentenziava il cardinale, dopo l’interrogatorio di prassi. E trovò logico quando Roberto rispose chiaro e tondo: “si” alla domanda del questionario: "Ritieni di aver avuto la vocazione?". Suzy l’aveva accompagnato all’aeroporto quando dovette prendere il Fairchild per Surquero e andò ad attenderlo al ritorno. L’incoraggiava a procedere con calma e determinazione, senza sottrarsi alle responsabilità assunte verso i fedeli, che seguitavano inconsapevoli a cercare l’appoggio del padrecito. I giorni sorgevano luminosi e gli agrori del processo di esclaustrazione si dissipavano al contatto magico con quell’essere meraviglioso che si era messo a condurre le sue emozioni e le sue decisioni. Ma la festa durò poco, come tutte le cose belle della vita. Era invece incominciato un vero e prolungato martirio. Le cose andarono a rotoli definitivamente in occasione del ballo di chiusura del semestre. Suzy aveva preso parte al concorso di bellezza organizzato dagli alunni dell’ultimo anno e, fra i giurati c’era Roberto, il quale, naturalmente, votò per lei. Nessuno a scuola sospettava minimamente che ci fosse una speciale relazione fra i due, perché il giovane professore era molto popolare e trattava tutti con grande cordialità. Riusciva ad attirare l’attenzione degli alunni più svogliati sugli argomenti più aridi delle sue lezioni, con battutine inaspettate, come il giorno dopo una gita scolastica in cui si era messo a fare il fotografo ufficiale:
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—State attenti, ragazzi. Se vi comportate bene vi faccio vedere le foto delle ragazze. E alle ragazze... Esitò un poco, prima di lanciare l’idea che gli era balenata in mente, spontanea e brillante, ma senz’altro un po’ audace. Ma, alla fine, non ce la fece e sbottò: — Alle ragazze, faccio vedere la mia! Aveva del carisma e gli piaceva dimostrarsi amico e interessato ai problemi di ognuno di quei giovani, ed era contraccambiato con un’ammirazione e una fiducia a tutta prova. Un giorno un’alunna riuscì, per un istante, a fargli perdere il buon umore, interrompendolo con una domanda apparentemente innocente che però alle sue orecchie risuonò più che altro inquisitoria, seguita da una velata accusa e condanna senza diritto di appello. — È vero che per farsi prete bisogna essere necessariamente omosessuali? La classe intera rimase per interminabili istanti, sospesa in quella sgradevole sensazione tra la riprovazione generale per l’inopportuno intervento della compagna e la voglia di esplodere in una bella risata, o tra il disagio e la curiosità per la risposta che ne sarebbe seguita. E il fulcro della situazione era, ancora una volta, il viso sereno del professore, per la prima volta apparentemente turbato da quel rebus estemporaneo. Ma subito un’improvvisa intuizione balenò nei suoi occhi già arresi, rischiarando i lineamenti tesi di quel volto nel sorriso accattivante di sempre. — Ritengo che sia sufficiente essere mono…sessuali!
Suzy lo volle come suo cavaliere al ballo, come accompagnatore al momento dell’incoronazione e avrebbero danzato il valzer insieme. Successe però che Henrique aveva insistito tanto
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per andare anche lui al ballo, che finì per convincere se stesso che era stato realmente invitato da lei. E ci andò. Prima dell’inizio della cerimonia invitò Suzy al suo tavolo e non si alzarono più fino a che l’orchestra non ebbe dato inizio alle selezioni. Quando passò davanti a lei, Roberto lesse negli occhi di Suzy che tutto era cambiato. Osservò, ancora con compiacimento, la silhouette della ragazza mentre scendeva con grazia la scalinata montata sul bordo della piscina. Indossava un abito lungo di pizzo bianco che lei stessa aveva fatto all’uncinetto e portava una rosa rossa sulla scollatura. Il principe azzurro applaudì, insieme agli astanti, il trionfo che doveva essere soltanto suo. Ballò silenziosamente con una Suzy assolutamente sconosciuta a cui lasciava per il giorno dopo la risposta alle domande che i suoi occhi esprimevano. Era l’inizio di una battaglia tanto inutile quanto impossibile. In fondo lo sapeva benissimo che non avrebbe mai potuto raggiungere l’obiettivo che in quel momento si proponeva: riconquistarla. Fu così che la stessa Suzy decise di invitarlo a quattro chiacchiere e gli chiese un po’ di tempo per riflettere poiché riteneva di essere ancora innamorata di Henrique. Che, infine, voleva dedicarsi ai suoi studi e progettare il futuro senza premura. Che lui avrebbe fatto bene a tornare in Italia, che cercasse un lavoro e incominciasse una nuova vita accanto a sua madre che già aveva dovuto soffrire abbastanza a causa del suo girovagare per il mondo. Roberto impazzì per il dolore, pianse, supplicò, disse che non sarebbe andato via e che tutto poteva rimanere come prima. Alla fin fine era stato sempre un buon prete e la gente aveva ancora bisogno di lui. — È possibile che, dopo tutto quel che è successo, tu ti senta bene in un ruolo in costante conflitto con le tue aspirazioni per145
sonali? E quanto al tuo desiderio di essere papà? — Finirò per trovare una soluzione. Intanto mi sento come un elefante dentro un negozio di cristalli. Provoco dei danni ovunque mi giri. — Che c’entra — cercava di rasserenarlo la ragazza. — Non sono decisa. Tutto qui. Chissà che un bel giorno possa risolvere la mia vita con più calma e determinazione. — Ma certo, ne hai il pieno diritto — si rassegnò infine. — Me ne andrò via, ma puoi stare sicura che ti amerò sempre. Non cercherò altre donne, anche se questo ti lascerebbe più tranquilla non sentendoti più responsabile del mio destino. Penso che ho imparato ad amare davvero e, pertanto, esclusivamente e perennemente. È come se mi fossi già sposato con te, capisci? — Se in questo periodo di allontanamento riuscissi a padroneggiare i miei sensi e il mio corpo e la mia vita, sarei perfettamente preparato per stare insieme a te per sempre. E se allora tu non volessi più essere mia moglie, sarei sicuramente pronto a riprendere, in piena maturità, la mia vita di servizio e di amore come prete. E potrei dire alle persone, con tutta sincerità: “Non ho una moglie e non sono arrivato ad avere la figlia che ho desiderato, ma sono un vero padre, perché, dalle mie viscere sterili è scaturito un fiume d’amore capace di infondere la fiducia nella vita e la fede e la pace in tutti quelli che, immersi nella propria umanità, fossero disposti a superarsi e a sublimarsi”. So, d’altronde, che l’eventuale scelta di un’altra ragazza che volesse sposarsi con me, non risolverebbe il tuo amletico dilemma. So infatti che rimarresti con il rimorso di avermi esposto all’occasione di sbagliare la scelta, non avendo la certezza assoluta che sarei felice con un’altra, o, come spero io, rimarresti con il pentimento cruciale d’aver perduto l’uomo che avrebbe potuto riempirti di felicità — almeno stando a quanto lui si vantava. Suzy, vorrei convincerti che non sono soltanto un coagulo di 146
desideri osceni, o un povero uomo solitario in cerca di una compagnia qualsiasi. Sono un uomo di trent’anni che, dopo un prolungata esperienza di servizio e di amore verso bambini e adulti, giovani uomini e donne e vecchi e ammalati e prigionieri e lebbrosi e religiosi e atei, reagisce sovranamente libero a un’imperiosa crisi affettiva, scegliendo il matrimonio come unica alternativa degna d’essere paragonata al magnifico celibato vissuto fino ad oggi. E tutto ciò perché ha trovato una ragazzina che la sua intuizione gli mostra capace di sintetizzare tutti i suoi valori più elevati, anche se il mondo intorno gli si prospetta opaco ed ingrato. È vero che quest’uomo presenta una personalità con tratti addirittura sconcertanti. È ottimista e giocherellone, ma, a volte, è cupo e piagnucolone. Sembra forte e invincibile, ma rivela spesso debolezze e indecisioni e timidezza e codardia. È intelligente e intuitivo, ma sembra anche non riuscire a comprendere il senso della realtà o a dialogare con le persone. È sentimentale e romantico e dolce e comunicativo e paziente, ma esplode facilmente in manifestazioni di una sensualità disperata o si chiude in un mutismo sgradevole o dà spettacolo di evidente impazienza. Sembra generoso e altruista, ma è capace di manifestare un egoismo preoccupante. E infine si impone con una personalità originale e degna di attenzione o, meglio, di accettazione o di rifiuto. Non è un bruto ottuso e uno schiavo inveterato di passioni e istinti, alla ricerca di persone che soddisfino le sue debolezze, succubi del suo fascino malefico. È fondamentalmente buono e chiede alla vita il privilegio di poterla guidare secondo un piano tracciato da lui stesso, senza lasciarsi coinvolgere in schemi imposti dalle circostanze. È un coerente, nonostante le contraddizioni interne della sua personalità, nel seguire una linea sostanzialmente retta — il principio della libertà e dell’amore imparato dal vangelo — anche se con apparenti o reali deviazioni occasionali, non sempre deliberatamente provo147
cate. Tu avrai tutto il tempo per poter superare i timori che quest’uomo può averti provocato e sono sicuro che presto sarai in grado di valorizzarlo e di volergli bene definitivamente. Suzy andò ancora una volta all’aeroporto per dare l’addio, stavolta forse per sempre, a quell’uomo grande che aveva amato con la passione di un’amante e con l’affetto di una figlia e di una madre allo stesso tempo.
Così Roberto se ne andò via davvero. Sull’aereo rimase inchiodato al suo posto, pietrificato in quell’agonia da esiliato. Gridò il suo amore lancinante per una Suzy sempre più lontana, in una protesta silenziosa che la scia del Boeing lanciava immediatamente nello spazio insieme al ronzio persistente dei reattori. Prima di proseguire per l’Italia. aprofittò dello scalo a San Paolo per andare a trovare Toninho Neves, un vecchio conoscente che abitava a Lins. Ma finì per rimanere in Brasile. Quando riuscì a sistemarsi nella stanza per gli ospiti dell’amico, Roberto incominciò a scrivere la prima delle lettere chilometriche che avrebbe scambiato con la sua piccola amante, padrona e prigioniera di quella devastatrice ambivalenza affettiva. Registrò una cassetta con poesie, canzoni e tutto ciò che non era riuscito a dirle durante il suo breve e tempestoso innamoramento. Vi aggiunse il romanzo di Ignazio Silone, Pane e Vino, che aveva trovato in spagnolo dal cartolaio dell’aeroporto e spedì il tutto in un unico plico. Quindici giorni dopo arrivò la risposta di Suzy che l’immerse in un’onda di felicità incontrollabile. La lesse mille volte, baciò mille volte il foglio e pianse come un bambino. Pensava e viveva
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soltanto per lei.
«Indescrivibile e dolce Betto, ho provato molte emozioni (sorpresa, tristezza, speranza, rabbia, gioia, risate, tenerezza) nel leggere la tua lettera appena ricevuta, e alla quale rispondo immediatamente. Già mi è passato il nervosismo dovuto al mio esame di Letteratura Americana — Benedetta Letteratura! Mi dicevi sempre. — Non è andato come mi aspettavo, nonostante avessi studiato molto. Il fatto è che non ero nelle condizioni psicologiche ideali per sostenere un esame. Mentre cercavo di mettere in ordine le mie idee per svilupparle nella pagina bianca davanti a me, pensavo alla mia vita attuale e al mio futuro. Complice la pioggia che tamburellava sul vetro della finestra e il freddo che si faceva sentire persino dentro l’aula, mi forzavano a concentrarmi sulle sette domande che esasperavano per la loro lunghezza e persino per la loro assurdità. Betto, non farmi soffrire con quello che mi scrivi, che impazzirai o che guardi la morte come l’unica via d’uscita. Voglio che tu sia felice e per questo devi essere ottimista per iniziare la tua nuova vita lontano da me. Devi lavorare e studiare con grande entusiasmo e distrarti pure, per gettar via la solitudine che oggi vuole assorbirti a ogni costo. Quando il tempo avrà cancellato molte cose che oggi fanno male e ci ritroveremo rappacificati e, soprattutto, com l’amore di oggi, potrai ripetermi la domanda: "Suzy, vuoi sposarmi?" O chissà dovrai soltanto cambiare il nome, se non sarò più io la prescelta Sinceramente devo ammettere che mi dispiacerebbe moltissimo se, in futuro, “la donna magrolina e piccola” rimasta a Puca-
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ranga dovesse vedere eclissata la sua bellezza — “non eccessiva”, ma sufficiente per attirare l’ultimo conquistador — dalle belle ragazze brasiliane e si vedesse relegata al secondo o terzo posto. L’unica cosa che ti chiedo è che, se devi uscire con una ragazza per quanto bella possa essere, non ti lasci guidare dai tuoi impulsi. Ricordati che una figlia ha bisogno che i genitori si amino molto e sicuramente non le piacerebbe essere il prodotto di una notte di follia e di oblio. Se un giorno tu dovessi fare una scelta in cui io non fossi altro che un’ombra lontana, oscura e alquanto dolorosa del passato, dovrai farla sotto la spinta dell’amore, un amore “incommensurabile”, come tu stesso hai chiamato quello che sentivi per me, capace di resistere fino alla fine della vita. Betto, il sesso senza amore non ha senso. Promettimi che terai ciò nel debito conto. Mi piacerebbe che ti mettessi a studiare psicologia, perché hai delle buone basi e, sicuramente, in poco tempo potresti laurearti. “Però oggi sto vivendo io questa storia, e con un'intensità disperata. Nonostante, all’ultimo momento, tu mi abbia teso una mano perché non morissi di disperazione”... — mi scrivi. Non sei stato solo tu a vivere la nostra storia con grande intensità. Anch’io l’ho vissuta così, fin dall’inizio. Quel che non accetto è quanto dici riguardo averti teso la mano “all’ultimo momento”: questo si fa per compassione e io, se ti ho telefonato, è stato perché sentivo che ti perdevo e che ti amavo. Ciò deve rimanere molto chiaro. D’accordo? Mi sembra che nel tuo giudizio su Henrique ti sia lasciato prendere la mano dal risentimento. Lui si è comportato da un uomo innamorato, che non si rassegnava a perdere quanto, già da quattro anni, si era abituato a ritenere suo. Non credo che i passi che ha fatto siano il prodotto di un calcolo freddo e astuto. In ogni modo, ha cercato di tenermi al suo fianco. Non devi essere ingiusto, Betto. Mettiti al suo posto. Che avresti fatto se la 150
persona che ami di più, a cui avessi affidato la tua vita e i sogni da adolescente che vuol diventare uomo maturo, un bel giorno, quando meno te lo aspetti, ti dicesse che non ti vuole più? Suppongo che dev’essere esasperante. Lui ha pianto, è venuto a casa mia, ha supplicato, ha imprecato, ha minacciato e non ha cercato soltanto di sedurre. È vero che ti disprezza, ma questo disprezzo è dovuto soltanto al fatto che sei l’uomo che ha distrutto il suo castello di sogni, frutto di lavoro e di amore e di tempo. Non lo giustifico, soltanto lo comprendo. Adesso è andato a studiare nella capitale, insieme a mio fratello Evaristo. Ma stai certo che non mi considera perduta. Lasciamo tuttavia che il tempo si incarichi di risolvere tante cose. Ho finito da poco di leggere Il Padrino di Mario Puzo, che tu mi hai lasciato in regalo. Mi è piaciuto più del film e soprattutto mi ha fatto amare di più la Sicilia, con le sue donne belle, miti, ingenue e, soprattutto, pure. La semplicità e l’amore verso la famiglia sono cose che ho oltremodo gradito. La Romana di Alberto Moravia, per lo stile e il modo di descrivere, mi han impressionato anch’esso oltre ogni dire. In un certo senso la protagonista Adriana mi è rimasta dentro e fa parte dei miei tanti pensieri sulla felicità. Non so perché — dev’essere fatalismo — ma, come lei, ho una profonda certezza che non riuscirò mai ad essere felice. La Suzy che mi rimane dietro non tornerà mai più a essere la stessa. Non perché non lo voglia, ma perché non si può. Credo di haver perduto la mia fiducia nel futuro, in una vita piena di gioia. Tutto in me si è trasformato in un’immensa ombra. Alle volte penso che soltanto un figlio — o sia pure una bimba, come sempre hai desiderato tu — potrebbe togliermi da questo mondo di solitudine. Ma manca ancora molto perché ciò si avveri. Non sono riuscita a sentire la cassette registrata che mi hai mandato. Sarà difficile in ogni modo che io ne possa registrare 151
una da mandarti, visto che non ho un registratore, ma la considero un mezzo di comunicazione di gran lunga migliore della stessa posta. Ciononostante ti scriverò sempre, finché tu ci tenga a ricevere mie notizie. Avrei piacere che mi spedissi molte foto tue, possibilmente a colori. Anch’io te ne manderò alcune. Non mangiare troppo ma alimentati bene. Se compri degli indumenti, compra giacche e camicie ben attillate. I pantaloni che siano davvero lunghi e a zampa di elefante. E soprattutto studia molto e non perdere tempo in cose senza senso. Nei momenti in cui sei libero e senza preoccupazioni, pensa a me. E non dimenticarti mai di me, anche se un giorno smettessi di amarmi. Ho dimenticato di dirti che mi manchi. E penso a te in ogni momento. Scrivi presto. Non dimenticarmi. Ti voglio molto bene.»
E alcuni giorni dopo, gli giungeva un’altra lettera: «Sono appena tornata dal cinema. Il film era Sacco e Vanzetti. All’uscita, come la maggior parte degli spettatori, sono rimasta con il sapore amaro di questa ingiustizia. Avevo voglia di gridare come Vanzetti che la legge è una vera commedia dove ai potenti basta una parolina per ottenere sempre i migliori ruoli, anche senza bisogno di saper nulla di recitazione. Sembra inconcepibile che non si possa uscire mai da questa morsa repressiva che è sempre esistita e che forse non si riuscirà mai a eliminare. Non ho ancora iniziato a leggere il libro di Ignazio Silone che mi hai mandato. Nella prossima lettera ti farò un breve commentoin cui tu possa apprezzare le mie modeste doti di critica letteraria. Betto, ti penso mille volte al giorno. Sarà che tu pure mi pensi almeno novecento novanta nove volte? Se no, devo credere che mi stai dimenticando. No dimenticarti di raccontarmi tutte le cose che fai e persino le cose che pensi. Tutte quante mi inte-
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ressano molto, quelle piccole e quelle grandi. Quante ragazze hai conosciuto costì? Sono carine? Che ti dicono? Sono dolci e intelligenti come me? Sono sicura di no. Bada a te stesso. E scrivimi presto. E soprattutto ricordati sempre di me. Sempre. Ti bacio, ti bacio con tutto il mio affetto. Ti voglio molto bene. Suzy».
Come avrebbe potuto dimenticarla? Era diventata un’idea fissa. Roberto riusciva a malapena a trovare un motivo per cercare lavoro grazie alla comprensione dell’amico brasiliano. Toninho Neves era un muratore che era riuscito a costruire la propria casa e dirigeva una comunità di base cattolica. Pagava puntualmente la decima alla parrocchia ed era presente in tutte le riunioni dei gruppi di preghiera e di discussione. Aveva conosciuto Roberto durante un convegno a Pucaranga, dove le varie comunità dell’America Latina avevano scambiato le proprie esperienze e avevano fatto progetti per un futuro più pacifico dei rispettivi paesi, quasi tutti sottomessi a ferrei regimi militari e in condizioni di generale povertà. Roberto cominciò, pertanto, a partecipare a tali gruppi ed a immergersi in tutta la problematica brasiliana, per molti aspetti simile a quante aveva conosciute nei paesi di lingua spagnola, con in più il compito di imparare a esprimersi in una nuova lingua. Nel frattempo cercava di essere utile disegnando sulle pareti del salone comunitario scene bibliche e scrivendovi frasi del gruppo stesso. A poco a poco il clima conciliante e amichevole di quelle persone riuscì a lenire alquanto il suo dolore, senza però distoglierlo
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dalla sua determinazione di aspettare che le cose tornassero a suo favore per quanto riguardava la sua relazione con Suzy. Continuava perciò a scrivere la sue lettere d’amore, che attraversavano le notti della primavera brasiliana, esauste da tanto ascoltare il canto delle cicale e illuminate da quegli spietati chiari di luna che non facevano altro che acuire la sua nostalgia. E le risposte di Suzy arrivavano puntuali portando tutto ciò che Roberto avrebbe preferito ascoltare dalla sua viva voce.
«Indimenticabile, dolce e incomparabile Betto, dopo mille tentativi, sono riuscita finalmente ad ascoltare il nastro che mi hai mandato. Quando ho finito, sai pure presa da un grande dolore, ho provato anche gioia e un’immensa felicità, scoprendo di possedere un amore infinito come il tuo. Vorrei averti vicino per poterti abbracciare e chiedere mille volte perdono per tutto il male che ti sto procurando. Mi sono ricordata del tuo sguardo, l’ultimo, prima della tua partenza per il Brasile, quando i tuoi occhi, senza bisogno di parole, mi gridavano che tu mi amavi davvero. Dolce Betto, ti ricordo sempre e il tempo, invece di separarmi da te, come pure la distanza, mi unisce a te sempre più. Tu vai formando, ogni giorno che passa, un tratto in più della mia vita. Una volta t’ho detto (o sei stato forse tu a dirmelo?): “Non si ringrazia per l’affetto”. Consideravo una verità assoluta questa frase, che è diventata famosa con la Love Story di Erich Segall, ma oggi non ci credo più. Perché una persona è libera di amare o no. E se qualcuno ti dona il suo amore, sta depositando in te il meglio che possiede, il meglio del suo essere. Ti sta affidando la sua vita e il suo destino. E una parola soltanto, breve e antica, può essere la risposta
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adeguata a questo atteggiamento. La conosci? Te la dico io: grazie. Grazie per vedere in me la tua sposa sognata. Grazie per considerarmi degna di essere chiamata madre di tua figlia. Grazie per volermi nonostante tutto. Grazie, grazie, grazie per tutto questo sogno che tarda ancora a diventare realtà. Oggi, quando sono salita sul bus, ho visto un bambino bellissimo e ho associato quel bambolotto al tuo desiderio ansioso d’essere padre. Ho sentito allora anch’io, dentro di me, il desiderio di avere un figlio o una figlia tua. Tua e mia. Nostra. Questo pensiero è stato interrotto dalla realtà. Il futuro, il presente, Henrique, che pure amo, lo studio e il timore più grande: di non essere felice con te. Sono convinta che torneremo a incontrarci col tempo e quel giorno prenderemo una grande decisione che ci unirà o forse ci separerà per sempre. Sogno? Mi pare che nella lettera precedente mi sia dimenticata di dirti che la barba ti sta molto bene. La foto che mi hai mandato insieme alla registrazione, però, non mi è piaciuta, non solo perché è stata scattata male, ma per l’espressione triste che c’è nei tuoi occhi. Posso chiederti una cosa? Sorridi, sorridi sempre. Ma, questo sì, quando sei felice ricordati di me. Le canzoni registrate sono belle. Quella che mi è piaciuta di più è stata “Ritmo del doctorcito”. Le composizioni, la poesia di Neruda e le parole di presentazione dirette al “celebre uditorio” composto da una sola persona, l’hanno emozionata di più che se si trattasse diecimila spettatori. Qui a casa ti ricordano tutti almeno dieci volte al giorno. Io, 10.000.000.000.000.000.000.000 volte. Mamma, soprattutto, parla sempre di te, che sei stato per lei più di un figlio. Mi farebbe piacere che le scrivessi se ne avrai il tempo. Betto, spero che adesso tu sia più sereno, con la volontà di andare avanti, sempre. Lo so che non è facile, ma l’importante è 155
cominciare e sono sicura che hai già cominciato, non solo per me, ma soprattutto per te stesso. Ho finito di leggere Pane e vino di Silone che m’hai mandato. Il passo che mi ha dato più da pensare è stato: “Si vive transitoriamente, pensando che la vita vera comincerà un giorno. Un giorno! Ci prepariamo a morire con la sensazione di non essere mai vissuti. Alle volte questa idea mi ossessiona: si vive una sola volta e questa unica volta la si vive sempre nel provvisorio, in attesa del giorno in cui dovrebbe incominciare la vita vera. Così corre il tempo. Nessuno vive nel presente. Nessuno è in condizioni di dire: ‘A partire da allora, a partire da quella determinata occasione, è incominciata la mia vita’...” (Parole di Nunzio Sacca a Pietro Spina). Il finale tragico dell’opera provoca un vero e proprio impatto, poiché si tratta di un avvenimento completamente inaspettato. Non c’è niente di più crudele di una morte come quella di Cristina. Il personaggio che ritengo importante quasi come quello di Pietro Spina, è il prete. La sua vita, le sue parole dritte come i suoi pensieri e i suoi principi. È l’uomo che non ha dubbi sulla sua fede e sa trasmetterla agli altri. È una superba caratterizzazione di un autentico sacerdote. La sua morte chiude con chiavi d’oro la storia della sua vita. Il protagonista rivoluzionario e le sue perplessità riguardo la causa che persegue — subito dissipate per ricominciare con più forza e decisione — sono sbozzati con sfumature molto umane e realiste. La causa perseguita è la causa di tutti i tempi: la libertà. Ieri ho letto il libro di William Blatty, L’Esorcista. Se avrai un po’ di tempo, vorrei che lo leggessi anche tu e mi mandassi un breve commento. Sono rimasta davvero impressionata da un tema così scabroso. 156
Anche il libro Pedro Páramo è molto bello e oltremodo originale. Le parti che ti mando sono monologhi del protagonista il quale evoca Suzana, la moglie scomparsa. È una storia dove tutti i personaggi, incluso il protagonista, sono morti, ma i loro spiriti continuano a vagare per il mondo. Sono morti che pensano, sentono, soffrono e piangono per le proprie pene passate. Il ricordo della sposa amata è ciò che ossessiona di più Pedro Páramo. Betto, ci sono dei momenti in cui sarei capace di lasciare tutto alle spalle e andarmene lontano con te, in un posto dove solo tu sia il mio mondo, il mio futuro e i miei sogni. Vorrei che ci sposassimo e avessimo molti bambini, soprattutto femminucce. Vorrei rimanere vicino a te e amarti fino a rimanere senza fiato, ma con il desiderio costante di amarti sempre più, ogni giorno un po’ di più e più ancora. Solo che, quando vedo Henrique, quando mi rendo conto della necessità che ha di me, in quel momento ti odio e vorrei non averti mai conosciuto. Perché mi succede questo? Si può amare e odiare allo stesso tempo? Ti amo! Ti amo e ti odio pure. Ti penso sempre. Penso alla tua dolcezza, alla tua tenerezza da bambino, alla tua maniera di amare e a quel pomeriggio, dopo il concorso di bellezza — Che bellezza?! — E a quell’altro pomeriggio che ho passato con le lacrime agli occhi, mentre pensavo a Henrique, ma stretta a te... Ti ricordi? Scrivimi presto. Fammi sapere come va la tua salute. Quali sono le ultime notizie. Senti la mia mancanza? Hai conosciuto molte ragazze? Sono belle? Ti piacciono? Pensi che potresti arrivare ad amarne una al punto da sposarla? Che fai tutto il giorno? Esci con qualcuna? Ti cerca qualche ragazza? Raccontami tutto, tutto, tutto, tutto, tutto. TUTTO! TUTTO!. Sai, Henrique mi lascerà solo quando non mi considererà più quella che lui voleva. Ma quando succederà? Trattati bene. Non mangiare troppo. Lasciati crescere la bar157
ba e mandami molte fotografie. Hai sviluppato quelle che hai scattato qui? Scrivi presto».
Del gruppo di Toninho Neves faceva parte Luís, un medico omeopata che curava i malati che ricorrevano a lui presso l’ambulatorio della parrocchia e nell’unico ospedale del paese, sempre assistito dalla moglie, l’infermiera Edna. Abitavano in periferia ed erano molto affiatati con gli altri abitanti del quartiere, la maggior parte braccianti od operai del mattatoio. Il leggero accento straniero e il loro aspetto fisico non erano tali da suscitar eccessiva curiosità fra quella gente modesta, poiché fra gli abitanti del posto c’erano molti tipi chiari e perfino dei biondi dagli occhi azzurri, proprio come il medico, gente dall’ascendenza gaúcha o direttamente italiana. Erano arrivati entrambi qualche anno prima e si erano introdotti pian piano fra quella gente. Ma pochi avrebbero saputo dire qualcosa sul loro passato. Da dove erano venuti, che facevano prima d’arrivare da quelle parti, dove vivevano i loro genitori... Anche perché, arrivavano tante persone come loro, quasi ogni giorno, in quei quartieri di povera gente e tutti erano così preoccupati per i loro guai per cui non erano interessati a quel tipo di problemi. Roberto notò immediatamente la loro origine francese, non solo per l’accento, ma soprattutto per gli innumerevoli piccoli indizi lasciati, senza volerlo, durante i loro interventi negli incontri di spiritualità e persino nelle semplici chiacchierate fra amici, sull’imbrunire, alla bottega di Donna Joana. Roberto aveva fatto subito amicizia con loro e presto incominciò a frequentarne la casa, dove i lunghi scambi di idee si andavano trasformando in veri e propri incontri letterari, con
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audizioni di vecchi dischi di opera o di vecchie canzoni. Edna, una sera, recitò perfino alcune poesie in francese, con accompagnamento musicale eseguito da Luís che suonava una fisarmonica un po’ asmatica tolta dalla parete, dove rimaneva normalmente appesa solo per decoro. Altre persone della comunità incominciarono a riunirsi per puro piacere. Ognuna recitava delle poesie o leggeva dei brani di opere letterarie o suonava o ascoltava musica. Una di quelle sere Edna venne interrotta, mentre recitava Ronsard, da un ragazzo dei dintorni che entrò senza che gli astanti, silenziosi e attenti alla poesia, avessero minimamente notato la sua presenza. Andò direttamente a offrire un mazzo di fiori alla giovane infermiera che aveva appena finito di declamare un sonetto e, senza attendere un cenno di ringraziamento, uscì tanto svelto e schivo come era sbucato fuori. La dicitrice improvvisata sorrise, sorpresa e perplessa allo stesso tempo, mentre prendeva automaticamente e apriva il cartoncino che accompagnava l’inatteso regalo. Era di più una cartolina musicale: una vera novità. In un istante quel sorriso scomparve e un pallore mortale si impossessò del suo volto, prima radiante e soddisfatto, mentre le sue labbra seguivano, con un soffio, il ritmo che la musichetta pizzicava a ogni nota del samba: Non serve a niente fuggire... il mondo è proprio piccolo... Ramses. Le braccia le si afflosciarono e il mazzo di fiori cadde a terra. Fu uno scoppio improvviso, seguito da una vampata che si portò
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su, fino al soffitto, parti strappate dalla pelle e dal vestito della giovane donna, sospinta all’indietro in un grido impressionante. Gli altri furono colpiti in vario modo, mentre Luís e Roberto, un po’ più distanti, assistevano inerti ed esterrefatti a quello spettacolo fulmineo. Edna venne portata immediatamente all’ospedale, ancor prima che qualcuno cercasse di fare domande o dare spiegazioni sull’accaduto. Fu così che l’infermiera morì, nel suo stesso ospedale, con la mano rattrappita che carezzava il viso di un Luís impazzito dal dolore e scambiando con lui sguardi ciechi e gridi senza voce. Il significato di quanto accaduto non emerse dalle indagini della polizia, ma dallo stesso Luís. Questi, a dire il vero, fu laconico nel deporre davanti al commissario, favorendo la versione del semplice incidente dovuto a una bomba di carta. Passati alcuni giorni, però, il medico si confidò con Roberto, e gli raccontò una storia davvero romanzesca che riguardava gli ultimi quindici anni della sua vita com Edna, rivelando inoltre che il suo vero nome era François De la Roche e quello della moglie appena scomparsa, Lucienne Blanchard. Roberto diede all’amico il consiglio di continuare la propria lotta contro la mafia e di fare l’unica cosa per lui ancora possibile: fuggire. Si sarebbe unito a loro in questa impresa, visto che ormai si considerava anche parte integrante di quella storia incredibile. E mentre progettava una nuova fuga, Roberto ricevette un’altra lettera della sua amata, completamente ignara di quanto era accaduto.
"Betto, quando ricevo una tua lettera, ti sento vicino, immagino e ricordo il tuo modo di parlare e la dolcezza che poni nelle
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tue parole. Credo di non avertelo mai detto: sei molto puro e molto dolce (un po’ birichino, è vero, ma così poco che neppure si nota). Ci rivedremo in occasione del tuo compleanno? Dobbiamo festeggiare i 29 anni (dopo i trenta conterò all’inverso, come piace a te) dell’irresistibile conquistador italiano, idolo delle tante ragazze brasiliane, elegantissime, ma che non riescono a strapparlo dal suo mondo magico, dove c’è una piccola farfalla, snella, musa delle sue ispirazioni, bella, ma neanche troppo, con un cuore immenso ed una grande anima che lui ama “incommensurabilmente” e che si chiama... Tu lo sai come? Il mio periodo di sofferenze è già passato, come tutto passa in questa vita. Mi sono ritrovata, dopo tanto cercarmi. Sono nuovamente la Suzy di una volta e forse un po’ migliore. Credo in Dio (questa è la mia conquista più grande), nell’amore, nell’amicizia, nel rispetto, nell’abbandono totale, nella vita, nel futuro e in te pure. La vita è priva di senso se non si ama. Quando si ama si è completamente felici. Amo tutti e credo che tutti abbiano bisogno un pochino di me. Ho lasciato da parte quel che mi pesava di più: il mio egoismo. Sto guardando alla vita a fronte alta, con decisione e ottimismo. Betto, so che, nella notte buia e nella solitudine esasperante in cui a volte ci si trova, c’è sempre una luce, anche debole, una parola, quasi un sussurro che dice: “Va avanti, qualcuno t’aspetta”. L’importante é saperlo, non importa chi sia. Basta sapere che c’è... qualcuno. Non posso negare che a volte sento un’intensa angoscia, una grande solitudine, la mia grande compagna, ma ho imparato a non disperarmi e persino a provarne piacere e a trarne profitto. Sono sicura che sto diventando più matura, ma ancora non potrei dire con esattezza se vado nella tua direzione. Ti voglio bene, Betto, e se un giorno arriverò ad amarti pazzamente (“Sei 161
cocciuta, cocciuta!”), — perché il matrimonio esige un amore davvero incommensurabile, infinito —, allora non esiterò a farti una domanda: "Betto, vuoi ancora sposarti con me?" Abbiamo ancora molto tempo davanti a noi, una vita intera che ci appartiene interamente. Cosa ci succederà? È un’incognita che il tempo s’incaricherà di svelare. Sono contenta sapendo che hai trovato un lavoro e degli amici. Le foto che hai sviluppato con le attrezzature del tuo compagno di appartamento sono venute molto bene. Ce n’è una che mi ha fatto pensare che devono esserci davvero migliaia di brasiliane in fila dietro la tua porta. Betto, Henrique è andato veramente via, ma mi scrive sempre. Di questo e di molte altre cose difficili da spiegare per lettera spero di potertene parlare quando tornerai qui. Ti prego tuttavia di ricordarti sempre che amare non è solo chiedere comprensione, ma soprattutto comprendere. In questo angolo di mondo tutto seguita sempre uguale: le lezioni snervanti, gli esami (i primi due così così, gli ultimi eccellenti), il mio lavoro senza novità. Anzi, una novità ce l’avrei: sono ingrassata. Un chilo, figurati! Ricordati sempre di me. Arrivederci. Ogni giorno che passa, vado amando sempre più la letteratura. Quando leggo un libro e mi tuffo nel suo mondo magico e irreale, provo una soddisfazione infinita, mi dimentico di tutto e vivo in un luogo che non è il mio, ma lo sento come se lo fosse. Un momento fa ho pensato a tua mamma. Sa già tutto? Se ancora non glielo hai detto, sei molto crudele con lei. Ti vuole molto bene e non merita di essere tenuta all’oscuro. E i tuoi fratelli? E i nipotini? Ti hanno scritto? Che notizie hai di loro? Sicuramente sorriderai per tante domande, ma tu non mi dici niente a riguardo e a me invece interessa tutto. Spero che risponderai a tutto quanto. 162
Mia madre ti ha sognato la notte scorsa e il sogno era molto brutto. Eri molto ammalato e noi non ne avevamo saputo nulla. Anch’io ti ho sognato: tu mi avevi telefonato dall’aeroporto per comunicarmi che stavi andando, con tua moglie e il figlioletto in Spagna e mi dicevi pure che io ero ormai un ricordo che il tempo stava cancellando a poco a poco. A proposito di bambini, hai sentito la canzone di Domenico Modugno: Bambino? Sul mio stato d’animo ti dirò che in genere sono triste. Sembra che sia condannata a morire in solitudine e nella tristezza. Nonostante a volte sia ottimista, non riesco a uscire da questa continua depressione. Penso che fin dalla nascita ognuno di noi ha un destino e io credo di essere destinata all’angoscia e alla disperazione. E il tuo libro, quando cominci a scriverlo? Non dimenticarti di metterci la seguente dedica: "Alla mia Suzy, mia musa e mia musica."
Roberto decise che Pucaranga sarebbe stato il nascondiglio migliore per Luís e accettò l’invito di Suzy per festeggiare il compleanno da lei. I due fuggitivi ci misero cinque giorni per arrivare in treno a Pucaranga. Un viaggio allucinante, perché la ferrovia era interrotta e, dopo due ore di scossoni, tutti i passeggeri dovettero scendere e cercare un posto su di una camionetta che li portasse fino al ponticello di Hojarasca, su di un fiumiciattolo che non si riusciva neanche a scorgere da tanto era piccolo e da come era buia la notte. Dovettero caricarsi i propri bagagli inciampando in quelli degli altri che prendevano d’assalto l’ultimo veicolo, costasse quel costasse. Riuscirono a salire su un fuoristrada, insieme a un gruppo di
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commercianti della regione e a un altro di turisti italiani che imprecavano, ognuno nel proprio dialetto, per il contrattempo e contro uno sciame di mosquitos, che ben presto aveva preso il controllo delle loro pallide epidermidi generosamente esposte. Tutti quanti subirono immediatamente ogni tipo di scossoni che la scorciatoia, ricchissima in accidenti, andava progressivamente offrendo alle ruote della macchina. Subito però l’allegria cominciò a prevalere in quella comitiva di viaggiatori notturni, grazie, oltretutto, alle stesse piccole sorprese che il percorso riservava loro. La strada infatti non era altro che un solco tra due file d’alberi ed arbusti, le cui chiome quasi si univano, a formare un vero e proprio tunnel rifinito da ghirlande luminose, che spuntavano ad ogni istante sulle teste dei passeggeri — tutti in piedi sul cassone della camionetta — e subito dopo sparivano dietro di loro, inghiottite dal buio. Erano ragnatele gigantesche stese da un lato all’altro del sentiero, che all’autista affrettato doveva star sembrando una pista da formula uno, e lui stesso doveva ritenere d’essere al volante di una potentissima Ferrari. I passeggeri s’aggrappavano a qualunque cosa che fosse alla portata delle loro mani, mentre erano sbattuti da tutti i lati, come una spada in mano a un duellante. Ad ogni festone di quelli, coloro che erano davanti gridavano, affinché tutti s’accovacciassero come potevano per evitar di cadere nella rete degli insetti invisibili. — Se torno vivo al mio paese, giuro che non esco più di casa, vita natural durante — prometteva al vicino un genovese impaurito, mentre deglutiva l’aria tiepida della notte, con cui gli innumerevoli sobbalzi lo ingozzavano. — Sarebbe meglio per te, — lo consolava per scherzo sua moglie, la cui faccia da aragosta sottraeva furtivamente qualunque graziosità che potesse rianimare il poverino — Potresti diventare il nuovo eroe dei due mondi come Garibaldi. 164
— Mi è rimasto soltanto il cielo stellato — constatava dal canto suo François, chiuso in se stesso. — E il disappunto e la rivolta e la voglia di vivere solo per vendicarmi. — Arriveremo e troveremo amici ad aspettarci — lo confortava Roberto, senza vedere il viso del compagno e neanche le rughe dell’oscurità della notte meridionale, disegnate sulla superficie della sua anima. La traversata del fiume era stata veloce e sull’altra sponda li stava aspettando un camion, su cui già dormicchiavano una ventina di campesinos, accomodati alla bene meglio sul telone che copriva le loro mercanzie. François e Roberto riuscirono ad equilibrarsi su una gamba soltanto, mentre gli altri passeggeri la facevano a gomiti per installarsi anche loro, in una sarabanda di grida, d’imprecazioni e di risa. Il viaggio continuò agitato e insonne e Roberto cercava come poteva di stabilire un dialogo con la bancaria Carmela Di Francesco, a cui si trovava appiccicato, ancor prima di fare le presentazioni, e subito dopo uno scossone più forte ancora o una curva impossibile d’esser vista produceva un raggiustamento immediato, sotto protesta generale. Dopo alcune ore di quel supplizio, incominciò a cadere una pioggia torrenziale e la folla riuscì a compiere l’impresa portentosa di togliere il telone da sotto tanti piedi e di sistemarla al di sopra di tante teste, mentre il camion seguitava la sua corsa cieca in piena notte. A Roberto venne la pelle d’oca al pensare che il suo bagaglio avesse potuto volare lungo l’immenso buio, in quell’operazione pazzesca, ma non c’era più niente da fare. Quando incominciò ad albeggiare, la pioggia continuava a cadere fine ed insistente, ma il camion s’era finalmente fermato in una radura umida e chiara, che invitava la gente a disfarsi del 165
bozzolo di tela cerata e ad invadere la stazioncina in mezzo alla macchia. I bagagli d’entrambi, nonostante tutto, erano ancora là, spremuti fra gli involti e i sacchi degli índios. Adesso non c’era da far altro che aspettare. Il treno ci mise ancora molto per venire e ci volle ancora un vera eternità per arrivare a destinazione. Ma infine arrivarono. Era il giorno del trentunesimo compleanno di Roberto, che Suzy contava come se fosse il ventinovesimo. Presero posto nello stesso alojamiento degl’italiani e di quasi tutti i campesinos. Sembrava come se il camion ed il treno insieme si fossero riversati nel medesimo locale. Involti, valigie, casse, galline vive appese per le zampe, bebè addormentati avvolti negli aguayos multicolori, una capra legata ad una palma nel bel mezzo del cortile centrale, panni appesi lungo tutte le verande dei vari piani, gente che lavava la biancheria nei lavandini dei corridoi e gente che usciva dalla doccia con l’asciugamano arrotolata ai fianchi. Roberto mise da parte la stanchezza e si abbigliò per andare all’incontro con Suzy. Lei era sola a casa e lo ricevette con gioia spontanea e chiacchierina. Lui stentava a raccontare il viaggio avventuroso ed i mesi passati in Brasile. Presto, però, dimenticò la sua timidezza, i suoi timori, il suo passato recente e remoto, dimenticò persino l’amico lasciato a dormire all’albergo e anche Henrique, che la stessa Suzy aveva ricordato soltanto per dire che era ancora a Labareda, a studiare con suo fratello Evaristo. Davanti a Suzy c’era adesso soltanto un uomo, alto, snello ed elegantissimo nel suo attillato vestito a righe brasiliano, con la cravatta, i capelli lunghi, come lei stessa gli aveva molte volte raccomandato. Della vecchia immagine sacralizzata che la sua memoria preservava, restava soltanto il sorriso, ancora casto e fraterno, nonostante la libidine che glie ne inondava gli sguardi e si riversava dalle labbra polpose e tremule. 166
Suzy volle immediatamente tornare a degustare quel bacio a bocca chiusa, per accomodare la bocca intera tra le proprie labbra e assaporare quella carne che non apparteneva a nessun’altra donna al mondo e che solo lei sapeva com’era soffice e salda e docile e forte. Si amarono là stesso, sul divano del salotto e anche in cucina, in piedi, e nel corridoio e nella stanza da letto di lei. La casa risuonò dei loro sussurri e gemiti e parole d’amore. Riuscirono a ricomporsi poco prima dell’arrivo dei genitori, che dimostrarono una sincera soddisfazione per il ritorno di Roberto. Suzy gli diede il regalo che aveva preparato con affetto: era La increible y triste historia de la cándida Eréndira y de su abuela desalmada, l’ultimo libro di racconti di Gabriel Garcia Marques. Sul frontespizio c’era la dedica che Suzy aveva scritto con la sua serena calligrafia da adolescente: A te, Betto, che mi hai fatto bere all’anfora amara della scelta e mi hai imbevuto con il fiele della rinuncia. Quando ritornò all’albergo, François non c’era più. Roberto rimase molto preoccupato e pieno di rimorso per aver trascurato l’amico quando aveva più bisogno del suo aiuto. Lo cercò da tutte le parti ma non seppe mai più niente di lui. Continuò a frequentare tutti i giorni la casa di Suzy, da dove usciva soltanto a notte inoltrata, per dormire un pochino al suo alojamiento. Furono molti giorni di una vera luna di miele. Si amarono con il furore degli amanti esordienti e con la versatilità dei peccatori più ostinati. Un pomeriggio Félix, il fratello più piccolo di Suzy, tornò per prendere la racchetta da tennis che aveva dimenticato a casa, entrando dalla porta di servizio e attraversando tutto il salotto, all’andata e al ritorno, per andare nella sua stanza. Roberto non avrebbe mai saputo con certezza se il ragazzo s’era reso conto della fregola che in quel momento faceva smaniare i due nella 167
penombra. Fu quel pomeriggio che Suzy si convinse che stava ingravidando. — Perché m’hai fatto questo? — gridò la ragazza, in totale disperazione. — Non dovevi arrivare fino alla fine. — Mas come puoi esserne sicura che sei rimasta gravida in questo momento esatto? Questo è impossibile. — So soltanto che è così come ti dico! Non so spiegare come ciò possa occorrere, ma ne sono sicura. La ragazza sembrava impazzita. Disse che non voleva sposarsi così presto e che adesso si sarebbe sentita obbligata a farlo. Disse che amava ancora Henrique e che non voleva perderlo. Mandò Roberto dal ginecologo che aveva curato la sua irregolarità mestruale all’epoca della pubertà. Ora avrebbe troppa vergogna di doversi presentare con il sospetto d’essere incinta. Roberto andò allo studio di quel medico per signore, pagò la visita e aspettò sonnecchiando fra gestanti di tutte le misure, disfatto dalla tensione e dalla stanchezza per le recenti lotte d’amore. Il medico trovò tutto un po’ strano ma non sfoderò neanche un sorriso. Ascoltò pazientemente la storia e cercò di risolvere i dubbi con distacco professionale, concludendo che Suzy non poteva essere veramente sicura del momento della fecondazione, ma stando al conto dei giorni, non c’era da sorprendersi che fosse rimasta incinta. Nel dubbio, prescrisse dei contraccettivi, avvertendolo che, se la ragazza fosse stata davvero incinta, la pillola sarebbe servita soltanto per rendere il nascituro ancor più forte e vigoroso. Suzy incominciò a prendere la pillola, ma non uscì più da quello stato di panico. — Vattene — insisteva disperata. Non preoccuparti per me. Mi arrangerò. Fa’ quel che vuoi della tua vita. Non voglio più 168
saperne di te. — Mi dispiace, ma non mi sembra il caso di fare così — tentò di ragionare l’amante afflitto. — Non hai la minima certezza che qualcosa sia realmente cambiato. La ragazza non ne voleva sapere di ragionamenti. — Non importa — concluse Susy, con lo sguardo da naufrago. — Domani andrò a Labareda in cerca di Henrique e spero che lui mi accetti ancora. Si congedò senza sorrisi né lacrime, né sventolio di fazzoletti. Proprio sulla sula soglia di quel salotto dove erano echeggiate tante parole e sospiri d’amore e che adesso sembrava più che altro una gelida camera mortuaria. Così si sgretolò tutto il suo castello di felicità che fino al giorno prima sembrava così solido e affascinante. Se ne andò a Santa Fé. Appena arrivato, cercò di scusarsi con i genitori di Susy per telefono, ma loro dovevano essere rimasti convinti che non aveva mai amato davvero la loro figlia. Trovò lavoro in una tenuta dei dintorni, dove c’era una piccola fabbrica di alcol. Lì gli venne recapitata una lettera di Suzy, che era stata inviata in Brasile e che Toninho Neves gli aveva rispedito al nuovo indirizzo. La lettera era carica di odio, disappunto e disperazione, sommergendo Roberto in un mare di colpe e di rancore. La chiusa della lettera sintetizzava perfettamente lo stato d’animo della ragazza, con un paragone amaro che tuttavia gli strappò un sorriso, per la precisione e proprietà del riferimento letterario: “Sei stato per me come il vento che ha soffiato quando Eréndira si addormentò con la candela accesa”. Il padrecito, che non era ormai più niente, divenne il dipendente più sgobbone della fabbrica Santa Carmélia, dandosi da fare ogni giorno, dall’alba al tramonto, per pulire il deposito, mettere in ordine lo schedario, caricare e allineare sugli scaffali i pezzi di ricambio, accatastare le casse, controllare le fatture, 169
rivedere i libri contabili... Il padrone era Don Ferrante, un latifondista venuto dall’Italia trent’anni prima, portandosi dietro un vecchio camion FIAT, residuato di guerra, per trasportare avanti e indietro le ricchezze altrui, e adesso era proprietario di innumerevoli ettari di piantagioni di cotone e canna da zucchero, oltre che di un’officina di assistenza tecnica per trattori, che gli aveva permesso l’accumulo di tutto quel ben di dio. Si era già messo in testa di fare in modo che Roberto si rendesse conto dell’andamento di tutti i settori della fabbrica, perché vedeva in lui un tipo di completa affidabilità e di capacità eccezionali per assumere qualsiasi incarico amministrativo. E non si sbagliava per niente. Il giovane era una vera e propria furia dedita esclusivamente al lavoro. Non aveva vizi, eccetto quella sua passione che — lui lo sapeva e lo capiva come un padre — lo faceva piangere in silenzio quando era solo e che invece, quando era davanti a tutti, gli dava una voglia frenetica di ordinare, caricare, scrivere, analizzare, valutare... In quella sua stanzetta spoglia, nel silenzio assoluto della notte campestre, continuava instancabilmente la sua corrispondenza con Suzy, anche senza ormai speranza di ricevere notizie chiare su ciò che le stesse realmente succedendo e ancora meno la minima parola dell’affetto e dell’amore di altri tempi. Ciononostante, dopo qualche tempo ricevette da lei un’ultima lettera che rivelava una Suzy diversa e lontana, seppure serena e rappacificata.
«Ho ricevuto la tua ultima lettera con il Samba da Benção, di Vinícius de Moraes, che mi è giunto molto gradito perché comprende tutti gli aspetti emotivi della vita e ne offre una defini-
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zione molto bella: "La vita è l’arte dell’incontro". Sembra un canto che invita all’ottimismo, alla speranza, cita la tristezza e il dolore come qualcosa di necessario per poter apprezzare la gioia e la felicità. Betto, per piacere dimentica le mie parole offensive dette in momenti di disperazione. Tu non hai avuto nessuna colpa e non hai nessun motivo per chiedermi scusa. A volte la vita ci mette in mille tribolazioni e dipende molto da ciascuno di noi uscirne vincitori; a volte perdiamo molte cose che rappresentavano il frutto delle nostre conquiste, ma fra tanto dolore, scopriamo un giorno che tutto continua, che il mondo e le cose continuano a essere belle e che possiamo fare molto e che in noi brilla la speranza, finché torniamo a raggiungere la luce perduta. Non credere che ti stia conservando del rancore. Con te ho imparato molto, Betto, e ti ringrazio di cuore per tutto ciò che mi hai dato, perché sei sempre stato sincero e hai agito con nobiltà d’animo. Grazie per gli auguri di felicità. Sono sicura che sarò felice, ma voglio che anche tu lo sia, e immensamente. Nessuno lo merita quanto te. Grazie per il tuo amore, grazie per l’amicizia di oggi. Tu vivi dentro di me e non ne uscirai mai, anche con il passare del tempo e anche se il tempo cancellerà tante cose. In fondo i ricordi impregnano l’anima e l’anima vive per tutta la vita. Mi sono abbastanza rimessa, ma figurati che ho perso quattro chili. Sono quasi trasparente. Mi consigli di leggere Il Piccolo Principe di Saint-Exupéry. L’ho già letto. È un libro bellissimo e, da parte mia, ti consiglio di leggere Il Gabbiano di Richard Bach. Chiudi la tua lettera con una parola che considero inesistente: «Addio». L’addio non esiste tra due persone che hanno condiviso qualcosa di importante, che sono state compagne, non importa per quanto tempo, in questa camminata della vita. Esiste 171
l’«Arrivederci», il «Ciao», l’«A presto». Ricevi un forte abbraccio. In esso c’è tutta la mia riconoscenza ed il mio ringraziamento per te, Betto, che mi hai insegnato a valorizzare e ad accettare la vita. Suzy».
Roberto lesse quella lettera con la pace rassegnata di un condannato a morte. Ciononostante non smise di pensare a Suzy fino al giorno in cui gli arrivò un biglietto da parte di Doña Ivone in cui gli comunicava, con rammarico, che sua figlia si era sposata con Henrique e che si erano trasferiti a Labareda. Solo allora Roberto rinunciò definitivamente a Suzy e approfittò del prolungato ritardo riguardo la concessione della sua riduzione allo stato laicale da parte del Vaticano, per decidersi a ritornare alla sua parrocchia a Pucaranga e ricominciare a badare alle anime dei suoi indios e a tuffarsi nel lavoro a scuola. Imparò il quéchua, si dedicò alla Normale, ai gruppi dei giovani, e finì per coinvolgersi in tutti i movimenti di resistenza civile alla dittatura. Dopo il massacro di Labareda però gli consigliarono di tornare in Brasile, dove rimase tanti anni “alla macchia”, come era solito dire. Ma adesso era di ritorno, ancora una volta...
La casa di lei era ancora ridente e serena, in mezzo al roseto di don Artemio, corteggiata da gerani, ibiscus e azalee che formavano allegre macchie di colore in vari punti del giardino. Dal cancello si poteva scorgere persino l’appartamentino che Suzy si era fatto costruire in fondo, quando ritorò da Labareda e sperava ancora di poter salvare il suo matrimonio con l’appoggio
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di genitori e fratelli. Roberto non riusciva a rasserenare un solo istante il cuore che gli galoppava in petto, nella certezza di dover affrontare il Leopardo, con cui Suzy doveva essersi sposata già da due anni circa. — Attento a lui — l’aveva avvertito Silvia. — È un Leopardo. La peggiore specie di sbirri. Arroganti, venali, traditori. E assassini spietati. Suonò il campanello e attese un bel po’ finché vide apparire un uomo di media statura, barbuto e mingherlino, su una porta della casa dei fondi. Era quello il Leopardo? Tanta preoccupazione per quell’ometto malmesso, in pantaloncini e ciabatte, la cui barba incolta non riusciva a nascondere completamente la faccia di uno che si era appena svegliato dalla siesta? Nonostante l’apparenza pacifica di quell’uomo però, Roberto sentiva soggezione e nutriva paura per lui. Silvia infatti gli aveva descritto esattamente la sua personalità viscida da aguzzino educato, che lei non aveva mai visto in faccia, ma che aveva dimostrato ugualmente di conoscere con intima profondità. — No hay nadie en la casa. Sono tutti usciti. — Non c’è nessuno? — ripeté Roberto sorpreso per la delusione e vinto dall’ansietà prolungata. Ciononostante riuscì a replicare: — Saprebbe dirrmi, per favore, quando potrei trovare qualcuno? — Si rese conto allora che quell’uomo non doveva aver niente a che vedere con la famiglia. Infatti non conosceva neppure le abitudini dei padroni di casa. Ringraziò e e se ne andò. Dall’entrata della stradicciola stava arrivando un gruppo di ragazzini che parlavano con animazione tra di loro, sicuramente eccitati da una recente partita di calcio. Quando Roberto si avvicinò, tanto da poter discernere i tratti fisionomici, uno di quei monelli si fermò a guardarlo fissamente fino a rendersi conto che non gli era del tutto sconosciuto. In quel medesimo istante Ro173
berto sentì nuovamente il cuore saltargli in gola e corse ad abbracciarlo in un vero slancio emotivo. Era proprio il figlio più grande di Suzy, Henrique lui pure. Il ragazzino rimase immobile, fissandolo ancora perplesso, mentre Roberto, più per affermare che per domandare, ruppe il silenzio. — Ti chiami Henrique?! Ti conosco da quando eri piccolo così — si giustificò. — Dove sono i tuoi genitori? E i tuoi nonni? — Chi è Lei? Il suo atteggiamento sicuro e gentile denotava già una personalità equilibrata e precocemente matura. Lo guardava senza dar segno di sottomissione né di rifiuto. Soltanto un’ombra di dubbio accompagnava lo sforzo per riunire ricordi sufficienti a fargli localizzare quella fisionomia in qualche angolo della sua giovane memoria. — Mi chiamo Roberto. — Ora lo so — sorrise Henrique, con i suoi occhi trasparenti, mentre i suoi compagni si sparpagliavano senza badare minimamente al colloquio dei due. — Tua mamma ti ha mai parlato di me? — Sì. Si sedettero su una pila di mattoni lasciati sul marciapiede dove stavano costruendo una casa. La conversazione si svolse subito facile e cordiale. Henrique riassumeva la cronaca degli avvenimenti degli ultimi anni con il talento di un vero e proprio narratore. A dodici anni quel ragazzo intelligente e riflessivo aveva il giudizio di un adulto. — Mi ha raccontato che voi due vi siete innamorati, ancor prima che lei si sposasse con mio padre. — E adesso dev’essersi sposata con Omar, da quanto ne so io, da tre anni in qua. — No — lo corresse il piccolo, disponendosi a spiegare per filo e per segno una lunga storia molto complicata. — Lei aveva 174
intenzione di sposarsi con Omar, ma non è andata bene. È una vera e propria novela messicana — ammise subito. Con la sua narrazione chiara e arguta, espose tutti i fatti che Roberto desiderava conoscere. Sua madre si era in effetti sposata, e per giunta in chiesa, quattro mesi prima. Però non con Omar, ma con Javier, un artigiano un po’ hippy, amico dello zio Félix, che lei aveva conosciuto un anno fa e da cui si era già separata dopo solo tre mesi di matrimonio. Chi abitava al fondo era un estraneo, un cattivo inquilino per giunta, perché non pagava puntualmente l’affitto e la nonna aveva intenzione di sfrattarlo. A ogni rivelazione del ragazzo, Roberto rimaneva sempre più trasecolato e allo stesso tempo sollevato, facendosi persino delle belle risate scoprendo la piega fantastica che i fatti avevano preso. La zia Helena, dopo il divorzio da Arnobio, si era risposata con un impiegato dell’ambasciata italiana a Labareda, dal quale non era riuscita ad avere figli — proprio lei che criticava sua sorella quando faceva piani per sposarsi con “uno straniero di dieci anni più vecchio di lei, che avrebbe potuto benissimo portarla lontano da casa o abbandonarla in qualsiasi momento e non tornare mai più” — pensò fra sé Roberto, com ironia. Adesso la zia si era unita a Filippo Carli, divorziato anche lui, da una labaredese matta da legare, che l’aveva lasciato con due bambini per andarsene in giro per il mondo dietro fantasmagoriche avventure amorose. In quel momento zia Helena e Filippo, manco a farlo apposta, erano in Italia con i figli di lui, in attesa del trasferimento in un’ambasciata dell’America Latina. Suzy era a Labareda, dove abitava soltanto con il figlio piccolo, badando all’appartamento lasciato dal cognato in affitto a terzi e cercando di organizzarsi con un’attività indipendente, forse un nido d’infanzia per gente della classe media. 175
Poco dopo arrivò Doña Ivone che abbracciò con effusione Roberto, come avrebbe fatto con un figlio. Stava tornando proprio dalla società dei telefoni, dove aveva appena fatto riattivare la linea saldando la bolletta in ritardo. Volle sapere tutto quanto gli era successo negli ultimi anni e a sua volta gli fece il riassunto, con sapienti tagli della sua censura personale, degli eventi che Roberto aveva conosciuto nei minimi particolari dalla relazione del piccolo Henrique. Mentre parlavano, squillò il telefono, ormai funzionante, e il ragazzo andò a rispondere. — Ciao, mamma — gridò. Roberto s’irrigidì immediatamente con in mano la tazza di tè che Doña Ivone aveva voluto offrirgli a tutti i costi. — Betto, mia madre vuol parlare con te — comunicò con naturalezza il piccolo, dopo essere rimasto a lungo ad ascoltare sua madre. — Con me? Davvero? — Roberto era stupito e lusingato. — Ti ho cercato parecchie volte al telefono, in Brasile, ma non ho avuto fortuna e adesso sei proprio a casa mia. Che coincidenza! Avrei voluto tanto scambiare quattro chiacchiere con te. — La voce di quella donna, che lui aveva tanto amato, risuonava chiara e familiare come se tutti quegli anni e le tante frustrazioni non fossero mai accadute e la distanza fisica fosse di pochi metri soltanto. — Posso venire? — Qui, a Labareda? Adesso? — E perché no? Roberto chiamò un taxi e andò all’aeroporto. C’era solo un posto nell’ultimo volo serale, che sarebbe partito entro dieci minuti. Partì così come si trovava, in pantaloni di tela e camicia leggera. Una vera e propria commozione si era impossessata di lui e lo guidava attraverso i cieli delle Ande di ritorno verso 176
colei che non era mai stata come si era immaginato e avrebbe voluto che diventasse.
All’arrivo, Roberto sentì il vento gelido dell’altopiano, sua vecchia conoscenza, attraversare senza molte cerimonie i suoi abiti leggeri e l’aria dei quattro mila metri d’altezza che gli mozzava il fiato. Intravide immediatamente l’esile figura di Suzy, dietro la grande vetrata dove si addossavano molti parenti e amici dei nuovi arrivati. Persisteva in lei quella freschezza da adolescente che irradiava da un volto di donna matura. Gli occhi pensosi si arrendevano a un sorriso composto ma spontaneo mentre davano il benvenuto a quell’uomo che aveva già saputo riempirli di gioia ma anche di lacrime. Indossava un tailleur di un azzurro delicato e portava un foulard di seta al collo, fermato alla scollatura con una spilla d’argento che Roberto riconobbe immediatamente, perché era stato lui stesso a regalargliela tredici anni prima, in occasione di quel famoso ballo dell’incoronazione. Si salutarono formalmente, ma senza togliersi gli occhi di dosso. Lei stessa lo portò con il suo maggiolino direttamente a casa sua, dove il piccolo Jorge, appena tornato da scuola, aspettava la mamma seduto sui gradini della scala. Ebbero così tutto il tempo di fare il punto sulle notizie almeno degli ultimi quattro anni. Lei si era finalmente ritrovata davvero. Aveva interrotto gli studi di Psicologia per dedicarsi ai bambini di una scuoletta che aveva creato in quello stesso condominio, in società con l’ex cognato Arnobio. Questi aveva da poco avuto un figlio dall’ultimo matrimonio con una giovane poco più che ventenne, alla quale poter così provvedere com un’occupazione e un affare redditizio, oltre che
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offrirle un luogo privilegiato per allevare il piccolo. Il matrimonio con Omar non era nemmeno arrivato a realizzarsi, perché Suzy si era resa conto in tempo degli intrighi in cui quell’individuo doveva essersi cacciato per ottenere tutta quella ricchezza in così breve tempo. Un Leopardo era sempre facilmente tentato a scendere a compromessi con i contravventori della legge che avrebbe invece dovuto combattere. Si era sposata con Javier, ma il giovanotto non riusciva a staccarsi dal suo gruppo di amici e stava trasformando il nuovo focolare domestico in una taverna per passarci i suoi viernes de soltero. L’aveva cacciato subito di casa come un cane rognoso. Henrique si era risposato e aveva avuto un figlio dalla “cicciona” — non riusciva a chiamarla altrimenti, l’avvocata danarosa con cui il giovane marito flirtava già all’epoca dell’università, mentre Suzy si faceva in quattro per badare a lui e ai loro due figli. Per questo non sentiva per lui nient’altro che indifferenza e persino disprezzo. — Perché non mi hai creduto? — la rimproverava teneramente Roberto. — Lo sapevo che mi amavi. Fin troppo bene. Ma ero soltanto un’adolescente e neanche sapevo poi molto bene quello che veramente era giusto per me. E oltre tutto mi assaliva sempre la paura di non riuscire con te. — Ma te l’avevo detto che non ti avrei mai dimenticata. — Pensavo che con il tempo ci saresti riuscito. E inoltre pensavo che ciò poteva succedere soltanto nei romanzi. L’hai letto L’Amore al tempo del colera, di Gabriel Garcia Marquez? Florentino Ariza è solo un personaggio immaginario. — Florentino Ariza sono io — affermava con convinzione quel cover di Florentino Ariza, con lo stesso sguardo di passione desolata con cui l’aveva lasciata tanto tempo prima, mentre si riavvicinava all’oggetto del suo amore persistente, vivo lì davanti 178
a lui e vero e ancora giovane e bello. Il piccolo si era già addormentato e Suzy non ebbe il coraggio di portare Roberto nell’appartamento vuoto della sorella, nell’altra parte della città, come si era fermamente proposta. Passarono così tre giorni di un’altra luna di miele tardiva, che li ricompensarono di tante amarezze e incertezze sedimentate come uno scomodo residuo della felicità perduta. Roberto, dopo il massacro di Labareda, aveva cercato lavoro in Brasile ed era impegnato come corrispondente di una rivista. Infatti era stato a Pucaranga per realizzare un servizio sulle rotte della cocaina dopo i movimenti di democratizzazione che si erano sviluppati in tutta l’America Latina. Affrontava di nuovo il potere tenebroso dei padroni del mondo che si succedevano dietro le facciate opulente delle organizzazioni finanziarie e della burocrazia di stato. Adesso però egli era un laico qualunque. Il padrecito era morto e dalle sue ceneri era risorto un uomo del quale la bolla papale si aspettava soltanto che si comportasse come amantissimus Ecclesiæ filius, e che non facesse nulla che potesse suscitare scandalum aut admiratio. Forse per questo si amarono nella forma più discreta possibile, senza però rinunciare a nulla che la passione così lungamente repressa esigesse da loro. Lei tornò a baciare quella bocca chiusa con la stessa voluttà che era rimasta segnata nella matrice dei suoi desideri, mentre sentiva la vita rinascere nelle sue viscere. La sua pelle conservava quel profumo che Roberto, per tanto tempo, aveva coltivato soltanto nella sua memoria irriducibile. Aroma unico, che avrebbe saputo riconoscere fra milioni di altri. La sua superficie candida era interrotta da rari lunares, come lei chiamava nella sua lingua melodiosa i nei che Roberto aveva mappato mentalmente, allo scopo di poterli identificare con i 179
polpastrelli, quando gli occhi chiusi o la penombra della stanza avessero sollecitato la ripetizione di quel singolare rituale investigativo, sotto l’ordine imperativo dei sensi. I seni minuti non avevano perduto la testura che aveva palpato una volta e i capezzoli, avvantaggiati dall’esercizio della maternità, si ergevano volenterosi — adesso abbandonati alle imprese dell’amore — al più leggero contatto con il suo corpo famelico. Le notti furono troppo corte per riconoscere i propri errori e tentare di sbozzare un futuro in cui potessero far entrare i piani di riscatto d’un passato che sicuramente si sarebbero meritato migliore. E fu durante uno di quei momenti di lucida irrazionalità, propiziata dalla soddisfazione dei desideri così profondamente stratificati, che Suzy svelò all’antico e nuovo amante ciò che lui, da parte sua, aveva sempre sospettato e che lei, invece, aveva inutilmente cercato di nascondere a se stessa: — Il piccolo Henrique è tuo figlio.
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.6 IL TERZO MONDO
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IL SOLE già spuntava per un altro sfolgorante giorno, sull’orizzonte del Pantanal. Jacinto de Aquino si stava ancora stringendo la cintura dei pantaloni, preparandosi ad affrontare la lunga cavalcata che l’aspettava, insieme ai suoi due figli più grandi e ai suoi quindici butteri della fazenda “Ribeirão dos Juízes”. Donna Wanda, sua moglie, non vedeva l’ora che la mandria sparisse dietro la curva che il viottolo formava laggiù, in mezzo alla macchia di aroeiras e di pequi, per poter finalmente cominciare a soffrire di nostalgia per il suo vecchio e i suoi figli. — Prenditi cura di tua madre — raccomandava Jacinto a Zinho, il figlio più piccolo, di quattordici anni, che si dava da fare per aiutarlo a bardare il cavallo baio. — Adesso sei tu l’uomo di casa, fino al nostro ritorno. Gli altri figli erano già pronti con le loro cavalcature distribuite strategicamente per guidare la mandria nel giusto cammino. Waldir era il più grande e, a ventitrè anni, era un vaccaro provetto e aveva partecipato perfino a varie competizioni negli ultimi due rodeios del “Circolo del Laccio” di Porto Murtinho. Wanderlei aveva vent’anni ed era più alto dell’altro e inoltre ostentava un torace e delle braccia muscolose, come quei tipi che aveva visto una volta sulla copertina di una strana rivista piena di maschi. Ambedue avevano frequentato la scuola per poco tempo e quasi tutto quello che sapevano della vita lo avevano imparato dal loro padre e dagli operai della tenuta. Riguardo sor Jacinto invece, nessuno sapeva dire da dove avesse preso tutto quel sapere. Che non era soltanto delle cose della terra e dei buoi che se ne intendeva, no. — Qualsiasi cosa i ragazzi, o la moglie, o i vaccari gli domandino, lui ha sempre una risposta di poche parole verificabile persino in un’enciclopedia, dove si trova là bell’e scritta, con 183
parole complicate, è vero, ma è la stessa identica spiegazione — raccontava Tião, il vecchio curatore, con malcelato orgoglio. — È vero — confermava Donna Francisca, sua moglie e nutrice dei ragazzi quando erano piccoli, e che adesso faceva un po’ di tutto nella “casa grande” della fazenda. — Sembra persino che riesca a vedere sotto terra — esagerava un po’. — Un giorno si sentiva un ronzio per tutta la casa che nessuno capiva da dove potesse venire. Ed ecco che il sor Jacinto prese dei muratori e indicò loro un punto dell’impiantito. Ordinò di scavare, ché doveva essere lì la causa di quel rumore, e trovarono un tubo che perdeva, non si sa da quanto tempo. Ripararono il tubo e il ronzio cessò. — Il fatto è che sor Jacinto ha viaggiato e studiato molto — spiegava Tião, con la sicurezza di coloro che condividono l’amicizia dei savi. — Neanche ti immagini quanti libri ha letto. Roberto ebbe modo di verificare personalmente che tutta quell’ammirazione aveva motivo di essere quando venne da quelle parti per la prima volta, durante un’escursione al Gran Chaco, insieme a un gruppo di studenti della Normale di Pucaranga, all’epoca in cui aveva ormai perduta ogni speranza di ritornare con Suzy. Si erano smarriti durante un temporale che li aveva sorpresi nel bel mezzo della notte e avevano finito per attraversare inconsapevolmente la frontiera. Durante l’alba aveva seguitato a piovigginare e la campagna era ancora molto umida, nonostante da una buona mezz’ora si fosse appollaiato sull’acacia alta un sole con la faccia modesta di un inserviente, ma con l’immobilità intenzionale e penetrante degli occhi di un ipnotizzatore. L’aranquã aveva fatto il suo servizio di svegliarino del giorno e gli altri uccelli continuavano il loro coro mattutino. I ragazzi erano indolenziti dai violenti scossoni del furgoncino sulla strada di terra battuta. Alcuni indugiavano ancora ai 184
loro posti, guardando indolentemente attorno il verde sonnolento, il fiume coricato lungo strada, le macchie del terreno nudo, intorpidite per l’acqua recente. — E adesso? — ruppe l’incanto Osvaldo, con una di quelle domande che somigliano piuttosto a una mandorla che cade in un piatto di gelatina ancora tenera, con l’intenzione di scomporne la superficie levigata. Era il più pacifico del gruppo e avrebbe dato chissà che cosa per poter fare una bella dormita. Sorprendentemente però il richiamo funzionò e il gruppo statuario si sciolse in movimenti al rallentatore. Era come se ubbidisse meccanicamente proprio all’anfitrione del perenne riposo. — Passami la coperta rossa. — Dove hai messo il mio zaino? — Guarda un po’ come hai conciato il mio giubbotto. Le varie voci passavano, nelle mani di un venticello rispettoso, le parole che si andavano districando da quel groviglio di braccia, gambe, involucri e vestiti. A un tratto la terra tremò e Roberto sentì gli stessi brividi provati in occasione del primo terremoto a cui aveva assistito nella sua terra, nel gennaio del ‘68. Era stato come se tutta la sua sicurezza e tutte le sue certezze si sfarinassero insieme ai palazzi secolari e alle casupole dei villaggi siciliani che crollavano come castelli di carta. I piccoli terremoti vulcanici conosciuti precedentemente, quando frequentava il ginnasio a Catania, non andavano oltre a dei sussulti che al massimo riuscivano a bloccare il pendolo dell’orologio alla parete dell’androne della scuola. E gli stessi boati che precedevano i tremori della terra sembravano più che altro dei sussurri che l’Etna emetteva dalle sue viscere, come per avvisare gli abitanti delle sue falde,che il peggio era ancora da venire.
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Generalmente, però, la direzione della scuola non faceva evacuare le aule nemmeno quando i terremotini si ripetevano a brevi intervalli. Ma quello del '68 era stato diverso. Tutta la regione del Belice, nella Sicilia occidentale, era rimasta coinvolta e cittadine dell’interno, come Santa Margherita, Montevago e Gibellina, erano state rase al suolo. Roberto si recò all’epicentro del sisma, proveniente da Messina insieme ad alcuni colleghi, con la missione di raccogliere bambini senza tetto e ricoverarli presso le scuole della congregazione. Arrivò in tempo per vedere la campana della matrice di Montevago sfracellarsi al suolo in un frastuono strepitoso, immediatamente inghiottito da una valanga di detriti e una nuvola di polvere, le uniche cose rimaste della torre e della graziosa facciata barocca. La sensazione di volo nel vuoto che l’aveva colto in quel momento, era paragonabile solamente a quello che aveva sentito quando vide da vicino l’esplosione gigantesca che l’Etna aveva deciso di provocare pochi anni prima, dopo decenni di calma apparente. Era come il fungo di Hiroshima, visto molte volte nei documentari cinematografici, che si innalzava su colonne di fuoco, fuoriuscendo dal cratere di nord-est e riversando una gran quantità di lapilli e lava e cenere — per fortuna solo verso la Valle del Bove, l’immensa voragine che si apre sullo stesso fianco del vulcano. La paura, tuttavia, lasciava adesso il posto allo stupore. Il gruppo di studenti vedeva infatti sorgere sotto i loro occhi attoniti, una mandria sterminata che sollevava un polverone fatto di gocce d’acqua e di fango, come un’aura che nascondeva e faceva risaltare allo stesso tempo quell’immenso formicolio di vitelli e buoi e vacche lanciate in una corsa scatenata verso il 186
fiume, il quale continuava imperterrito com le sue volute estese e sinuose, lungo quella spianata senza angoli né confini. A Roberto vennero allora in mente le immagini de I cowboys, il film con John Wayne già vecchio, che iniziava un gruppo di giovani vaccari nell’arte che l’aveva reso famoso nel corso di mezzo secolo I quero-queros e le anhumas gridavano allarmati, come a far eco alle staffilate dei vaccari e ai muggiti intervallati del berrante e ai colpi di pistola che punteggiavano con brio e vitalità l’aria generosa della mattina pantaneira. Gli emù fuggivano attraverso l’erba alta della savana, mentre jaburus e colhereiros dirigevano il loro volo pesante lontano da quell’uragano animale. Le capivaras, che avevano già evacuato l’area, seguivano adesso il passaggio dell’immenso armento, sporgendo in gruppo le loro teste quadrangolari dagli aguapé, con curiosità ottusa. Osvaldo quasi gridò alla vista di un cane selvatico che fiutava l’aria a pochi metri dalla camionetta, però subito dopo si volse con decisione verso un punto indefinito scelto a caso. Gloria era voluta venire insieme al gruppo, adesso che poteva dedicarsi più liberamente alle attività di insegnante di quéchua, anche lei alla Normale. I figli li aveva lasciati a sua madre mentre Omar andava correndo appresso alla carriera e alle donne degli altri. In quel momento si sentiva estasiata davanti ad un tamanduá-mirim, il piccolo formichiere che procedeva a passi lenti verso il furgone: doveva essersi perduto mentre fuggiva da qualche incendio prima della pioggia. Roberto era sceso dalla macchina e faceva cenni al vaccaro più anziano che si era fermato vicino al ciglio del viottolo per controllare il passaggio della mandria dal lato sinistro. Quando tutti furono passati e il rumore si affievolì, riuscì a presentarsi e 187
a chiedere informazioni sul luogo esatto e su come poterne uscire. — Ustedes están en el Brasil — spiegò, in perfetto spagnolo, il vaccaro — e vi potete considerare benvenuti nela mia fazenda. Era il sor Jacinto in persona, il quale indicava loro un caseggiato che si intravvedeva a un chilometro di distanza, dietro l’ansa disegnata dal fiume. Quando tutti furono arrivati alla “casa grande” della fazenda, la gioia del ritorno della mandria e delle sue guide si riversò anche sui forestieri con una folata di confortante familiarità. Zinho era ancora un ragazzino che gridava dalla veranda accanto a sua madre, agitando le braccia e facendo dei salti da sembrare una palla di gomma. I cani facevano uno schiamazzo indiavolato. Correvano incontro all’armento e tornavano indietro sempre di corsa e abbaiavano senza sosta. Insieme a loro veniva un branco di quatis, ormai praticamente addomesticati, in cerca degli avanzi delle leccornie che non mancavano mai intorno a quella casa. Il terreno che la circondava, infatti, era un immenso frutteto stracarico di arance, mango, mandarini, limoni, cagiú, papaia, banane, goiaba, tutto ciò che di meglio quella terra poteva produrre. A nessuno importava minimamente se la maggior parte di quella frutta veniva utilizzata come alimento per i pappagalli-canindés o le catorras, gli araçaís, i giapù e i tucanuçus. E sapevano benissimo che tutto quel ben di dio attraeva anche i pappa-miele: marte, cani selvaggi, lontre e carcajus. Alla fine ce n’era per tutti: animali ed uomini. In breve si erano messi tutti bem in ordine per la colazione e i forestieri si sentirono immediatamente a loro agio, ciascuno parlando la propria lingua ma facendosi perfettamente comprendere dagli abitanti della fazenda, grandi e piccini. 188
Roberto si rese presto conto della portata del padrone di casa. Bastò che facesse cenno alla propria provenienza e alle sue conoscenze per rivelare a poco a poco una personalità ricca e profonda sotto la scorza da contadino sempliciotto. Era vissuto all’estero e per vari anni a Rio e a San Paolo. Aveva frequentato varie università e conseguito molti titoli. Tanta cultura, però, sembrava aver l’unico merito di avergli fornito la chiave per smontare l’armatura sintattica e persino il patrimonio semantico del linguaggio appreso durante la sua giovinezza. Senza coordinate, senza subordinate o incidentali; senza predicative o attributive o ottative o condizionali. Il vocabolario ricercato della sua formazione umanista aveva lasciato il posto a un’espressività essenziale e asciutta, propria degli appartenenti alle società primitive. Che pleonasmi! Che ridondanze! Che circonlocuzioni, che niente! Era come se avesse distillato interi acervi bibliografici, per estrarne poche parole, come perle scelte più per il suono che per il senso creato dalle concrezioni di tutta la loro tradizione culturale. I lunghi silenzi fra le frasi asciutte facevano risaltare il ritmo e il respiro delle cose che rappresentavano, mentre guadagnavano distacco i borbottii delle fonti, che nessuno ha sentito mai e lo svolazzare degli insetti non classificazioni, immersi nel cristallo trasparente di quelle mattinate senza padroni. Era appena bucolico senza essere parnassiano e metafisico senza nessuna trascendenza. Persino il tedio si volgeva in poesia negli alambicchi della sua compulsione affabulatoria. — Mi piace strisciare taciturno in mezzo alle merde dei serpenti o veleggiare fino ai confini di questo mondo acquoso afferrandomi agli artigli delle stesse aquile che mi rodono il fegato — ammetteva convinto. — Io sono Prometeo e Icaro insieme. E non m’importa niente che i tuiuiús abbiano preso il posto degli antichi uccelli dei greci. 189
Jacinto aveva appreso un po’ di tutto dalla vita, anche nel campo dell’amore. Donna Wanda non era stata la prima né l’unica passione del vecchio contadino letterato. E i suoi figli si avviavano su quella stessa strada, eccetto che nel campo della letteratura. Waldir si era già rivelato un idolo delle donne nelle feste di tutti i villaggi dei dintorni, cioè per un raggio di molti chilometri. Quando si metteva quel cappello e quei suoi abiti da vaccaro elegante che era, le ragazze quasi svenivano e non ce n’era una che non sognasse di sposarsi, un giorno, con un giovane come lui. — Il birbantello deve aver fatto chissà quante vittime — commentava sottovoce il vecchio Tião con un sorriso orgoglioso e sornione. — Cosa c’entra! — cercava di minimizzare Donna Francisca, con tono di rimprovero, ma lasciando la chiara impressione che anche lei in fondo era compiaciuta come il marito per le voci che correvano sul conto del suo "giovin signore". — Wanderlei invece è più quieto, a quanto pare — aggiungeva in tono conciliante Nestor, il capataz, che ascoltava le chiacchiere. — Ma certo. E che volevi? — riattizzava Donna Crescência, la cuoca, moglie del vaccaro Genivaldo, — è ancora un ragazzino che ha soltanto la statura di un uomo... Roberto e il suo gruppo passarono due giorni di paradiso in quell’angolo di verde e di acqua e di vita, mai sognato fino allora. Prima di partire, Roberto dovette ancora tollerare il comportamento di Gloria che gli faceva fare brutta figura perché si era coinvolta con Waldir in una fulminante storia d’amore che mise tutti quanti a disagio. Si dimenticava di ciò che aveva lasciato a Pucaranga ed era passata sopra alle barriere linguistiche e dell’età — era infatti ancora giovane ma aveva cinque anni in
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più del suo "contadinotto" —. E poi il cattivo esempio dato ai suoi alunni che erano già disciplinatamente al loro posto? Non c’erano argomenti che riuscissero a convincere la donna a lasciare quell’oasi che il caso le aveva inopinatamente offerto. Alla fin fine era già separata e i suoi genitori avrebbero potuto prendersi cura dei bambini. E, che c’entra, non se ne faceva un problema se Omar stesso avesse voluto occuparsi dei figli. E, oltre tutto, quel filibustiere non meritava nessun riguardo. E adesso si era innamorata di quel giovane stallone che diveniva all’improvviso l’unico motivo per cui valeva la pena di vivere. E non c’era neppure bisogno di pensare a impegnarsi o a sposarsi: che la vita è breve e, per quell’ora di felicità che fosse riuscita a passare insieme al ragazzo, sarebbe valsa la pena persino di vivere il resto dei propri giorni per pentirsene... Waldir non diceva una parola. Liberava, a volte, un sorriso dubbioso, sotto i baffetti radi. E niente più. — Mio figlio è solo un giovane puledro. Non resiste all’odore di una giumentina — dovette intervenire sor Jacinto dall’alto della sua posizione di patriarca. — Sono innamorata come non lo sono stata mai in vita mia. Non voglio perdere questa felicità che ho appena trovato qui, don Jacinto. La donna era abbacinata. Non era disposta ad ascoltare ragioni di nessun genere. — Lei ha bisogno di riflettere molto, prima di prendere una qualsiasi decisione. L’amore è la cosa migliore che si porta via dalla vita. Ma per adesso è bene che lei vada via. Waldir da qui non scappa. — Io non ho dove andare — concordò, senza ombra di protesta nella voce, Waldir. E, paradossalmente, questo fu l’unico argomento che riuscì a smuovere la cocciutaggine della donna. 191
Si salutarono, dando uno spettacolo di passione esplicita la cui spontaneità, però, riuscì a risparmiare da qualsiasi scossa il pudore provinciale degli spettatori. Il magnetismo di quegli sguardi li dispensava da baci o carezze, perché prometteva furtivamente innumerevoli dimostrazioni future mentre lasciava trasparire, con irrefutabile evidenza, il sovraccarico di passione che il flirt recente aveva concentrato nei due. Omar reagì addirittura con sollievo alla prospettiva di liberarsi di Gloria, nonostante il suo incontrollabile macismo facesse le sue rimostranze. Lo scenario che l'immaginazione gli aveva costruito in altri tempi cominciava ad assumere i contorni della realtà e aveva già dato concretezza alle fondamenta del suo futuro con Susy e con i quattro figli riuniti in un’unica famiglia, numerosa e felice.
Questa volta sor Jacinto stava guidando personalmente la transumanza. Per questo non aveva premura di arrivare. Conosceva alla perfezione i tempi della pianura e il ritmo che gli animali potevano sopportare per i lunghi spostamenti. — Andiamo a inghiottire la strada — disse infine il vecchio, mentre si issava sul dorso bardato del cavallo baio. — Andiamo a saggiare il midollo della macchia. Il paesaggio è ansioso dei nostri occhi. Roberto era già un corrispondente internazionale ed era giunto là per elaborare un servizio giornalistico sul Pantanal. Naturalmente andò dritto alla fazenda di sor Jacinto che lo ricevette festosamente. Partecipò a tutte le attività campestri e adesso si era unito alla cavalcata, per registrare tutte le fasi di questo tipo di spostamenti stagionali.
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In poco tempo l’aria si fece umida e pesante. Il cielo assunse un colore violaceo, come se il fango di tutto il Pantanal fosse evaporato insieme all’acqua dei corixos. Inatteso sorse un vento forestiero che alzava la sabbia anche dove fino allora c’era stato soltanto verde e acqua. I vaccari abbassarono la falda del cappello, che calcarono con forza affinché il vento non glieli facesse volare via, e seguitarono il ritmo della marcia come se nulla fosse cambiato. La mandria, d'altronde, continuava salda e compatta come un distaccamento di cavalleria. Ovunque c’era un volare di garze e tuiuiús e aninghe e falchi e tagliamari e gabbiani. Un giacanà tutto dinoccolato correva lungo il margine del fiume senza saper dove mettere le zampe madornali. I giacarè, dai banchi di sabbia, dove fino a quel momento si erano beati al sole, cercavano di abboccare grandi sbuffi d’aria con le fauci spalancate, come se stessero facendo un enorme sbadiglio o una colossale risata, prima di tuffarsi indolentemente nell’acqua tiepida. La tempesta si scatenò all’improvviso, con il primo rimbombo di tuono che diede inizio a una sarabanda infernale di lampi e di raffiche di vento e ancora di tuoni. Una pioggia sfrenata cadeva a catinelle e presto il viottolo si trasformò in una pozza e i fiumiciattoli in veri e propri torrenti inaccessibili. I vaccari dovettero ricorrere a tutte le astuzie del mestiere per tenere unita la mandria e guidarla lungo il tragitto meno pericoloso, mentre il vento e la pioggia sembravano infuriati e non offrivano la minima tregua per riflettere almeno un po’. Alcune mucche si divincolavano e gli uomini non poterono fare altro che assistere impotenti alla scena della corrente che se le portava via senza pietà. La tempesta, nondimeno, cessò tutto a un tratto come era cominciata, restituendo un pomeriggio cristallino ai cavalieri
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esausti, affinché potessero togliersi di dosso la roba fradicia e persino dimenticare l’inclemenza di quella giornata. Si accamparono nel punto più elevato, dove la pianura si movimentava in piccoli rilievi ondulati, fra i quali risaltava tozzo il Colle Azzurro con la sua mole monumentale attenuata dal riverbero degli ultimi raggi del sole. Là c’erano alcune stalle costruite appositamente per potervi passare le notti di passaggio, in occasioni come quella, in cui la mandria transumava verso gli alti pascoli, all’epoca delle piogge. Gli uomini riposarono tutta la notte, sotto un cielo dove non si riusciva a contare il numero infinito delle stelle, una più brillante dell’altra. I rumori della notte pantaniera si sovrapponevano ai sogni agitati di quegli uomini, in una sinfonia sorda di fruscii, schiatti, scrosci, mormorii e lo sciocco gracidare delle rane sparse per l’intero spazio attorno. Jacinto de Aquino approfittava sempre di quella fermata per mettere in ordine la propria vita. Non stava a contare gli anni, per non doversi infastidire, e meno ancora scommetteva su quelli che ancora gli sarebbero rimasti. Gli piaceva soltanto elencare le piccole cose che era riuscito a realizzare dall’ultima volta che era passato da quelle parti e metteva alla prova la propria memoria per vedere se riusciva ancora a ricordare il nome di tutte le donne che aveva amato sino allora. Di ognuna aveva cercato di conservare un particolare che potesse segnare un luogo esclusivo nella sua memoria prodigiosa. Sapeva benissimo che il vero nome avrebbe potuto facilmente venir sostituito da uno qualsiasi che gli suonasse conveniente in quel momento, ma sarebbe stato un segno definitivo della sua decadenza se, per ventura, avesse incominciato a confondere il ricordo di un odore o di una parola o di un tratto della personali-
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tà che era l’unica cosa che gli permetteva di differenziare la ricca molteplicità delle persone da un’anodina moltitudine. Si svegliarono prima che l’aranquã cantasse. Quello che li aveva tirati giù dalle amache era stata una vera e propria sparatoria a media distanza. Presto si resero conto che non si trattava degli spari dei mercanti clandestini di pelle di giacarè o di qualche cacciatore di fine settimana. Erano raffiche di mitra frammezzate da spari secchi di fucili automatici. Persino qualche tiro di mortaio di piccolo calibro rimbombava in quella che sarebbe potuta benissimo essere una battaglia campale. Potevano essere delle esercitazioni militari, ma nessuno aveva avvertito via radio di questa eventualità. Giochi pirotecnici erano la cosa più improbabile in quel luogo così distante da qualsiasi centro abitato. Poteva essere davvero una battaglia. Jacinto e i suoi aiutanti più anziani ricordavano l’epoca in cui erano sbucati fuori, in quei paraggi, alcuni battistrada della leggendaria Colonna Prestes e, più recentemente, il contatto che avevano avuto con la banda di guerriglieri comandati da Ernesto Che Guevara. All’alba, Wanderlei vide un giovane soldato che si muoveva con circospezione in mezzo all’erba alta e alla fine apparire a tutto tondo davanti a lui che in quel momento si disponeva a dar da mangiare al cavallo. Notando il ragazzo con l’animale, il militare si gettò a terra e rotolò immediatamente, mantenendo ben alto il fucile, come avrebbe cercato di fare un cameriere con un vassoio carico di coppe di cristallo scivolando su una buccia di banana. Wanderlei non ebbe neanche il tempo di sorridere alla vista di quella scena, perché fu immediatamente gettato a terra da uno scoppio e un fischio e da una tremenda batosta al capo, ancor prima di cominciare a capire dove gli stesse facendo male. Rima-
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se lì, svenuto, vedendo cose che non aveva mai visto prima e senza riconoscere quel poco che aveva imparato fino allora. Dietro il soldato la voce del comandante risuonò persino più forte dello stesso sparo: — Fermo, imbecille. Non vedi che è solo un ragazzo? — Mi scusi, signor capitano, ma avevo pensato che si trattasse di un guerrigliero — cercò di giustificarsi la recluta. Corsero in soccorso di Wanderlei che ormai ricuperava coscienza mentre perdeva fiumi di sangue. Si era fatto soltanto una scorticatura, ma era stata sufficiente per strappargli un ciuffo della chioma rossiccia — di cui era così orgoglioso — insieme allo scalpo che aveva lasciato un solco nel suo cuoio capelluto da dove sgorgava l’emorragia. In un attimo si formò, attorno a quella macchia rossa, da un lato la macchia delle divise mimetiche sgualcite e infangate, e dall’altro quella del gruppo statuario dei vaccari, bloccati da un misto di stupore e di paura e di rivolta. C’era una ventina di leopardos, comandati dal capitano Omar, che si avvicinavano, nonostante tutto l’arsenale bellico di cui erano dotati, con la massima cautela e con evidente costernazione e senso di colpa, per aver scoperto che si trovavano in territorio straniero, di fronte a cittadini disarmati, a uno dei quali avevano quasi tolto la vita. Roberto sentì più forte degli altri i brividi della paura assistendo alla presentazione di quel militare truculento che cercava invano di mostrarsi cordiale e conciliante, ma che aveva ormai conosciuto come un essere ripugnante e pericoloso. Chiese a Jacinto di non rivelare all’intruso la sua vera identità e provenienza, con il pretesto del fatto che come giornalista avrebbe potuto creare più problemi ancora. Evitò anche di spiegare come conosceva il tipo e se ne stette a vedere come si sarebbero messe le cose. 196
Jacinto finì così per non sapere neanche che Gloria era stata moglie di quell’uomo né avrebbe saputo niente dell’esistenza di Suzy. Omar d’altronde sfruttò tutta la sua abilità di comunicazione per evitare che la rivolta giustificata dei vaccari si trasformasse in un conflitto non controllabile, che avrebbe complicato ancor più il saldo disastroso di quell'incontro fuori programma. L’intervento di Jacinto però fu ciò che determinò la conclusione pacifica dell’incidente permettendo di dar seguito, prima di tutto, alle attenzioni per lo stato di salute del figlio e, subito dopo, di prendere le redini di tutta quella situazione critica, proprio come avrebbe fatto un vero statista. — Ci dev’essere stata sicuramente una buona ragione perché voialtri abbiate invaso il mio paese e le mie terre. — Le pedimos las más sinceras disculpas, señor — si premurò il militare, improvvisando una difesa plausibile — ma eravamo alle calcagna di una banda di guerriglieri che cercano di destabilizzare il nostro governo e che certamente costituiscono un pericolo anche per il vostro. — Il mio Paese é il Pantanal. E qui il governo sono io. Siamo sovrani e liberi. Non abbiamo eserciti né interessi da difendere che non siano quelli della natura e della vita umana. Potrei, tuttavia, trattarvi da ospiti invece di espellervi come invasori, a condizione che siate disposti a mettere da parte le armi e accettiate di vivere nelle mie terre come cittadini del mondo. Il Leopardo trovò magnifica la proposta. Ricordò che, purtroppo, aveva degli impegni da compiere, ma accettò la generosa ospitalità del patriarca per dar tempo alla sua truppa di recuperare un po’ le forze, prima di ritornare alla normale attività. — Quel che le posso garantire — assicurò, frattanto — è la sospensione di qualsiasi attività bellica, per tutto il tempo in cui ci troveremo nel suo territorio. 197
Avvenne l’incredibile. Leopardos accomunati a quella gente semplice, in una fratellanza paragonabile soltanto alla convivenza di garze e giacarè, di giaguari e daini, che esiste, come per un miracolo, solamente nel Pantanal Mato-Grossense. I soldati accettarono degli indumenti in prestito dai vaccari, per poter cambiare gli abiti dopo essersi immersi nel fiume, facendo il bagno con la nudità disinvolta e l’allegria rumorosa dei bambini innocenti. Collaborarono con i vaccari nella preparazione di un grande forno all’aria aperta e nella confezione di lunghi spiedi di legno, aiutando Genivaldo a squartare un vitello, scuoiando con cura l’animale e tagliando la carne a grandi pezzi adeguati a quegli spiedi giganteschi. Il momento culminante della festa, però, fu l’arrivo dell’índio Pakariã. Era un cacique Kadiwéu, vecchio conoscente di Jacinto. Questi interruppe il pranzo e persino s’alzo da tavola per andare a salutarlo in segno di grande rispetto. — Ho saputo che suo figlio è rimasto ferito e ho portato il mio migliore stregone per curarlo. — La ringrazio, amico mio. Le donne hanno già posto le bende e il ragazzo sta bene. Ma la sua visita ci riempie di soddisfazione e le attenzioni del vostro guaritore ci tranquillizzano. L’índio fece un gesto teatrale nel passare un ordine ai due guerrieri che lo accompagnavano. Da ciò tutti compresero che lo stregone non era uno di quei due. Immediatamente quelli si precipitarono fuori addentrandosi tra i cespugli e poco dopo erano di ritorno insieme a un bianco muscoloso, capigliatura e barba bionda, coperto da un poncho variopinto, stivali di cuoio a mezza gamba e berretto rosso sul capo . Alla vista del nuovo arrivato, i soldati scattarono in piedi sentendo la terra mancar loro sotto i piedi. Riconobbero in lui il capo dei guerriglieri che da molto tempo speravano di acciuffare. 198
— Siamo venuti in pace e in pace torneremo — avvisò solennemente Pakariã, mentre il Leopardo convinceva i compagni a mantenersi calmi e a fidarsi dell’autorità del padrone di casa. — Sono disarmato. Vengo nella mia qualità di medico, per richiesta del cacique — si presentò il guerrigliero. — Non sei quel tizio chiamato nuevo Che? — intervenne con fermezza Omar. — Non credi di essere troppo audace a sfidarci, approfittando della neutralità del nostro anfitrione? — La nostra lotta è per un nuovo ordine. Ma questo non è il luogo né l’ora adatta per manifestare le nostre divergenze. Mi prenderò cura del ragazzo e me ne andrò per continuare la mia missione di riscatto dell’umanità dagli intrighi d’un gruppo di facinorosi che si arrogano il diritto di essere i signori del mondo. Roberto alla fine riconobbe in lui l’amico Luís che aveva perduto di vista tanti anni prima e che gli aveva rivelato la sua vera identità — dottor François De la Roche — e tutte le peripezie di gioventù. Fece di tutto per non essere notato da lui, almeno mentre era davanti al Leopardo. Però, alla prima occasione, andò a cercarlo al capezzale di Wanderlei, per abbracciare l’amico e chiedere le spiegazioni che già incominciava a capire da solo, sui perché della sua scomparsa da Pucaranga e sui motivi delle sue scelte successive. — Il Pantanal è un microcosmo dove l’essere umano è benvenuto, a condizione che non tocchi nulla — stava ragionando Jacinto con Omar, durante il pranzo. — Non è uno spreco tanto spazio inutilizzato? Le distanze rendono la produzione umana antieconomica.— divergeva il Leopardo. — Ciò che è ecologico è anche economico. La natura è abbondanza. Ciò che rende scarse le risorse di cui disponiamo è la cupidigia dei pochi che vogliono accumulare ricchezze dimenticandosi degli altri. 199
— Deve ammettere, però, che le nostre popolazioni sono arretrate, proprio per il fatto che la nostra attività predominante è sempre stata quella agro-pastorizia. Abbiamo bisogno di più industrie e di trasporti più celeri e di comunicazioni più efficienti. — Che vuol dire essere arretrato? E che cos’è il progresso? Gli occhi di Jacinto si velarono di malinconia e disappunto di fronte all’ottusità di uomini come quello che gli stava davanti, i quali si illudono ancora con una visione distorta del progresso. Senza sapere che in molti casi il danno è sempre maggiore del beneficio. Quei vaccari semplici e senza tanta istruzione, invece, in una chiaroveggenza inspirata dalla vita, si accontentavano di poter mettere in pratica le determinazioni del loro padrone: «Ormai conosco bene questo mondo. Per questo ne faccio un punto d’onore nel voler restare qui per il resto dei miei giorni». — Che ne sarebbe delle città, se non ci fosse nessuno a coltivare gli alimenti o ad allevare gli animali? — chiedeva angosciato quell’uomo esperto. — Il mondo va verso la distruzione, perché il potere dell’oro ha sostituito quello della natura. — Dovremmo unirci per formare un unico popolo, índios e bianchi, ricchi e poveri — suggeriva il cacique Pakariã con la solennità ieratica di un precettore bizantino. — Non costa niente sognare una “repubblica di Pantanalia” — ironizzava Omar, con poco tatto. — Ma la realtà è molto più complessa e la sopravvivenza delle nazioni impone persino la lotta armata per mantenere integre le strutture esistenti. — La realtà non può essere vera senza essere prima passata attraverso il sogno — interveniva Roberto con sensatezza. Quella riunione al vertice di gente comune, forse, ma così rappresentativa di tutti i tipi d’umanità — razze e culture differenti, un medico guerrigliero, un ex-prete giornalista, un soldato ambizioso e, chissà, corrotto, un capo indiano, un filosofo di 200
campagna, e tutta quella zotica ONU — sembrava qualcosa di troppo fatto apposta, di esageratamente fantastico, per poter essere vero. — Ogni uomo aspira al potere — continuava imperterrito Omar, tirando l’acqua al mulino delle istituzioni governative. — A chi non piacerebbe diventare un dittatore? — Nessuno può arrogarsi il diritto di guidare il destino delle genti — controbatteva Roberto. — Uno spirito equilibrato non può aspettarsi di poter condurre con successo le moltitudini solo con esortazioni sensate e mediante la persuasione, mentre il campo è aperto alla contraddizione sragionata. — Gli uomini non sono degli animali e quelli che maltrattano la natura sono gli stessi che infieriscono sull’umanità — sentenziò Pakariã. Per governare la nostra gente è bene usare le conoscenze dei bianchi, ma la saggezza degli índios è di gran lunga migliore. Essi rispettano la terra e gli animali. Per questo aveva scelto François come il migliore stregone della sua tribù. Ogni volta che questi passava da quelle parti, sottoponeva a visita medica tutti gli abitanti del villaggio e distribuiva medicine e vaccini, faceva medicazioni e piccole operazioni chirurgiche con l’aiuto della fedele Violeta. I bambini gli volevano un bene immenso e i guerriglieri erano divenuti i protettori e gli idoli di quella gente primitiva. Roberto, quando riuscì a intrattenersi da solo con l’amico, gli consegnò un plico che portava sempre con sé, perché era sicuro che un giorno l’avrebbe rincontrato. Non appena ebbe aperto il pacchetto, l’uomo forte e intrepido si sciolse in lacrime. Era il diario di Lucienne che Toninho Neves aveva trovato fra le cose che essi si erano dimenticati di prendere al momento della fuga.
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Lo sfogliò con affetto, come si accarezza un bimbo. Là c’era tutta la storia della sua giovinezza e della sua felicità pertinace, in mezzo al vortice della vita. In quel quaderno, Lucienne descriveva, passo passo, le ricerche e le scoperte, le sorprese e le emozioni dell’adolescente e della donna fatta. Devota, coraggiosa, appassionata. Donna e amante. Delicata e forte.
Lunedì, 21 luglio 1969. Ieri gli uomini sono sbarcati per la prima volta sulla luna. La televisione ha fatto vedere a tutto il mondo la grande impresa degli americani, È cosa da non credere, nonostante tutto. Ed io sono a Venezia. Sembra proprio un luogo extraterrestre. Il Canal Grande è davvero la più bella via del mondo. Aveva ragione il mio compatriota Philippe de Commynes, già nel secolo XV. L’isola di San Giorgio è adagiata davanti a me, come pure la facciata bianca della sua chiesa, tutta rivolta verso il sole chiaro della sera adriatica. La torre elegante e ardita cerca, come un razzo, il cielo pulito e pallidamente blu. Le cupole che addolciscono le linee dei tetti e la superba compostezza dell’insieme architettonico, che fluttua immobile sulle acque serene della laguna. Ho già passato in rivista i palazzi e le calli. Vendramin Calergi, dove è morto Richard Wagner, la Cà d’Oro, gli affreschi del Giorgione al Fondaco dei Tedeschi, Cà Loredan, il Corner Spinelli, il Corner della Cà Grande...
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Giovedì, 24 luglio 1969. François si sta preparando per gli esami della sessione estiva e io ne approfitto per anticipargli alcuni contatti. Non abbiamo ancora una visione chiara di quello che dovremo realizzare in futuro. Ma per il momento tutto corre meravigliosamente bene. Oggi ho visitato il palazzo Pesaro dei Camerlenghi, Cà Foscari, Bernardo, Giustiniano, Rezzonico, la Galleria dell’Accademia (Paolo Veronesi), Varnier dei Leoni, Dario... Son passata sotto il Ponte di Rialto (1588-92), ho visto la Riva degli Schiavoni con il Palazzo Ducale e la Basilica di San Marco: Napoleone considerava la piazza antistante il salotto più elegante del mondo. Venezia è la materializzazione di un sogno che trascende i limiti umani. Entri in un mondo irreale, buono per visionari e poeti. Giovedì, 15 settembre 1970. Che città meravigliosa è Londra! Sono qui da due giorni e ho letteralmente corso da una parte all’altra. Sono molto stanca ma voglio ancora andare a vedere alcuni posti per conto mio. Oggi ho fatto un programma cominciando da Trafalgar square. Ho preso l’underground (che nome strano per un métro!) vicino al mio albergo. È stato un giro veloce per vedere il Parlamento, la Torre di Londra, il Ponte della Torre e il cambio della guardia al palazzo di Buckingham. La cosa più interessante è stato il tesoro della corona, alla Torre di Londra. Ho già visto tante cose che questa sera ho deciso di fare un po’ di compere. Sono stata in uno dei più famosi megastore del mondo. L’ampiezza del locale era impressionante. Ho pensato che fosse più piacevole far acquisti in negozi più piccoli. Ho
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comperato una sciarpa per François e un servizio da tè per noi due. Si può andare a piedi dall’albergo fino a Hyde Park. Alla fine di una giornata pazzesca ho deciso di fare una passeggiatina nel parco, che era esattamente ciò di cui avevo bisogno. Ho finito per sedermi su una panchina per un’oretta. Rimanere a guardare la gente è stato molto divertente. Tutti i tipi più caratteristici di inglesi mi sono passati davanti — fra loro, uomini nei loro vestiti tipici, baby-sitter che spingevano carrozzelle di bambini e guardie notturne londinesi. Una visita a Londra non sarebbe completa senza un tè al Ritz. Perciò, da Hyde Park sono andata a piedi fino a Picadilly, dove ho sorbito un tè davvero memorabile. È, in realtà, un piccolo pranzo perché servono dei piatti caldi insieme a toast, biscotti e fette di torta. Dopo essermi abbuffata, ho camminato ancora un po’. Ma è arrivata l’ora del rush ed ho ritenuto più opportuno infilarmi in un cinema anziché tornare in albergo. È difficile credere che dopo tutto sia riuscita a trovare la forza di scrivere questa pagina del mio diario. Ho avuto un giorno veramente fantastico. Questa città mi affascina... Sabato, 17 settembre 1970. Devo recuperare il ritardo di due giorni nel mio diario. Ieri sera sono stata a teatro, e sono tornata in albergo troppo tardi per scrivere qualcosa. Avevo deciso infatti di fare un giro da sola e di visitare vari luoghi per conto mio. Sono andata prestino all’Abbazia di Westminster. Ho comperato una guida della città e ho fatto lentamente il giro di tutta la chiesa. Il pomeriggio ho visitato il British Museum. È molto grande ed è praticamente impossibile poterlo visitare in un pomeriggio. Allora ho fatto un rapido giro e ho visto la Magna Carta, la Pietra 204
di Rosetta, un’immensa quantità di manoscritti e di partiture originali — Keats, Shelley, Dickens, Bach, Händel, Beethoven, e tanti altri. Domenica, 18 settembre 1970. Oggi ho lasciato stare Londra e sono andata a Strattford-onAvon, la città natale di William Shakespeare. Ho pensato per tutto il giorno a François. Mi sono sentita una Giulietta appassionata. Ho preso il pullman con un gruppo numeroso, ma la guida era bene informata e ne è valsa la pena. Sono riuscita a conoscere una grande quantità di cose e inoltre c’è stato il tempo per fare uno spuntino tranquillo presso l’albergo del posto. Strattford-on-Avon è una cittadina pittoresca e mantiene ancora un certo sapore elisabettiano. La maggior parte degli edifici è originale e ancora molto ben conservata. Sono stata molto contenta di vedere i luoghi che ricordano la vita di Sheakespeare. Il 20 è il mio ultimo giorno a Londra. Dovrò trarne il massimo profitto!
Il diario ricordava a François quello che egli stesso aveva fatto allora. Tutte le peripezie e le sofferenze per trovare un senso alla propria vita. I viaggi di Lucienne in Medio Oriente, mentre lui si avventurava nell’Estremo Oriente. I contatti con i capi del papavero, nei campi dell’Indonesia, della Turchia e dell’Iran. Sempre ad affrontare le difficoltà e sempre a cercare una via d’uscita.
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Venerdì, 23 maggio 1973. Un campionario spettacolare del glamour, della bellezza, del potere e dell’eleganza, creati da tre millenni, è la valle delle regine, nei dintorni di Tebe, dove c’è la tomba di Nefertari, la più bella sposa di Ramsés II, morto nel 1223 a.C. Anch’io voglio essere una sposa amorevole e una compagna che faccia felice il mio sposo. François, ti amo. Mercoledì, 28 maggio 1973. Oggi sono stata a visitare l’ospedale di Hadassa, a Gerusalemme, dove c’è la sinagoga con le vetrate di Marc Chagall. Insieme a Charles Marq ha impiegato due anni per condurre a termine il lavoro. Le vetrate ritraggono i dodici figli di Giacobbe e le sue tribù illuminano la piccola sinagoga dell’ospedale universitario con una miriade di colori dalle tonalità più diverse. Animali di tutti i tipi, piante, pesci e simboli ebraici fluttuano nelle allegorie, modulando l’aria sommessa e assorta con la loro mesta festosità. Ci sono i genitori di Chagall caduti sotto il suo sguardo impotente. E milioni di altri ebrei in attesa di un identico destino o già annichiliti, ieri e migliaia di anni fa, come egli stesso interpretò. E ci sono anche i colori delle benedizioni del sommo sacerdote che spargono oro, azzurro, porpora, scarlatto e irradiano i riflessi di dodici pietre preziose: smeraldo, zaffiro, blugiacinto, agata, berillo, lapislazzuli, diaspro.... le dodici tribù d’Israele. E c’è Rubens, il primogenito, la mia forza ed il princípio del mio vigore, dice la benedizione. E Simeone e Levi, il cui furore terrorizza. E Giuda, che gli stessi fratelli avrebbero lodato e che avrebbe tenuto il collo dei nemici sotto la sua mano. E Zabulon, che avrebbe abitato in porti di mare. E Issacar, asino os-
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suto, e Dan, giudice del suo popolo, come il serpente sulla strada, lo scorpione del sentiero, che morde il calcagno dei cavalli e disarcina i loro cavalieri. E Gad, capace di respingere, far arrendere e annientare gli eserciti nemici. E Aser, il cui pane sarà voluminoso e diletterà il re. E Neftali, snella cerbiatta, che farà dei bei cuccioli. E José, ramo fruttifero presso la sorgente, i cui germogli si spandono sul muro. E finalmente Benjamim, che sarà forte ed eroico e la sera dividerà il bottino raccolto la mattina. Mi è venuta in mente la piazza del Campidoglio a Roma e ho tentato, ancora una volta, di indovinare quali potrebbero essere i dodici capi del villaggio globale dei giorni nostri.
François navigava nel passato, sforzandosi di trarre profitto soltanto dai momenti di gioia, ma lo perseguitava, come un ossessionante incubo, la costante presenza dell’organizzazione. Rivisse, nelle pagine di Lucienne, i momenti di tenerezza del matrimonio e della luna di miele, puntualmente scanditi dai dettami del programma. Ma subito l’assaliva il terrore per la scoperta della potente trama che regge l’umanità.
Sabato, 30 maggio 1974. Siamo a Toronto. Ogni giorno che passa è più bello del precedente. François adesso è mio marito ed io semplicemente l’amo. Sono sicura che ciò durerà per tutta la mia vita. È una sensazione intensa di benessere e di soddisfazione che riempie tutta la mia anima. Sono tutta sua e so che lui mi ama.
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Oggi abbiamo fatto il giro del centro della città, con la mano nella mano, come due colombi. Abbiamo apprezzato la pulizia e la compostezza degli edifici, delle strade e delle persone. Ci siamo sorbiti un gelato sulla Yong Street e siamo arrivati fino in riva al Lago Ontario. Una cosa meravigliosa. Domenica, 31 maggio 1974. Quando l’architetto Edward James Lennox terminò la costruzione del palazzo del comune di Toronto, nel 1899, aveva fatto senz’altro uno dei più grandi palazzi municipali d’America. Sono rimasta colpita dalle immense vetrate dell’interno di fronte all’entrata principale, dalle colonne di marmo e dal pavimento di legno portato dalla Georgia. Attorno al salone c’è una collezione incredibile di divise militari.
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Ma nei giardini, François ha trovato sconvolgente la presenza di tante sculture raccapriccianti sotto i cornicioni, probabili caricature surrettizie dei consiglieri comunali del secolo passato. François si ricordò che erano state proprio quelle figure a svelargli la vera struttura del potere che regge il mondo. Infatti sotto la figura più grande, che rappresentava lo stesso Lennox c’era inciso un disegno che riproduceva lo schema della piazza del Campidoglio, a Roma, proiettata sul mappamondo. Ci mancavano soltanto i nomi degli attuali 72 savi (o psicopatici?) che compongono la rete più potente del mondo.
Fu allora che François decise di rompere definitivamente con il programma che gli era stato tracciato e di deviare la rotta verso l’America Meridionale.
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.7 LA FINE DELLA STORIA
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ERA praticamente impossibile intravvedere l’entrata principale della “catacomba”. In realtà non era una vera e propria entrata. La collina si elevava come un grande cappello a bombetta con il profilo smussato dal vento millenario che le conferiva un aspetto dimesso e composto. Osservandola dall’autostrada che veniva dall’aeroporto, si aveva l’impressione che a un certo momento si sarebbe dovuto attraversare il suo ventre, prima di entrare nell’area urbana. Il rettifilo invece curvava docilmente a sinistra, non appena arrivati ai piedi di quella “bombetta”, per riprendere la direzione nord subito dopo aver superato l’ostacolo. Alla destra dell’altura c’era un’altra strada che seguiva anch’essa le falde della collina, ma sul versante opposto. In realtà era soltanto una stradina di campagna, stretta e quasi senza più asfalto: sarebbe stato meglio chiamarla viottolo. Doveva essere stata molto battuta quando non c’era ancora l’autostrada, ma adesso la stavano utilizzando sicuramente solo gli agricoltori per il trasporto delle loro mercanzie per brevi tragitti. Era esattamente da un bivio di quel viottolo, quasi invisibile fra gli arbusti e la macchia che l’invadeva continuamente, che si arrivava all’entrata della “catacomba”. Roberto ne aveva sentito parlare in molte occasioni, ma chi gli aveva quasi imposto l’obbligo di visitarla era stato François, quando erano stati ospiti della fazenda di sor Joaquim De Aquino. — Guarda bene quel Colle Azzurro — gli aveva detto l’amico. — Vedrai che le due colline hanno un aspetto molto simile, nonostante che i contorni del Colle Azzurro sono sicuramente più grossolani di quelli della collina che vedrai a Roma. Che c’entra la morfologia di questa savana con quella italiana? — domandò stupito Roberto. — Tre millenni di cultura hanno trasformato completamente l’ambiente e persino il sottosuolo di 213
quelle terre sovrappopolate che a malapena riescono a rinnovare qualcosa della vita vegetale e animale. — È esattamente questo che mette in così intima relazione le nazioni economicamente sviluppate con quelle che devono faticare per poter emergere dal deficit tecnologico, dall’analfabetismo e dalla povertà generalizzata. Ed è questo che ho appena scoperto riguardo l’organizzazione che domina l’umanità da almeno duecento anni. — Credi davvero che esista una struttura così estesa e potente da raggiungere con i suoi tentacoli posti così differenti e distanti tra di loro? — Purtroppo, non solo ho dovuto affrontare faccia a faccia questa gente maledetta, ma sono stato anche un loro strumento e vittima, tanto quanto lo sei pure tu, in vario grado e forma, tutti lo siamo, nessuno escluso. E inoltre, come questi due colli, ne esistono altri dieci, distribuiti per il mondo. Ma quello di Roma è il principale. È là che risiede Ramsés. — Mi piacerebbe che ci andassimo insieme — quasi lo supplicava Roberto impaurito. — Non è possibile. — François si mostrava perentorio. E si giustificava con argomenti che Roberto dovette riconoscere irrefutabili. Lui, infatti, non faceva parte dello schema e poteva servire meglio da messaggero. François aveva già tentato di penetrare nella “catacomba”, dopo essere tornato in Europa e aver deciso di vendicare la morte della moglie. Ma l’accesso gli era stato proibito, probabilmente a causa dei sospetti sulle sue reali intenzioni. Si era già reso perfettamente conto della struttura dell’organizzazione, mettendo insieme le informazioni di cui disponeva e quelle fornitegli da Quin, l’angelo vietnamita conosciuto a Toronto.
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Aveva preso ormai l’abitudine di classificare tutte le persone con la lettera “A” di angelo o “D” di diavolo — si deve ammettere — per via della visione estremamente semplicistica della vita e degli uomini che Lucienne gli aveva inculcato, conseguenza del suo contatto con la cultura persiana quando era tornata in Iran. Era diventato un meccanismo di semplificazione persino plausibile per l’efficacia didattica e per la sicurezza che offriva nell’orientare tutte le attenzioni e gli sforzi, per proteggersi dai pericoli che i demoni gli avessero potuto presentare. Per contro gli era di ostacolo per una catalogazione adeguata del comportamento altrui, per esempio, quando un individuo qualunque dimostrasse un’indole buona sotto un certo aspetto, mentre, in un determinato momento avrebbe potuto sorprendere tutti con un atto di inaudita cattiveria o di imperdonabile vigliaccheria o di indiscutibile meschinità. Giacomo Organdi era un angelo. Il principe Sforza invece si era salvato dall’etichetta di “D”, soltanto per l’impressione che fossero in fondo la stessa persona. E Bourgelat, allora? Anche lui doveva essere fondamentalmente un “A”, nonostante certe idee peregrine e quella sua personalità un tanto strana; ma le circostanze avevano dovuto renderlo un “D”. Larisse invece, doveva essere stata un angelo, come sicuramente tutte le donne che aveva conosciuto. Al primo posto la sua Lucienne. Le donne, senza alcun dubbio, sono tutte pregiudizialmente “A”. Come pensare altrimenti di fronte all’amore devoto di Violeta per lui? Chiunque si sarebbe sentito un dio davanti a quella giovane in adorazione, totalmente dedicata ai rituali di una religiosità carnale con cui incendiava le sue veglie e vegliava il suo sonno. Il resto della giornata era tutta una preparazione. La sua pelle di giambo, non appena emergeva dal buio della notte silvestre, già era in moto per lasciare riflettere l’alba in tutto il fulgore delle sue forme scultoree. L’andatura scalza modellava il suolo 215
sotto i suoi passi cadenzati che trascinavano il resto del corpo in una danza flessuosa e morbida. Il ritmo, propiziato dagli uccelli e dagli altri animali del bosco, in un festival di silenzi e di suoni. Portava i panni al fiume e ne riportava acqua, cibi e fiori per riempire la capanna del capo. Nei giorni in cui non bisognava partire molto presto per qualche spedizione o battaglia, la stuoia del riposo e dell’amore era ancora la sedia a sdraio e il tavolo e il divano del condottiero, che diveniva allora anche il re e l’amante ed il dio, perché la sua più grande ammiratrice lo potesse idolatrare e coccolare. Non si potrebbero trovare abiti più puliti o cibi più prelibati in un salone principesco o in un’alcova imperiale. E non ci sarebbe stata una cortigiana più seduttrice di quel germoglio sodo e docile che respirava e si muoveva soltanto in funzione del nuovo Ché...
Il primo contatto di Quin con François era avvenuto a Malta, ma non personalmente. La Valletta era l’ultimo porto in cui Quin sarebbe sbarcato prima di raggiungere la Francia. Educato in una scuola di preti a Saigon, aveva trascorso una gioventù totalmente alienata dai problemi del suo popolo. Fino al giorno in cui i francesi lasciarono la Cocincina. Suo padre era stato un ufficiale delle forze armate, all’epoca del generale L'Atre de Tassigny. Quando Quin glielo raccontò, François persino sorrise, ricordando il nome della piazza in cui era praticamente iniziato il suo itinerario per le vie del mondo. Fece mentalmente un elenco di tutti i D che gli avevano trasformato la vita in un inferno e concluse che, nonostante la distanza, il colonnello Wang Ton Quen, padre di Quin, doveva essere stato uno di loro. Molti ribelli erano passati per la sua spada, senza contare le centinaia di misera-
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bili che i cannoni e i fucili delle sue truppe “regolari” avevano decimato. Quante giovani avevano avuto il “privilegio” di venire deflorate da lui personalmente, quante barbarie aveva ancora perpetrato davanti ai suoi guerrieri per incitarli alla lotta! Il benessere che era riuscito a conferire alla sua famiglia non era evidentemente originato soltanto dai miseri franchi, che molte volte neanche riusciva a trasformare in piastre, tanto era stata rapida, a quell’epoca, la svalutazione della moneta vietnamita e ridotto il potere d’acquisto del soldo riservato a quei fedeli guardiani della provincia. Gli studi di Quin e delle sue due sorelle, come pure i beni che era riuscito ad accumulare in vari punti della Cocincina, provenivano in realtà dalle sue attività parallele e clandestine di protezione a subalterni, dai bottini di guerra, dalle estorsioni ai danni degli imprenditori e soprattutto dalla sua progressiva ascesa nel ramo sud-asiatico dell’Organizzazione. Quin scoprì tutte queste malefatte solo quando suo padre stava morendo a causa del veleno che qualcuno, fra i suoi numerosi nemici, era riuscito a mettere nel suo cibo, veleno non abbastanza potente da impedirgli di svelare al figlio tutti i suoi segreti. Questi aveva terminato recentemente il quinto anno di servizio militare obbligatorio. Tutto quanto aveva studiato e tutto ciò che aveva, l’avrebbe devoluto d’ora in avanti al progresso della sua gente, mentre avrebbe dovuto preoccuparsi di a fuggire dalle grinfie dei nemici di suo padre. A Malta Quin era arrivato sotto falsa identità, disertore e clandestino, ma pieno di soldi, il giorno 3 agosto, festa de San Gaetano, patrono di un sobborgo di La Valletta. All’uscita del porto, venne quasi trascinato da una folla che portava il santo in processione per le vie della città. Era un tumulto allegro e rumoroso, amalgamato dalle marcette discordi di una banda dalle 217
buone intenzioni, anche se com poca familiarità con le sottigliezze del pentagramma. Nonostante ogni maltese sia trilingue — “colpa” della dominazione inglese, da un lato, e, dall’altro, merito della televisione italiana che da sempre raggiunge l’isola senza bisogno di ripetitori —, Quin dovette subire quell’uragano di grida e di risa articolate in un linguaggio assolutamente diverso dalle varie lingue cui era abituato, apprese durante la sua raffinata formazione letteraria. Quando trovò una breccia, uscì da quell’onda aggrappandosi a una cantoniera, che per fortuna si trovava nelle adiacenze dell’entrata di un piccolo albergo. In inglese ottenne quanto voleva e andò immediatamente a rinchiudersi nella sua stanza, per cercare di rilassarsi dopo quella mareggiata prolungata e quell’ultimo mulinello su terra ferma, che aveva dovuto affrontare. All’imbrunire, però, era di nuovo per strada dove seguitava a scontrarsi con quel torrente umano ovunque si volgesse. La differenza era che, nella sera della festa, non esiste un maltese che non si ubriachi completamente. In una piccola traversa buia, dove aveva cercato scampo dalla marea di gente che l’aveva sballottolato nel corso principale, trovò un ragazzino di circa dieci anni, appoggiato al muro di una di quelle case, con una bottiglia vuota di Black-and-White in mano e che sembrava volesse ingoiare tutta l’aria dei dintorni, perché, evidentemente, si stava affogando in un mare di alcol. Sollevò il ragazzo sulle braccia fino all’angolo dell’altra via, parallela a quella in cui si era rifugiato, sperando che fosse un po’ più tranquilla. Infatti era proprio il lungomare, che si allargava in una piazzetta dalle linee irregolari, piena di gente seduta ai tavolini che sempre si trovano davanti all’entrata principale dei piccoli ristoranti. 218
Arrivarono subito due giovani alti e muscolosi, ancora in piena fase euforica da whisky, i quali interruppero un’animata discussione, per aiutarlo. — Un ospedale, subito — si sforzava di spiegare in inglese Quin, preoccupato per il ragazzo, nell’affidarlo a quegli energumeni in preda all’alcol. — Don't take care, stranger. — gli gridò senza cattiveria il più biondo dei due, mentre riprendeva la sua chiacchiera incomprensibile in maltese con il compagno che quasi staccava le gambe del ragazzino, cercando di prendere una direzione opposta a quella dell’altro. Quin cercò di stare calmo e di rassegnarsi ammettendo che non era se non uno straniero e non aveva neppure il diritto di prestare aiuto agli altri. Si sedette su una delle poche sedie vuote e incominciò a meditare sugli ultimi avvenimenti. — Lasciali fare! Ils sont si heureux! — la bella donna, che aveva appena intravisto seduta da sola a un tavolo vicino, aveva colto il suo accento francese, nonostante il tentativo di dissimularlo nel linguaggio più britannico di cui fosse capace. La notte era chiara, con una luna più grande persino di tutta quell’isola. Si potevano anche scorgere le navi in mezzo al mare e le onde voluttuose che le dondolavano dolcemente. La miriade di riflessi argentei si frantumavano in altrettante nuove scintille, minuscole e vivaci. I rumori della città in festa accompagnavano quel formicolio di luci come una mano che rassetta un abito da ballo carico di lustrini sul corpo di una donna. — È vero, sono molto felici — concordò Quin, toccato dalla bontà di quegli occhi — E molto matti pure — sentì il bisogno di aggiungere con un sorriso. — Ogni essere umano ha bisogno del suo giorno di svago, signor Quin — lo sorprese quella voce posata e sicura di donna. Si sarebbe aspettato di trovare un uomo da riconoscere grazie al 219
numero XIV cesellato su una spilla d’oro appartenuta a suo padre, puntata all’occhiello del suo impeccabile vestito di lino beige. — Confesso che sono meravigliato nel venire riconosciuto da una dama, in quest’angolo sperduto in mezzo al Mediterraneo. — Non importa tanto quel che gli occhi ci fan vedere, quanto le credenziali che il nostro cuore ci offre. La giovane dama spiegò come era stata incaricata dal marito di coordinare i contatti con le persone che l’avrebbero potuto aiutare a svelare i misteri che ancora lo affliggevano e a riordinare i piani della sua stessa vita verso una direzione moralmente più accettabile. — Ci incontreremo ancora altre volte e riusciremo a realizzare le nostre comuni aspirazioni — concluse Lucienne. Quin divenne così il più valido aiuto per l’esecuzione dei piani che François andava architettando, mentre apparentemente seguiva lo schema prestabilito. Quando venne a conoscenza dei segreti del generale Wang Ton Quen, che aveva acquisito la posizione XIV nel ranking della rete, François si convinse che esisteva davvero un modo per rovesciare la fatalità. — La catacomba è un labirinto di stanze e corridoi che corrisponde a una concezione sordidamente mistica della geopolitica mondiale, così come la va configurando da molto tempo una genia di malfattori travestiti da statisti. Essi hanno la convinzione che gli uomini possano essere governati dal potere dell’oro e pensano addirittura di manipolare i governi di tutto il mondo affinché obbediscano agli scopi di un secondo re Davide, un messia delle tenebre con una stella a dodici punte che garantirebbe per sempre il dominio del mondo a questa casta di predestinati. — Non ti mette paura l’aver a che fare con queste forze occulte?
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— Perché pensi che non dovrei aver paura? Ho sempre convissuto con l’incertezza e nel pericolo. Sempre ho dovuto affrontare l’incognita angosciante della prossima curva. Là dietro avrebbe potuto esserci la morte in agguato, o peggio ancora, la malattia, l’impotenza fisica, l’incomprensione, la cattiveria altrui.... Ma, per quanto possa sembrare incredibile, è successo che proprio su questa corda da funambolo ho trovato la mia pace.
Entrato nella “catacomba”, a Roberto venne in mente il casamento dov’era avvenuto il massacro di Labareda, nonostante questa volta si trattasse di un labirinto luminoso e lindo. — Cosa vuole? — chiese, con affettata cortesia, una voce nasale proveniente dal citofono nascosto tra le crepe della parete rocciosa, dietro gli arbusti. — Voglio vedere Laforgue — rispose immediatamente Roberto. François glielo aveva insegnato. Ma in quell’istante si ricordò soltanto del sorriso del Condorito. Una pietra ruotò e si aprì un vano trasformando tutt’a un tratto l’ambiente selvaggio in un’accogliente sala d’attesa. Il colore azzurro chiaro predominava alle pareti e nel tavolo dietro cui c’era una giovane vestita con una tunica bianca e con i lunghi capelli trattenuti da un diadema scintillante. — Forza, luce e coraggio mantengano sicuri i vostri passi e li conducano sulla via della conoscenza della verità — recitò quell’essere ultraterreno, con voce monocorde, mentre aspergeva il visitante con l’issopo. L’ampio locale non aveva né porte né finestre e l’estraneo aveva avuto la sensazione di essere stato rinchiuso in una luminosa segreta, fino al momento in cui il muro che gli stava davanti, delicatamente decorato con fiori e grandi lettere bianche che
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formavano la parola ALBUM si aprì descrivendo un angolo di novanta gradi sul lato destro. L’ambiente si raddoppiò approfondendo l’azzurro in una fuga di immagini proprie degli abissi marini, come se fosse un immenso acquario. Mentre si avvicinava al fondo di quello scenario, la parete mobile si chiudeva alle sue spalle.. Su di una bellissima conchiglia c’era la parola FOSSILE. Avanzò ancora, mentre si aprivano in successione nuovi scenari dai colori e dalle forme varie: arabeschi e figure della oleografia astrologica, biblica e magica differenziavano ognuno di quegli ambienti climatizzati. François sapeva perfettamente quale sarebbe stata la sequenza delle stanze e dei colori predominanti, perché conosceva finalmente il vero senso della poesia che un bandito gli aveva soffiato tanti anni prima in prigione. Azzurro chiaro, il colore della vetrata di Chagall, che rappresenta la tribù di Rubens, seguita dall’azzurro intenso di Simeone. Il dorato della tribù di Levi splendeva non soltanto alle pareti ma anche nel pavimento e nel soffitto, rivestiti di mosaici multicolori, che li rendevano simili a una cappella bizantina, dominata dalla parola GERANIO. Venivano poi la tribù di Giuda in rosso, quella di Zabulon in rosso chiaro, di Issacar in verde, di Dan nuovamente in azzurro, di Gad in verde scuro, di Aser in verde oliva, di Neftali in giallo, di Giuseppe in arancione e di Beniamino in turchese. Una parola di ogni verso di Laforgue illustrava mnemonicamente la distribuzione del mondo in settori: ALBUM del papa e del nord-est dell’Europa e dell’Asia; FOSSILE, Medio Oriente ed Unione Sovietica; GERANIO, Estremo Oriente; ISOLE, le Isole del Pacifico; TROVATORE, l’Oceania; AVORIO, l’Africa; FIORE, l’America Meridionale; STORIE, America Centrale; PACE, Stati Uniti; LEI, Canada; NIENTE, nord-ovest dell’Europa; SIGNORINA, nord del Baltico. 222
La tribù di “Levi” aveva eliminato Antoine, il quale si stava preparando a sopprimere il papa Paolo VI, ma c’era già un sostituto per tale compito. La malattia aveva... salvato il papa da morte violenta, ma, alla fine la morte è la morte, non importa la maniera in cui venga. Il successore, Giovanni Paolo I, il papa Luciani, lo può ben dire. Anche lui predicava la liberazione della Chiesa. Sarebbe stato un Giovanni XXIII e un Paolo VI riuniti in un’unica persona. Un vero pericolo. È successo quello che è successo. François era stato predisposto per realizzare il servizio. Per lui sarebbe stato un salto enorme all’interno della gerarchia
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dell’organizzazione. Ma la sua fuga l’aveva squalificato. Levi aveva cercato allora, nella sua cerchia, il giovane turco che avrebbe tentato di eliminare ancora un altro papa progressista, nel 1980. La punizione di François è stata la morte di Lucienne...
In una domenica di primavera si sveglia pigra anche una città ai tropici. Ancor più al momento della Messa nel penitenziario urbano, dove Fra Wildebrand già da un’ora andava cullando le anime pervicaci dei detenuti con una ninna nanna monotona e blanda, increspata soltanto dalla scusabile asprezza dell’accento tedesco. Perdono e comprensione si respiravano, peraltro, in ogni angolo del salone afoso anche se frammischiati ai sebosi miasmi dei galeotti da poco emersi dai languori di una notte ancora di sogni di amori e di fughe e subito precipitati nell’atmosfera molle tramata dal coro instancabile e dai mistici fervori del celebrante. Suor Zosima non gridò più forte degli altri, perché dovette avere l’impressione che la visione apocalittica a cui stava assistendo appartenesse alle intime elucubrazioni che la dominavano a quel punto del Padrenostro. Sulla testa calva del frate, infatti, stava avanzando la calvizie di Zé-Carranca come un sole scuro che sbocciava da un altro, più pallido, mentre un revolver rimaneva appeso all’orecchio del religioso come se fosse un orrendo orecchino. — Tutti fermi o il prete esplode. Tutti quanti rimasero fermi dove si trovavano e non ci fu neanche bisogno di alzare le mani, visto che erano stati sorpresi tutti a pregare... con le mani in alto. Mezz’ora dopo c’era una folla immensa per strada.
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François stava incrociando il corso, in tempo per vedersi davanti la limousine del governatore, nera e gigantesca, bloccata per miracolo da un albero, prima di sfasciarsi contro di lui. Era raggelato dallo stupore e incapace ancora di ringraziare l’albero amico mentre si stendeva sul sedile, nell’ingenua speranza che lo proteggesse anche esso dall’incrociarsi di pallottole tutt’intorno. Non ci fu bisogno della sua protezione, poiché i colpi sicuri andarono dritti dritti a crivellare la carrozzeria della irriconoscibile limousine, in una festa di crepitii, fischi e scoppi. La ferraglia cominciò a sputar fuori ostaggi e banditi caracollanti che tingevano di strisce rosse l’asfalto tetro. Tutti quanti impietriti dalla paura. Le suore rimasero a fluttuare al vento, illese, come angeli immacolati, spersi nell’aria, senza più nessuno a cui badare, senza più nessuno che badasse a loro. La scena permaneva in un’immobilità cristallina. Soltanto le pallottole continuavano a ordire trame invisibili. I sopravvissuti andarono, più tardi, a invadere il pronto soccorso dove François era arrivato sano e salvo e in tempo per farsi carico del suo turno all’emergenza. Sembrava una processione. Alcuni sostenevano altri. Guardie armate di mitra. Guardie, ostaggi, prigionieri, infermieri, feriti nutriti e malnutriti, aiutanti, addetti, benedetti, maledetti. Cinque portantine, aghi, siringhe, flaconi, fagiolini, cateteri, sfibrillatori, soluzioni, problemi senza soluzione, suggerimenti, opinioni, disillusioni, voci, lamenti. François aveva riconosciuto subito il prete grazie al libro nero col filetto dorato e la tunica al braccio. Non l’aveva mai visto prima. E neanche riusciva a capire molto di quel che stava predicando, tentennando il capo, che bisogna finirla con le prigioni, che gli onesti sembrano disonesti e viceversa. E che quando era piccolo, nel suo rione di baraccati 225
non c’erano altro che ladri ed assassini ma che tutto andava meglio. Che sua madre era nera e suo padre ancor di più. Che i giudici avrebbero dovuto rimanere dietro le sbarre... Parlava un’insalata di latino e tedesco da far rabbrividire. Maccherone era il detenuto che tentava di dire il suo nome vero, ma la pallottola gli si era frantumata in bocca e non ne usciva altro che sangue e bava. Zé-Carranca stava delirando in tedesco anche lui, con la pallottola vagante infilata dietro l’orecchia. Disquisiva sulla sua terra verde, dove d’inverno tutto diventava bianco per la neve, ricordava i suoi studi, i suoi amici, le fidanzatine bionde, mondi nuovi, amore e pace. Il poliziotto che non riusciva ad aprire le manette che lo inchiodavano al comatoso del centro, ebbe ancora la presenza di spirito di avvisarlo che Maccherone era molto pericoloso e lo pregava di allontanare qualsiasi oggetto contundente. E come avrebbe potuto? L’altro, rimasto incastrato in un angolo, riusciva ancora a soffiargli all’udito: — Fai fuori Maccherone, dottore. Fagli una di quelle iniezioni che sai tu e nessuno se ne accorgerà. Zé-Carranca sono riuscito a centrarlo io con la mia pistola. Si è sparsa la voce che è accaduto durante la sparatoria. Niente. È stato durante il trasporto con il cellulare. Stai sicuro che nessuno apre il becco. Fallo fuori... Anche se l’avesse voluto, non sarebbe mai riuscito a fare una cosa simile. Rimaneva soltanto sommerso da quella zuppa di gente, di ricordi, di desideri insoddisfatti, di piani incompiuti. Sentiva soltanto, per la prima volta, che era libero dalla schiavitù d’un futuro incerto, ma prigioniero ancora dei propri ricordi. Immagini di persone amate e amiche si sovrapponevano a quelle dei personaggi schifosi che gli avevano tribolato la giovinezza. 226
Lucienne gli ritornava alla memoria nella sua freschezza adolescente e nella sua tranquilla maturità. E, all’improvviso, la fiammata che se l’era portata via. Il calore del corpo di Violeta veniva subito a riscaldare la sua immaginazione, temperato soltanto dal cruccio per non averlo seguito quando lui aveva deciso di arruolarsi fra i Médecinssans-frontières. Lei era ancora una militante, insieme agli excompagni di guerriglia, ora che il suo paese aveva finalmente riconquistato la democrazia ed era una forte candidata alla presidenza della repubblica. Uno dopo l’altro, venivano a galla gli eventi che avevano segnato la sua vita agitata da eroe-controvoglia e di spettatore della fine della storia: il ritorno alla democrazia in America Latina, la caduta del muro di Berlino, la fine del Comunismo in Russia, la guerra del Golfo, la lotta contro la fame in Africa...
Sarebbe potuta sembrare un’esagerazione, se non fosse stato completamente affollato da cinesi quello spazio immenso fra il palazzo dell’Assemblea del Popolo e la Città Proibita. Si sarebbe potuto parlare di milioni. Era il cuore di una megalopoli e di tutto un popolo che apriva un varco alla speranza. Roberto aveva visto sorgere l’alba in quella piazza insieme a Quin e al fotografo Chang. In quel luogo, tredici anni prima, Mao-Tze-Tung aveva festeggiato l’anniversario di quella rivoluzione culturale che lui stesso aveva inventato. Un’altra rivolta studentesca montava adesso una confusione che somigliava fin troppo a una democrazia. L’armata continuava a seguire la tradizione di mantenersi lontana da quel luogo storico. La polizia, paradossalmente, era
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d’accordo con i manifestanti. Il potere centrale era in un impasse cruciale. La redazione della rivista Expresso-Mundo voleva dal reporter Roberto De Luca notizie di prima mano. E lui era partito in fretta da Rio de Janeiro per raggiungere Sciangai e là era riuscito ad ottenere un biglietto sulla linea aerea nazionale grazie a un visto diplomatico che l’addetto culturale del Consolato gli aveva fornito. — Non si passa! Dovete tornare indietro! Non era un ordine militare, ma proveniva da un giovane che avrebbe potuto benissimo essere un cadetto del servizio militare insieme alle centinaia di soldati che circondavano Pechino. Aveva in mano una bandiera rossa con il nome della sua università e in fronte una fascia bianca con quattro caratteri scritti a inchiostro di china: «Colui che non ha paura di morire». Dietro di lui una folla rumorosa si formava precipitosamente ogni qualvolta una macchina si avvicinava. Quin si ricordava della sua vita da soldato, il suo fervore patriottico e la sua vitalità da atleta. Era anche lui un intellettuale, ma aveva lottato per la propria patria e per questo capiva perfettamente quei giovani che si esponevano alla truculenza dello stato in nome di un amore viscerale per la nazione. Una ventina di autobus e camionette disposte di traverso ostruivano trasversalmente il corso della Pace Celeste, che taglia la città da est a ovest. Erano le tre di sabato mattina e, sotto la luce irreale dei giganteschi lampioni staliniani, la scena aveva sfumature allucinanti. Una 4 x 4 della polizia, vetri affumicati e piccole antenne sul tetto, cercava di forzare il passaggio. Con un segnale della bandiera, lo studente convocò tutti alla reazione. Venti, trenta giovani cinesi, capelloni come dei fan del rock o giovani impiegati in divisa, vennero ad appoggiarsi alla macchi-
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na, con le mani sul paraurti, lo châssis, le ruote. E ottennero che la vettura facesse dietro front. — È un giornalista straniero. Sta visitando le altre barriere più avanti. Lo studente chiese a Roberto il tesserino della stampa, dopo fece un segnale di via libera all’autista. Carrellata di facce tese dalla paura e dall’eccitazione, piegate sul vetro abbassato del suo finestrino. Una ragazza elegante, con pullover angora e orecchini di giada, gli fece il segno «V» della vittoria. Lo stesso fece un vecchio sdentato, con gli occhiali infangati, grave come il destino. E centinaia di uomini e di donne, mano nella mano, che facevano loro strada. Pechino stava vivendo la sua Comune. Erano trascorsi tre giorni di euforia durante i quali la quasi totalità degli undici milioni di abitanti della città, riuniti da poche migliaia di studenti provenienti da tutte le città della Cina, sfilarono nella piazza Tian-An-Men per applaudire i tremila scioperanti della fame. Il potere centrale aveva appena scelto le maniere forti. Ma i cinesi non erano d’accordo. Durante una riunione d’emergenza del Comitato Centrale, Zhao-Zi-Yang, segretario generale del partito e campione dei riformisti, propose di cedere alle esigenze “patriottiche” degli studenti. Venne messo in minoranza com 4 a 1, e si trovava già fra i dimissionari. All’imbrunire il primo ministro Li-Peng, leader dei comunisti della prima ora, partecipò a una trasmissione televisiva in diretta. Tremava di rabbia come un dittatore insudiciato. — Pechino è caduta nell’anarchia. In tutti gli angoli la legge e la disciplina vengono contraffatte. Noi dobbiamo proteggere il nostro sistema socialista con l’aiuto della gloriosa armata popolare di liberazione. La piazza Tian-An-Mem sarà evacuata questa sera stessa.
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Dopo la prima trasmissione, la dichiarazione di Li-Peng venne ripetuta mille volte sul piccolo schermo e attraverso le radioline a transistor, suonando a minaccia. Figlio adottivo di Xu-EnLai, formato nell’ideologia più rigida, il primo ministro cinese, con occhiali e abito stile Mao, abbottonato fino al collo, era un vero prodotto dell’apparato. Deciso ad appellarsi all’armata, pensava senza dubbio alcuno di poter ridurre alla docilità il fiume immane del popolo della capitale. Avvenne esattamente il contrario. Fin dai primi rumori di intervento, alcuni commandos studenteschi ammucchiati sulle piattaforme delle camionette, si riunirono nei quattro angoli della città per avvertire i loro simpatizzanti. Schiere di giovani imprenditori privati, proprietari privilegiati di piccole moto giapponesi, correvano da un capo all’altro, con la bandiera al vento, per portare le notizie. Gli operai della metropolitana avevano bloccato il passaggio per i binari, fin dall’inizio del discorso di Li-Peng, impedendo l’accesso alle stazioni con catene e catenacci. Erano le 4 del mattino. Il tassista di Roberto aveva sostituito la sua insegna gialla con una bandiera “democratica” e gridava il suo consenso a ogni gruppo di sentinelle che incrociava. Le sirene delle ambulanze trasformate in mezzo di trasporto per gli studenti, ritmavano in modo stridente la tensione che aumentava sempre più. I camion passavano a tutta velocità, carichi di cittadini che scandivano i loro slogan rivendicatori nella notte. A quindici chilometri dalla piazza, in piena zona est, il primo contingente militare. C’erano quattro camion armati di cannoni ad acqua, sei camion carichi di bombe lacrimogene, enormi contenitori della portata di un razzo e otto convogli trasportavano la truppa. Erano arrivati verso mezzanotte e il filobus a due vagoni numero 403 era disposto trasversalmente sulla strada.
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Quando la colonna si fermò, alcuni operai di un cantiere misero dei cunei dietro le loro ruote. Rimasero bloccati per quattro ore. Sul tetto dell’autobus uno studente sobillava la folla che circondava il veicolo color cachi. — Chi fa la rovina del popolo? Chi cerca di deviare il popolo dal suo destino nazionale? Migliaia di voci chiedevano le dimissioni di Li-Peng. Un uomo salì allora sulla cappotta del primo camion estrasse dagli abiti infangati una tromba di rame tutta ammaccata e intonò L’Internazionale. A due metri di distanza, dietro il vetro della sua cabina, un graduato cinese, sotto il suo casco stellato, rimase impassibile come una statua d’avorio. Seconda barricata, dieci chilometri più avanti. Dei carri cisterna della fabbrica di cemento dell’est avevano rifornito una ventina di camion sulla cui tela cerata qualcuno aveva scritto degli slogan con il gesso: «I soldati del popolo non sono i cani da guardia della casa dell’imperatore». Dietro il suo volante, faccia a faccia con il veicolo di punta del convoglio, un operaio cinquantenne dall’espressione serena di un padre di famiglia, alzò la testa con aria decisa. — Anche se volessero battere in ritirata, li aspetteremmo fino a mezzogiorno. Bisogna che il popolo di Pechino veda quello che i soldati son venuti a fare nella capitale. I soldati, tutti a disagio. erano molto giovani e gettavano sguardi impauriti sulla folla che li guardava in faccia. Uno studente passava da un camion all’altro per spiegare la situazione ai “fratelli” soldati. Come tutte le truppe riunite quella notte a Pechino, da quattro giorni queste reclute erano state private della televisione e della radio. A loro era stato detto che dovevano adunarsi nella piazza Tian-An-Men per una sfilata militare. Dopo la fatica veniva la ricompensa. Tre donne sui quarant’anni, giovani commercianti dalle braccia da scaricatori di 231
porto, offrivano una pentola di minestra di riso. I soldatini ringraziavano con le labbra serrate e rifiutavano. — Bisogna mangiare, figlio mio — gridava la più corpulenta delle due cinesi — non lasciare che i mandarini ti rovinino la salute! — I presenti si contorcevano dalle risa. Un soldato cedette e accettò la scodella di riso. Fu applaudito con entusiasmo. Roberto tornò a Tian-An-Men, santuario di quel maggio ‘68 al condimento cinese, punto centrale della ragnatela delle barriere popolari. L’alba accarezzava l’entrata della Città Proibita e dorava i tetti dipinti. Bruscamente, i riverberi della piazza si spensero e la luce diffusa divenne aurora. La Radio Tian-AnMen, dagli altoparlanti che gli studenti avevano appeso da tutte le parti lungo la piazza, fece risuonare l’inno alla gioia di Beethoven. Magia. Per i tremila scioperanti della fame e per i centomila studenti, la notte in bianco più lunga della loro vita era appena terminata. Subito dopo l’alba, Radio Tian-An-Men trasmetteva le notizie e le istruzioni. — Se ci dovesse essere un confronto, prima di tutto mantenetevi calmi. Formate cordoni serrati e non aggredite nessun membro delle forze dell’ordine. I soldati cercheranno di rompere le linee degli studenti dall’entrata di nord-est. Abbiamo appena ricevuto la notizia che i poliziotti anti-sedizione di Scian hanno percosso gli studenti distesi davanti ai loro camion presso la stazione di Feng-tai. Ci sono 45 feriti fra i nostri compagni. Appena lo studente ebbe finito di parlare, gli altoparlanti ufficiali della piazza, azionati dal vicino Palazzo del Popolo, rovesciarono un discorso minaccioso del primo ministro Li-Peng. — Li-Peng ha perduto la testa. Pensa di essere Komeini. — Kong-Ping era una ragazza di diciannove anni; testa da bambola asiatica e forza di volontà di una guerrigliera della resistenza 232
basca. — Due giorni fa noi volevamo cambiare il sistema di far politica e non gli uomini — proseguì. In certo modo come la terra di un campo che non produce da qualche anno ma che, se lavorata, può generare nuovi frutti. Solo che adesso questo governo non ha scampo. Li-Peng deve andarsene e Deng-Xiao-Ping pure. Seduta sul primo gradino dell’obelisco, il monumento agli eroi del popolo innalzato al centro della piazza che serviva da quartiere generale ai leader studenteschi, Kong-Ping contemplava l’enorme spianata, da otto giorni dominata da lei e dai suoi compagni. I primi raggi di sole sembravano riscattare questo villaggio ribelle, simile a una Woodstock cinese che si fosse trasformata in una fortezza. Responsabile della “tipografia”, tre stampanti allineate sotto una tela cerata sorretta da canne di bambù, Kong Ping aveva confezionato dei volantini per tutta la notte. Aveva dell’inchiostro nero fino ai gomiti e del grigio sotto gli occhi. Con un sorriso d’orgoglio, la giovane studentessa di Tecniche Industriali ricordava che era arrivata da sola in bicicletta per raggiungere il primo pugno di manifestanti, il giorno 19 aprile. Un mese prima. — No, non sono una veterana — rispose ridendo — ma credo che stiamo scrivendo la storia della Cina. Pagine gloriose? Pagine di sangue? Invece di rispondere, Kong-Ping si alzò bruscamente. Provenienti dall’est in volo radente sul corso della Pace Celeste, cinque elicotteri dell’armata cinese si tuffavano nella piazza, descrivendo dei circoli a bassa quota. Kong-Ping si precipitò nella tipografia. Alla televisione la presentatrice enfatica aveva finito di annunciare la legge marziale. Il braccio di ferro era durato tre giorni. Tutta la notte nuove colonne militari avevano raggiunto la capitale. Tutta la notte 233
Pechino era stata fortificata con barricate e con barriere. E i cittadini bloccavano i soldati. A est della città, domenica mattina, non c’erano meno di diecimila uomini e una ventina di carri armati della “65ª armata”, concentrati vicino alla fabbrica d’acciaio No 1. Alla stazione di Pechino, sei convogli extra, con più di undicimila soldati venuti dal nord, ritornavano dopo circa di dieci ore. Le piattaforme erano invase dalla moltitudine. Dopo alcune investite, lanci di pietre e colpi di cinghia, lo scontro tra l’armata popolare di liberazione e i civili avrebbe potuto degenerare in qualsiasi momento. Detentori di un nuovo diritto morale, forti di un patriottismo che innalzavano come una bandiera, gli studenti cinesi si autoproclamarono pionieri di un Impero dell’Ambiente in pieno risveglio. E la maggior parte della popolazione li seguiva, con la testa piena di sogni e persino varie unità dell’armata avrebbero preso partito a loro favore. Un colonnello era venuto due volte all’obelisco della piazza, nelle prime ore della notte, per avvertire i contestatori sui movimenti delle truppe e uno degli elicotteri, che sorvolavano regolarmente l’accampamento degli studenti, aveva lanciato dei volantini che spiegavano ai giovani rivoltosi come proteggersi contro i gas lacrimogeni. Lunedì sera. Per la prima volta, dopo cinque giorni, le strade di Pechino erano calme. La maggior parte dei contingenti erano tornati alle loro caserme. Non restavano più di ventimila studenti nella piazza Tian-An-Men. Sicuramente il potere aveva scelto le maniere dure, allontanando il progressista Zhao-Zi-Yang, e riprendendo la stampa in mano. Ma fin dalla sua mobilitazione, l’armata non aveva eseguito gli ordini del primo ministro LiPeng e l’affronto sembrava imperdonabile. — Nella storia dei condottieri della Cina, quelli che un giorno persero la faccia, non rimasero più per molto tempo sul trono —
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spiegava una studentessa a Roberto. — Ma qui dicono pure che «un cane impazzito si può gettare dal tetto».
Roberto pensava ancora a Suzy, mentre osservava i carri armati che invadevano il corso e la piazza. Quin aiutava Chang a fare la ripresa della fila interminabile di quelle macchine belliche che creava il vuoto attorno a esse. Un giovane mingherlino stava cercando di ostacolare uno di quei mastodonti e faceva pensare alla danza pericolosa di un uomo e di un orso. Quando cominciò la sparatoria contro i manifestanti, il mondo sembrò terminare. Roberto si sentì di nuovo come se fosse dentro la sala di riunione a Labareda, fra i suoi amici. Suzy gli stava pure vicinissima. Sentiva crescere l’amore per lei e, allo stesso tempo, la paura di perderla. Era a letto con lei, e tentava di ricuperare, ancora una volta, i lunghi anni in cui era rimasto lontano. Il contatto delle sue labbra e la tenerezza delle sue mani lo ricompensavano largamente di tutte le privazioni e umiliazioni che la sua fedeltà gli era costata. Non si sarebbe mai più allontanato da lei. Quin sapeva pure che la sua ultima battaglia terminava là, accanto all’amico, e provava quasi un sentimento de soddisfazione per aver potuto interferire almeno un poco nei destini del suo popolo e persino dell’umanità. Chang fu l’unico a uscirne vivo da quell’apocalisse e poté trasmettere al giornale i servizi realizzati dai suoi colleghi stranieri caduti fra centinaia di giovani cinesi.
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François abitava ormai a Campo Grande quando vide la rivista con le foto scattate da lui e i primi piani dei suoi due amici, con cui aveva condiviso buoni momenti della sua vita. Credeva nelle previsioni misteriosofiche che indicano il centro del mondo nel Pantanal del Mato Grosso e Campo Grande come la capitale dell’universo, nel terzo millennio. Viveva dai proventi del suo lavoro di medico e con i suoi ricordi. Senza figli, senza famiglia. Ma con una moltitudine di persone bisognose del suo appoggio e della sua esperienza. Al centro della stanza ora c’era Ramsés. Esisteva realmente ed era il capo del mondo. Il suo nome completo, in realtà, era Ramsinkus. Era su una sedia a rotelle, ma niente affatto paraplegico. Indossava una tunica rosso porpora. Era un cardinale di Santa Romana Chiesa. Sedeva in mezzo a molti teleschermi e ad altri apparecchi elettronici, governando il mondo con la cibernetica. Si udì uno scoppio e la stanza fu inondata da repentine riverberazioni. Di fuoco. Di sangue. Incendi, esplosioni, raffiche di armi da fuoco. Le pareti della stanza si aprirono e il soffitto sprofondò. Ramsinkus fu proiettato in alto, come un pilota di un aereo in fiamme. Insieme a lui volò il monumento di Marco Aurelio e tutto il centro della piazza capitolina, sotto cui era situata la stanza centrale della catacomba di Ramsinkus. Crepitii di fuoco tutt’intorno. Grida angosciate di vittime da tutte le parti. Dopo, finalmente, il silenzio. Tutto a un tratto François si ritrovò nei campi di neve che Zé-Carranca aveva rubato dai ricordi del frate e rivide le viuzze del quartiere del negro e tutta quella gente girovagare sorridente per il mondo, mano nella mano, e salutare amichevolmente. Cominciò anche lui a parlare un po’ in latino e un po’ in tedesco e tutto era in ordine nella saletta dove si trovava. Panni, forbici, 236
aghi, cateteri, lenzuola, tavoli... Tutto pulito, ordinato, armonioso. Tutto bello e buono. Fu allora che si rese conto che era morto lui. Non seppe mai come né perché. Neppure degli altri ne seppe più nulla. Nulla più.
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Α, Β, Γ, Δ, Ε, Ζ, Η, Θ, Ι, Κ, Λ, Μ, Ν, Ξ, Ο, Π, Ρ, Σ, Τ, Υ, Φ, Χ, Ψ, Ω. α, β, γ, δ, ε, ζ, η, θ, ι, κ, λ, μ, ν, ξ, ο, π, ρ, σ, ς, τ, υ, φ, χ, ψ, ω.
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