Vittoria Comellini
VOCI E VOLTI
Scultura di Nicola Zamboni a Pietracolora di Gaggio Montano, dedicata al minatore Roberto Vitali, morto in Belgio nel disastro di Marcinelle, e agli emigrati dell’Appennino.
Foto di Marco Ruggeri
Vittoria Comellini
VOCI E VOLTI
Questo libro è stato fortemente voluto dagli iscritti all’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia
Sezione intercomunale di Loiano, Monghidoro, Monterenzio e San Benedetto Val di Sambro
A tutti coloro che, costretti a lasciare la propria terra in cerca di un altrove migliore per sĂŠ e per i propri figli, sono arrivati qua, o da qua se ne sono andati, per sempre. A tutti quelli che, con le loro voci, mi hanno fatto amare le loro storie. A mia nipote Matilde, che ama ascoltare le storie, e a tutti coloro che sanno ancora amare le storie, tutte le storie.
SI RINGRAZIANO PER IL PATROCINIO
Comune di Monghidoro
Comune di Rebecq - Belgio
Associazione Nazionale Partigiani d’Italia Comitato provinciale di Bologna
Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nella provincia di Bologna “Luciano Bergonzoni”
INDICE
7 Abbreviazioni e sigle
9 Introduzione
11 Presentazione
13 Come eravamo
25 Biografie
119 La guerra
135 Estate 1944
161 Il dopoguerra
199 Fotografie
200 Ringraziamenti
5
ABBREVIAZIONI E SIGLE Acs Archivio centrale dello stato Amg Allied military government, ovvero Amministrazione militare alleata Fu l’organo militare deputato all’amministrazione dei territori occupati dagli Alleati durante la seconda guerra mondiale. Anpi Associazione nazionale partigiani d’Italia Fu costituita a Roma nel 1944, quando ancora il Nord d’Italia era sotto l’occupazione nazifascista, dai volontari che avevano partecipato alla guerra partigiana nelle regioni del centro. Dopo la liberazione di tutto il territorio nazionale essa si estese anche al Sud, dove gli episodi di resistenza erano stati sporadici, ma dalle cui regioni provenivano molti dei partigiani che avevano fatto parte delle formazioni nel centro-nord e, all’estero, in Jugoslavia, Albania, Grecia e Francia. Il 19 aprile 2010 la Corte del Tribunale militare di Verona ha riconosciuto che l’Anpi “è storicamente l’erede di tutti quei gruppi e formazioni che dal 1942 hanno costituito centro di riferimento collettivo di grandissima parte della popolazione italiana che, animata dal medesimo sentimento di restituire in maniera definitiva al Paese libertà e democrazia, ha agito nelle più svariate forme, anche non necessariamente armate”. Armir Armata italiana in Russia L’Armir e il Corpo di Spedizione Italiano in Russia, spesso abbreviato come Csir, furono le formazioni del Regio esercito, inviate sul fronte orientale. Art. Articolo Brg Brigata Btg Battaglione Cem Cooperativa edile Monghidoro Cln Comitato di liberazione nazionale Era un’associazione di partiti e movimenti che si oppose al fascismo e all’occupazione tedesca, formatasi a Roma il 9 settembre 1943. Div Divisione Gap Gruppi d’azione patriottica Formati dal comando generale delle Brigate Garibaldi alla fine del settembre 1943. Erano piccoli nuclei di quattro o cinque uomini: un caposquadra, un vice caposquadra e due o tre gappisti. Solo i componenti di una stessa squadra dovevano essere a contatto fra loro. Gl Giustizia e libertà Era un movimento politico fondato a Parigi nel 1929 da un gruppo di esuli antifascisti, il cui capo riconosciuto era Carlo Rosselli. Riuniva persone con tendenze politiche diverse, ma con la stessa volontà di organizzare un’opposizione attiva ed efficace al fascismo.
7
Gnr Guardia nazionale repubblicana La Guardia nazionale repubblicana era un corpo militare istituito in Italia dal governo fascista repubblicano nel dicembre 1943, per sostituire i Reali Carabinieri prendendo il loro posto sul territorio della Repubblica sociale italiana. Nel corso della sua esistenza si macchiò di numerosi crimini di guerra e contro la popolazione civile. Cooperò con le forze armate naziste in molte stragi. Mvsn Milizia volontaria per la sicurezza nazionale Venne fondata con una deliberazione del Gran consiglio del fascismo nel 1923. Inizialmente pensata come milizia ad uso esclusivo del Partito nazionale fascista (rispondeva solo al Presidente del Consiglio e a lui solo era dovuto il giuramento, in contrasto con l’obbligo di giuramento al sovrano), negli anni perse la sua esclusività nei compiti e finì col mescolarsi quasi del tutto con l’esercito. Oare Officina automobilistica regio esercito Nel 1946 la denominazione cambiò in: Officina automobilistica riparazioni esercito. Ovra Organizzazione vigilanza repressione antifascismo Era un’organizzazione segreta del regime fascista che aveva il compito di reprimere ogni manifestazione antifascista. Era collegata con gli organi di stato e godeva della più assoluta autonomia e, grazie a una fitta rete di informatori, riusciva a controllare ogni settore della vita nazionale. Pci Partito comunista italiano Pnf Partito nazionale fascista Ps Pubblica sicurezza Psi Partito socialista italiano Rdl Regio decreto legge Rgt Reggimento Sap Squadre d’azione patriottica Nacquero nell’estate 1944 per allargare la partecipazione popolare alla lotta contro il fascismo. All’inizio svolsero azioni di sabotaggio fiancheggiando Gap e Brigate partigiane. Erano costituite da non più di venti uomini ciascuna. Sim Servizio informazione militare Funzionò dal 1925 al 1945. Ss abbreviazione del tedesco Schutzstaffeln (reparti di difesa) Era un’unità paramilitare d’élite del Partito nazista. Venne formata nel 1925 per essere la guardia personale di Adolf Hitler. Si macchiò, durante la guerra, di orribili crimini. Todt Organizzazione tedesca creata da Fritz Todt (Ministro degli Armamenti e degli Approvvigionamenti) Fu una grande impresa di costruzioni che operò dapprima nella Germania nazista e poi in tutti i paesi occupati dalla Wehrmacht, impiegando il lavoro coatto di oltre 1.500.000 uomini e ragazzi.
8
INTRODUZIONE Ho sempre amato farmi raccontare storie. Cresciuta in tempi in cui la tradizione orale era molto diffusa, tutto questo era facile: non c’era la televisione, ma solo la radio e c’erano persone generose, parenti e amici, che ancora amavano raccontare storie ai bambini tramandando così favole, fatti, tradizioni, cultura e soprattutto codici di comportamento.
Per quarant’anni ho insegnato alle elementari, come si chiamavano una volta. Lì di storie ne ho ascoltate tante: quelle dei bambini e dei loro genitori, quelle dei nonni che venivano a scuola per raccontarci di come si viveva quando loro erano piccoli: era così che si cominciava a scuola lo studio della Storia. Ho raccolto negli anni storie diverse di lontananze,
Là in Belgio di compagni sotto terra ne abbiamo lasciati tanti, a Marcinelle e poi un po’ dappertutto.
9
episodiche o definitive, vissute come lutti da chi partiva e da chi restava. Lontananze dovute alla mancanza di lavoro, ma spesso anche a motivi politici, negli anni del fascismo. Cercando storie di altri emigrati monghidoresi, avvenute in tempi più lontani, ho trovato nel libro di L. Arbizzani e N.S. Onofri, Gli antifascisti, i partigiani e le vittime del fascismo nel bolognese (1919 - 1945), più di 200 nomi di donne e uomini nati a Monghidoro e poi emigrati in quegli anni bui per le strade del mondo, lasciando dietro di sé una storia come partigiani o come vittime di una guerra certamente non voluta. Dietro ad ognuno di questi nomi c’erano intere famiglie, spesso imparentate tra di loro, ognuna delle quali comprendeva allora molte persone. A Roma, presso l’Archivio centrale dello stato, ho trovato ben 45 fascicoli di altrettanti monghidoresi sorvegliati speciali dalla polizia durante il fascismo perché dichiarati “sovversivi”: quasi tutti emigrarono definitivamente lontano dai loro affetti, dalla loro terra.
10
Ma le categorie non rendono l’idea delle persone che ci sono dietro ad ognuno di questi nomi e dietro ad ogni nome c’è una storia che, chiunque lo voglia può leggere, immaginare o farsi raccontare. Sono storie di un secolo ormai passato ed è soprattutto per questo che ho voluto elencare in questo libro nome per nome, una per una, le persone di cui sono venuta a conoscere le storie, prima che la polvere del tempo cancelli tutto, definitivamente. Ho cercato di dare a queste persone, quando mi è stato possibile, una voce e un volto; perché se le immagini sono un modo per fermare il tempo, le voci sono un mezzo per prolungare nel tempo la memoria di chi ci ha lasciato e della sua storia, per continuare a ricordarla. Parlare oggi alle persone e soprattutto ai giovani di eventi accaduti lontano nel tempo, comporta sempre un giudizio sul presente, un interrogarsi sul nostro avvenire e su quello dei nostri figli e nipoti: spero che questo libro serva anche a questo.
PRESENTAZIONE Quasi tutte le schede biografiche di monghidoresi riportate in questo libro - come pure quelle di alcune persone che non sono nate a Monghidoro ma che vi hanno passato lunghi periodi della loro vita - sono tratte da: L. Arbizzani e N.S. Onofri, Gli antifascisti, i partigiani e le vittime del fascismo nel bolognese (19191945), Dizionario biografico, voll. I, II, III, IV, V, VI, Appendice, Istituto per la storia di Bologna, 1985-2003. I nomi di 47 persone, schedate dalla polizia politica durante il fascismo, sono riportati in grassetto corsivo; 17 di questi nomi, in grassetto corsivo e preceduti da un asterisco *, non erano riportati nel libro citato e ne ho quindi redatto personalmente le schede biografiche, dopo aver consultato i loro fascicoli presso l’Archivio centrale dello stato (Acs) a Roma. In alcune biografie ho aggiunto ulteriori notizie ricavate dai documenti inseriti in questi fascicoli, e tutte le frasi riportate tra «» sono state copiate dagli stessi, senza alcuna modifica. Nel Casellario politico dell’Acs non si trovano tutte le schede degli antifascisti allora controllati e schedati, poiché periodicamente erano inviate al macero le pratiche di quelli deceduti, anche per cause naturali: quindi potrebbero essere stati di più i monghidoresi allora schedati. Altre notizie, foto e documenti utilizzati per la stesura di questo libro sono stati messi gentilmente a disposizione dai parenti e/o dagli amici delle persone citate.
In alcune schede biografiche ho apportato, in seguito a ricerche fatte presso l’ufficio Anagrafe del comune di Monghidoro, alcune correzioni relative a date o a inesatte trascrizioni di nomi. Di grande utilità sono stati i documenti da me consultati presso l’Archivio storico comunale di Monghidoro e il libro Monghidoro ai suoi caduti, pubblicato nel 2002 dal Comune di Monghidoro, nel quale ho trovato altri nomi di caduti e di dispersi nell’ultima guerra. Ho volutamente evitato di appesantire il testo inserendo note bibliografiche o riferimenti a date, documenti, numeri di fascicoli. Tutta la documentazione raccolta è a disposizione di chi volesse ulteriormente approfondire alcuni argomenti riportati nel libro. Poiché le voci e i volti di cui parlo in questo libro sono principalmente di persone vissute nel territorio bolognese, ho tralasciato di specificare la provincia limitatamente ai paesi che si trovano in questa zona. Ho utilizzato anche alcune parti del capitolo “Monghidoro, da paese di emigranti a paese di immigrati” redatto da me e pubblicato nel libro La montagna dopo la guerra. Continuità e rotture nell’Appennino bolognese tra Idice e Setta-Reno: 1945-2000, Bologna, Edizioni Aspasia, 2009. Tra il 2006 e il 2010, ho registrato 36 interviste ad altrettanti protagonisti della storia di Monghidoro: solo 27 di queste sono qui parzialmente riportate.
Fratelli, vi prego, siate sempre indignati. Martin Luther King
11
COME ERAVAMO Appennino, ogni cuore qui è emigrante, cerca altrove gli orgogli del progresso. Ne parlano imperterriti ed accesi, fra gli sballottamenti delle svolte, in discorsi accaniti e senza termine; puntigliosi a non volgersi più indietro a salutare nulla, non lo meritano le tue groppe umiliate, i tuoi borghi già rassegnati a non aver domani… Gaetano Arcangeli, Le poesie
Monghidoro, con le sue case arroccate sui monti dell’Appennino tosco emiliano, quasi a metà strada tra Bologna e Firenze, nei primi anni del Novecento era un paese povero di quasi seimila abitanti, rinomato soprattutto per il suo mercato settimanale che si teneva e si tiene tuttora tutti i giovedì, e per le sue fiere che richiamavano molta gente dai paesi circostanti. Vi era diffusissima la lavorazione a domicilio della paglia, per la produzione di trecce per cappelli e borse, che la ditta Bonafè, registrata come tale già dal 1911, raccoglieva per il mercato di Firenze. Vi erano molti commercianti, dediti anche al mercato ambulante e con piccoli negozi dove si vendeva di tutto, molte osterie e tre alberghi. Il territorio, caratterizzato da alti rilievi, si prestava all’allevamento e alle culture boschive, non certamente a un’agricoltura intensiva. Vi erano molti mulini, grazie all’abbondanza di torrenti e alle forti pendenze. Vi era anche una discreta presenza di cooperative di consumo e agricole: quattro nel 1920, sette nel 1929, che furono costrette tutte a cessare la loro attività negli anni del fascismo. Era un paese di forte emigrazione stagionale: nella vicina Toscana per fare i carbonai, o addirittura in Germania, Francia e Belgio con contratti anche di soli tre mesi.
13
Le donne andavano, fin da giovanissime, a servizio in città o in risaia. Una di loro è citata anche in una poesia di Eugenio Montale che la ebbe appunto come “serva”, nel periodo in cui visse a Firenze.
… un ticchettio di zoccoli (la serva zoppa di Monghidoro) finché dai cretti il ventaglio di un mitra ci ributtava,… Eugenio Montale, Satura. Botta e risposta
Nella grande guerra, quella del 1915 - 1918, Monghidoro aveva pagato il suo tributo alla follia guerrafondaia con 172 morti e molti invalidi che erano tornati alle loro case più poveri di prima.
La guerra che verrà non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti. Fra i vinti la povera gente faceva la fame. Fra i vincitori faceva la fame la povera gente egualmente. Bertold Brecht
Monghidoro, una classe elementare nei pimi anni venti.
15
Nelle elezioni politiche del 1919 a livello comunale ci fu un balzo in avanti considerevole dei voti raccolti dai socialisti, tanto che questo partito divenne partito di maggioranza. Nell’autunno del 1920, nelle elezioni amministrative, fu invece il Partito popolare a ottenere la maggioranza, come in altri sei comuni della montagna bolognese. La forte presenza di socialisti fra i monghidoresi fu mal tollerata dalla nascente reazione squadrista, che compì anche nel nostro paese atti violenti, alcuni dei quali riportati nelle biografie qui trascritte. In moltissimi documenti consultati, anche relativi a persone che non erano nate a Monghidoro e nemmeno vi risiedevano, e in molte delle testimonianze raccolte si citano arresti, episodi di violenze e di veri e propri pestaggi eseguiti dai fascisti locali o da altri venuti appositamente da fuori; alcuni di questi fatti sono riportati proprio nei verbali delle forze dell’ordine. Molti, rispetto anche ai paesi limitrofi, furono poi i sorvegliati dalla polizia fascista perché dichiarati “sovversivi”. Altri, molti altri, preferirono emigrare nei paesi limitrofi, a Bologna o addirittura all’estero.
Dopo la “Grande guerra” in Italia si verificò una profonda crisi economica, tanto da generare disordini, scioperi e manifestazioni contro il Governo. Il 23 marzo 1919 a Milano nacquero i “Fasci di combattimento”. Erano dei gruppi formati prevalentemente da reduci di guerra, interventisti convinti, esponenti della piccola borghesia, intellettuali nazionalisti. Questi gruppi di squadristi, finanziati dagli agrari e dagli industriali spaventati dalle rivendicazioni economiche di contadini e operai, erano impiegati per la sistematica demolizione delle sedi dei partiti e dei giornali socialisti, comunisti e sindacali; si caratterizzavano per le manganellate e l’utilizzo dell’olio di ricino. Nel 1921 nasce il “Partito nazionale fascista” e il 22 ottobre del 1922 Mussolini organizzò una mobilitazione di tutte le squadre fasciste, minacciando di marciare su Roma, sede del Parlamento. Il re Vittorio Emanuele III, invece di firmare il decreto di stato d’assedio per difendere la città, offrì a Mussolini l’incarico di primo ministro. Il 28 ottobre i fascisti marciarono su Roma. Era cominciata l’Era fascista.
Con trecentomila giovani armati di tutto punto, decisi a tutto […] potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato o tentato di infangare il Fascismo. Potevo fare di questa aula sorda e grigia un bivacco di manipoli… Mussolini, Discorso alla Camera, 16 novembre 1922
16
Dimissioni del consiglio comunale di Monghidoro.
17
Testimonianza di Renato Gironi Registrata a Monghidoro il 2 aprile 2008
Se mio padre nel 1944 era ancora al mondo lo fucilavano anche lui, come il suo grande amico il Barberin, che faceva il barbiere. Mio padre mi prendeva dietro, quando andava a Monghidoro: si faceva fare i capelli e poi loro due facevano una riunione, parlavano di politica. Un giorno i fascisti hanno picchiato mio padre perché lo sapevano che lui era socialista. Andava a lavorare a Quinzano e i fascisti avevano piantato una bandiera sulla strada, lui non l’ha salutata la bandiera fascista, allora sono saltati fuori in quattro o cinque e gli hanno dato una gran carica di botte… è ritornato a casa pieno di sangue, con la faccia rovinata. Io ero piccolo, ma gli ho detto: se sai il loro nome, quando sono grande, io quelli lì li ammazzo tutti. Eravamo una famiglia di sei figli, abitavamo a Stiolo. Mio babbo faceva il falegname, aveva fatto per noi dei progetti: uno farà il falegname con me e un altro farà il fabbro. Lui a 37 anni è morto. Un giorno è stato male. Il dottore è venuto e ha detto di buttare via le medicine per la tosse che era il cuore. Mio fratello è andato a Monghidoro a piedi a prenderne delle altre di medicine, ma il giorno dopo mio padre era morto. Noi siamo rimasti, due femmine e quattro maschi, soli. Mia mamma a forza di lavorare ci ha tirati su, d’estate prendeva anche la paglia e poi faceva il treccino. Abbiamo cominciato a lavorare chi a sette, chi a otto anni. Avevamo qualche pecora, una capra e via, non avevamo terra, solo un bosco e basta. C’era della gente che ci dava un po’ d’erba, vicino alle siepi, per mantenere queste pecore. Il più grande dopo è andato a Bologna da un mio zio, a lavorare da falegname. Mia sorella è andata a Firenze e poi a Prato come serva, e noi abbiamo continuato. Io ho fatto tre anni la scuola a Stiolo e sono sempre stato il primo della classe. Dopo sono andato a fare la quarta a Roncastaldo, che si andava a piedi e all’inverno era dura, neanche dieci anni avevo, e via e dopo ho smesso perché se volevamo mangiare… Sono andato da un contadino a Gorgognano, vicino a Pianoro. Sono stato due anni là, ma soltanto per mangiare, non davano nient’altro. La signora mi dice in autunno: se tua mamma non può mandarti un
18
Renato Gironi nato il 27 ottobre 1927 a Monghidoro (Bologna).
po’ di roba pesante per l’inverno, ci penserò io. Ma come faceva mia mamma a mandare della roba, che non aveva neanche i soldi per mangiare? Poi sono tornato a casa, perché avevo preso un po’ di terra, non da contadino, ma da mezzadro. Si lavorava la terra, ma le mucche le teneva il padrone e dovevamo dare la metà di tutto a lui. Si doveva sfogliare il granoturco, fare le fascine, portarle al padrone che le metteva nella capanna per le sue mucche e il suo cavallo. Sono andato a lavorare anche a Medicina. Laggiù stavo bene, perché c’era la signora vecchia che mi teneva come un figlio, proprio come un figlio. La domenica si andava a Medicina con il padrone, lui aveva il cavallo con il biroccio, prima di partire lei mi chiamava: puten puten, aveva una calzetta così lunga piena di soldi e allora me ne dava un po’ per prendere un gelato. Quando sono tornato a casa abbiamo lavorato la terra ancora come mezzadri. Il più grande dei miei fratelli è andato soldato, il secondo anche è andato soldato, ma quasi alla fine, al tempo di Badoglio. Lui poi è scappato a casa, si è fatto disertore, aveva preso dietro delle bombe a mano e tutto, ma non dormiva a casa. Lui ha dormito tre, quattro mesi nel bosco. Noi sapevamo dove portargli da mangiare. Veniva a casa un po’ la sera poi tornava via, perché c’erano i fascisti che ti denunciavano. Finita la guerra, cosa abbiamo fatto? Sono andato tre o quattro mesi a lavorare a Vado, che il ponte l’avevano bombardato e bisognava rifarlo. Allora venivano con un camion a Trasasso e caricavano tutti quelli che volevano andare. Io dei soldi non li vedevo mai. Tenevo dei conigli e si vendeva perfino la loro pelle, si faceva seccare e poi passava uno che comprava tutto. Quando guadagnavo un soldo lo davo a mia mamma. Quando è venuta fuori questa domanda per il Belgio mi sono iscritto, con Amedeo Verzelli: abbiamo fatto le fotografie, i passaporti e siamo partiti tutti insieme. Trentatré eravamo, fuori che tre o quattro che li conoscevo già, gli altri li ho conosciuti tutti qua. Il viaggio è durato due giorni, perché l’ingegnere aveva affittato un vagone, ma il treno si fermava dappertutto. A Basilea il treno si è fermato e loro, gli svizzeri, si credevano che eravamo dei rimpatriati dalla guerra e allora ci hanno dato sigarette e cioccolate, una brac-
20
ciata così, che io non fumavo nemmeno. A Chiasso, alla frontiera, c’era una signorina che ci faceva aprire i pantaloni e con un soffietto ci soffiava dentro della polvere bianca: ci hanno disinfettato!
In treno si mangiava quello che si aveva dietro. Io avevo una valigia di legno, che l’aveva fatta mio fratello Giulio, con delle cassette che prima c’erano stati dentro dei proiettili della guerra. Chi aveva una valigia? Mai vista una valigia prima. Dentro c’avevo un pezzo di pane, un pezzo di formaggio, una bottiglia d’acqua e basta, due stracci e un paio di mutande. Chi aveva della roba allora? Nessuno aveva della roba. Là in Belgio di compagni sotto terra ne abbiamo lasciati tanti, a Marcinelle e poi un po’ dappertutto.
21
Dal 1946 al 1963 furono 867 i morti italiani in Belgio per incidenti nelle miniere di carbone o nelle cave, ai quali vanno aggiunti i tanti morti, negli anni successivi, di silicosi, malattia contratta nelle miniere di carbone, che venne riconosciuta come malattia professionale solo nel 1964. A Marcinelle a causa di un errore umano, l’8 agosto del 1956, un incendio, scoppiato in uno dei pozzi della miniera di carbon fossile di Bois du Cazier, causò la morte di 262 persone di dodici diverse nazionalità: 136 erano italiani. I minatori rimasero senza via di scampo, braccati dalle fiamme e soffocati dall’ossido di carbonio. Le operazioni di salvataggio furono disperate e durarono fino al 23 agosto, quando uno dei soccorritori, uscendo dalla miniera, diede l’annuncio in italiano: “Tutti cadaveri”. Ma quella di Marcinelle non fu la sola tragedia che ebbe come vittime degli emigrati italiani. Negli Stati Uniti d’America e precisamente a Monongah, nella Virginia Occidentale, il 6 dicembre 1907, nella locale miniera di carbone si verificò una terrificante esplosione. Il boato e le vibrazioni del terreno furono avvertite a 30 chilometri di distanza. I primi a precipitarsi verso il luogo della sciagura furono i
22
parenti dei minatori e i minatori del turno di lavoro successivo. Le 171 vittime “ufficiali” italiane erano emigranti provenienti dall’Italia del Sud, che a quel tempo venivano considerati dagli americani più simili ai neri che ai bianchi. I morti in quel disastro furono quasi 500, ma una cifra esatta non fu mai stabilita perché erano moltissimi i minatori che, all’ingresso in miniera, non venivano registrati negli elenchi; fra di loro molti erano bambini. Un’altra catastrofe si era verificata, il 22 ottobre del 1913, a Dawson nel Nuovo Messico: un’esplosione disintegrò la miniera facendo vibrare il suolo sino a quasi 4 chilometri di distanza. Restarono uccisi 263 minatori e altri 2 morirono durante le operazioni di soccorso: 146 furono i minatori italiani che trovarono la morte in quella sciagura. I minatori, nonostante quell’incidente e le scarse norme di sicurezza, continuarono a lavorare in quella miniera fino a quando, l’8 febbraio 1923, un incendio devastante causò la morte di altri 123 minatori, dei quali 20 erano italiani. Molti dei morti erano figli dei minatori scomparsi nell’incidente di dieci anni prima, quindi molte vedove dovettero seppellire i propri figli accanto ai mariti nel cimitero del paese.
Domenica del Corriere, 26 agosto 1956.
23
Dopo la guerra ben 114 monghidoresi, per la maggior parte emigrati altrove, furono dichiarati partigiani, 7 furono riconosciuti benemeriti e 16 patrioti, poiché avevano partecipato alla Resistenza. Monghidoro vide la partecipazione di alcuni suoi paesani prevalentemente nella 62ª brigata e in altre formazioni combattenti e fu teatro di attività partigiane. Lo stesso segretario del Fascio repubblicano di Monghidoro comunicò, in una lettera del 24 maggio 1944, alla Federazione dei Fasci repubblicani di Bologna, che “da vari giorni, nel nostro territorio è segnalato un continuo passaggio di bande di sbandati armatissimi. Sulla strada provinciale che sale da Monterenzio a Frassineta ieri un gruppo di 26 persone è passato inquadrato. Sono stati notati N°1 fucile mitragliatore, N°5 mitra e diversi moschetti. Sul berretto di questi sbandati, una stella rossa. […] Sulla cima del Monte Alpe, nel triangolo fra le strade Nazionale della Futa, Monghidoro - San Benedetto V. S. e il torrente Savena, si sa con precisione che accampano almeno un centi-
24
naio di ribelli anch’essi molto armati. Voglio pregarVi di tenere presente la nostra zona in caso di un pò di pulizia che si ritiene molto necessaria ora che la stagione va mettendosi definitivamente al bello”. Relativamente al mese di agosto 1944, ad esempio, il “Bollettino” mensile del Comando Unico Militare Emilia Romagna del Corpo Volontari della Libertà, segnala le seguenti azioni partigiane sul territorio del comune: il giorno 2 la distruzione di un autocarro tedesco a Piamaggio, che provocò anche due morti; il giorno 3 una vasta operazione di taglio dei fili telefonici militari sempre a Piamaggio, inoltre il 16 nei pressi del capoluogo, un combattimento prolungato con un reparto tedesco, che subì numerose perdite e la distruzione di un automezzo carico di soldati, diversi dei quali morirono. Sempre in quel periodo e contemporaneamente alla strage di Marzabotto, il paese fu teatro di diversi rastrellamenti e di una vera strage di civili ad opera dei fascisti e dei tedeschi ormai in ritirata, ricordata nelle pagine di questo libro.
BIOGRAFIE Perché i morti bisogna farli parlare, farli rivivere nelle storie: e ai vivi bisogna far capire che il mestiere di vivere è cosa difficile da imparare, ma non impossibile. Salvatore Niffoi, La leggenda di Redenta Tiria
La pubblicazione di queste biografie, seppure a tanti anni di distanza, è un doveroso omaggio a chi, con coraggio e in condizioni estremamente difficili, durante il fascismo seppe mantenere fede alle proprie idee e a tutti quelli che, a causa delle manie espansionistiche di Hitler e Mussolini, morirono nelle insensate guerre da loro scatenate. Agresti Giuseppe, nato il 12 maggio 1890 a Monghidoro, da Davide e Maria Bassi. Si trasferisce a Bologna con la famiglia e da contadino diventa operaio. Iscritto al Pci, nel 1934 fu arrestato con altri 2 operai, tutti dipendenti dell’Azienda comunale del Gas di Bologna, per avere disegnato «sul fondo di un grosso secchio, in vernice nera, lo emblema comunista falce e martello, racchiuso in una corona di alloro […] e commentava in modo artificioso gli avvenimenti del giorno, criticando aspramente la politica economica e l’ordinamento corporativo e sindacale del Regime e al tempo della guerra di Spagna auspicava l’avvento dei rossi». Dopo breve detenzione venne ammonito e scarcerato. Nel 1942 nella sua pratica fu annotato che «non ha fornito alcuna prova sicura di ravvedimento. È vigilato».
In Spagna nel febbraio 1936, dopo una serie di crisi governative, le elezioni portarono al potere il governo del Fronte popolare, che raggruppava i partiti della sinistra, mentre all’opposizione restarono i partiti di destra e di centro. Nel luglio del 1936 il generale Francisco Franco guidò, dal Marocco spagnolo, un’insurrezione armata, appoggiata dall’aristocrazia e dal clero, contro il governo repubblicano; fu l’inizio non solo di un colpo di stato, ma di una guerra civile che durò tre anni e provocò 600.000 morti. Grazie agli aiuti militari, ottenuti fin dai primi giorni, dal governo fascista italiano e dal governo nazista tedesco, i rivoltosi ottennero la vittoria e Franco impose una spietata dittatura, da cui la Spagna uscì solo alla fine degli anni settanta alla sua morte. Tristemente famoso fu il bombardamento del 26 aprile 1937 della città basca di Guernica, tra i primi e più duri di quelli effettuati dalla Legione Condor (unità volontaria della tedesca Luftwaffe) con il supporto dell’Aviazione Legionaria (unità volontaria e non ufficiale dell’italiana Regia Aeronautica) che praticamente rase al suolo l’intera città. Mentre la Società delle Nazioni sanzionava il “non intervento”, che di fatto toglieva all’esercito repubblicano la possibilità di poter acquistare armi, e Francia e Inghilterra negavano il loro diretto intervento, da tutta l’Europa ma anche dall’America accorsero volontari per difendere la Repubblica spagnola, sostenuta solo dal governo sovietico che inviò aerei e carri armati. I volontari delle Brigate internazionali, provenienti da 52 paesi dei cinque continenti, furono circa 40.000 e la metà di essi morì in combattimento, fu dispersa o ferita. Secondo calcoli ufficiosi, gli italiani che militarono nelle Brigate internazionali furono poco meno di 4 mila, ed ebbero circa 600 morti e circa 2.000 feriti. Per gli antifascisti e i fuoriusciti, non solo italiani, la difesa della repubblica spagnola fu la prima vera occasione per opporsi con la forza alla dittatura e sperare di poter tornare, una volta sconfitto il fascismo, in Italia. Tre furono i monghidoresi che parteciparono a questa guerra come volontari nelle Brigate internazionali: i fratelli Lanzarini.
25
Siamo venuti in guerra perché amiamo la pace e odiamo la guerra. Il fascismo, che oggi è l’artefice delle guerre e minaccia la casa di tutti e la sicurezza di tutti, questo stesso fascismo può essere battuto in modo decisivo in Spagna e, se è battuto in Spagna, allora è battuto per sempre come forza mondiale. Lettera del volontario inglese George Green alla moglie Jessie, scritta il 21 agosto 1938. Paul Preston, Colombe di guerra
Agresti Vittorio, nato il 25 agosto 1920 a Monghidoro, da Alfonso e Maria Bolognini. Nel 1943 risulta residente a Monterenzio, dove si era trasferito con tutta la famiglia. Colono. Militò nella 36ª brg Bianconcini Garibaldi. Riconosciuto partigiano.
Qui di seguito sono riportate le biografie di tre componenti della famiglia Alpi: quella del padre Mario e dei suoi figli Carlo e Cleto, costretti tutti ad emigrare in Belgio nei primissimi anni del fascismo.
*Alpi Mario, nato il 9 agosto 1879 a Castel del Rio (Bologna), da Domenico e Teresa Montefiori. Di professione calzolaio. Sposato con Sofia Lamieri di Adolfo, nata a Monghidoro il 4 ottobre 1882. Fu costretto a emigrare in Belgio a Chatelineau nel 1922, dopo essere stato manganellato dai fascisti, per aver partecipato all’ultima celebrazione del Primo maggio a Bologna. Nel 1923 si fece raggiungere da tutta la famiglia, composta dai figli: Cleto, Carlo, Antonio, nati a Monghidoro e da Albertina, Edmondo, Domenico, nati a Pianoro. Anche all’estero furono tutti sorvegliati dalla polizia come si deduce da questa richiesta della Regia Prefettura di Bologna del 1939: «si prega di favorire informazioni sul comportamento politico della moglie e dei figli» e dai loro fascicoli personali depositati presso l’Acs.
26
Si può dire senza esagerare che la Resistenza antifascista di molti emigrati italiani stabilitisi in Belgio sia cominciata nel momento stesso dell’arrivo al potere dei fascisti in Italia. Quando Mussolini prende il potere nel 1922, dopo una vera guerra civile, molti oppositori italiani furono costretti a emigrare per ragioni politiche. In Italia la loro vita era stata ‘resa impossibile’, per usare gli stessi termini usati dal fascismo, perché di fede socialista, comunista, o avevano partecipato all’occupazione di fabbriche, o erano stati membri di una cooperativa. Dopo aver visto le loro case distrutte o incendiate, erano state esercitate pressioni affinché nessuno desse loro del lavoro. Così messi con le spalle al muro, decine di migliaia di italiani presero la via dell’esilio. Anne Morelli, La partecipation des émigrés italiens à la Résistance belge
Alpi Cleto, nato l’11 ottobre 1907 a Monghidoro. Operaio. Iscritto al Pci. Nel 1923 emigrò in Belgio, per raggiungere il padre, stabilendosi prima a Chatelet e successivamente a Chatelineau. Nei suoi confronti fu emesso un ordine di cattura, se fosse rimpatriato, su denuncia delle autorità consolari italiane perché svolgeva attività antifascista in Belgio. Entrò nella clandestinità il 1° maggio 1944 durante l’invasione tedesca, con il soprannome di Georges, organizzando gruppi di sabotaggio, aiuto ai prigionieri russi, recupero di armi e munizioni nemiche. Nel 1947 venne riconosciuto Résistant armé dal ministero della difesa belga e decorato con la medaglia alla Resistenza. Ricevette un’onorificenza anche dagli inglesi perché “elemento coraggioso e di valore. Alla testa dei suoi uomini prende parte attiva ai combattimenti per la liberazione. Per la sua abnegazione e il suo disprezzo del pericolo contribuisce al successo delle Armate britanniche nella loro offensiva in Belgio. Ha portato a termine con coraggio e abnegazione le missioni che gli sono state affidate”. In un giornale belga del 9 settembre 1944 viene riportata questa notizia: “All’indomani della memorabile giornata del 4
settembre, giorno in cui le truppe alleate entrarono a Charleroi, un gruppo di antifascisti decisero di occupare il Consolato, la Maison d’Italie e la Scuola italiana, patrimonio della nuova nazione italiana antifascista. [...] Nella mattinata del 6 settembre, un altro gruppo di italiani che, da molto tempo, combattevano per la causa della libertà, si presentò ugualmente al Consolato per prenderne possesso. Questo ultimo gruppo era composto da MM. Alpi Cleto, Badan Leandro, Nicosanti Guerrino, Pedrinelli Terzo, Ciocci Ercole [...]”. Ma nel 1950, durante gli anni della guerra fredda, Cleto venne espulso dal Belgio per il suo impegno politico. Costretto a rientrare in Italia, lasciando là i due figli, Marie Louise e Jean Charles, già cittadini belgi a tutti gli effetti, venne ospitato a Bologna dal fratello Carlo, che gli procurò anche un lavoro. Altri membri del suo gruppo ricevettero un uguale trattamento dal Belgio, assillato dalla “caccia ai comunisti”. Nel 1960, in seguito alle scuse ufficiali del governo belga, rientrò a Chatelineau, riprendendo il suo lavoro presso un’acciaieria, della quale divenne in seguito direttore. Alpi Carlo, nato il 18 ottobre 1909 a Monghidoro. Operaio meccanico. Nel 1923 emigrò in Belgio con la madre e cinque fratelli per raggiungere il padre. S’iscrisse giovanissimo al Pci e nel 1924 era segretario dei giovani antifascisti emigrati in Belgio. Nel 1927 divenne responsabile di questo settore dell’emigrazione italiana in Francia, Belgio, Lussemburgo e Svizzera e responsabile del giornale “La Riscossa della gioventù”. Nel 1930, anno in cui il console italiano in Belgio lo denunciò al governo per la sua attività politica, si recò a Mosca, in Unione Sovietica, per sei mesi per seguire un corso politico. Nell’aprile del 1931 il partito lo inviò in Italia con documenti falsi per organizzare una rete politica in Emilia Romagna, in tasca aveva anche una tessera del Pnf e il distintivo fascista all’occhiello della giacca. Il suo compito era quello di riorganizzare localmente il partito in modo da riprendere i contatti con le masse. Dopo un paio di mesi espatriò clandestinamente, ma rientrò ancora in Italia, sempre con documenti falsi. Fu arrestato a Parma, con altri 24 militanti antifascisti e deferito al Tribunale speciale con l’accusa di «ricostruzione del Pci e propaganda sovversiva». Rinviato a giudizio nel 1932, fu condannato a 20 anni, di cui 12
28
effettivamente scontati nel carcere di Civitavecchia e in seguito al confino a Ponza. Il Tribunale speciale per la sicurezza dello Stato, che fu istituito con la legge n. 2008, Provvedimenti per la difesa dello Stato, aveva il compito di giudicare i reati contro la sicurezza dello stato e del regime fascista, quando già tutti i partiti erano stati sciolti e dichiarati fuorilegge. Durante il regime fascista il Tribunale speciale ebbe il potere di diffidare, ammonire e condannare gli imputati politici ritenuti pericolosi per l’ordine pubblico e la sicurezza del regime stesso. Con la stessa legge venne reintrodotta la pena di morte per alcuni reati a carattere politico. Il Tribunale speciale operava secondo le norme del Codice penale per l’esercito sulla procedura penale in tempo di guerra. Il collegio giudicante non era costituito da magistrati, ma da ufficiali della milizia fascista, i quali si esibivano in divisa e in camicia nera. Contro le sue sentenze non era possibile alcun ricorso. Venne sciolto dopo il 25 luglio 1943, a seguito della caduta del regime fascista. Nel dicembre dello stesso anno, nella Repubblica sociale italiana, venne ricostituito un tribunale omonimo, che rimase operativo fino al 1945. Dal 1927 al 1943 il Tribunale speciale fascista emise 5.619 sentenze a imputati di reati politici contro il regime fascista, comminando in totale condanne per 27.735 anni di carcere; le condanne a morte decise dal tribunale di Mussolini furono 42, delle quali 31 furono quelle effettivamente eseguite, 3 gli ergastoli. I monghidoresi giudicati e condannati dal Tribunale speciale furono sicuramente tre. Il regime fascista, che una certa pubblicistica ha sempre cercato di dipingere come tollerante e benevolo, non esitò a mostrare il proprio volto più feroce contro uomini e donne colpevoli soltanto di conservare e manifestare le proprie idee.
Durante la detenzione venne seviziato e riportò un danno permanente al cervello, per cui dovette subire, negli anni, più di un intervento. In Belgio nel 1934 venne aperta una sottoscrizione a suo nome nei “Patronati pro vittime politiche” e probabilmente «il frutto delle cennate sottoscrizioni sarà destinato ad essere inviato in Italia, e forse anche ai congiunti dell’Alpi». Sempre in quell’anno chiese di essere confinato a Firenzuola presso uno zio, ma la risposta fu negativa poiché «la località Traversa è compresa nella zona delle grandi manovre indette per il prossimo mese di agosto. In dipendenza di quanto sopra, e dato il grado di pericolosità dell’Alpi si esprime parere contrario».
1934 - Carlo Alpi, al confino nell’isola di Ponza.
Il confino di polizia era un provvedimento che costringeva ad abitare, per un determinato periodo di tempo, in un luogo diverso dal comune di residenza. L’istituto del “confino di polizia”, che sino alle leggi eccezionali del 1926 si chiamò “domicilio coatto”, si perde nella notte dei tempi. Vi fecero ricorso gli imperatori romani e in epoca più recente, sia nel regno dei Borboni sia in quello dei Savoia, i malfattori, non importa se comuni o politici, furono costretti a risiedere in zone isolate del paese, con provvedimenti amministrativi presi a scopo preventivo. Dopo l’unificazione nazionale, l’istituto del confino fu usato per colpire il brigantaggio. Caduto in disuso, dopo i falliti tentativi reazionari alla fine dell’Ottocento, il domicilio coatto fece la ricomparsa negli anni della guerra 1915-1918. Numerosi dirigenti dei partiti neutralisti, quasi tutti socialisti e anarchici, furono internati in piccoli paesi del meridione sino alla fine del conflitto. Nel novembre del 1926 il regime fascista varò una nuova legge di pubblica sicurezza che regolamentava la materia: potevano essere assegnati al confino, da uno a cinque anni, “coloro che hanno commesso o manifestato il deliberato proposito di commettere atti diretti a sovvertire violentemente gli ordinamenti nazionali, sociali o economici costituiti nello Stato o menomarne la sicurezza, ovvero contrastare od ostacolare l’azione dei poteri dello Stato, per modo di recare comunque nocumento agli interessi nazionali in relazione alla situazione, interna e internazionale dello Stato”. L’assegnazione al confino era un provvedimento amministrativo accessorio o complementare della pena erogata dalla magistratura ordinaria o dal Tribunale speciale. Gli antifascisti, che venivano assolti dal Tribunale speciale, quasi sempre erano poi assegnati al confino. Ma al confino vi si poteva finire anche per il semplice sospetto di antifascismo e la decisione era assunta da una commissione provinciale. Le misure che, per grado e severità, precedevano il confino erano l’ammonizione e la diffida. Le sedi del confino erano le isole e i comuni disagiati del Sud. Al confino furono mandati i più importanti rappresentanti della futura classe dirigente italiana: da Pavese a Gramsci, da Parri a Di Vittorio, da Spinelli a Pertini. Gli inviati al confino furono oltre 15.000. Ben 177 furono gli antifascisti che morirono durante il loro soggiorno coatto, in seguito a malattie o a maltrattamenti subiti.
Nel 1935 Alpi fu condannato ad ulteriori 10 mesi di reclusione per aver partecipato a una manifestazione di protesta contro il duro trattamento carcerario. Ruppe con il Pci nel 1936, sottoscrivendo un documento di dissenso contro il materialismo storico e l’economia marxista, redatto da Altiero Spinelli. Ancora nel febbraio del 1937 sul giornale “Il Grido del Popolo” uscì un altro appello “affinché tutti i lavoratori intensifichino
30
la loro azione in favore del nostro compagno e di tutte le vittime del fascismo”. Nel faldone, consultato presso l’Acs, pieno di carte che lo riguardano ci sono appunti curiosi sulle sue letture durante il periodo di detenzione. I confinati dovevano infatti chiedere il permesso per leggere qualsiasi libro e, nonostante fosse definito «di scarsa cultura […] e di limitata educazione», chiede in continuazione il permesso di leggere o acquistare libri, che poi risultano passati a personaggi come Ernesto Rossi, Lucio Lombardo Radice, con i quali condivideva studi e passione politica. Gli venne negato il permesso di leggere Piccolo campo di Caldwell perché, come annota la polizia carceraria «non risponde ai nostri principi morali», così anche per Il placido Don di Solochov, o per La formazione della filosofia di Croce e per tanti altri libri. Nel 1938 venne ancora condannato a un mese di detenzione per aver proprio «detenuto un libro di carattere sovversivo». Uscito dal carcere il 20 agosto 1943, dopo la caduta del fascismo e con il governo Badoglio, incontra a Roma Nenni, Pertini e tanti altri noti antifascisti. Prese parte alla lotta di Liberazione, sull’Appennino tosco emiliano, con la funzione di ufficiale di collegamento. Il 14 ottobre 1944 l’Amg, su designazione del Cln, lo nominò sindaco di Monghidoro. Il 5 gennaio 1945 convocò presso il Municipio di Monghidoro una riunione di tutti i Cln e dei sindaci dei comuni vicini già liberati, per discutere e concordare linee d’intervento sui tanti problemi che come amministratori si dovevano affrontare ogni giorno. Ma il Governatore di Monghidoro, tenente Carlson, venuto a conoscenza dell’iniziativa, fece circondare il Municipio dalla Polizia militare alleata. Alcuni dei convenuti scapparono buttandosi da una finestra sul retro dell’edificio mentre gli altri furono portati a Pietramala per essere ammoniti, poiché le riunioni politiche erano proibite nelle retrovie del fronte. Forse fu anche in seguito a quest’episodio che abbandonò la carica di sindaco il 13 febbraio 1945, ufficialmente per contrasti con l’Amg. Rimase politicamente autonomo per tutta la durata della Resistenza, aderendo solo nel 1945 al Partito d’Azione e in seguito al Psi. Riconosciuto partigiano, con il grado di maggiore. Questa è la sua dichiarazione nel Consiglio comunale, il giorno delle sue dimissioni:
“Dopo oltre quattro mesi di lavoro svolto in fattiva collaborazione di partiti, di uomini, lasciamo il Comune di Monghidoro, che abbiamo diretto con vera passione in un momento particolarmente grave della sua vita […] la nostra decisione è stata motivata da fatti di natura strettamente politica, per non mostrare al popolo che si aderiva ad una misura di polizia a carattere reazionario presa dagli alleati, contraria ai nostri principi politici e altresì da motivi di solidarietà nei confronti di un compagno di battaglia, che è stato al nostro fianco nei momenti più difficili e nei pochi lieti e che neppure ora possiamo abbandonare”. Nel libro Storia dell’antifascismo italiano - Testimonianze, a cura di L. Arbizzani e A. Caltabiano, scrisse: “Consideravamo anche il carcere una condizione diversa, ma pur sempre utile alla continuazione della nostra battaglia. Quando eravamo deferiti al Tribunale speciale, posso francamente asserirlo, lo affrontavamo animati da grande serenità perché giudicavamo che […] il carcere non era poi una trincea minore a confronto di altre nel settore della lotta antifascista. Infatti il carcere ed il confino di polizia sono stati anche in quegli anni e fino alla caduta del fascismo ottime scuole, sia pur pagate a caro prezzo per gli spietati regolamenti interni vigenti nei luoghi di cattività per gli antifascisti; una scuola nella più ampia accezione del termine: ove si è imparato e si è insegnato, dalla quale sono usciti uomini addestrati e temprati”. Voglio qui ricordare che la prima biblioteca comunale a Monghidoro fu istituita proprio da lui il 3 febbraio 1945. A pochi chilometri c’era ancora la guerra, con tutti i suoi lutti, devastazioni e violenze. Tra le carte polverose dell’archivio vi sono testimonianze drammatiche di come si vivesse a Monghidoro in quei giorni: gran parte delle abitazioni distrutte, acquedotti inutilizzabili, illuminazione, dove esisteva, azzerata, poche anche le risorse alimentari. A tutto ciò si aggiungeva la disperazione di tante famiglie per i lutti o per la mancanza
di notizie di figli, fratelli, mariti. Ebbene in mezzo a tutto questo, a pochi mesi dalla riconquistata libertà, a Monghidoro venne istituita una biblioteca “dedicata al noto martire politico Calzolari Enrico”, fucilato dai nazifascisti l’8 agosto del 1944. Venne costituito anche un dopolavoro “durante il quale persona incaricata all’uopo darà lettura ad alta voce di libri istruttivi che verranno poi commentati e discussi coi soci presenti”. Inoltre si legge che sia il bibliotecario Vittorio Conti, sia l’addetta alla biblioteca Luciana Calzolari, prestavano “la loro opera gratuitamente” mentre la biblioteca disponeva di ben “lire 40 […] per arricchirla di nuovi libri, e non solo frivoli, ma anche istruttivi che contribuiscano ad elevare la mentalità del popolo ed a istruirlo su problemi vitali”. In questa biografia sono citate le Grandi manovre, che si tennero nell’agosto del 1934 sui crinali del nostro Appennino. Per più di un mese gli abitanti di numerosi borghi vennero allontanati dalle loro case, dai loro campi, dai lavori tradizionali, perché lì si sparava, si provavano tattiche e scontri bellici. Ancora oggi c’è chi ricorda con sgomento quel periodo. Altri invece lo ricordano come un momento di celebrità per i paesi della nostra zona. Infatti passarono di qua Mussolini, il re Vittorio Emanuele III, Ciano, tanti generali e centinaia e centinaia di poveri militari. In quei giorni di prove generali, per guerre spaventose e per le future conquiste in Africa, un incauto aviatore precipitò con il suo aereo, mentre sperimentava voli a bassa quota. Voli che certamente servirono successivamente in Africa per lanciare il famigerato gas nervino, bruciare con i lanciafiamme interi villaggi, naturalmente con dentro gli ignari selvaggi, le “faccette nere” a cui noi portavamo la nostra “civiltà”. Per ricordare la morte di quell’aviatore, “inciampato” con il suo aereo nella corda di un pallone aerostatico, durante il fascismo fu eretto nella località Tre Poggioli un monumento con tanto di frase lapidaria dettata dallo stesso duce. Questo monumento, che andò distrutto forse per incuria dopo la guerra, fu ricostruito nel 2005 per volontà degli amministratori di Monghidoro, nel medesimo luogo e con la medesima frase.
31
Testimonianza di Paola Comellini Registrata a Castenaso il 20 gennaio 2010
Anche mio padre Edmondo, classe 1912, partecipò a quelle manovre come operatore cinematografico dell’esercito. Anzi ci raccontava che fu proprio lui a montare l’impianto voce che Mussolini utilizzò per il famoso discorso sul carro armato, con il quale preannunciava la conquista di nuove colonie in Africa. In una sera di quell’agosto del 1934 mio padre era lì, nella piazzetta degli Olivetani, a proiettare un film di propaganda fascista per i cittadini di Monghidoro. Si trovò accanto una bella ragazza e subito nacque un grande amore. Tornato a Roma loro si scrissero, poi, saputa della destinazione del suo contingente per l’Africa, in occasione di una licenza tornò a Bologna per salutare i suoi genitori e a Monghidoro per chiedere a Maria di aspettarlo. Partì per l’Africa il 7 settembre 1935. I miei genitori si scrissero per due, lunghissimi anni. Fu congedato nel 1937 e allora dovette cercare le armi che aveva in dotazione: non aveva mai sparato un colpo e non si ricordava nemmeno dove le aveva messe!
Maria Rosa Comellini, detta Paola nata il 12 dicembre 1940 all’Asmara (Eritrea).
32
33
All’Asmara, dove si trovava, si stava formando una numerosa colonia di italiani e lui come cine operatore aveva un buon lavoro, in una lettera chiese allora a Maria di sposarlo e di raggiungerlo. La foto del matrimonio di mia madre, celebrato il 23 gennaio 1938 a Monghidoro, non è una foto rituale, infatti lo sposo non c’è. Il matrimonio di mia madre fu il primo nel comune di Monghidoro ad essere celebrato per procura.
Lui, con il suo camioncino tutto attrezzato, doveva solo proiettare i film di propaganda alle truppe.
34
La foto del matrimonio di mia madre…
… e poi Maria, che non aveva mai visto il mare, partì per l’Africa.
35
La guerra in Etiopia, iniziata il 2 ottobre 1935, si concluse il 9 maggio del 1936, quando Mussolini annunciò la “riapparizione dell’Impero sui colli fatali di Roma”. L’Abissinia andava ad aggiungersi alla Libia e alle altre due colonie del Corno d’Africa: Eritrea e Somalia. Nasceva così l’Africa orientale italiana, amministrata da un governatore con il titolo di viceré. Questa colonia, povera di materie prime, avrebbe dovuto offrire ai contadini italiani uno sbocco alternativo alle Americhe, dove erano già approdati oltre 9 milioni di nostri emigrati. Questa guerra fu vinta rapidamente utilizzando anche metodi spietati come i gas, il cui uso era stato proibito a Ginevra fin dal 1925. Vi sono a questo proposito precise direttive di Mussolini stesso, impartite al generale Graziani con alcuni telegrammi di questo tenore: “Sta bene per azione giorno 29. Autorizzo impiego gas come ultima ratio per sopraffare resistenza nemico e in caso di contrattacco [27 ottobre 1935]”. “Autorizzo vostra eccellenza all’impiego, anche su vasta scala, di qualunque gas e dei lanciafiamme [28 dicembre 1935]”.
Alvisi Umberto, nato il 2 novembre 1900 a Monghidoro, da Augusto e Maria Fortunata Marchetti. Operaio all’Azienda comunale del Gas era iscritto al Psi. Per la sua attività politica venne schedato fin dal 1920 e classificato comunista poiché faceva «propaganda nell’interesse del partito giovanile comunista. Frequenta la compagnia dei sovversivi più in vista». Nel 1921, arruolato in fanteria, fu trasferito in Eritrea, da dove il governatore dell’Eritrea inviò regolari rapporti sul suo comportamento. Una volta congedato ritornò a Bologna, si sposò ed ebbe due figli. Fu controllato sino al 1940, quando venne radiato dall’elenco degli schedati e incluso in quello dei sovversivi e nella sua pratica fu annotato che «non ha dato fino ad oggi prove di ravvedimento. Viene sorvegliato». Durante la lotta di Liberazione fece parte del gruppo di resistenza all’interno dell’Azienda comunale del Gas. Bacci Primo, nato il 22 luglio 1924 a Monghidoro, da Gregorio e Ernesta Barbieri. Nel 1943 risulta residente a Pianoro. Colono. Partecipò alla Resistenza e venne riconosciuto benemerito. Baccianti Giacomo, nato il 25 luglio 1879 a Monghidoro, da Francesco e Romana Landini. Nel 1943 risulta residente a Monterenzio. Colono. Militò nella 66ª brg Jacchia Garibaldi e operò a Ca’ del Vento (Monterenzio). Riconosciuto partigiano.
36
Questa pagina, del diario del volontario della Milizia Antonio B., combattente in Eritrea, testimonia l’uso dei gas.
37
I figli di Paolo Baldini e Adalcisa Zaira Nannetti: Francesco e Nino.
Baldini Francesco, nato il 9 agosto 1912 a Monghidoro. Nel 1943 era residente a Monterenzio. Colono. Militò nella 36ª brg Bianconcini Garibaldi e operò sull’Appennino tosco emiliano. Riconosciuto partigiano. Baldini Nino, nato il 10 agosto 1910 a Monghidoro. Nel 1943 era residente a Monterenzio. Bracciante. Militò nella 36ª brg Bianconcini Garibaldi e operò sull’Appennino tosco emiliano. Riconosciuto partigiano. *Barbi Vincenzo, nato il 17 agosto 1898 a Monghidoro, da Giacomo e Maria Bruzzi. Emigrò nel 1929 a Trieux in Francia, dove morì nel 1942 a soli 44 anni. In una lettera della Regia Prefettura di Bologna al ministero degli Interni del 1930 si legge che «durante la permanenza in Patria militava nel partito comunista e partecipava assiduamente a tutte le manifestazioni sovversive che si svolgevano durante il periodo rosso. […] venne condannato nel 1921 a 8 mesi di reclusone per oltraggio alla Forza Pubblica e grida sediziose». Mentre in un’altra lettera del 1934 si segnala che «il 23 settembre 1934, giunse a Monghidoro alle ore 22 ripartendone dopo un’ora, dopo aver fugacemente salutato il padre, e la sorella Ersilia residenti in località Pian dei Grilli. […] ha fatto presente al padre che, essendo stato oggetto di severissimo controllo alla frontiera, aveva avuto la sensazione di essere ricercato e che non sentendosi perciò sicuro nel Regno, ripartiva immediatamente per la Francia». Alle 19.45 dell’8 settembre 1943, la radio italiana diffuse questo messaggio del maresciallo Badoglio: “Il governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”. Ecco perché questa data è riportata molto spesso nelle biografie che seguono. Fu una data che segnò, in quell’anno, uno spartiacque tra coloro che rimasero fedeli al fascismo e coloro che scelsero, per la
38
propria patria, un riscatto definitivo da un regime diventato ormai per molti inaccettabile. Moltissimi furono i soldati che quel giorno e nei successivi, abbandonarono le armi e in abiti civili ritornarono alle loro case o si unirono a gruppi di partigiani. Purtroppo l’annuncio dell’armistizio tra l’Italia e gli angloamericani non colse impreparati i comandi tedeschi, che da tempo avevano messo a punto le strategie utili a far fronte a una simile eventualità o, comunque, a ulteriori sbarchi degli Alleati sulle coste italiane. Già la sera dell’8 settembre i tedeschi passarono all’azione contro lo sbandato esercito italiano, lasciato senza ordini dai suoi superiori. Il paese rimase così abbandonato in balia delle numerose truppe naziste che il 9 settembre varcarono il Brennero. Lo stesso giorno gli antifascisti costituirono il Comitato di liberazione nazionale, chiamando il popolo “alla lotta e alla resistenza”. Per l’esercito italiano l’annuncio dell’armistizio fu uno sfacelo: furono circa 40.000 i soldati morti e dispersi, 716.000 i soldati italiani deportati in Germania, Austria e Polonia e classificati “internati”. Nella dissoluzione generale, in mancanza di ordini precisi, si verificarono tuttavia alcuni coraggiosi quanto inutili tentativi di opporsi all’aggressione tedesca, ma i focolai di resistenza furono spenti con spietata ferocia da tedeschi e fascisti, come si evince da questo dispaccio del Comando germanico del 21 settembre 1943, intercettato e decifrato dal servizio segreto britannico: “Il seguente si applica per il comportamento verso i prigionieri italiani che hanno combattuto contro di noi: Impedimenti sentimentali di ogni tipo da parte dei soldati tedeschi verso i guerriglieri fedeli a Badoglio con l’uniforme dei nostri ex camerati d’arme, sono totalmente fuori luogo. Ognuno di questi uomini che combatte contro i soldati tedeschi, ha sacrificato ogni diritto alla pietà e deve essere trattato con la severità che la merita la feccia che rivolta le armi contro i suoi amici. Mi aspetto che questo atteggiamento sia generalizzato senza ritardo presso tutti gli appartenenti delle Forze Armate Germaniche nell’area Sud Est e che tutti si comportino coerentemente”.
I figli di Vincenzo Barnabà ed Ersilia Scala: Giorgio, Rinaldo e Roberto.
Barnabà Rinaldo, nato il 31 maggio 1911 a Monghidoro. Soprannominato Gianni. Nel 1943 risulta residente a Bologna, dove lavora come commesso. Prestò servizio militare in fanteria a Zara (Jugoslavia) dal 1940 fino all’8 settembre 1943. Militò nel 2° btg della brg Stella rossa Lupo ed operò a Vergato. Nel corso dell’eccidio di Marzabotto furono uccisi: la moglie Rosa Moruzzi di 33 anni, i figli Gino di 8
anni, Carlo di 5 anni ed Elisa di un anno. Riconosciuto partigiano come il fratello Giorgio, nato il 30 gennaio 1905 a Bologna e qui residente nel 1943. Tecnico e direttore aziendale alla Barbieri e Burzi, nel 1943 aderì al Pci e dopo l’8 settembre ’43 prese parte ad azioni tese al recupero di armi e munizioni; s’impegnò altresì nella preparazione di documenti falsi per i partigiani. Militò nella lª brg Irma Bandiera Garibaldi. Barnabà Roberto, nato il 2 novembre 1913 a Monghidoro. Nel 1943 era residente a Monzuno. Colono. Prestò servizio militare in fanteria a Bologna. Militò nel 4° btg della brg Stella rossa Lupo ed operò a Cerpiano (Monzuno). Nell’eccidio di Marzabotto morirono la cognata Rosa Moruzzi e tre nipoti. Riconosciuto partigiano. *Benassi Cesare Silvio, nato il 14 febbraio 1855 a Monghidoro, da Raffaele e Stella Monti. Lasciò il paese per trasferirsi a Milano. Nel suo fascicolo, tutto scritto a mano, viene classificato come anarchico, in realtà doveva trattarsi di un semplice barbone che viveva chiedendo l’elemosina. Venne arrestato più volte per trasgressione alla vigilanza della Pubblica Sicurezza. Dalla Regia Prefettura di Bologna si comunica al ministero dell’Interno nel 1930 che «egli ha condotto sempre vita nomade e randagia e negli ultimi tempi, stante la sua tarda età ed essendo quasi cieco, viveva chiedendo l’elemosina. Pregiomi proporlo per la radiazione dal novero dei sovversivi». Le nomine dei prefetti, durante il periodo del fascismo, avvenivano da parte del ministero degli Interni su segnalazioni di nominativi da parte dei Fasci locali e successivamente firmate dal re. Dopo il 1945 su 137 prefetti ancora in carica a livello nazionale, solo 5 avevano partecipato alla Resistenza, mentre 125 erano gli stessi in carica durante il fascismo. Nel 1960 erano ancora in carica 62 prefetti nominati durante il regime fascista.
Benassi Gino, nato il 3 gennaio 1921 a Monghidoro, da Sisto e Cesarina Festanti. Nel 1943 era residente a Monzuno. Colono. Prestò servizio militare in fanteria dal 1941 fino al 9 ottobre 1943, poi militò nella brg Stella rossa Lupo ed operò a Monte Sole. Riconosciuto partigiano. Benni Primo, nato il 30 marzo 1914 a Monghidoro, da Augusto e Maria Ronchi. Nel 1943 residente a
Pianoro. Operaio. Fu attivo nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi. Riconosciuto patriota. Berti Agostina, detta Tina, nata il 9 novembre 1910 a Monghidoro, da Alfredo e Domenica Camaggi. Nel 1943 era residente a Bologna e lavorava come infermiera all’Istituto Rizzoli. Il suo appartamento in via San Donato fu a disposizione dei perseguitati politici e dei feriti partigiani della 7ª brg Gap Gianni Garibaldi, dei quali si prese cura, correndo grandi rischi. Militò nella 5ª brg Bonvicini Matteotti. Riconosciuta partigiana. Bonafè Augusto, nato il 16 dicembre 1888 a Monghidoro, da Lodovico e Amalia Nannoni. Operaio. Classificato antifascista, era iscritto al Partito popolare. Nel 1929 fu arrestato con Luigi Cassani e Guido Gentilini perché sorpresi a cantare l’Internazionale in un’osteria di Bologna. Un milite della Milizia, presente nel locale, intervenne per farli tacere. Ne nacque un alterco, i tre furono arrestati e incarcerati. Dopo breve detenzione furono scarcerati senza processo. Nel 1930 venne nuovamente arrestato con l’accusa di avere picchiato un milite della Mvsn. Fu prosciolto in istruttoria e scarcerato, ma ammonito e sottoposto a vigilanza. L’ammonizione era regolata dall’art. 164 del Rdl del 6 novembre 1926 e prevedeva i seguenti obblighi: 1. di fissare stabilmente la propria dimora entro 10 giorni e di farla conoscere nello stesso termine all’Autorità locale di Ps; 2. di non allontanarsi dalla propria dimora senza preventivo avviso all’Autorità di Ps e senza la esplicita autorizzazione; 3. di non frequentare persone pregiudicate o politicamente sospette; 4. di non partecipare a riunioni pubbliche o politicamente sospette; 5. di non trattenersi abitualmente nelle osterie, bettole o in case di prostituzione; 6. di non dar ragioni a sospetti di qualsiasi genere; 7. di non svolgere qualsiasi attività che possa contrastare colle direttive politiche, economiche, sociali del Regime; 8. di non portare né detenere armi; 9. di non ritirarsi la sera più tardi dell’Avemaria, né uscire al mattino più presto dell’alba, salvo comprovate necessità professionali da valutarsi di volta in volta dall’Autorità di Ps locale che per delega accordatale dalla Commissione potrà rilasciare i relativi permessi;
39
1 0. di non far parte di Associazioni o partiti che osteggiano il Regime; 11. di presentarsi all’Autorità di Ps ad ogni chiamata di essa. In totale i monghidoresi ammoniti furono più di una decina.
Borelli Dino, nato il 4 settembre 1910 a Firenzuola (Firenze), da Alberto Aldo e Beatrice Borelli. Nel 1943 era residente a Monghidoro. Militò nella 7ª brg Gap Gianni Garibaldi. Riconosciuto partigiano. Boschi Guido, nato il 13 febbraio 1911 a Monghidoro, da Giuseppe e Caterina Neretti. Nel 1943 era residente a Imola, dove lavorava come bracciante. Membro dell’organizzazione comunista imolese scoperta nel 1930. In quell’occasione 89 furono gli arrestati. Accusato con i compagni di associazione e propaganda sovversiva e detenzione di armi, con sentenza del 1931 fu rinviato al Tribunale speciale che lo condannò a 2 mesi e 15 giorni di carcere in quanto «apparteneva all’associazione giovanile comunista di Osteriola, prendendo parte a tutte le riunioni e manifestazioni del partito e svolgendo attiva propaganda a favore del partito stesso». In un altro appunto si legge che «riceve dalla Francia il libello comunista l’Unità da tale Tosi Andrea» anche lui comunista e perseguitato, che partecipò alla guerra di Spagna a difesa della repubblica contro i rivoltosi capeggiati dal generale Francisco Franco e in seguito alla Resistenza francese. Mentre Guido prestò servizio militare in fanteria in Africa Orientale dal 10 aprile 1935 fino al 1937. Militò nel btg Pianura della brg Sap Imola. Riconosciuto partigiano.
Guido Boschi in Africa.
40
Cesare Boschi nato il 14 febbraio 1921 a Monghidoro (Bologna) e morto a Gospie in Croazia il 24 gennaio 1942.
Paolo Boschi a Rebecq (Belgio).
41
Testimonianza di Maria Boschi Registrata a Bologna il 26 aprile 2010
La nostra famiglia era numerosa: otto fratelli e quattro sorelle. Ne abbiamo passate tante, durante e dopo la guerra. Ma in quel periodo lì a tutti sono toccate delle gran disgrazie. Mio fratello Guido prima a far la guerra in Africa, dopo arrestato e torturato, perché non voleva dire i nomi dei suoi compagni; poi mio fratello Cesare, che abitava alla Casalina, morto nel 1942 in Croazia. Un altro fratello Dante, che abitava a Ca’ dei Grassi, fu ucciso nel marzo del 1945, si pensò allora, da un soldato italo-americano per motivi di gelosia. Mia madre, finita la guerra, non volle che gli fosse fatta l’autopsia per chiarire le cause della morte, dicendo: lasciamolo riposare in pace, tanto nessuno me lo può restituire. Non volle nemmeno che le ossa di Cesare, rimpatriate a Bari, dopo molti anni, fossero portate a Monghidoro: mio figlio non c’è più e chissà quelle ossa di chi sono, diceva. Finita la guerra, avevamo una gran miseria e allora nel 1946 mio fratello Paolo andò in Belgio con altri monghidoresi a lavorare in una cava. A Milano dove il treno si fermò per una notte, decise di andarsi a fare una passeggiata con un amico, per sgranchirsi le gambe. Si persero per la città e raggiunsero i compagni in Belgio dopo diversi giorni. C’è anche scritto nel libro che hanno fatto là in Belgio, dove è morto nel 2006. Nessuno di noi è potuto andare al suo funerale, nessuno di noi l’ha potuto salutare per l’ultima volta.
Maria Boschi nata il 19 gennaio 1928 a Monghidoro (Bologna).
42
Boschi Serafino, nato il 25 dicembre 1917 a Monghidoro, da Ernesto ed Emilia Salomoni; ivi residente nel 1943. Autista. Prese parte ai combattimenti contro i tedeschi a Cefalonia (Grecia) e per questo fu riconosciuto partigiano. Dopo l’8 settembre 1943, data in cui fu reso pubblico l’armistizio firmato da Badoglio con gli angloamericani, fu compiuta da reparti dell’esercito tedesco una strage ai danni dei soldati italiani della Divisione Acqui che, forte di 525 ufficiali e 11.500 soldati, presidiava l’isola greca di Cefalonia e quella di Corfù. La guarnigione italiana subì pesanti perdite in combattimento, nonché massacri e rappresaglie e, nonostante la resa incondizionata, il Comando superiore tedesco ribadì che “a Cefalonia, a causa del tradimento della guarnigione, non devono essere fatti prigionieri di nazionalità italiana, il generale Gandin e i suoi ufficiali responsabili devono essere immediatamente passati per le armi secondo gli ordini del Führer”. Fu uno dei maggiori crimini di guerra commessi dalla Wehrmacht: migliaia i soldati e gli ufficiali massacrati; i superstiti, destinati ai lager tedeschi, furono caricati su tre piroscafi che scomparvero in mare, con il loro carico umano, affondati dalle mine. Alcuni dei superstiti dell’eccidio si rifugiarono nelle asperità dell’isola e continuarono la resistenza nel ricordo dei compagni trucidati e si costituirono nel raggruppamento Banditi della Acqui, che fino all’abbandono dei tedeschi di Cefalonia, si mantennero in contatto con i partigiani greci e con la missione inglese, operando azioni di sabotaggio e fornendo preziose informazioni agli Alleati angloamericani.
Bruzzi Cesare, nato il 26 febbraio 1926 a Monghidoro, da Ernesto e Giacinta Vaioli. Nel 1943 residente a Monzuno. Colono. Riconosciuto benemerito. Bruzzi Mario, nato il 21 marzo 1924 a Monghidoro, da Alfonso e Maria Ferretti. Nel 1943 era residente a Monterenzio, dove era mezzadro. Militò nella 36ª brg Bianconcini Garibaldi e nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi e operò a Monterenzio. Riconosciuto partigiano.
I figli di Domenico Calzolari e Maria Teresa Burzi: Antonio, Ernesta e Giuseppe.
Calzolari Antonio, nato l’11 dicembre 1897 a Monghidoro. Colono si trasferì con la famiglia a Pianoro. Fu attivo nella brg Stella rossa Lupo e fu riconosciuto patriota.
44
Calzolari Ernesta, nata il 12 aprile 1907 a Monghidoro. Nel 1943 residente a Pianoro. Casalinga. Militò nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi. Fu ferita al braccio destro, riconosciuta partigiana. Calzolari Giuseppe, nato il 27 aprile 1912 a Monghidoro. Nel 1943 residente a Pianoro. Colono. Prestò servizio militare nel 1932 in artiglieria. Militò nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi a Monterenzio e fu quindi riconosciuto partigiano.
Calzolari Camillo, nato il 18 aprile 1883 a Monghidoro, da Vincenzo e Chiarina Paganelli. Nel 1924, quando emigrò per lavoro in Belgio, venne classificato come operaio comunista. Rimpatriato nel 1934, subì controlli e fu spesso interrogato dai carabinieri di Monghidoro. Nel verbale dell’interrogatorio, inserito nella sua pratica, è allegato un documento su carta non intestata, nel quale si comunica che «l’8 e il 9 giugno 1931 ho accompagnato la gendarmeria di Quenast nella visita di locande e soprattutto di cantine italiane. Abbiamo scoperto l’esistenza d’una cellula comunista italiana in seno alla quale un buon numero di sudditi italiani fanno mostra d’una grandissima attività politica. Le riunioni hanno luogo nella cantina dei fratelli Maccaferri di cui sopra. […] secondo le liste di propaganda trovate gli italiani qui sotto riportati condividono nettamente le idee
dei suddetti propagandisti dei quali non sono affatto meno attivi». Seguono i nomi di una cinquantina d’italiani, fra i quali c’è anche il nome di Camillo Calzolari. Nel verbale redatto invece dai carabinieri di Monghidoro, al suo rientro in Italia, gli viene contestato che «nella vostra stanza furono rinvenuti e sequestrati giornali sovversivi e di più il vostro nome figura compreso in una lista di quelle persone che coltivavano idee comuniste. A domanda risponde: Effettivamente io tenevo nella mia stanza alcuni fogli di giornale raccolti dinanzi a un caffè della piazza di Quenast e li custodivo non per leggerli, ma per servirmene a pulire il rasoio per la barba e per altri usi. […] tengo a far presente che spesso nel cantiere venivano fatte circolare liste di sottoscrizioni per sovvenzionare qualche compagno infortunato o ammalato o bisognoso del nostro aiuto. Può darsi quindi che si tratti di una delle dette sottoscrizioni. Assicuro sulla mia fede di uomo onesto e leale che mai mi sono prestato in qualsiasi modo a fare la propaganda contro la mia patria e contro il fascismo». Ancora nel 1940 nella sua pratica fu annotato però che «pur non dando luogo a rilievi con la sua condotta in genere, non ha dato finora alcuna prova sicura e concreta di ravvedimento. Viene vigilato». Suo fratello Ermete, nato il 30 aprile 1888 a Monghidoro, morì il 1° ottobre 1944, per ferite da schegge.
Dopo il 1918 la ricostruzione in Belgio richiedeva una numerosa manodopera per i molti uomini morti durante il conflitto e perché i sopravvissuti, fortemente sindacalizzati, rifiutavano i lavori più pericolosi, pesanti o mal pagati. Le miniere di carbone, le cave di porfido e marmo, i cantieri per la ricostruzione, avevano difficoltà a trovare la manodopera necessaria. Il Belgio, che nell’Ottocento era stato un paese d’emigrazione, diventò così paese d’immigrazione. In soli cinque anni ufficialmente furono 20.000 gli italiani che emigrarono dalle regioni dell’Italia settentrionale verso il Belgio. Nel Registro delle domande di nulla osta per ottenere passaporto per l’estero, consultato presso l’Archivio storico comunale di Monghidoro, figurano, alla data del 22 agosto 1924, le domande di: Domenico Barbi, Giuseppe Tedeschi, Camillo Calzolari, Giovanni Venturelli, Lazzaro Sazzini, Davide Stefanelli, Quirico Marchetti, Alberto Farini, Alfredo Farini, Deodato Giorgi. Tutti portano l’annotazione ‘operaio’ e come destinazione il Belgio. Dopo un lungo viaggio in treno, che per alcuni di loro era il primo viaggio in assoluto, all’arrivo furono ospitati in baracche di legno fredde e sporche. Dopo un anno, alla scadenza del contratto, rimasero tutti e, dopo aver trovato un alloggio adeguato come prescrivevano le leggi sull’immigrazione, alcuni di loro si fecero raggiungere dalle famiglie, allungando il tempo della lontananza all’infinito.
Belgio, la stazione di Rebecq, paese vicino a Quenast, dove già nel 1924 emigrarono alcuni monghidoresi.
45
Testimonianza di Willem Barbi Registrata a Rebecq (Belgio) il 23 giugno 2007
Mio padre Domenico è partito in quegli anni là perché c’era il fascismo e a lui non andava mica tanto bene. Mio padre era nella Regia arma dei carabinieri quando il fascismo prese il potere. Dieci anni aveva fatto il carabiniere e dopo ha dato le dimissioni: non era d’accordo con le decisioni che si prendevano in caserma per favorire i fascisti. Un giorno a Monghidoro ha visto un manifesto che richiedeva dei lavoratori per la cava di porfido di Quenast. Si è messo d’accordo con nove amici e sono partiti nel 1924 da Monghidoro. In Belgio poi ha fatto di tutto: ha lavorato nella cava per sedici anni, poi ha fatto il contadino… Quando ha messo insieme un po’ di soldi ha comprato un po’ di terra, un po’ di animali e così piano, piano ha messo su anche una cantina, dove dava da mangiare agli operai della carrière. Mia mamma nella cantina cucinava all’italiana, faceva la polenta anche per più di cento persone e non c’erano macchine allora, mia mamma era piccola e la cuvette era alta così! La casa qui la carrière te la dava appena ce n’era una libera, noi abbiamo aspettato un anno. Dopo la guerra, siccome ce n’erano molti di immigrati, mettevano anche due famiglie nello stesso appartamento. Quando avevo otto o nove anni, dunque eravamo all’inizio degli anni ’30, il Primo maggio io facevo con mia sorella Maria il giro della carrière alla fine del primo turno di lavoro. In quel giorno si lavorava, ma i socialisti erano riusciti a ottenere che fosse un giorno non pagato, non era considerato come un giorno di festa, era autorizzato, ma non retribuito. Con gli operai e la banda davanti che suonava Bandiera rossa si faceva tutto il giro di Quenast, c’erano almeno cinque o sei caffè, dentro ogni volta offrivano da bere ai musicisti. Si cominciava alle due e si finiva alle sette. Nel 1939 la Germania ha invaso la Cecoslovacchia e in quel momento la Francia e l’Inghilterra hanno dichiarato guerra alla Germania mentre il Belgio, che era rimasto neutrale, il 10 maggio del 1940 fu invaso dalla Germania senza avertissment. E pensare che proprio il Primo maggio di quell’anno Paul Henri Spaak, un gran socialista ministro degli affari esteri, era qui alla maison du peuple che dichiarava che la
46
Willem Barbi nato il 30 gennaio 1922 a Monghidoro (Bologna).
guerra non era possibile. Diceva che abbiamo bisogno degli italiani per la pasta, i cappelli di paglia e il parmigiano, dei francesi per il vino, dei tedeschi per les choucroutes, spiegava come abbiamo bisogno l’uno degli altri. Bene, aveva appena finito il suo discorso che è scoppiato un temporale, nella maison du peuple la grandinata faceva un tale rumore sul tetto di lamiera che sembrava che invece la guerra fosse già scoppiata! Io sono l’unico sopravvissuto della generazione venuta qui prima della guerra.
Persino delle piccole comunità italiane come quella dei cavapietre di Quenast, avevano la loro banda che sfilava alla testa dei cortei del 1° maggio.
Calzolari Roberto, nato il 5 luglio 1908 a Monghidoro, da Evangelista Vittorio e Maria Rosa Lamieri. Nel 1943 era residente a Bologna. Collaborò con la 7ª brg Gap Gianni Garibaldi. Riconosciuto benemerito.
Anne Morelli, Fascismo e antifascismo nell’emigrazione italiana in Belgio
*Calzolari Romano, nato il 17 marzo 1904 a Monghidoro, da Alberto e Orsola Borelli; ivi residente nella frazione di Fradusto. Venne arrestato con Emilio Marzi per tentativo di emigrazione clandestina verso la Francia nel 1928 e in seguito controllato. Fece parte del primo Consiglio comunale liberamente eletto a Monghidoro nelle elezioni del 1946.
Calzolari Cesare, nato il 5 maggio 1920 a Monghidoro, da Tommaso e Giovannina Ghini. Nel 1943 era residente a Bologna. Operaio. Prestò servizio militare a Fiume (Jugoslavia) in fanteria dal 1940 fino al 9 settembre 1943, quando fu internato dai tedeschi in un campo di concentramento, dove rimase fino al 2 febbraio 1945, per essersi rifiutato di combattere al loro fianco. Prese poi parte alla lotta di Liberazione jugoslava combattendo nella zona di Mostar. Riconosciuto partigiano. Suo fratello Guido, nato il 17 marzo 1926 a Monghidoro e ivi residente a Lodolesca, morì il 13 giugno 1945 per lo scoppio di residuati bellici. Calzolari Giuseppe, detto Peppino, nato il 16 aprile 1916 a Monghidoro, da Domenico e Maria Domenichelli. Nel 1943 residente a Pianoro dove lavorava come impiegato. Prestò servizio militare a Modena in fanteria, in seguito militò nella 36ª brg Bianconcini Garibaldi. Ferito alla gamba sinistra, alla fine della guerra venne riconosciuto partigiano. Calzolari Luciana, nata il 3 gennaio 1929 a Monghidoro, da Domenico Enrico e Imelde Monti. Militò nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi e fu riconosciuta partigiana. Suo padre fu fucilato dai tedeschi nell’agosto del 1944. Dopo la Liberazione lavorò come impiegata presso il comune di Monghidoro, ma poi si trasferì con la madre e il fratello Sergio a Bologna.
48
I figli di Armando Carabi e Maria Adele Fabbri: Dino e Mario.
Carabi Dino, nato il 28 marzo 1923 a Monghidoro. Nel 1943 residente a Marzabotto. Colono. Militò a Caprara (Marzabotto) nella brg Stella rossa Lupo. Riconosciuto partigiano. Carabi Mario, detto il Moretto, nato il 23 aprile 1925 a Monghidoro. Nel 1943 residente a San Benedetto Val di Sambro e poi a Monzuno. Contadino. Militò sull’Appennino tosco emiliano nella brg Stella rossa Lupo. Riconosciuto partigiano. Caramalli Alberto, nato il 21 aprile 1890 a Monghidoro, da Modesto e Agata Nannoni. Nel 1923, quando emigrò in Francia per lavoro, fu classificato come operaio comunista, in quanto «negli anni 1920 e 1921, fu capo operaio, in Monghidoro, alle dipendenze di una cooperativa, detta “Cooperativa rossa” i cui dirigenti erano iscritti al partito socialista». Rientrò in Italia nel 1931 «riprendendo dimora in Monghidoro, località “Pian dei Grilli”, dove possiede un appezzamento di terreno […]. Si ritiene opportuno farne controllare il comportamento politico con riserva di formulare in seguito eventuali proposte».
I figli di Angelo Caramalli ed Ersilia Lenzi: Alfonso e Alfredo.
Caramalli Alfonso, nato il 29 luglio 1909 a Monghidoro. Nel 1943 residente a Bologna. Partecipò alla guerra di Liberazione in Jugoslavia nella 5ª armata. Riconosciuto partigiano.
bolognesi caduti in Veneto, eretto in piazza Belluno, e nel Sacrario dei caduti partigiani in piazza del Nettuno. A Monghidoro, suo paese natale, il suo nome non è scritto su alcuna lapide.
Caramalli Alfredo, nato il 22 febbraio 1905 a Monghidoro. Nel 1943 risulta residente a Monterenzio. Colono. Militò nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi a Casoni di Romagna (Casalfiumanese). Riconosciuto partigiano. Caramalli Cesare, detto Tell, nato il 22 maggio 1913 a Monghidoro, da Aldo Angiolino e Teresa Agostini. Nel 1943 residente a Prato Carnico (Udine) dove lavorava come guardia forestale. Militò a Pieve di Cadore (Belluno) nella brg Calvi della div Belluno come comandante di btg. Riconosciuto partigiano. Fatto prigioniero a Caprile (Belluno) la sera del 22 novembre 1944, fu ferocemente picchiato prima di essere portato a casa sua e mostrato alla moglie e ai quattro figli, tutti in tenera età. I tedeschi dopo aver messo a soqquadro la casa in cerca di documenti, miracolosamente messi in salvo da una parente sul tetto, lo portarono in prigione. Il mattino dopo, insieme ad altri partigiani catturati, fu trasferito a Belluno. Qui subì interrogatori e torture “effettuate con fili della corrente elettrica applicati attorno alle orecchie, fra i denti e attorno ai polsi. Le ondate di corrente inflitte venivano accompagnate da robuste nerbate sulle cosce mentre il torturato si trovava ormai disteso sul pavimento in mezzo ai suoi escrementi”. Così ha lasciato scritto il suo compagno di cella Ludwig Karl Ratschiller. Trasferito successivamente nel campo di concentramento di Bolzano, ne uscì vivo fra la fine di aprile e i primi di maggio. Ritornato a Caprile dai suoi cari, venne prelevato dalla sua casa e quindi assassinato con tre colpi di pistola il 18 maggio 1945, a guerra già finita, per un’assurda e insensata vendetta. Ora le sue spoglie riposano nel Sacrario dei caduti partigiani nella Certosa di Bologna. Il suo nome, insieme a quello di altri partigiani, figura in una lapide nel parco di piazza Piloni a Belluno, a Bologna in un monumento dedicato ai partigiani
1940 - Cesare Caramalli con la moglie Carmela Capellaro e i figli Gianni e Silvana. Affacciate alla finestra le sorelle della moglie.
Casoni Diano, detto Diavolo, nato il 20 aprile 1927 a Pianoro, da Guglielmo e Maria Rocca. Nel 1943 residente a Bologna dove lavorava in ferrovia. Fu attivo nel btg Ciro della 1ª brg Irma Bandiera Garibaldi a Bologna. Riconosciuto patriota. Risiede dal 1983 a Monghidoro.
49
Testimonianza di Diano Casoni Registrata a Monghidoro il 1° marzo 2010
La mia storia di partigiano comincia con l’8 settembre 1943. Cominciai proprio allora distribuendo a Bologna, con le donne di San Ruffillo, ai soldati che scappavano dalle caserme, i vestiti usati raccolti per le case con delle grandi sporte di paglia. Durò tre, quattro giorni, poi arrivarono i tedeschi. Lì capii chi erano i ribelli, che dopo si chiamarono partigiani. Io provengo da una famiglia antifascista di minatori e operai. Mio padre con mia madre è stato in una miniera al confine tra Francia e Belgio, non mi ricordo dove. Fuggirono da Livergnano, perché erano etichettati come antifascisti e allora nessuno gli dava da lavorare. Tornarono in Italia, quando morì la mamma di mio padre, ma non poterono più ripartire perché i fascisti non gli diedero più il permesso di espatriare, così rimasero qui a patire la fame. Mio padre non c’era mai: tutte le volte che c’era qualche manifestazione fascista o che passava per Bologna qualche autorità lo venivano a prendere, lo mettevano in galera e lo riportavano a casa dopo qualche giorno. Per noi era una tragedia, lui poveretto diceva: almeno là mi danno qualcosa da mangiare, lascia pure che mi prendano su. Non ho finito nemmeno la quinta perché un giorno mio padre fu chiamato a scuola: non avevo dato le cinque lire per la tessera da Balilla! Il direttore, che era uno della milizia, sgridò mio padre. A mio padre gli scappò detto che con quei soldi lì dava da mangiare alla famiglia per una settimana, si prese uno schiaffone così, davanti a tutti i miei compagni, che se ci penso sento ancora la vergogna che provai. Sentivo mio padre che sgrigneva i dent, ma non disse niente, mi prese e mi portò via. La maestra mi diede lo stesso il diploma di quinta, così andai a lavorare al ristorante “Il Fagiano”, come lift: avevo una divisa, con i bottoni d’oro, aprivo e chiudevo la porta e facevo entrare i clienti. Poi entrai nelle ferrovie a 16 anni, prima l’età per entrare in ferrovia era di 18 anni, però siccome tutti gli uomini erano in guerra abbassarono l’età. Avevo la tratta da San Ruffillo a Vernio Cantagallo in Toscana, subito dopo la galleria di diciotto chilometri. Dovevo controllare quel tratto lì: ero cantoniere. Cominciava
50
Diano Casoni nato il 20 aprile 1927 a Pianoro (Bologna).
proprio allora la ritirata dei tedeschi. In squadra con me c’erano due veneti, il caposquadra e un aiutante. Io sospettavo che questi due avessero a che fare con i partigiani, perché li sentivo sempre parlare, ma quando mi avvicinavo smettevano di parlare. Finché un giorno ci fu un attentato sulla ferrovia. Io partecipai involontariamente a quel fatto perché ufficialmente non ne sapevo niente, non avevo ancora nessun contatto. Mi dissero che dovevo levare via dai carri i cep, che erano delle solette di ferro che servivano per fermare i vagoni, insomma ebbi l’ordine di sferrarli tutti. Alla sera il caposquadra mi disse di prendere un giorno di permesso e il giorno dopo, quando rientrai in servizio, seppi quello che era successo. Tutti questi treni erano sbandati e avevano fatto un danno enorme. Dopo la liberazione seppi che l’ordine per fare quella cosa lì era venuto dai partigiani della Stella rossa, per contrastare i tedeschi che portavano via con i treni roba di valore, macchinari dalle fabbriche, ma anche uomini. Io li avevo visti passare i vagoni pieni di ebrei che venivano su da Roma e con altri miei compagni gli davamo qualcosa da mangiare e da bere, quando si poteva, attraverso quei finestrini piccoli. Noi potevamo avvicinarci perché eravamo ferrovieri, alcuni ci buttavano, dai finestrini lassù, dei foglietti con degli indirizzi, alcuni li abbiamo spediti, ma in tanti non c’era il nome della città, che tristezza… Una sera mi chiamarono a San Ruffillo in casa di uno di quei due: vi trovai un ragazzo di una trentina d’anni che si presentò come esponente di una squadra Gap. Ordinò a questi due di ritirarsi verso Verona e a me di andare a stare con la mia famiglia dentro le scuole Panzacchi in via Marconi, che allora si chiamava via Roma. Mi ordinò anche di trovarmi un pomeriggio al cinema “Principe Amedeo” in via Riva Reno, lì sarei stato avvicinato da uno soprannominato Topo. Il suo vero nome non l’ho mai saputo, perché allora se i fascisti ti prendevano meno si sapeva meglio era. Io con la mia famiglia mi sistemai là con altri sfollati e, in quel pomeriggio stabilito, andai a quel cinema. Vidi uno che girava e guardava, poi mi si avvicinò e mi chiese se mi chiamavo Diano, io gli dissi di sì e allora lui mi diede un appuntamento, prima del coprifuoco. Cominciai così, con l’attaccare i manifesti che
52
i partigiani ci facevano avere, la base era dentro la scuola e, anche se ci furono delle perquisizioni, noi ce la cavammo sempre. Prima della famosa battaglia di Porta Lame, avemmo l’incarico di tagliare i fili elettrici di un palazzo della Lancia, vicino a Porta Lame. Andammo là e sabotammo tutte le scatole della luce e poi scappammo via subito. I tedeschi avrebbero dovuto mettere una mitragliatrice sui tetti, ma non ci riuscirono a portarla su, perché gli ascensori non funzionavano più. Rimasero tutti senza luce per due o tre giorni! Per lo più noi avevamo l’ordine di disarmare le pattuglie dei fascisti: ho disarmato tanti di quei cinni… a uno gli presi anche gli stivali, che io ero senza scarpe e lui aveva questo paio di stivali così belli che glieli presi. Mio padre mi sgridò e ne tagliò un pezzo per renderli irriconoscibili. Propaganda e disarmi questo dovevamo fare. Fui intrappolato in un rastrellamento nella primavera del 1944 a Porta Santo Stefano. Mio padre era andato in bicicletta a Monte Donato per prendere qualcosa nella nostra casa distrutta e io ero lì che l’aspettavo. Arrivarono due o tre camion di tedeschi, chiusero le strade e presero tutti quelli che c’erano. Mi portarono nella scuola d’ingegneria in Saragozza, con tanti altri uomini, che venivano reclutati così per la Todt. Fui fortunato perché mentre eravamo lì ad aspettare ci fu un bombardamento, una bomba cadde lì vicino facendo esplodere tutti i vetri, allora io mi buttai dalla finestra, per fortuna eravamo a pianterreno! Molti altri scapparono come me. Tornai così a casa: allora ero giovane e saltavo come un cavallino. Il 20 aprile del 1945, il giorno del mio diciottesimo compleanno, eravamo là al ponte di Galliera che i tedeschi scappavano con le camionette e con quei biroccini tirati dai cavalli, noi gli davamo dietro e non so quanti li abbiamo anche presi. Dopo aver passato una vita a Bologna sono venuto ad abitare qua; ogni tanto mi chiamano nelle scuole a parlare di quel periodo, ma io evito di parlare delle cose brutte che sono successe, cerco di far capire ai bambini che la cosa più importante è il rispetto per gli altri, per la libertà e per la democrazia. Sono uscito dalla guerra che ero mentalmente vecchio: la mia gioventù me l’hanno rubata il fascismo e la guerra.
In questa testimonianza si fa riferimento alla battaglia di Porta Lame, che fu una delle battaglie più importanti che ebbero luogo in quel periodo, in un centro urbano in Italia. La provincia di Bologna era già stata parzialmente riconquistata e la città stessa sembrava ormai prossima alla liberazione, tanto che lo stesso comando tedesco il 4 novembre aveva ordinato lo sgombero della zona collinare della città, in previsione dei combattimenti per fermare l’avanzata degli alleati. Dai tanti sfollati, che si rifugiarono in città, furono occupate scuole, edifici pubblici e le arcate dei portici di San Luca, chiuse alla meglio con improvvisati muri e materiale di recupero. Alcuni contadini si erano portati dietro mucche e pollame, che scorazzavano liberamente anche per le vie del centro. In previsione dell’arrivo imminente delle truppe alleate, le brigate partigiane bolognesi avevano allestito numerose basi in città. La battaglia iniziò alle ore 5.30 del 7 novembre quando reparti delle Brigate nere, della Feldgendarmeria tedesca ed agenti del Reparto d’assalto della polizia, nel corso di un rastrellamento scoprirono, pare casualmente, una di queste basi. Dopo molte ore i partigiani riuscirono a sfuggire al progressivo accerchiamento delle proprie postazioni, provocando numerose perdite tra le file nemiche, nonostante queste fossero numericamente superiori. La città fu invece liberata dopo sei mesi, il 21 aprile 1945, dopo aver subito 93 bombardamenti, l’ultimo dei quali solo tre giorni prima della liberazione. I partigiani riuscirono a preservare le sue strutture vitali: acqua, gas,
elettricità, ponti, vie di comunicazione, uffici pubblici. Lo riconobbero in un comunicato anche gli Alleati che si dichiararono impressionati per il “contributo fornito dai patrioti. […] Erano assai ben organizzati e hanno salvato molti servizi pubblici”.
Castelli Carlo, nato il 30 giugno 1921 a Monghidoro, da Stanislao e Olimpia Bruzzi. Nel 1943 era residente a Bologna dove frequentava l’Università, per diventare farmacista. Sfollato a Monghidoro, dopo essere stato sottufficiale in aviazione, militò, con il fratello Francesco, nato il 24 maggio 1927 a Bologna, nella brg Stella rossa Lupo con il grado di comandante di compagnia. Riconosciuti entrambi partigiani. Dopo la liberazione di Monghidoro fece parte, per il Partito d’Azione, della giunta guidata da Otello Musolesi. Castelli Dario, nato il 27 luglio 1926 a Monghidoro, da Massimo e Livia Neri; ivi residente a Zaccarlina. Ultimo di una numerosa famiglia di otto maschi e due femmine, era rimasto orfano del padre a soli otto anni e a dodici della madre. Con tutti i fratelli, militari in guerra, fu allevato dalla sorella maggiore. Militò nella brg Stella rossa Lupo. Riconosciuto partigiano. Oggi vive a Verbania, ma passa le vacanze estive nella sua casa a Zaccarlina.
Aprile 1945 - Bologna, gli Alleati in Piazza Maggiore.
53
Dario Castelli nato il 27 luglio 1926 a Monghidoro (Bologna).
Testimonianza di Dario Castelli Registrata a Zaccarlina (Monghidoro) il 14 ottobre 2008
Io sono stato riconosciuto partigiano dal 1944, prima di quella data lì ero in collegamento con mio cugino Carlo Castelli, capitano di brigata nella Stella rossa, che era sfollato con la sua famiglia in questa casa. Lui era stato sottufficiale pilota in aviazione, ma quando ci fu l’8 settembre, scappò e si arruolò nei partigiani. L’ho seguito in quest’avventura, prima come staffetta e poi in brigata, perché tra me e lui c’era un’amicizia fraterna e io lo stimavo molto: avevo diciassette anni, ero giovanissimo! Portavo le notizie in brigata, di quello che succedeva qui attorno, poi ho fatto le mie azioni di partigiano: ci siamo trovati in tanti tafferugli con i fascisti. Un giorno ci fu un rastrellamento, io facevo parte di una compagnia che era qui all’Impurziola, per evitare di essere catturati ci siamo avviati giù per il Savena, con un partigiano, soprannominato Aeroplano. Abbiamo percorso in colonna il fiume per un pezzo: quando siamo arrivati al Mulino della Valle, i tedeschi erano sopra il ponte, armati fino ai denti e noi sotto il ponte. Loro si son ben guardati dallo sparare e anche noi abbiamo continuato a camminare come se niente fosse. Dopo qualche giorno io e Carlo siamo andati a Roncastaldo, non mi ricordo perché, ma comunque lì ai Rimandi di Stiolo abbiamo incontrato una pattuglia di tedeschi: erano Ss. Noi eravamo armati, ma avevamo le pistole nascoste; per fortuna Carlo aveva ancora la tessera di sottufficiale dell’aviazione, mostrò quel tesserino lì ai tedeschi e, siccome parlava bene la loro lingua, ha avuto la sfrontatezza di chiedergli perché non avevano sparato ai partigiani. Il comandante, che parlava anche l’italiano, ci rispose che era un momento critico, che avevano avuto paura anche loro della reazione. Non siamo più tornati all’Impurziola, ma da lì poi siamo andati su a Monte Sole. Io mi sono fermato nella compagnia di Casaglia, lì eravamo in tanti, c’erano anche dei partigiani che venivano da Ferrara, da Forlì, perché la nostra brigata era destinata a prendere il comando di tutte le brigate della zona. Il nostro comandante era Mario Musolesi, detto Lupo. C’era una casa di contadini e lì si dormiva nel fienile, si viveva lì
con questa famiglia, si facevano le pattuglie di notte e di giorno, poi a un certo punto mi sono ammalato, non so perché mi era venuta un’infezione intestinale, sono stato ricoverato nell’ospedale dei partigiani a Capraia, sotto Monte Sole. Dopo la liberazione di Monghidoro ho fatto parte per un po’ della giunta di Musolesi per il Partito d’Azione. Finito tutto sono andato in Polizia e qui ci vengo una volta ogni tanto a vedere la mia casa, io sono nato qua e ho sempre nostalgia di questi posti. A tanti qui i fascisti di Monghidoro hanno dato da bere dell’olio di ricino, anche a mio padre e a mio zio, il fratello di mia madre, Neri si chiamava; qui a Zaccarlina erano tutti antifascisti, non c’era nessuno che fosse fascista.
55
Oltre ai manganelli, dalle squadre punitive fasciste, veniva usato l’olio ottenuto da una pianta officinale: il “ricinus communis”. Olio ottimo per fare saponi, vernici, lozioni per i capelli, ma con effetti tremendi se ingerito. Il malcapitato, che veniva preso di mira, era costretto a bere una bottiglia di questo olio, che aveva effetti purgativi immediati. Alla vittima venivano quindi legati i pantaloni con una corda, così che non potesse toglierseli. I poveretti erano costretti a tornare a casa in condizioni umilianti, facendosi vedere così malridotti da passanti, vicini di casa, mogli e figli. Questo mezzo intimidatorio, che potremmo definire una vera e propria tortura, fu ideato da Gabriele D’Annunzio, durante l’occupazione della città di Fiume e fu ripetutamente usato contro i dissidenti durante tutto il ventennio fascista.
Conti Ermete, nato il 26 settembre 1910 a Monghidoro, da Francesco e Maria Nassetti. Seggiolaio. Nel 1941 a Bologna fu arrestato per avere detto a un gruppo di fascisti presenti in un’osteria: «Se non vi togliete il distintivo non verremo più qui a bere». Fu condannato a quindici giorni di carcere e diffidato.
I figli di Primo Equisiti e Venusta Nassetti: Alfredo e Roberto.
Equisiti Alfredo, nato il 22 ottobre 1907 a Monghidoro. Dal 1917 residente a Loiano e in seguito a Bologna. Calzolaio. Accusato di propaganda sovversiva «per avere distribuito manifesti sovversivi nella notte dal 24 al 25 luglio 1927, sulla strada provinciale del ponte di San Ruffillo a Rastignano di Pianoro», fu prosciolto per non luogo a procedere. Fu arrestato di nuovo nel 1932 «come responsabile di attività comunista». Venne condannato a 2 anni di carcere dal Tribunale speciale nel 1934, per costituzione del Pci, appartenenza allo stesso e propaganda in riferimento a una vasta azione culminata il 17 luglio 1933 con lancio di manifestini ed esposizione di bandiere rosse in diversi comuni della pianura bolognese. Nel 1936 fu arrestato a Bologna, unitamente ad altre 51 persone, per organizzazione comunista e sottoscrizione a favore della repubblica spagnola in quanto «frequentatore assiduo dell’esercizio “Caffè del Palazzaccio” di Pianoro nel quale con i compagni di fede teneva discorsi a carattere disfattista prendendo argomenti dagli avvenimenti del giorno e dei moti spagnoli». Fu ammonito. Prese parte alla lotta di
56
Liberazione in Jugoslavia. Dichiarato disperso dopo l’8 settembre 1943. Equisiti Roberto, nato il 28 dicembre 1900 a Monghidoro. Colono. Il 30 ottobre 1936 fu arrestato a Bologna, unitamente al fratello Alfredo e ad altre persone, per organizzazione comunista e sottoscrizione a favore della Repubblica spagnola.
Fabbri Francesco, nato il 2 novembre 1927 a Monghidoro, da Alberto e Maria Lorenzini. Nel 1943 era residente a Monterenzio. Militò nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi e operò a Casoni di Romagna (Casalfiumanese). Riconosciuto partigiano.
*Ferretti Antonio, nato il 12 giugno 1900 a Monghidoro, da Fortunato e Emilia Francia. Emigrato clandestinamente in Francia nel 1922. Esercitava la professione di stagnino. «Militò in patria nel partito comunista, senza però distinguersi per alcuna attività, né propaganda sovversiva e senza dimostrarsi elemento violento né pericoloso. Risiede a Trieux e viene disposto il suo controllo all’estero perché di convinzioni comuniste».
58
Ferretti Bruno, nato il 5 febbraio 1897 a Monghidoro, da Umberto e Maria Elisa Lagazzi. Calzolaio. Ferito al volto da un colpo di rivoltella sparatogli da un fascista, nel 1922 venne rinchiuso in carcere per 9 mesi. Essendosi ribellato all’aggressione di un tenente della milizia, fu arrestato e deferito alla Commissione provinciale che lo condannò nel 1928 a 2 anni di confino nell’isola di Ponza (Latina). In un verbale della polizia viene descritto così: «Egli ha sempre professato idee comuniste e nemmeno in questi ultimi tempi ha mostrato di volersi ravvedere,
mantenendosi invece accanito avversario del Regime». Schedato, fu classificato nel 1931 di “3ª categoria”, quella delle persone considerate politicamente più pericolose. Nel 1937 fu fermato e diffidato perché «si è accompagnato ad elementi sovversivi» e gli venne negato, per i precedenti politici, il passaporto per l’Etiopia, chiesto per motivi di lavoro. Nel 1939 fu di nuovo catturato e trattenuto in carcere per due settimane. Nel corso della lotta di Liberazione, collaborò a Monghidoro e a Monterenzio con la 62ª brg Camicie rosse Garibaldi. Riconosciuto benemerito.
59
Testimonianza di Umberto Ferretti Registrata a Monghidoro il 3 agosto 2008
Io ero già nato quando mio padre andò al confino, mia mamma faceva le tovaglie per mantenersi, ma guadagnava solo quel tanto per mangiare lei, così mia sorella Anna stava in casa dai nonni materni che l’avevano allevata, io invece ero in casa di mio nonno Umberto. Mio padre quando andava in paese e vedeva qualcuno con il fez, quel cappello nero che portavano loro, si rivoltava. C’era un gerarca fascista, un certo Mazzanti che aveva sposato una di Monghidoro, che veniva su con questa divisa con quel pennacchio che veniva giù da una parte e mio padre una volta gli chiese se glielo prestava, che doveva lucidare un paio di scarpe. Non era capace di stare zitto, lo picchiavano, ma ne ha date anche tante. Venivano da fuori a provocare: da Bologna, da Loiano. Un giorno venne su Mazzacurati, un pezzo grosso del fascismo, che portò via il cavallo a mio zio Erminio. Allora mio padre lo picchiò e andò in galera, ma non ci andò solo perché aveva picchiato questo Mazzacurati, ma perché durante il processo si levò una scarpa e la tirò all’avvocato difensore, neanche in tribunale… Nella guerra del ’15 e ’18 quando ci fu la ritirata di Caporetto, lui riuscì a venire a casa e così lo arrestarono e lo rimandarono al fronte; finita la guerra lo condannarono a due anni per diserzione. Insomma era sempre un dentro e fuori. Un giorno i fascisti lo mandarono a chiamare per fargli prendere la tessera fascista, quando il suo amico Marieloni lo seppe, arrivò lassù anche lui e sai cosa fecero? Distrussero l’ufficio, misero all’aria tutta la casa del fascio. Quando parlava Mussolini quelli della casa del fascio mettevano tre radio sintonizzate sulle tre finestre per far sentire a tutti i suoi discorsi e quella volta che il duce disse che “ci sono in Italia 44 milioni di fascisti”, Marieloni Odoardo lo sentì e gridò: buseder, me no c’an son brisa fasesta. Era fantastico anche quello lì, era gente che non si piegava, lui rispondeva, non mollava, quando lo provocavano non stava fermo neanche lui. Io nel 1942 sono andato volontario in Marina,
60
Umberto Ferretti, Bertino nato il 4 ottobre 1925 a Monghidoro (Bologna).
per vedere se lo lasciavano un po’ in pace. Il 15 settembre 1943 la nave d’appoggio ai sommergibili Eridania, sulla quale ero imbarcato, fu catturata dai tedeschi, che la spogliarono di ogni materiale bellico che poteva servire, poi la silurarono. I tedeschi mi fecero prigioniero e mi mandarono nel campo di concentramento a Emden, in Germania. Nel 1945 durante un trasferimento verso l’Olanda, sono riuscito a scappare. A Veendam mi sono nascosto in una chiesa: un mattino alle quattro ho visto arrivare gli americani. Sono stato raccolto dalla sussistenza e sono rimasto con loro fino a quando mi hanno rimpatriato. Sono tornato in Marina, ma nel 1950, per colpa di una lettera anonima spedita da Mon-
62
ghidoro, nella quale c’era scritto che mio padre era un attivista comunista, fui congedato, anche se ero tra i migliori. Allora i comunisti venivano trattati così! Siccome qui poi non c’era lavoro, nel 1957 sono andato in Germania, ci sono rimasto per quattro anni. Dopo i primi due anni mi ha raggiunto anche mia moglie, per lavorare anche lei in una fabbrica. Mia figlia era rimasta qua, con la sorella di mia moglie e una volta, quando in agosto siamo tornati per le ferie, lei era qui nella piazzetta a giocare e noi non l’abbiamo nemmeno riconosciuta, perché l’avevano tosata. Là lavoravo in una fabbrica di calzature e quando tornai a casa ancora non si trovava da lavorare, allora mi misi a lavorare per conto mio, come calzolaio.
Finzi Marino, nato il 25 febbraio 1914 a Trieste, da Roberto e Adele Gentilomo. Nel 1943 residente a Bologna. Medico chirurgo. Oppositore del fascismo fin dall’inizio degli anni trenta, durante gli studi, grazie alla vivacità critica degli ambienti studenteschi frequentati. L’entrata in vigore delle leggi razziali lo costrinse, in quanto ebreo, a espatriare nel 1939 a Parigi. Rientrato in Italia con lo scoppio della seconda guerra mondiale, a causa della situazione che andava diventando di giorno in giorno più intollerabile per effetto delle leggi razziali, visse mesi di solitudine e di paura, con l’incubo continuo dell’arresto e della deportazione, com’era già successo alla sorella e ai genitori. Rifugiatosi, dopo l’8 settembre 1943, in località Fornace di Barbarolo (Loiano) riuscì a sfuggire alla cattura e alla deportazione. In seguito riuscì a non essere identificato tramite l’utilizzo di documenti falsi. In quei mesi di clandestinità, divenne consapevole, come ebbe occasione di scrivere nel libro autobiografico Cronache della speranza, che i “partigiani non erano solo amici da aiutare e proteggere, ma erano la forza organizzata con cui schierarsi, da seguire e obbedire”. Fu nominato medico di Monghidoro nel paese appena liberato e proprio da qui scrisse questa lettera al fratello Ettore, rifugiatosi in Palestina per sfuggire alla cattura e al campo di concentramento: “Monghidoro, 15 ottobre 1944 Mio caro fratello, dopo inaudite sofferenze e inimmaginabili vicende siamo riusciti ad essere liberati dalle vittoriose truppe americane. Fino ad oggi siamo salvi io, Maria, il piccolo Roberto e Riccardo. Sfiniti dai patimenti, e dopo aver perduto ogni cosa, siamo ospiti di una buona famiglia di contadini e rimarremo qui fino alla liberazione di Bologna. […] Purtroppo non so più nulla dei nostri cari genitori né della sorella e sono in indicibile pena per loro: quale sarà la loro sorte?” Solo la sorella Clara tornò dai campi di concentramento tedeschi. Ancora nel suo libro si può leggere questa testimonianza: “Rimanemmo in quella condizione di disagio (io a dorso d’asino rispondevo alle chiamate nei vari casolari e facevo ambulatorio in paese nei locali della vecchia e semidistrutta farmacia) fino a che, vedendo la situazione di stallo e comprendendo che il sogno di raggiungere a breve termine Bologna era illusorio, mi feci ricevere dal colonnello comandante dell’ospedale.
Marino Finzi con la moglie Maria Bacciglieri e il figlio Roberto.
Offrendomi un ottimo whisky, il colonnello esclamò: “Caro amico, noi sverniamo a Monghidoro, l’avanzata è rimandata a primavera. Questi sono gli ordini dall’alto”. Capii che non era più possibile una lunga attesa, soprattutto perché il disagio fisico era insopportabile ed il lungo inverno in quelle condizioni inaccettabile e forse certamente pericoloso per la nostra salute che cominciava a cedere.” Operò con la 62ª brg Camicie rosse Garibaldi, prestando la sua opera di medico, fino a quando la brigata rimase nella zona di Monterenzio, Loiano e Monghidoro. Riconosciuto partigiano. Passò molte estati nella sua casa a Monghidoro, dove gli è stata dedicata una strada.
63
A partire dal settembre del 1938, il governo fascista italiano emanò una lunga serie di testi legislativi che ne determinarono la politica razziale. Si trattava, fino all’ottobre del 1942, di regi decreti legge e regi decreti; successivamente, con l’instaurazione della Repubblica sociale italiana e fino ai primi mesi del 1945, di decreti ministeriali e di decreti legislativi del Duce (senza dimenticare, per tutto il periodo indicato, l’innumerevole quantità di circolari e di altre disposizioni amministrative). Fu l’inizio ufficiale della discriminazione razziale in Italia, per mezzo di un articolato sistema normativo antiebraico. È questa una data simbolica perché serve, al di là di ogni semplificazione storiografica, a datare un momento chiave del percorso del fascismo: l’ufficializzazione dell’antisemitismo. Essa indica indubbiamente un punto di non ritorno nella storia italiana, uno spartiacque ingombrante che continua, pur con protagonisti e contesti molto diversi, a incidere ancora sul nostro presente. Di italiani che salvarono ebrei, non solo come amici o parenti, ma anche dai loro posti nella burocrazia e nella diplomazia, ce ne furono molti come in altri paesi, ma va ricordato anche che nelle spire della così detta “soluzione finale” hitleriana finirono, grazie al contributo del regime fascista, circa 8.000 ebrei italiani.
PROVVEDIMENTI PER LA DIFESA DELLA RAZZA ITALIANA Regio Decreto Legge 17 novembre 1938-XVI, n. 1728 VITTORIO EMANUELE III PER GRAZIA DI DIO E PER VOLONTÀ DELLA NAZIONE RE D’ITALIA IMPERATORE D’ETIOPIA Ritenuta la necessità urgente ed assoluta di provvedere; Visto l’art. 3, n. 2, della legge 31 gennaio 1926-IV, n. 100, sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche; Sentito il Consiglio dei Ministri; Sulla proposta del Duce, Primo Ministro Segretario di Stato, […]; Abbiamo decretato e decretiamo: CAPO I - Provvedimenti relativi ai matrimoni Art. 1. Il matrimonio del cittadino italiano di razza ariana con persona appartenente ad altra razza è proibito. Il matrimonio celebrato in contrasto con tale divieto è nullo. Art. 2. Fermo il divieto di cui all’Art. 1, il matrimonio del cittadino italiano con persona di nazionalità straniera è subordinato al preventivo consenso del Ministero per l’Interno. I trasgressori sono puniti con l’arresto fino a tre mesi e con l’ammenda fino a lire diecimila. Art. 3. Fermo il divieto di cui all’Art. 1, i dipendenti delle Amministrazioni civili e militari dello Stato, delle Organizzazioni del Partito Nazionale Fascista o da esso controllate, delle Amministrazioni delle Province, dei Comuni, degli Enti parastatali e delle Associazioni sindacali ed Enti collaterali non possono contrarre matrimonio con persone di nazionalità straniera. Salva l’applicazione, ove ne ricorrano gli estremi, delle sanzioni previste dall’Art. 2, la trasgressione del predetto divieto importa la perdita dell’impiego e del grado. […] CAPO II - Degli appartenenti alla razza ebraica Art. 8. Agli effetti di legge: a) È di razza ebraica colui che è nato da genitori entrambi di razza ebraica, anche se appartenga a religione diversa da quella ebraica; b) È considerato di razza ebraica colui che è nato da genitori di cui uno di razza ebraica e l’altro di nazionalità straniera; c) È considerato di razza ebraica colui che è nato da madre di razza ebraica qualora sia ignoto il padre; d) È considerato di razza ebraica colui che, pur essendo nato da genitori di nazionalità italiana, di cui uno solo di razza ebraica, appartenga alla religione ebraica, o sia, comunque, iscritto ad una comunità israelitica, ovvero abbia fatto, in qualsiasi altro modo, manifestazioni di ebraismo. Non è considerato di razza ebraica colui che è nato da genitori di nazionalità italiana, di cui uno solo di razza ebraica, che, alla data del 1°Ottobre 1938-XVI, apparteneva a religioni diversa da quella ebraica. Art. 9. L’appartenenza alla razza ebraica deve essere denunziata ed annotata nei registri dello stato civile e della popolazione. Tutti gli estratti dei predetti registri ed i certificati relativi, che riguardano appartenenti alla razza ebraica, devono fare espressa menzione di tale annotazione. Uguale menzione deve farsi negli atti relativi a concessione o autorizzazioni della pubblica autorità. I contravventori alle disposizioni del presente articolo sono puniti con l’ammenda fino a lire duemila. Art. 10. I cittadini italiani di razza ebraica non possono: a) prestare servizio militare in pace e in guerra; b) esercitare l’ufficio di tutore o curatore di minori o di incapaci non appartenenti alla razza ebraica c) essere proprietari o gestori, a qualsiasi titolo, di aziende dichiarate interessanti la difesa della Nazione, […] e di aziende di qualunque natura che impieghino cento o più persone, né avere di dette aziende la direzione né assumervi comunque, l’ufficio di amministrazione o di sindaco; d) essere proprietari di terreni che, in complesso, abbiano un estimo superiore a lire cinquemila; e) essere proprietari di fabbricati urbani che, in complesso, abbiano un imponibile superiore a lire ventimila. […] Art. 11. Il genitore di razza ebraica può essere privato della patria potestà sui figli che appartengono a religione diversa da quella ebraica, qualora risulti che egli impartisca ad essi una educazione non corrispondente ai loro principi religiosi o ai fini nazionali. Art. 12. Gli appartenenti alla razza ebraica non possono avere alle proprie dipendenze, in qualità di domestici, cittadini italiani di razza ariana. I trasgressori sono puniti con l’ammenda da lire mille a lire cinquemila. Art. 13. Non possono avere alle proprie dipendenze persone appartenenti alla razza ebraica: a) le Amministrazioni civili e militari dello Stato; […] Art. 17. È vietato agli ebrei stranieri di fissare stabile dimora nel Regno, in Libia e nei Possedimenti dell’Egeo. […] Ordiniamo che il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sia inserito nella raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti del Regno d’Italia, mandando a chiunque spetti di osservarlo e farlo osservare. Dato a Roma, addì 17 Novembre 1938 - XVII Vittorio Emanuele, Mussolini, Ciano, Solmi, De Revel, Lantini
64
Francia Armando, nato il 6 luglio 1912 a Monghidoro, da Emilio e Maddalena Teresa Minarini; ivi residente nel 1943. Prese parte alla lotta di Liberazione in Jugoslavia. Militò nella brg Jugoslavia della div Garibaldi. Riconosciuto partigiano. Frontini Alberto, nato il 18 agosto 1908 a Monghidoro, da Luigi e Leonilde Mazzetti. Nel 1943 era residente a Bologna, dove esercitava il mestiere di fontaniere. Militante comunista fu arrestato nel maggio 1932. Fu liberato a seguito di un’amnistia concessa per il decennale fascista. Nel 1932, per celebrare il decimo anniversario della “marcia su Roma” e la conseguente conquista del potere, il regime fascista volle mostrare un consuntivo esaltante del proprio operato. A Roma fu inaugurata la “Mostra della rivoluzione fascista” e il giorno dopo fu aperta la via dei Fori imperiali. Tutte le iniziative, sia editoriali sia cinematografiche, avevano al centro la figura del dittatore, indicato come il centro propulsore di ogni attività del regime. Le opere realizzate, o in corso d’opera, dovevano “consacrare” i progressi della “nazione operante”. Il decennale rappresentò per il fascismo una grande occasione propagandistica. Le manifestazioni si susseguirono per tutto l’anno e la presenza di Mussolini nelle piazze d’Italia si moltiplicò. Fu concessa una grande amnistia anche ai detenuti politici. Uscirono dal carcere detenuti politici e confinati, che poterono così rientrare nelle loro case con il “perdono di Mussolini”. Carlo Alpi non poté usufruire di questa amnistia. Nel 1942, in occasione del ventennale, non furono promosse manifestazioni celebrative a causa del conflitto mondiale in atto.
Gaggioli Lenicio, soprannominato Luigi, nato il 5 luglio 1925 a Loiano, da Riccardo e Alfonsina Maiolini; ivi residente nel 1943. Studente alla facoltà di medicina dell’Università di Bologna. Militò nella 4ª brg Cattaneo Gl e operò a Piacenza. Riconosciuto partigiano. Dopo essersi laureato fu medico condotto a Monghidoro, dove abitò con la famiglia fino alla morte. Galanti Mariannina, nata il 2 ottobre 1912 a Monghidoro, da Callisto e Maria Benni. Nel 1943 risulta residente a Monterenzio. Casalinga. Militò nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi e operò a Casoni di Romagna (Casalfiumanese). Fu ferita. Riconosciuta partigiana.
Gamberini Aldo, nato il 10 settembre 1893 a Monghidoro, da Enrico e Maria Rambaldi. Nel 1943 residente a Marzabotto. Operaio. Prestò servizio militare in fanteria dal 1913 al 1918. Nel corso della lotta di Liberazione militò nella brg Stella rossa Lupo e operò sull’Appennino tosco emiliano. Nell’eccidio di Marzabotto perse la moglie Clelia Coramelli, i figli Bice, Bruno, Imelde, Rosina e Vilma, la nipote Idalba Gamberini di solo un anno e i fratelli Antonio, nato l’1 gennaio 1904 a Monzuno e Roberto, nato a Monghidoro. Riconosciuto partigiano. Gamberini Angelo, nato il 12 aprile 1913 a Monghidoro, da Raffaele e Orsolina Lorenzini. Nel 1943 residente a Loiano. Colono. Militò nella 62ª brg Stella rossa Lupo. Riconosciuto partigiano. Gamberini Carlo, nato il 6 gennaio 1913 a Monghidoro, da Giuseppe e Amabile Naldi, ivi residente nel 1943. Colono. Prese parte alla lotta di Liberazione in Albania. Militò nella brg dell’Esercito nazionale di liberazione albanese. I suoi fratelli, Bruno ed Ernesto, furono fucilati dai tedeschi a Roncastaldo il 2 ottobre 1944. Riconosciuti tutti tre come partigiani. Gamberini Paolo, nato il 9 marzo 1923 a Monghidoro, da Alfredo e Pia Rocca; ivi residente nel 1943. Sottufficiale dei carabinieri. Militò nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi. Riconosciuto partigiano.
I figli di Federico Gasperini e Augusta Maddalena Minarini: Assunta e Ubaldo.
Gasperini Assunta, nata il 2 maggio 1921 a Monghidoro; ivi residente nel 1943. Casalinga. Militò nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi e operò sull’Appennino tosco emiliano. Riconosciuta partigiana. Gasperini Ubaldo, nato il 19 giugno 1916 a Monghidoro; ivi residente nel 1943. Coltivatore diretto. Fu attivo nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi e operò sull’Appennino tosco emiliano. Riconosciuto patriota. Gentilini Antonio, nato il 13 giugno 1913 a Monghidoro, da Giuseppe Alberto e Giuseppina Calzolari;
65
ivi residente a Valgattara. Lattoniere. Prese parte alla lotta di Liberazione in Grecia. Dichiarato disperso dal 9 settembre 1943, molto probabilmente fu ucciso a Cefalonia dai tedeschi. Riconosciuto partigiano. Gherardi Gherardo, nato il 28 settembre 1923 a Monghidoro, da Ettore e Dorotea Paolini. Nel 1943 residente a Bologna. Rappresentante. Militò nella brg Stella rossa Lupo. Riconosciuto partigiano. *Ghini Augusto, nato il 19 dicembre 1882 a Monghidoro, da Massimo e Luigia Cattani. Operaio. Emigrato in Francia nel 1923, dove morì nel 1933. Schedato come comunista pericoloso «emigrò a Sancy, per ragioni di lavoro, presso le miniere di ferro francesi». Giorgi Cesare, nato il 18 dicembre 1874 a Monghidoro, da Anselmo e Flora Marchioni. Colono. Nella sua pratica fu registrato come «simpatizzante per il partito popolare». Nel 1930 fu arrestato, per avere insultato pubblicamente Mussolini e condannato a 4 mesi di reclusione. Fu ammonito e subì controlli sino al giorno della sua morte avvenuta nel 1939.
Giorgi Roberto, detto Cazulin, nato il 18 ottobre 1912 a Monghidoro, da Giovanni e Gesualda Palazzi; ivi residente nel 1943 a Ca’ dei Dosi. Bracciante. Nel 1938 a Villa di Mezzo, mentre si trovava in un’osteria fu sorpreso «mentre due avventori suonavano con fisarmonica e chitarra la nota canzone “Faccetta nera” sul motivo del ritornello, anziché dire “noi ti daremo un altro Duce un altro Re” disse “abbasso il duce e abbasso il re” […] le frasi da lui pronunciate stanno a provare ch’egli nutre sentimenti di avversione al Regime». Venne arrestato e ammonito. Nel 1940 venne annotato che «pur non dando luogo a rilievi con la sua condotta in genere, non ha neppure fornito alcuna prova sicura e concreta di ravvedimento». Gironi Alfredo, nato il 4 maggio 1888 a Campeggio di Monghidoro, da Raffaele e Germana Rocca. Colono. Iscritto al Psi. Venne incluso nell’elenco dei sovversivi nel 1924, quando emigrò in Francia. Rientrato in Italia nel 1935, nella sua pratica nel 1939 fu annotato che «non dà luogo a rilievi, ma finora non ha dimostrato di aver modificato le ideologie politiche professate. Viene convenientemente vigilato». Gironi Alfredo
66
Gironi Amilcare, nato il 19 ottobre 1905 a Monghidoro, da Demetrio e Orsolina Colli. Cementista. Schedato fin dal 1921. Nel 1924 «dal Pretore di Loiano venne condannato a giorni 12 di reclusione per violenza e resistenza alla forza pubblica». Nel 1929 quando emigrò in Francia, venne classificato comunista. Le sue lettere inviate al fratello Anselmo venivano regolarmente aperte e censurate. Rimpatriò nel 1937, dopo aver lavorato anche in Marocco e Algeria, nel 1942 fu radiato dall’elenco dei sovversivi per buona condotta. Giustini Felice, nato il 24 agosto 1907 a Monghidoro, da Angelo e Clotilde Tossani. Nel 1943 residente a Bologna. Imbianchino. Fu attivo nella 1ª brg Irma Bandiera Garibaldi. Riconosciuto patriota. Gnesini Alfiero, detto Alfredo, nato l’11 giugno 1895 a Monghidoro, da Amedeo e Maria Assunta Zini; ivi residente nel 1943. Mezzadro. Militò nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi e operò sull’Appennino tosco emiliano. Riconosciuto partigiano.
I due figli gemelli di Giovanni Gnesini e Venusta Galanti: Armando e Francesco.
Gnesini Armando, nato il 9 gennaio 1900 a Monghidoro. Nel 1943 residente a Monterenzio. Colono. Militò nella 36ª brg Bianconcini Garibaldi e operò sull’Appennino tosco emiliano. Riconosciuto partigiano. Gnesini Francesco, nato il 9 gennaio 1900 a Monghidoro. Nel 1943 residente a Monterenzio. Operaio. Militò nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi. Riconosciuto partigiano. Gnesini Carlo, detto Montagna, nato l’8 agosto 1912 a Monghidoro, da Augusto e Amalia Ruggeri; ivi residente nel 1943. Scalpellino. Fu attivo sull’Appennino tosco emiliano nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi. Il fratello Vittorio fu ucciso dai tedeschi a Monghidoro il 27 giugno 1944. Riconosciuto patriota. Gnesini Gino, nato il 5 febbraio 1925 a Monghidoro, da Aristide e Maria Lorenzini; residente a Frassineta.
Operaio. Militò nella 36ª brg Bianconcini Garibaldi e operò sull’Appennino tosco emiliano. Prese parte al combattimento di Ca’ Malanca (Brisighella - Ravenna) del 10 ottobre 1944 nel corso del quale rimase gravemente ferito. Fu ricoverato insieme con altri nella canonica della chiesa di Cavina (Fognano - Ravenna). Durante un rastrellamento i tedeschi, scoperta l’infermeria, fecero ricoverare i feriti con i medici e gli infermieri nell’ospedale di Brisighella. Dopo alcuni giorni i fascisti faentini, fatta irruzione nell’ospedale, li prelevarono e li uccisero dopo averli torturati, al poligono di tiro di Bologna il 18 ottobre 1944. La sua salma, con quelle dei compagni Ferruccio Terzi, Renato Moretti, Sergio Giulio Minozzi, Alfonso Bagni, fu ritrovata presso la Certosa di Bologna. Riconosciuto partigiano. Gori Emilio, nato il 31 luglio 1911 a Monghidoro, da Umberto e Maria Bonafè. Nel 1943 residente a Bologna. Operaio. Fu attivo nella 66ª brg Jacchia Garibaldi e operò a Monterenzio. Riconosciuto patriota. Grillini Ferruccio, nato il 4 gennaio 1922 a Monghidoro, da Aristide e Caterina Mezzini; ivi residente nel 1943. Colono. Prestò servizio militare nei carabinieri dal 1942 fino all’8 settembre 1943. Collaborò a Ozzano Emilia con la 4ª brg Venturoli Garibaldi. Riconosciuto benemerito. Gualandi Giorgio, detto Bologna, nato il 26 gennaio 1922 a Monghidoro, da Modesto e Rosa Morandi. Nel 1943 residente a Bologna. Muratore. Arruolato nel 6° rgt genio, l’8 settembre 1943 venne fatto prigioniero dai tedeschi e trasferito nella caserma di via Fossolo a Bologna. I tedeschi gli chiesero di collaborare in qualità di tecnico marconista. Avendo rifiutato, fu deportato in Germania e internato nel campo IV B di Torgau, da dove riuscì a tornare alla fine della guerra. Altri furono i monghidoresi che invece morirono nei campi di concentramento tedeschi: Fuligni Ermete, nato il 27 agosto 1911 a Monghidoro, da Giacomo e Concetta Sacchi; ivi residente a Valgattara. Deportato in Germania dopo l’8 settembre 1943, morì il 23 giugno 1945, in ospedale in Olanda, quando era già stato liberato dalle forze armate alleate.
67
Lorenzi Bruno, nato il 10 settembre 1921 a Monghidoro, da Giuseppe e Giuseppina Lorenzi; ivi residente a Campeggio. Deportato in Germania - Borghan Walser Bloc. 95 - dopo l’8 settembre 1943, vi morì in un incidente ferroviario il 27 gennaio 1944. Massa Giuseppe, nato il 13 luglio 1923 a Monghidoro, da Paolo e Luigia Ghini; ivi residente a Ca’ di Spino. Deportato in Germania dopo l’8 settembre 1944, morì a Rahmel (Danzig - Polonia) il 31 marzo 1945 per ferite riportate durante un bombardamento aereo. Maurizzi Ettore, nato il 24 agosto 1908 a Monghidoro, da Roberto e Stella Marchioni; ivi residente a Ca’ del Costa. Appuntato dei carabinieri fu deportato in Germania dopo l’8 settembre 1944 e morì in campo di concentramento per malattia il 23 gennaio 1945. Naldi Nello, nato il 20 dicembre 1924 a Trieux in Francia (paese dove erano emigrati molti monghidoresi), da Angelo e Amelia Gasperini; residente a Monghidoro nella località di Lognola. Deportato in Germania dopo l’8 settembre 1943 e dichiarato disperso dal 6 gennaio 1945. Nobili Ugo, nato il 7 gennaio 1923 a Monghidoro, da Alberto e Albertina Lenzi. Deportato in Germania, vi morì il 30 marzo 1944. Santi Ferruccio, nato il 2 febbraio 1904 a Monghidoro, da Giuseppe e Ancilla Marchioni. Morì nel campo di concentramento di Fürstenwalde per malattia il 29 luglio 1945.
Nel mese di settembre e nei successivi mesi del 1943, lasciati senza ordini dai comandi militari e catturati dai tedeschi, i nostri soldati, compresi anche gli ufficiali, vennero inviati nei campi di concentramento in Germania, Austria e Polonia, dove non furono trattati secondo gli accordi internazionali sui prigionieri di guerra. Furono costretti a vivere per lunghi mesi in condizioni allucinanti: stipati in baracche in condizioni disumane, sottoposti a lunghe ed estenuanti “conte” all’aperto e a continue angherie, con un’alimentazione quotidiana che consisteva in un litro di acqua e rape, 200 grammi di pane nero e 20 grammi di margarina. A loro venne offerta la possibilità, con un’allettante e capillare opera di propaganda, di aderire alla Repubblica sociale e di rientrare subito
68
in Italia, per continuare la guerra a fianco dei tedeschi. Bastava sottoscrivere questo impegno: “Aderisco all’idea repubblicana dell’Italia repubblicana fascista e mi dichiaro volontariamente pronto a combattere con le armi nel costituendo nuovo esercito italiano del Duce senza riserve, anche sotto il Comando supremo tedesco”. Il 90% dei soldati e il 70% degli ufficiali rifiutarono, anche se per molti di loro forse sarebbe stata l’unica occasione per rientrare in Italia e mettersi così in salvo. Quest’atteggiamento dei vertici tedeschi nei confronti degli italiani fu dovuto certamente alla volontà di punire il presunto tradimento degli italiani e di sfruttare appieno il capitale di manodopera che lo sfacelo dell’esercito italiano, seguito all’8 settembre, aveva messo a disposizione della Germania. I militari prigionieri furono fatti lavorare alla stregua degli altri internati: ebrei, zingari, omosessuali, avversari politici. Per ottenere il massimo dai prigionieri vi fu il ricorso alla violenza fisica e alla decurtazione sistematica delle razioni alimentari, per coloro che non soddisfacevano gli standard produttivi previsti. Gli internati militari in Germania ottennero la qualifica ministeriale di “Volontari della Libertà”, così come i partigiani.
Paganelli Francesco, nato l’8 marzo 1912 a Loiano, chiamato alle armi nel 1933 in fanteria, venne fatto prigioniero dai tedeschi il 19 novembre 1944 e internato con il numero 29783 nel lager Bezeichnung M. - Stammlager XVII A Deutschland. Tornerà a casa il 28 agosto 1945, reso irriconoscibile dagli stenti subiti. Dal campo di concentramento riuscì a scrivere alla moglie Nella Marchetti.
Lagazzi Romolo, nato il 6 marzo 1898 a Monghidoro, da Giuseppe e Augusta Marchioni. Manovale. Iscritto al Pci. Nel 1922 fu condannato a cinque giorni per «lesioni ed ingiurie in danno di un fascista a Monghidoro». Lo stesso anno, per «paura di rappresaglie», come annotò la polizia nella sua pratica, emigrò in Francia, poi nel Lussemburgo dove «frequenta elementi sovversivi». Rientrato a Monghidoro con foglio di via nel 1931, subì controlli.
Non sappiamo di andare quando andiamo. Noi scherziamo nel chiudere la porta: dietro, il Destino mette il catenaccio e non entriamo più. Emily Dickinson, Poesie
I figli di Enrico Lanzarini e Ersilia Marchetti: Antonio, Aurelio e Carlo.
Nell’Archivio comunale di Monghidoro in un quaderno, dove sono trascritti a mano tutti i nomi di quelli che volevano ottenere il passaporto per emigrare, nel 1900 c’è già il nome di Enrico Lanzarini, classe 1881. Per anni egli rinnovò la domanda per ottenere il passaporto, per andare a lavorare in Germania o in Francia con contratti trimestrali fino a quando, nel 1928, si stabilì definitivamente a Forbach (Francia) e decise di farsi raggiungere dalla moglie e dagli otto figli. Tre di loro andarono a combattere in Spagna. Lanzarini Antonio, nato il 28 marzo 1905 a Monghidoro. Emigrato in Francia, ricercato dall’Ovra, passò in Spagna dove si arruolò volontario nella brg
70
Garibaldi. Dal Consolato Generale di Lyon si comunica al ministero dell’Interno nel 1937 che «il Lanzarini Antonio non risulta deceduto in combattimento in Spagna, come in un primo momento si era propalata la notizia in questi ambienti sovversivi. Il di lui fratello Carlo […] arruolatosi anch’egli nelle milizie rosse, ha scritto a compagni di fede, facendo loro conoscere che il Lanzarini Antonio era vivente». Nel 1941 si rivolge al Consolato italiano a Colonia (Germania) per ottenere il passaporto, ma «convocato in questa sede il Lanzarini negava l’accusa rivoltagli: di essersi cioè arruolato nelle truppe rosse in Ispagna. Non avendogli questo R. Consolato Generale concesso il rinnovo del passaporto e volendolo invece munire di un foglio valido per il solo rimpatrio, il Lanzarini si è allontanato per ignota destinazione». Lanzarini Aurelio, nato il 6 dicembre 1903 a Monghidoro. Emigrò in Francia e si stabilì a Lyon. Ricercato dall’Ovra, passò in Spagna il 7 novembre 1936. Venne aggregato alla 12ª brg Garibaldi 4ª Compagnia. Il Consolato di Lyon comunica nel novembre del 1936 al ministero dell’Interno che «il connazionale comunista è partito l’8 corrente per la Spagna per essere incorporato nella divisione internazionale, che combatte a favore del governo di Madrid». Ferito a Guadalajara il 14 marzo 1937, venne ricoverato all’ospedale H Radio dal 16 marzo 1937. L’ultima lettera giunse ai familiari nel giugno del 1937. Tra l’8 e il 25 marzo 1937 il territorio vicino alla città di Guadalajara, particolare posizione strategica distante solo 58 chilometri da Madrid, vide lo scontro tra le forze governative, aiutate dalle Brigate internazionali, e i nazionalisti con il Corpo truppe volontarie italiane, inviate da Mussolini. La battaglia si concluse con il successo dei repubblicani e degli antifascisti che rinviò di molti mesi l’ingresso dei nazionalisti in Madrid. In particolare, proprio il 14 marzo, la 12ª brg Garibaldi, della quale faceva parte Aurelio Lanzarini, ricevette l’ordine di riconquistare una posizione fortificata dai fascisti, dalla quale una postazione di artiglieria sparava in continuazione sulle truppe repubblicane. Dapprima i garibaldini si portarono sotto un muro di cinta, costringendo i nazionalisti a ritirarsi all’interno; respingendo quindi un tentativo di rompere l’accerchiamento, penetrarono nel complesso e ingaggiarono una violenta lotta corpo a corpo. Alla fine i fascisti, circondati e senza via di fuga, si arresero.
Aurelio Lanzarini
Carlo Lanzarini
Lanzarini Carlo, nato il 5 marzo 1911 a Monghidoro. Calzolaio. Iscritto al Pci. Espatriò in Francia nel 1925. «Il Lanzarini fece ritorno in Italia nel 1931 con passaporto che gli venne qui ritirato, essendo il titolare soggetto agli obblighi militari. Sprovvisto di tale documento tentò di emigrare abusivamente in Francia, ma fu arrestato a Bardonecchia, venendo condannato, condizionalmente a mesi 3 di carcere e 2.000 L di ammenda per tentato espatrio clandestino. Rimpatriato a Monghidoro, fu arruolato sotto le armi, per compiere la speciale ferma di sei mesi, ultimata la quale, nel 1932 fece ritorno in Francia. […] si è ritenuto opportuno chiedere la iscrizione di costui nella rubrica di frontiera e nel bollettino delle ricerche».
72
Arruolatosi nell’agosto 1937 partì per la Spagna, appartenne al 2° btg della brg Garibaldi. In altra lettera del 1938 si legge che «con riferimento a precorsa corrispondenza, informo che è stata qui revisionata una lettera diretta alla nota Iride Tassoni, fidanzata del soprascritto comunista con la quale la mittente, che si ritiene sia la madre del Lanzarini Carlo, invita la Tassoni a recarsi in Francia. […] Alla missiva in parola era accluso un foglietto, di cui accludo copia, con il quale il soprascritto, che com’è noto trovasi nella Spagna rossa, informa la fidanzata della sua buona salute». Venne ferito al braccio sinistro il 16 febbraio 1938 a Campillo (Estremadura). Rientrò in Francia nel settembre del 1938.
73
74
Nell’ottobre del 1938, su pressione dei governi europei e poiché la guerra civile spagnola stava volgendo a favore dei ribelli fascisti, il governo spagnolo richiamò dal fronte e sciolse le Brigate internazionali. Il 28 ottobre a Barcellona sfilarono, per la città ormai ridotta allo stremo, le Brigate internazionali, iniziando la loro ritirata verso la Francia. Era un esercito di uomini e donne disarmati, delusi e silenziosi che percorse le strade di Spagna verso la frontiera francese, ma lì giunti furono presi e internati per mesi e spesso per anni in
campi di concentramento. Altri furono rimandati nelle rispettive patrie dove furono perseguitati ed incarcerati, costretti di nuovo all’esilio o deportati nei campi di sterminio tedeschi. Quando la Germania invase la Francia molti combattenti delle Brigate internazionali francesi furono deportati nei lager nazisti e quelli italiani consegnati alla polizia fascista. Nel 1999 il Parlamento spagnolo ha concesso la cittadinanza onoraria ai superstiti delle Brigate internazionali.
Marzo 1939 - Soldati repubblicani spagnoli internati nei campi francesi.
Di tutti i popoli, di tutte le razze, veniste a noi come fratelli, figli della Spagna immortale, e nei giorni più duri della nostra guerra, quando la capitale della Repubblica spagnola era minacciata, foste voi, valorosi compagni delle Brigate internazionali, che contribuiste a salvarla con il vostro entusiasmo combattivo, il vostro eroismo e il vostro spirito di sacrificio. Dolores Ibarruri Discorso per lo scioglimento delle Brigate internazionali
75
Testimonianza di Joseph Lanzarini Registrata a Lyon l’8 novembre 2006
Nel 1953 ho preso la cittadinanza francese e ho cambiato il mio nome: adesso mi chiamo Joseph. Siamo andati via per la miseria che c’era in Italia e anche per colpa di Mussolini, siccome mio padre era contrario al fascismo non trovava mai da lavorare. Mi ricordo di quando si puliva la padella con la polenta, che si lustrava, si lustrava, ma dentro non c’era niente, solo l’odore. Mio padre Enrico e mio fratello Aurelio, il più grande, hanno lavorato a fare la strada nuova, quella che passa sotto il paese e che per anni hanno chiamato proprio così: la stré nova. Mio padre passava anche dalle famiglie a raccogliere il treccino, che le donne facevano per arrotondare il bilancio familiare: per questo lo chiamavano ei merchent. Mia sorella a dieci anni già faceva la serva in paese. Ma la miseria era tanta che lui si decise a partire per la Lorena con i miei fratelli, per lavorare là nelle miniere di ferro. Siamo partiti tutti, che io avevo cinque anni. Eravamo rimasti in otto tra fratelli e sorelle, perché due erano morti da piccoli. Venne con noi anche una zia, aveva trentadue anni e faceva la serva. Io ho preso la nazionalità francese perché sono cresciuto qui, ho fatto la mia vita qui. Ho avuto qui i miei figli e nella mia testa non avevo più il pensiero di tornare in Italia e con i miei figli non ho mai parlato in italiano. Quando sono andato la prima volta a Monghidoro, nel 1963, sono rimasto un po’ sorpreso a vedere la mia casa, dove si abitava, alle Vaiole: era disfatta e nessuno ci aveva più abitato dentro, era quasi una stalla, ma era la casa dove avevo passato i miei primi anni, era sempre la mia casa. La vita per noi stranieri è stata dura: durante la guerra tutti pensavano che eravamo nemici, pensavano che eravamo tutti fascisti. Se poi un italiano rubava eravamo considerati tutti ladri. Non c’era la possibilità di fare le scuole che volevi. Sapevamo parlare solo dialetto, mia madre non sapeva né leggere, né scrivere. Ufficialmente mio fratello Aurelio è morto a Guadalajara. Per alcuni mesi o anni abbiamo ricevuto una
76
specie di pensione dalla repubblica, poi, verso la fine della guerra di Spagna, più niente. Antonio, detto Toni, nel 1929 o nel 1930 era andato nella Legione straniera per cinque anni. Siamo rimasti un periodo senza sue notizie e dopo si è messo a scrivere a casa una volta ogni due, tre mesi, ma io ero bambino e non posso ricordarmi di quelle cose lì. Lui c’era andato perché dopo cinque anni di Legione straniera si poteva prendere la nazionalità francese. Voleva lavorare nelle ferrovie e per forza, per lavorare nelle ferrovie, bisognava essere francesi. Quando è ritornato dalla Legione straniera mi ha regalato un orologio, questo sì che me lo ricordo bene! Poi è andato anche lui a combattere in Spagna. Mi ricordo che mia madre diceva con mia zia: tre figli e tutti e tre là! Carlo in Spagna è stato ferito al braccio, ma non era rimasto invalido, ha sempre lavorato come calzolaio. Alla fine della guerra di Spagna alcuni volontari sono stati catturati, altri sono finiti nei campi di concentramento in Francia, altri rimandati in Italia. Invece mio fratello non si è fatto prendere ed è arrivato qui a Lyon da Barcellona a piedi, era anche ferito, ma lui aveva saputo quello che si passava al confine con la Francia! Lui è rimasto dal 1939 al 1943 nascosto perché, con i suoi precedenti, se lo prendevano lo mandavano in Germania in campo di concentramento. In casa non si parlava mai di tutto questo, ma non era per vergognarsi che non ne parlavano, era per paura; dal 1940, quando siamo stati occupati dalla Germania era pericoloso, non si poteva parlare… e dopo c’era da pensare al lavoro. Un giorno i tedeschi mi hanno preso e mi hanno portato nel loro comando e mi hanno detto perché non venite in Germania da noi, io gli ho detto che ci avrei pensato. Quando sono tornato a casa i miei mi hanno detto: ti mandano di sicuro in un campo di concentramento. Tutti quelli che ci sono andati là in Germania, per paura, per la famiglia o costretti, non sono più tornati. C’era una famiglia di Monghidoro che si chiamava Monari, lui aveva una responsabilità nella Resistenza, faceva parte di un’associazione d’immigrati il Moi (Mano d’opera immigrata), lui aveva
un incarico in questa associazione. Abitava vicino a noi e quando mia madre è morta io ho vissuto due tre giorni in casa da loro, per lasciare passare il tempo del funerale. Lui nel 1943 mi ha detto: se vai a lavorare nell’aeroporto, ci puoi dare delle informazioni. Sono rimasto lÏ un anno collaborando con la Resistenza francese.
Giuseppe Lanzarini nato il 28 agosto 1923 a Monghidoro (Bologna).
Lelli Vito, nato il 17 settembre 1900 a Monghidoro, da Giovanni e Geltrude Minarini; ivi residente nel 1943. Mezzadro. Militò nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi. Riconosciuto partigiano. Nei mesi successivi alla liberazione di Monghidoro fece parte della giunta guidata da Carlo Alpi, per il Pci.
Lelli Adelma, nata il 15 gennaio 1926 a Monghidoro, da Vito e Cesarina Bacci; ivi residente nel 1943. Casalinga. Militò nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi e operò sull’Appennino tosco emiliano. Riconosciuta partigiana. Fu eletta nel 1951 nel Consiglio comunale di Monghidoro, per il Pci. Negli anni seguenti fece parte del Comitato federale di Bologna del Pci e fu mandata in Sicilia per seguire la campagna elettorale regionale. Si sposò e si stabilì là definitivamente.
Adelma Lelli a Firenze con altri sindacalisti monghidoresi.
78
Pagelle del periodo fascista.
79
Testimonianza di Nello Lelli Registrata a Monghidoro il 17 febbraio 2007
Mio padre Vito era una staffetta partigiana, lui si avvaleva di un collaboratore molto importante che si chiamava Benni, era un bolognese che era sfollato a Gragnano. Era un personaggio importantissimo che portava informazioni alle varie componenti della Resistenza partigiana. Mi pare di vederlo ancora, girava in continuazione con un somarino con sopra un sacchetto di granoturco o di biada e faceva finta di essere… di fare un servizio praticamente per chi non poteva andare a macinare al Mulino della Pergola o al mulino sotto al Monte Rocca e lì c’erano persone che gli davano delle informazioni. Alla Torre, dove abitavamo noi, c’era una postazione di punta dei tedeschi, il tempo della guerra in casa mia eravamo in una quarantina, tanti di Monghidoro erano scappati lì, sfollati. Avevamo delle mucche, che dei toscani ce le avevano affidate, quindi avevamo tanto latte e la gente mangiava polenta, latte e pane. Arrivavano le cannonate e io e Bruno, un mio amico sfollato da Bologna, andavamo dentro al buco delle cannonate aspettando la successiva, finché una volta ne cadde una tanto vicina al buco dove eravamo che ci coprì tutti di terra, da allora non ci siamo più andati. Andavamo a divertirci con le bombe! Mia sorella Adelma è stata molto attiva dopo la guerra, nel sindacato, in politica e in altre associazioni di sinistra. Era molto amica della Sabbi di Pianoro. Quando è andata in Sicilia era diventata responsabile dell’Unione donne italiane, ma ebbe una figlia e poi un altro figlio e allora si ritirò dalla vita politica.
Nello Lelli nato il 25 marzo 1932 a Monghidoro (Bologna).
80
Lolli Bruno, soprannominato Moro, nato l’8 ottobre 1925 a Monghidoro, da Ermete e Silvia Nannetti. Nel 1922 la casa paterna era stata incendiata dai fascisti. Nel 1943 è residente a Bologna e lavora come meccanico all’Oare. Militò nel 2° btg Ivo della 36ª brg Bianconcini Garibaldi con funzione di vice commissario di compagnia e operò sull’Appennino tosco emiliano. Fu ferito. Riconosciuto partigiano. Lolli Cesarino, detto Gino, nato il 6 giugno 1920 a Monghidoro, da Riccardo ed Ede Rossi. Nel 1943 residente a Bologna. Militò nella 8ª brg Masia Gl. Morì nell’ospedale militare di Carpi (Modena) il 27 agosto 1944. Riconosciuto partigiano. Lorenzi Orlando, nato il 19 marzo 1916 a Monghidoro, da Gaetano e Teresina Lorenzi. Nel 1943 residente a Bologna. Insegnante. Prestò servizio militare in fanteria con il grado di caporale. Militò nell’8ª brg Masia Gl e operò a Loiano e a Monghidoro. Riconosciuto partigiano. Lorenzini Albertina, nata il 31 maggio 1897 a Monghidoro, da Raffaele e Maria Caselli. Nel 1943 residente a Loiano. Casalinga. Militò nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi. Riconosciuta partigiana.
I figli di Francesco Augusto Lorenzini ed Ersilia Marchetti: Aldo, Francesco e Giuseppe. Ci furono ben 14 morti in questa famiglia!
Lorenzini Aldo, nato il 12 agosto 1912 a Monghidoro. Nel 1943 residente a Marzabotto. Colono. Prestò servizio militare a Modena in artiglieria fino all’8 settembre 1944. Militò poi nel 3° btg della brg Stella rossa Lupo e operò sull’Appennino tosco emiliano, dove fu ferito. Nel corso dell’eccidio di Marzabotto perse la moglie Maria Righini, le figlie Augusta e Marcella, la madre, le sorelle Rita Pia, Maria Luisa e Nerina, le cognate Clementina Bartolini, Antonietta Barbieri ed Edmea Barattoli, i nipoti Agostina, Augusto, Clara, Pietro Lorenzini. Riconosciuto partigiano.
82
Lorenzini Francesco, nato il 10 aprile 1911 a Monghidoro. Nel 1943 residente a Marzabotto. Operaio. Prestò servizio militare dal 1940 fino all’8 settembre 1943, poi militò nella brg Stella rossa Lupo. Nel corso dell’eccidio di Marzabotto perse la moglie Edmea Barattoli, la figlia Clara, la madre, gli altri parenti già citati nella biografia del fratello Aldo. Fu ferito. Riconosciuto partigiano. Lorenzini Giuseppe, nato il 13 febbraio 1910 a Monghidoro. Nel 1943 residente a Marzabotto. Cantoniere. Prestò servizio militare ad Agrigento in fanteria fino al maggio del 1943, in seguito militò nella brg Stella rossa Lupo e operò sull’Appennino tosco emiliano. Della sua famiglia fu l’unico a salvarsi, perché buttatosi da una finestra, si rifugiò in un bosco. Il 29 settembre 1944, all’inizio del massacro di San Giovanni di Sotto, vennero uccisi la moglie Antonietta Barbieri e i figli Augusto e Pietro. A San Martino, il giorno dopo, furono uccisi la madre, le cognate, le nipoti. Impotente, assistette allo sterminio di donne, vecchi e bambini udendo, come dichiarò, “le implorazioni e le grida dei massacrati e anche le urla degli aguzzini fra i quali, pure in divisa tedesca, vi erano degli italiani e li distinsi dalla loro parlata dialettale”. Rimasto nella zona diede “sepoltura provvisoria” ai suoi morti; poi, unitosi agli altri scampati, nonostante il pericolo di essere massacrato per il continuo passaggio dei tedeschi, seppellì gli altri morti “impiegando due giorni” tra “spari e raffiche e il fumo degli incendi”. Riconosciuto partigiano, come il fratello Giacomo che, nato il 10 maggio 1915 a Loiano, prestò servizio militare a Verona in artiglieria fino al 1943 per poi militare nella brg Stella rossa Lupo, rimanendo ferito. Nel corso dell’eccidio di Marzabotto, anche lui perse la moglie Clementina Bartolini la figlia Agostina, oltre agli altri parenti già citati nelle biografie dei fratelli Aldo e Francesco. Lorenzini Alfonso, nato il 19 novembre 1901 a Monghidoro, da Augusto e Adele Nanni; ivi residente nel 1943. Operaio. Militò nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi e operò a Casoni di Romagna (Casalfiumanse). Riconosciuto partigiano.
I figli di Raffaele Lorenzini e Maria Diamante Gnesini: Domenico e Quirico.
Lorenzini Domenico, nato il 1° novembre 1898, a Monghidoro. Nel 1943 residente a Monterenzio. Colono. Militò nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi e operò a Casoni di Romagna (Casalfiumanese). Riconosciuto partigiano. Lorenzini Quirico, nato il 29 aprile 1886, a Monghidoro. Nel 1943 residente a Casalfiumanese. Colono. Militò nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi. Cadde in
uno scontro con i tedeschi il 28 agosto 1944 in località Casoni di Romagna (Casalfiumanese). Riconosciuto partigiano. Lorenzini Francesco, nato il 23 aprile 1917 a Monghidoro, da Aurelio e Luigia Verlani; ivi residente. Colono. Dal 1938 militare nei territori greci e albanesi, fu fatto prigioniero dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943. Riuscì a scappare dopo più di un anno e a raggiungere le formazioni partigiane, partecipando alla lotta di Liberazione in Jugoslavia. Militò nella brg Italia della div Garibaldi. Riconosciuto partigiano.
83
Testimonianza di Francesco Lorenzini Registrata a Ca’ di Morandi (Monghidoro) il 10 gennaio 2007 Ho fatto otto anni di vita militare, non sono mica pochi. Ho passato tutta la mia gioventù lì. Prima a Udine, poi a Merano, dopo siamo andati in Albania e poi in Grecia. Ho fatto cinque anni in Grecia, senza venire mai a casa. I tedeschi mi hanno fatto prigioniero in Grecia e poi mi hanno portato in Jugoslavia. Vicino al campo di concentramento passava sempre un pastore con tre o quattro pecore e ci diceva di andare con i partigiani, ci siamo fatti coraggio e allora siamo scappati in 54. Io ero a Bagnaluca con i soldati di Tito. Si dormiva nelle tende, nei boschi e da mangiare… c’erano delle donne che ci portavano da mangiare. Quando sono tornato a casa sono andato contadino a Stiolo sotto a Naldi Ebe. La miseria era sempre quella di prima della guerra. Poi mi sono sposato e dopo è andata un po’ meglio. Passavo sempre da qua e un giorno mi sono fermato e ho detto che volevo un bicchiere di acqua, perché avevo già adocchiato una delle figlie: lei, Amelia. Ho detto scherzando con sua mamma: avete proprio delle belle ragazoli, ne avete una anche per me? Av la dag me! Un giorno a prendere l’acqua ho chiesto proprio a lei, che era la più grande, se veniva alla festa di Vergiano per San Mamante e poi le ho detto se vuoi ti accompagno a casa. Lei adesso quando si arrabbia dice: azidént a te e a San Mamante! Quando è di buonumore no, ma quando la faccio arrabbiare sapessi quanti accidenti prende quel povero San Mamante. Pensa che quando sono arrivato in Albania ho trovato suo fratello Renato, che dopo ci siamo ritrovati anche in Grecia.
84
Fancesco Lorenzini nato il 23 aprile 1917 a Monghidoro (Bologna).
In Grecia, oltre a quelli già citati, combatterono e trovarono la morte questi monghidoresi:
1943 residente a Bologna. Operaio. Riconosciuto benemerito.
Mazzetti Alfredo, nato il 23 giugno 1911 a Monghidoro a Ca’ di Dino, da Augusto e Elisa Monti; residente a Bologna. Morì per ferite riportate nel combattimento per conquistare i monti Chiarista e Fratrarit il 28 dicembre 1940.
Manfredi Giuseppe, nato il 31 luglio 1897 a Monghidoro, da Domenico e Rosa Naldi. Nel 1943 residente a Pianoro. Colono. Militò nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi e operò sull’Appennino tosco emiliano. Riconosciuto partigiano.
Santi Armando, nato il 21 luglio 1909 a Monghidoro, da Amato e Maria Agnese Gironi; ivi residente a Ca’ di Brescandoli. Carabiniere. Morì in un incidente ferroviario vicino alle cittadine di Lamia e Domokos il 2 giugno 1943. Monti Carlo, nato il 5 settembre 1915 a Monghidoro, da Angiolino e Maria Naldi; ivi residente a Ca’ di Lucca. Morì in un ospedale da campo, per ferite riportate in combattimento, per lo scoppio di una bomba a mano, l’11 aprile 1943 e fu sepolto nel cimitero dell’isola di Creta. Rossetti Mario, nato il 28 gennaio 1917 a Monghidoro, da Armando e Teresa Salomoni; residente a Molinella. Dichiarato disperso a Cefalonia il 23 settembre 1943. Macchiavelli Domenico, nato il 5 ottobre 1925 a Monghidoro, da Antonio e Daria Volta. Nel 1943 residente a Monzuno. Militò nella brg Stella rossa Lupo e operò sull’Appennino tosco emiliano. Riconosciuto partigiano.
I figli di Gualtiero Macchiavelli e Cristina Giorgi: Francesco e Primo.
Macchiavelli Francesco, nato il 19 marzo 1928 a Monghidoro. Nel 1943 residente a Loiano. Colono. Militò nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi e operò a Castelnuovo (Monterenzio). Riconosciuto partigiano. Macchiavelli Primo, nato il 24 febbraio 1927 a Monghidoro. Nel 1943 residente a Loiano. Colono. Militò nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi e operò a Monterenzio. Riconosciuto partigiano. Macchiavelli Pio, nato il 7 giugno 1904 a Monghidoro, da Giuseppe ed Ersilia Monti. Colono. Nel
86
I figli di Federico Marchioni e Maria Caterina Macchiavelli: Emilio Giuseppe e Enrico Francesco.
*Marchioni Emilio Giuseppe, nato il 18 settembre 1897 a Monghidoro. Socialista. Emigrato a Trieux in Francia nel 1923, come risulta «dal riservato controllo della corrispondenza […]. In patria simpatizzava per il partito socialista, ma senza esservi iscritto o svolgervi propaganda degna di nota. Già espatriato una prima volta è rientrato successivamente in Italia, fu costretto nuovamente a riespatriare senza far più ritorno in patria appunto per le sue idee comuniste». L’ultima annotazione nel suo fascicolo è del gennaio 1941. *Marchioni Enrico Francesco, nato il 18 settembre 1895 a Monghidoro. Emigrato clandestinamente e schedato come «fuoriuscito politico espatriato perché di sentimenti contrari al fascismo e fervente propagandista comunista. Durante la sua permanenza a Monghidoro era un fervente propagandista comunista e capo lega tanto che nel 1922 fu costretto ad espatriare clandestinamente per la Francia ove risulta vi ha morto il padre e un fratello». Risiedette in Francia, dove erano emigrati anche il fratello Emilio e la sorella Ersilia, in seguito emigrò in Belgio e in Lussemburgo. L’ultima annotazione nel suo fascicolo è del 1944, quando richiede il passaporto con la moglie Maria Lorenzini, per rientrare in patria. L’emigrazione clandestina, tanto enfatizzata oggi da certi politici che vogliono creare insicurezza, paura, rifiuto dell’immigrato, soprattutto se africano, ha visto coinvolti anche noi italiani, come si può dedurre da questa e da altre biografie qui riportate, ma non solo durante gli anni del fascismo e tra le due guerre mondiali. Secondo il ministero degli Esteri francese, tra il 1945 e il 1960, oltre il 50% dei lavoratori italiani emigrati in Francia era rappresentato
da clandestini, mentre il 90% dei familiari, che li raggiunsero in un secondo tempo, emigrò illegalmente. Molte furono le persone che morirono per assideramento nell’attraversare le Alpi. Moltissimi furono gli italiani che arrivarono anche in America da clandestini su navi mercantili; era un fenomeno così diffuso che se ne occuparono anche scrittori come Arthur Miller, con il suo dramma teatrale del 1955 Uno sguardo dal ponte, e John Steinbeck nel romanzo del 1961 L’inverno del nostro scontento.
Marchioni Italo, nato il 5 giugno 1923 a Monghidoro, da Amilcare e Augusta Rocca; ivi residente nel 1943. Operaio. Prese parte alla lotta di Liberazione in Jugoslavia, militando nella div Italia. Riconosciuto partigiano.
I figli di Cesare Marieloni e Maria Olimpia Monti: Fernando, Giuseppe e Odoardo.
Marieloni Fernando, nato il 29 gennaio 1901 a Monghidoro. Facchino. Nel 1921 fu condannato a 5 mesi di reclusione per essere stato uno dei dirigenti comunali durante lo sciopero agrario del 1920. Segnalato dalla polizia, venne vigilato per tutto il ventennio fascista. Emigrato in Francia nel 1923, rientrò in patria nel 1930. Nel 1941 nella sua pratica fu annotato che
Fernando Marieloni
«non ha fornito finora alcuna prova sicura e concreta di ravvedimento». Marieloni Giuseppe, nato il 4 marzo 1903 a Monghidoro. Nel 1943 residente a Loiano. Ambulante. Fu attivo nella brg Stella rossa Lupo. Riconosciuto patriota. Marieloni Odoardo, nato il 14 settembre 1891 a Monghidoro. Iscritto al Pci. Emigrato in Lussemburgo nel 1923, dove frequenta «elementi ed ambienti sovversivi» rientra nel 1931. Nel 1932, mentre si trovava in un’osteria in preda ai fumi del vino, espresse vivaci critiche nei confronti di un avventore che esibiva la “cimice”, il distintivo fascista, all’occhiello della giacca. Fu arrestato e ammonito. Per essersi sottratto ai doveri dell’ammonizione, poiché nell’estate 1933, durante un controllo, non fu trovato in casa dopo le ore 24, fu arrestato e condannato a 4 mesi. Nel 1934 ebbe altri 6 mesi, per non avere nuovamente osservato gli obblighi dell’ammonizione. Liberato, fu arrestato di nuovo dopo pochi giorni e condannato a 30 giorni per essersi rifiutato di risiedere a Monghidoro, volendo trasferirsi a Bologna. Nella sua pratica, nel 1941, fu annotato che «non ha dato finora alcuna prova sicura e concreta di ravvedimento».
Odoardo Marieloni
87
Marzadori Vito Augusto, nato il 10 giugno 1889 a Monghidoro, da Giovanni e Cleonice Manzoni. Operaio. Nel 1899 emigrò con il padre e i fratelli in Germania, per poi tornare in patria nel 1920. In successive emigrazioni per lavoro fu in Germania, Francia e Lussemburgo. Nel 1931, mentre si trovava nel Lussemburgo, venne espulso «per aver preso parte a una riunione comunista in un bosco sulla frontiera franco lussemburghese» e per la sua attività politica antifascista. Trasferitosi in Francia, nel 1932 fu espulso anche da questa nazione, sempre per motivi politici. Tornato in Italia, venne vigilato dalla polizia. I suoi fratelli: Emilio, Giuseppe e Armando, tutti nati a Monghidoro e residenti in Francia «non hanno precedenti politici, ma sono state richieste informazioni». *Marzi Emilio, nato il 22 luglio 1896 a Monghidoro, in località Fradusto, da Liberato e Angela Polazzi. Venne arrestato con Romano Calzolari «per tentativo di emigrazione clandestina il 20 settembre 1928». Continuò ad essere controllato in quanto risultava «di dubbia condotta politica, perché nel periodo rosso simpatizzò per il partito socialista». Risulta emigrato comunque in Francia a Toulouse e poi a Parigi.
L’antifascista, una volta schedato, non veniva più perso di vista dagli organi di polizia. Il controllo veniva esercitato per conoscere abitudini, frequentazioni, attività e per assicurarsi della sua permanenza nel comune di residenza. In caso di allontanamento o scomparsa veniva subito allertata la Polizia di frontiera e venivano eseguite ricerche, con perquisizioni presso le famiglie di parenti e amici. Se risultava emigrato ne venivano controllate le mosse anche da lontano, avvalendosi dei funzionari di Ps distaccati presso le sedi diplomatiche, o dei fiduciari dell’Ovra, o della Polizia politica (Polpot), attiva soprattutto all’estero. Spesso le autorità di polizia dei paesi ospitanti erano invitate ad intervenire nei loro confronti, con perquisizioni e arresti. Ecco perché in molte di queste biografie ricorre la frase “viene controllato”.
88
Mazzanti Giulio, nato il 12 luglio 1911 a Monghidoro, da Federico ed Ersilia Paolini. Nel 1943 residente a Loiano. Colono. Militò nel 1° btg della 62ª brg Camicie rosse Garibaldi e operò a Monterenzio. Riconosciuto partigiano.
I figli di Gioacchino Raffaele Menetti ed Ernesta Bonafè: Edoardo ed Enrico.
Menetti Edoardo, detto Bulagna, nato il 30 maggio 1926 a Monghidoro. Nel 1943 residente a Bologna. Meccanico. Renitente alla leva, si recò in montagna ed entrò a far parte delle formazioni partigiane modenesi. Operò a Montefiorino (Modena). Successivamente entrò a far parte della 63ª brg Bolero Garibaldi. In vista dell’insurrezione di Bologna venne trasportato con sette compagni a bordo di un camioncino nella base dell’ospedale Maggiore. Passò poi alla 7ª brg Gap Gianni Garibaldi. Partecipò alla battaglia di Porta Lame del 7 novembre 1944, già citata nella biografia di Diano Casoni. Riconosciuto partigiano con il grado di sottotenente. Menetti Enrico, nato il 24 giugno 1924 a Monghidoro. Nel 1943 residente a Bologna. Meccanico. Fu attivo nella 6ª brg Giacomo. Riconosciuto patriota. Menichetti Aldo, nato il 6 settembre 1896 a Monghidoro, da Angelo e Giuditta Santi. Nel 1943 residente a Monterenzio. Militò nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi e operò ai Casoni di Romagna (Casalfiumanese). Riconosciuto partigiano. Menichetti Giacinto Olindo, nato il 18 luglio 1923 a Monghidoro, da Amilcare e Giuseppina Rossetti. Nel 1943 residente a Bologna. Meccanico. Militò nel btg Libero della 36ª brg Bianconcini Garibaldi e operò sull’Appennino tosco emiliano. Riconosciuto partigiano. Mezzini Cesare, nato l’8 gennaio 1914 a Monghidoro, da Calisto e Giuseppina Macchiavelli. Nel 1943 residente a Loiano. Coltivatore diretto. Fu attivo nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi e operò a Monghidoro.
Nella sua casa, prima della liberazione di Loiano, fu ospitato un gruppo di soldati russi. Riconosciuto patriota. Era cugino dei fratelli Antonio, Aurelio e Carlo Lanzarini volontari nella guerra di Spagna. Fu sindaco di Loiano dal 1960 al 1975. Milani Antonio, nato il 7 novembre 1910 a Monghidoro, da Vittorio e Livia Poli; ivi residente nel 1943. Operaio. Prese parte alla lotta di Liberazione in Albania, militando nella 3ª brg Albanese della div Gramsci. Riconosciuto partigiano.
I figli di Domenico Antonio Milani e Olimpia Mascherini: Domenico e Giuseppe.
Milani Domenico, nato il 14 agosto 1884 a Monghidoro. Muratore. Iscritto al Psi. Espatriato in Francia dal 1930 al 1933 dove «frequentò ambienti politicamente infetti e notoriamente nemici dell’Italia Fascista». Nel 1938 fu arrestato, perché «in un’osteria, in frazione di Piamaggio di Monghidoro, dopo aver abbondantemente bevuto, si era messo a cantare l’inno socialista “bandiera rossa” alla presenza di vari avventori. Nonostante i ripetuti inviti a tacere, rivoltigli dagli astanti, continuò imperterrito nel suo canto sovversivo, e tacque soltanto quando ebbe terminato tutto l’inno». Dopo un mese fu liberato e ammonito. In seguito fu sottoposto ad attenti controlli di polizia, l’ultimo dei quali è annotato nel 1942.
89
*Milani Giuseppe, nato il 23 settembre 1890 a Monghidoro. Nel 1930 espatriò in Francia, ma venne arrestato nel giugno dello stesso anno insieme alla nipote Giuseppina Milani e «alla di lui amante Olimpia Farini per favoreggiamento in tentativo di espatrio abusivo» in quanto «il Milani munito di regolare passaporto […] era venuto appositamente a Modane per tentare di far passare la famiglia attraverso il Moncenisio […]. Durante il periodo rosso, era iscritto al partito socialista e come tale prese parte a tutte le manifestazioni sovversive indette dal partito, dimostrandosi un attivo gregario». Tutti e tre vennero condannati a un anno di reclusione e al pagamento di un’ammenda. Nel 1932 rientrò in Italia «unitamente all’amante Olimpia Farini» stabilendosi a Monghidoro e «traendo i mezzi di sussistenza dal proprio lavoro di mugnaio. Non avendo, però, dato prova concreta di ravvedimento è ritenuto tuttora di idee sovversive e, pertanto, viene attentamente vigilato».
90
Milani Egidio, nato il 28 giugno 1912 a Monghidoro, da Demetrio e Clementina Farini; ivi residente nel 1943. Manovale edile. Militò nella div Italia e operò in Jugoslavia. Riconosciuto partigiano. Minarini Federico, nato il 2 agosto 1914 a Monghidoro, da Leonardo e Mansueta Tattini. Nel 1943 residente a Pianoro. Bracciante. Prestò servizio militare nei mitraglieri in Albania dal 1940 fino all’8 settembre 1943 con il grado di caporale maggiore. Prese parte alla lotta di Liberazione in Jugoslavia. Militò nella 3ª brg della div Garibaldi e operò nel Montenegro come caposquadra. Fatto prigioniero, venne internato in campo di concentramento a Belgrado dal marzo 1944 al marzo del 1945. Riconosciuto partigiano. Monari Giuseppe, nato il 7 giugno 1913 a Monghidoro, da Giuseppe e Maria Mazzini. Autista. Iscritto al Pci. Nel 1924 emigrò in Francia con la madre per raggiungere gli altri familiari. Nel 1936 il console italiano comunicò al ministero dell’Interno che frequentava manifestazioni antifasciste e aveva scritto lettere con critiche al regime. Infatti in una sua lettera, censurata e trascritta dalla Polizia, nel 1939 scrive alla cugina Assunta Lagazzi: «Non credere a tutto quello che dicono i giornali che qua c’è la rivoluzione e che si è affamati, non vi è nulla di vero. Noi si sa tutto dell’Italia e ci meravigliamo come il popolo italiano possa sopportare tanta miseria a causa delle guerre. A forza di mandare uomini da per tutto e specie in Ispagna, non
ce ne resterà più. Avrei ancora molte cose da dirti, ma ho paura di comprometterti». Nei suoi confronti fu emesso un mandato di cattura, qualora fosse rientrato in Italia. Nel 1941, quando si presentò alla frontiera per rimpatriare, fu arrestato e al suo rilascio diffidato. Si stabilì poi con la moglie a San Giusto Canavese (Torino). *Monari Romeo, nato il 28 aprile 1892 a Monghidoro, da Marcello e Marianna Cattani. Emigrato in Francia nel 1923. Comunista. Coniugato con Carolina Mazzini, nata a Monghidoro. Zio di Giuseppe Monari. Dal Consolato italiano di Lyon nel 1936 si comunica al ministero dell’Interno che «si è iscritto al partito comunista e attualmente svolge propaganda, prendendo parte assidua alle riunioni sovversive e manifestazioni contro il Fascismo». Molto probabilmente è lo stesso Monari citato nella testimonianza di Joseph Lanzarini, fratello di Antonio, Aurelio e Carlo, volontari nella guerra di Spagna. I consoli italiani rispondevano regolarmente alle richieste d’informazioni sui nostri emigranti, inoltrate dalle Regie Prefetture italiane, fornendo notizie “sulla loro condotta politica” ricevute in genere da informatori, pure loro italiani, pagati per questo incarico e che frequentavano gli stessi ambienti dei nostri “sovversivi”. Va sottolineato che questi consoli alla fine della guerra, dopo un breve periodo, durante il quale solo alcuni vennero sospesi dai loro incarichi, furono tutti di nuovo assegnati alle loro sedi.
91
92
Montanari Luigi, nato il 27 novembre 1900 a Fontanelice (Bologna), da Antonio e Aldina Giacometti. Commerciante in mobili. PiĂš volte ammonito, nel 1943 fu arrestato per attivitĂ antifascista. Fu scarcerato dopo poche settimane e ammonito nuovamente. Nel 1947 si trasferĂŹ con la famiglia a Monghidoro.
93
Testimonianza di Arrigo Montanari Registrata a Monghidoro il 1° luglio 2008
Questi sono i documenti, gli unici purtroppo che mi sono rimasti. È il libretto di mio padre del periodo del fascismo, perché mio padre si doveva presentare tutti i giorni in caserma, a Fontanelice dove abitavamo quando, per motivi di lavoro, doveva spostarsi da un paese all’altro. La mattina che partiva andava in caserma per avere l’autorizzazione per uscire dal paese e i carabinieri scrivevano “ho visto partire” e poi “l’ho visto arrivare”, era insomma un sorvegliato speciale e nello stesso tempo, quando c’era qualche personalità di spicco che arrivava nella zona, lui e gli altri antifascisti venivano presi per motivi di sicurezza e per qualche giorno venivano tenuti sotto controllo o in caserma o giù alla Dozza di Imola, dove c’era il carcere. Questo libretto comincia il 6 marzo 1943 e finisce con l’ultima data del 4 agosto del 1943. Nei primi giorni di luglio del 1944 ci fu un bombardamento a Fontanelice che rase al suolo mezzo paese; scappammo via, come tutti gli altri abitanti. Rimasero lì solo sette o otto persone, tipo il parroco e mia nonna: chi per attaccamento alla propria casa, chi per altri motivi. Da lì ci trasferimmo da un podere a un altro, da un rifugio a un altro, traversando campi minati, quindi fino all’ottobre del 1944 sempre accampati come degli zingari. Attraversando questi campi minati riuscimmo ad arrivare sopra Castel del Rio, lì ci presero in consegna gli inglesi e ci portarono in un campo per sfollati a Vico del Mugello, dove mio padre conosceva il Lisi, il vecchio Alfredo Lisi quello dell’olio, quando si presentò a casa sua si misero a piangere tutti e due. Lui era già in una zona occupata dalle truppe alleate e andammo a stare da loro. Stemmo lì circa un mese e per le feste di Natale mio padre riuscì a venire a Monghidoro. Andò in comune che c’era come sindaco Alpi, con il quale era amicissimo, si presentò dandogli del tu, allora Alpi gli disse: dalla voce so che ti conosco, ma mi devi dire chi sei. Non l’aveva riconosciuto dal tanto che era messo male, per tutto quello che aveva passato. A quel punto mio padre gli disse che voleva venire a Monghidoro, perché qui aveva dei conoscenti. Alpi gli trovò un muratore e mio padre cominciò a lavorare: gli aveva dato una stanza nell’asilo parrocchiale dove
94
c’erano le suore. Mio padre sapeva fare anche il vetraio oltre che il falegname, aveva sempre dietro anche il diamante per tagliare i vetri, allora con questo muratore ricoprirono il tetto dell’asilo, poi con dei teli militari tutte quelle finestre che erano sventrate; insomma in sette, otto giorni riuscì a rappezzare una stanza per noi e anche quelle dove vivevano le suore, con dei compensati e con i vetri che aveva smontato dai quadri dei santi, riuscì a chiudere un po’ alla meglio alcune stanze e finalmente ci venne a prendere, e per noi fu la resurrezione praticamente. Io avevo delle mani… che ho ancora delle cicatrici, qui nelle mani dal freddo, dai geloni, dalla fame e mi prese a ben volere questo ufficiale americano De Luca, che poi è diventato cittadino onorario di Monghidoro. Allora gli invalidi, gli infermi, gli ammalati li portavano all’ospedale di Firenze, perché nell’ospedale militare che c’era qui non potevano andarci i civili. Mio padre gli disse che non voleva mandarmi là, così questo ufficiale mi prese e mi portò all’ospedale militare, giù dal pilastrino di là dai Castelletti e lì mi fecero delle cure che mi rimisero in piedi e io da allora non ho mai più avuto niente, chissà che medicine mi diedero! Nelle mani e nei piedi ero tutto una piaga per denutrizione. La mia famiglia non ha perso nessuno, sai laggiù c’erano delle persone nel dopoguerra con il nastrino nero, con sei, sette stellette: una per ogni morto. E con tutto quello che abbiamo passato con il fascismo c’è della gente che parla ancora di certe cose! Prima della guerra non parliamo delle umiliazioni, delle privazioni, delle angherie che la mia famiglia ha subito: mia madre che era maestra la trasferirono, perché aveva sposato un antifascista, in un posto là fuori mano e lei, che aveva già due figli dovette rinunciare al posto perché per raggiungere la scuola doveva passare su una passerella e un giorno che c’era il ghiaccio, lei cadde giù si fece male e abortì. Mio padre disse: basta io non mi piego, ma non voglio che tu ci rimetta la vita! Se uno era un antifascista si doveva umiliare per poter sopravvivere, quindi io capisco molte persone
che qui nelle nostre zone hanno dovuto subire e cedere e posso anche capire, anche se non condivido, quelli che, dopo aver avuto quello che hanno avuto, si sono buttati con cattiveria a far pagare con l’odio quello che avevano subito. Una volta mio padre diede del matto e del delinquente a Mussolini… andò così: lui era sul trenino di Fontanelice e c’era ’sta donna che piangeva, perché suo figlio andava sotto le armi e a mio padre gli venne da dire una delle sue: bisognerebbe mandarci quel porco di Hitler al fronte con quell’altro somaro di Mussolini. Durante la notte sfondarono l’uscio di casa e mi svegliai anch’io che c’era la casa piena di camicie nere e mia madre che piangeva, poi lo portarono a San Giovanni in Monte a Bologna con altri cinque o sei di Fontanelice. Quella volta uscì grazie a un cugino di mio padre che era tenete della milizia a Imola, che intervenne e sotto la sua responsabilità firmò. Mia madre viveva questa situazione con rassegnazione, era molto convinta anche lei, subiva in silenzio tutte le conseguenze che nascevano da queste intemperanze di mio padre, da queste sue manifestazioni di antifascismo.
Arrigo Montanari nato il 19 dicembre 1938 a Fontanelice (Bologna).
Testimonianza di Maria Luisa Montanari Registrata a Monghidoro il 14 novembre 2008
La prima volta che mio padre è stato arrestato deve essere stato circa nel 1931, perché avevano trovato dei manifestini sovversivi e andarono a prendere subito mio padre con altri e li misero dentro. Mia mamma per Natale mi portò là in prigione, ma io non lo riconoscevo e quando lui mi prese in braccio mi misi a piangere. Questa è stata la prima volta, lui ha sempre detto apertamente quello che pensava, poveretto il suo gran difetto era quello lì. La seconda volta fu sul treno che gli scappò detto una frase contro Mussolini e la terza volta invece fu perché aiutò dei finti partigiani. Lui era in un bar di Fontana e il proprietario, che era un antifascista anche lui, gli dice: Gigin vieni a sentir qui che sti ragazzi hanno una gran fam e vogliono sapere dove si trovano i partigiani. Dei partigiani non vi so dire niente, però se avete fame vi porto da mangiare io. Noi stavamo bene, noi avevamo un podere, non avevamo dei problemi, allora gli portò del pane, del formaggio, tutto quello che poteva, invece erano dei falsi partigiani. Lo denunciarono e lo misero dentro e quella volta lì doveva andare in Germania. Eravamo nel 1943. Lì intervenne un’altra volta un mio zio, che era un fascista, solo che era già la terza volta e quando mia madre andò da lui, si arrabbiò dicendo che era da incoscienti dare da mangiare a dei partigiani. Solo che mia madre, dai che te dai, lo convinse e lo fece tirare fuori. Una volta mio padre disse a questo cugino, che si chiamava Mirio, vieni via, che lui era reggente di Fontana, non vedi che va tutto a catafascio, si vedeva già la malaparata, vieni via che faccio io in modo di presentarti ai partigiani, ma lui gli rispose se tu non fossi mio cugino ti ammazzerei. Allora bastava essere antifascisti per essere tutti classificati comunisti. Per lui Mussolini era un prepotente. Quando costruirono la nuova casa del Fascio a Fontanelice, per vedere di attirarlo, gli diedero da fare tutte le finestre e le porte, così dopo loro dicevano: gli abbiamo fatto fare tutto, ma non è contato niente. Dalla sua parte suo zio e i suoi cugini erano tutti fascisti. Mio babbo quando veniva a Monghidoro andava
96
sempre da Calzolari, il Barberin, a sfogarsi, erano grandi amici anche perché mio babbo gli portava il vino dalla Romagna. C’era una grande amicizia, ma quando siamo tornati su era già successo tutto, l’avevano ammazzato, poveretto. Nel periodo che eravamo sfollati qua c’era sindaco Alpi, che era un grande amico di mio padre, voleva che mia mamma rifacesse la maestra: ci penso io diceva, ma mio padre un po’ aveva bisogno che lei gli tenesse dietro tutti i suoi affari e un po’ diceva che sembrava che lo facesse per fargli un piacere, così lei non accettò.
Maria Luisa Montanari con il padre Luigi e il marito Corrado Lanzoni.
Maria Luisa Montanari nata l’8 luglio 1930 a Fontanelice (Bologna).
Musolesi Emilio, nato l’8 aprile 1882 a Monghidoro, da Angelo e Claudia Labanti. Nel 1943 residente a Monzuno. Minatore e poi operaio. Costretto a emigrare, fino al 1932 lavorò in Germania come minatore. Rientrato a Monzuno, lavorò come operaio e si trasferì a Ca’ Veneziani di Vado (Monzuno) diventata, dopo l’8 settembre 1943, la base del gruppo di partigiani che i figli Guido e Mario stavano organizzando nella zona e che poi confluì nella brg Stella rossa Lupo, nella quale militò insieme con i figli e le figlie Anna Maria, Bruna, Laura e Olga. Nel maggio 1944, a seguito dell’arresto del figlio Guido da parte dei fascisti, venne prelevato insieme con la moglie dalla propria abitazione, che fu incendiata. Condotto a Bologna fu torturato, ma non parlò. Venne rilasciato il 31 luglio 1944 per intervento del figlio Mario, il famoso Lupo, che in cambio della sua scarcerazione decise di riconsegnare cinque fascisti di Monzuno, catturati nel giugno 1944. Riconosciuto partigiano.
Mario Musolesi, Lupo.
98
Mario Musolesi, soprannominato dai familiari fin da piccolo Lupo, era nato a Vado di Monzuno nel 1914. Durante la seconda guerra mondiale, quello che sarebbe diventato il leggendario “comandante Lupo”, si trovò a combattere come soldato carrista in Africa settentrionale. Catturato dagli inglesi, riuscì ad evadere e a tornare al suo reparto dopo tre giorni di marcia. Ferito, fu poi rimpatriato. L’armistizio lo colse a Roma, dove partecipò ai combattimenti di Porta San Paolo, contro i tedeschi. Tornato a Vado organizzò, con il fratello e una sorella, i primi gruppi di partigiani, che nel febbraio del 1944 avrebbero costituito la brigata Stella rossa. La chiamò così pur dichiarandosi rigorosamente apolitico. Per otto mesi la brigata, alla quale aderirono giovani dei comuni vicini, condusse audacissimi attacchi contro i presìdi nazifascisti e contro i convogli degli occupanti, con frequentissimi assalti ai treni lungo la linea Bologna - Firenze. Ogni azione era programmata e diretta personalmente da Lupo, sul cui capo i fascisti finirono per mettere, senza alcun risultato, una taglia di un milione di lire di allora. Quando, nel settembre del 1944, le armate tedesche ripiegarono verso nord, per attestarsi sulla Linea gotica, dovettero affrontare il problema della Stella rossa e del suo comandante. Lo fecero alla grande, impegnando numerose unità di Ss, tra cui due reggimenti della Divisione Adolf Hitler, comandati dal maggiore Walter Reder, paracadutisti della Goering e italiani delle Brigate nere con artiglieria, carri armati e lanciafiamme. Per quattro giorni Lupo e i suoi, che si erano sparpagliati nella zona, riuscirono a contrastare l’attacco tedesco. Complessivamente la Stella rossa lasciò sul terreno 226 combattenti, compreso il loro comandante, medaglia d’Oro al Valor Militare alla memoria. Sulla sua morte per anni furono avanzate diverse ipotesi, ma la sentenza del Tribunale militare di La Spezia, che il 13 gennaio 2007 ha condannato all’ergastolo dieci Ss per la più grande strage di civili lungo la Linea gotica, ha chiarito definitivamente come si svolsero i tragici fatti che portarono alla morte del comandante Lupo. Mario Musolesi, è spiegato in alcune delle 195 pagine allegate alla sentenza del Tribunale militare, non fu ucciso da uno dei partigiani della Stella rossa, come narrato ad esempio da don Dario Zanini nel saggio Marzabotto e dintorni, ma cadde il 29 settembre 1944, il primo giorno della strage, in un conflitto a fuoco con il portaordini di Josef Baumann, uno dei dieci condannati all’ergastolo. Lo stesso Baumann riportava l’episodio in un suo libro di memorie, dal titolo Allo stesso passo, e lo aveva anche confermato al processo a Walter Reder, tenutosi a Bologna nel 1951. In quell’occasione aveva infatti raccontato di essere stato lui a riferire che un suo soldato aveva ammazzato Lupo.
Testimonianza di Nello Lelli - p. 80 Lupo aveva dei contatti con mio padre direttamente, è venuto parecchie volte a casa nostra, ma dopo quel rastrellamento che c’era stato qui, mio babbo gli disse: non venire più, perché qui siamo già nel mirino, se c’è qualcosa te lo faccio sapere. Così Lupo non è mai più venuto. Mi ricordo che veniva la mattina presto, presto; una volta che era ancora buio sento: bum, bum. Andai ad aprire io e mi vedo davanti due persone, uno armato fin ai denti e con delle bombe a mano, che sembrava uno di quei film di Rambo. Mio babbo si alzò e io tornai a letto, ma poi gli chiesi: chi el cl’omen lé, e lui mi rispose che era Lupo. Mio babbo me ne ha sempre detto tanto bene, che era una persona giusta che non ammetteva nel suo manipolo di partigiani dei delinquenti, di quelli che se ne approfittavano.
Musolesi Otello, nato l’11 agosto 1920 a Bologna, da Paolino ed Ester Ghedini; ivi residente nel 1943. Laureando in Chimica farmaceutica all’Università di Bologna. Richiamato alle armi, frequentò prima un corso di sergente carrista e successivamente un corso per allievi ufficiali. Essendo laureando, ottenne il congedo illimitato. Dopo l’8 settembre 1943 la sua famiglia si trasferì a Monzuno. Ancora studente, ebbe i primi contatti indiretti con una cellula del Pci. Deciso ad entrare nel movimento resistenziale, prese contatti con la brg Stella rossa Lupo, nella quale militò dal gennaio 1944. Nel giugno 1944 con falsi documenti riuscì a giungere a Vercelli e liberare il fratello Giuliano rastrellato dai tedeschi. Discussa la tesi di laurea si trasferì definitivamente in brigata. Raggiunta la zona di Sant’Ausano (Monzuno), inizialmente ebbe l’incarico di addestrare militarmente i giovani partigiani e fu lui ad elaborare il piano per catturare i cinque fascisti a Monzuno che servirono per lo scambio con Emilio e Guido Musolesi. Dopo aver partecipato all’azione contro la caserma della Gnr di Monzuno, elaborò un piano per trasferire in
Toscana, nella zona di Pietramala di Firenzuola (Firenze), la brg Stella rossa Lupo per sfuggire al sempre più pressante controllo dei fascisti e dei tedeschi. Il 29 luglio 1944 partecipò alla riunione, presenti Mario Musolesi e gli altri comandanti di btg, in vista del trasferimento. Avvertito nella notte da una staffetta che i nazifascisti stavano dispiegando ingenti forze per rastrellare la zona di Monte Venere, riuscì insieme con tutto il grosso della brigata a sfuggire all’accerchiamento. Dopo essere rimasto per alcuni giorni nascosto in una grotta vicina al fiume Setta, per essere curato da un ittero catarrale, nell’agosto 1944 rientrò a Monte Sole. A seguito della ristrutturazione della brigata, assunse il comando del 3° btg. Quando i tedeschi iniziarono la strage di Marzabotto, con il gruppo di partigiani di stanza su Monte Sole, si portò su Monte Abele. Dopo aver girovagato a lungo nei boschi, per sfuggire alla cattura dei tedeschi, raggiunse con una parte dei superstiti la zona occupata dagli Alleati. Liberata Monghidoro, su proposta del Cln e dell’Amg, venne nominato il 14 febbraio 1945 sindaco del comune, succedendo a Carlo Alpi, dimissionario per contrasti con l’Amg. Nella prima seduta del Consiglio comunale del 19 febbraio dichiarò: “il ringraziamento va al mio predecessore che ha saputo ridare la vita al paese e l’autonomia all’amministrazione. Colgo l’occasione per comunicare al popolo attraverso i suoi rappresentanti che intendo far funzionare gli organi comunali imprimendo loro quell’elasticità e quell’impronta giovanile che sono necessari in questo momento”. Riconosciuto partigiano con il grado di capitano. Naldi Angelo, nato l’11 agosto 1890 a Monghidoro, da Natale e Maria Tedeschi. Muratore. Antifascista. Nel 1931 emigrò in Corsica (Francia) per lavoro e nel 1937 fu denunciato dalle autorità consolari perché aveva detto in pubblico che «in Italia si soffre la fame». Nei suoi confronti venne emesso un mandato di cattura, nel caso fosse rientrato. Tornò in Italia nel 1935, ma fu arrestato solo nel 1937 a Fiume, dove si era trasferito per lavoro. Negli anni seguenti venne periodicamente vigilato dalla polizia, infatti nel 1943 la «questura di Fiume è pregata di continuare ad esercitare la vigilanza nei suoi confronti per controllarne l’ulteriore comportamento».
99
Naldi Bruno, nato il 12 dicembre 1919 a Monghidoro, da Filippo e Maria Paolini; ivi residente nel 1943. Operaio. Militò nella brg Stella rossa Lupo ed operò su Monte Sole. Riconosciuto partigiano. Naldi Francesco, nato il 29 giugno 1897 a Monghidoro, da Filippo e Domenica Adele Poli. Agricoltore. Fu attivo nella brg Stella rossa Lupo. Riconosciuto patriota. Naldi Gino, nato il 7 marzo 1926 a Monghidoro, da Arturo e Clotilde Rocca. Fu attivo nella brg Toni Matteotti montagna. Riconosciuto patriota. Naldi Giovanni, nato il 18 marzo 1896 a Monghidoro, da Vincenzo e Maria Ghini. Nel 1943 residente a Monterenzio. Colono. Militò nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi. Riconosciuto partigiano. Naldi Nello, nato il 13 febbraio 1922 a Monghidoro, da Enrico e Noemi Cesira Neretti. Nel 1943 residente a Monghidoro. Operaio. Prestò servizio militare a Tolmezzo (Udine) nel genio dal 1942 fino all’8 settembre 1943, poi militò nel 4° btg della 66ª brg Jacchia Garibaldi e operò nella Valle del Sillaro. Riconosciuto partigiano. Naldi Paolo, detto Lino, nato il 21 dicembre 1924 a Monghidoro, da Giuseppe e Pia Emilia Bacci; ivi residente nel 1943. Infermiere. Prestò servizio militare nei carabinieri a Torino fino al 5 luglio 1944, quando passò alla clandestinità militando nel 5° btg della 2ª brg della div Monferrato. Operò a Torino, rimanendo di leva fino al maggio del 1947. Riconosciuto partigiano.
100
La liberazione di Torino avvenne il 28 aprile 1945, verso mezzogiorno, per mano dei partigiani, dopo alcuni giorni di scontri con i tedeschi in ritirata, che avevano minacciato di trasformare la città in una “seconda Varsavia”. Vennero occupate dai partigiani caserme e fabbriche, furono così salvati gran parte dei macchinari dal saccheggio e dalla distruzione da parte dei tedeschi. Continuò però per alcuni giorni, l’azione dei cecchini che, asserragliati sui tetti o ai piani alti degli edifici, tentavano una disperata quanto vana resistenza. Nelle fabbriche entrarono in funzione i Tribunali del popolo, secondo le disposizioni del Cln, ma non mancarono le vendette private e i regolamenti di conti. L’arrivo degli Alleati avvenne il 3 maggio, a liberazione ormai ultimata. Nonostante ciò, ai partigiani vennero date solo ventiquattro ore di tempo per consegnare le armi, in cambio di un certificato di ringraziamento e per considerare terminata la loro partecipazione alla Resistenza.
26 aprile 1945 - Torino, Paolo Naldi con i compagni della Divisione Monferrato, Battaglione Mario Brusa.
Testimonianza di Maurizio Naldi Registrata a Campeggio (Monghidoro) il 24 febbraio 2010 Mio padre Paolo, su consiglio del fratello maggiore Vittorio già militare, nell’imminenza della chiamata alle armi presentò domanda per essere arruolato nei carabinieri, per evitare così di essere mandato in Russia. La sua domanda fu accettata. Dopo il normale periodo di addestramento fu assegnato alla caserma di Monteu da Po (Torino), dove i carabinieri dovevano montare la guardia a un deposito di carburante. Un giorno, mentre lui si trovava fuori della caserma sulle colline circostanti, vide che le Ss, circondata la caserma, prelevavano con le armi in pugno, i suoi compagni facendoli salire su dei camion. Riuscì a scappare con un compagno e, fermatosi in una trattoria in un paese vicino, riuscì a mettersi in contatto con una brigata partigiana. Divenne poi comandante di un piccolo gruppo di una trentina di partigiani. Partecipò attivamente alla liberazione di Torino, distruggendo tra l’altro con il suo bazooka un carro armato Tigre tedesco che bloccava un ponte, impedendo l’ingresso in città della sua brigata. Ritornò finalmente a casa dove ormai lo credevano morto.
Maurizio Naldi nato il 23 agosto 1958 a Bologna.
102
Nannetti Goffredo, nato il 12 ottobre 1924 a Monghidoro, da Alberto e Cesarina Lorenzi. Emigrato a Bologna nel 1929. Fu attivo nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi. Riconosciuto patriota.
fatto rimarcare per la sua attività politica, è stato ammonito dalla locale polizia». Venne controllato fino al 1934, anno della sua morte avvenuta a Mondercange (Lussemburgo).
Nanni Giuseppe, nato il 13 giugno 1881 a Monghidoro, da Francesco e Assunta Naldi. Nel 1943 residente a Monterenzio. Colono. Militò nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi e operò a Casoni di Romagna (Casalfiumanese). Riconosciuto partigiano.
*Nassetti Augusto, nato il 28 ottobre 1882 a Monghidoro. Operaio bracciante. Emigrato in Francia nel 1923. «Politicamente fu iscritto in Patria al partito comunista, svolgeva propaganda fra gli operai». Si spostò poi nel Lussemburgo, come i suoi fratelli Gaetano e Giuseppina, dove «dimora in Esch sur Alzette ed è in continuo contatto con i sovversivi della predetta località. Sarà vigilato».
Nannoni Alfonso, nato il 27 dicembre 1922 a Monghidoro, da Oreste e Maria Giovannini. Nel 1943 residente a Imola. Mezzadro. Militò nel btg Montano della brg Sap Imola e operò a Imola. Riconosciuto partigiano. Nannoni Annunziata, nata il 19 aprile 1905 a Monghidoro, da Rinaldo e Carolina Naldi. Nel 1943 residente a Monterenzio. Casalinga. Militò nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi e operò a Casoni di Romagna (Casalfiumanese). Riconosciuta partigiana.
Emigrarono in Francia i figli di Cesare Nascetti e Filomena Zanetti: Gaetano, Augusto e Giuseppina. Fratelli anche se i loro cognomi furono trascritti in Comune in modo diverso.
*Nascetti Gaetano, nato il 16 gennaio 1891 a Monghidoro. Calzolaio. Emigrato in Francia nel 1922. «Durante la permanenza nel Regno militava nel partito comunista […]. Nel 1921 venne condannato a 6 mesi di reclusione per oltraggio alla forza pubblica». Nel 1929 dalla Regia Legazione d’Italia presso il Granducato di Lussemburgo si comunica al ministero dell’Interno che «il comunista in oggetto […] essendosi
104
*Nassetti Giuseppina, soprannominata Cina, nata il 5 aprile 1880 a Monghidoro. Casalinga. Emigrò a Monnering in Francia nel 1925. Si spostò poi, come i fratelli, nel Lussemburgo con il marito Leandro Mongiorgi, anche lui schedato come comunista. Dalla Regia Prefettura di Bologna si comunica nel 1928 che «nell’agosto 1922 i fascisti di Monghidoro, venuti a conoscenza che nella casa di lei vi era una bandiera rossa, andarono a prenderla, ma la Nassetti si oppose dicendo di non avere alcuna bandiera rossa, e quando questa fu rinvenuta dai fascisti, si mise ad inveire contro di essi. Non consta quale politica ella abbia tenuto all’estero, ma si ritiene che ella abbia sempre conservato le sue idee sovversive, e che sia capace di adoperarsi per propaganda contraria al Regime. Non risulta d’altronde che ella abbia interessi importanti da sistemare a Monghidoro, per cui questo ufficio sarebbe del parere di non concedere il passaporto né a lei, né al marito Mongiorgi Leandro». Ancora nel 1940 si comunica che «la soprascritta sovversiva risulta trovarsi tuttora all’estero, ma non se ne conosce il preciso recapito in quanto, da tempo, non da più contezza di sé».
105
Testimonianza di Sergio Nassetti Registrata a Monghidoro il 1° luglio 2008
Questa qui la conosco è la madre di Pilaccio, era la sorella di mio nonno, aveva sposato un certo Leandro che erano dovuti scappare in Francia. Pilaccio lo chiamavano così perché era alto come un palo. Hanno i cognomi scritti diversi, ma erano tutti fratelli. Ai tempi dei fascisti lei, la Cina, la chiamavano così ma era alta, faceva l’inserviente ai Quattro Mori e lavorando lì, che era il ritrovo dei fascisti, quando sentiva che c’era una spedizione nel paese lo andava a dire a mio babbo e a tutti quanti. Quel giorno che ammazzarono nell’osteria della Scaletta Berto ed Giulien, Alberto Rossetti, la Cina aveva sentito dire che venivano i ferraresi col camion a picchiare la gente, disse a mia zia Ida: dì al to omen c’al vegna a ca’. Lui infatti con mio padre andarono via dall’osteria, che aveva anche la porta di sopra. Mia zia e la zia di mio padre rimasero lì sedute a parlare e anche Berto era lì a sedere, che cantava e parlava con la zia. Passarono in tre o quattro e gli spararono dalla finestra con una rivoltella, che loro pensavano di ammazzare il Barberin. Lui morì nell’andare a Bologna, era una persona che non dava noia a nessuno. L’avevano colpito ai polmoni. Un giorno Gustin, il fratello della Cina, che aveva sempre il manarin qui, dietro la schiena, si incontrò con dei fascisti che volevano che prendesse un giornale fascista, e lui insisteva: non so leggere, e quelli: lo prenda lo stesso, allora lui tirò fuori il manaretto e quelli quando videro che non scherzava… Dopo dovettero scappare tutti in Francia. A Musolino, che era un fratello anche lui, gli diedero tante botte un giovedì, lì contro dove c’è adesso il giornalaio, tante botte che morì con la tubercolosi ossea, aveva una forza come un toro. Andarono in Francia tutti: la Cina, suo marito Leandro, il figlio Pilaccio e i fratelli della Cina, sono rimasti là e sono morti tutti là. Venivano anche quelli di Loiano a picchiare alla gente, ma a certuni di qui non si azzardavano di toccarli, allora venivano i fascisti ferraresi, che quelli erano una gran brutta balla.
106
Sergio Nassetti nato il 22 gennaio 1933 a Monghidoro (Bologna).
Nonni Carlo, nato il 21 settembre 1890 a Monghidoro, da Ernesto e Maria Virginia Naldi. Dal 1907 residente a Bologna. Lattaio. Nel 1939 a Bologna fu arrestato mentre, nella sede del sindacato fascista, stava tenendo una riunione assieme ad alcuni lattivendoli, per organizzare una manifestazione che avrebbe dovuto rendere noto «un preteso disagio della categoria». Ebbe l’ammonizione.
I figli di Augusto Panzacchi e Rosa Ghini: Aldo e Armando.
Panzacchi Aldo, nato il 2 novembre 1912, a Monghidoro. Nel 1943 residente a Monterenzio. Colono. Militò nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi e operò a Casoni di Romagna (Casalfiumanese). Riconosciuto partigiano. Panzacchi Armando, nato il 2 marzo 1922 a Monghidoro. Nel 1943 residente a Monterenzio. Colono. Militò nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi e operò a Casoni di Romagna (Casalfiumanese). Riconosciuto partigiano. Panzacchi Angelo, nato il 26 gennaio 1897 a Monghidoro, da Massimo e Serafina Rocca. Nel 1943 residente a Bologna. Tranviere. Militò nella 1ª brg Irma Bandiera Garibaldi e operò a Bologna. Riconosciuto partigiano.
I figli di Amedeo Paolini, detto Luigi, e Giuseppina Barbi: Augusto e Roberto.
Paolini Augusto, nato il 25 luglio 1926 a Monghidoro. Nel 1943 residente ad Ozzano Emilia. Colono. Militò nella 36ª brg Bianconcini Garibaldi. Riconosciuto partigiano. Paolini Roberto, nato il 10 giugno 1923 a Monghidoro. Nel 1943 residente a Monterenzio. Colono. Militò nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi e operò a Monterenzio. Riconosciuto partigiano. Paolini Ezio, nato il 29 febbraio 1924 a Monghidoro, da Federico ed Ernesta Mordini. Nel 1943 residente
108
a San Benedetto Val di Sambro. Colono. Prestò servizio militare in artiglieria fino all’8 settembre 1943. Fu attivo nella brg Stella rossa Lupo. Riconosciuto patriota. Paolini Guido, nato il 25 aprile 1916 a Monghidoro, da Angelo e Maria Poli; ivi residente nel 1943. Operaio. Prese parte alla lotta di Liberazione in Jugoslavia. Militò nell’Esercito popolare di liberazione jugoslavo. Riconosciuto partigiano.
I figli di Luigi Domenico Parenti ed Ersilia Fusarelli: Licinia e Maria Elisa.
Parenti Licinia, nata il 17 agosto 1909 a Monghidoro; ivi residente nel 1943. Casalinga. Militò nell’8ª brg Masia Gl. Riconosciuta partigiana. Parenti Maria Elisa, nata il 20 dicembre 1917 a Monghidoro. Nel 1943 residente a Loiano. Domestica. Militò nell’8ª brg Masia Gl. Riconosciuta partigiana. *Perugini Icilio, nato il 15 marzo 1851 in Cò di Monghidoro, da Ermete e Rosa Terzi. Socialista. Conduttore ferroviario. Da Milano emigra in Svizzera «perché ricercato per i moti del 1898 a Milano […]. Condannato a quindici anni di reclusione in contumacia. Come socialista è stato sempre notato fra i più convinti e ferventi propagandisti, acquistando ben presto una discreta influenza fra i suoi correligionari». Rientrato in Italia si spostò per lavoro a Fano dove nel 1902 «assume la gerenza del periodico socialista “Il cittadino” che si pubblica a Fano». Tornò poi a vivere a Bologna, dove venne controllato fino al 1930. Pianacci Adelmo, nato il 15 giugno 1914 a Monghidoro, da Giuseppe e Francesca Rondelli. Operaio. Nel 1943 residente a Loiano. Riconosciuto benemerito. Pieri Pietro, nato il 25 ottobre 1921 a Monghidoro, da Gioacchino e Michelina Pignatti. Nel 1943 residente a Bologna. Cugino di Gian Piero Pieri citato nella testimonianza di Mariano Tarozzi Ufficiale dell’esercito. Fu attivo nella 36ª brg Bianconcini Garibaldi. Riconosciuto patriota.
*Poli Ernesto, nato il 24 settembre 1890 a Monghidoro, da Fortunato e Carolina Bracchi. Emigrò in Francia nel 1924. Classificato come sovversivo. Rientrato in Italia nel 1932 «prima dell’espatrio il predetto dimostrò di professare idee socialiste, senza però mettersi in evidenza per svolgimento di attività politica. Dopo l’avvento del Fascismo, pur astenendosi da qualsiasi manifestazione politica, era ritenuto di sentimenti contrari al Governo fascista». Prosperi Artemisio, nato il 22 aprile 1887 a Monghidoro, da Silvio e Teresa Nonni. Muratore. Iscritto al Psi. Venne segnalato dalla polizia all’avvento del fascismo perché «negli anni 1919-1921 professò idee socialiste e fu iscritto alla lega “rossa” di Vado». Era emigrato nel 1896 in Brasile, dove a San Paolo «il di lui padre si occupò nella costruzione di quella ferrovia. Dal 1904 al 1907, fu occupato nei lavori della costruzione del canale di Panama e nello stesso anno si trasferì in Germania. […] nel 1911 rimpatriò e congedatosi nel 1919 si stabilì a Monzuno, occupandosi nei lavori della “Direttissima”. Nel 1921 emigrò a Trieux in Francia, rimanendovi fino al 1923». Si stabilì di nuovo a Monghidoro nel 1928 «dove ha acquistato un podere che direttamente coltiva insieme alla moglie e alla figlia quattordicenne». Nel 1935 fu radiato dall’elenco dei sovversivi per «buona condotta». Ravaglia Celso, nato il 25 ottobre 1873 a Monghidoro, da Luigi e Chiara Santi. Operaio. Iscritto al Psi. Il 15 agosto 1921 si recò a una festa popolare a Sibano (Marzabotto) e mentre stava tornando a casa a piedi con altri compagni, alcuni fascisti cominciarono a sparare numerosi colpi di pistola contro il gruppo. Riportò una grave ferita. Nella sparatoria rimase ucciso l’amico Adolfo Comani. Rocca Elisa, nata il 7 giugno 1918 a Monghidoro, da Domenico ed Elide Benassi. Nel 1943 residente a Monterenzio. Casalinga. Militò nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi e operò a Casoni di Romagna (Casalfiumanese). Riconosciuta partigiana. Rossetti Agostino, detto Martano, nato il 28 agosto 1906 a Monghidoro, da Pietro e Sofia Rossetti. Nel 1943 residente a Molinella. Guardia di finanza. Prestò servizio militare dal 1928 al 1944. Militò poi nel
btg Manara della 156ª brg Buozzi della div Natisone Garibaldi e operò a Udine e Gorizia, con funzione di comandante di compagnia. Riconosciuto partigiano con il grado di tenente. Rossetti Alberto, nato il 26 febbraio 1883 a Monghidoro, da Giulio e Carolina Menetti. Calzolaio. Iscritto al Pci. La sera del 12 febbraio 1922 si trovava in un’osteria a Monghidoro, intento a giocare a carte, quando alcuni fascisti, guidati da Athos Grilli, segretario del fascio locale, spararono nel locale attraverso le finestre. Restò gravemente ferito e morì il 14 febbraio 1922 all’ospedale Maggiore di Bologna. Nella stessa sparatoria venne ferito a colpi di rivoltella anche Gaetano Monti.
I figli di Giovanni Rossetti ed Elena Santi: Amedeo e Filippo.
Rossetti Amedeo, nato il 24 agosto 1921 a Monghidoro. Nel 1943 residente a Monterenzio. Colono. Militò nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi e operò a Casoni di Romagna (Casalfiumanese). Riconosciuto partigiano. Rossetti Filippo, nato il 2 febbraio 1923 a Monghidoro. Nel 1943 residente a Monterenzio. Colono. Militò nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi e operò a Casoni di Romagna (Casalfiumanese). Riconosciuto partigiano. Rossetti Giorgio, soprannominato Billi, nato il 4 maggio 1928 a Monghidoro, da Domenico e Augusta Calzolari. Nel 1943 residente a Bologna. Idraulico. Militò nell’8ª brg Masia Gl, con funzione di comandante di plotone. Riconosciuto partigiano, con il grado di sottotenente. Rossetti Gualtiero, nato il 24 aprile 1913 a Monghidoro, da Enrico ed Emma Menetti Mezzetti. Nel 1943 residente a Bologna. Meccanico. Prestò servizio militare in Grecia dal 1940 al 1943, con il grado di caporale maggiore. Prese parte ai combattimenti contro i tedeschi a Cefalonia nei reparti italiani. Cadde in combattimento il 22 settembre 1943. Riconosciuto partigiano.
109
Testimonianza di Valdimiro Carrugi Registrata a Monghidoro il 15 aprile 2010
Io non mi sarei mai immaginato di andare a finire in Grecia! Io ero nato a Bologna, ero un trovatello, ero stato a balia per sei mesi a Monzuno, poi mi hanno riportato in orfanotrofio. Quando avevo due anni mi hanno preso i Musolesi, qui a Monghidoro, mi hanno tenuto come un figlio, perché loro dei figli non ne avevano e avevano preso all’orfanotrofio anche una bimba. Dopo 17 anni di matrimonio poi hanno avuto anche loro un figlio. Abitavamo alla Casetta di Prabitto, poi siamo andati a Ca’ dei Bonzi, dove quella che io chiamavo mamma, aveva una casa di suo babbo. E io sono cresciuto lì in quella casa, si lavorava un po’ di terra di un’impresa che aveva tanti poderi e si aveva una stalla con due vacche bianche per lavorare. Nel 1940 in marzo mi hanno chiamato nei soldati, che l’anno prima mi avevano fatto rivedibile perché ero stretto di torace, ma dopo mi hanno fatto abile e sono partito per la guerra. Sono stato a Nettuno tre mesi a fare istruzione in artiglieria e poi hanno formato un gruppo di artiglieria contraerea e ci hanno mandato a Bari, da lì ci hanno imbarcato e siamo partiti per l’Albania che l’avevano occupata, poi dopo otto mesi ci hanno trasferiti in Grecia, che stavano occupando anche la Grecia, che quei due lì stavano occupando tutta l’Europa. In Grecia ci sono rimasto due anni, ero nella contraerea e si doveva sparare agli apparecchi americani, che venivano a bombardare. La prima licenza l’ho fatta nell’ottobre del ’41: un mese a casa! Sono tornato a casa un’altra volta in licenza nel giugno del ’43, ma in Grecia avevo preso la malaria e allora mi hanno mandato all’ospedale militare di Bologna, dove mi hanno dato tanto chinino. Ma siccome i giorni di malattia contavano come quelli della licenza allora io ho preferito tornare a casa e finire la mia licenza lì. Finita la licenza dovevo tornare in Grecia, vado al comando a Mantova, ma siccome segnavo ancora la febbre, mi hanno tenuto in convalescenziario a Valdobbiadene. Ero lì dentro quando venne l’8 settembre. Chi scappava di qua, chi scappava di là. Il colonnello fece una riunione e ci disse che chi abitava
110
vicino faceva bene ad andare a casa, ma quelli che abitavano lontano era meglio restassero lì, perché i tedeschi prendevano su tutti. Dopo aver ricevuto istruzioni mi dette il tesserino per girare in treno, il foglio della convalescenza e mi lasciò andare. Allora presi il treno per Bologna. Quando sono stato a casa bisognava stare attenti perché i tedeschi ti prendevano su. C’era la Repubblica di Salò e allora si doveva andare in Repubblica o a lavorare alla Todt. Io con i fascisti in Repubblica non ci volevo proprio andare e allora andai a lavorare in Panna alla Todt con i tedeschi, che ti facevano fare delle fondazioni, dei camminamenti di difesa per la Linea gotica. C’erano delle brande e si dormiva là, come dei soldati. Poi ci trasferirono in Panna, ma le cannonate cominciavano ad arrivare anche a Pietramala; allora un giorno che ero a casa andai alla macchia e dissi con i miei genitori: se mi cercano dite che sono via. Andai alla macchia perché se ti prendevano ti mandavano in Germania. Passava sempre un certo repubblichino che aveva sposato una di qua, abitava al mulino di Carlino. Tutti i giorni lui andava a Monghidoro e bisognava stare attenti perché, se ti vedeva, ti denunciava ai tedeschi e poi con loro ti veniva a prendere e dove finivi non si sa. Alla macchia con me c’era anche un mio cugino: eravamo in tre o quattro. Ci eravamo fatti un rifugio e si stava lì giorno e notte, qualcuno ci portava da mangiare e siamo stati lì fino a quand’è passato il fronte. Mi ricordo che quel giorno lì c’erano delle truppe che giravano a piedi verso Ca’ di Bartoletto e noi si stava nascosti perché si credeva che fossero ancora i tedeschi, invece poi ci vennero a dire che erano gli americani. Allora tornammo a casa. Subito dopo la guerra mi rimisi a lavorare la terra, ma una mucca ce l’avevano ammazzata i tedeschi, il maiale ce l’avevano portato via sempre loro, avevano anche mandato via di casa i miei, perché lì si erano installati loro. Con gli americani invece si stava bene: sigarette e cioccolata. Sono stati fermi qui per dei mesi.
Valdimiro Carrugi nato il 4 novembre 1918 a Bologna.
112
La Linea gotica (Gotenstellung) rappresentava, dopo la Linea Gustav, il secondo sistema difensivo preparato dall’esercito tedesco sul territorio italiano. La costruzione venne iniziata subito dopo lo sbarco alleato in Sicilia del 9 luglio 1943. Nella strategia militare tedesca doveva servire sia come protezione delle risorse agricole e industriali dell’Italia settentrionale, sia per ritardare quanto più possibile l’avanzata delle truppe alleate. Conosciuta anche come Linea Verde (Grüne Linie) tagliava in due la penisola italiana: dalla costa tirrenica compresa fra Viareggio e Massa Carrara, fino a quella adriatica compresa fra Pesaro e Rimini, estendendosi per una lunghezza di circa 300 chilometri e per una profondità che in alcuni punti raggiungeva i 20 chilometri. Il sistema di fortificazioni sfruttava al massimo le caratteristiche morfologiche del territorio e dove ciò non fu possibile, vennero erette barriere costruite con massi, legname, cemento armato, fossati anticarro, campi minati, reticolati, trincee, ricoveri, bunker per l’artiglieria e per le mitragliatrici. La Wehrmacht perse sulla Linea gotica circa 75.000 uomini, gli Alleati circa 65.000.
Salomoni Ersilia, detta Mamma, nata il 30 aprile 1901 a Monghidoro, da Silvio e Adele Bacci. Nel 1943 residente a Bologna. Casalinga. Militò nella 7ª brg Gap Gianni Garibaldi e operò a Bologna. Riconosciuta partigiana. Santi Ferruccio, nato il 3 giugno 1924 a Monghidoro, da Augusto e Augusta Tedeschi. Nel 1943 residente a Bologna. Operaio. Militò nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi. Riconosciuto partigiano. Santi Guido, nato il 19 gennaio 1926 a Monghidoro, da Giuseppe e Caterina Mingoni; ivi residente nel 1943. Operaio. Militò nella brg Stella rossa Lupo con funzione di caposquadra e operò a Marzabotto. Fu ferito. Riconosciuto partigiano. Sassoni Dante, detto Bullo, nato il 14 luglio 1925 a Monghidoro, da Raimondo e Raffaella Zilli. Nel 1943 residente a Porretta Terme. Ferroviere. Militò nella lª brg Irma Bandiera Garibaldi. Riconosciuto partigiano. Scardovi Corrado, nato il 5 giugno 1920 a Monghidoro, da Domenico e Olimpia Venturelli. Nel 1943 residente a Bologna. Operaio verniciatore. Militò nella 66ª brg Jacchia Garibaldi. Arrestato dalle brigate nere, venne fucilato al poligono di tiro di Bologna il 20 set-
tembre 1944. Riconosciuto partigiano. Stefanelli Alfredo, nato il 26 gennaio 1899 a Monghidoro, da Adolfo Ernesto e Maria Monari. Bracciante. Sposato con Laura Tedeschi di Fortunato, nata a Monghidoro il 17 maggio 1906. Emigrò in Francia nel 1923 dove «risulta frequentare ambienti comunisti e compagnie di noti sovversivi. Viene riferito che egli sia iscritto alle organizzazioni comuniste». Rimpatriò nel 1932, stabilendosi a Monghidoro nella frazione di Piamaggio. Nel 1937 fu arrestato con Francesco Monari in un’osteria a Monghidoro. I due erano «stati sorpresi a cantare la marsigliese e da solo, altre canzoni francesi, e ripeté la marsigliese. […] nel passato, varie volte (pare) avesse esaltato, parlando con amici, il benessere che, secondo lui, regnerebbe in Russia. […] ha soggiornato in Belgio, in Francia e nel Lussemburgo e nel 1932, come egli stesso ha dichiarato, fu, per circa tre mesi, in Russia». Dopo una decina di giorni venne scarcerato, classificato comunista e diffidato. Negli anni seguenti fu «attivata rigorosissima vigilanza» fino al 1942, quando fu radiato dall’elenco dei sovversivi. Stefanelli Teresa, nata il 14 dicembre 1905 a Monghidoro, da Edoardo e Rosa Lorenzini. Nel 1943 residente a Monterenzio. Casalinga. Militò nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi e operò a Monterenzio. Riconosciuta partigiana. Tedeschi Giuseppe, nato il 24 gennaio 1898 a Monghidoro, da Massimino e Maria Luisa Gironi. Nel 1943 residente a Monzuno. Militò nella brg Stella rossa Lupo. Riconosciuto partigiano. Tedeschi Guido, nato il 20 settembre 1922 a Monghidoro, da Massimo e Amalia Piccinini; ivi residente nel 1943. Operaio. Militò nella 156ª brg Buozzi della div Garibaldi Natisone e operò nel Friuli. Riconosciuto partigiano con il grado di sergente maggiore. Tempestini Giovanni, nato il 21 aprile 1899 a Monghidoro, da Olinto e Maria Macchiavelli. Oste. Iscritto al Psi. Nel dicembre 1942 fu arrestato a Genova per avere detto in pubblico che «io la borsa nera la farei pagare alle camicie nere». Fu assegnato al confino e liberato nel 1943.
113
Giuseppina Suzzi, moglie di Giuseppe Vergnani.
I figli di Ernesto Tossani e Maddalena Mariannina Persiani: Giuseppe e Marino.
Tossani Giuseppe, nato l’8 agosto 1908 a Monghidoro; ivi residente nel 1943. Colono. Fu attivo nella brg Stella rossa Lupo. Riconosciuto patriota. Tossani Marino, nato il 21 marzo 1914 a Monghidoro. Nel 1943 residente a Marzabotto. Fu attivo nella brg Stella rossa Lupo. Riconosciuto patriota. Vanti Nino, nato il 18 aprile 1917 a Loiano, da Francesco e Venusta Lamieri. Nel 1943 residente a Monghidoro. Operaio. Prestò servizio militare in Grecia. Prese parte alla lotta di Liberazione a Cefalonia (Grecia) nella div Acqui. Riconosciuto partigiano. Venturelli Attilio, nato il 9 giugno 1884 a Monghidoro, da Lazzaro e Assunta Lorenzini. Bracciante. Iscritto al Psi. Per sottrarsi alle persecuzioni fasciste, nel 1923 espatriò clandestinamente in Belgio e poi in Francia. Nel 1927 il console italiano a Liège (Belgio) informò il ministero dell’Interno che era «stato segnalato da fonte confidenziale quale pericoloso antifascista» e che aveva preso parte alla fondazione della federazione del Psi in quella città. Fu classificato comunista e fu emesso un mandato di cattura nel caso fosse rimpatriato. Non tornò più in Italia e nel 1943 risulta che «è dal 1936 che non dà notizie di sé né alla sorella, residente nel comune di Monghidoro, né alla sorellastra Gessi Teresa in Cattani». Venturelli Giuseppe, nato il 12 novembre 1913 a Monghidoro, da Enrico e Domenica Monari; ivi residente nel 1943. Operaio. Prese parte alla lotta di Liberazione in Albania militando nelle Camicie rosse Garibaldi nei reparti dell’Esercito nazionale di liberazione albanese. Riconosciuto partigiano.
I figli di Giovanni Vergnani e Giuditta Massa: Amilcare e Giuseppe.
*Vergnani Amilcare, nato il 23 gennaio 1896 a Monghidoro. Emigrato in Francia nel 1923. «Professava idee sovversive delle quali svolgeva anche una certa propaganda; per cui si era inviso ai fascisti, che una volta ebbero anche a percuoterlo […] è stato disposto per la revisione della corrispondenza diretta ai fratelli». In una lettera del 1938 della Regia Prefettura di Bologna al ministero dell’Interno si legge che «La notizia pubblicata dal quotidiano comunista “La voce degli italiani” circa il preteso assassinio dell’operaio Vergnani Alfredo nelle carceri di Monghidoro, è una delle solite menzogne che va pubblicando il noto libello per dar sfogo al suo acido livore contro il Fascismo. […] tale fratello risulta suicidatosi a Sampierdarena perché affetto da gravi squilibri mentali». Al suo rientro in Italia venne controllato fino al 1943. Vergnani Giuseppe, nato il 6 maggio 1898 a Monghidoro. Manovale. Iscritto al Psi. Emigrato a Florange in Francia nel 1923, rientrò in Italia nel 1933, stabilendosi a Monghidoro, in località Villa di Mezzo. «Durante il periodo rosso, pur non risultando inscritto ad alcun partito sovversivo, simpatizzò per quello socialista ma non era ritenuto pericoloso». Avendo svolto attività politica in Francia, fu sottoposto a controllo. In un rapporto della polizia nel 1942 si legge: «non ha dato finora prove di ravvedimento. È vigilato». Suo figlio Ilio, detto Guido, morì il 18 ottobre 1943 nella Baia di Suda (Creta) nell’affondamento della motonave Sinfra, sulla quale era prigioniero dei tedeschi perché tutto il suo reggimento si era rifiutato, dopo l’8 settembre, di combattere al loro fianco.
Venturi Gilio, nato il 18 marzo 1912 a Monghidoro, da Raffaele e Geltrude Corti. Nel 1943 residente a Bologna. Ferroviere. Militò nel btg Ciro della 1ª brg Irma Bandiera Garibaldi e operò a Bologna. Riconosciuto partigiano.
115
Testimonianza di Vittorina Vergnani Registrata a Monghidoro il 7 novembre 2009
Di mio fratello Ilio, che però noi chiamavamo Guido, mi ricordo che arrivò un telegramma che la nave Sinfra era andata giù e che lui non risultava tra i superstiti e così non l’abbiamo più visto. Mio fratello era di leva, che era in Grecia lo sapevamo, ma non so dirti come l’avevamo saputo, forse da qualche lettera. In questa guerra qui era morto solo lui della mia famiglia, invece nell’altra guerra erano morti un fratello di mio babbo e un altro zio, poi non mi ricordo. Io mi ricordo che mi mandavano dietro alle pecore quend a s’era cinina, che passavano gli apparec e me aveva una gran pora che sparavano con la contraerea e io andavo su nei boschi perché allora abitavamo a Villa di Mezzo. Durante la guerra la scuola era chiusa e prima ci andavo quend apseva. Anche mia sorella non andava a scuola come me perché spesso dovevamo badare alle mucche, poi a scuola avevamo una maestra che era piccolina, ma così cattiva! Ci picchiava e spesso tornavamo a casa con la faccia insanguinata. Ce n’era anche un’altra a Piamaggio, anche lei cattiva, dicevano che aveva fatto prendere dei partigiani, perché era un gran fascista. Dopo la guerra fu mandata via. Mia madre per arrotondare lo stipendio faceva la treccia e mio padre per guadagnare qualcosa era andato anche in Francia. Dopo eravamo a mezzadria: avevamo le bestie e le pecore, quent mama la feva ei furmaj metà andava al padrone e invece per il treccino si facevano i fass con zinquenta maneli, e su tre fass che mia mamma faceva, due restavano a lei e una al padrone. Mi ricordo che quando si batteva il grano, che allora si faceva tutto a mano e si separava il grano dalla paglia, quando avevamo fatto la massa là in tl’era veniva il padrone che riempiva la quartirola e metteva il grano nei sacchi e poi si faceva a metà e anche con le castagne si faceva così. La casa era
116
vecchia come erano tutte le case di allora, senza luce e senza acqua, avevamo un pilino dietro casa. In famiglia eravamo in sei: Giovanni che nel 1950 è andato in Belgio e dopo un po’ di anni è tornato, poi c’era mia sorella Maria e Ilio. Due maschi e due femmine e mia madre dopo che sono nata io non ha potuto più avere figli, per un’anemia che non aveva più le sue cose e non ha più fatto figli, era del 1899. Spesso mio padre veniva a casa che i fascisti l’avevano picchiato. Lo sorprendevano al cimitero mentre la sera tornava a casa dall’osteria. Delle volte tornava e diceva: le ho prese, ma le ho anche date. Quando furono presi tutti quegli uomini dai tedeschi, lui era lì vicino con Caramalli che lo salutò per andare ai Piamaggioli e così lo presero e lo uccisero insieme ai Gamberini e a Calzolari. Mio fratello Giovanni aveva 17 anni, ma per fortuna ne dimostrava anche meno, un giorno i tedeschi lo rastrellarono e lo portarono con altri nella chiesa di Piamaggio, poi da lì a Loiano. Qualcuno riuscì a scappare da una finestra con lui. Tornò a casa dopo molti giorni, noi lo pensavamo già morto, forse era l’autunno del 1944. Quel giorno erano venuti i tedeschi in casa, ma uno di loro gli disse di nascondersi, forse perché l’aveva visto così giovane! Lui andò su nel tassello, in mezzo alla paglia, poi arrivò invece un altro tedesco che lo sorprese e lo portarono via. Dopo si nascose, con altri, su nell’Alpe. Durante la guerra dormivamo tutti nella stalla in mezzo al fieno, me lo ricordo bene, forse perché era più sicuro. Quando arrivarono gli americani a Villa di Mezzo, mia sorella entrò in casa tutta agitata e disse a mio padre e a mio fratello: scapé, scapé, che stanno arrivando i tedeschi! Invece erano gli americani che si mangiarono tutto il pane che mia madre aveva appena tolto dal forno.
Vittorina Vergnani nata il 10 ottobre del 1932 a Monghidoro (Bologna).
Sempre nella Baia di Suda, vicino all’isola di Creta, nell’affondamento della motonave Sinfra, morì anche: Lorenzini Angelo, nato il 15 settembre 1911 a Monghidoro, da Luigi e Dorina Giorgi; ivi residente a Pallerano. Dichiarato morto per annegamento il 12 ottobre 1943. Zavagli Alfonso, nato il 5 gennaio 1893 a Monghidoro, da Agostino e Anna Agresti. Nel 1943 residente a Castel del Rio. Colono. Militò nella 36ª brg Bianconcini Garibaldi. Riconosciuto partigiano.
Moltissimi furono i sacerdoti che si prodigarono, durante tutti gli anni del fascismo, per i loro parrocchiani, cercando di alleviare disagi e preoccupazioni. Dopo l’8 settembre, con la proclamazione della Repubblica sociale italiana e la costituzione dei primi nuclei di resistenti, in molte parrocchie furono ospitati: ebrei, giovani renitenti alla leva, sfollati, partigiani. Fu proprio in una parrocchia, quella di Vado, messa a disposizione dal parroco don Eolo Cattani, che nel novembre del 1943 si tennero le prime riunioni che sancirono la nascita della brigata Stella rossa. Importantissimo fu il ruolo di mediatori dei parroci sia durante i rastrellamenti, eseguiti dai tedeschi e dai fascisti, sia nelle fasi successive, per aiutare i sopravvissuti nella rielaborazione dei lutti e nella ricomposizione dei conflitti, che in quei momenti di grande paura, sorgevano all’interno delle piccole comunità. Molti furono i sacerdoti uccisi dai nazifascisti per aver dichiarato le loro idee, per aver aiutato partigiani e perseguitati, o semplicemente gli abitanti della propria parrocchia. Nell’eccidio di Monte Sole furono 5 i sacerdoti uccisi.
Due sono i sacerdoti nati a Monghidoro che ho trovato nel libro Gli antifascisti, i partigiani e le vittime del fascismo nel bolognese, già citato: Gironi Siro, nato il 20 luglio 1912 a Monghidoro, da Alberto e Maria Gamberini. Nel 1943 residente a Palazzuolo sul Senio (Firenze). Sacerdote. Militò nella 36ª brg Bianconcini Garibaldi. Riconosciuto partigiano. Serra Angelo, nato il 26 gennaio 1909 a Monghidoro, da Ettore ed Anna Raspanti. Nel 1943 residente a Marzabotto. Sacerdote e parroco di Panico e vicario foraneo di Marzabotto. Il 30 luglio 1944, dopo la cattura degli ostaggi per l’attentato alla galleria della Direttissima a Misa, intervenne presso il comando tedesco per ottenerne la liberazione, dopo che Carlo Zecchi aveva confessato di essere l’autore dell’attentato. Dopo l’eccidio di Marzabotto si recò a Sperticano per consumare le ostie consacrate. Successivamente collaborò con i partigiani.
Quelli che sono morti non se ne sono mai andati; sono nell’ombra che si rischiara e nell’ombra che si ispessisce. I morti non sono sotto la terra: sono nell’albero che stormisce, sono nel bosco che geme, sono nell’acqua che scorre, sono nell’acqua che dorme, sono nella capanna, sono nella folla: i morti non sono morti. Birago Diop, I racconti di Amadou Koumba
118
LA GUERRA Il 22 giugno 1941 la Germania aveva dichiarato guerra alla repubblica sovietica convinta di potere concludere la così detta “Operazione Barbarossa” in cinque settimane. Dopo nemmeno un mese, il 10 luglio, Mussolini, per non essere da meno, inviava il Csir, di circa 60.000 uomini e un anno dopo come rinforzi i soldati dell’Armir, costituita da 229.000 uomini, male armati e privi di un equipaggiamento adatto ai terribili rigori dell’inverno russo. La maggior parte dei soldati aveva i fucili ’91, cioè del 1891, arma affidabile e ritenuta ai suoi tempi ottima, ma ormai antiquata rispetto ai fucili mitragliatori dei tedeschi e ai temibili parabellum sovietici. I pezzi anticarro italiani erano quasi inesistenti al confronto con i mastodontici mezzi corazzati tedeschi e russi; l’equipaggiamento era lo stesso dei soldati mandati in Africa. Le cifre di questa guerra furono spaventose 20 milioni di morti da parte sovietica, 6 milioni da parte tedesca. Dei tanti soldati italiani, 29.690 furono rimpatriati perché feriti o congelati. Dei rimanenti,
molti furono uccisi in battaglia, molti morirono di stenti durante la ritirata e nei campi di prigionia russi. Il 19 dicembre del 1942 venne dato alle truppe italiane sul fronte russo l’ordine di ripiegare. Ebbe così inizio la drammatica ritirata dell’Armir. Il 26 gennaio 1943, in piena ritirata, con 30° sotto zero, a Nikolajewka ci fu una sanguinosa battaglia, dove morirono dai quattro ai seimila soldati italiani. I superstiti riuscirono ad aprirsi un varco nello sbarramento sovietico e a proseguire la ritirata, che si configurò sin dai primi momenti come una vera e propria rotta, con tutte le tragiche conseguenze del caso. Non era stato possibile, infatti, accumulare e preparare per il trasporto i viveri necessari al mantenimento delle unità, che si accingevano ad abbandonare il fronte. Molti dei depositi di viveri, situati nelle retrovie, erano stati prematuramente abbandonati o dati alle fiamme dagli addetti alla sussistenza, che non vedevano l’ora di sganciarsi da una situazione che cominciava a farsi preoccupante.
Uno dei superstiti di questa tragedia mi ha raccontato la sua storia.
119
Testimonianza di Guido Gamberini Registrata a Pian dei Grilli (Monghidoro) il l 7 novembre 2009
Io sono partito da Monghidoro tante volte. La prima volta avevo solo 16 anni e me ne andai in Germania a fare il contadino. Là gli uomini erano in guerra e c’era bisogno di braccia e qui a Monghidoro non c’era lavoro. In famiglia eravamo in otto persone e avevamo un gran bisogno. Il povero babbo faceva una quindicina ogni tanto e poi in Comune c’era uno che dava da lavorare a chi pareva a lui. Quando sono tornato a casa sono andato sotto le armi, che m’hanno richiamato. Allora sono andato a Levico, in provincia di Trento, dopo da lì sono andato nel Friuli e poi a Canale d’Isonzo, paese della Slovenia occidentale, sul confine con l’Italia. Andavamo a fare la guardia ai ribelli in Jugoslavia, ma a noi alpini ci volevano bene, cattiverie non ce le hanno mai fatte e il primo gennaio del 1943 sono partito per la Russia, in treno. Quando siamo arrivati a Verona un mio amico ha detto: io in Russia non ci voglio venire, e quando il treno è entrato in stazione e ha rallentato, lui si è buttato giù e dalla banchina ci salutava… non ne ho più saputo niente. Io ero con il povero Alberto Caramalli, che poi non è più tornato, eravamo negli alpini della Julia, sempre insieme. Siamo arrivati a Rossosc proprio quando cominciava la ritirata, allora con il tenente che era con noi ci siamo fermati là in stazione un pezzo. Mentre eravamo lì è arrivato l’ordine di ritirarsi sempre a piedi, non c’era scampo, con un freddo! 42°, 43° sotto zero e dormire dove si poteva e poi c’erano i ribelli che ti sparavano e se avevi il fucile te lo prendevano e poi sempre ed cammena, si camminava stanchi, sfiniti e da mangiare mai niente. Trovavi qualche donna, che… loro volevano bene a noi italiani ci davano un pezzo di pane. C’erano delle donne che ti prendevano anche in casa! Sapevamo che i russi facevano il loro frigorifero per l’inverno sotto il letame, perché così la roba era al caldo, ma allo stesso tempo al fresco, ci tenevano le verdure e il miele. Allora una volta abbiamo scavato e… eravamo in cinque o sei lì dentro e fuori c’era un bombardamento! Uno di Pianoro ha detto: io ragazzi vado fuori, qui non ci resto a morire come un topo. Invece noi gli abbiamo detto che piuttosto che morire
120
dal freddo morivamo lì dentro al caldo. Lui ce l’ha fatta a salvarsi: è arrivato a casa e la mia povera mamma è andata da lui e gli ha chiesto dove mi aveva lasciato. Li ho lasciati là dentro un buco che ci è arrivata una bomba e di sicuro sono morti tutti lì dentro. Lei non sapeva niente: non si poteva mica scrivere, così è rimasta quattro anni senza mie notizie. Lei poveretta diceva: andiamo a veglia là nella stalla, a dire un rosario per mio figlio che è morto là in Russia. Ci andava anche Dina, che poi è diventata mia moglie, ma che allora era ancora ragazza. Mentre eravamo in ritirata, quando c’erano i bombardamenti, ci rifugiavamo dove potevamo dentro le case distrutte, nelle buche e una volta siamo andati sotto un ponte e con noi c’erano dei rumeni, dei tedeschi, degli ungheresi, eravamo in tanti e quando è finito il bombardamento siamo venuti fuori. Abbiamo preso una strada tutti insieme, eravamo chiusi dentro una sacca e quando siamo arrivati in cima a una strada arriva un carro armato russo, allora vengono fuori due donne che ci separano su tre file: una fila di italiani, una di rumeni con gli ungheresi e una di tedeschi. Voi giratevi ci dicono e dopo sento trrr, avevano ammazzato tutti i tedeschi, che erano caduti giù nella scarpata. Perché loro, i russi, non potevano vedere i tedeschi perché lungo la ritirata avevano fatto delle cattiverie: ammazzavano donne e bambini, bruciavano tutto. Allora dico con Berto: adesso tocca a noi e lui mi dice: piuttosto che tribolare così! Invece quelle ci dicono italiani e rumeni buoni, andate, andate. Mi ricordo la battaglia di Nikolajewka, perché cammina, cammina siamo arrivati vicino a questo paese, non ne potevamo più dal freddo e dalla fame e poi era quasi buio. Io ho trovato una casa che era piena di miglio, allora mi sono affogato lì e ho detto con i miei compagni: questa qui è la mia tomba, io da qui non mi muovo, loro sono andati su e sono rimasti subito prigionieri. Sto lì che non sapevo cosa fare, ma almeno stavo al caldo con solo la testa fuori. Alla mattina mi sveglio, non c’era più nessuno, non si sentiva più un’anima viva, vengo fuori e in paese c’era tutto distrutto, allora non sapendo cosa fare andavo dietro alle tracce sulla neve, c’era una buferia che
Guido Gamberini nato il 6 gennaio 1922 a Monghidoro (Bologna).
sollevava la neve, era sempre per aria quella neve lì. Seguo le tracce che vanno in giù e mi sparano, io allora ho alzato le mani, loro, i russi, hanno smesso di sparare e mi hanno fatto prigioniero. Dopo da prigioniero ancora cammina, cammina, sempre in queste colonne e alla sera dormivi lì, dove potevi e da mangiare sempre poco. Lungo le strade c’erano dei capanni ricoperti di terra, come quelli che qui ci facevano il carbone, ci hanno messo dentro quei capanni e i primi che arrivavano, qualcosa da mangiare la trovavano, per noi che eravamo più indietro non ci rimaneva niente. Allora io troncavo delle ossa sul fuoco e mangiavo il midollo di quelle ossa tronche, non ho mai saputo di chi erano. Poi siamo arrivati a Tambow. E lì ancora poco da mangiare e pieni, ma pieni di pidocchi che se facevi così ti riempivi la mano, era una ventina di giorni che non ci lavavamo. Con i pidocchi ti viene il tifo petecchiale e c’erano quelli che con la febbre alta chiamavano la moglie e i figli, poi avevano sete, io gli davo da bere, ma non potevo dargli da bere tanto, solo bagnargli la bocca potevo. E dovevo stare attento che non mi scappassero, ma uno una sera mi è scappato fuori, io non me n’ero accorto per niente che fosse scappato fuori. È rimasto là fuori, secco: aveva mangiato tanta di quella neve che poi era scoppiato. Quando morivi rimanevi lì come stecchito, come un bastone. Loro, i russi, ti raccoglievano, facevano dei gran catastoni con i morti e poi ci seppellivano dentro un fossone. E me a forza ed padess, padess, ero diventato trentotto chili, non ne potevo più, non riuscivo nemmeno più a mangiare. Passa la dottoressa per la visita e mi dice distrofici, che io non sapevo mica cosa voleva dire! E anche Caramalli era distrofici e quando siamo stati in treno in una città ci hanno divisi. Lì un altro controllo: te in Siberia, mi dicono e te Caramalli all’ospedale, che aveva tutte le gambe gonfie, poveretto! Allora io sono finito in Siberia a… un fat nom, e lì c’erano delle donne, delle siostre che mi hanno lavato, perché io non potevo fare niente, mi hanno messo in un lettino con una camicia bianca tutta pulita, in quello lì che doveva essere stato un cinema o un teatro, ma che ci avevano fatto un ospedale. Mi hanno messo a letto, in un lettino tutto pulito, che mi sembrava di essere nato un’altra volta, senza pidocchi, tutto pulito, in un letto! La dottoressa mi diceva Italianschi cusciai, ma come facevo a mangiare che
122
non ero buono, allora per un mese e più mi hanno dato loro da mangiare: mi imboccavano, come un bimbo. Mi facevano delle cure e sono stato là quattro, cinque mesi, ma fuori là non si stava mica, che c’era un freddo bestiale. Dopo da lì con la Transiberiana sono andato là vicino a Tashkent nel Turchistan, un mese di treno forse più, ci si fermava ogni tanto, ma senza cambiare, era un treno bestiame, facevamo tutto lì, quando si fermava ti facevano fare i tuoi bisogni e quando sono arrivato laggiù ci hanno divisi un’altra volta in categorie. C’erano i campi di concentramento, con dei gran baracconi: quello degli italiani, quello dei tedeschi, ognuno avevano il suo accampamento. Passa una dottoressa e mi mette nella prima categoria, dove bisognava fare i lavori più pesanti. Mi mettono a raccogliere il cotone, mi davano un gran grembiule che te lo mettevi a tracolla, riempivi dei sacconi, poi li andavi a vuotare e via. È leggero il cotone, là non veniva il freddo, venivano le piogge in settembre e basta, pativi un caldo, ma un caldo tremendo. Se mettevi un uovo nella sabbia lo cuocevi. Dopo un po’ ripassa la dottoressa, mi visita e mi mette nella seconda categoria, allora facevo dei lavorini più leggeri: prendevo la legna, pulivo il campo, andavo a prendere dei sacchi pieni da mettere dove passava il camion a caricarli. Perché raccogliere il cotone non è pesante, ma c’erano dei solchi lunghi come da qui a Monghidoro e bisognava camminare… e quando arrivavi lassù eri già stanco, solo per il gran camminare. Dopo un mese o due o tre, non ricordo, passa la dottoressa e mi dice distrofico un’altra volta. Alla mattina dopo mi mettono sul treno e mi mandano all’ospedale a Tashkent. Là stavo bene avevo da mangiare, c’era il giardino, ero debole però giravo e lì sentivo i tedeschi e i russi che la sera ballavano e cantavano, li stavo ad ascoltare fino a quando andavo a letto. Avevo sempre un po’ di febbre e quando mi è smessa la febbre, io davo una sfregatina al termometro, così facevo finta di avere ancora due o tre linee di febbre. Dopo da lì sono tornato al campo: Gamberini, prima categoria un’altra volta, e sono tornato là nel campo a raccogliere il cotone. Un giorno viene uno che ci chiede chi è bravo di fare il muratore, io sono buono! Eravamo in tre e ci mandarono in un paese grande: aggiustavamo le case, i tetti. Lì stavamo bene, neanche ci volevano
male, facevamo i lavori e loro ci davano della frutta, del pane. Un altro giorno, mi ricordo che eravamo sopra un tetto, arriva la guardia che ci dice: gli italiani vanno in Italia. Erano quattro anni che ero via! Giù di corsa, ho fatto un fagottino con la roba che avevo e poi via sul treno. Dopo una ventina di giorni mi consegnano agli americani, mi ricordo che era quasi sera, nel mese di dicembre o un po’ prima, del 1946. Gli americani ci hanno disinfettati per bene: fum fum. Ci mettono a dormire in un baraccone che alla mattina dovevamo partire per l’Italia, perché eravamo ancora in Germania. Sentiamo durante la notte un gran fracasso: erano venuti giù due piani della baracca di legno e ci sono morti due prigionieri che stavano per andare a casa. Alla mattina ci caricano in treno e finalmente arriviamo in Italia. A Verona c’era lo smistamento, abbiamo mangiato di tutto, anche il pane asciutto ho mangiato dalla voglia, perché anche là ti davano il pane, ma era un pane nero! Andiamo a prendere il treno, ma c’era una confusione in stazione chi montava, chi smontava e non mi facevano montare. Allora passa una guardia che si mette a urlare dio bosca, sono quattro anni che questi qui son via e non li fate neanche montare. Lui monta su e urla stringetevi un po’ fate un po’ di posto per un reduce! Allora finalmente sono montato e arrivato a Bologna vado a casa dal dottor Borelli, il nostro padrone, che c’era mia sorella a servizio. Suono, mia sorella apre e mi dice: cosa desidera lei, non mi riconosceva! A son to fradel! Si è messa a crider che non la smetteva più. In Siberia ho incontrato, uno di Firenze un fuoriuscito, che era scappato là dai tempi di Mussolini, che
sapeva come andava il fronte e ci diceva quando il fronte passava dalle nostre parti: a Loiano, a Monghidoro, così ho saputo della fine della guerra. Quando è venuto l’armistizio, ero là nel Turkistan, io pensavo adesso ci mandano a casa, ma ero diventato indifferente, dopo aver sofferto tanto… pensavo solo a lavorare, a fare i lavori così loro erano contenti. Delle volte di notte mi venivano in mente mia mamma e i miei fratelli, allora non dormivo, ma di giorno pensavo solo a lavorare. Dopo mi sono rimesso a fare il contadino, poi mi volevo sposare, ma non avevo i soldi e allora sono andato a lavorare in Belgio a Quenast, in carriera, sono stato là diciassette mesi. Appena sposato siamo andati in una casa in affitto, avevo Giuliano piccolo, ma sono andato in Germania perché volevo farmi una casa mia. Anche là ci sono stato diciotto mesi, facevo il muratore e al sabato e alla domenica quel padrone lì mi prendeva con lui a fare dei lavori e io guadagnavo bene. Volevo comprare quella casa lì e quando sono tornato l’ho comprata! È stata una vita dura la mia… Eravamo in otto fratelli, che in mezzo ce n’erano stati anche dei morti, degli angiolini. Mi ricordo che a Ca’ del Tosco mi è morta una sorella con la spagnola che si chiamava Giuseppina, era già una ragazzina che aveva dodici o tredici anni, poi un altro angelo che con il povero babbo, me a s’era un mimin, con una cassettina andammo a portarlo al cimitero. Ne è morto uno alla Villa di Mezzo che si chiamava Bruno, che lo aveva messo sotto una macchina, dopo la povera mamma ne ha fatto un altro, che l’ha chiamato anche lui Bruno. Otto figli più quelli che sono morti, dodici mi sembra ne abbia partoriti mia mamma.
123
La storia dei prigionieri italiani in Russia è una storia contrassegnata da terribili esperienze, durata, per chi vi sopravvisse, quattro o cinque anni, ma per alcuni persino dodici anni. Qualunque fosse il numero preciso dei prigionieri detenuti in Unione Sovietica, il dato che sconcertò l’opinione pubblica e diede vita ad un vivacissimo dibattito politico, fu quello dei prigionieri restituiti: a quattro anni dalla fine della guerra erano stati riconsegnati dalle autorità sovietiche solamente poco più di diecimila prigionieri italiani. Di fronte ad una disparità così evidente, tra i soldati verosimilmente catturati e quelli effettivamente restituiti, le autorità italiane rivolsero domande sempre più pressanti al governo sovietico, ottenendo sempre risposte inconcludenti ed evasive. Fu una polemica che si protrasse per anni, alimentata anche ad arte, da alcuni partiti politici, per screditare l’Unione Sovietica, il Pci e il ruolo avuto a suo tempo da Togliatti. Moltissimi manifesti, nelle campagne elettorali dopo la guerra, invitavano a non votare per il Pci, evocando appunto la prigionia subita in Russia dai nostri soldati. Gli italiani fatti prigionieri furono internati in molti lager sparsi su tutto il suolo sovietico, come Susdal, Krinowaja, Oranki, Tambow. L’Unione Sovietica si trovò impreparata a gestire un così alto numero di prigionieri, spesso feriti e già debilitati per i lunghi e faticosi trasferimenti. A questo si deve aggiungere che anche la popolazione di quel paese viveva, nello stesso periodo, in una terribile condizione di povertà, per l’enorme sforzo bellico in cui tutto il paese era impegnato. Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica sono stati aperti alcuni fondi archivistici, che hanno permesso a diversi studiosi di consultare moltissimi documenti, relativi ai campi di concentramento per i prigionieri di guerra. Il campo di Tambow, citato in questa testimonianza, non aveva costruzioni di superficie: gli alloggi erano dei veri e propri bunker sotterranei, costruiti in prossimità di piste d’atterraggio per gli aerei. Queste abitazioni erano inadatte a ospitare esseri umani, ma in ognuno di questi rifugi alloggiavano una quarantina di persone. Mancavano completamente l’illuminazione e l’areazione, un unico ingresso metteva in contatto con il mondo esterno. I prigionieri vi godevano di una relativa libertà: non vi erano infatti recinzioni, del tutto inutili, dato che le fughe erano rese impossibili dalle condizioni proibitive dell’inverno russo e dallo stato di salute dei prigionieri, decimati dal tifo petecchiale e debilitati dal lavoro e dallo scarso cibo. In base alle visite mediche i prigionieri erano suddivisi in quattro categorie: i sani (zdorovye), adatti a svolgere lavori pesanti; i parzialmente idonei al lavoro fisico (ogranicenno godnye), affetti da malattie congenite o da difetti fisici; i deboli (slabye), con gravi disturbi cronici o difetti fisici, da impiegare soltanto in lavori leggeri; infine gli invalidi, che non potevano essere assegnati ad alcun tipo di lavoro. L’assegnazione a un determinato gruppo era un fattore decisivo per la sopravvivenza dei prigionieri.
124
Nel libro “Monghidoro ai suoi caduti” sono citati quattro dispersi in Russia: Caramalli Alberto, nato il 29 gennaio 1922 a Monghidoro, da Federico e Massima Vergnani; ivi residente a Piamaggio, apparteneva all’8° Alpini. Dichiarato disperso sul fronte russo il 26 gennaio 1943. Ferretti Piero, nato il 27 gennaio 1919 a Firenze, da Giuseppe e Ersilia Naldi; residente a Monghidoro. Appartenente al 27° Reggimento Fanteria. Dichiarato disperso sul fronte del Don il 1° febbraio 1943. Tedeschi Primo, nato il 13 febbraio 1912 a Monterenzio, da Egidio e Rosa Farini; residente a Monghidoro. Dichiarato disperso dopo il combattimento sul fronte russo del 20 gennaio 1943. Francia Bruno, nato il 31 maggio 1920 a Monghidoro, da Ernesto e Elisa Mazzanti. Appartenente alla 2ª Divisione Alpina Tridentina. Disperso nel combattimento del 31 gennaio 1943 sul fronte russo. Mentre era morto per ferite di guerra il 3 maggio 1942 sempre sul fronte russo a Slohada Alxagiva Orlow, Giuseppe Galli, nato il 2 febbraio 1921 a Loiano, da Evangelista e Maria Commissari; residente a Monghidoro a Ca’ di Andreone.
Nessun uomo è veramente morto finché i suoi cari non lo bagnano con le proprie lacrime. Le lacrime sono come l’ultimo pugno di terra che ricopre il cadavere e ci annuncia che tutto è finito. Abd al-Rahman Munif, All’est del Mediterraneo
Bruno Francia
Ugo Francia
Avevo due fratelli: Bruno e Ugo, che non so nemmeno dove sono morti! Quegli altri fratelli lĂ , quelli che sono morti a casa, sono morti anche loro e non posso dimenticarli, ma li abbiamo messi nella terra, gli abbiamo portato dei fiori, ma questi due qui che sono morti lontani, che non si sa dove e non si sa come sono morti...
125
Testimonianza di Teresa Francia Registrata nella Maison de Retraite di Rebecq (Belgio) il 7 marzo 2008
Io sono andata a stare a Piamaggio che avevo nove anni. Avevo fatto solo la terza elementare: non si faceva di più, perché dopo si doveva andare a Loiano e allora da Campeggio, dove abitavo prima, andare a Loiano a piedi… non c’erano i mezzi che ci sono adesso. Mi ricordo che quando mia mamma è stata operata a Bologna era andata via da Campeggio a cavallo di un mulo fino a Loiano! Prima di sposarmi andavo a badare le pecore, si cantavano le dondine, per farsi compagnia con le amiche da lontano, non me le ricordo più, non le ho più cantate! Avevo due fratelli: Bruno e Ugo che non so dove sono morti. Bruno, il più piccolo che aveva solo vent’anni, una volta che era venuto a casa è riuscito a scrivere sotto una sua foto che era sul fronte del Donez in Russia. Solo che là c’è stato un gran bombardamento e allora noi non sappiamo se lui è morto sotto quel bombardamento, se era rimasto ferito, niente non abbiamo più saputo niente né dell’uno, né dell’altro. Tanti anni senza sapere niente perché le lettere, quando arrivavano, erano censurate. Quelle lettere poi me le hanno prese, perché dopo la guerra passava della gente che diceva: dammi l’ultima lettera che c’hai che facciamo delle ricerche. C’erano tanti dispersi qui da noialtri, anche alla Villa di Mezzo di sotto ce n’erano tre o quattro che non sono tornati neanche loro. Mamma per fortuna quando è morta non sapeva ancora che i suoi figli non tornavano più. E il babbo diceva sempre: lei è stata fortunata, me us védd c’ a s’era piò cattiv, lui è campato di più e ha saputo che non tornavano più. Perché fino a dieci anni hanno aspettato a dichiararli morti. Una volta che Bruno è venuto a casa in licenza ha detto: che nome c’hai messo alla bambina? C’ho messo nome Bruna. Cosa credevi che non tornavo, ma me ritorno e poi cominciava a cantare “mamma son tanto felice…” il jouait l’accordeon, come si dice… suonava la fisarmonica, se l’era fatta comprare con i soldi della deca, dopo non abbiamo più visto né lui né la fisarmonica. Tutti e due sono morti, nessuno è più tornato indietro, anzi ci dicevano: mi pare di aver
126
visto nel tal posto tuo fratello con la fisarmonica, ma non era vero tutte storie, tutte bugie. Quegli altri fratelli là, quelli che sono morti a casa, sono morti anche loro e non posso dimenticarli, ma li abbiamo messi nella terra, gli abbiamo portato dei fiori, ma questi due qui che sono morti lontani, che non si sa dove e non si sa come sono morti… Mio marito, Giuseppe Venturelli, l’ho sempre conosciuto e quando è cominciata la nostra storia, di lavoro ce n’era poco e si andava a lavorare un’ora qui un’ora là, e poi bisognava avere la cimice e se non si aveva la cimice voleva dire che non eri del partito fascista, e se dicevate che eravate comunisti vi davano l’olio di ricino. Così dovevi metterla la cimice se no non andavi a fare la giornata. Erano solo tre mesi che eravamo sposati, si cominciava a parlare di guerra e dicevano che se uno c’ha il lavoro non va in guerra, allora noi stupidelli siamo andati in Germania. C’era una campagna che si dovevano piantare le betteraves e le patate e finire la campagna quando avevamo tirato via le patate e le betteraves. Allora si poteva tornare a casa… Avevamo un contratto così con il padrone. Me sono stata poco, soltanto sette mesi, perché mi sono trovata incinta senza saperlo. Io ho preferito farlo a casa mio figlio che a lavorare nei campi tutto il giorno… Allora mio marito era in Germania e quando il bimbo è nato gli ho fatto un telegramma, dicendogli che sua madre stava male, perché così li hanno lasciati partire tutti: lui, sua sorella e suo marito. Dopo quell’altro anno ha rifatto la domanda, ma siccome c’era stato un guasto non tanto bello per quel momento, non gli davano più il permesso di partire. Degli uomini avevano preso un piatto e l’avevano tirato sul muro dove c’era la fotografia di Hitler e Mussolini dicendo: tieni, mangia. Mio marito non c’era nella comitiva, ma qualcuno ha detto che c’era, allora quello del comune, non gli dava più il permesso di partire e Giuseppe gli ha detto: se non mi dai il permesso di andare via at ciap par la gabena, te e anche gli altri, perché so chi ha fatto la spia. Allora l’ha lasciato andare via: è stato via due mesi poi è tornato a casa. Dopo sono restata incinta di Bru-
Teresa Francia nata il 28 settembre del 1914 a Campeggio (Monghidoro - Bologna).
na, che lui era in guerra e quando è tornato i miei figli avevano già sei e cinque anni. Dov’era stato non lo so e non sapevo neanche se era vivo o morto e quando è tornato a casa… vedo arrivare questo cadavere e penso quello là mi pare di conoscerlo, aveva perso quaranta chili e poi che lo avevano anche tenuto a Milano credo in quarentaine, che l’avevano rimesso un po’ se no era anche peggio. Durante la guerra mia cognata lavava la roba per i soldati tedeschi e loro dicevano: voglio tutto per domani e lei diceva come faccio ad asciugarli! Che quel settembre pioveva sempre, allora aveva quei ferri da stiro che si mettevano le braci dentro e stirava con quelli. Un giorno i bambini, là in un buco che avevano fatto i soldati per ripararsi, hanno preso della miccia, ma loro non sapevano che era della miccia, per legare quel ferro, così il ferro è andato in briciole e mio nipote ha perso un occhio, anzi non l’ha perso del tutto perché per non perdere l’occhio, l’hanno lasciata lì nell’occhio la scheggia, che non c’ha dato mai fastidio. Anche mio fratello si era tirato via un occhio a tagliare il filo barbelé per fare le siepi, ne ha preso un rotolo, l’ha tagliato senza pensarci e il filo gli ha sbattuto in faccia e lui l’ha perso l’occhio, così che padre e figlio erano senza un occhio. Lui, mio marito Giuseppe, è venuto qua in Belgio che ero incinta di Giuliana, siamo stati separati, ancora una volta, per quattro o cinque anni. Io invece con i bimbi sono arrivata in Belgio nel 1951 con i miei tre figli: Giuliana che aveva tre anni e mezzo e i due più grandi, Emilio e Bruna. Subito noi non avevamo niente quando siamo arrivati qua. Come volete fare con le valigie non si può prendere tanta roba. I piatti e le cose così li avevamo in una scatola in terra con dentro un po’ di roba, così. C’era una vicina che, siccome suo padre era morto, vendeva tutto davanti a casa e chiamava Emilio,
128
che andava a scuola e parlava già un po’ di francese, dì alla mamma se vuole questa roba. Cosa volete che dicessi no che non avevo niente, mi vergognavo di accettare, non osavo prenderla, ma lei mi ha dato una tavola rotonda con le sedie, un bonheur de jour, che era un armadio piccolo, la stufa di suo padre, che c’era una boule, quella sì che scaldava, con quella potevo far venire su le tagliatelle, mi ha dato di tutto. In casa parlavamo in dialetto, dopo i maestri hanno obbligato le mamme a parlare in italiano ai bambini. Qui i nostri bambini dovevano parlare italiano e non dialetto. Tra noi italiani c’era un po’ di razzismo perché i figli frequentavano due scuole diverse, ma noi non avevamo mica suasito le scuole, non si sapeva mica niente che c’erano due scuole. Era venuto il direttore a segnarli! Poi c’era venuta una crisi nella carrière, allora sembrava che si doveva andare o in miniera o a casa e Giuseppe mi ha detto: vado dappertutto, ma in mina no, per fortuna dopo è tornato il lavoro nella carrière. C’era del razzismo qui. Emilio ha fatto le scuole serali. Per andare a Tubize adesso c’è una bella strada, ma allora c’era un sentierino vicino alla Senne e lui passava da lì vicino e me avevo sempre paura, perché il sentiero era piccolo e se tardava due minuti avevo paura che me lo gettassero dentro e gli andavo incontro. Perché c’era uno che aveva detto in autobus: quando si è comandati da dei bambini stranieri, siamo ben a posto e se io prendo quello là per il collo… Io allora avevo paura. Eravamo un po’ odiati, a noi ci dicevano macaronì, ma noi si diceva a loro patate. Quello che ho detto è vero, io per adesso la testa ce l’ho ancora buona. Abbiamo fatto delle vite da bestie.
Teresa Francia con i figli Emilio e Bruna.
129
L’altro fratello di Teresa, Ugo Francia, nato il 20 settembre 1910 a Monghidoro, fu dichiarato disperso dopo il combattimento a Tobruk, in Libia, dell’11 dicembre 1941, come Mario Tedeschi, nato il 27 febbraio 1915 in Germania a Duisburg, da Fortunato e Rosa Mascherini; residente a Monghidoro. Morirono sempre in Africa anche: Giorgi Vittorio, nato il 3 ottobre 1915 a Monghidoro, da Alfredo e Assunta Macchiavelli. Dichiarato disperso dopo il combattimento a Ayn el Ghazala (Libia), del 31 dicembre 1941. Naldi Pillade, nato il 20 settembre 1914 a Monghidoro, da Aurelio e Anna Ferretti. Morì per ferite da schegge, riportate in combattimento il 14 novembre 1941. La cimice, citata nella testimonianza di Teresa Francia e in altre biografie, era il termine dispregiativo che si usava per il distintivo, portato all’occhiello della giacca, dagli iscritti al Partito nazionale fascista. L’allusione a questo insetto sgradevole era un chiaro giudizio politico, oltre che un modo efficace per screditare chi lo portava. Nell’Imolese e in Romagna il distintivo era chiamato la zecca, altro insetto non meno sgradevole. Tre erano gli elementi cari alla liturgia nazionale fascista: il distintivo, la camicia nera, il saluto romano. Nel 1941 nella rivista fascista Gerarchia si sottolineava con ironia ma anche severità che “è ora di sfatare la leggenda che taluni fascisti, non portando il distintivo del Partito all’occhiello, compiano un atto di indisciplina o di semplice menefreghismo. Compiono invece un atto di vera e mera viltà, inquantoché nel contempo non rinunciano, e non rinuncerebbero per la pelle, al possesso della tessera che loro serve egregiamente per il posto, per la tranquillità e per ogni opportunissima evenienza […]. Quanta brava gente perde involontariamente il suo distintivo! Bisognerà che i sarti si decidano a ridurre le misure delle asole nei risvolti delle giacche. Con queste asole di grosso calibro i distratti vanno incontro a un’infinità di seccature”. Inoltre il regime fascista, per preparare i giovani alla vita militare, aveva predisposto quattro strutture paramilitari: Figlio della lupa, per i bambini della fascia tra i 4-5 anni e le scuole elementari; Balilla, sino alla licenza elementare; Avanguardista, sino ai 15-16 anni e Giovane
130
fascista, sino ai 18. Le ragazze erano organizzate nei reparti delle Piccole e Giovani italiane. Tutti erano inquadrati nell’Onb (Opera nazionale balilla), divenuta in seguito Gil (Gioventù italiana del littorio). La divisa dell’avanguardista era composta di calzoni alla zuava e giacca militare grigioverde, cappello da alpino, fasce ai polpacci e scarponi. Una volta la settimana, l’avanguardista era obbligato a partecipare, in divisa, alle adunate e alle esercitazioni militari che si tenevano nei Gruppi rionali. L’istruzione era diretta da ufficiali della Mvsn. Il fascismo poi, come tutti i regimi totalitari, aveva individuato nella scuola il luogo dove “forgiare i nuovi italiani”, pronti a “credere, obbedire e combattere”. Dall’esame dei testi, in uso nelle scuole di quegli anni, emerge chiara l’opera di propaganda che il fascismo affidava alla scuola. Rientrano in quest’ambito: le biografie e i detti celebri del Duce; l’esaltazione della guerra, anche attraverso i racconti eroici dei reduci della prima guerra mondiale; la “beatificazione” dei cosiddetti martiri del regime, caduti mentre lottavano eroicamente contro i sovversivi, che nel periodo postbellico volevano “portare la Patria alla rovina”; la magnificazione delle opere del regime; l’insistenza sul principio di autorità e sulla necessità di una sottomissione pronta e fiduciosa ai voleri del Duce; la celebrazione della storia romana, vissuta come modello di riferimento per il nuovo impero. Gli insegnanti dovevano porre “gli eterni valori della razza italiana” al culmine di ogni attività formativa, erano obbligati ad un giuramento di fedeltà e venivano allontanati dall’insegnamento se trovati in “condizioni di incompatibilità colle direttive politiche del governo”.
1934 - Una Piccola italiana in divisa.
Oltre a quelli già citati nelle biografie, morirono in vari combattimenti: Barbi Mario, nato il 14 novembre 1922 a Monghidoro, da Angelo Saturno e Cristina Santi; ivi residente a Valgattara. Morto in combattimento il 22 aprile 1945 a Casalecchio dei Conti (Castel San Pietro Terme - Bologna). Bonafè Pietro, nato il 19 giugno 1921 a Monghidoro, da Alberto e Roberta Fabbri; ivi residente al Fosso. Morto il 19 settembre 1943 a Blussans (Francia). Naldi Orfeo, nato il 9 marzo 1921 a Monghidoro, da Enrico e Elena Romani. Morto in combattimento il 9 settembre 1943 e tumulato a Tarvisio. Bolognini Gino, nato il 14 novembre 1921 a Monghidoro, da Aurelio e Livia Monari. Fu dichiarato disperso sul fronte a Gela (Caltanisetta) il 18 luglio 1943. Monari Valerio, nato il 20 agosto 1923 a Monghidoro, da Aurelio Ettore e Giuseppina Santi; ivi residente al Molino del Piattello. Dichiarato disperso in Friuli dopo uno scontro con bande armate il 13 gennaio 1944. Monti Carlo, nato il 23 novembre 1920 a Monghidoro, da Giuseppe e Amelia Fabbri. Morì in combattimento il 13 febbraio 1943 a Trava, nell’attuale Serbia. Fu decorato con la medaglia d’Argento. Per malattie o ferite contratte in combattimento morirono: Benni Giuseppe, nato il 22 dicembre 1912 a Chiavari, da Cesare e Erminia Maria Naldi, residente a Monghidoro, a Ca’ del Tosco. Morto per malattia all’ospedale di Bisceglie (Bari) il 28 gennaio 1944. Farini Ferruccio, nato l’11 maggio 1921 a Monghidoro, da Ernesto e Maria Olimpia Mantelli; ivi residente a Ca’ di Marcone. Carabiniere, morì per ferite a Cossana (Slovenia) il 10 marzo 1943.
132
Francia Elmo, nato il 3 giugno 1921 a Monghidoro, da Roberto e Augusta Benassi; ivi residente a Valgattara. Morì all’ospedale militare di Gorizia il 28 maggio 1942. Tedeschi Giovanni, nato il 23 dicembre 1921 a Monghidoro, da Clorindo e Pia Giorgi; ivi residente a Piamaggio. Morì per ferite a Longatico (Slovenia). Ventura Carlo, nato il 10 agosto 1910 a Monghidoro, da Giuseppe e Giuseppina Ravaglia; ivi residente alla Torre di Vergiano. Morì a Bologna per malattia contratta in guerra il 18 ottobre 1942. Per l’affondamento della nave sulla quale erano imbarcati: Lorenzini Fulvio, nato il 19 maggio 1912 a Monghidoro, da Francesco e Clementina Sazzini; ivi residente a Pallerano. Dichiarato disperso in mare per l’affondamento del piroscafo Laconio il 12 settembre 1942. Nanetti Giuseppe, nato il 18 ottobre 1912 a Monghidoro, da Enrico e Amalia Lorenzini; ivi residente a Campeggio. Morto il 12 febbraio 1942 nell’affondamento della nave sulla quale era imbarcato, nelle vicinanze delle Isole dell’Assunzione. Sazzini Carlo, nato l’11 giugno 1922 a Monghidoro, da Leopoldo e Maria Bruzzi; ivi residente a Fontana Bona. Dichiarato disperso in mare il 28 dicembre 1942.
E inoltre morirono i figli di Enrico Sazzini e Chiarina Bacci: Guido e Bruno.
Sazzini Guido, nato il 27 maggio 1909 a Monghidoro. Morì per ferite il 28 gennaio 1943 nella regione di Lika (Croazia). Sazzini Bruno, nato il 20 ottobre 1896 a Monghidoro. Disperso in mare il 31 dicembre 1942, mentre veniva trasportato in campo di concentramento.
Altri italiani erano morti, anni prima, su navi che li trasportavano verso altri paesi in cerca di lavoro, come l’umanità, altrettanto dolente e in fuga verso una speranza di una vita migliore, delle carrette di oggi, che attraversano il nostro Mediterraneo e che alcuni vorrebbero respingere verso i paesi di provenienza.
Il quattro agosto alle cinque di sera nessun sapeva l’arriv del destin. E da Genova il Sirio partiva per l’America varcare i confin. Urtò il Sirio un terribile scoglio di tanta gente la misera fin.
Il piroscafo citato in questa canzone popolare, il Sirio, non era una carretta del mare: era un transatlantico di lusso, navigava dal 1883, ma era stato adattato, per trasportare le migliaia di italiani che in quegli anni andavano a cercare fortuna in Sud America. Era pieno di clandestini, che non avevano cabine, ma solo stanzoni dove vivevano in promiscuità come bestie, per tutti i 30 giorni della traversata. C’erano 1.300 persone a bordo, quando alle 16.30 del 4 agosto 1906 il piroscafo finì contro una delle secche più note del Mediterraneo, al largo di Capo Palos, sulla costa sud-orientale della Spagna, mentre era diretto allo Stretto di Gibilterra. I registri dei Lloyd’s di Londra registrarono 292 morti, ma sono più di 500 le tombe italiane con quella data nei cimiteri della costa spagnola.
Il naufragio del vapore italiano Sirio.
La stessa canzone venne adattata negli anni trenta per ricordare un altro naufragio: quello della nave Principessa Mafalda, che aveva scaricato nell’America del Sud migliaia e migliaia di emigranti italiani, in numerosi viaggi senza soste. I suoi motori non funzionavano più a dovere e l’11 ottobre del 1927 partì dal porto di Genova in ritardo, proprio per problemi alle macchine. Dopo tre giorni si inoltrò nell’Atlantico, nonostante i motori si fossero fermati diverse volte, obbligandola anche ad una sosta a Dakar per riparazioni. Il 25 ottobre la nave cominciò ad imbarcare acqua davanti alle coste brasiliane e a bordo si scatenò il panico. Le scialuppe erano insufficienti e il capitano, pistola alla mano, cercò per ore di regolare l’evacuazione. Ma i passeggeri erano troppi e terrorizzati: molti si buttarono in un mare infestato dagli squali: ne morirono 385.
133
ESTATE 1944 Tra il mese di giugno e il 2 ottobre del 1944 fu commessa a Monghidoro dai tedeschi, affiancati da alcuni repubblichini locali, una vera strage di civili. Martedì 27 giugno all’alba una compagnia di Ss tedesche irrompe nel territorio della frazione di Campeggio. Nel corso di un rastrellamento prendono e uccidono: Benni Angelo, nato il 1° giugno 1871 a Monterenzio, da Antonio e Lucia Ghini; residente a Monghidoro, al Poggio di Campeggio. Mezzadro. Gnesini Vittorio, nato il 23 marzo 1900 a Monghidoro, da Augusto e Amalia Ruggeri; ivi residente a Ca’ di Cò. Calzolaio. Militò nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi e operò sull’Appennino tosco emiliano. Fu ucciso dai nazifascisti alle quattro di mattina in una mulattiera alla Torre. Riconosciuto partigiano. Nanni Gino, nato il 7 maggio 1922 a Pianoro, da Aldo ed Elena Baldi, residente a Monghidoro nella frazione di Campeggio. Bracciante. Militò nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi e operò nella zona di Monghidoro. I tedeschi, dopo avergli bruciato la casa, lo fucilarono in località Pergola di Campeggio. Riconosciuto partigiano. Quadrio Maria, nata il 31 luglio 1910 a Monghidoro, da Cesare e Augusta Tedeschi; ivi residente a Valle di Campeggio. Casalinga. Venne fucilata dai tedeschi nei pressi della sua casa.
Testimonianza di Nello Lelli - p. 80 Durante quel rastrellamento di giugno mio padre fu anche ferito. Lui era in casa con Gnesini Vittorio, che era venuto ad informarlo che c’erano i tedeschi alle Ca’ di Cò, che si stavano preparando per fare un rastrellamento. A un certo punto decisero di scappare di casa e mio babbo s’infilò sotto a un mucchio di fieno, ma gli spararono e lo ferirono al lobo dell’orecchio, mentre Gnesini, che era scappato nella macchia, fu inseguito e ucciso come un cane. Il suo corpo lo scoprì una di Pallerano una certa Nannoni che, siccome i tedeschi le avevano rubato il miele, gli correva dietro, perché voleva che glielo ridessero; si fermò alla Torre e ci raccontò che lì in mezzo alla strada c’era un uomo morto e io e un mio fratello, un trovatello, andammo giù e trovammo questo uomo, che gli mancava mezza testa, l’avevano ammazzato a botte, con il calcio dei fucili. Mio babbo da quel giorno lì non ha più dormito in casa, alla notte andava alla macchia con altri. Quando tornarono indietro tutte le Ss con una fila con più di cento persone, che avevano prelevato per portarle a Loiano, mio babbo, che era venuto in casa a mettersi un po’ di carta sull’orecchio che gli faceva sangue, fu bloccato lì dai tedeschi, noi pensammo: questa è la fine. Invece no, gli chiesero cosa si era fatto e lui rispose che era scivolato e che si era fatto male. I tedeschi si fermarono a mangiare qualcosa e uno, che parlava in italiano, gli disse: adesso arrivano quelli che sono andati in avanscoperta, si nasconda bene perché se lo vedono prelevano anche lei, si nasconda bene perché lei, io lo so, se lo prelevano non torna più a casa. Io se lo vedessi quell’uomo lì lo ringrazierei, perché ha salvato la vita a mio padre. Era vestito da Ss, come tutti gli altri, ma era un italiano.
135
Venerdì 11 agosto viene trucidato, dopo aver subito torture: Calzolari Domenico Enrico, detto il Barberin, nato 1’8 gennaio 1898 a Monghidoro, da Giuseppe e Rosa Bacci; ivi residente. Barbiere. Militò sull’Appennino tosco emiliano nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi. Riconosciuto partigiano.
zuno. Mezzadro. Militò nella brg Stella rossa Lupo e operò sull’Appennino tosco emiliano. Mentre i fratelli furono impiegati soprattutto come staffette, lui scelse di fare vita di brigata. Nel giugno 1944 fece parte della squadra che, comandata da Otello Musolesi, catturò cinque fascisti di Monzuno che successivamente vennero liberati in cambio della scarcerazione di Emilio e Guido Musolesi. Il 27 luglio 1944 insieme con sei compagni prese parte ad un combattimento contro i tedeschi nella zona di Polverara nel corso del quale un tedesco rimase ferito. Il 28 luglio 1944 partecipò alla riunione con Mario Musolesi nel corso della quale venne deciso il trasferimento verso Pietramala di Firenzuola (Firenze). Nella notte ci fu il grande rastrellamento dei nazifascisti nella zona. Con i compagni riuscì a uscire dall’accerchiamento e a portarsi nella zona del Molino della Valle. Deciso a rimanere in brigata il 2 agosto 1944 ottenne una licenza per recarsi a casa, preoccupato per la sorte dei familiari. Dormì cinque notti nei campi, ma la notte dell’8 agosto decise che avrebbe potuto dormire in casa, e quando i nazifascisti circondarono la casa paterna tentò la fuga calandosi dalla finestra, ma venne catturato immediatamente e portato a Monghidoro. Riconosciuto partigiano. Musolesi Pietro, nato il 22 novembre 1921 a San Benedetto Val di Sambro. Nel 1943 residente a Monzuno. Mezzadro. Militò nella brg Stella rossa Lupo ed operò sull’Appennino tosco emiliano. La notte dell’8 agosto 1944, venne rastrellato insieme con i familiari e dopo essere stato portato a Monzuno venne trasferito a Monghidoro. Riconosciuto partigiano.
Con lui furono fucilati: Gino, Giovanni e Pietro, figli di Cleto Musolesi e Maria Gamberini, nata a Monghidoro e che, da ragazza, abitava ai Castelletti.
Musolesi Gino, nato il 16 luglio 1916 a San Benedetto Val di Sambro. Nel 1943 residente a Monzuno. Mezzadro. Militò nella brg Stella rossa Lupo e operò sull’Appennino emiliano. Riconosciuto partigiano. Musolesi Giovanni, nato il 6 febbraio 1924 a San Benedetto Val di Sambro. Nel 1943 residente a Mon-
136
Testimonianza di Sergio Nassetti - p. 106 Il giorno che hanno ammazzato Calzolari io ero lì con suo figlio Sergio e Cesarino delle Mingoline che giocavamo che c’era una massa di ghiaino, sentiamo tum, tum, erano i tedeschi con davanti il Barberin, lui si voltò verso suo figlio, ma un tedesco gli diede uno schiaffo e lo fece voltare dall’altra parte, allora Sergio disse c’è babo, vado a dirlo a mama, andò in casa. C’erano altri quattro con lui, che poi ne ammazzarono solo tre, erano quelli dl’Acquafresca, uno lo mandarono a casa, perché era troppo giovane.
Testimonianza di Nello Lelli - p. 80 Calzolari era nel mirino, che essendo barbiere, incamerava notizie da tutti, aveva una buona copertura. Io ne ho presi tanti di bigliettini da lui per mio padre e gliene ho anche dati. C’era tutto uno stratagemma, gli portavo le uova, dentro una sportina. Portale al Barberin, mi diceva mio padre, che mi sono andato a tosare e non ha voluto niente. Lui poi mi dava un bigliettino, dallo a tuo padre, non guardarlo mica che ci sono delle cose… io li nascondevo in mezzo ai libri. Non li ho mai letti! Quella mattina… io come tutte le mattine andavo a scuola dalla Nanetti, quella mattina d’agosto mi ricordo che mi disse di andare a casa: perché oggi a Monghidoro succedono delle cose, che è meglio che tu non le veda. Io presi i miei libri e andai a casa e mio padre mi disse: beh, com’è che sei a casa! Io gli dissi che era stata la maestra a mandarmi via. Vuoi scommettere che ammazzano quei poveri ragazzi che hanno arrestato là a Ca’ di Giorgio, disse mio padre. Dopo passò di lì una persona, che piangeva e urlava: hanno ammazzato il Barberin e altri tre o quattro ragazzi, li hanno fucilati nel campo della fiera.
Furono portate a Monghidoro anche le sorelle: Amelia Musolesi, nata il 13 luglio 1919 a San Benedetto Val di Sambro, colona, militante nella brg Stella rossa Lupo; Bruna Musolesi, nata l’11 marzo 1928 a Monzuno, colona, attiva nella brg Stella rossa Lupo; il fratello Fernando Musolesi, nato l’8 agosto 1926 a Monzuno. Il fratello Ubaldo, detto Moretto, nato il 14 settembre 1914 a San Benedetto Val di Sambro, stabilitosi con la moglie a Bologna, nel 1944 lavorava per i tedeschi in una polveriera militare in via della Barca. Dopo l’uccisione dei fratelli abbandonò il lavoro e con le sue informazioni contribuì alla distruzione del deposito di munizioni. Militò nella 63ª brg Garibaldi con funzione di capo nucleo e in seguito di commissario politico. Venne catturato dopo essere rimasto ferito nel corso di un combattimento. Venne trascinato fino alla piazzetta a lato del ponte ferroviario di Casalecchio di Reno, dove il 10 ottobre 1944 venne barbaramente impiccato con un filo di ferro e fucilato dai tedeschi, assieme ad
altri 12 partigiani. La moglie Dina Musolesi, quando fu informata che il marito era uno dei 13 partigiani trucidati, si recò sul luogo dell’eccidio. Ha lasciato scritto in proposito: “I tedeschi che erano di guardia al cavalcavia, m’intimarono di andarmene, ma forse la mia disperazione li fece commuovere e mi lasciarono fare. Mi aggrappai a lui, lo tirai giù, lo ricomposi, lo guardai bene: gli avevano sparato negli occhi, in bocca, sfigurato, ridotto un mostro. Più che le sue sembianze riconobbi il vestito, la camicia, e il piede mozzato e fasciato, come mi era stato detto. Due giorni dopo lo seppellirono in una buca di una bomba, nel medesimo posto”. Le fu conferita la Croce al merito di guerra. Riconosciuta partigiana per aver militato nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi e nella brg Stella rossa Lupo. Successivamente passò all’8ª brg Masia Gl e fu addetta al Sim e operò a Bologna.
10 ottobre 1944 - Eccidio del Cavalcavia di Casalecchio di Reno.
137
Testimonianza di Fernando Musolesi Registrata a Casalecchio di Reno il 7 maggio 2009
Nell’agosto del 1944 abitavamo all’Acquafresca di Monzuno. Avevamo un fratello che era nei partigiani in una brigata e anche mia sorella Amelia, faceva la staffetta dei partigiani. Avevamo un podere grande con la stalla e un bel po’ di bestie. Eravamo una famiglia molto attrezzata, come agricoltori, avevamo un capitale, lavoravamo tutti nel podere, anche se eravamo tutti partigiani, ma solo Giovanni era proprio in brigata. In luglio, la brigata Stella rossa, dove c’era anche mio fratello Giovanni, era andata in piazza a Monzuno a prelevare quattro fascisti dalla loro caserma, per fare uno scambio, perché i fascisti avevano arrestato e portato in San Giovanni in Monte, il padre, la madre e un fratello del Lupo. I partigiani presero questi fascisti e li portarono in brigata, scrissero una lettera al parroco di Monzuno, che si chiamava Castelli, perché si desse da fare a organizzare uno scambio. Il parroco s’impegnò e lo scambio avvenne. Quando il babbo, la mamma e il fratello furono liberati, il Lupo chiese: cosa ne facciamo adesso di questi fascisti? Allora Otello Musolesi, che poi è stato sindaco di Monghidoro, ma non era nostro parente, disse che anche in guerra si facevano gli scambi di prigionieri. Allora li rimandarono a casa, solo uno di loro, un certo Scarani, andò dalle Ss e siccome in brigata aveva visto mio fratello, fece la spia: lo disse ai tedeschi, che fecero la retata. Alle tre e mezza di quella notte la nostra casa era già circondata dai tedeschi e quando ci alzammo, svegliati dai colpi alla porta, erano lì che ci aspettavano sotto casa. Ci hanno tirati fuori tutti, hanno minato la casa e l’hanno fatta saltare in aria. Con i tedeschi c’era anche quello che aveva fatto la spia. Ci prelevarono tutti e mio fratello, quello che era partigiano, gli disse: fai come abbiamo fatto noi, noi vi abbiamo mandati a casa tutti, lascia stare la mia famiglia; ma loro niente. Avevano caricato sui camion anche dell’altra gente di Monzuno, dalla Pilla, da Ca’ Rondelli e incendiato altre case. Siamo rimasti a Monghidoro due o tre giorni. Con noi lì, a Ca’ di Giorgio, vennero portati anche i miei fratelli più piccoli, Maria e Adolfo, ma li lasciarono tornare subito a casa, perché erano troppo giovani; avranno avuto tredici, quattordici anni.
138
Lì siamo stati interrogati uno alla volta e a me quel traditore, che era lui che ci veniva a prendere e ci portava su per gli interrogatori delle Ss, nel tornare giù mi disse che sarei stato l’unico dei Musolesi a salvarsi, perché ero il più giovane. Un pomeriggio verso le tre, tre e mezza abbiamo sentito le raffiche: li avevano fucilati. Una sera ci caricarono su dei camion per portarci a Bologna. I tedeschi sopra il camion ci dissero che chi aveva fatto fucilare i miei fratelli erano stati dei nostri paesani. Ci hanno portati alle Caserme rosse e lì ci hanno passato a una visita, ci davano dei numeri: chi prendeva il numero tre era invalido o vecchio e tornava a casa, chi prendeva il numero due veniva mandato a lavorare con la Todt, a chi toccava il numero uno partiva per la Germania. A me toccò il numero due, alle mie sorelle Amelia e Bruna toccò il numero uno. Le avrei riviste alla fine della guerra, nel giugno del 1945. Io con due miei amici siamo stati portati sopra Forlimpopoli. Là c’era un tedesco che ci spiegava cosa dovevamo fare: qui c’è poco da mangiare, ma molto da lavorare, dovete fare delle fortificazioni. Io ero dietro tutti e piano, piano, mentre lui parlava mi sono allontanato un passo indietro alla volta, c’era una discesa e io mi sono buttato e sempre piano, piano mi sono allontanato. Arrivo in un campo di grano e c’era un tedesco con la testa appoggiata sul fucile, forse ha fatto finta di dormire, mi ha lasciato passare, senza fare una mossa, si vede che era un tedesco buono. Sono scappato e sono riuscito a tornare a casa. Là c’erano i miei genitori con i fratelli più piccoli, la moglie di mio fratello Gino, con una bimba di sei, sette mesi, erano tutti a dormire dentro la stalla, che la nostra casa era stata distrutta. Poi in ottobre arrivarono gli americani. Quello è stato un momento bello. Dalla guerra noi abbiamo avuto dei gran disastri e una gran miseria. La casa distrutta e quattro fratelli morti. Gino, Giovanni e Pietro a Monghidoro e Ubaldo, ucciso assieme ad altri dodici partigiani nella piazzetta prima del ponte di Casalecchio di Reno, che noi poi lo sapemmo dalla moglie solo dopo la liberazione di Bologna.
Fernando Musolesi nato l’8 agosto 1926 a Monzuno (Bologna).
Martedì 19 settembre viene ucciso: Macchiavelli Domenico, nato il 1° marzo 1917 a Monghidoro, da Augusto e Teresa Bonafè; ivi residente. Operaio. Militò nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi e operò sull’Appennino tosco emiliano. Venne fucilato dai tedeschi a Bosco della Rovina. Riconosciuto partigiano. Mercoledì 27 settembre viene ucciso: Giovannardi Ferdinando, nato il 1° maggio 1906 a Firenzuola, da Antonio ed Ernesta Valenzi; residente a Monghidoro. Operaio. Militò nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi e operò sull’Appennino tosco emiliano. Catturato dai tedeschi, mentre tentava la fuga fu colpito mortalmente da raffiche di mitra. Riconosciuto partigiano. Dopo pochi giorni, venerdì 29 settembre 1944, vengono rastrellati a Ca’ del Costa e uccisi a Ca’ di Giorgio, dove c’era il comando tedesco: Magaroli Celestina, nata il 27 dicembre 1919 a Monghidoro, da Enrico e Pia Bolognini; ivi residente. Casalinga. Aveva due figli: Francesco di quattro anni e Alda di tre. Bassi Bianca, nata il 4 marzo 1920 a Monghidoro, da Enrico e Amalia Tedeschi; ivi residente a Ca’ del Costa. Ubaldini Amalia, nata il 22 marzo 1893 a Firenzuola, da Simone e Rosa Bacciani; ma residente a Monghidoro, nella frazione di Ca’ del Costa. Colona. Fucilata con il figlio Franco Lolli di soli tredici anni. Lolli Franco, nato il 17 settembre 1931 a Monghidoro, da Luigi e Amalia Ubaldini; ivi residente a Ca’ del Costa. Fucilato a soli 13 anni con la madre. … e poi lunedì 2 ottobre, mentre a Monghidoro si festeggiava l’arrivo degli americani, i tedeschi portavano a termine l’ennesima strage a Roncastaldo, piccolo borgo a metà strada fra Loiano e Monghidoro.
140
Tutti questi uomini furono prelevati in una casa nella frazione dei Piamaggioli, mentre gli americani già si vedevano a pochi chilometri in linea d’aria. Erano tutti conosciuti come persone che non avevano mai dimostrato simpatie per il fascismo, alcuni di loro, dopo l’8 settembre, si erano resi irreperibili, nascondendosi nei boschi, vicino a casa. Alcuni avevano collaborato con i partigiani. Calzolari Carlo, nato il 29 ottobre 1909 a Monghidoro, da Giuseppe e Clorinda Fenara; ivi residente alla Casella. Colono. Militò nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi e operò sull’Appennino tosco emiliano. Riconosciuto partigiano. Caramalli Fortunato Antonio, nato il 3 maggio 1916 a Monghidoro, da Enrico e Augusta Barbi; ivi residente. Fabbro. Attivo sull’Appennino tosco emiliano nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi. Riconosciuto partigiano.
I figli di Giuseppe Gamberini e Amabile Naldi: Bruno e Ernesto.
Gamberini Bruno, nato il 12 maggio 1915 a Monghidoro; ivi residente ai Piamaggioli. Colono. Militò nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi e operò sull’Appennino tosco emiliano. Riconosciuto partigiano. Gamberini Ernesto, nato il 14 giugno 1908 a Monghidoro; ivi residente a Piamaggioli. Colono. Militò nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi e operò sull’Appennino tosco emiliano. Riconosciuto partigiano. Marchetti Giuseppe, nato il 28 giugno 1925 a Monghidoro, da Enrico e Maria Gamberini; ivi residente a Ca’ del Costa. Operaio. Militò nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi e operò a Loiano. Riconosciuto partigiano.
I figli di Angelo Minarini e Germana Eufrasia Carara: Emidio e Pietro.
Minarini Emidio, nato il 10 marzo 1904 a Monghidoro; ivi residente. Operaio. Militò nella 62ª brg Camicie rosse Garibaldi e operò sull’Appennino tosco emiliano. Riconosciuto partigiano. Minarini Pietro, nato il 20 dicembre 1908 a Monghidoro; ivi residente a Piamaggio. Colono. Militò nella 62ª brg Camicie rosse e operò sull’Appennino tosco emiliano. Riconosciuto partigiano.
141
Roncastaldo, il monumento dell’architetto Paolo Filippini: una vecchia pietra sulla quale si batteva il grano, una croce e un’architrave spezzata come le vite di quegli uomini.
142
4 novembre 1973, inaugurazione del monumento di Roncastaldo. Da sinistra: Tullio Trabatti sindaco di Monzuno, Umberto Morara sindaco di Monterenzio e Cesare Mezzini sindaco di Loiano.
143
Testimonianza scritta di Guido Minarini
Siamo nella primavera del 1941. Mio padre Pietro e mia madre stanno partendo con la corriera. Non so dove vanno. So che rimango in paese con mia zia Maria. Piango disperato, voglio andare con loro. Mia madre si asciuga le lacrime e mio padre dice che mi porterà dei regali. Mi sembra di sentire un gran dolore, specie per la perdita di mio padre cui sono più attaccato perché mi porta sempre con lui. Mio padre e mia madre, figli di contadini, vestiti per l’occasione con gli abiti migliori sono partiti. Dicono che vanno in Germania a lavorare nelle campagne tedesche. I tedeschi sono in guerra, al fronte. Hitler e Mussolini si sono messi d’accordo per far lavorare la terra germanica da braccia italiane. Rimango a Monghidoro con la zia nella casa del nonno paterno Angelo, vecchio, paralizzato che è costretto sempre a letto. Per fortuna c’è mio cugino Sergio di poco più piccolo di me. Sono comunque turbato, sconvolto, disperato e anche arrabbiato per essere stato staccato improvvisamente dai miei. Domando allora di essere portato dal nonno materno Giuseppe ai Piamaggioli, senza venire ascoltato. Le lacrime di un bambino di circa due anni non hanno peso, non le ascolta nessuno. Nella faccia dei forestieri che vedo in paese, specie il giovedì, giorno di mercato, cerco, invano, quella di mio padre. Marzo 1942: ritorna mia madre. Mi pare abbia una gran pancia. Dicono che fra poco avrò un fratellino o una sorellina. È mia madre, eppure ho diffidenza non la riconosco come tale. Agosto 1942: improvvisamente mio padre si affaccia all’uscio di casa. Lo riconosco subito e gli butto le braccia al collo. La mia contentezza è grande. Febbraio 1943: mio padre è chiamato alle armi, parte per il fronte francese. Anche i miei zii, Ernesto, Carluccio, Bruno ed Emidio sono partiti per la guerra. A casa sono rimasti solo i vecchi, le donne e i ragazzi. Settembre 1944: la guerra è arrivata anche qui da un pezzo. Ho già conosciuto i rifugi antiaerei, grotte naturali scavate alla meglio, e ho messo anche la maschera antigas. Il cielo, a volte, è pieno di apparecchi che vanno a bombardare verso la pianura. Sono aerei
144
Guido Minarini nato il 19 luglio 1939 a Monghidoro (Bologna).
americani. In giro c’è tanta paura. Mia madre non mi lascia raccogliere neanche le noci, cadute abbondanti. Ogni tanto però riesco a sfuggirle nonostante caschino le cannonate. Sono sfollato ai Piamaggioli dal nonno, dove c’è una bella casa grande e una stalla piena di mucche, con le famiglie di altri cuginetti. Lo stato maggiore dei tedeschi, che si è sistemato nella nostra casa, dice che la cantina, che serviva da porcile, dove siamo alloggiati alla meno peggio con la paglia al posto dei materassi, potrebbe reggere anche una bomba d’aereo e di stare tranquilli. I nostri sono tornati da tempo dal fronte e dopo essere stati a Pietramala a lavorare alla Todt, dove scavavano trincee per i tedeschi, ora sono alla macchia. Fuori è iniziato una specie di bombardamento a tappeto. Dai vetri sporchi di polvere e di ragnatele vedo cadere le cannonate nei prati davanti a casa e la terra saltare per aria. Il bestiame è nel boschetto sopra casa. Nonno Giuseppe parte sotto le bombe per tentare di riportarlo nella stalla. Da casa vedono che è caduto per terra e non si rialza. Parte allora un soldato tedesco che se lo carica in spalla e lo riporta a casa sempre sotto il cannoneggiamento. Nonno è ferito ad un braccio e perde molto sangue, il tedesco che lo ha salvato è stato coraggioso e anche fortunato, non si è fatto niente. Una staffetta tedesca a cavallo è stata invece colpita da una cannonata. Al cavallo è stata mozzata di netto la testa e al soldato è stata sventrata la pancia. Quest’ultimo, moribondo, è nell’ingresso di casa che si lamenta dal dolore e chiama la mamma in tedesco. Questi tedeschi non sembrano cattivi. Dicono però di stare attenti perché dopo di loro ne arriveranno altri che faranno paura. Ottobre 1944: i tedeschi
“buoni” inquadrati nell’esercito sono partiti. Gli americani sono di là dal monte Oggioli, verso Pietramala. Gli uomini vengono a casa la sera per cambiarsi, per mangiare qualcosa e poi ripartono la mattina presto. Il tempo è brutto, piove sempre: stare alla macchia non deve essere comodo. Una brutta mattina la casa è circondata da cinque o sei tedeschi: sono Ss ci mettono tutti al muro, anche noi bambini. Mi giro e guardo un tedesco dall’aspetto cattivo che tiene un mitra puntato verso di noi e che con gestacci ripete continuamente “alles kaput, farfluchen”. Mia madre, che sa parlare un po’ la lingua tedesca, cerca di capire cosa vogliono. Allora una persona in borghese, che pareva anche lei tedesca, le rispose: parli pure in italiano che ci capiamo meglio. A quel punto la mamma si zittì per paura che ci ammazzassero tutti. Cercano partigiani ed armi, che non trovano. Portano comunque via con la scusa del trasporto delle loro armi mio padre Pietro, suo fratello Emidio, zio Ernesto e zio Bruno fratelli di mia madre, zio Carlo, padre dei miei cugini Maria e Franco, nonché un loro parente Giuseppe che si trovava anche lui ai Piamaggioli. L’unico lasciato andare è Abramo Tedeschi anch’egli sfollato ai Piamaggioli, che diventerà anni dopo sindaco di Monghidoro. Un altro che per sua fortuna se la cava è lo zio Aldo, padre di mio cugino Sergio, che si è ben nascosto. Quelle Ss dopo qualche giorno massacrarono, senza motivo alcuno in modo crudele e proditorio, mio padre e gli altri congiunti che avevano l’unica colpa di appartenere alla famiglia di mio nonno Giuseppe, vecchio socialista a cui, per non aver rinnegato nel ventennio fascista la propria idea politica, venne fatto pagare un così caro prezzo! Albina Gamberini con il figlio Guido Minarini.
146
1948 - Albina Gamberini con il figlio Angelo Minarini.
Albina Gamberini con i figli Angelo, Anna e Guido.
147
Testimonianza di Maria Pia Calzolari Registrata a Monghidoro il 25 giugno 2008
Mia mamma, Elisa Gamberini, aveva dichiarato a l’Unità, in un articolo uscito il 3 novembre del 1973, in occasione dell’inaugurazione del monumento a Roncastaldo,: “Mio marito aveva fatto quattro anni di guerra nel Terzo artiglieria, era riuscito a tornare dal disastro di Russia dove c’era stato per 14 mesi, poi l’8 settembre trovandosi in Jugoslavia ce la fece a venire a Monghidoro camminando a piedi per ventiquattro giorni. Per tutti i mesi dell’occupazione tedesca eravamo riusciti a salvarci - i nostri due bimbi di 3 e 6 anni, lui, io - da bombardamenti e rastrellamenti. E invece… […] Mio marito era nella Todt come molti altri uomini di qui, aveva anche il papier per poter circolare perché andava a scavare trincee verso Pietramala”. Quel giorno lì io non c’ero, ero a Fradusto con i miei nonni, però l’ho sentito raccontare tante volte da mia mamma e anche da mio fratello Franco, che si ricordava di quando i tedeschi li mettevano contro il muro e li minacciavano, che gli volevano sparare e lui rideva perché gli sembrava un gioco, aveva solo tre anni; li mettevano tutti in fila laggiù ai Piamaggioli là in tla loza, che c’era tanta gente sfollata laggiù. La storia è così: quell’autunno lì pioveva sempre e loro erano tutti bagnati, allora sono venuti in casa per asciugarsi un po’ e per mangiare, perché erano sempre alla macchia zò dal Pianaz. Dalla casa si vedeva un bosco e da lì loro hanno visto sto plotone di tedeschi venire giù, allora sono scappati tutti e si sono nascosti, in qualsiasi posto, uno di qua e uno di là, perfino sotto i materassi, ma li hanno trovati tutti. I tedeschi avevano un foglio con dei nomi e urlavano che c’erano dei partigiani, non ricordo come li chiamavano allora: briganti o banditi. Poi li hanno portati via e sapranno solo loro cosa è successo. Prima sono andati diretti verso Trapoz, avevano fretta, perché c’erano già gli americani a pochi chilometri. Li hanno portati laggiù a Ca’ dei Rossi, alla mattina li hanno portati giù in un campo prima del cimitero di Roncastaldo, che poi li ha trovati il sindaco Carlo Alpi, che erano tutti massacrati, distrutti, che non si riconoscevano. Non conoscevano mica chi
148
Maria Pia Calzolari nata il 10 settembre 1938 a Monghidoro (Bologna).
Carlo Calzolari
era uno o l’altro, perché poi hanno raccolto i pezzi, forse erano già in decomposizione, li hanno sepolti così subito. Dopo qualche mese quando si è calmato tutto, sono andati a prenderli con delle casse. Per riconoscerli, ci son andati gli uomini, che le donne non avevano cuore. Li riconoscevano uno per la cintura, quell’altro per… per quelle cose lì, se no erano irriconoscibili. Così io non ho più rivisto mio padre, Carlo Calzolari si chiamava. Tutti gli anni il 25 aprile, quando andiamo a Roncastaldo a ricordare quei morti io canto quella canta che io e mio fratello avevamo chiesto di scrivere a Federico Berti. Qualcuno si è offeso per quell’ultima strofa: “Son mancati alle celebrazioni tanti sindaci di Monghidor”. Alcuni anni fa me l’hanno addirittura censurata. Nel 1973 in verità, quando fu inaugurato un monumento sul luogo della strage, eravamo presenti solo noi, parenti degli uccisi e qualche amico, ma nemmeno uno degli amministratori monghidoresi era presente.
150
Sempre quel giorno vengono fucilati dai tedeschi, ormai in ritirata, in un’altra zona di Monghidoro: i figli di Giuseppe Lorenzini e Rosa Naldi, nati tutti a Monghidoro e residenti a Ca’ di Lavacchio.
Lorenzini Alfonso, nato il 15 marzo 1892. Operaio agricolo. Lorenzini Serafino, nato il 19 ottobre 1879. Agricoltore. Lorenzini Serena, nata il 13 novembre 1885. Massaia. Dagli archivi comunali risulta disperso anche Nello Neri, nato a Monghidoro il 14 giugno 1922, da Vincenzo e Desolina Baldini; ivi residente a Ca’ di Baldino. Fu rastrellato dai tedeschi nel settembre del 1944 e può quindi essere annoverato tra le vittime di quei giorni. In quei pochi mesi furono quindi uccise nel nostro territorio ventidue persone di Monghidoro e tre di Monzuno, mai ricordate tutte insieme nelle annuali celebrazioni, che unite alle vittime dei bombardamenti e dei militari morti in guerra, ai soprusi quotidiani di alcuni repubblichini, alle notizie delle stragi che avvenivano nelle zone limitrofe, nelle quali furono coinvolti altri concittadini e parenti, danno la misura del clima di precarietà, d’insicurezza e di dolore costante che pesò per mesi sulla popolazione inerme. Tutto il territorio del bolognese vide in quell’estate del 1944 un inasprirsi della violenza nazifascista e i morti dell’ultima ora, prima della resa, furono tanti, dovunque. Anche se molti di loro morirono soli su un sentiero, nel cortile di casa o contro un muro, il sacrificio della loro vita va ricordato come parte di una vera e propria strage. Altre vittime originarie di Monghidoro si debbono annoverare nella strage più efferata e più grande compiuta dalle Ss naziste in Europa, nel corso di quella guerra: quella consumata attorno a Monte Sole, nei territori di Marzabotto, Grizzana Morandi e Monzuno, anche se è comunemente nota come la “strage di Marzabotto”. Partendo da Monte Sole, dove avevano la base principale, i partigiani della brigata Stella rossa Lupo erano in grado di colpire quotidianamente le strade e le ferrovie che collegano Bologna alla Toscana. Di qui la decisione del comando tedesco di “ripulire” la zona, ma anche quella toscana, per favorire il ripiegamento verso nord delle armate d’occupazione. Il primo assalto a Monte Sole avvenne nel maggio 1944, seguito da
altri, tutti infruttuosi. Tra agosto e settembre, il compito di “ripulire” le zone toscane ed emiliane dalle brigate partigiane, fu affidato al maggiore Walter Reder, comandante del 16° Panzer Aufklärung Abteilung della 16a Panzer Grenadier division Reichs Führer Ss. Dopo avere messo a ferro e fuoco numerosi comuni della Versilia e ucciso centinaia d’inermi cittadini, il 29 settembre 1944 Reder sferrò l’attacco contro Monte Sole che, nella strategia di Kesselring, doveva diventare una posizione nevralgica della nuova linea difensiva contro l’avanzata degli alleati. Il 5 ottobre 1944, quando le Ss si ritirarono, centinaia di morti, in massima parte donne, vecchi, bambini e interi villaggi distrutti testimoniarono la violenza compiuta. Le uccisioni e le distruzioni proseguirono nei giorni seguenti sino a novembre e, dalle testimonianze rese dai pochi sopravvissuti, si intuiscono scenari dove la violenza dei soldati divenne spesso sadismo vero e proprio contro una popolazione inerme. Come in tutti i rastrellamenti e nelle altre operazioni che furono effettuate in quel periodo, accanto ai reparti tedeschi vi furono italiani collaborazionisti che fecero da interpreti, da guide, da delatori e inoltre, colmo della sfrontatezza, le autorità fasciste s’impegnarono a smentire le voci, che incominciavano a circolare sulla strage. Il Resto del Carlino dell’11 ottobre assicurava che a Marzabotto “è stata compiuta un’azione di polizia contro un nucleo di ribelli, i quali hanno subìto forti perdite, ma non è affatto vero che il rastrellamento abbia prodotto il sacrificio di civili. Siamo in grado di smentire queste macabre voci e alla smentita ufficiale si aggiunga la constatazione fatta durante un apposito sopralluogo”. Ancora oggi c’è chi cerca di attribuire ai partigiani la responsabilità di quello che accadde in quei giorni, ma molti saggi sull’argomento, scritti soprattutto in Germania, hanno dimostrato che le stragi naziste facevano parte di un progetto pianificato di sterminio dei civili inermi. Alla base di questo progetto c’era la consapevole volontà di seminare il terrore tra la popolazione, per spezzare il legame naturale che la univa ai partigiani. Si sarebbe potuto benissimo far sfollare la gente da quel territorio, che stava diventando prima linea del fronte, senza ricorrere ad un massacro. I corpi delle povere vittime restarono insepolti per mesi; solo dopo la fine della guerra fu possibile dare loro sepoltura, cercando anche di stabilirne il numero. A causa delle distruzioni degli uffici anagrafici per lungo tempo non fu possibile azzardare cifre ufficiali, anche se ci si orientò inizialmente verso la cifra di 1830 persone, ottenuta facendo la differenza tra la popolazione residente prima della guerra, in base ai dati del censimento e le carte annonarie distribuite. Questa cifra figura nella motivazione della medaglia d’oro al valore militare concessa nel 1948 al gonfalone di Marzabotto. Oggi si valuta che tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944 furono quasi 800 le persone trucidate nel massacro di Monte Sole.
151
Ecco i nomi dei 12 monghidoresi che furono uccisi durante la strage di Monte Sole: Bacci Alfonso, nato il 9 marzo 1883 a Monghidoro, da Luigi ed Emilia Ercolessi. Nel 1943 residente a Marzabotto. Colono. Venne fucilato per rappresaglia dalle Ss tedesche a San Martino il 9 ottobre 1944. Camaggi Clelia, nata il 31 luglio 1887 a Monghidoro, da Massimo. Nel 1943 residente a Marzabotto. Colona. Venne uccisa a Casaglia dai nazifascisti il 29 settembre 1944, insieme al marito Natale Laffi, alla figlia Lea e ai figli di questa Ilia e Paolo Lava, alla nuora Eleonora Grilli e ai figli di questa: Arrigo, Francesco, Giorgio e Mirella Laffi e al nipote Franco Laffi, figlio della figlia Leda Laffi. La gente si era rifugiata durante il rastrellamento nella chiesa di Casaglia in preghiera. Il primo ad essere ucciso fu lo stesso parroco. I presenti furono invece spinti malamente nel vicino cimitero, messi in ordine di altezza per facilitarne la fucilazione, e uccisi. Caramalli Enrico, nato il 1° aprile 1858 a Monghidoro, da Filippo e Teresa Lorenzini. Nel 1943 residente a Monzuno. Invalido. Fu ucciso dai nazifascisti il 4 ottobre 1944 in località Pollesca di Trasasso (Monzuno). Galli Marta, nata il 1° novembre 1911 a Monghidoro, da Ernesto e Giuseppina Colli. Nel 1943 residente a Monzuno. Casalinga. Fu uccisa dai nazifascisti il 29 settembre 1944 in località Murazze, con i sei figli: Celestina di 9 anni, Dante di 8 anni, Carlo di 7 anni, Giuseppe di 6 anni, Dino di 2 anni e Bruno di 8 mesi. Il marito Armando Cincinnati e il figlio Francesco di 4 anni morirono per lo scoppio di una mina a Scope di Vado (Monzuno), il 1° dicembre 1944. Gamberini Roberto, nato l’8 maggio 1889 a Monghidoro, da Enrico e Maria Rambaldi. Nel 1943 residente a Monzuno. Colono. Fu ucciso dai nazifascisti a San Martino di Cadotto il 29 settembre 1944, unitamente al fratello Antonio, partigiano, alla cognata e ai nipoti. Era proprio su Cadotto che gli esploratori di Reder
152
avevano puntato inizialmente partendo da Rioveggio ed è qui che furono uccise una sessantina di persone, che non erano riuscite ad allontanarsi dalle proprie case. Grilli Eleonora, nata il 9 ottobre 1910 a Monghidoro, da Cleto e Caterina Lorenzi. Nel 1943 residente a Marzabotto. Casalinga. Fu uccisa dai nazifascisti, il 29 settembre 1944 a Cerpiano, insieme con i figli Giorgio di 7 anni, Arrigo di 6 anni, Francesco di 2 anni e Mirella Laffi di soli 5 mesi, con i suoceri Natale Laffi e Clelia Camaggi, con la cognata Lea Laffi e con i figli di questa Ilia di 6 anni e Paolo Lava di 8 mesi, con il nipote Franco Laffi di 6 anni, figlio di Leda Laffi. Marchetti Ersilia, nata il 3 febbraio 1886 a Monghidoro, da Francesco e Serena Colli. Nel 1943 residente a Marzabotto. Colona. Venne uccisa dai nazifascisti il 29 settembre 1944 in località San Martino di Caprara insieme con le figlie Maria Luisa, Nerina e Rita Pia Lorenzini, le nuore Edmea Barattoli, Clementina Bartolini, Maria Righini, le nipoti Agostina, Augusta, Clara e Marcella Lorenzini. Il giorno prima a San Giovanni di Sotto erano stati uccisi i nipoti Augusto e Pietro Lorenzini e la nuora Antonietta Barbieri. Nella stessa famiglia 14 morti! Marzadori Alfonso, nato il 16 agosto 1874 a Monghidoro, da Fortunato e Stella Ravaglia. Nel 1943 residente a Monzuno. Bracciante. Fu ucciso dai nazifascisti il 1° ottobre 1944 a Canovetta di Villa d’Ignano (Marzabotto). Naldi Anna, nata il 17 novembre 1925 a Monghidoro, da Alberto e Caterina Lorenzini. Nel 1943 residente a Marzabotto. Colona. Fu uccisa dai nazifascisti il 29 settembre 1944 in località San Martino, con il marito Dante Paselli, il figlio Franco di un mese, la suocera Ester Pantaleoni e le cognate Fedelia e Malvina Paselli, Anna Ventura Paselli, Elisabetta Salvador Paselli e i nipoti Anna di tre anni e Claudio Paselli di due anni. Naldi Maria Filomena, nata il 25 agosto 1874 a Monghidoro, da Sante e Rosa Lolli. Nel 1943 residente a Monzuno. Casalinga. Fu uccisa dai nazifascisti il 20 novembre 1944 in località Poggio di Casaglia (Marzabotto).
Nannoni Amedeo, nato il 20 marzo 1928 a Monghidoro, da Augusto e Angiolina Gamberini. Nel 1943 residente a Monzuno. Militò nella brg Stella rossa Lupo. Venne fucilato dai tedeschi in località Croci di Trasasso (Monzuno), il 30 giugno 1944, con Gino Ruggeri e Alfredo Santi. Riconosciuto partigiano. Persiani Ersilia, nata il 27 gennaio 1891 a Monghidoro, da Carlo e Maddalena Pudioli. Nel 1943 residente a Monzuno. Fu uccisa dai nazifascisti il 29 settembre 1944 in località Pernizzo di Vado (Monzuno), con la madre Maddalena. Come responsabile del massacro di Monte Sole nel 1951 Walter Reder fu condannato al carcere a vita, pena da scontare nel carcere di Gaeta. Reder, in una lettera inviata agli abitanti del paese emiliano, nel dicembre del 1984 espresse profondo rammarico e pentimento per il suo gesto. Graziato e scarcerato per mediazione del governo austriaco nel gennaio del 1985, si trasferì a Vienna. Ricevuto con onori militari dall’allora ministro della difesa austriaco, ritrattò subito le scuse presentate al popolo italiano, sottolineando il fatto di averle pronunciate solo per opportunismo politico.
All’inizio, per un istante, ho pensato che potesse tramutarsi in un lavoro senza senso. In un puro ed inutile esercizio obbligatorio della funzione penale. Poi ho conosciuto i superstiti, le vittime degli eccidi. I loro carnefici. E ho cambiato idea. È stato ed è ancora un impegno enorme, utile, civile, che ha cambiato me e i miei investigatori nel profondo, al di là dell’esperienza professionale.
Queste sono le parole del Pubblico ministero Marco de Paolis, rilasciate in un’intervista sul quotidiano l’Unità. Da otto anni egli lavora per ritrovare i tedeschi ormai ultraottantenni, colpevoli delle numerose stragi compiute più di sessant’anni fa, lungo la Linea gotica. Grazie al suo lavoro nel maggio del 2008 sono stati condannati all’ergastolo dieci ex Ss della 16ª Panzer Grenadier division Reichs Führer per il massacro di Monte Sole. Per oltre sessant’anni erano riusciti ad evitare la richiesta di giustizia dei familiari delle vittime, grazie all’occultamento di centinaia di fascicoli sui crimini nazisti, scoperti solo nel 1994 a Roma nel palazzo Cesi, sede della magistratura militare in quello che fu definito l’“Armadio della vergogna”. La stessa divisione tedesca si era macchiata precedentemente degli eccidi commessi a Sant’Anna di Stazzema, dove il 12 agosto 1944 in poche ore furono trucidate 560 civili innocenti, in gran parte bambini, donne e anziani, uccisi a bastonate, colpi di mitra e bombe a mano. Il 19 agosto, varcate le Apuane, in vari villaggi incontrati durante la loro ritirata uccisero in soli cinque giorni altre 350 persone: mitragliate, impiccate, bruciate con i lanciafiamme. Nel mese di settembre fucilarono sul fiume Frigido 108 detenuti del campo di concentramento di Mezzano, in provincia di Lucca. A Bergiola e a Forno, in provincia di Carrara, ancora 200 vittime. Poi arrivarono su Monte Sole.
Molti furono anche quelli che persero la vita durante i bombardamenti, sia degli Alleati che dei tedeschi, come ci ricorda la testimonianza di Amedeo Verzelli.
153
Testimonianza di Amedeo Verzelli Registrata a Ca’ di Mastacchi (Monghidoro) il 9 agosto 2008
Quel periodo lì è stato duro! Avevo solo 15 anni e sono andato a lavorare per tre mesi come portaordini per i tedeschi, da un ufficio all’altro, da Santa Lucia a Marcoianno, allora il telefono non c’era. Loro facevano i bigliettini degli ordini e io li portavo a piedi, a quell’altro ufficio là. Andavo a piedi anche da Stiolo, dove abitavo, fino alla Futa. Partivo alla mattina presto, facevo 39 chilometri a piedi per andare a lavorare. Io sono rimasto senza paga perché quel giorno che davano la paga io avevo una gamba che mi faceva male. Infatti il giorno prima me l’ero rotta e mi avevano portato a casa con un cavallo che sentivo più male che se mi sbattevano per terra. Allora quando sono arrivato a Monghidoro, sono venuti incontro a prendermi con una scala come barella da Prabitto. Poi è venuto a casa il dottore che quando ha visto che la gamba era troppo gonfia e non si poteva ingessare, mi ha detto che bisognava aspettare che si sgonfiasse. Allora mia mamma e la mamma di Renato mi hanno fatto un impacco con l’uovo, con la ciera d’ov, come facevano una volta. Quando sono arrivati i tedeschi, che volevano portarmi via, hanno visto che avevo una gamba sopra una sedia e mi hanno lasciato lì a casa. Così non sono neanche potuto andare a prendere i soldi e Federico Lelli e Anselmo Calzolari, i miei amici che invece erano andati là a Pietramala, sono rimasti su per la Raticosa là verso Montalbano. Erano partiti da Stiolo e gli apparecchi li hanno smitragliati, hanno trovato le loro scarpe e basta. Io sto ancora ad aspettare i soldi della ditta Ravanelli di Roma, che lavorava per i tedeschi, fratelli Materassi si chiamavano, invece dal Belgio mi arriva tutti i mesi la pensione di 37 euro. In Italia, ho lavorato tanti anni e non mi hanno versato nemmeno i contributi, mi hanno fregato tanti di quei contributi! Invece in Belgio sono stati onesti, anche se io sono tornato prima, dopo 30 mesi, è stata una decisione forse un po’ affrettata, ma sono tornato a casa perché mia mamma non stava bene, loro non mi volevano dare il permesso, allora io ho detto a vag a ca’ e an vegn piò. Difatti non ho più rinnovato la carta d’identità e ciao, sarei tornato via volentieri perché qui si faceva la miseria.
154
Amedeo Verzelli nato il 15 ottobre 1929 a Monghidoro (Bologna).
Mi ricordo che lì in quella buca scoperta nella carrière, con quei sassi, c’erano 54° d’estate e d’inverno 27/28° sotto zero: ci mettevamo tanti stracci sopra le gambe per non congelarci e ci mettevamo tanta roba nei piedi, perché a stare fermi così i piedi soffrivano, perché le mani si muovono, ma i piedi e in mezzo alle gambe… Tum tum, si spaccavano quei mosaici piccolini, ma non mi piaceva tanto, allora andavo vicino al rompeur, quello che rompeva i sassi grandi per farli piccoli. C’erano i martelli piccoli per fare i sassi piccoli, poi c’erano le mazze grandi per fare i sassi più grandi. S’impara piano piano, per spezzare il sasso ci vuole un colpo piano e secco, ci diceva Valerì, se davi un colpo piano facevi una boccia, ci voleva un colpo secco, prima bisognava fare un segno con il martello tic tic tic dritto, poi si girava la
Così siamo partiti in trentatré.
156
pietra e con la mazzetta si dava un colpo e la pietra si apriva pari pari. Io l’avevo saputo da Barbi, lassù a Monghidoro: chi vuole andare in Belgio? Alora ai vag anca me e il 26 giugno 1946 io e Renato siamo andati a Bologna, poi via. Mi ricordo che la mattina quando noi guardavamo fuori dalla vetrata, non si vedeva fuori dal gran ghiaccio che c’era fuori, che dentro c’era la condensa dei nostri respiri che si era gelata. Quando andavamo ai rubinetti fuori per lavarci, non veniva fuori niente perché l’acqua si era gelata. C’era una tettoia spalancata con i lavelli, alla mattina i rubinetti erano gelati, non si aprivano mica, prendevamo dentro un po’ d’acqua la sera con dei secchi, ci lavavamo così nella camera, ma non facevamo mica dei gran lavaggi.
Ecco la cronaca, tratta dal libro Monghidoro ai suoi caduti, dei giorni relativi all’arrivo degli Alleati, lasciataci da Don Giuseppe Boninsegna parroco nella frazione di Valgattara:
[…] Col giungere del fronte alla Futa anche qua a Valgattara si è sentito qualcosa e la gente per il frequente passaggio dei proiettili si è dovuta sfollare nei rifugi specie di notte. Danni però non se ne sono segnalati perché solo tre piccole bombe sono cadute nelle vicinanze dell’abitato senza procurare però danni. Molti proiettili invece sono caduti nei boschi. La guerra a Valgattara è giunta il 28 settembre 1944. Nella notte fra il 27 e 28 molti passaggi di truppa a cavallo ed a piedi, fortunatamente non creano nessun disturbo alla popolazione; Ernesto della Casa Grande deve andare con loro, ma una bomba caduta a Ca’ del Barba lo libera dalle loro mani e nel trambusto riesce a tornare a casa. 28 settembre. Al mattino ancora passaggio di truppa: portano via ad Amedeo dei Fondi, 2 somari e il maiale. Piove a dirotto. Al mio ritorno dai Fondi imparo che una ventina di soldati tedeschi si sono stanziati con mitraglie a Valgattara e precisamente al Poggio della Casella e alla Piazza in casa di Gamberini Gioachino e Marchioni Amilcare. A mezzogiorno il Maresciallo Maggiore tedesco mangia in canonica e mi assicura che non si dovrà sfollare. Intanto gli americani si avvicinano. Nel pomeriggio i tedeschi fanno saltare il ponte di Ca’ di Pallerino ed un pezzo di strada. Dato il prolungarsi della pioggia la popolazione deve lasciare i rifugi sottoterra; trenta persone dormono nella cantina della canonica. 29 settembre. Durante la notte i soliti bombardamenti dei cannoni. Piove ancora. Una donna della Fossa ha preso una scheggia nella schiena; vado a darle i S.S. Sacramenti e apprendo che gli americani si avvicinano. A Valgattara ancora calma; i tedeschi però comandano a bacchetta e vanno per le case, non fanno però grandi disastri. Una fucilata ferisce leggermente a un dito Anna Marchioni. Nel pomeriggio giungono voci incalzanti: gli americani sono in Campo di Roma, alla Fossa, ai Fondi, alla Trappola. Marta Mezzini scende dalla
Trappola portando sigarette americane e cioccolata. Un uomo della Piazza, Zito Brizzi passa il fronte e va alla Trappola. Tre tedeschi che volevano espugnare la Trappola vengono uccisi. Dalle nove di sera i tedeschi del Poggio e della Casella lasciano le posizioni e si ritirano alla Piazza: mezza Valgattara è libera e indipendente. 30 settembre. Questa mattina calma: dopo una notte d’inferno. Attorno al Poggio sono caduti molti proiettili senza recare grandi danni. Dopo Messa con un gruppo di giovani sono andato ai Fondi poi alla Trappola per salutare gli americani. Siamo stati accolti molto bene e ci hanno dato da fumare. La Piazza oggi è stata chiusa ed i tedeschi non hanno mai attraversato la poggiola; verso le 4.30 ho potuto varcare il fronte ed entrare nella repubblica per portare un po’ di calma. Intanto alla chiesa si doveva radunare il consiglio per determinare il nuovo governo da insediare a Valgattara quando si è appresa la notizia della discesa degli americani per l’espugnazione della Piazza. Le donne si sono ritirate nelle case; io sono salito sul campanile e dopo poco ho visto gli americani guidati da… scendere sulla Casella. Erano le 19. Si sono udite e viste varie scariche di mitraglia concentrate alla Casella provenienti da varie parti, poi silenzio assoluto. Non si sa se la Piazza sia americana o repubblicana. La quiete della notte è interrotta ora dal lugubre rimbombo del cannone. 1 ottobre. Questa mattina gli abitanti della Piazza e della Fonte si sono svegliati con gli americani alle porte delle loro case. I tedeschi nella notte se la sono dati a gambe e gli americani sono giunti senza neppure sparare; di loro però c’è stato un morto e un ferito. Impossibile descrivere la gioia degli abitanti specie dei giovani e degli uomini che da 15 giorni erano nascosti sotto terra. I bambini sono stati riempiti di cioccolata e biscotti, gli uomini di sigarette; anche noi della Chiesa abbiamo esultato di gioia alla notizia e ci siamo portati alla Piazza. Dato il diavolio delle cannonate sul versante di Fradusto, ho detto la messa alle 12.30 con pochissime persone. Verso
157
le ore 14 la gioia per la liberazione si è volta in lagrime. Tremende cannonate tedesche si sono versate prima nei pressi della canonica, poi verso la Casella ed infine alla Piazza. Dopo la prima scarica, che ha colpito il coperto della casa di Marchioni Amilcare, mi sono portato sul luogo e subito si sono susseguite altre scariche che hanno colpito la casa di Marchioni Ermete. Tutto però è stata cosa di danni leggeri e le persone non hanno avuto nulla di male, solo una buona dose di spavento. Intanto i tedeschi contrattaccano; si sparge la voce che è possibile una ritirata degli americani; lo spavento cresce in tutti tanto che molti della Piazza e della Chiesa, per il timore di ritornare sotto i tedeschi, che tanto hanno fatto soffrire, salgono alla Trappola e ai Fondi. Molti della Piazza si rifugiano durante la notte nella cantina della Canonica e nella stalla dei Landini dove prima di dormire si recita il Rosario che si doveva recitare in Chiesa. Oggi in conclusione è stata una giornata piena di gioia e anche di spavento; fortunatamente gli americani tengono duro e stanno per giungere rinforzi. Per la prima volta dormo fuori di casa, nella bottega dei Landini. 2 ottobre. Piove. Durante la notte i giovani della Piazza hanno aiutato gli americani a portare i feriti a Ca’ di Rossetti e nell’Alpe; le artiglierie sono sempre
Nonostante la liberazione di Monghidoro fosse già avvenuta e il fronte si fosse fermato a Livergnano, non cessarono i morti. Infatti nei mesi seguenti alla liberazione morirono 18 persone per lo scoppio di residuati bellici, tra di loro anche alcuni giovanissimi. Venne inoltre uccisa per fucilazione, come risulta nel certificato di morte, il 16 maggio 1945 in tragiche circostanze a Ca’ di Carlettone, vicino a Loiano, Ermenegilda Marchi, nata il 21 febbraio 1909 a Firenzuola, da Angelo e Ersilia Caterina Masi; residente a Monghidoro nella frazione di Campeggio, al Molino dei Bacci.
158
state in azione. Sono giunti rinforzi e sulle tre del mattino gli americani hanno abbandonato la Piazza per la conquista dell’opposto versante. Siccome per il brutto tempo gli aeroplani non hanno lavorato, sono entrate fortemente in azione le artiglierie che intensamente battono il versante di Fradusto. Nulla di nuovo o di rilevante oggi; tranne un fuoco intenso di artiglieria. Cedrecchia è stata duramente colpita nella canonica e nel campanile; Frassincò è stato aspramente martellato. 3 ottobre martedì. Sereno. Nulla di notevole da segnalare. Il versante di Fradusto sembra sia stato abbandonato dai tedeschi dopo mille vessazioni. In Valgattara c’è calma e riconoscenza verso la B. Vergine Ausiliatrice. 4 ottobre mercoledì. Oggi è avvenuta una grave disgrazia. Mentre mi trovavo ai Macinini in casa di Marchioni Claudio, il quale si è salvato perdendo però tutto il bestiame, un giovane della Casella: Gino Giorgi è stato vittima di una mina posta vicino all’abbeveratoio della casa. La mina gli ha portato via un piede e ferito un braccio. Fortunatamente il caso non è gravissimo e potrà guarire. A spalla su uno scaletto l’abbiamo portato verso Montalbano con i giovani della parrocchia. Tutti abbiamo sentito questa disgrazia e la parrocchia sembra in lutto: è il primo sangue sparso in Valgattara a causa della guerra.
Dicembre 1944 - Monghidoro, la piazza del paese.
Era venuta la guerra, e dopo i sopravvissuti non erano piÚ riusciti a smettere di parlarne, perchÊ erano troppo sorpresi di essere ancora vivi. Louis de Bernières, La figlia del partigiano
159
IL DOPOGUERRA Il Sindaco Carlo Alpi e la Giunta Comunale agli abitanti del Comune di Monghidoro: “Sono quasi tre mesi che siamo stati liberati dalla selvaggia occupazione Tedesca e dal terrore del Regime Repubblicano e tutti noi abbiamo ancora davanti agli occhi il tragico spettacolo che offriva il nostro paese il giorno in cui i Rappresentanti del Comitato di Liberazione Nazionale si incontrarono con i rappresentanti del Governo Militare Alleato per ridare vita al nostro Comune. Le case erano diroccate, i campi erano devastati, la popolazione era senza tetto, il suolo era cosparso di cadaveri in putrefazione e parecchie famiglie piangevano i loro cari barbaramente trucidati dall’invasore Tedesco. Il nostro paese era alle soglie dell’inverno in una situazione tale che solo mediante energici e rapidi interventi si poteva evitare la fame, il freddo e le malattie infettive che avrebbero decimato la popolazione già duramente provata dall’invasore Tedesco. […] Ora possiamo, senza falsa modestia, dire che, lentamente, ma senza sosta, ci siamo incamminati verso la ripresa, e che a dispetto della violenza del Fronte la vita ricomincia a pulsare. La popolazione è al coperto, il pane è assicurato […]. Verso certe bieche figure responsabili del vecchio Regime noi abbiamo proceduto con un criterio provvisorio, determinato dalle esigenze delle operazioni militari sicuri però della giustizia riparatrice, che si esprimerà nelle commissioni d’inchiesta, che verranno a loro tempo anche nella nostra zona. L’epurazione sarà la giusta, ma inesorabile eliminazione dei responsabili della sorte del nostro paese”.
161
In realtà il dopoguerra a Monghidoro non vide episodi di vendetta o ritorsioni contro coloro che avevano collaborato con il fascismo, l’epurazione minacciata insomma non ci fu. Leggendo ad esempio le prime delibere della giunta guidata da Carlo Alpi, nei mesi immediatamente successivi alla fine della guerra, risulta chiara la volontà di allontanare dal loro posto di lavoro alcuni impiegati comunali in quanto “non bene accetti alla popolazione” per il loro passato dichiaratamente a favore del regime fascista, e di infliggere alcune giornate di lavoro di pubblica utilità, come per esempio sgomberare le macerie per le strade del paese, ad una ventina di cittadini pubblicamente riconosciuti come fascisti. Ma da delibere successive si evince che le persone elencate furono poi di fatto solo invitate e non obbligate allo sgombero delle macerie; invito a sua volta sostituito da una richiesta, ai cittadini più facoltosi, di un contributo volontario in lire 14 per ogni giornata lavorativa stabilita in pre-
162
cedenza. Alcuni di loro, sempre per un breve periodo, furono altresì invitati dal Cln ad andare due volte alla settimana, il martedì e il venerdì dalle 9 alle 9.30, presso la caserma dei carabinieri per firmare foglietti di carta, che attestavano la loro presenza nel comune. Questo tipo di controllo non fu mai molto attento, tanto che in alcune lettere, del Cln di Monghidoro al comandante della stazione dei carabinieri, si sollecita “codesto Comando ad esplicare la sorveglianza più rigida per controllare l’attività svolta dagli stessi ed impedire che abbandonino il Comune di residenza”. Tutti gli impiegati del comune e una maestra, momentaneamente allontanati, furono in seguito reintegrati nei loro ruoli già nell’ottobre del ’45, ottenendo arretrati e anche il riconoscimento dell’anzianità maturata. Solo due persone furono mandate, per un breve periodo, a Firenze, in un campo di concentramento gestito dagli Alleati.
17 dicembre 1944 - Monghidoro, i componenti di un Comitato parlamentare americano in zona per un’ispezione sul fronte.
Nessuno, in effetti, pagò quindi per il ruolo avuto in quegli anni in cui centinaia di cittadini monghidoresi se ne andarono, perché non portavano la cimice sul risvolto della giacca, o pagarono con la loro vita la liberazione del nostro paese da una dittatura, che aveva precipitato
l’Italia in sanguinose guerre e in persecuzioni. Il paese, in gran parte distrutto, vide l’impegno di tutti i superstiti nella ricostruzione, per ricominciare al più presto a vivere veramente, di nuovo.
163
Testimonianza di Mariano Tarozzi Registrata a Monghidoro il 19 gennaio 2007
Ero tornato dalla prigionia e a Bologna non trovavo lavoro, così sono partito per Monghidoro con una bicicletta che non aveva neanche la camera d’aria, ma una cinghia dei pantaloni tutta girata attorno. Quando sono arrivato alla Salgataccia c’era un mucchio di macerie dove c’è il pilastrino di San Leonardo, mi buttai per terra, stufo morto. Questo è stato il mio arrivo a Monghidoro. Ma debbo spiegare perché sono finito a Monghidoro. Io dalla Grecia, prigioniero dei tedeschi dopo l’8 settembre, ero stato portato in un campo di concentramento a Biala Podlaska, una volta era in Russia adesso si trova in Polonia vicino a Varsavia. In quel campo di concentramento c’erano 5.000 ufficiali quasi tutti meridionali, solo uno che lo chiamavano “il Bologna” non era meridionale, si chiamava Gian Piero Pieri ed era di Monghidoro. In quel campo tutti lo conoscevano e allora lo vado a cercare, e lo trovo là che piantava dei chiodi negli scarponi. Abbiamo fatto amicizia e dopo la guerra, che eravamo tutti dei disperati, cercavo lavoro e siccome lui mi aveva detto di andarlo a trovare, arrivai qua. Trovai un paese tutto distrutto: le case, il municipio anche. La prima impressione fu quella di un paese pieno di gente tranquilla. Restai meravigliato della vitalità di questo popolo, pieno di energia che serenamente discuteva subito dopo la guerra, nonostante tutto quello che era successo. Andammo in Comune dal Sindaco, Musolesi Otello, e io le prime sere ho dormito tra un mucchio di macerie proprio sul tavolo del sindaco, che credo di averlo anche rovinato quel tavolo là, perché avevo degli scarponi con i chiodi. Andai poi a dormire dall’Amelia Zanitelli, che allora era un’istituzione. Lì dormiva anche uno, non mi ricordo il nome, che faceva provvisoriamente le funzioni di segretario comunale, uno alto di Monzuno, era uno della squadra dei partigiani del Lupo, che aveva degli incubi e di notte urlava sempre. Mi aveva raccontato che mentre era in un rifugio, erano arrivati due tedeschi, ma lui con un compagno era riuscito a scappare e di notte gli venivano ancora gli incubi e urlava: scappa, scappa. Pieri mi disse: stai qui un mese per la ricostruzione, poi un mese
164
Mariano Tarozzi nato il 12 ottobre 1918 a Ferrara.
è diventato un altro e poi un altro e a novant’anni sono ancora qui. Lanzoni, che era stato nominato sindaco dal Comitato di Liberazione, fu un elemento determinante per la serenità di Monghidoro, mentre in alcuni paesi della pianura sono successe cose tremende, ne hanno ammazzati tanti per vendetta dopo la guerra, qui non è successo niente. Io ti posso raccontare di un fascista che stava laggiù, lo portarono a calci nel sedere fino a Monghidoro. Lui pensava adesso mi sparano, invece gli dissero: adesso hai finito di fare il prepotente e l’hanno mandato via. Anche questo fatto, che qui dopo la guerra non è successo niente, è un merito civile che va riconosciuto ai monghidoresi: i fascisti c’erano stati anche
166
qui… non è che la gente non partecipasse agli eventi storici, vi prendeva parte, però con molto equilibrio e molta comprensione. Mentre in città chi aveva avuto dei danni di guerra andava a cercare un’impresa per fare i lavori, a Monghidoro le persone si dicevano: debbo fare un muro tu vieni a casa mia e dopo io vengo da te. C’era questo scambio di prestazione di manodopera tra tutta la popolazione. Questa è un’altra caratteristica, che ha un suo valore. Io mi ricordo dell’Amalia che tornava la sera con delle cose sotto il braccio: due coppi, un mattone, trovati tra le macerie. Poi c’è la storia del campanile che aveva quattro colonne della cella campanaria, una completamente distrutta, una così e così e una solo lesionata. Con
il senno di poi e la mia esperienza di oggi dico che demolirlo è stato una cosa da condannare, da tutti i punti di vista. L’ingegnere capo del Genio Civile di Bologna disse con Monti: se lo demolite voi facciamo un contratto. Monti gli rispose che lui il campanile non lo avrebbe mai demolito. Allora fecero una gara e venne su un’impresa di Bologna. Oggi ripeto né io, né Lanzoni, né Gaggio l’avremmo fatto, ci saremmo opposti con tutte le nostre forze. Allora non c’era la mentalità. C’era la chiesa distrutta e c’era ancora un muro di fianco, si pensava di tirarlo giù e fare una bella piazza. Ma per demolire quel muro la Cem non aveva mica i martelli pneumatici e con i picconi il muro non veniva giù, allora aspettiamo che arriva la corriera, per farci dare un aiuto. Quando gli dicemmo cosa volevamo fare, l’autista ci disse che eravamo matti, ma noi attaccammo una corda dalla corriera a una finestra lassù in cima, per tirare giù il muro. Solo che la corriera si alzava, allora abbiamo riempito la corriera di bambini e pum il muro è venuto giù. Questa fu la demolizione del muro della chiesa, fatta con una corriera piena di bambini e questo fu l’inizio della Cem, che poi fece le fognature, qualche pavimentazione, poi si allargò fece dei lavori a Bologna, poi a Firenze, Verona, poi a Venezia. Ma questa è un’altra storia. Per merito di Lanzoni soprattutto e di Monti c’era questa voglia di fare. Ti porto un esempio: adesso se uno deve fare una strada, tra tre mesi si approva il progetto, poi c’è l’acquisto del terreno… insomma, per concludere i lavori, ci vogliono dieci anni. Allora ci trovavamo io, Monti e il sindaco Lanzoni, decidevamo di fare la circonvallazione: ma c’erano tutte le porcilaie, allora noi la mattina dopo con una ruspa le tiravamo giù, tutti a protestare, ma la circonvallazione era fatta. C’era una gran voglia di costruire per il bene del paese, senza badare in faccia a nessuno. Così abbiamo fatto la circonvallazione sotto la caserma e non ti dico i problemi per la strada che va sull’Alpe e la strada che va giù dal Boscone. Ma sono state fatte non dico di prepotenza, ma con una gran volontà di fare prima l’opera e poi di cercare di regolarizzare le cose, le pratiche amministrative si facevano dopo. C’era la fretta di voler ricostruire, di ricominciare a vivere.
Corrado Lanzoni durante i festeggiamenti per il 30° anniversario della Cem.
Corrado Lanzoni e Mariano Tarozzi.
167
Al termine della prima guerra mondiale il voto fu esteso a tutti i cittadini maschi di almeno 21 anni di età, anche se analfabeti. Potevano inoltre votare anche tutti i minorenni che avessero prestato servizio militare nei corpi mobilitati. Il sistema proporzionale sostituì quello maggioritario a due turni per offrire una più estesa rappresentanza a quelle classi sociali che maggiormente avevano sopportato il peso della guerra. Giunto al potere nel 1922, Benito Mussolini manifestò subito la volontà di modificare il sistema elettorale e di conseguenza indire nuove elezioni, per avere una Camera a lui decisamente favorevole, perché nelle elezioni del 1921 erano stati eletti solo 35 deputati fascisti. Si elaborò un sistema che prevedeva un “Collegio unico nazionale”, attribuendo due terzi dei seggi alla lista che avesse riportato la maggioranza relativa, mentre l’altro terzo sarebbe stato ripartito proporzionalmente tra le altre liste di minoranza, su base regionale e con criterio proporzionale. La legge dopo un dibattito, che vide le opposizioni divise, fu approvata dalla Camera il 21 luglio 1923 con 223 voti a favore e 123 contrari. Dopo alcuni anni il disegno di legge sulla riforma della rappresentanza politica, presentato alla Camera il 27 febbraio 1928 dal ministro della giustizia Alfredo Rocco, introdusse un nuovo sistema elettorale che, negando la “sovranità popolare” e liquidando l’esperienza parlamentare, contribuiva alla realizzazione di un regime autoritario basato sulla figura del Capo del governo.
Poi finalmente si tornò a votare. Tutti, uomini e donne. Il 2 e il 3 giugno 1946 nelle elezioni per l’Assemblea costituente a Monghidoro i partiti maggiori ebbero questi voti: Partito socialista di unità proletaria (Psiup) 782 Democrazia cristiana (Dc) 730 Partito comunista italiano (Pci) 622 Unione democratica nazionale (Udn)70 Uomo qualunque (Uq) 63 Partito d’Azione (Pda) 56 Negli stessi giorni per il Referendum tra monarchia e repubblica il 64,73% dei monghidoresi votò per la repubblica e il 32,27% per la monarchia.
168
Il provvedimento, approvato alla Camera il 16 marzo senza discussione, riduceva le elezioni all’approvazione di una lista unica nazionale di 400 candidati, prevedendo la presentazione di liste concorrenti solo quando la lista unica non fosse stata approvata dal corpo elettorale. La lista era compilata dal Gran Consiglio del Fascismo, dopo aver raccolto le designazioni dei candidati da parte delle confederazioni nazionali dei sindacati, legalmente riconosciute e da altri enti ed associazioni nazionali, tutti naturalmente di ispirazione fascista. Nei plebisciti fascisti del 1929 - 1934, nei quali si potevano eleggere soltanto i candidati già designati dal Gran Consiglio del Fascismo, mancava persino la segretezza del voto perché la busta contenente la scheda del “sì” era trasparente. Gli scrutatori presenti, tutti fascisti, segnalavano ai manganellatori, appostati all’uscita del seggio, gli elettori coraggiosi che avevano votato “no”. Il sistema elettivo fu abbandonato nel 1939; la Camera dei deputati venne soppressa ed al suo posto venne istituita la “Camera dei Fasci e delle corporazioni” di cui facevano parte coloro che rivestivano determinate cariche politico - amministrative in alcuni organi collegiali del regime. Il 31 gennaio del 1945, con il paese ancora diviso ed il nord ancora sotto l’occupazione tedesca, il Consiglio dei Ministri presieduto da Ivanoe Bonomi emanò un decreto che riconosceva il diritto di voto anche alle donne.
Maggio 1950 - Corrado Lanzoni con il sindaco di Loiano Pietro Faggioli.
Novembre 1949 - Corrado Lanzoni all’inaugurazione del nuovo acquedotto.
A Monghidoro alle elezioni comunali del 7 aprile 1946 il 57,8% dei voti andò alla coalizione formata da Pci e Psi, mentre la Dc raccolse il 42,2%. Fu eletto sindaco il socialista Corrado Lanzoni che già aveva ricoperto quella carica dal settembre 1945, succedendo ad Otello Musolesi. Ecco quanto dichiarò nella prima seduta del Consiglio comunale: “Vogliamo creare e infondere al popolo la coscienza del nuovo stato democratico dimostrando che la pubblica Amministrazione è un organo di interesse immediato e collettivo e non di sfruttamento dell’individuo. Il
programma preparato non potrà essere attuato in poco giro di tempo, ma richiederà impegno costante di tutti i cittadini e non lievi sacrifici alle finanze individuali. Pertanto devo richiedere a voi tutti signori consiglieri vivace spirito di collaborazione in ogni campo, ispirato ai più severi principi di equità e onestà al fine di presto ricostruire il Paese devastato dalla guerra. L’appoggio che attendiamo dalle autorità provinciali e dallo Stato sarà più facilmente ottenuto se Amministrazione e popolo potranno dimostrare una sola e granitica volontà di lavorare e intensamente lavorare per la rinascita di Monghidoro”.
169
Testimonianza di Paola Comellini - p. 32 Noi siamo tre sorelle e siamo nate tutte e tre all’Asmara, in Eritrea. Del viaggio di ritorno in Italia nel 1943, sulle Navi Bianche della Croce Rossa piene di donne, vecchi e bambini, ho un solo vago ricordo: quando ci siamo imbarcate nel porto di Massaua io ero sul ponte della nave, forse per salutare il babbo che restava là ancora prigioniero degli inglesi, mi è caduta in mare la bambola e mi ricordo di qualcuno che con una barchina è andato a recuperare questa mia bambola, che poi mi hanno ridato. Mi ricordo molto bene invece di quando siamo arrivati alla stazione di Bologna, forse perché era un avvenimento così importante, dopo un viaggio pieno di traversie e problemi: la paura dei continui bombardamenti, i bagagli, tre figlie piccole, la più grande di quattro anni e la più piccola di tre mesi, i chilometri e chilometri che si dovevano fare a piedi, per superare le stazioni bombardate! A Bologna era venuto nonno Giovanni a prenderci per portarci a Monghidoro e dopo a Stiolo come sfollati. Avevo già quattro anni e lì ho dei ricordi precisi. Un giorno eravamo tutti in casa e abbiamo sentito cadere una bomba, è arrivata la mamma tutta coperta di sangue e noi ci siamo spaventati tremendamente, perché credevamo che fosse rimasta ferita e invece lei era là nello stalletto quando la bomba era caduta, il sangue era quello delle galline. Poi mi ricordo di quando passavano gli aerei che dovevano bombardare, allora i grandi ci facevano andare in un fienile lì di fianco alla casa e ci mettevano dentro quelle ceste grandi già preparate con il fieno dentro, perché pensavano forse che lì fossimo più al sicuro. Passato il bombardamento i nostri cugini, in particolare mi ricordo di Bruno, andavano fuori a raccogliere le schegge. Un giorno è passato un plotone di tedeschi e hanno requisito l’unica mucca che avevamo, la mamma era disperata, perché eravamo in tanti in famiglia. Allora lei, che aveva un gran coraggio, andò da uno di quei soldati e gli spiegò che aveva ben sette bimbi da sfamare e che la mucca era troppo importante per loro, non potevano proprio stare senza. Era così disperata che il sol-
170
dato tedesco le consigliò di tenere la sua mucca per ultima nella fila e appena si fosse presentata l’occasione in una curva lui le avrebbe fatto un segnale, così lei sarebbe potuta tornare indietro con la sua mucca. Infatti in una curva mia madre prese la sua mucca per farla tornare indietro, ma lei vedendo le sue compagne andare avanti si mise a muggire e non voleva proprio saperne di tornare indietro. Ma poi mamma tornò a casa con la famosa mucca. Mi ricordo anche che quando eravamo a Stiolo c’era con noi anche lo zio Beppino e quando arrivavano i tedeschi la mamma e le zie sollevavano delle assi dal pavimento e lo nascondevano lì sotto, che c’era un rifugio e questo si è ripetuto varie volte, perché i tedeschi prendevano gli uomini anche se giovani per portarli a lavorare o in Germania. Quando mio padre è tornato in Italia, nell’agosto del 1946, ha aperto con i suoi cognati, Ubaldo Fabbri e Mario Macchiavelli, un cinema a Monghidoro con un rudimentale generatore per alimentare il proiettore e delle panche, rimediate chissà dove. Era intestato a mia madre e fu lei a scegliere il nome che ha ancora oggi: cinema Aurora.
Maggio 1943 - La famiglia Comellini prima della separazione.
Testimonianza di Arrigo Montanari - p. 94 Dopo la guerra qui c’era un clima più disteso, rispetto a Fontanelice, perché laggiù c’erano proprio le barricate, ragion per cui noi ci spostammo volentieri qui. Là c’era il bar dei neri e il bar dei rossi: se dovevi andare in un bar perché avevi bisogno di uno che era là dentro, quando venivi fuori qualcuno ti affrontava chiedendoti perché eri andato là. Qui invece, per quello che posso ricordare, magari si discuteva ma c’era un senso civico diverso, un clima diverso. Mio padre diceva che rispetto a Fontanelice era un’altra realtà, il clima era un altro, le elezioni venivano commentate dagli uni e dagli altri, senza quell’acredine che c’era in altre zone. Fatti poco edificanti ci sono stati anche qui: se uno era comunista il prete non andava a fare le benedizioni pasquali. È successo anche alla Ca’, da una famiglia che era comunista. Durante il fascismo c’era qualcuno di quei pezzi grossi che diceva a quelli che gli andavano a chiedere di fare una quindicina: se n’à brisa el pen per i só fió, lassa c’al sbadaja. Se poi dopo la guerra qualcuno si è ricordato di queste umiliazioni, di queste cose, ripeto non lo condivido, ma lo capisco. Mio padre, quando prese quattro schiaffi sulla faccia e due calci nella pancia a Fontanelice da uno con la camicia nera, gli disse: adesso me li dai te, ma vedrai che quando sarà il momento che te li potrò dare, te li darò con gli interessi. Passata la guerra, dopo dei mesi arriva una donna tutta piangente in negozio da mio padre e lui le chiede cosa era successo. Era la moglie di uno dal quale mio padre aveva subito quelle botte ed altre cose. Lei gli disse: andé là Gigin per l’amor di Dio, mio marito non viene a casa, non si attenta, perché gli avevate promesso delle botte. Mio padre le disse: a questo punto mi faccio garante io per vostro marito, ditemi dov’è che ci andiamo insieme… Lo andarono a prendere e lo riportarono a Fontanelice, dove è vissuto sereno e tranquillo… mio padre era uno così, ma le guerre quando cominciano…
Paola e Carla Comellini davanti a un manifesto del cinema Aurora di Monghidoro.
171
Testimonianza di Carlo Gironi Registrata a Monghidoro il 12 dicembre 2009
Io avevo due fratelli maschi più grandi di me e nel maggio del 1945 andavano a lavorare giù a Vado, che rifacevano la ferrovia con gli inglesi e un giorno quando sono arrivati in quella curva là a Madonna dei Fornelli, il camion, che sopra erano in una cinquantina, è andato dritto e mio fratello Adelmo di 15 anni, è stato sbalzato fuori e il camion c’è passato sopra. Con lui ne sono morti quattordici e una trentina rimasero feriti. L’altro fratello Marino, che nel 1946 è andato a Quenast a lavorare, anche lui doveva andare a lavorare quella mattina, ma si era addormentato e mia madre ha detto con mio padre: non chiamarlo, lascialo dormire e così lui si è salvato. Mio fratello è rimasto a Quenast circa sei anni, poi era andato a Tirlemont, che è a trenta chilometri dall’Olanda. Lui e Ciro Gironi avevano messo su un’azienda per conto proprio, che lavoravano i sassi, facevano i pavimenti e i camini. Io negli anni sessanta andavo là, per una quindicina di giorni, che li aiutavo anche un po’ nel lavoro. Dopo la guerra c’era una gran miseria e allora la sezione del Pci di Monghidoro con delle sezioni del Pci della Romagna prendevano, d’accordo con le famiglie, dei ragazzi. Si andava a stare per un po’ di mesi da queste famiglie che ti davano da bere e da mangiare, ti vestivano e ti mandavano anche a scuola. Noi in famiglia per la verità non siamo mai stati male: avevamo un po’ di terra, delle mucche, delle altre bestie, mio padre faceva lo scalpellino e faceva sempre qualche giornata a destra e sinistra. Però eravamo in nove. Costa con degli altri i vinser a cà ed mi pèder e gli dissero se voleva mandare i figli là in Romagna, abbiamo durato due, tre anni ad andarci. Io ero stato mandato a Spazzate Sassatelli, verso Portonovo, sono andato anche alle scuole serali là, avevo dodici o tredici anni. Ero in casa da dei compagni: erano tre fratelli che avevano un gran podere, si chiamavano Vanti, vivevano tutti nella stessa casa, erano sposati e avevano tutti dei figli chi quattro, chi tre, era una bella famiglia numerosa! Il più grande era il capocia, sono stato là sei mesi e non li ho mai sentiti litigare. C’è andato anche un mio fratello, poi c’è andata una mia sorella. Anche quelli del Mulino del Comune ci
172
sono andati e anche alcuni di Piamaggio. Io ho iniziato a lavorare che avevo sei anni, andavo già a scuola, ma andavo anche nei campi a raccogliere le patate e nei boschi per le castagne, dietro le mucche e le pecore. Abitavo alla Fossa e andavo a scuola a Ca’ di Pallerino, non tutti i giorni però. C’avevamo un maestro che ci faceva scuola e c’aveva tutte cinque le classi, stava lì tutto il giorno. Invece d’insegnarci dormiva, metteva a segno la sveglia per quando doveva svegliarsi e quando si svegliava, ci dava un poco di lezioni, un po’ di compiti, ma alla meglio e poi via. Insomma faceva quello che poteva, solo che noi ci siamo stancati di questa situazione e allora quando si addormentava bene io, che ero il più birichino della scuola, alzavo un dito e andava a finire che tutti sapevano già che dovevano battere i piedi sui banchi di legno. Lui si svegliava tutto arrabbiato: chi è stato a iniziare? Eravamo in trentacinque, sei stato tu? sei stato tu? Nessuno era stato, allora passava da tutti e ci dava un pizzicotto, che andavamo a casa tutti con un livido nella faccia. È andata a finire che un giorno, venuti fuori di scuola, io e un mio amico gli abbiamo fatto degli urlacci, lui ci ha richiamato dentro in classe poi ci ha fatto stare lì fino alla sera. Più di quattro ore in castigo in ginocchio sopra i gusci di noci, ogni tanto veniva a vedere se stavamo in ginocchio, altrimenti ci menava. Il giorno dopo ci siamo vendicati con degli urlacci un’altra volta. Lui ci ha detto: tornate in classe! Ma noi siamo scappati. Non mi ha più voluto a scuola e allora sono andato a scuola a Piamaggio, però quando tornavo verso casa a piedi e incontravo il vecchio maestro, gli facevo la sassaiola. Quando hanno cominciato ad arrivare qui i tedeschi, già in ritirata, prendevano gli operai e i ragazzi dai quattordici anni in avanti, li prendevano e li facevano lavorare per la Todt. Su a monte Óggioli, avevano fatto tre o quattro baracche e per portare tutto il legname lassù, che non c’erano strade, facevano dei rastrellamenti, prendevano tutti quelli che trovavano e gli facevano portare il materiale fin lassù. Una volta passano da casa mia sei o sette soldati con questi italiani carichi di roba e quando sono arrivati al Cam-
Carlo Gironi nato il 12 luglio 1937 a Monghidoro (Bologna).
po di Roma, che i due tedeschi si sono distratti un attimo, in tre sono riusciti a scappare per i fossi. Io ero con le mie sorelle lì nel campo che raccoglievamo le patate, ‘sti tedeschi ci hanno visti, sono venuti lì: dove sono andati? Noi mentendo abbiamo detto: giù da quel fosso. Noi eravamo già stati istruiti di non dire mai niente ai tedeschi! C’avevano il fucile puntato e dicevano: se non ce lo dite vi spariamo! E poi si sono messi a sparare dei colpi di fucile per intimidirli, insomma non sono riusciti a trovarli. In seguito a questi rastrellamenti tutti quelli che avevano più di quattordici anni si nascondevano, perché altrimenti li prendevano per lavorare e ci davano dei calci e poi c’era la paura che li portassero là in Germania. Anche mio padre con Demetrio Gironi, che era suo cugino, si erano dati alla macchia, so che collaboravano con dei partigiani che erano su per di là, uno si chiamava Lupo. Allora bisognava portargli da mangiare, e un giorno mia madre mi dice: bisogna portare qualcosa da mangiare a loro che sono alle Fossette, di là di Carabotti. Perché non c’andava sempre lo stesso: una volta uno, una volta l’altro e poi c’erano tanti sentieri, che noi eravamo pratici e ogni volta bisognava cambiare strada. Insomma quella volta che toccava a me, mi sono accorto che due tedeschi mi seguivano. Allora c’erano due sentieri, uno che andava su dritto e uno che deviava, che ritornava dalla fonte, che si chiama Macchia di Tognino, che è nominata per l’acqua buona, ho deviato dove c’era un sasso grande vicino alla strada, che tutte le volte che si passava di lì ci facevamo sette croci con una scaglia di sasso. Perché proprio lì Giacomino Gironi, che nella grande guerra aveva perso due figli Fortunato e Alberto, si era impiccato e lo avevano messo su questo sasso, allora c’era venuta questa tradizione che quando si passava di lì si facevano sette croci con un sassolino. E i tedeschi mi venivano sempre dietro, allora ho preso giù di corsa per un sentiero e ho lasciato andare tutto quello che avevo in mano, che era il mangiare, e poi via che avevo anche paura
174
e quando ho fatto cinquanta metri: alt, alt dicevano loro e io via, non mi sono fermato e loro mi hanno sparato, che sentivo nei rami le schioppettate e la paura che ho preso lo so solo io! Noi avevamo fatto un rifugio dentro un fosso sotto un argine e mio padre l’aveva puntellato con delle fascine e dei legni in modo che non venisse giù la terra, siamo vissuti lì per dei mesi sotto la terra. Una mattina d’ottobre sentiamo mio zio che urlava da lontano, che sembrava impazzito. Abbiamo pensato che fosse successa qualche disgrazia, perché non si capiva quello che diceva, ma quando si è avvicinato ci ha detto che aveva visto avvicinarsi degli americani. Allora mio padre con mia madre, che aveva appena fatto il pane, ha preso delle pagnotte e un paniere di pomodori, che eravamo in ottobre e i pomodori c’erano ancora, siamo andati lassù tra Ca’ di Rossetti e Campo di Roma e mentre passavano gli americani lui tagliava una fetta di pane e gliela dava da mangiare con dei pomodori. Dopo andavamo sui margini della strada, perché quando passavano con le camionette gli americani ci buttavano dei pugni di caramelle e di cioccolata. Un giorno andavo verso Castel dell’Alpi con degli amici e vedo una camionetta che si ferma con un nero sopra! Noi non c’eravamo mai stati in macchina e non vedevamo l’ora di salirci! Siamo saliti dietro sulla jeep che eravamo in sei o sette e ci siamo messi tutti a ridere, per via di questo nero, che non sapevamo neanche che esistevano i neri! Noi siamo parenti stretti con Alfredo, Roberto, Sergio tutti i Venturelli che sono ancora là in Belgio: mia madre era sorella del loro padre e anche Bruna, la moglie di Sergio, è mia cugina perché sua madre era sorella di mio padre. Nostro nonno era un socialista che veniva qui in paese a fare le botte con i fascisti, non aveva paura di nessuno, con quelli del Mulino del Comune erano gente che aveva una forza… quando arrivavano loro facevano piazza pulita, delle bancate si davano con i fascisti!
Oltre a ricordare i partigiani, i morti e gli emigrati dei primi anni del Novecento e durante la seconda guerra mondiale, in questo libro ho riportato le testimonianze di alcuni dei nostri emigrati degli anni del dopoguerra, quando ancora una volta era la mancanza di lavoro, la fame, ma anche la speranza di un domani diverso e migliore che si era definitivamente allon-
tanata, a spingere i nostri compaesani ad andarsene. Sono storie uguali a quelle dei molti immigranti che oggi affollano le strade del nostro paese. Storie che potrebbero servirci a capire meglio quello che oggi sta avvenendo qui da noi, che ci siamo trasformati da paese di emigranti in paese di immigrati.
Devo ammettere che ho la sensazione di non appartenere del tutto a nessun posto. Anche se abbiamo costruito una casa qui, “casa” è dove siamo nati e dove sta il nostro cuore. I nostri cuori non sono mai partiti da lì. Molto spesso ho la sensazione di non essere né una cosa né l’altra. Catherine Dunne, Un mondo ignorato Gli irlandesi nell’ultima emigrazione
175
Testimonianza di Alfredo Venturelli Registrata a Rebecq (Belgio) il 22 giugno 2007
Io volevo morire in Italia, ma sono più di 60 anni che sono qui e mi sembra ancora di essere in una prigione. Il nonno, il padre di mia madre, l’hanno ucciso i fascisti, di Monghidoro, Marchioni Alfredo si chiamava, l’hanno picchiato con dei bastoni in testa, è finito all’ospedale e poi è morto così che io non l’ho conosciuto. Mio padre Venturelli Amedeo con mio zio Gigi, quando non c’era ancora la guerra, era andato in Africa a lavorare, ma non mi ricordo dove, hanno fatto le strade, lui partiva e quando tornava faceva un figlio. Io sono venuto in Belgio nel 1946. Sono venuti a prenderci là a Piamaggio un ingegnere della carrière e un italiano che era qui prima della guerra, Barbi si chiamava. Prima di partire ci hanno fatto una visita medica a Monghidoro e poi un’altra qui quando siamo arrivati e poi ci hanno fatto andare a lavorare subito. Per sei anni ho fatto quei sassi lì, facevamo i sassi per il pavé delle strade, ne facevo mille al giorno perché lavoravamo a contratto: si aveva uno stipendio, ma poi ci pagavano per quello che facevi. Più sassi facevi, più prendevi. Si pativa all’inverno, quando si cominciava a lavorare, se c’era la neve, si doveva spazzare la neve per terra e poi sederti in un coso di legno con le gambe aperte lì, poi lavorare fino a mezzogiorno e poi dall’una fino alle cinque e si lavorava anche al sabato e c’erano degli inverni che erano duri! Avevamo gli zoccoli di legno nei piedi, ci si metteva della carta e della paglia dentro, per quello che erano così grandi, così non si aveva tanto freddo, ma non ti potevi alzare, che se uno si alzava si prendeva un freddo! Si mettevano dei sacchi nelle gambe e un pezzo di gomma sopra per non rompere i pantaloni, perché si davano dei colpi! Da mezzogiorno all’una non si poteva rimanere lì perché facevano scoppiare le mine, andavamo alla cantina di Barbi a mangiare. La mia famiglia è venuta qui sei o sette anni dopo. Eravamo quattro fratelli e abbiamo lavorato tutti nella carriera. Prima di noi nelle baracche, dove ci avevano
176
messo, c’erano stati dei prigionieri tedeschi e prima ancora dei polacchi. Abbiamo sofferto qui di freddo, di tutto. Si dormiva nei sacchi di carta, come quelli del cemento, pieni di paglia, non si stava mica tanto bene, non c’erano fuochi, non c’era riscaldamento nelle stanze, che dopo abbiamo messo noi delle stufe con il carbone, se no non c’era niente. Avevano fatto delle stanze che, quando è cominciato a gelare, tutta la calcina che avevano messo veniva giù. Per lavarsi c’erano delle riserve d’acqua fuori che si andava con un secchio, i bagni c’erano negli uffici, ma se tutti volevano fare la doccia c’erano delle ore da aspettare, si faceva la fila fino a mattina. Siamo arrivati qui in giugno e ci hanno dato due coperte, come quelle che c’avevano i soldati perché c’erano delle piccole brande, senza lenzuoli, senza niente. Ci hanno dato un lenzuolo, non so quanti mesi dopo, ma dove si mette un lenzuolo solo? Dopo tanto ci hanno dato il secondo lenzuolo. Dopo cinque anni hanno aggiustato tutto bene: le camere, i letti, hanno messo delle reti, i materassi buoni, mica di lana, ma buoni, via. Dopo cinque anni si poteva cambiare lavoro, si poteva andare a lavorare dove si voleva. Ci volevano cinque anni per avere un permesso di soggiorno, prima si cambiava ogni sei mesi e si pagavano 160 franchi ogni sei mesi per rifarlo. Appena arrivati si guadagnavano 7 franchi e 25 al giorno, ma a noi là in Italia ci avevano detto che si guadagnavano 11 franchi e 50 tutti i giorni, ma siccome che eravamo trentatré e avevamo firmato tutti, era un contratto unico. Allora quando siamo andati a prendere i soldi e abbiamo visto che non c’erano i franchi promessi, siamo andati a reclamare e ci hanno detto che 11 franchi e 50 erano per quelli di 21 anni. Con noi ce n’erano solo tre che avevano più di 21 anni. Poi un po’ alla volta si è andati un po’ meglio perché dopo si è andati a domandare, che volevamo un aumento: abbiamo fatto uno sciopero e gli operai sono venuti lassù che eravamo duecento seduti in piazza e dopo due giorni ci hanno dato tre franchi di aumento, che erano tanti! Un franco belga era cinque lire italiane, tutto in un colpo 15 lire. Bisognava stare
Alfredo Venturelli nato il 12 novembre 1929 a Monghidoro (Bologna).
attenti anche a far sciopero che vita politica non si poteva fare, ti mandavano via. Con il francese si andava come i sordomuti a gesti, se si fosse stati in una famiglia, uno impara prima, ma sempre tra noi italiani! Quando si andava nei negozi si faceva ça ça, indicando con la mano. Con i soldi, si conoscevano, dicevano tanto e si dava tanto. Sono stati bravi gli operai belgi, vedevano che i padroni se ne approfittavano di noi, allora c’erano di quelli che ci chiamavano anche in casa a mangiare. Sono stati proprio bravi. Quando siamo arrivati noi c’era ancora la tessera in tante cose, nello zucchero, nelle sigarette, ti davano dei buoni, c’era il razionamento, era finita la guerra da poco. Noi siamo venuti subito dopo la guerra per quello avevamo le valigie di cartone! Prima di venire in Belgio andavo a scuola ai Fondi e a Ca’ di Pallerino, la maestra, che era una gran fascista, alla mattina ci faceva recitare una preghiera e alla fine ci faceva dire “a noi” e io dicevo “a l’esen!” e lei è venuta per picchiarmi con un righetto e io le ho dato una spinta nella spalla che lei è volata con le gambe per aria. Tutti i bambini che erano là ridevano, da lei poi non le ho prese, ma dopo a casa ne ho prese tante da mia madre. Ho fatto solo fino alla terza elementare e dopo ho lavorato con mio nonno nei campi, poi si andava con le bestie nei boschi, lui aveva due mucche e sempre un vitello o due, mi hanno allevato i miei vecchi, dall’età di sei mesi fino al giorno che sono venuto qui in Belgio. Abitavo a Ca’ di Guagno con i miei nonni, solo per un anno, un anno e mezzo, ho abitato con i miei fratelli a Ca’ di Pallerino, quando andavo a scuola,
178
perché mia madre voleva farmi andare a scuola e aveva ragione lei! Quando si è bambini non si capisce, ma quando si è grandi si capisce che è importante studiare, perché quando non si sa ben leggere e ben scrivere ti fregano. Me adesso se debbo scrivere in italiano sbaglio, se debbo scrivere in francese sbaglio, perché sono andato a scuola poco. Sono già tanti anni che sono qui, non sono stato a scuola qui, quello che ho imparato l’ho imparato così, leggere so leggere in francese, mi vuole il tempo per capire bene, anche una volta o due, ma poi lo capisco, ma se debbo scrivere faccio degli sbagli, sia in francese che in italiano, uguale. Allora la prima volta che siamo andati in Italia, tre giorni ci abbiamo messo per fare le carte: dovevi passare dall’ambasciata belga, da quella del Lussemburgo, da quella francese, dalla svizzera e poi dall’italiana, per tutti i paesi che dovevi passare ci voleva un visto. Dopo un anno e mezzo che ero qua è venuto con me mio fratello Valerio che c’aveva un contratto di lavoro. Mia madre, come ho detto prima, è venuta dopo sei o quasi sette anni. Mio padre è morto nel 1948 e l’ho saputo che era già stato seppellito, perché allora non è come adesso, non c’erano telefoni, non c’era niente in quel momento là, l’ho saputo con una lettera, dopo del tempo. Noi abbiamo fatto dei sacrifici per venire via dall’Italia. Perché a me non mi è mai piaciuto pensare di rimanere qui per sempre, avrei avuto piacere di ritornare in Italia, ma disgraziatamente non ho mai avuto l’occasione di farlo, perché poi mi sono sposato qui a 30 anni con una belga che si chiamava Josette e qui sono rimasto.
Nonostante le sue ridotte dimensioni il Belgio occupa l’ottavo posto tra i paesi che, nel periodo di cento anni, hanno raccolto il maggior numero di emigranti italiani, soprattutto durante il fascismo. In quegli anni infatti esso divenne la terza nazione, dopo Francia e Svizzera, nella lista dei centri antifascisti.
In questo libro sono riportate alcune testimonianze di nostri concittadini emigrati a Quenast, che è un piccolo paese del Belgio. Dopo l’unione nel 1977 con i comuni limitrofi di Bierghes, Wisbecq e Rebecq Rognon, che fa da capoluogo, amministrativamente conta oggi più di 10.000 abitanti. Dista una trentina di chilometri da Bruxelles e più di mille da Monghidoro. È famoso per avere dato i natali ai fratelli Solvay, inventori del procedimento per la fabbricazione del carbonato di sodio, e per la sua enorme cava di porfido a cielo aperto: la carrière. Leggendo alcune biografie di “sovversivi”, rifugiatisi in Belgio negli anni della dittatura fascista, ho scoperto che proprio a Quenast veniva stampato il giornale degli antifascisti italiani “II Riscatto”, che uscì per quasi otto anni con una diffusione di circa tremila copie settimanali.
Quenast - La cava di porfido.
Rebecq - La Senne.
179
Dopo la guerra, il 23 giugno 1946, fu stipulato tra lo stato belga e quello italiano un Protocollo che prevedeva l’emigrazione di 50.000 italiani da impiegare in Belgio nelle miniere di carbone, in cambio di agevolazioni nell’acquisto del carbone da parte dello stato italiano, e ricalcava i termini di un accordo già stipulato nel 1935 tra i due stati. Un sacco di carbone in cambio di un operaio. Questo lo slogan con il quale veniva sintetizzato il contenuto di tale protocollo, sottoscritto da De Gasperi e Van Hacker. Anche nei piccoli comuni, come Monghidoro, vennero affissi dei manifesti rosa che presentavano solo i vantaggi del lavoro in Belgio: salari elevati, carbone e viaggi in ferrovia gratuiti, assegni familiari, ferie pagate, pensionamento anticipato. Un ingegnere della cava di Quenast partì con Domenico Barbi, ricordato nella testimonianza di suo figlio Willem Barbi, per Monghidoro per andare a reclutare altri operai. Ne convinsero a partire trentatré, quasi tutti residenti a Piamaggio. Altri li raggiunsero negli anni ’50. “La Conferenza che ha riunito a Roma i delegati del Governo italiano e del Governo belga per trattare del trasferimento di 50.000 lavoratori nelle miniere belghe, è giunta alle seguenti conclusioni: 1) Il Governo italiano, nella convinzione che il buon esito dell’operazione possa stabilire rapporti sempre più cordiali con il Governo belga e dare la dimostrazione al mondo della volontà dell’Italia di contribuire alla ripresa economica dell’Europa, farà tutto il possibile per la riuscita del piano in progetto. Esso provvederà a che si effettui sollecitamente e nelle migliori condizioni l’avviamento dei lavoratori fino alla località da stabilirsi di comune accordo, in prossimità della frontiera italo-svizzera […]. 2) Il Governo belga […] affretterà, per quanto possibile, l’invio in Italia delle quantità di carbone previste dall’accordo. 3) Il Governo belga curerà che le aziende carbonifere garantiscano ai lavoratori italiani convenienti alloggi […]; un vitto rispondente, per quanto possibile, alle loro abitudini alimentari nel quadro del razionamento belga; condizioni di lavoro, provvidenze sociali e salari sulle medesime basi di quelle stabilite per i minatori belgi”. Estratto dal protocollo che il governo italiano e quello belga firmarono a Roma il 23 giugno 1946.
180
Gli uomini partivano e le donne spesso per mesi e talvolta per anni, dopo la partenza dei mariti, restarono abbandonate qui in Italia facendosi carico di compiti pesantissimi verso i figli, i genitori, i suoceri. Si trovarono a dover assumere verso i figli, spesso nati poco dopo la partenza dei padri, un ruolo, quello paterno, che non erano abituate ad esercitare. Vivendo inoltre in una società maschilista, venivano considerate vedove bianche e quindi oggetto di attenzioni e scherzi a sfondo sessuale. Poi all’improvviso, dopo anni di privazioni e di umiliazioni, ecco arrivare i soldi per partire. E loro, spesso analfabete e poco abituate a frequentare uffici, si trovarono a dover affrontare le pratiche per il passaporto e per l’espatrio, i bagagli, gli addii, gli affetti e le amicizie da interrompere e infine il viaggio verso l’incognito. Ricominciava poi, là all’estero, il tran tran quotidiano pesante, pesantissimo. I soldi erano ancora pochi, sembravano tanti in Italia, ma in Belgio la vita era più cara e non c’era più la ragnatela di parentele e di amicizie che facevano da contrafforte alle difficoltà quotidiane: erano sole, tremendamente sole e non avevano alle spalle una cultura sufficiente per affrontare tutto questo. Alcune, disorientate dalle eccessive difficoltà, non ce la fecero rinunciarono, tornarono a casa con i figli. Quelle che scelsero di restare si trovarono per lunghi anni sospese tra due mondi: quello legato alle abitudini, alle consuetudini assimilate in patria nella famiglia patriarcale, e quello così diverso dove si trovarono a dover vivere: un altro mondo non scelto da loro. A tutto questo si deve aggiungere che allora le notizie dall’Italia arrivavano in lettere via, via sempre più rare; anche i lutti, dei quali si aveva notizia dopo mesi, non avevano la possibilità, come si dice adesso, di essere elaborati. Non c’era l’ultimo abbraccio, l’ultimo saluto. Ma anche le nascite, i matrimoni e tutti gli altri momenti felici della comunità d’origine venivano vissuti da lontano, attraverso brevi scritti, qualche fotografia.
Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c’è qualcosa di tuo che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Cesare Pavese, La luna e i falò
181
Testimonianza di Carlo Monari Registrata a Monghidoro il 23 Aprile 2010
In quegli anni là, dopo la guerra, qua c’era molta miseria, una super miseria e in tanti sono partiti da Monghidoro per la Francia, il Belgio, io invece nel 1956 sono andato in Germania, dove c’era della richiesta di manovali, ma poi là a 15 chilometri da Stoccarda ho fatto il muratore, poi ho fatto il mio mestiere che era il calzolaio. Sono un artista, so fare di tutto, facevo anche le scarpe ortopediche. Qui facevano fare una quindicina a uno, una quindicina a un altro. Io ho cominciato a lavorare da calzolaio che avevo 11 anni: ero andato a imparare da Ferretti e da Calzolari. Loro mi davano il materiale e io facevo le scarpe a casa. I miei facevano i contadini alla Valle, mio fratello è stato laggiù una vita. Mio padre voleva che lavorassi la terra anch’io come lui, ma a me fare il contadino non mi è mai piaciuto, che al padrone bisognava fargli l’inchino, poi per lavorare la terra bisognava avere una famiglia numerosa e io invece ero da solo. Dopo due anni di Germania sono tornato a casa, ma qui c’era sempre la stessa miseria e allora sono tornato via. 51 anni in Germania sono stato e se potessi ci starei ancora, ma per non lasciare da sola mia figlia adesso sto qua. Là funziona tutto meglio: la sanità, il lavoro. Se non muoio prima, io piano piano sto più tempo là che qua. Ho tanti amici là: tedeschi e meridionali, ma amici veri. Mia moglie era del Filigare e l’ho conosciuta perché io avevo fatto entrare in Germania a lavorare sua sorella. Una volta lei ha invitato in Germania sua sorella, che si chiamava Maria Menetti e lavorava in Svizzera, e ha invitato anche me con la scusa che faceva i tortelli. Ci siamo conosciuti così, e poi lei ha lasciato il suo lavoro in Svizzera, ci siamo sposati e lei è venuta a lavorare in Germania. Quando è nata mia figlia mia mamma voleva chiamarla Bruna, mia suocera con un altro nome e io per non accontentare nessuno l’ho chiamata con un nome tedesco: Brunhilde, che vuol dire guerriera. Poi tre anni fa sono tornato in Italia per mia figlia, che è voluta tornare qua.
182
Carlo Monari nato il 17 maggio 1934 a Monghidoro (Bologna).
Testimonianza di Brunhilde Monari Registrata a Monghidoro il 23 Aprile 2010
Io sono voluta tornare in Italia, dopo che mi ero separata con il mio compagno e poi perché adoro l’Italia. Prima venivo qui a Monghidoro durante le vacanze estive dai miei parenti, ma anche delle volte in inverno. Adoro il paesaggio, l’arte, la cultura, tutto dell’Italia, anche se debbo riconoscere che in Germania per le persone che hanno bisogno c’è molto più aiuto. Io parlo quattro lingue benissimo: francese, inglese, tedesco e italiano, là avevo preso un diploma per lavorare nel turismo. Ma quando sono arrivata qui avevo mia figlia da mantenere, allora mi sono data da fare subito e mi sono adattata a fare l’operaia, ma spero col tempo di cambiare lavoro.
Brunhilde Monari nata il 28 aprile 1966 a Sindelfingen (Germania).
184
Testimonianza di Loredana Piaser Registrata a Monghidoro il 7 febbraio 2008
Mia madre Bruna, che era nata a Monghidoro, è andata in Belgio che era ancora una bambina, con sua mamma, suo fratello Emilio e sua sorella Giuliana. A scuola là erano un po’ razzisti, difatti mio padre dice che capisce gli stranieri che adesso sono loro a essere trattati male. A scuola c’era la tendenza a chiamarci macaronì, perché l’Italia era definita come il paese dei maccheroni e degli spaghetti. Mi domando chissà come faranno adesso i belgi, ma anche tanti italiani, senza le lasagne di mamma. Perché mamma per guadagnare un po’ di soldi là si era messa a fare la pasta. Il mercoledì era destinato alle lasagne: il martedì pomeriggio mamma, nel suo sgabuzzino pieno di grandi tegami, faceva la sfoglia, la tirava e poi il giorno dopo, alla mattina presto, faceva le lasagne. I tortellini li ha incominciati a fare dopo, che io non c’ero più. Mio padre lavorava alla carrière anche lui, era di Treviso, non ti so dire quando è andato lì con i suoi genitori e i suoi fratelli, tutti quanti lavoravano in carriera. Mio padre e mia madre si sono incontrati a Quenast in una fiera, in una kermesse. Al sabato sera si trovavano tutti, anche con i belgi, a quelle feste lì e poi si sono sposati. Io mi sono innamorata invece di un monghidorese, ma anche se non mi innamoravo di Moreno io tornavo qua. Io venivo sempre durante l’estate in treno con i miei nonni, mamma ci raggiungeva con babbo e Marianne in agosto. D’estate venire qui a Monghidoro per me era il massimo, per il modo di vivere, per il clima, la gente. Poi anche mia sorella ha fatto la stessa scelta, solo mio padre è rimasto là.
186
Loredana Piaser nata il 7 settembre 1965 a Nivelles (Belgio).
Marianne Piaser nata il 30 luglio 1971 a Braine le Comte (Belgio).
Ecco alcuni dei termini dispregiativi usati contro gli italiani emigrati nel mondo, oltre a quello di macaronì già riportato in questa intervista e che era utilizzato negli anni ’50 e ’60 in Belgio, per indicare i minatori italiani: macaronì spotchi, ovvero maccheroni schiacciati, in dialetto vallone; sales macaronì o sales spaghettì, sporchi italiani; spagettifresser, che equivale a mangia spaghetti, veniva usato nei paesi di lingua tedesca, ma bisogna specificare che il verbo fressen significa animale che mangia e non uomo che mangia; los polpettoes; pizzagang; garlics, usato nei paesi di lingua inglese, dove garlic vuol dire aglio; calzonee; maiser, usato in Svizzera e equivale a uomo del mais, ovvero polentone; mozzarellanigger; guinea, nome dato da chi credeva che gli italiani fossero di origine africana, a causa della loro carnagione scura; greaseball, veniva usato negli Stati Uniti, significa palla di unto, per lo sporco e per la moda della brillantina, usata in abbondanza una volta dai nostri emigrati; dago, veniva usato negli Stati Uniti per tutti i popoli
Solo alcuni dei figli della seconda o terza generazione hanno fatto la scelta di tornare nel paese d’origine dei loro genitori. Oggi, ad esempio, a Rebecq il 10% della popolazione è italiana e se si calcolano i figli, che essendo nati là hanno cittadinanza belga, e i matrimoni misti si arriva al 40%. All’interno di questa percentuale sono molte le famiglie nelle quali, almeno un membro, è di origine monghidorese.
188
“latini”, dal nome proprio Diego o da dagger, coltello; Gino e Gina oppure Guido e Guidette, dai nomi più ricorrenti tra gli emigrati di origine italiana; goombàh, veniva usato nell’area di New York, dall’italiano compare e dal corrispondente dialettale cumpà; wop, trasposizione dall’italiano guappo; wog, utilizzato contro tutti gli individui di pelle scura, ma non neri; itakas, veniva usato in Germania, per un gioco di parole tra Italia e Itaca, che rimanda a giramondo, vagabondi; rital, in francese, dalla fusione delle parole franco e italien, sottolineava la difficoltà degli immigrati a pronunciare la lettera r alla francese; carcamano, veniva usato in Brasile, significava furbone, truffatore, dall’atto di calcare la mano sul piatto della bilancia, fatto, sembra, dai soli commercianti di origine italiana, barando sul peso; tschinggali, usato in Svizzera alla fine dell’Ottocento, dalla trascrizione del suono cinq, ovvero cinque, usato nel gioco della morra, diffusissima tra gli italiani; minghiaweisch, usato in Svizzera, per gli italiani di seconda generazione, dall’intercalare italiano minchia.
Rebecq, settembre 2009 - Da sinistra: Maria Carrugi (presidente del Comitato Monghidoro-Rebecq), Christophe Berti (giornalista), Marino Marchetti (vicesindaco di Rebecq di origini monghidoresi), Renato Gironi.
189
Testimonianza scritta di Christophe Berti Io sono nato in Belgio, da padre italiano e madre belga. Sono in realtà un immigrato della terza generazione, poiché mio padre Luciano era arrivato con sua madre da Monghidoro nel 1952, per raggiungere suo padre Giuseppe, arrivato nel 1949 alle Carrières di Quenast. “Vivevamo abbastanza bene a Ca’ di Brescandoli - mi ha raccontato mio padre - facevamo i contadini, avevamo abbastanza da mangiare, anche se di soldi ce n’erano pochi. Ma mio nonno Giuseppe, forse sognando un’altra vita migliore, decise, dopo la nascita del suo terzo figlio, di raggiungere in Belgio i suoi quattro cognati, che erano venuti a lavorare qua in seguito all’accordo tra il Belgio e l’Italia dopo la guerra”. Partì da solo, lasciando il resto della sua famiglia a Monghidoro. Visse con i suoi quattro cognati nella Cantina della carriera, dove si mangiava e dove c’era un letto di paglia per tutti. Il suo lavoro consisteva nello spingere un vagone pieno di pietre tagliate da altri italiani, per lo più anche loro di Monghidoro, ma anche di Treviso e del Friuli. Quando mio nonno e i suoi cognati ottennero una casa in un quartiere di Rebecq chiamato ‘La Genette’, si fecero raggiungere dalla moglie di uno di loro. Ma poco dopo il suo arrivo in Belgio, lei morì in un incidente stradale: mentre attraversava la strada fu investita da una macchina della polizia all’inseguimento di un ladro! Fu allora che mio nonno, decise di far venire qua mia nonna Fernanda. “Senza quell’incidente d’auto, non saremmo probabilmente mai arrivati in Belgio - mi ha detto mio padre - ma c’era bisogno di una donna per mandare avanti la casa, mentre tutti gli uomini lavoravano alla cava”. Nel mese di agosto del 1952, quindi Fernanda arriva in Belgio con il suo figlio maggiore Luciano, lasciando gli altri due figli, Ivo e Clara, in Italia: il primo con i nonni paterni e la seconda con i nonni materni. “Siamo andati a piedi da Ca’ di Brescandoli a Monghidoro, poi con un carro fino a Bologna. Abbiamo aspettato per molte ore e alla fine abbiamo preso
190
Christophe Berti nato il 29 gennaio 1971 a Soignies (Belgio).
un treno per Milano, era un vagone senza seggiolini. Abbiamo cambiato treno a Milano e, dopo un altro periodo di tempo interminabile, siamo arrivati a Sterpenich, alla frontiera tra Belgio e Lussemburgo, poi finalmente a Schaerbeek vicino a Bruxelles. Infine abbiamo preso un ultimo treno fino a Hennuyères, prima di fare a piedi gli ultimi chilometri fino a Rebecq. Una vera avventura di molti giorni per me che avevo solo otto anni…” Questo il racconto di mio padre. A quel tempo, nessuno della famiglia aveva ancora una visione abbastanza chiara sul futuro, ma pensavano tutti di tornare presto in Italia. Avevano un visto turistico che dovevano rinnovare ogni sei mesi, ma per fortuna era la carriera a sbrigare queste pratiche. Mio padre fu mandato a scuola senza che sapesse una parola di francese: aveva frequentato la terza in Italia, ma fu inserito in una seconda con i belgi. Sei mesi dopo, venne promosso in terza perché aveva raggiunto rapidamente il livello dei suoi coetanei. Nel frattempo mio nonno, al quale non piaceva il lavoro nella carriera, trovò un posto nelle miniere di carbone, a Manage. Vissero lì circa un anno, in una casa di lamiera, solo la terra per pavimento. Dopo tornarono a Quenast a vivere di nuovo con i fratelli di Fernanda, i Gironi che erano rimasti a fare gli operai nella cava. Ebbero diverse abitazioni, ma sempre in case appartenenti alla cava, dove poi anche Clara e Ivo andarono a lavorare, facendo carriera a livello professionale. Fernanda decise allora di andare a prendere i suoi figli rimasti in Italia, ma riuscì a portare in Belgio solo Clara, perché Ivo restò ancora con la nonna, che lo aveva quasi adottato e che preferì fargli finire le elementari in Italia. Ivo arriverà così molto più tardi in Belgio, a 12 anni, in una famiglia che in fondo non conosceva nemmeno e nella quale, nel frattempo, era nata anche un’altra figlia nel 1961. La chiamarono Marina, nome molto di moda tra gli italiani in quel periodo A Quenast, i Berti vissero con molti altri italiani, provenienti da tutte le regioni del Nord Italia, ma si integrarono piuttosto rapidamente nella società belga. “L’integrazione è avvenuta tra i giovani - mi ha spiegato Luciano - a scuola, dove abbiamo rapidamente imparato il francese e tutto è andato abbastanza bene con gli studenti belgi. Ci chiamavano
192
talvolta macheronì, ma noi rispondevamo chiamandoli patates pourries, ovvero patate marce, ma erano scherzi tra bimbi. Non ho davvero sofferto per il razzismo con le persone della mia età. Con i loro genitori e gli anziani era più difficile, la distanza era maggiore, l’intolleranza anche. Parlavano poco con noi, c’era spesso della cattiveria da parte loro. Ma nel complesso, a distanza di tempo, si può dire che la nostra integrazione è riuscita attraverso la scuola e anche lo sport: molti italiani infatti giocavano a calcio, quando sono arrivati”. E a poco a poco, la famiglia non pensò più di tornare in Italia, anche se Giuseppe, aveva ancora una certa nostalgia di Monghidoro. La comunità transalpina era numerosa a Quenast, c’era molta solidarietà e si continuava a parlare ancora il dialetto, come in una piccola Italia. “È stata piuttosto, nostra madre Fernanda, che ha deciso di rimanere. Ha preferito la vita in Belgio, nonostante le difficoltà. È stata lei che ha deciso il destino della famiglia. Eravamo tutti bravi a scuola, ma a 14 anni, io ho dovuto andare al lavoro, alla Fabelta a Tubize, per aiutare la famiglia. Non avevo altra scelta, ero il fratello maggiore. Ho però seguito dei corsi serali a Bruxelles, per sette anni. Fortunatamente avevo trovato quasi subito un lavoro nei pressi della scuola, a Schaerbeek. Le giornate erano lunghe e faticose tra lavoro, scuola e spostamenti, ma la volontà di riuscire era grande. Ho sempre lavorato e studiato, mentre mio fratello e mia sorella sono stati in grado di andare a scuola, prima di essere assunti dalla carriera”. Mio padre poi conobbe e sposò una belga, Lucette; Ivo incontrò e sposò Nadine, un’italiana anche lei figlia di immigrati e Clara si sposò con Lino, anche lui italiano. Giuseppe non lavorò sempre, a differenza di molti altri monghidoresi, nella cava: diventò giardiniere a Clabecq presso il proprietario di un’azienda con migliaia di lavoratori, ma poi perse il lavoro e nel 1976, quando io avevo cinque anni, non essendo riuscito a riprendersi da quell’umiliazione, si suicidò, impiccandosi nel solaio della sua casa. Poi il tempo passò, il processo di integrazione continuò, nacquero i figli, che parlano il francese come prima lingua. Alcuni di loro non parlano nemmeno l’italiano, altri, come me, lo impareranno
nell’adolescenza, per una specie di ritorno volontario alle origini, ma senza avere una vera cultura italiana. Sono stati alcuni viaggi in Italia e soprattutto il gemellaggio tra Monghidoro e Rebecq che mi hanno avvicinato di più all’Italia, al punto da farmi comprare un appartamento a Monghidoro nel 2002. Senza il gemellaggio io probabilmente non avrei mai conosciuto la mia storia, quella della mia famiglia. Sia mia nonna Fernanda, sia mio padre Luciano non mi hanno mai parlato della loro storia, delle loro sofferenze, del loro viaggio. Vergogna? Voglia di cancellare un passato difficile? Di pensare ad altro? In ogni caso, ho “riscoperto” le mie radici con il gemellaggio e attraverso il piccolo libro che nel 1996 ho scritto con mia cugina Sarah, la figlia di Ivo, nel 50° anniversario dell’accordo tra Italia e Belgio e quindi dell’emigrazione da Monghidoro a Rebecq. In quell’occasione, siamo andati ad intervistare molti dei primi immigrati, le persone della generazione dei nostri nonni, persone che conoscevamo bene. Dovunque siamo stati accolti con entusiasmo ed emozione. Alcuni si erano messi giacca e cravatta per accoglierci per l’intervista. Erano commossi,
come se avessero atteso per 50 anni quel momento, qualcuno che gli facesse domande sul loro passato, per aprire finalmente la cassaforte dei loro ricordi. Ci hanno raccontato, sempre con grande modestia, momenti emozionanti, storie toccanti di viaggi, di lavori pesanti nella carriera, di frustrazioni, di umiliazioni, di momenti difficili, ma con l’orgoglio del percorso fatto, di un’integrazione, alla fine, totale e della vita molto migliore, che essi hanno potuto offrire ai loro figli. Di tutto questo essi possono veramente essere orgogliosi. Per me, un italo-belga figlio dell’immigrazione, la scoperta di queste storie che fanno parte anche delle mie radici, è stata un momento importante che mi ha permesso di sapere da dove vengo, di conoscere le difficoltà vissute dai miei genitori e di misurare concretamente il percorso che hanno fatto, per fare in modo che io possa vivere una vita migliore, grazie ai loro sacrifici. È stata per me una vera e propria lezione di vita e un motivo in più per rispettare i valori che essi mi hanno inculcato: la passione per il lavoro, il rispetto degli altri, l’importanza dell’educazione e del sapere. Io non potrò mai ringraziarli abbastanza.
193
Come ha scritto Christophe per tutti gli emigrati di prima, seconda e terza generazione, importantissimo è stato il gemellaggio tra Rebecq e Monghidoro. Iniziato con una serie di reciproche e periodiche visite nel 1991, appena insediatasi a Monghidoro un’amministrazione di centrosinistra, è stato poi ufficializzato nel 2002. Prima di allora i contatti di questi emigrati con l’amministrazione del comune erano solo legati al disbrigo di qualche pratica burocratica. I loro rapporti con la gente del paese erano limitati ai pochi conoscenti e parenti rimasti. Il gemellaggio ha dato visibilità a tutti loro e alle loro storie. Un intero paese ha preso coscienza di questa emigrazione. In tanti hanno potuto visitare Quenast, la famosa carrière dove i nostri emigrati avevano speso tanti anni della loro vita, hanno saputo dei loro sacrifici; hanno potuto confrontare i loro racconti con la realtà, si sono riappropriati di un pezzo della storia di Monghidoro. Conoscere tutte queste storie dovrebbe farci riflettere e non dimenticarci di quando eravamo noi ad andare in cerca di fortuna in altri paesi: più di trenta milioni di italiani emigrarono in tutti i paesi del mondo dal 1876 al 1988.
La maggior parte degli immigrati provenivano dall’Italia e dall’Europa orientale. Venivano portati con le lance a Ellis Island. Qui in una specie di deposito umano curiosamente ornato, in mattoni rossi e pietra grigia, li facevano aspettare seduti su panche in una specie di pollaio. Loro si rendevano subito conto dell’enorme potere dei funzionari dell’ufficio immigrazione. Costoro cambiavano i nomi che non riuscivano a pronunciare e strappavano delle persone alle loro famiglie consegnando a un viaggio di ritorno i vecchi, la gente con la vista debole, i tontoloni, nonché quelli che gli sembravano insolenti. Un potere che dava il capogiro. Gli immigrati pensavano alla loro patria. Andavano per le strade e in un modo o nell’altro venivano assorbiti nei caseggiati. Erano disprezzati dai newyorchesi. Erano sporchi e analfabeti. Puzzavano d’aglio o di pesce. Avevano piaghe purulente. Non avevano un’oncia di dignità e lavoravano quasi per nulla. Rubavano. Bevevano. Stupravano le loro figlie. Si ammazzavano tra loro come se nulla fosse. E.L. Doctorow, Ragtime
Un’altra Italia altrove.
Così ci vedevano nel secolo scorso gli altri, in questo caso gli americani, quando arrivavamo poveri, affamati e sporchi nelle loro città. Si dibatte molto oggi su come affrontare il “problema” immigrati, ma forse sarebbe più utile domandarci che cosa sia più giusto fare oggi per le generazioni che verranno e che dovranno, per forza, convivere in questa promiscuità di nazionalità, religioni e modi di vivere così diversi tra loro. L’emigrazione non è destinata infatti a diminuire, al contrario: guerre, catastrofi ambientali, povertà, dittature, costringeranno ancora gente di ogni paese a spostarsi per necessità.
194
Resta, ogni giorno, il problema della paura che tutto ciò che è ignoto induce in noi, da sempre, e ci spinge a considerare quello che non conosci come ostile e nemico. M. Aime - E. Severino, Il diverso come icona del male
Come combattere il razzismo in questa Italia degli anni Duemila? Forse andando alla radice della paura del diverso, che si è diffusa nel nostro paese grazie a campagne di stampa che fanno leva sui fatti di cronaca, sulla crisi economica e su uno spaesamento culturale di molti di noi di fronte a volti e linguaggi nuovi, che sono arrivati improvvisamente nelle nostre scuole, nelle nostre strade, nel mondo del lavoro.
Imparare a conoscersi, a ridere insieme: cercare di condividere i momenti di piacere, ma anche le pene, fare vedere che spesso si hanno le stesse preoccupazioni, gli stessi problemi, è questo che fa regredire il razzismo. Tahar Ben Jelloun, Il razzismo spiegato a mia figlia
Voci e volti nuovi al mercato di Monghidoro.
195
Basterebbe imparare appunto a conoscersi, senza pregiudizi, come la capra e il lupo della favola che mi ha raccontato mia nipote Matilde, che chiusi dentro una grotta al buio diventano amici. Facciamo già parte di una civiltà multietnica: nello sport, nella moda, nella musica, nel mangiare e anche nel nostro linguaggio quotidiano si sono già mescolate, da centinaia di anni, culture diverse.
Il tuo Cristo è ebreo la tua democrazia greca la tua scrittura è latina e i tuoi numeri sono arabi. La tua auto è giapponese e il tuo caffè brasiliano. Il tuo orologio è svizzero e il tuo walkman coreano. La tua pizza è italiana e la tua camicia hawaiana. Le tue vacanze sono turche, tunisine o marocchine. Cittadino del mondo, non rimproverare il tuo vicino di essere straniero.
Una politica di accoglienza coerente ed equilibrata, una solidarietà intelligente, che non sia elemosina, iniziative per capire e farsi capire, una maggiore disponibilità all’ascolto di storie ed esperienze, il riconoscimento del diritto dei diversi gruppi etnici ad essere differenti, forse potrebbero creare una società migliore di quella che alcuni vorrebbero costruire seminando dolore, umiliazioni e pregiudizi; in attesa che tante diventino le città come questa:
Questa era la storia di Marsiglia. La sua eternità. Un’utopia. L’unica utopia del mondo. Un luogo dove chiunque, di qualsiasi colore, poteva scendere da una barca o da un treno, con la valigia in mano, senza un soldo in tasca, e mescolarsi al flusso degli altri. Una città dove, appena posato il piede a terra, quella persona poteva dire: “Ci sono. È casa mia”. Marsiglia appartiene a chi ci vive. Jean Claude Izzo, Casino totale
Graffito sui muri di Berlino
197
Che aspettiamo, raccolti nella piazza? Oggi arrivano i barbari. Perché mai tanta inerzia nel Senato? E perché i senatori siedono e non fan leggi? Oggi arrivano i barbari. Che leggi devon fare i senatori? Quando verranno le faranno i barbari. […] Perché d’un tratto questo smarrimento ansioso? (I volti come si son fatti seri) Perché rapidamente le strade e le piazze si svuotano, e ritornano tutti a casa perplessi? S’è fatta notte, e i barbari non sono più venuti. Taluni sono giunti dai confini, han detto che di barbari non ce ne sono più. E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi? Era una soluzione, quella gente. Costantino Kavafis, Aspettando i barbari
198
FOTOGRAFIE Sono di Emanuele Bacciocchi le foto di Paola Comellini e a p. 9 Sono di Gianni Gitti le foto a p. 195 Sono di Tommaso Magni e Paolo Panzera le foto di Maria Pia Calzolari Valdimiro Carrugi Vittoria Comellini Umberto Ferretti Guido Gamberini Carlo Gironi Arrigo Montanari Loredana e Marianne Piaser Vittorina Vergnani Amedeo Verzelli e a p. 156
Sono di Marco Ruggeri le foto di Willem Barbi Cristophe Berti Maria Boschi Diano Casoni Dario Castelli Teresa Francia Renato Gironi Nello Lelli Guido Minarini Brunhilde Monari Carlo Monari Maria Luisa Montanari Fernando Musolesi Maurizio Naldi Mariano Tarozzi Alfredo Venturelli e a pp. 21,142,143 Sono invece tratte dai filmati delle interviste le immagini di Joseph Lanzarini Francesco Lorenzini Sergio Nassetti
199
RINGRAZIAMENTI Una volta scritta la parola fine a questo libro non mi resta che ringraziare tutti, ma proprio tutti quelli che mi hanno aiutato e incoraggiato durante la sua stesura. Non sono una scrittrice e nemmeno una storica e quindi i momenti di panico sono stati tanti. Per non dimenticare qualcuno non scrivo nomi, ma coloro che mi hanno aiutato sappiano che li ringrazio con affetto e riconoscenza per tutto quello che mi hanno dato. Non posso non ringraziare i tanti volontari che ogni anno sacrificano le loro ferie per allestire e gestire la festa de l’Unità a Monghidoro, perché è anche grazie al contributo economico, derivato proprio da quelle feste degli anni passati, che questo libro è stato pubblicato. Ha contribuito economicamente alla pubblicazione di questo libro anche la famiglia di Andrea Arrigo Montanari, per ricordare il padre Luigi Montanari e la madre Ester Bernardi.
Finito di stampare nel mese di settembre 2010. PROGETTO GRAFICO E IMPAGINAZIONE
Teresa Magni - Tema Grafico - Via Luigi Cerioli, 10 - 40033 Casalecchio di Reno (BO) - www.temagrafico.it
Vittoria Comellini nasce nel 1943 ad Asmara in Eritrea. Dopo aver abitato e studiato a Bologna si trasferisce a Monghidoro nel 1969. Insegnante elementare in pensione ha potuto finalmente dedicarsi alla sua grande passione: trascrivere le storie, raccolte in tanti anni, degli emigrati da Monghidoro in varie parti del mondo. Sempre attiva nel volontariato, è stata tra i fondatori nel 1987 dell’Associazione culturale “e bene venga maggio”, che ha per obiettivo la promozione, la conservazione e la diffusione della cultura montanara. Nel 1991 ha dato vita, con altre persone, al gemellaggio tra Monghidoro e Rebecq, paese del Belgio, dove esiste una numerosa comunità di monghidoresi. Con il materiale donatole da molti emigranti ha allestito anche un “Piccolo museo dell’emigrazione”. Da molti anni insegna l’italiano in corsi per alunni e adulti stranieri.