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L’ECO DI BERGAMO VENERDÌ 28 GENNAIO 2011
L’arte di costruire
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Teresa Sapey l’architetto che rende belli anche i garage «Stufa del grigio, li ho colorati. Altro che non-luoghi Sono spazi in cui passiamo parte della nostra vita Preferisco sporcarmi di cemento che costruire teorie»
CARLO DIGNOLA
a Teresa Sapey è nata a Cuneo 48 anni fa, ma da una ventina vive e lavora a Madrid. È un architetto che sta facendo una cosa fondamentale per noi umani del XXI secolo, che pochi – anche fra le più luminose star dell’architettura – sanno fare: rendere belli, interessanti, vivaci e in buona sostanza vivibili i luoghi più squallidi che ci tocca abitare. Il problema principale delle nostre metropoli non sono gli edifici di rappresentanza, le dimore principesche, gli attici sui viali ma le zone di giuntura: parcheggi, tunnel, rampe, pensiline della metropolitana. È qui che la città contemporanea gioca la sua partita tra fascino e alienazione. La Sapey è un professionista transnazionale: cresciuta nella «Provincia granda», laureata in Architettura a Torino, una specializzazione alla Parsons School of design e un’altra all’École Nationale Supérieure d’Architecture di Parigi, ha l’indole realista e un po’ scettica della piemontese, l’apertura mentale di una signora francese e la Spagna ha messo nelle sue vene la voglia di fare tutto e subito; di prendere il toro per le corna. La prestigiosa rivista inglese Wallpaper l’ha classificata tra i dieci designer più influenti del mondo. Pare che Jean Nouvel, forse l’architetto più geniale di questi anni (ma non un mostro di simpatia) l’abbia soprannominata «Madame Le Parking». All’Hotel Puerta de America di Madrid avevano chiamato grandi firme (Zaha Hadid, Ron Arad, Norman Foster) chiedendo loro di allestire in maniera originale e lussuosa un piano ciascuno: a Teresa era toccato il -1. E il suo progetto – ammisero Nouvel e Foster il giorno dell’inaugurazione – risultò il più originale. La Sapey progetta anche case, uffici, scuole, ospedali, alberghi, ma ha fatto di nuovo colpo con il parcheggio che ha progettato per la centrale Plaza Cánovas di Valencia:
L’architetto Teresa Sapey
Nata a Cuneo, si è specializzata a Parigi e da 20 anni lavora a Madrid Una famosa rivista inglese l’ha eletta tra i dieci designer più influenti del mondo «Compromessi con i clienti? Certo, dobbiamo anche mangiare» : «Quando vedono che hai fatto bene una cosa - dice ridendo - i clienti ti chiedono sempre quella! Mentre a noi architetti piace sempre fare cose nuove». A Valencia ha usato quattro colori sgargianti, proponendo altrettanti itinerari per visitare la città: parcheggi nel giallo se sei diretto in centro, nel rosso se cerchi un percorso culturale, nel verde per i parchi, nel blu se vai verso il mare. La Sapey ha creato una festa di colori in luoghi che in tutto il mondo sono monotoni e banali: «Se nei garage usassi il bianco o il grigio – spiega – li renderei più lugubri di quello che sono. I sotterranei in questi anni sono di-
ventati improvvisamente, per noi, spazi quotidiani. Dalla caverna alla capanna l’uomo prima ha costruito ciò che gli serviva, poi ha elaborato architetture più simboliche. Le stazioni ferroviarie un tempo non esistevano, all’inizio c’erano solo dei capannoni accanto ai binari; poi ci siamo accorti che in quei luoghi passavamo molto tempo e li abbiamo resi piacevoli. La stessa cosa è accaduta con la metropolitana urbana». La Sapey lavora su oggetti architettonicamente nuovi, ma non per questo condannati a esser brutti: «Quelli che il sociologo Marc Augé ha chiamato “non luoghi” sono semplicemente luoghi ai quali finora nessuno aveva dato importanza. Ma ormai viviamo più lì che nei luoghi tradizionalmente detti. Noi lavoriamo su questi anelli di giunzione». Gli intellettuali hanno pensato che non fossero abitabili: che da ipermercati, tunnel, sopraelevate, aeroporti, parcheggi bisognava semplicemente fuggire verso superfici più nobili. I giovani architetti hanno cominciato a cambiarli: «Le grandi firme erano troppo prese a progettare begli edifici o musei. La nuova generazione di cui noi facciamo parte, invece, doveva crearsi una nicchia professionale» e sono finiti lì, sottoterra, tra ascensori, scale mobili, pilastri di cemento armato. «Quando mi sono laureata io – racconta Teresa -, nell’85, in Italia erano anni neri per questa professione. Ho vinto una borsa di studio all’estero, sono andata a Parigi e ho iniziato a lavorare dove c’era lavoro». Non è una sognatrice: «Ci sono molte cose che la vita sceglie per te. Bisognerebbe dirlo ai giovani. Non è che ti laurei e dici: “Disegnerò parcheggi in Spagna”. Ti capita un’opportunità e la devi saper cogliere». Anche perché «se non lavori, secondo me non sei davvero un architetto. In Italia si fa un gran parlare di questo mestiere, paro-
Un parcheggio disegnato da Teresa Sapey: le linee, i colori, i disegni orientano i conducenti, guidati anche dai neon a basso consumo che tracciano frecce direzionali
Il garage di Plaza Cánovas, nel centro di Valencia
le, parole, parole... Ma non si costruisce. Io preferisco essere un progettista mediocre che tutti i giorni lavora piuttosto che un grande teorico. L’esperienza fa: quando hai 30 cantieri sul tavolo del tuo studio, la tua capacità progettuale aumenta. Sei “sporco” (di cemento), ma sai: l’architettura è pratica, non solo grammatica». Fare l’architetto vuol dire «rispondere alla realtà. Ci sono professionisti che fanno un progetto all’anno, faticosissimi parti... Noi siamo quelli dei parti multipli» dice la Sapey. «Io spesso in una settimana visito cinque cantieri. L’architettura è anche velo-
cità intellettuale: piegare i materiali, risolvere problemi. E sopravvivere ai propri errori». Perché – spiega – chi fa sbaglia: «L’architettura è una professione imperfetta. Come tutte le altre del resto: lei crede che un chirurgo non sbagli mai? Può anche fare un errore una volta, dimenticare una garza, ma se opera tutti i giorni certi interventi li saprà fare a occhi chiusi, e questo conta. Per un architetto è la stessa cosa». In Spagna negli ultimi trent’anni «si è costruito molto. Forse troppo. Anche a Madrid però c’è una realtà universitaria con cui io litigo costantemente»
racconta Teresa, «professori durissimi e vecchissimi, gente che non ha costruito nulla e si permette di criticare chi fa, accusandoci di scendere a compromessi con la committenza. È vero che – come si dice - che “un buon progetto si fa con un buon cliente”, ma a un certo punto devi anche mangiare». Lei ha una formazione artistica: «Ho studiato anche Belle arti. Poi un gallerista, amico di famiglia, mi disse che era meglio essere un architetto mediocre che un artista mediocre», ed è passata dalla tavolozza alla betoniera. Ma la passione per il colore le è rimasta: «È una materia in più nelle tue mani: il colore vibra, è emozione». Ha portato il tipico «giallo piemontese» sotto i Pirenei: «La Spagna non è così colorata come pensiamo di solito. Vent’anni fa, quando arrivai io, Madrid era una città in cui le case erano tutte bianche, o di quel beige un po’ malaticcio, triste. Le Corbusier diceva che l’architettura dovrebbe essere bianca “per legge", ma gli Spagnoli lo avevano preso un po’ troppo alla lettera. Il giorno che dipinsi per la prima volta una casa gialla il mio vicino la prese male: “Lei come si è permessa!?”. Vent’anni dopo, quel quartiere di Madrid è diventato giallo». Donna d’attacco, a Teresa Sapey non piace indugiare sul tema delle pari opportunità: «In Spagna mi chiamano arquitecta: è un’espressione che odio. Noi siamo la prima generazione di donne che ha potuto fare davvero questo mestiere, ma non credo che oggi siamo discriminate». A chi le chiede come ha fatto a conciliare vita privata e professione risponde con la solita franchezza: «La maternità - ho due gemelli - non mi ha ostacolata. Ma la vita è fatta di scelte e non si può far tutto bene: non si può essere madri perfette, mogli perfette, architetti perfetti: qualcosa devi per forza sacrificarlo, e noi donne continuiamo a farlo». ■
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L’ECO DI BERGAMO VENERDÌ 28 GENNAIO 2011
Donne di successo Protagoniste della «Notte Oab» al Kilometro rosso
Tre progettiste di punta invitate a Bergamo dall’Ordine
Sotto il titolo «Donne e progettualità» l’Ordine degli Architetti di Bergamo sabato scorso per la (affollata) seconda edizione della «Notte Oab» ha invitato al Kilometro rosso tre progettiste che si sono fatte largo
sulla scena internazionale: la cilena Cecilia Puga, che fa parte di un gruppo di giovani professionisti molto seguiti dalle riviste di architettura, Teresa Sapey, piemontese che lavora a Madrid e Donata Paruccini, de-
signer per gruppi industriali conosciuti in tutto il mondo come Alessi. Le abbiamo intervistate: sono tre esempi di come, con idee e con grinta, si può trovare spazio nel mondo di oggi anche in anni di crisi.
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Per inventare bisogna ritornare bambini Donata Paruccini disegna panchine a due piani «Cerco di superare l’idea che abbiamo delle cose»
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La puntina a forma di mosca disegnata per Alessi
Puntine a forma di mosca, bottoni con i buchi asimmetrici, interruttori di stoffa
Donata Paruccini, designer
onata Paruccini, 44 anni, nata a Varedo, nel Milanese, è cresciuta in Sardegna. Ha studiato Design industriale all’Istituto superiore per le Industrie artistiche di Firenze e oggi lavora tra Milano e Parigi, per marchi famosi come Alessi, Morellato, Pandora. Le piace distruggere, con mano lieve, l’idea che ci siamo fatti degli oggetti. Ha realizzato per esempio un interruttore fatto di stoffa invece che di plastica, un tagliere pieghevole, delle panchine a due piani; ha preso delle posate in plastica e le ha ben cesellate come se fossero d’argento. Ha disegnato un anello con la pietra mobile che emette profumo, un cucchiaino con incorporata la cannuccia che permette di mangiare il gelato anche quando è sciolto in fondo alla coppa, bottoni con i fori irregolari che faranno forse impazzire le sarte ma danno alla moda un tocco estroso in più. È una designer che ha delle idee insomma, anzi «idee ricercate» - come ha scritto la rivista Interni. A lei piacciono gli oggetti più comuni: vasi, bottiglie, portamatite, lampadine usate...
«Preferisco quelli che, sotto il profilo tecnico, non hanno niente di speciale: cerco di portare le persone a rapportarsi con essi in un modo nuovo».
Ha disegnato un grande interruttore di stoffa.
In quest’attività sovversiva, dove trae ispirazione?
«Il mio è un esercizio: ogni volta cerco di dire qualcosa che ancora non è stato detto su un certo oggetto. Questo interruttore è diverso dai soliti: è morbido, è molto facile da montare ed è monouso: una volta applicato non si può più riutilizzare. Prima di disegnare mi faccio delle domande, penso a cosa potrei dire di nuovo. Siamo già pieni di oggetti, spesso ridisegnarli non è affatto utile: se lo faccio, vorrei che avesse un senso».
«Assorbo continuamente informazioni: noi in fondo disegniamo quello che abbiamo visto, quello che abbiamo vissuto, letto... Quello che siamo, se vuole. Certe esperienze si elaborano, ogni tanto vengono fuori degli spunti e non sai nemmeno come siano nati dentro di te».
«Reinvento oggetti comuni, quelli che non hanno niente di speciale» A proposito di cose per nulla accattivanti rilette in maniera bizzarra, lei ha disegnato delle puntine da disegno a forma di mosca: le ha messe in produzione Alessi e sono già diventate un’icona.
«È stata una piccola sfida riuscire a dire ancora qualcosa sulla puntina, che era già in sè completa, dal punto di vista industriale funzionava perfettamente così com’era: è un ottimo esempio di oggetto che non ha senso riprogettare. E infatti i designer di solito non se ne occupano».
Quando progetta, pensa ai clienti o si lascia andare all’invenzione pura?
«Per me è importante che le cose che invento si riescano a vendere. Non sempre ci sono riuscita, naturalmente. Non cerco però di rispondere a quella che immagino possa essere la domanda del mercato, ma di fare una ricerca più autonoma». Per inventare un oggetto di grande successo bisogna tornare un po’ bambini? Riscoprire una relazione elementare con le cose?
«È un po’ così. Ma recuperare questo rapporto originario è difficile: siamo tutti abituati a vedere gli oggetti come ce li hanno presentati. Bisogna rimetterli in gioco, guardarli in maniera diversa, più “pulita”, come se in fondo non li conoscessimo così bene: è un po’ un ritorno all’infanzia, sì. Noi designer, prima di realizzare un progetto lavoriamo molto con i modelli: anche quello, in un certo senso, è un gioco». ■ C. D.
Bottoni di madreperla con i fori disposti in maniera irregolare: un tocco estroso a un oggetto assolutamente banale
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Cecilia Puga: basta gigantismo alla Gehry Progettiamo intimità, risparmiando energie
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Cecilia Puga, architetto cileno
ecilia Puga ha preso una casa, una classica casetta con il tetto a punta e l’ha rovesciata gambe all’aria: e la sua dimora Larrain è diventata subito famosa. Nata nel 1961, si è laureata in architettura nel ’90 presso l’Università Cattolica del Cile: prima, dal 1987 all’89 aveva studiato però Storia e restauro dei monumenti architettonici alla Sapienza di Roma. Cecilia Puga oggi costruisce case per la borghesia medio-alta del suo Paese, molto cresciuta negli ultimi vent’anni. Fa parte di un gruppo di giovani architetti apprezzati dalle riviste internazionali: «Quasi tutti spiega - sono collegati all’Università cattolica di Santiago, che ha mandato molti suoi professori ad aggiornarsi in Italia, Spagna, Inghilterra: quando sono tornati hanno creato un grande fermento».
Qual è la sua prima preoccupazione quando progetta?
«Sono molto interessata a costruire l’interiorità della casa, relativamente indipendente dal contesto in cui si trova. E cerco di sviluppare un’architettura low
«Il periodo più negativo è stato quello dello stile post-modern» tech, capace di rispondere alle esigenze contemporanee senza richiedere molta energia». Utilizza materiali poveri.
«Anche. Ma soprattutto mi interessa ridurre al massimo le operazioni del progetto, per concentrare in un punto significativo tutta l’energia. Cerco di essere
sintetica, di non disperdere risorse con troppe finiture o dettagli». Quella del risparmio (soprattutto energetico) oggi è una moda. State seguendo questa linea perché pensate che il mondo di domani sarà più povero di idrocarburi o di denaro?
«Non penso solo al cambiamento climatico, ma anche al budget».
Casa Larrain a Los Vilos, sulla Baia Azzurra
raria”, il più concreta possibile». Gli anni delle architetture spettacolari, alla Frank O. Gehry, sono finiti?
«C’è un movimento verso la sintesi, un po’ dappertutto. Lavorare in un posto come il Cile dove le risorse – non solo i soldi, anche la tecnologia – sono limitate ci dà un punto di partenza diverso rispetto all’Europa. Diciamo che il contesto ci spinge in questa direzione. Ma c’è anche la volontà di produrre un’architettura più diffusa, meno “lette-
Un autore come Oscar Niemeyer – l’architetto che ha disegnato Brasilia - è ancora importante per voi o è roba vecchia?
«Tutto il modernismo latinoamericano, anche quello argentino, è un riferimento essenziale per noi: abbiamo studiato molto Le Corbusier».
«Io penso che il post-modern sia stato uno dei periodi più negativi dell’architettura. La mia generazione ha studiato sotto la sua influenza ma l’abbiamo affrontato in maniera molto critica, e abbiamo fatto un salto all’indietro per recuperare radici diverse. Abbiamo imparato molto dall’Europa». E dagli Stati Uniti?
Siete dei post-postmodernisti, insomma.
«Direi di no». ■ C. D.