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LA MOSCA CAVALLINA
I tori non si annoiano mai, fanno solo finta
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il suo cane docile gli lecca la mano 4
il loro orgoglio ferito che l'uomo non percepisce e calpesta
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un cavallo imbizzarrito,
intimorito dalla libertĂ o dalla paura di perderla?
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le mosche non morte tarlano i miei occhi all'infinito
forse le ali non ce l'ho e sono solo un cavallo
s c a l p i t a n t e.
Volo perchĂŠ sono un cavallo alato sfuggito all'uomo fiero
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u n a
lepre impaurita scappa dal tutto.
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Fiero perchĂŠ cavalca la sua libertĂ d'animale.
Socrate aveva dormito tutta la mattina. La sera precedente, nella casa di Aristarco, si era imbottito di agnello di montone e di vino. Avevano bevuto tutti, avevano seccato un otre dietro l'altro, e lui aveva bevuto più di tutti, come sempre. Gli altri crollavano sopra la tavola, ma lui continuava a parlare, a interrogare, a pungolare come un tafano. Non sapeva che cosa dicesse, ma poco importava, non c'era nessuno a ascoltarlo. L'importante era mantenere il controllo, mantenersi ritto. Il sole del primo pomeriggio picchiava sulle pietre della strada e sopra le tempie di Socrate. S'era appena bagnato i capelli grigi alla fonte Aretusa, e già l'acqua era evaporata. L'emicrania era feroce. Non c'era bisogno di nessun Marte per chiedere di spaccargli il cranio con la sua spada. Ci pensava già il dio Apollo. Ma quali dei, si disse Socrate passandosi una mano davanti al viso. È solo il mio demone che mi deve portare. Il suo demone a notte fonda l'aveva portato tra le braccia amorevoli di Alcibiade. Erano così ubriachi che non s'erano neppure accarezzati. All'alba s'era svegliato nella poltiglia morbida e maleodorante del vomito del suo compagno di letto, forse del suo. S'era lavato il viso in un bacile e era andato a casa. Maledetta Mirto, si disse Socrate. Tutta la mattina a rovesciare cocci a stracciare pavimenti a ciarlare con le serve di casa. Aveva mangiato del pane con olive, un pezzo di formaggio, aveva insultato la moglie e era uscito. Per strada aveva incontrato poche persone. Non aveva voglia di conversare. Anche nel Ginnasio non c'era nessuno. S'era riposato un poco all'ombra del colonnato, e il giovane Santippo gli era passato accanto in un'aura di profumo di gelsomini. Questo gli aveva causato una blanda erezionciucola, appena evidente da sotto la tunica di lino, e di conseguenza la voglia d'intrattenere e pedagogizzare. L'aveva chiamato a sedersi accanto a sé con un cenno della mano. Buon giorno a te, mio giovane Santippo, attaccò Socrate. Il giovane Santippo aveva i capelli biondi e ricci tenuti insieme da una fascia bianca, la veste succinta e un sorriso indelebile sul volto. Dimmi, mio buon allievo, hai fatto un buon risveglio questa mattina? Santippo fece di sì con la testa. E hai avuto sogni buoni o brutti questa notte? Santippo
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fece segno che non lo sapeva. Dunque tu non hai sognato niente? O forse hai sognato e hai dimenticato? Perché l'uomo sogna, ogni notte, ma spesso preferisce dimenticare. Santippo alzò le spalle. L'aria deficiente gli restava impressa nel sorriso inestinguibile. È dura esercitare la nobile arte della maieutica con uno come il giovane Santippo, si disse Socrate. Come far partorire una donna sterile. Eppure l'eros che emanava dal corpo candido che ora gli si era allungato morbidamente addosso come un gatto flessuoso lo spingeva a tentare. Perché vedi, mio giovane Santippo - riattaccò Socrate con tono sempre più melenso. È il nostro demone che ci parla la notte, nei sogni, e sussurra agli artisti i segni e gli emblemi con cui tessere le loro storie. Quando ti parla, tu pensi che ti parli della tua vita passata, o premonisca quella futura, come credono i più? Oppure insceni qualcosa di diverso, e ineffabile, come un cenno dall'Ade, un soffio, un sospiro misterico? O qualcosa di ancora diverso, che nel teatrino del dio Morfeo si rappresenti l'eterno intrinseco nel mito, che ritorna, uguale e metamorfico nell'anima di ognuno di noi, in ogni fantasima, immagine, sogno o illusione? disse: e abbassò lo sguardo sul giovane Santippo. Che s'era beatamente addormentato sopra le cosce satiresche del filosofo, il sorriso ebete sopra le labbra di rosa e i capelli di grano sparsi sulla veste non proprio immacolata. Socrate aveva continuato a carezzare quei capelli, ma l'erezione se n'era andata, e con lei la voglia di conversare e d'educare. Così fece scivolare la testa del giovane sulla pietra, delicatamente per non svegliarlo. S'alzò in piedi e si rimise sulla strada. Il caldo era micidiale, anche all'ombra dei platani che vedeva laggiù, in fondo alla strada, quasi prossimi alle mura della città. Non aveva idea di dove andare. Non sapeva quasi neppure dove si trovava. Certo non avrebbe voluto essere là, nella calda e sudicia Atene. Gli venne in mente il manifesto che aveva visto la sera prima, vicino alla casa di Aristarco. C'era un'Andromeda completamente nuda incatenata allo scoglio a braccia sollevate, le poppe opulente che sobbalzavano nel vano tentativo di liberarsi dalla morsa ferrea dei bracciali. E l'Eroe picchiava sopra il suo cavallo alato addosso al mostro furente incaricato di metabolizzarsi la bella incatenata allo scoglio. Ancora più esplicito il testo scritto sotto:
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Questa sera Alle cinque della sera Nella plaza di Cnosso Grande spettacolo di gala Con la presenza straordinaria Del famoso Mostro Marino Impegnato in salti e esercizi sorprendenti Per sfuggire alla spada dell'eroico Perseo In sella a Pegaso destriero alato E più Sarà presentato per la prima volta Il torero Teseo Che con la sua consueta temerità Affronterà tori e altre Mostruose creature In realtà, dentro dell'arena pareva che tutto interessasse fuorché il mostro marino, Perseo alato e le puppe d'Andromeda, la rappresentazione delle cui tribolazioni era relegata a una vasca in un canto, di quelle che s'adoperano nei giardini dei bimbi, d'estate, piena d'acqua, di foglie caduche e di vespe annegate. C'era, è vero, un improbabile picco roccioso che finisce in uno scivolo giallo e rosso, e un becco di fontana pronta a gorgogliare acque tempestose. Pegaso scaturito dalla testa appena ghigliottinata della Gorgone aveva becco da grifone e improbabili ali di colombo viaggiatore, spiegate a raccogliere zufoli e zifoli dello zefiro calante al sole vespertino. E Andromeda splendida nella sua opulenza, Perseo di maschia beltà, e con molti trucchi nella manica, come una testa di Medusa in saccoccia e un elmo per farsi invisibile. E infine il Mostro, unico nella sua composita conformazione: il corpo di furente cavallo termina in due zampe palmate come un'anatra con gli unghioli, la coda di laocoontico serpente si sfila in una immensa coda di balena, ha testa di cane dragaiolo con lunghe orecchie puntute, vomita fumo e fiamme dalle fauci e dal-
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le nari, e quasi che tutto questo non bastasse ha due terrifiche ali di uccello pipistrello che gli escono dalla sommitĂ del groppone. Eppure, nemmeno una cosĂŹ spiccata individualitĂ riusciva a catalizzare l'attenzione degli spettatori, tutta indirizzata invece alle palizzate in legno che limitavano il vasto spazio circolare pieno di spessa sabbia gialla, alle gradinate che andavano riempiendosi, alle tende e ai trapezi ciondolanti dalle aeree strutture sostenute da controventature di filo leggerissimo. Il sito dei suonatori di tamburello, di lira e flauto doppio era ancora adombrato da tende di velluto, purpuree, e l'imbuto del presentatore, in redingote rosso fuoco dai bottoni dorati, e stivali e cilindro, ancora adagiato su una panca, prossimo alla porta d'ingresso degli artisti. Niente a che fare con quanto sarebbe accaduto lĂ , nell'arena di Cnosso, alle cinque della sera. Quando gli aristocratici levrieri, ritirati da inseguimenti giulivi dietro lepri di stoffa e compensato, venivano aizzati contro il toro, per innervosirlo: l'attaccavano in branco, d'istinto, puntavano alla gola, al collo, ai garretti posteriori. Il toro scalciava, roteava, dondolava la testa come un pendolo impazzito. Poca cosa erano i morsi. Un cane arrancava, discosto, il muso alla lotta, il posteriore paralizzato dalla ferita. Un altro era incornato in aria, ricadeva con il petto squarciato, le zampe agitate nel vuoto. Finiti i cani, seguitavano i picadores. Erano cinque, vestiti con maglie a strisce bianche e rosse, i pantaloni verdi strabordanti, la faccia dipinta, i capelli ricci color giallo e turchino. Li guidava un picador tutto bianco, con bottoni neri esagerati, il cappello da pinocchio e una lacrima triste dipinta sul volto. Sa18
lutarono la folla con inchini fino a terra: e poi si gettarono sul toro. Le lunghe picche lo penetravano, le banderillas gli insanguinavano la groppa, allegre come festoni campagnoli. Il cavallo del picador con la bombetta viola a fiori rossi fu incornato quasi subito: lo trascinavano verso l'uscita su una pista di sangue, le budella in una sacca azzurra che gli penzolava sotto il ventre. Il picador dalle scarpe enormi e una scure piantata sul cranio si fece passare le banderillas infuocate, e le punzecchiò sopra il toro. La bestia scuoteva l'enorme testa nera, formando anelli di fumo che salivano al cielo, nel giubilo della folla festante. Il picador alzò il cranio e la scure a ringraziare, come un cappello, e il toro lo caricò al fianco, spezzandogli la gamba e squarciando il petto del suo cavallo. Il pubblico applaudiva, fischi di approvazione, qualche sussulto d'emozione, isolato. Poi il primo picador soffiò dentro una trombetta a strisce, come un duro di menta: e i superstiti si ritirarono. Il toro adesso era al centro della pista, nel silenzio grande. Sbuffava, ansimava, immobile, insanguato, le banderillas infuocate spente, le altre coperte di polvere, tristi, doloranti. Teneva gli occhi fissi nel testone nero, piegato sotto le punte delle picche spezzate. Lo risvegliò il mormorìo del pubblico, al dischiudersi delle tende di velluto: entrava il famoso Teseo. Aveva scarpette da ballerina ai piedi, calze rosso acceso sui polpacci maschi, una veste d'oro e d'argento e l'inequivocabile cappello da topolino sopra i capelli tirati a lucido. Alzò il cappello al pubblico, con un sorriso che sfolgorava nella carnagione imbrunita dal sole, lo lanciò: e come un'onda la folla tutta ribollì e s'esaltò, e si protese al torero tracimando oltre le barricate dell'arena. Con gesto solenne Teseo si tolse la giacca e il farsetto, che usò come muleta davanti alle froge della bestia. Che scosse la testa soffiando, come stanca ma rassegnata all'ineluttabile combattimento: e caricò il torero, che sfagliò con mossa impercettibile in punta di scarpetta, appena uno scarto, e il toro si ritrovò davanti il niente, con Teseo che s'inchinava, irriverente, al suo passaggio. La folla rise, applaudì. Teseo ripetè la mossa ancora due volte. Alla terza afferrò il toro in corsa per le corna, e con uno slancio gli saltò sulle spalle, facendosi portare per un giro d'arena, come un gaucho che domi il torello, nel rodeo, la mano alzata e
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l'altra a stringersi al corno. Poi si fece portare un tavolo, che ricoprì con la muleta. Ci salì in piedi. E mentre il toro s'azzuffava col panno rosso, Teseo spiccò un balzo e capriolò due volte sulla schiena nera, ricadendo in piedi e con le braccia alzate: pareva un ballerino alla corte di Minosse, o l'atleta sopra l'attrezzo, alle panelleniche d'Olimpia. La folla gridava, folle. Il toro era una statua nera che fissava il proprio sangue sulla pista, ebete, schernito. Teseo stava, con un ginocchio a terra e il sorriso splendido tra le braccia alzate, nel tripudio. Poi s'alzò. Il momento supremo era giunto. Ora portavano al torero una sedia impagliata, lo scudo, la daga. Si sedette con la schiena eretta. La folla tutti in uno, nel silenzio dell'attesa. Teseo agitò brevemente lo scudo in faccia al toro. Appariva stanco, sfiduciato. Non si decideva a caricare. Il torero s'indispettì. Qualcuno del pubblico si distrasse. Il torero usò lo scudo per abbagliare il toro, con un raggio di sole. Allora la fiera abbassò la testa, scalpitò con la zampa posteriore destra, e come in un cartone animato s'abbattè sul torero. La spada luccicò nel sole ormai basso, volteggiava che pareva una piuma, al rallentatore. Tutto rimase immobile, in posa statuaria. Il toro aveva il capo piegato a sinistra, il corpo esausto, le gambe tese. Il corno destro aveva trapassato Teseo nel centro dello stomaco, fracassato la spalliera della sedia, e s'era conficcato nella sabbia: così profondo che non riusciva a estrarlo. Preferì togliersi l'intero mascherone e drizzarsi in piedi, gigantesco, sudato, coperto di sangue e di polvere. Guardò appena l'espressione di stupore che s'era fatta sul volto del torero. Poi alzò le braccia al cielo: e la folla esplose in un giubilo d'esaltazione.
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Ringrazio Johannes Baur, Francisco Goya, Carlo Lorenzini (Collodi), Ernest Hemingway e Robert Graves, le opere dei quali sono state saccheggiate per la scrittura di questo testo.
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LA CONDIZIONE
Ho preso in giro la solitudine per molto tempo
lo scarabeo porta fortuna; tu sei la mia fortuna micidiale 25
mano bocca labbra lingua sesso mille volte ti amo sono un centauro solo stop. 26
Tanti passano davanti, qualcuno si ferma 28
ho lasciato sola la solitudine,
l'ho trascurata per te
quella parte della mia testa, una macchia buia piena di ricordi.
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Basta pensare, è ora di vivere, suonare il violino
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un rospo attraversa, inevitabilmente muore, brutto scemo
girotondo girotondo il tuo odore è sesso puro
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anche il cane ha fame.
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Lo scarabeo uscì da un buco del pavimento di legno del palco mentre il violinista si preparava per l'attacco della Ciaccona dalla partita in re minore. Non se ne accorse nessuno, forse solo gli spettatori affacciati alla barcaccia, che fissavano le dita d'avorio del musicista. Comunque non fecero nessun commento, se non altro per rispetto del silenzio sacrale che pervadeva la sala in attesa delle prime note. L'archetto stava per scivolare come un'ala di gabbiano sopra le corde del Guarnieri del Gesù. Il violinista teneva gli occhi chiusi. Pensava a quando sarebbe stato il momento giusto. Magari adesso. Il mio ultimo concerto. La mia ultima sublime interpretazione. L'odio che ho raggrumato in questi lunghi anni. Mia madre vedova troppo presto, nella villa buia. Pianista mancata. Ego spropositato. A tre anni il violino di mio padre, l'archetto alto come me. Scale, esercizi. Le vesciche alle dita. Il maestro e mia madre. Battere il tempo con le mani. Uno, due. Mia madre silenziosa, nell'ombra. Un frustino di legno d'acacia. Leggere sferzate sul sedere a ogni sbaglio. Uno, due. La frescura odorosa di legno antico nell'estate. I figli del fattore, dei contadini vicini. Scalzi nel letame, urlanti, sudati. Il sole che cuoceva. Le sferzate leggere dell'acacia. L'esame per il conservatorio a otto anni. Fanciullo prodigio. Prodigiosamente sferzato da sua madre. I corridoi immensi, le tonache nere dei preti. Il primo concerto a quattordici anni. Il trillo del diavolo. E poi una vita di esercizi, studio, buio, camere d'albergo e sale d'incisione. Molte donne che si sono offerte. Nessuna che ho carezzato. Il mio sesso sferzato da mia madre. Oggi. La serata della mia liberazione. Spezzerò l'archetto, per primo. Getterò a terra il Guarnieri. Una cifra inestimabile. Il costo della villa di mia madre. Schizzeranno schegge e sangue tutto intorno. Ridotto alla sua essenza primigenia di legno sottile, stagionato. Poi forse urlerò. Danzerò sul palco, sputerò sul pubblico che mi ha reso suo schiavo. Piscerò sui vestiti da sera in prima fila. Domani l'ultimo trafiletto sul giornale. Che io non comprerò. Finalmente libero dalle catene della stampa. Quando farlo. Adesso. La ciaccona. Il cavallo di battaglia. La mia libertà per un cavallo. Finirla adesso. Tredici mi-
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uti ventisette secondi di musica. Troppo tempo ho aspettato. Ridurla. Tre note sì. Due note no. La merda sopra il mio amato pubblico. L'archetto iniziò a scivolare come l'ala d'un gabbiano sopra le corde del Guarnieri del Gesù. Un mormorio di sorpresa si levò dal pubblico. Tre note sì. Due note no. Tre note sì. Due note no. All'inizio non capivano. Qualche risata imbarazzata. Il Maestro appariva preso come mai. Provate voi a suonare la Ciaccona saltando sistematicamente due note ogni tre. Dal loggione si levò una voce a scherno. Sta saltando le note. Non si ricorda il pezzo. Il mormorìo all'inizio sommesso montava in una dissonante sequenza di proteste. Il godimento estetico veniva negato. L'attesa di quelle precise note in quella precisa sequenza scandite da quel preciso ritmo temporale era tradita. Il pubblico era stato tradito. La tradizione musicale. Dopo due minuti già veniva richiesta la restituzione dei soldi del biglietto. Da estetico, il tradimento si faceva perentoriamente economico. Le signore già abbandonavano la sala urlanti d'indignazione, si trascinavano dietro i mariti dalle minuscole teste pelate. Dai palchetti si lanciavano i programmi sul palco. Andate pure, pensava il violinista. Vi perderete il pezzo forte. Un gruppetto di studenti del conservatorio dal loggione faceva coro, intonando sguaiatamente l'aria della ciaccona. S'erano presi per mano e avevano inscenato un grottesco girotondo. Uno di loro, al centro, accucciato sui talloni, imitava un cane che ulula alla luna. L'unico che era rimasto impassibile ad ascoltare era lo scarabeo. Stava seduto sulle zampette posteriori, e teneva quelle davanti immobili sul busto eretto, vicine come se fossero due mani congiunte. Dondolava la grossa testa nera al ritmo della musica, e quelle dissonanze inaspettate non gli dispiacevano affatto. Certo, poteva sembrare un po' ardito togliere quello che il dio della musica aveva messo. Però il maestro toglieva con metodo, e la non-melodia che ne veniva fuori aveva in fondo la sua logica. E poi se ne aveva abbastanza di tutte quelle armonie prestabilite. Un po' d'innovazione ogni tanto ci voleva. Un poca di sana dissonanza. L'aveva sempre pensato. Fin da quanto suo padre l'aveva portato a sentire il primo concerto della sua vita. La quinta sinfonia diretta da un inglese dalla testa rossa. I colpi di timpano gli entravano nello
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stomaco, violini e violoncelli lo facevano scivolare su una lastra di ghiaccio, i fiati rombavano come il vento nelle orecchie. Non aveva capito nulla di quello che sentiva, ma le emozioni erano state cosĂŹ forti che per tutta la vita aveva continuato a andare ai concerti. Quell'inglese dalla testa rossa era morto poco dopo per un cancro al cervello, e lui ascoltava di rado musica fatta da un'intera orchestra. Sentiva quartetti, trii, concerti per pianoforte e violino, insieme o da solisti. Spesso si addormentava ai concerti, questa strana abitudine di suonare durante la notte. Spesso si esaltava alla musica, che gli dava un brivido nel corpo, e lo faceva volare, lui che non aveva le ali. Andare ai concerti era diventata un'abitudine necessaria. Non poteva fare a meno di quelle sensazioni, anche se continuava a non capire niente di musica. Non era mai riuscito a suonare uno strumento. Troppa teoria, concentrazione, esercizi, e lavoro. Meglio che qualcuno faticasse per te, per farti ascoltare quelle cacche di mosca posate sopra un pentagramma. Finito il concerto, l'aspettava la vita dello scarabeo. Non era difficile immaginarselo. Bastava trovarsi una spiaggia deserta e palline di sterco sopra la spiaggia. Appallottolare le palline e spingerle fino alla tana. Dentro le palline avrebbe deposto le uova, che sarebbero diventate larve, e poi splendidi piccoli scarabei. I suoi figli sarebbero cresciuti mangiando la merda. Sempre meglio dei figli degli umani. Li odiava e li temeva. Quando vedevano uno scarabeo sulla spiaggia lo inseguivano finchĂŠ non l'avevano preso. Se non lo schiacciavano subito, scavavano buche profonde e lo seppellivano. Una volta aveva visto dei ragazzi legare piccoli petardi intorno a uno scarabeo e dare fuoco alla miccia. Lo scarabeo aveva corso per pochi istanti e poi era letteralmente esploso, con un fumo fetido che gli usciva dalla schiena squarciata. Scarabeo stercorario, lo chiamavano. Un aggettivo scientifico colmo di disprezzo. Ebbe un brivido. I suoi antenati egizi. Tutt'altra considerazione. Era lo scarabeo sacro. Certo, continuava a appallottolare merda. Continuava a rotolarla fino alla sua tana. Ma a Heliopolis i sacerdoti l'avevano trasformato in un dio del sole. Non in esclusiva, si capisce. Un privilegio spartito in tre. Ra era il sommo, il disco del sole al mezzogiorno. E Atun la pal-
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la infuocata che tramontava tra il fiume e il deserto. Ma lui era comunque Khepri, il sole che sorge, la luce del mattino che porta la vita dopo l'oscurità mortifera della notte. Al posto della palla di merda lo dipingevano mentre spingeva la palla del sole, per tutta la mattina, fino a consegnarla al divino Ammone. Ne facevano amuleti splendidi di turchese e ametista. Lo ponevano sul cuore delle mummie, suggello alla resurrezione della carne. Lui restituiva la vita dalla merda. Lui, nero, dava la luce. Lui, dalla vita sottoterra, compiva traiettorie celesti. Lui era la speranza, la vita che si rigenera, che risorge. Si sentiva molto vicino alla coppia regale, la più famosa, quella che finiva dipinta su tutti i papiri incisa dentro tutte le piramidi. Osiride ridotto in quattordici pezzi dall'odio del fratello. Il quattordicesimo, il più importante di tutti, divorato da un pescione che l'aveva scambiato per un pesciolino. Iside che raccoglieva e ricuciva, e chissà cosa mise al posto di quello che mancava. Comunque funzionò, Iside allattava Horo come la Vergine Maria il Bambinello, facevano un bel po' di confusione tra madonne isidi cereri dee bianche e demetre, ma intanto Horo cresceva e alla fine assaltò il fratello cattivo e gli strappò le palle. Vendicare il padre gli costò un occhio della testa, se ne girava nell'Egitto predinastico con lo sguardo truce e una caverna enorme al posto dell'occhio che Seth gli aveva fatto saltare, gli ultimi tempi pareva un colonnello in pensione con le labbra dure il monocolo sull'occhio rimasto e la benda su quello perduto in battaglia, che raccontava a tutti come le battaglie antiche erano le più gagliarde, e come non ce ne fossero più di battaglie come quelle di una volta. Lui che era colonnello di cavalleria si rizzava dalla mischia sul suo cavallo baio, quando la sciabola sguainata irrorata di sangue scintillava al sole della primavera tutti si gettavano all'assalto, i centauri fuggivano e i cavalieri dietro, fra il grano e il frumento, sullo sfondo di colline e montagne fatte limpide dai venti del nord. Non era facile prenderne uno vivo. La loro rabbia si rovesciava sugli inseguitori, lanciavano frecce e pestavano con le clave, con gli zoccoli calpestavano a morte i cavalieri caduti, e quando non avevano più scampo preferivano spaccarsi la testa contro un albero o gettarsi da una rupe. Per ammazzarli bisognava tagliargli la
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testa, e bisognava stare più che attenti a schivare gli sfagli di sangue che si attaccavano alla pelle e bruciavano come il piombo fuso, come il napalm, come il fosforo bianco. Lo scarabeo si riscosse con un fremito. Aveva sempre detestato la sua bassa concentrazione ai concerti. Dopo cinque minuti di note si staccava dalla musica e scivolava sul flusso dei suoi pensieri. Forse era la musica che favoriva il suo abbandono. Tornò a ascoltare le note che il violinista toglieva al pezzo celeberrimo. Non si curò dei pochi sberleffi che ormai salivano dalla sala, degli ululati che scendevano dal loggione. Girogirotondo. Cascailmondo. Cascalaterra. Violinistagiùperterra. Scosse la testa, lentamente per la sua nuova pesantezza. Incompetenti. Ingrati. Per tutta la musica che il Maestro ha da sempre dispensato. Quel concerto non se lo sarebbe perso per nulla al mondo. Aveva prenotato il biglietto da due mesi. Aveva disdetto ogni appuntamento per quella sera. Aveva pagato una cifra esorbitante. Fino all'incidente di quella mattina. Trovarsi al risveglio disteso sul letto a pancia all'aria, trasformato in un orribile insetto. Aveva penato le pene dell'inferno per rotolarsi sul pavimento. Aveva urlato al padre di non aprire la porta. Aveva pregato che telefonassero in ufficio per giustificarlo di una brutta infreddatura. Poi era uscito da una fessura nell'angolo della porta e aveva iniziato la lunga marcia fino al teatro. Era l'ultimo pezzo, lo sapeva, ma almeno aveva goduto delle note che il Maestro scioglieva nell'aria. Anche se non erano proprio tutte. E si era alla fine. Tre o quattro battute, da quello che capiva. Un paio di secondi con tutte le note che toglieva. Staccò l'archetto dalle corde, con il gesto ampio e circolare che gli era consueto. Solo che questa volta continuò la rotazione fino al pavimento, piegò le ginocchia e spezzò l'archetto sulle assi del palco. I pochi rimasti lanciarono un grido, consapevoli della tragedia che si stava consumando in scena. L'orrore era al culmine. Soprattutto quando il violinista alzò il Guarnieri del Gesù sopra la testa, e con una bestemmia sovrumana lo fracassò sopra lo scarabeo che esterrefatto osservava la conclusione del concerto. Lo spiaccicò come un rospo sull'asfalto, le budella in una poltiglia informe, il cervello schizzato via insieme all'ultima speranza di essere trasformato, un giorno, in uno splendido principe.
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Dedicato alla musica, in particolare: alle sale del palazzo del Conte Chigi, a mia cugina M.B. che rifiutò il pianoforte per uccidere sua madre, a Th. Schippers che ci ha lasciati troppo presto, a Plutarco e, inevitabile come sempre, a Gregor Samsa.
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LA SERPE IN SENO
Un guerriero sente sempre l'ansia della battaglia 43
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Mi ricordo con dolcezza l'odore dei campi, dei fiori, della merda
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vorrei non ricordare la sconfitta. 47
Amano la mia sconfitta, ne hanno fatto una bandiera
perchĂŠ non scopavo, rifiutavo le donne. Ma che ne sanno dell'odore della pelle, delle mani che penetrano nella carne
che mi capiva mi temeva, e mi rispettava, perchĂŠ capiva.
E in vec e io
affe rmo , si,
io s ono , sar ò, s ono stat o
E invece io affermo, si, io sono, sarò, sono stato.
E invece io affermo, si, io sono, sarò, sono stato.
Adorano il mio capo chino, loro che mi hanno sconfitto,
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con il tradimento.
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Nessuno, dico nessuno, che urli, o sospiri: buon compleanno, guerriero Ges첫.
PerchĂŠ, cazzo, mi appendete ai muri, crocifisso e impotente.
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Sotto qualunque aspetto si consideri la questione, bisogna ammettere che non è facile essere un cinghiale. Procacciarsi la femmina in calore vincendo tutti gli altri, o accudire i cuccioli finché non sono adulti a sufficienza, poco cambia. Non sarebbe niente se essere cinghiale volesse dire solo cercare tutti i giorni da mangiare, o proteggersi dai lupi, o dal caldo e dal freddo. Di cibo ce n'è fin troppo, nel bosco, i lupi si sono estinti e l'umidità del fiume e la pelliccia proteggono sotto ogni cielo. Il fatto è che c'è la caccia. Fatta per divertirsi e non per mangiare è comunque improba, quella al cinghiale lo è più di tutte le altre. Intanto il cinghiale non può attaccare, ma solo fuggire e nascondersi. Certo, qualche cane sbranato, qualche volta, mettersi nella traiettoria di tiro di due cacciatori più fessi degli altri. Ma per il resto sono venti contro uno. E venti con i cani, i fucili, i binocoli e addirittura le radiotrasmittenti. Il cinghiale ha solo quattro zampe e un profilo più basso di quello degli umani. Poi il cinghiale non suscita quella compassione del cucciolo che può fare un coniglio, una volpe, un passerotto, una fagiana. Eppure non c'è davvero nessuna differenza, lo posso assicurare. Per gli umani il cinghiale è solo ferocia e selvatichezza. Non so quanto possa essere più selvatica e feroce una farfalla. Ma è così. Forse perché di farfalle se ne vedono a ogni primavera, di cinghiali quasi mai. Io ne ho visto uno solo in tutta la mia vita, escludendo quelli alla televisione. Ma in fondo anche le comparsate del cinghiale alla televisione sono particolarmente rare, si preferisce mostrare squali leoni iene piuttosto che cinghiali. Insomma l'unico che ho visto ero ragazzino, ero al paese della mia balia quando ancora c'erano le balie, e il marito della balia e il gruppo dei suoi amici cacciatori avevano steso un cinghiale enorme e nero e puzzolente nella piazza del paese che sembrava di essere alla fine della fiaba della bella e la bestia ma finita male, e tutti erano intorno e un cacciatore strappava setole dure e nere per farne mazzetti che regalava ai bambini. Anche io ebbi il mio mazzetto, ma vidi solo la puzza e i bulbi piliferi e brandelli di pelle di cinghiale attaccati sotto, vomitai sulla piazza e mi portarono a ripulirmi alla fontanina tra le risate di tutti. Insomma non è facile essere un cin-
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ghiale, quando una volta all'anno si apre la stagione della caccia. Soprattutto se non si assomiglia affatto a un cinghiale ma a un pollo nero di pece, cosparso di piume e di penne e costretto a correre nudo per il bosco per non farsi ammazzare. Ti do' dieci minuti di vantaggio, ha detto il capocaccia, ma solo perché te sei uno e noi venti. E anche perché sennò se finisce subito mica ci si diverte. Poi però ti veniamo a ammazzare. Ma non era mica malvagia, la voce del capocaccia, forse era malvagia la cosa che diceva, ma lo diceva con un tono come per dire io questo lo faccio perché lo devo fare, qualcuno mi ha dato un ordine e i soldati agli ordini mica possono disubbidire, altrimenti li mettono davanti a un muro e li fucilano. Era così anche per i capitani delle esse-esse, figuriamoci per noi, diceva. Ma forse il capocaccia era abituato a dare la caccia a uomini che dovevano sembrare polli come se fossero cinghiali, e le cose le diceva così, per noia, uguali tutti i giorni: come il boia che tortura e uccide sei uomini la settimana (suppongo che la domenica esista anche per il boia), e quello che agli spettatori pare straordinario per lui è cosa di normale, di ordinaria, tediosissima amministrazione. Io l'ho guardato, lui aveva rimesso l'orologio e non sembrava davvero un cacciatore, un guerriero antico, piuttosto, o un bambino vestito da guerriero antico a carnevale, o il centurione al Colosseo, con i polpacci nudi enormi dietro gli schinieri, scarponi da paracadutista, un gonnellino rosso bordato d'oro e la lorica con le borchie e i leoni. Però l'elmetto era vero, quello, e sopra ci aveva come una rete un cuscino appollaiato o una trina che gli svolazzava sul collo, e peggio e più vero ancora era il fucile mitragliatore, che teneva rivolto verso il basso e aveva il cannocchiale e era grande e terrifico come lui. Lui non mi guardava più, s'era acceso una sigaretta tra le labbra carnose, e guardava i compagni di caccia che annoiati sedevano su un sasso lisciavano i fucili grattavano le orecchie dei segugi, tutti vestiti da guerrieri da operetta come lui, così mi sono girato e ho cominciato a correre nel bosco. Il bosco era proprio uguale a quello di Biancaneve e i sette nani, gli alberi risecchiti mi ghermivano come artigli, batuffoli di piume restavano attaccati ai rovi, le spine strappavano la mia pelle abbrustolita dalla pece e il sangue rigava con una scia l'aria, profumo dilettevole
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per i cani che stavano per essere liberati dai cacciatori. Saltavo da un masso a un altro masso cercando di correre veloce come se volassi, l'avevo visto in un film cinese ma qui il muschio era soffice impregnato d'acqua, le foglie si sfasciavano sotto i piedi e le radici delle piante si sollevavano da terra quel tanto che bastava per stroncarmi le dita dei piedi le caviglie gli stinchi le ginocchia. Molti animali mi guardavano correre stupefatti, di basso profilo sotto ginepri e pungitopi, un'upupa che rizzava la sua cresta, un picchio col becco conficcato dentro un tronco, uno scoiattolo schizofrenico ma soprattutto un gufo a occhi spalancati che mi fissava e mi faceva bubo bubo, non so se per incitarmi alla vittoria o presagirmi quello che come inevitabile stava per accadermi. Almeno potresti smetterla di gufare sfiga, avrei voluto dirgli se avessi avuto fiato per urlare, non ti sono bastati duemila quasi anni di buie notti dopo avere visto Gesù crocifisso, la Palestina non è poi così lontana non sono poi così rari laggiù i poveri cristi inchiavardati alle porte di Gerico o di Gaza. Ma il gufo sene fregava di me che giravo intorno come un pazzo all'albero dove se ne stava appollaiato pensando le cose che pensavo, a dire il vero era un gufo che non sembrava neppure un gufo ma un corvo con gli occhiali e neppure tanto saggio tanto saccente, un idiota dalle lenti spesse e la bocca a punta come un polpo ipoplettico, piuttosto. Ma qui non è niente come dovrebbe essere, ma qui tutto è quello che non è. Meglio fermarsi a riprendere fiato e uscire un attimo dal sogno, si disse il sognatore. Al limite riversare tutto sopra uno schermo del cinema o della tivù, e se proprio necessario svegliarsi in un lago di sudore e poi rinvoltolarsi sollevato tra le coperte, è fredda la notte ma sopra il cuscino morbido della mia casa del mio materasso il giorno ancora lontano e il tuo abbraccio che non mi abbando-
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nerà mai. Ma non c'era verso, i cespugli continuavano a sfilare veloci ai miei fianchi, i rami degli alberi a ghermire le mie chiome e i pruneti a spiumarmi il costume, arriverò alla fine che sarò solo un carbone annerito di pece e catrame, non sarà molto dignitoso morire così come non è stato mai dignitoso vivere così, mi dicevo. Anzi lo pensavo soltanto, perché il fiato oramai era alla fine, ansimavo come un mantice tarlato e le gambe erano dure e mosce che s'afflosciavano come piombi dentro la mota. Ma la cosa peggiore era che i latrati dei cani ora erano davvero molto vicini, infoiati dal mio odore urlavano dalle gole ragli infernali, l'aria sibilava tra i denti molli di bava idrofoba e la puzza di sterco di pelo bagnato mi soffocava nelle narici gli ultimi respiri corti e disperati. Potessi almeno essere un pesce o un uccello, e volare indisturbato nelle altitudini celestiali, o tuffarmi silenzioso negli abissi inconcepibili degli Oceani, mentre laterra le rocce le alghe le fronde fronzute delle foreste tropicali mi scorrono minuscole sotto la pancia; ma anche un pipistrello vespertilio, che ingurgita zanzare protetto dalla notte dell'estate, volando con angoli a settantasette gradi per non farsi colpire dalla contraerea, potente del radar come della sua noctiluca invisibilità; oppure un essere preistorico che la roccia rende lontanissimo nel tempo e nello spazio, erto di scaglie laviche e diaspri diamantati, inutile al piccone, alla raspa, al dente acuminato dall'odio e dalla razza, pensavo mentre i primi canini affondavano dentro i muscoli delle gambe, e il dolore esplodeva dentro la testa, e gli artigli laceravano e squartavano, ebbri dello stesso odore del sangue che lucidamente i miei neuroni impazziti di fuoco riconoscevano come fluito dalle arterie non ancora risarcite dal ferro arroventato. Altro che lotta alla pari. Altro che stretta di mano. Dove i lottatori si stringono e si rotolano sul tappeto, gonfi di muscoli, scivolosi d'oli profumati, per poi inchinarsi al rispetto reciproco della propria valentia. In
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venti mi staccavano pezzetto dopo pezzetto ogni frammento riconoscibile del mio corpo, con cura meticolosa e un poco pignola, le tronchesi per ogni dito del piede e della mano, le seghe per ogni giuntura degli arti, e con un colpo secco la mano che penetra nel costato e ne estrae il cuore, mentre con l'altra afferra e strappa il membro virile, volgarmente chiamato col nome che i latini tributavano all'albero maestro della nave. Forse il cuore se lo sono mangiato, il pisello invece l'hanno tirato ai cani che l'hanno rifiutato, anche loro, berciavano ridendo tutti, i cacciatori. Così il capocaccia l'ha infilzato con lo spiedo che grondava sangue, e dopo averlo sollevato sopra la testa e dietro le spalle che pareva una canna da lancio, l'ha fiondato verso il fiume, dove è affondato in uno sbuffo leggero di acqua rosata. Strana cosa gli esseri umani, la loro voglia di prepuzi ritagliati e d'intestini avvolti sopra una ruota, pensavo mentre finalmente la vita fluiva via nelle ultime pulsazioni delle mie vene esauste, con un doloreche faceva urlare le stelle. Dei settantasette pezzi in cui avevano sbrindellato il mio un tempo invincibile corpo l'unico che sopravvisse fu proprio il mio baco. Se lo ingollò un pesce in vena di amenità, forse un po' ubriaco, che vagava incerto alla ricerca d'una sua simile, o d'un lombrico: per non sentire più i morsi acuti dentro nella pancia. Lo vomitò irato sul greto del fiume, prima di finire, anche lui, nel tramaglio del pescatore. Ne approfittò per infilarsi dentro la terra, e crogiolarsi in un nulla denso di calori ctoni, fumi ancestrali, magmi accondiscendenti come mollica di pane dentro l'acqua di uno stagno. Plasmato da rocce più morbide e più antiche del tempo della terra, s'apprestò a riemergerne, rinato, in una splendida e ancora fresca mattinata di primavera, nelle spire sinuose e venefiche d'uno splendido, iridato serpente del deserto.
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Fonti: articoli e immagini che hanno accompagnato, nel Natale del 2008 e poi oltre i bordi sfrangiati dell’inizio del nuovo anno, fino all’elezione dell’Ultimo Imperatore, l’attacco dell’esercito israeliano contro il popolo palestinese, donne, vecchi, uomini inermi, e bambine e bambini.
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Il Purgatorio di giorno non è granchÊ, se non ne sei convinto lo puoi leggere in quei volti storti che attraversano la strada: volti stanchi in corpi impazziti.
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NOTTURNIO
Anche altri vivono insieme a me, me n'ero accorto improvvisamente.
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Ăˆ un bravo pittore mi ha fatto tredici bellissimi ritratti che ho appeso uno accanto all'altro; tredici immagini della solitudine.
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La casa di carta viaggiante stasera s'è stabilita davanti agli antri del passato.
Guinness scura, nera come la notte che mi accoglie all'uscita, e trascina per le vie conosciute, e mi risucchia nella schiuma compatta, deliziosa.
La seguo, non so perchĂŠ, la inseguo, sembra una donna o un sogno, per le strade labirinto
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uno straniero un pazzo un diverso una persona, inseguito, chissĂ perchĂŠ, da alcuni giustizieri nell'indifferenza gioiosa.
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Torno a casa, dove mi aspetta ancora la solitudine; mi fermo un attimo lĂ dove la cittĂ si svela
il Purgatorio sfregiato dall'alba e dai pensieri dei soli.
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Arriva il mio amico cieco e sussurra che questo è uno spettacolo meraviglioso; il cane piscia e se ne vanno.
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Il mio nome è David Livingstone. Il mio nome è Dante Alighieri. Il mio nome è Alice Liddell. Il mio nome è Nessuno. Quando muoio, il mio corpo si frammenta con delicatezza sottile. I primi a staccarsi sono i piedi. La testa del femore e le ginocchia si allontanano ai quattro angoli del materasso. Il busto s'allunga in un semicerchio che ricorda la curva degli anfiteatri romani. Le braccia le mani s'aggrovigliano in una capanna di stecchi riarsi dalla salsedine. L'ultima è la testa, come si conviene. Rotola per un lungo pendio che sembra non dover finire mai. E' la sensazione morbida di una giostra provata troppo a lungo. S'imbuca nel pozzo nero che si è aperto al centro esatto del letto. Anche la caduta è morbida. Ma non lascia il tempo di ammirare le costole dei libri antichi e i ninnoli che si accumulano sulle scaffalature di legno alle pareti. In fondo al pozzo c'è la luna. In fondo al pozzo c'è solo un buco nero. Lo psicopompo è molto peggio di quanto m'aspettassi. Avrei preferito se veniva a prendermi Mercurio, gli dico. Ma anche una qualsiasi delle dodici Sibille. Lo psicopompo non può parlare, naturalmente. La testa di struzzo surreale e cattivo ciondola all'indietro dal collo lungo e debole. Con la zampa come un'ala m'addita l'ingresso della caverna. Si volta e si mette in movimento senza accertarsi della mia presenza. Se non si procedesse supini sospesi a mezz'aria si potrebbe dire che lo psicopompo compie passi come balzi, un piede calzato nello stivale, l'altro come una zampa di coniglio senza pelle. S'aiuta con la guida pastorale del bastone ricurvo alla sommità. C'è molto buio nella caverna. Stalattiti unite a stalagmiti scorrono silenziose ai nostri fianchi. Dalla volta pendono blocchi quadrati attaccati per un vertice. Speriamo che non se ne stacchi uno, dico. Sulle pareti si muovono massi come maschere mortuarie. Ma non posso ancora interrogarle, mi fa capire lo psicopompo con un segno del bastone. In fondo alla grotta c'è il caminetto incrostato di fuliggine. Lo psicopompo s'infila per primo. Il budello lungo il quale risaliamo è angusto. S'avvoltola di curve come un sifone, s'intreccia, s'incrocia con altre spire. Mi stringe il petto a soffocarmi, mi schianta la testa, m'opprime il respiro. Fortuna che ho il mio cordone ombelicale, penso. Mi
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sputa fuori come acqua stretta nel pugno. Sono molle e appiccicoso, odoroso di sangue e di escrementi. Il lago è una distesa di ghiaccio, d'acciaio, che cangia nel riverbero smeraldo della volta, l'azzurro intenso delle rive. L'aria è immota, la superficie increspata di minuscole onde. L'uomo esce dalle acque solide del lago con lentezza innaturale. Ha una muta sbrindellata, un polsino si è staccato e ciondola nel nulla, strappi alle ginocchia lacerate. La barba folta intorno al viso odora d'alghe e meduse putrefatte sulla spiaggia di luglio. Tira alla riva una tavola da surf sbrecciata per l'assaggio dello squalo. Per fortuna che nel lago non ci sono gli squali, dice. E anche: troppo poco vento per veleggiare, oggi. Come tutti i giorni, da sempre qui è così, sempre. Pianta la tavola da surf sullariva, e vi s'appoggia in una posa languida, che ricorda i morbidi guerrieri del Perugino sostenuti dalla loro lancia. Lo psicopompo fa un gesto rapido del bastone. Spero di azzeccare la prima delle tre domande che mi sono concesse. A quale latitudine a quale longitudine, chiedo. Ma anche: quanta altezza, quanta la profondità. L'uomo alza una mano in direzione dell'altra sponda del lago. Solo allora mi accorgo che ha tutte le dita troncate alla seconda falange. Non voglio andare sull'altra sponda del lago. C'è la Signora del lago che si diletta di pratiche fetish. Ne ho abbastanza di esperimenti pornomasosadichetti, mi dico. La Signora del lago è come uno scheletro alto, stretto in un abito viola, a tubo, con una lunga treccia che le pende dalla nuca. Ha occhi tondi perennemente sgranati, e la bocca piccola, a becco d'uccello. Il levriero che tiene al guinzaglio è schiacciato come un bassotto, ha una zampa in una ciabatta e sdruscia i suoi possenti attributi sopra i ciottoli della riva. E' per penetrare meglio i miei clienti, dice la Signora del lago. Ogni mistress dovrebbe averne uno. Poi fa un
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gesto largo verso un angolo della riva. C'è un camminamento che attraversa un rivo. Dietro c'è una spaccatura nella roccia, e nel buio si vede la croce. Se si vuole accomodare, fa la Signora del lago. Accomodare non mi sembra un termine adeguato, dico io, per prendere tempo. Insomma qui bisogna che ci si sbrighi, dice. Se vogliamo portare a compimento l'opera. Mi aspettavo i chiodi, come sempre, e invece ci sono solo lacci di cuoio, come quelli del lettino delle esecuzioni capitali.Ma stringono forte, i polsi, le cosce, le spalle, l'inguine e il torace. Ne mettono uno anche intorno alla testa. Adesso cominciamo, dice la Signora del lago. Ma prima le chiudo la bocca con il nastro adesivo argentato. Quando lo tolgo potrà fare la sua domanda. L'inizio è quasi piacevole, come un leggero solletico sotto i piedi e in tutto il corpo. Ma poi cominciano le fitte profonde, i dolori mestruali, il fumo e la puzza di frittura, e i lampi ogivali dentro gli occhi. Il lago s'è fatto buio, nubi nere hanno riempito la volta della caverna, e dalle acque emergono oscure figure senza senso, come grumi densi di nebbia che la caligine aggrega in anime di piombo e di bitume. La Signora del lago procede con metodica compostezza, estraendo gli strumenti a uno a uno dalla borsa di cuoio nero. Lo Psicopompo è piantato al lato della croce, pietrificato nel suo dolore come la Maddalena. Almeno fatemi bere dall'amaro calice, vorrei dire. Quando ha finito di plasmare il mio corpo come un coagulo di catrame, si allontana e contempla l'opera soddisfatta, piegando la testa a destra, a sinistra. Sarebbe tempo che mi levassero il cerotto, vorrei dire. Me lo strappa insieme ai pochi rimasugli della mia barba. Adesso può domandare, dice. E impone i pugni chiusi sui fianchi scheletriti, come un'anfora venuta male. Recupero quello che ancora mi resta della mia voce, e dico. Quanto manca ancora a scoprire
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chi ha rubato i tortelli. Gi stecchi delle braccia s'irrigidiscono ai lati del bacino, mentre si sciolgono in un'espressione delusa. Penso che ho sbagliato del tutto la domanda. Ha sbagliato del tutto la domanda, mi dice. Per questo ora non posso fare più nulla per lei. Ora si tratta solo di aspettare. Non c'è niente di meglio per aspettare che la sala d'attesa d'una stazione degli autobus, gonfia d'umidità e delle donne dei kossovari che si riscaldano dall'aria gelida del parco. O la saletta del medico di base, tra gli odori di talco e d'orina dei vecchi che aspirano all'immortalità dentro ai blister della chimica omnipotente. Oppure l'anticamera della sala operatoria, dove tra pochissimo tra moltissimo mi estrarranno tre metri di intestino. Passa una barella di metallo convesso con i resti di un uomo dentro. E' fatta così perché si perda la minor quantità possibile di liquidi vitali, mi dico. Passa un uomo bruciato, con la calotta cranica ridotta a un'ampolla trasparente che lascia vedere il cervello. Per me useranno la ruota, oppure il vassoio d'argento. M'esporrano in una teca d'oro e cristallo sotto formalina, o attaccato alla parete per la contemplazione distratta dei pellegrini museali. Se non c'è niente di diverso da guardare fantastico, nell'attesa. Passano le chirurghe con i capelli neri raccolti sotto le bende e la dentatura forte nelle bocche grandi, da vampiro. Vorrei che non fosse mai il mio turno, mi dico. Oppure di essere già disteso sul lettino. Quando spengono le luci si fa un'oscurità opaca dentro la sala. Molto più opaca che dentro la grotta e in riva al lago. Il fumo dal braciere diventa sempre più denso, chi è che ha attizzato il fuoco al di sotto. La nube di fumo è grigia e fosforescente, si condensa in volute che assumono la forma allungata di un volto. I tratti sono cadenti come la cera di una candela sciolta, si coagulano in vene scheletriche che rigano le guance. Gli occhi sono ciccioli indecenti, vacui come le caverne spugnose del presepio. Il naso è un orrore di tagli di sbrani nella carne, la bocca ignominiosa come la prua incrostata d'una nave. Ma la cosa peggiore è la testa, un pezzo del cranio è saltato, e dalla traslucida fantasmagoria che ne rimane è possibile assistere allo spettacolo di un cervello di gommapiuma che pulsa al ritmo del battito cardiaco. Eppure è l'ultima delle tre Madri, della Trimurti, delle tre Marie. L'ultima domanda è stata
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concepita appositamente per l'incubo che ora s'amplifica dentro la stanza, non formularla significherebbe il taglio certo della testa, fa capire lo psicopompo con un sollevamento indifferente del bastone pastorale. La testa di chi, mi affretto a dire. Non c'è più tempo, ora. Non c'è più alcuna speranza. Il mio corpo ha già raccolto il dolore di ogni altro corpo.Pesa troppo sulle giunture per poter soltanto soffiare dalla bocca. Non avrebbe alcun senso parlare, neppure a far accettare lo stillicidio tremendo delle vittime sui volti straziati dei propri carnefici. Il plotone è già schierato nella luce presumibilmente rabbrividita dell'aurora. Il corpo è già stato cosparso di pece, una spolverata di penne e di piume sopra. Non ho saputo formulare domande per due risposte. In fondo te lo meriti, mi dice qualcuno. Dalla finestra della baracca vedo una fila di umani nel grigiore di fuori. Sono loro che ti correranno dietro, mi dicono. E tu corri più forte che puoi. Se ci riesci. In due sollevano l'enorme copricapo a forma di testa d'uccello, un becco giallo spropositato, due minuscoli fori per gli occhi. Me lo calzano sopra la testa appoggiandolo alle spalle. L'aria dentro diventa subito di piombo, la morsa che stringe il collo, dell'angoscia. Dai fori degli occhi si vede solo oscurità. In due mi trascinano fuori. Mi lasciano sulla terra dura di ghiaccio del piazzale. Al primo colpo della campana posso iniziare a correre, se voglio. Così mi è stato detto. Pochi attimi di vantaggio. Se possono servire a qualcosa. Molto meglio inginocchiarsi e attendere la fine con dignità. E invece. Sbatto il mascherone su stipiti di porte e tronchi d'albero, alla ricerca di un rifugio che non c'è. Manca l'aria dentro, la vista. Al secondo colpo sento accendersi i motori, latrare i cani, grida d'incitamento troppo poco lontani. Pochi attimi ancora, e il terzo colpo della campana segnerà l'inizio della caccia all'ilota in fuga.
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Ringrazio tutti gli autori di tutte le catabasi del racconto dell'uomo, Omero, Virgilio, Dante, nonchĂŠ i Signori Dottori K.G. Jung e C.L. Dodgson, le cui opere, oggi, possono essere comprese solo alla luce della mole di immagini pornografiche immesse quotidianamente dai media iconografici nelle nostre coscienze.
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L’ORIGINE DEL MONDO
Strani sentimenti come l'invidia, la rabbia serpeggiarono tra di noi 79
ci annoiavamo e allora inventammo
il gioco.
Il gioco implicava però un premio e una nuova condizione sociale: vincenti o perdenti
ci sentivamo orgogliosi, fieri.
Pensammo si trattasse di una punizione ideata da chissĂ chi.
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Tutto nacque dalla paura: di che cosa?
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Iniziammo a moltiplicarci
camminava lento, ingrassato dalla superbia. 88
Inventammo subito il caos
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se fossimo rimasti calmi, al nostro posto.
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Voglio raccontarvi una storia. Proprio una bella storia, con il suo inizio, il suo svolgimento e la sua fine, con tanti personaggi e tanti dialoghi, e un bel paesaggio dove si svolgono tante avventure. Insomma una storia proprio come si conviene, leggera ma istruttiva, avvincente quel tanto che basta per farvi trascorrere in spensieratezza i prossimi quindici minuti. Dunque. L'inizio di tutto sta nella sepoltura di mia madre. Io sono nato da lì. Un giorno - ma poteva essere una notte, una mattina, un pomeriggio, di preciso non lo so, per poco ma ancora non c'ero - mio padre ha infilato il suo membro eretto nella vulva di mia madre, e quando ha avuto un orgasmo ha schizzato milioni di spermatozoi nella rete dei fertili canali uterini di lei. Uno spermatozoo s'è conficcato nell'uovo di mia madre, e dall'incontro di questi due mezzi corredi genetici è iniziata una folle riproduzione di cellule. Invece di un tumore s'è formato un feto che dopo nove mesi è stato espulso al mondo dall'utero dilatato di mia madre, lo stesso di tre trimestri prima. Quel feto è diventato Io. Ecco, come inizio mi sembra molto semplice molto naturale. Lo stesso inizio vale più o meno per tutti gli animali, dalla formica alla balena. Eppure questo inizio così semplice così naturale metà degli Io umani che vivono sulla terra mica lo hanno accettato tanto facilmente, anche se sono stati generati tutti come il mio Io. Hanno dovuto nasconderlo con le frottole dei simboli, che sarebbero proprio delle belle e grosse balle, almeno fino a Courbet arrivato a riportare quel simbolo al suo primo etimo naturale. Invece loro si sono inventati una storia intorno alla Madonna, poveraccia, rimasta incinta grazie al pisello moscio di sangiuseppevecchio e alla discesa dello spiritossanto. E per di più concepita senza che Gioacchino e Anna commettessero sozzerie, vecchietti pure loro e sterili fino all'intervento dei Superi. E costretta a servire da modello obbligato per milioni di altre donne poveracce come lei, più di lei. E suo figlio. Un corpo straziato dalle verghe e dai chiodi della croce dissolto in una nuvola di simboli a godimento d'una pletora di Papi e Imperatori, di mostri nella tregenda della storia dell'uomo: IXTOS ittifallico eretto in meandri uterini che nascondevano piccoli cristiani prima di espellerli alla sto-
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ria, e poi erezioni d'insegne imperiali con l'aquila abbracciata al segno delle croce, e aquile papaline e spade confitte nella roccia e nei costati, e ancora erezioni di rocche di torri di roghi di ciminiere crematorie di ogive di missili invocate in preghiera collettiva attorno a un tavolo ovale. Il buco nero della storia che tutto inghiotte, anche la forza di gravità, anche la luce di milioni di ammazzati senza colpe nel nome di un figlio inchiodato su una croce. Ecco, ci risiamo. Sto divagando. E invece il mio onesto lettore, mio simile, mio fratello, deve essere tranquillizzato nella certezza delle sue categorie percettive e di lettura, e ancor più nei suoi luoghi comuni conoscitivi e di pensiero, prima ancora che letterari. E io non voglio che il mio lettore non trascorra quindici minuti in sacrosanta pace, e soprattutto non voglio che il mio racconto non venga letto da quanti più possibile onesti lettori. Per cui faccio tante care e sincere scuse a tutti, e comincio davvero a raccontarvi una storia. Che potrebbe essere quella, per esempio, davvero carinissima della lucertola. Però, prima di cominciare, devo fare una indispensabile premessa. Gli umani non hanno mai avuto una grande considerazione delle lucertole. Troppo vicine ad archetipi ancestrali, il rettile adamitico, il fossile che cammina, il drago infilzato da un Sangiorgio in odore di omosessualità. Uccidere la lucertola è reprimere mostri che tormentano le infanzie dell'uomo. Non esiste nessuno che non abbia torturato lucertole. Il padre fanciullo compiva riti di morte con altri padri fanciulli come lui. Impiccavano la bestia a un chiodo arrugginito, infilzato tra le connessure di due mattoni nelle mura antiche della città. Qualcuno le ficcava una cicca fumante in bocca. Qualcuno suonava a morto il tamburo. Apprendevano il sadismo, enucleavano la loro crudeltà. Qualcuno di
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quei ragazzi è finito da una parte o dall'altra di un plotone di esecuzione, davanti al muro della caserma, nella guerra ultima ventura. Invece il figlio fanciullo del padre era molto triste, i capelli ricci e un lago di solitudine dentro il cuore. Il muro esiste ancora, bianco di travertini e cemento, terra e erba odorosa di merda di cane sopra. Le lucertole si schiantavano al sole della prima estate, si lasciavano avvicinare la canna della pistola a aria compressa senza fare un movimento. Il pallino rosso si disegnava sul collo, dopo un breve scoppio, incastonato come una pietra sul verde smeraldo della pelle. Le portava alla madre in un omaggio edipico, tenute assieme per la coda come un mazzo di fiori. La madre urlava, teatrante, ingiungeva al figlio di buttare fuori quelle bestie immonde. Di lucertole la omaggiava anche la gatta, e lei urlava allo stesso modo, e in più impugnava la scopa, che volteggiava, aerea e minacciosa, tra gambe del tavolino e impiantito. Il figlio non avrebbe più ucciso un essere vivente in tutta la sua vita, la gatta invece dava la caccia a tutto quello che si muoveva, topi e farfalle, o qualche ragno o gomitolo di lana, quando era a corto di prede. Sembrava un essere umano, che deve correre dietro a tutto quello che si muove, un cinghiale, un nemico, un pallone. Se non può correre dietro a qualcosa si siede e un tavolo con altri esseri umani, e gioca a carte. Intanto la natura si dissolve nel gatto che ronfa sul cuscino o nella pianta avvinghiata a una rete di plastica tra la finestra e il termosifone. Ma non è possibile. Mi sono ancora perso nella rete di una inutile divagazione. E invece voglio infilare il centro esatto di una storia, fatta di eventi che si concatenano per forza stessa di necessità, diritta come il buco nero d'una galleria ferroviaria, che vedi piccino piccino il foro d'uscita, in fondo, se solo ti affacci a quello d'ingresso senza farti spappolare dal treno. Voglio raccontarvi una storia: quella appunto dell'agnello, simbolo stesso della vittima incolpevole, o della gallina, o del porco, incolpevole al pari dell'agnello. Proviamo. In una limpida mattina d'inverno, il signor Casorati aprì la finestra del bagno della sua casa, a piano terra. E si trovò davanti un maiale. Da un veloce calcolo delle possibilità che i suoi neuroni effettuarono nel cerchio di un centesimo di secondo, il signor Casorati dedusse due
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cose: che non era pasqua, ma piuttosto natale; e che il maiale non era vivo, ma decisamente molto morto. Lo avevano appeso a una forca, ma a testa in giù, come san Pietro, e le zampe spalancate come quelle di una puttana. Gli avevano aperto le vene del collo, e il sangue colava, odoroso di rosso e di nero, in un catino di zinco. Il sangue nel catino fumava, fumava il corpo del maiale, fumava un pentolone dove una vecchia rimestava una mistura senza nome. Segno che fa molto freddo, dedusse lòico il signor Casorati, anche se lui stava sudando nel pigiama leggero di fronte alla finestra spalancata. Il carnefice affilava gli strumenti, per aprirlo dalla gola alla vescica. Sono uno spettatore privilegiato, si disse il signor Casorati, chissà se con curiosità o con disgusto. Ora procederanno con l'eviscerazione, e potrò vedere come gli srotoleranno le budella, se con una ruota, come a sant'Elmo, o riponendole con cura sopra un vassoio. Poi strapperanno dal costato il cuore ancora palpitante, così potrò finalmente vedere com'è fatto un cuore strappato e palpitante, visto che me lo chiedo dalle letture elementari sugli Aztechi (o erano i Maya, o erano gli Incas? Ma poco importa, del resto, se li hanno tutti fatti sparire dalla faccia della storia). Alla fine gli staccheranno la testa, perché per sgozzare lo hanno già hanno sgozzato, in ricordo delle prassi islamiche recepite duranti le lunghe corse sulle autostrade informatiche. Il signor Casorati ebbe un primo empito di vomito. Non che la carne non gli piacesse, anzi. Non mangiava, semmai, bistecche, fettine, lombatine, così astratte nel loro adagiarsi su una garza che ne assorbe gli umori della morte, sotto il velo funebre d'un cellophane immacolato; o, peggio, tutte quelle metamorfizzazioni antropiche, come salsicce, pasticci e polpette, che cèlano in un bolo indistinguibile l'origine certa della loro provenienza animale. No. Al signor Casorati piaceva riconoscere quello che si metteva in bocca. Dunque acquistava al supermercato, si cucinava e poi mangiava, il polmone spugnoso e immasticabile, i rognoni col loro vago odore d'urina, il cuore duro di migliaia di battiti al giorno. E poi le circonvoluzioni d'una trippa o d'un lampredotto, morbide al tatto come le pieghe della gonna d'una dama ottocentesca, e la mollagine fosforosa d'un cervelletto, e la dignità oscura d'una milza spalmata sul pane o d'un fe-
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gato indorato nella calotta regale d'una cipolla appena scottata. Il signor Casorati adorava divorare organi. In fondo si immaginava come un cannibale, che del nemico assorbe valentìa e potenza digrumando oggetti in carne facilmente riconoscibili e simbolizzabili, cuore, fegato, reni e cervella. Si rammaricava che la sua religione avesse rinunciato a tanta immediatezza emblematica, sublimando l'oggetto del rito sacrificale in una schiacciatina di pane bagnato, inconsistente perfino nel colore. Adesso aveva la straordinaria possibilità, per la prima volta nella sua vita, di vedere l'origine dei suoi piatti di carne preferiti. Forse sarebbe saltato dalla finestra e avrebbe chiesto di poter partecipare anche lui al rito: non importava se da carnefice, col grembiule di cuoio e le tenaglie e i coltelli affilati in mano, o da vittima sacrificale, a contemplare il proprio fegato estratto con meticolosa alacrità dal ventre suo divaricato. Però c'era suo padre che gli urlava da fuori della porta del bagno chiusa a chiave, o si sbrigava o lui non l'avrebbe più aspettato per la loro girata in bicicletta. Dunque: va da sé che qualcuno dei miei onesti lettori, sentendo parlare di bicicletta e non più di operazioni chirurgiche sopra un porco, starà già esclamando che l'autore, ancora una volta, divaga: che aveva promesso una storia con vicende avvincenti, personaggi, paesaggi e quant'altro, e che invece non sta raccontando proprio un bel niente: e che dunque se nessuno legge i suoi libri che del resto nessuno pubblica è cosa meritoria, oltre che giusta, come se qualcuno fosse costretto a pagare il canone per guardare una televisione spenta, o il biglietto di una mostra per vedere delle pareti nude. Invece si paga, e giustamente, per vedere ballerine che sculettano e gente che intasca milioni pigiando un bottone o tirando un calcio a una palla, o scarabocchi fatti col gesso o pezzi di plastica o di lamiera
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incollati sopra una tela. Allo stesso modo voglio pagare perché qualcuno mi racconti una storia, cosa c'entra la bicicletta con una storia? Semplice: io ho sempre odiato la bicicletta. Ho imparato tardi. Vedevo gli altri bambini sfrecciare e per me rimaneva un mistero come facessero a restare ritti su pochi centimetri di una cosa che gira, e che regge pesi enormi su fili sottili di metallo, incrociati. Avrò avuto forse dodic'anni quando mia madre per forza mi comprò una Graziella verde pisello e mi corse dietro tenendomi per il sellino. Correva e correva, e io oscillavo a destra, a sinistra, e le lacrime mi riempivano la gola e le palpebre. Però quella volta che alla fine mi staccai fu davvero fantastico, l'impressione era quella di volare, con l'aria tra i capelli e le immagini del mondo che scorrevano veloci ai miei fianchi. Non avrei voluto fermarmi mai più, correre nel vento e sulla riva del mare, tra i prati, i boschi, nell'azzurro del cielo e ancora più su. E invece l'ebbrezza durò poco. La paura in cui si crogiolava allora come ora la mia vita mi impediva di librarmi sui pedali. E di liberarmi, anche, naturalmente. La notte sognavo di andare fino al mare in bicicletta, e trovare tutte le strade le porte le finestre chiuse e non sapere come tornare indietro alla mia casa, schiantato dalla fatica e dalla strada che avevo perso. Non esistevano percorsi in pianura, ma solo in salita, e per un paradosso della fisica applicabile solo alla bicicletta a una salita non segue mai una discesa, neppure se si ripercorre all'indietro lo stesso identico tragitto fatto all'andata. In bicicletta fa sempre un caldo torrido o un freddo continentale, c'è sempre nebbia e piove sempre, oppure c'è sempre un sole che spacca in quattro le ossa del cranio. E poi, peggio di tutto, la bicicletta ha il sellino: bastano pochi chilometri perché premuto sulla prostata e sulle coglie tolga qualunque sensibilità al mio pisello. Me lo toccavo, sospettoso, e era come se la mano affondasse nel fango o nell'ovatta bagna-
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ta delle nuvole di primavera: non c'era più niente, sparito, alto sulle sue ali, perfettamente castrato. Un buco nero dove precipitando obliavo le dolci lusinghe delle seghe, che più non m'avrebbero allietato dinanzi a me danzando col vago avvenir che in mente avevo. Insomma, per farla breve e cominciare davvero a raccontare una storia, si può dire che il mio edipico non risolto mi impedisse la bicicletta. Tutto il contrario di suo padre, proprio come dev'essere. Lui prendeva la sua Bianchi con i freni a bacchetta e se ne andava e tornava da Firenze, sulla Cassia, in una giornata. Aveva perfino inciso il nome e la data sulle pietre di Ponte Vecchio. Questo prima della guerra. Durante, era scappato in bicicletta dal treno che lo portava chissà dove chissà perché in Germania, imboscato nella casa della sorella di sua madre con la sua fidata bicicletta. La bicicletta era stata letteralmente la sua vita. E lo era anche adesso, a ottant'anni, con un'ora di bicicletta tutti i giorni, col sole o con la pioggia. Quell'ora che cominciava proprio ora, tra gli urli e le bestemmie che s'era fatto tardi, e bisognava che s'andasse perché sennò era troppo tardi, per l'ora, la bicicletta e l'anestesia precastratoria al mio pisello. Adesso arrivo, gli ho urlato. Vengo a raccontarti una storia. Lui adora le storie. Lui non mi dà pace finché non gliene ho raccontata una. Proprio come un bambino prima di addormentarsi. È così da quando è caduto dalla bicicletta. In realtà il dottore ha spiegato che non è successo perché è caduto, ma è caduto perché è successo, tutto quello strabuzzare di arterie e di vasi dentro il cervello. Ora se ne sta là, a guardare tutto il giorno la sua collezione di biciclette, l'occhio che non sa più chiudere e la bocca ciondoloni da cui sgorga sempre un filo di bava appiccicosa. Non parla e non si muove, ma si capisce da come tiene piegata la testa sul cuscino che vuole sempre che gli si racconti una storia. E poi un'altra, e un'altra, e un'altra ancora, come se raccontare sempre storie senza fermarsi mai volesse dire sconfiggere il sonno e qualche altra cosa. Purtroppo io non ho storie. Oramai i pochissimi tra i miei onesti lettori arrivati fin qui a leggere se ne saranno accorti. Le storie hanno un inizio, uno svolgimento e una fine. Hanno anche molti personaggi, che fanno cose e dicono parole. Ci sono anche bellissimi paesaggi e mesi e anni molto ben congegnati. Io non
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ho nulla di tutto questo. Ho soltanto pezzi di lamiera conficcati negli scogli, come il relitto di una nave naufragata. E sì che vorrei raccontare storie, per me e per tutti i bambini che hanno paura di addormentarsi. Allora ho chiesto consiglio a qualcuno che insegna in una scuola come si fa a scrivere le storie. Lui mi ha detto che certi consigli non dovrebbe darli, che professionalmente non sarebbe corretto e che la gente paga proprio per imparare da quei suoi consigli a scrivere delle storie, storie che poi verranno pubblicate e vendute nelle librerie del centro e poi lette da molti onesti lettori. Però poi alla fine è stato davvero molto gentile, davanti alla mia disperazione alla storia di mio padre che però non è una storia mi ha detto che in questo caso così triste così lacrimoso un consiglio me lo avrebbe dato, uno solo ma comunque gratis, e cioè che lui per scrivere delle storie cominciava sempre dai personaggi. Poi mi ha congedato. A quel punto mi si è fatto chiaro dentro la testa. Sapevo cosa voleva dire. Avevo capito tutto. Bastava che trovassi dei personaggi. E sapevo dove cercare. Li avevo visti, impassibili e statici, vestiti ogni giorno in modo diverso. La gente li guarda rinchiusi nelle loro gabbie di cristallo, commenta il cartellino con il prezzo appoggiato sotto e poi se ne va. Perfetti personaggi per ogni mia storia. Uomini donne bambini. Docili alle indicazioni del loro artefice. Pronti a rivestire i panni di qualsiasi persona, a svolgere qualunque azione avessi imposto loro, in qualunque tempo o spazio. Era sufficiente che entrassi nel negozio e me li portassi via. Certo, qualcuno mi avrebbe impedito di prenderli, e forse qualcuno mi sarebbe perfino corso dietro. È per questo che dovevo camuffarmi. Meglio se da animale veloce, molto veloce, e soprattutto che non facesse venire la voglia a qualche guardia giurata fuciliere del re carabiniere cacciatore di spararmi addosso. Dunque niente travestimento da lepre puma ghepardo cinghiale, troppo scontato impallinarli in un safari o in una caccia nostrana. Ma neanche aquila reale piccione pinguino dell'imperatore. Uno struzzo invece sarebbe stato perfetto. Una volta ho letto che lo struzzo raggiunge i cento chilometri all'ora. Provate a prenderlo, senza bolas, uno struzzo che corre a centro chilometri all'ora con un manichino sotto il braccio per le vie affollate della città.
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Un ringraziamento sincero al Belli di “La madre de li santi”, con esplicito riferimento a una voce del “Dictionnaire” di Flaubert. E poi a Modugno, a “Il giornale illustrato dei viaggi” che per la prima volta mi ha fatto vedere i cannibali, a tutti i pittori di santi e di martiri del cinquecento e del seicento italiano, a Foscolo, Quasimodo e Leopardi, al primo e ultimo prete che per la prima e ultima volta mi ha confessato subito prima della prima comunione, al mio psicanalista freudiano che non conosco e con cui non ho mai intrapreso e mai intraprenderei una terapia, e soprattutto, e sopra a tutti, a tutti i miei colleghi, loro sì veramente scrittori, che infestano le librerie del centro con tante pagine fatte di cellulosa piene zeppe di bellissime storie che fanno volare.
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TERRA DI SIENA BRUCIATA
Le tue passioni e i tuoi freddi saluti 102
con la tua terra sotto i piedi in ogni momento
adoro te come una mamma di terra,
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soffocare nella polvere immortale,
parlare d'amore con te che ricambi o fingi di farlo
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chi è cresciuto dentro di te pensando a te, vivendo per te, sognando solo te
la tua riservatezza un po' nobile e un po' becera.
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Preferirei non sentire le tue voci che rimbombano nei miei sensi,
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voglio solo fumare il mio orgoglio e spegnerlo per terra.
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metti da parte le tue frigide manie
La terra gira. Anche l'uovo gira. La terra è tonda. Anche l'uovo è tondo. Dall'uovo viene la vita. Dalla terra la vita. Gli piaceva starsene così, i gomiti appoggiati le mani penzoloni fuori dalle sbarre di ferro con la punta di lancia in cima, acuminata. Ma anche se non ci fosse stato niente non sarebbe uscito fuori. Fuori, dentro. Chi sta dove. In fondo anche le gabbie allo zoo sono un muro relativo, dipende da quale parte si guardano. Se li ricordava tutti, i suoi pensieri. Li offriva volentieri ai passanti, sul lungo viale alberato. In cambio chiedeva un'offerta libera. Alla fine dell'aforisma. Qualcuno lo insultava, qualcuno aveva paura. Ogni tanto ci ricavava cento lire. Un modo come un altro per campare. Certo, ogni tanto avrebbe preferito fare un altro lavoro, un mestiere vero, diciamo, di quelli del mondo grande di fuori. Il manovale, forse, fra i tetti con il sole sulla schiena come i gatti, o lo spazzino, o il cacciatore, o il pescatore, anche, forse il meglio di tutti. Il sapore del salmastro. Il mare immobile. Nel cielo non c'erano piccioni, a ricoprire di guano scogli e nuvole e tolde delle navi. Il profilo dell'isola si stagliava nero sull'orizzonte. Il pescatore aveva una berretta di lana da pescatore, e stivali di gomma gialla, e un grembiule da massaia, giallo, di plastica. Aspettava paziente, i palamiti calati nell'acqua. La pazienza è la virtù del pescatore, disse il pescatore. La pesca sarà ricca, e venderò tutti i pesci al mercato. Si sarebbe volentieri acceso una pipa per sembrare ancora di più un pescatore, ma non aveva mai fumato. Allora ricominciò a guardare il polpo. Si dice che sotto il mare ci siano molti pesci, disse il pescatore al polpo. Ma anche animali che respirano l'aria e che somigliano ai pesci. E poi animali che sembrano piante, e forse anche piante che sembrano animali. Io non lo so, io sotto il mare non ci sono mai stato. Però li hanno catalogati tutti. Il pescatore si grattò la testa sotto la berretta da pescatore. Il polpo aveva la testa come un tumore enorme, una bolla, una vescica che gli penzolava da una parte. Aveva gli occhi esterrefatti, forse intelligenti. Tentava di raggiungere qualcosa muovendosi con le ventose sul legno della barchetta. La bocca non si vedeva, ma il pescatore sapeva che era un becco d'uccello al centro degli otto tentacoli. Il pescatore tirò sul
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pagliolato il polpo che aveva raggiunto il bordo della barchetta. Tu non te ne puoi andare, polpo, disse il pescatore. Ma stai tranquillo. Io tiro giù le reti e poi le tiro su. Tutti i pesci che ci sono li vendo al mercato. Qualcuno lo mangio. Ma te non ti posso mangiare, disse il pescatore al polpo. Tu sei come un mollusco enorme, senza scheletro e senza conchiglia. Tu hai gli occhi. Vorrei sapere come riuscite a riprodurvi tra i maschi e le femmine. Come vi prendete. Il pescatore rigirò il polpo alla ricerca di un improbabile sesso. Il polpo si avvinghiò al polso e cercò di mordere. Potrei ucciderti ora, disse il pescatore. Eliminarti dalla faccia della terra, così. Solamente rigirandoti la testa con un dito. Il tuo cervello che esce fuori. Ma non lo farò. Tu hai una grande testa, polpo. Forse un grande cervello. Se diventi molto grande allora sei una piovra, che vive negli abissi. Le piovre catturano le navi e le trascinano nell'abisso. Lo so, l'ho visto nei libri. E tu sei come una piccola piovra. Nessuno può incontrare impunemente una piovra. Se non vuole poi vedere l'abisso. Il pescatore guardò la superficie piatta del mare. Il sole ci si specchiava sopra come in uno specchio. Ma era un sole freddo, che non scaldava la striscia di bitume e di pietre della strada che correva fino a Porta Romana. C'erano poche macchine parcheggiate, che i piccioni si preoccupavano di ricoprire d'un manto morbido e grigio, con perizia. Tra poco passerà la vecchia signora, si disse. E afferrò con i pugni le sbarre dell'inferriata. La vecchia signora era troppo secca per poterlo anche soltanto ascoltare. Ma lui rispettava il silenzio di chi non ascolta. Aveva un piccolo cane, che poteva essere un bassotto, o uno schnautzer, o un barboncino nero, o una qualsiasi altra razza o incrocio di razze. Se ne stava immobile sulle quattro zampe steccolose, lo sguardo puntato in avanti, in attesa di un comando dalla sua padrona. E non voleva fare la pipì. Nell'attesa, la Vecchia Signora filosofeggiava. Era molto austera, alta e magra, i capelli grigi raccolti nella crocchia, gli occhi glauchi e le labbra sottili, un vestito vecchio d'un secolo addosso, cupo, e intorno al collo una pelliccia di volpe e una lunga collana di perle. Le piaceva comandare il cane. Lo odiava quando non rispondeva ai suoi ordini. Lo guardava che non ubbidiva al suo comando di fare la pipì. Mi piacerebbe sputarti, disse con
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livore. Ma non poteva in mezzo alla strada, per il suo decoro. Non che non lo facesse. In casa, nel salotto odoroso di polvere stantìa, tirava grossi sputi sulla schiena del cane. Il cane girava la testa d'istinto e si puliva leccandosi. La Vecchia Signora lo puniva. Fai schifo, cane, non puoi leccare i miei sputi, diceva. Il cane restava immobile nella poca terra tra l'asfalto. La Vecchia Signora lo teneva stretto al guinzaglio che tirava fino a soffocarlo. Ti punirò, ti punirò cane, diceva. Se non ubbidisci. Io ti eliminerò dalla faccia della terra. La strada correva dritta tra due file di alberi e le sbarre stecchite del Manicomio. Arrivata a casa si sarebbe guardata allo specchio per capire se si fosse spostato qualcosa nel suo viso durante la passeggiata. Lo specchio era come d'argento, un angolo ricoperto come da una ragnatela. La toeletta sotto di legno tarlato. Dentro la toeletta c'erano le ciprie, le colonie, i talchi e molte altre cose profumate e misteriose al suo olfatto di bambino alla scoperta del sesso dentro un cassetto. Anche l'armadio di noce zeppo di vesti e sottovesti aveva lo specchio. Le zie ci si specchiavano tutte sopra. Indossavano abiti cupi, colli di volpe e lunghe collane di perle, e si rigiravano davanti allo specchio. Tutti dicevano ma che cosa vi ci specchiate a fare, così vecchie così tutte mezze rinseccolite. Loro non davano retta e continuavano a rimirarsi nello specchio. Una in particolare, che aveva i polpacci come prosciugati dal sole, dal sale del mare, dal vento, dalla vecchiezza. Aveva una bocca come un piccolo becco, gli occhi tondi e spenti, il naso adunco e le mani radicate di vene. Era terribile la ferocia con cui dava la caccia agli scarafaggi. Uscivano sempre dagli scarichi sotto l'acquaio, cercavano il buio, gli angoli, il mucchio della spazzatura. La vecchia zia era capace di aspettarli per ore con in mano la paletta per le mosche. Li schiacciava in un sussulto di disgusto. Prima di buttarli osservava l'inutile corazza accartocciata, gli intestini esplosi in un bioccolo di marmellata gialla. Riempiva tutti gli interstizi della casa di veleno. La polvere bianca faceva tossire, lacrimare gli occhi e non le dava nessuna soddisfazione. Invece le piaceva spruzzarla addosso agli scarafaggi, per vedere quanto tempo ci metteva a ucciderli. Quando catturava gli scarafaggi nelle scatole li bagnava di alcool e gli dava fuoco. Gli scarafaggi muovevano
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velocissime le gambe per scappare, e facevano un rumore come se gridassero. Però la puzza era insopportabile, e allora smise di bruciarli. Ma per quanto li schiacciasse li avvelenasse li bruciasse tutti i giorni gli scarafaggi uscivano dal mobile di plastica sotto l'acquaio. Non riusciva a eliminarli dalla faccia della terra. Tutti le chiedevano perché non se ne facesse una ragione, e cercasse di convivere con gli scarafaggi. Lei crollava le spalle e continuava la caccia. Forse aveva paura della morte. Forse ammazzare gli scarafaggi è un modo per esorcizzare la morte, si disse. Lo scarafaggio è l'essere del profondo. Esce da anditi misteriosi, penetra nella razionalità diurna della casa da un altrove oscuro e innominabile. Il suo elemento è la terra, il là-dove-i-morti-vanno. Quale dio ha per bastone la testa dello scarafaggio. Se catturava uno scarafaggio, lo faceva diventare un basilisco in lotta col soldatino di Alessandro sul suo Bucefalo. Bendava il cavallo per non farlo soccombere allo sguardo del mostro, lucidava a specchio lo scudo. Come Medusa, lo uccideva il suo stesso sguardo riflesso. Poi andava a sconfiggere altri fantasmi, minotauri, ircocervi, chimere con la testa di leone. Si dondolò un poco attaccato alle sbarre come una scimmia. Da bambino tutti lo chiamavano Filippo,
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e aveva visto più leoni di tutti. I leoni erano i suoi preferiti, dopo i dinosauri preistorici e i transformer. I primi leoni erano nella videocamera dello zio, che era andato in Africa dove c'è il deserto e i leoni e li aveva ripresi, e poi li faceva vedere a tutti nel televisore di casa. Poi c'erano i leoni del circo, anche questi dovevano essere feroci perché ruggivano con i denti spalancati e alzavano la zampa con le unghie contro il domatore, ma il domatore aveva una frusta e un bastone e faceva fare ai leoni tutto quello che voleva lui. Una volta i domatori ci mettevano anche la testa nella bocca del leone, ma poi una volta un leone ha chiuso la bocca e da allora i domatori non ci mettono più la testa, dentro alla bocca del leone. Per ultimi ci sono i leoni nelle gabbie dello zoo, stanno distesi sul cemento dietro alle sbarre e dormono pieni di carne di mucca e di pulci, le mosche gli ronzano sopra la groppa e s'appiccicano nella criniera come mosche sulla ragnatela, ogni tanto il leone fa uno sbadiglio e poi si rimette a dormire. Ma i più belli di tutti sono i leoni con le ali che stanno nelle figure e nei cartoni animati, e sono tanto belli davvero tanto perfetti, che ruggiscono come i leoni sono forti come i re con la corona e possono anche volare come le aquile. Io sono un aquileone, urlò Filippo. Alla vocetta stridula e improvvisa la vecchia maestra si riscosse. Aveva radi capelli bianchi, gli occhi come privi dell'iride, e una coperta di lana sulle gambe. La fiamma nel caminetto languiva, e il libro era caduto a terra. Ho perso il segno, disse la vecchia maestra. Guardò Filippo che si dondolava senza posa avanti e indietro. Quanto tempo ci metterò a ritrovarlo. La vecchia maestra dopo la pensione si era ritirata nella casa in campagna, che era stata di suo padre. Nella casa in campagna c'erano ancora una mucca che non dava più latte, una capra cieca e un vecchio castrone baio che tutto il giorno ruminava la sua biada. Non ci sono più animali liberi, disse a Filippo la vecchia maestra. Li abbiamo eliminati tutti dalla faccia della terra. I superstiti li abbiamo rinchiusi dentro le scatolette di simmenthal. La maestra era piena di frasi che non aveva mai potuto dire ai suoi bambini. Ma ora c'era Filippo che forse la stava a ascoltare, dalla fortezza della sua mente che puntava il nulla sotto la finestra. Era meglio sestudiavo di più, biascicò. Così potevo insegnare in un liceo, e dire tutte
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le mie frasi ai ragazzi più grandi. Sentì muggire la mucca nella stalla. Si alzò dalla sedia e si avvicinò alla finestra. Il sole era già sceso dietro le colline, e il crepuscolo avanzava. Domani vendo tutti gli animali, disse. E siccome nessuno li compra, li faccio morire di fame. Poi brucio la casa, e la guardo mentre brucio con lei. La maestra era piena di odio. Che senso ha rimanere qui a aspettare. Il fischio dell'inserviente che ti riporta sopra una branda odorosa d'urina e d'escrementi. Ma in fondo non lo odiava l'inserviente. Ognuno aveva la sua parte, non recitare era far saltare la commedia. La strada era deserta. Il sole calava. Respirò profondo l'odore spento dei pini sulla sua testa. Chiuse gli occhi. Era tempo di sognare. Si raggomitolò come un feto sulla terra umida, tra il muro muschioso e la radice d'un pino. Nel cielo ci fu un frullo di piccioni. Si rintanavano nelle buche delle mura antiche, beccavano tutto quello che trovavano, ingrassavano, facevano uova e ancora altri piccioni. Nessuno riusciva a eliminarli dalla faccia della terra. Mettevano le reti nella vastità rossa della Piazza del Campo, qualcuno ci rimaneva impigliato, e gli altri guardavano dai merli della Torre. Piazzavano le esche avvelenate, qualcuno moriva e gli altri continuavano a svolazzare tra bifore e campanili. Riempivano i chicchi di anticoncezionali, per renderli sterili, dicevano: e i piccioni rinforzavano la loro fertilità, continuando a riempire di merda le statue dei santi e degli apostoli in bilico sulle guglie del Duomo. La Città della Vergine era satura dei loro escrementi, a palline tonde e dure come noccioli d'oliva, oppure a larghe chiazze bianche e verdi che scoppiavano come gocce metafisiche sopra giacche e fontane. Gronde e cornicioni erano diventati strumenti di difesa e di tortura, aghi eretti verso il cielo come sul cuscinetto della sartoria. I piccioni stendevano gli aghi con il peso dei loro corpi, e poi ci cacavano sopra. Le autobotti del Comune irroravano le vie d'acqua e petrolio, gli spazzatori meccanici vorticavano nei chiassi risucchiando merda cartacce e carcasse di piccioni, e alla fine del loro giro dovevano iniziare da capo. I letti dell'ospedale traboccavano di salmonellotici, le riserve d'antibiotico erano esaurite e la gente cominciava a morire per le strade. I primi a abbandonare la città furono i turisti. L'epidemia dilagava. Il Ministero
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della Salute aveva messo la città in quarantena, chiuso le porte antiche con un cordone di soldati e riaperto il lazzaretto di Ravacciano. Le scorte alimentari si esaurivano, si trangugiava l'acqua dei bottini e cataste di morti fumavano in piazza Provenzan Salvani. Gli spazzini non potevano più spazzare per mancanza di benzina, e la merda dei piccioni lentamente ricopriva le lastre e i mattoni. Il primo a essere sommerso fu Sallustio Bandini, che ora somigliava a un maleodorante pupazzo di neve dalla testa china e la mano protesa a chiedere l'elemosina. Il cavallo rampante di Garibaldi pareva una statua di cera che si scioglie, e stalattiti e stalagmiti di merda s'erano ormai formate sotto tutti gli archi della Galluzza. Era come se tutti i piccioni d'Italia si fossero radunati nel cielo della città: dalle piazze più smerdate del mondo, da Piazza San Marco, da Piazza della Signoria, da Piazza Navona, orde di pennuti dal sinistro colore grigio volavano sulle torri e sopra i tetti, e cacavano e cacavano, in un parossistico gargantuelismo scatologico. Gli abitanti s'erano rinchiusi nelle case, e morivano tra gli atroci dolori delle febbri tifoidee indotte dal morso delle zecche, o immersi nelle feci gialle e liquide della salmonella. Chi era rimasto per strada venne soffocato dagli escrementi, e rimase così, come una statua di cenere, la mano protesa al cielo in un'ultima, vana maledizione. Uno strato di guano si spalmò sulle mura, sui torrioni, sulle chiese e sui campanili, sulle piazze, sulle viuzze un tempo percorse da gàrruli fanciulli in gita scolastica. Il Duomo vecchio e quello nuovo, il Palazzo Pubblico, l'antico Ospitale, il Rettorato, il Palazzo e la Chiesa e la Loggia di Pius II Suis Piccolomineis: tutto imburrato e rivestito d'una massa bianca e grigia, che si calcificava con lo scorrere del tempo, e diveniva dura e immobile come il cemento su uno scoglio. Poi, quando dell'antica città rimase solamente come un plastico rozzamente modellato nel gesso, un'idea, un grossolano ricordo, i piccioni, tutti insieme, tutti nello stesso giorno, ora, minuto, se ne andarono: si vide solamente una nube fumosa che per un attimo tolse la vista del sole, e poi il cielo di nuovo azzurro del primo febbraio. Così, si dice, le cavallette abbandonarono l'Egitto dopo averne devastato e terre e vigne e raccolti, e, tranne la memoria, tutto. Di Siena
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rimase solamente un dubbio, che il Governo dell'Italo suolo non riuscì mai a sciogliere: se fare della città terra bruciata, oppure lasciarla così come i piccioni l'avevano lasciata, abbozzo d'una città morta, attrazione di guano calcificato per i turisti al presente, e fossile glassato di guglie e torri e merli e campanili. Ma il primo a essere scavato dagli archeologi delle civiltà a venire fu il Manicomio: ne fecero uno splendido Museo, con i resti delle camice di forza e le scatolette dell'elettroshock, i manganelli degli inservienti e le brande di contenzione. Il suo corpo lo riempirono di gesso e lo tirarono fuori che sembrava una statua surreale. Aggrovigliato come un feto faceva bella mostra di sé dentro la teca di cristallo nella sala più splendente del Museo.
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Fonti: Il Matto Filosofo del manicomio San Niccolò, E. Hemingway, L. A. Lucano, Plinio il Vecchio. Tutti morti.
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