APRILE
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L’ECO DI BERGAMO
ARCHITETTURA SACRA NUMERO /5
14 past NELL’ANTICO LUOGO D’ORIGINE 34 present LA FABBRICA INCOMPIUTA 60 DOSSIER SENZA SOGNI E SENZA GRAZIA 68 LAND ET IN ARCADIA EGO
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Centro de documentación Sergio Larrain García Moreno, Providencia, 2003-2006
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Casa en Bahía Azul, 2001-2002
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a cura di Laura Marioni tecnologica associata a una soluzione un po’ low-tech. Rispondere ai problemi dell’architettura contemporanea, della città contemporanea, con una ricerca nella produzione non high-tech, che non richieda molta energia, attraverso la rilettura di tecniche già sperimentate».
FEMMINILE PLURALE
TRE PROGETTISTE A CONFRONTO
«Molti dei miei progetti sono in concreto armato a vista. C’è una continuità materica, plastica, cromatica. Mi interessa ridurre al massimo le operazioni per concentrare in un punto molto più significativo tutta l’energia che devo dispiegare in un progetto d’architettura. Cerco di essere sintetica in genere, scegliere due o tre minimi movimenti per non sprecare risorse in dettagli e finiture».
Sabato 22 gennaio abbiamo incontrato Donata Paruccini, Cecilia Puga e Teresa Sapey in occasione della conferenza stampa di presentazione della Notte OAB 2011, tenutasi la sera stessa presso lo spazio conferenze del parco scientifico tecnologico Kilometro rosso di Stezzano (BG). Quest’anno l’evento, organizzato dal gruppo di lavoro “Archidonne” dell’Ordine degli Architetti della Provincia di Bergamo (Francesca Perani, Arianna Foresti, Sandra Marchesi), era dedicato al tema della professione al femminile, con uno sguardo rivolto in particolare all’esperienza progettuale di tre protagoniste dell’architettura e del design contemporaneo.
In una monografia appena pubblicata sul suo lavoro è lei stessa a riassumere la sua metodologia progettuale:
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“L’architettura come corpo, non come idea del corpo, un corpo che si possa toccare” Peter Zumthor
CECILIA PUGA Il “fatto costruttivo” al centro
Cominciamo da casa Larrain a BahÍa Azul, lungo la costa centrale del Cile… Il paesaggio è arido, la terra arsa dal sole, la roccia corrosa dai sali. Questo luogo venne scelto per costruire una casa che ospitasse, oltre alla committente, sei figli e tredici nipoti, o forse fu proprio quella casa a scegliere quel luogo. Avrei preferito visitarla per poterne parlare, l’architettura è soprattutto un’esperienza del corpo. Ma, come spesso succede, “quel luogo” è troppo lontano; così ho cercato di conoscerla attraverso le fotografie e gli scritti. Il progetto nella traduzione fotografica colpisce anzitutto per il suo valore iconico: l’archetipo della casa a doppia falda, estruso, triplicato, ribaltato e composto. Detto
CECILIA PUGA
Cecilia Puga si è laureata in architettura presso la Universidad Catolica de Chile (PUC) nel 1990. Tra il 1987 e il 1989 segue un corso di Storia e Restauro presso l’Università la Sapienza. Come architetto ha vinto diversi premi, tra i quali quello per il centro di documentazione Sergio Larrain presso la facoltà di architettura del PUC (1995, 1. premio). Il suo lavoro è stato esposto e pubblicato in Cile, USA, Europa e Asia e comprende case unifamiliari, edifici per appartamenti, architettura d’interni e il master plan per la sede dell’azienda Cono Sur sui vigneti Concha y Toro. Insieme ad architetti cileni e di fama internazionale prende parte al progetto Ochoacubo (2005). Tra il 2003 e il 2006 sviluppa la seconda fase del progetto per il Centro di Documentazione, e nel 2008 viene selezionata dallo studio Herzog e de Meuron per partecipare, insieme ad altri 99 architetti, al progetto Ordos 100, in Mongolia. Quest’anno ha lavorato sul progetto per gli spazi urbani di Valparaiso, finanziato dal fondo IDB (Inter-American Development Bank). Ha insegnato come professore presso il PUC e l’Universidad Andrés Bello, dove ha diretto il dipartimento di architettura tra il 2004 e il 2007. È stata anche guest professor presso la scuola di architettura dell’Università del Texas ad Austin. Dal 1998 è membro del Comitato esecutivo della Fondazione Famiglia Larrain Echenique, che gestisce e dirige il Museo di Arte precolombiana del Cile.
così sembrerebbe un gioco, in realtà non lo è: il massimo del risultato connota una grande semplicità. Quando rivolgo a Cecilia Puga alcune di queste considerazioni mi spiega: «Non sono tanto interessata al discorso linguistico intorno all’icona, anche se è molto iconico questo progetto specificamente. Quello che mi interessa sono le possibilità che il modello tradizionale della casa permette come spazialità, permette come interiore. All’epoca del progetto si costruivano soprattutto case con tetti piani e massima trasparenza. Scegliere l’icona della casa tradizionale con i tetti a doppia falda mi ha permesso di sprigionare un’interiorità che le altre architetture non hanno. E io sono molto interessata a costruire questa interiorità, anche indipendente dal contesto in cui si localizza. C’era inoltre un’esigenza di tipo strutturale, infatti quella soluzione mi consentiva di convertire il tetto in una trave longitudinale». Il “fatto costruttivo” sembra essere il cuore della sua idea di architettura: «… la realtà
si radica o si deposita l’influenza dell’ambiente e l’atmosfera dell’opera. L’articolazione minima, la costruzione monolitica, la forma basica e il dialogo tra stabilità e massa in sospensione, non solo costituiscono alcune delle chiavi per capire come sono trasmessi gli sforzi strutturali, ma costituiscono la proposta plastica dell’opera. Quest’ultima tenta di custodire ed è in grado di costruire paesaggi interni relativamente indipendenti dal contesto e dalle viste. (…) Vincolata alla precedente, la terza e ultima questione consiste nella ricerca di una certa continuità plastica grazie a un lavoro di svuotamento e all’uso di una ridotta paletta cromatica e materica. Le tre questioni rispondono alla volontà di concentrare le forze in punti precisi, assicurando una persistenza minima e depurata, che possa essere vestita e svestita. Si tratta di progetti scarni negli elementi
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La prima questione riguarda il programma e il grado di definizione programmatica che assume la struttura che lo contiene. (…) Esistono alcune questioni che devono essere risolte in ogni progetto: come generare una matrice sufficientemente aperta che permetta trasformazioni dell’uso nel corso del tempo, ovvero individuare quali siano gli elementi basici, minimi e non negoziabili e quali quelli soggetti a trasformazione per adattare una determinata struttura a una realtà specifica. (…) Per questo le mie proposte cercano di essere meno narrative e più costruttive. (…) La seconda questione si riferisce alla concezione della struttura che, oltre a organizzare lo spazio e la materia, spesso costituisce l’immagine finale del progetto. L’opera grezza è sempre ambito di progetto, materia d’architettura – non solo di ingegneria – punto dove
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Cerco di essere sintetica in genere, scegliere due o tre minimi movimenti per non sprecare risorse in dettagli e finiture formali, concreti nella tecnica impiegata, che cercano di evitare un’adesione militante a un determinato momento storico o formale.* A proposito dell’architettura che si fa in Cile «Il Cile, dopo l’ottantasette, ha cominciato una crescita economica importante durata dieci anni. Una buona parte della società ha acquisito standard di vita che prima non aveva. Il paese si è trasformato in maniera radicale, e questo si nota nell’incremento delle infrastrutture così come nella diffusione della seconda casa al mare. Il benessere si è espanso. Al contempo si tratta ancora di un paese dove
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le risorse sono limitate, così come le possibilità tecnologiche. L’industria è abbastanza basica. Certamente esiste la possibilità di fare cose più sofisticate in termini di materiali e tecnologie, ma risultano un ambito molto ridotto rispetto all’architettura che si fa in Cile. Per noi risulta molto costoso. Inoltre non ci sono regolamentazioni. Dunque c’è una realtà del contesto in cui si sviluppa il lavoro in genere degli architetti cileni, ma c’è anche la volontà di un’architettura più massiccia e meno letteraria, molto più concreta. L’architettura cilena che si vede fuori dal Cile, la mia e quella di altri colleghi, non è un’architettura popolare, diffusa. Certamente esistono esperienze legate a contesti popolari, come quelle di Lemental e di altri gruppi, ma quella che si vede, che viene pubblicata, è un’architettura per ceti sociali medio alti». * Brano di Cecilia Puga tratto da Cecilia Puga, 2G n. 53, I, 2010, p. 13
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to l’uomo, è cambiata la vita
TERESA SAPEY
Parking Chueca, Madrid, 2005
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Parking Avenida de America, Madrid, 2004
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© Miguel Guzman, Luci di natale a Madrid, 2010
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IL COLORE CHE Dà LA VITA
Teresa Sapey avrebbe voluto essere un’artista quando un gallerista di Torino le disse: «Meglio essere un architetto mediocre che un’artista mediocre». Il suo intento è quello di provocare emozioni. Per farlo usa sapientemente colori, poesia, grafica, design. Arti “minori”, collaterali all’architettura, applicate soprattutto a quegli spazi anonimi o residuali che Augè chiamò “non luoghi”. Per il parcheggio dell’hotel Puerta America di Madrid saccheggia brandelli di poesia da “Liberté” di Paul Eluard, li ricompone graffitati, colorati e racchiusi dentro segnali semplici: una signora che spinge il passeggino, un disabile in sedia a rotelle, un dito teso a indicare l’uscita, ma anche un cervo mentre spicca il salto, a ricordarci che spesso siamo liberi di scegliere che strada prendere. Usa il colore per raggiungere quell’unità plastica necessaria a realizzare la sua “architettura emozionale”.
Prima di tutto per me il colore è una materia in più, noi lavoriamo con il cemento, il vetro, il legno e anche con il colore 01
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Vive e lavora a Madrid da quasi vent’anni. È e si sente italianissima. LUCE E COLORE Mi rivolgo a lei così: «Ho letto che ha portato il “giallo piemontese” a Madrid. Mi ha colpito il senso di questa operazione perché solleva una questione centrale e controversa riguardo al concetto di “cultura del colore”: da una parte implica un legame profondo con i luoghi, dall’altra evoca ricerche universalistiche che la rendano esportabile. Mi chiedo se sia più un fatto di gusto, quasi un istinto, oppure se sia una operazione di ricerca. Sto pensando a Mondrian, che ha girato il mondo e speso una vita per trovare le basi dei tre colori fondamentali: il giallo, il rosso e il blu; oppure a Morandi, che è rimasto chiuso nella sua stanza per indagare dentro se stesso fino a cogliere sfumature di colori intermedi». «Prima di tutto per me il colore è una materia in più: noi lavoriamo con il cemento, il vetro, il legno e anche con il colore. Una materia fortemente legata alla luce. Una materia che ha le sue regole: non tutto può essere colorato allo stesso modo, ogni cosa ha una propria natura, suscita un’emozione particolare, chiede un colore diverso, soprattutto quando si lavora con la luce artificiale, come spesso succede a me, che – ne sono convinta – è sinonimo di architettura contemporanea… Mi oppongo ad alcuni sbagli che stiamo facendo nella progettazione rispetto all’uso della luce, il colore vibra, è emozione, soprattutto nei “non luoghi”. A volte anche il bianco è colore. La ricerca sul colore è sempre aperta, non so ancora dove posso arrivare». «Mi dispiace doverlo ribadire ma ancora oggi si continuano a progettare musei del Novecento, in cui si gioca con la luce naturale. L’arte contemporanea è luce essa stessa; se i musei fossero dei sotterranei o utilizzassero solo luce artificiale, la potremmo vedere molto meglio. Non siamo più legati alle stagioni, dobbiamo cambiare il nostro ciclo mentale perché è cambiata l’arte così come è cambiato il modo di vivere… è cambiato l’uomo, è cambiata la vita».
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«Quando arrivai a Madrid, quasi vent'anni fa, la città non aveva colore. Per una italiana del nord come me era una cosa molto strana, perché quando hai così tanta nebbia come a Torino o nella Padania che non vedi l’edificio di fronte, il colore ti dà la vita, altrimenti perdi il percorso. Quando arrivai a Madrid il cielo era blu, solare, le case bianche o beigioline, di un beigiolino triste, malaticcio. Dipinsi per la prima volta una casa di giallo e il vicino mi disse – Ma come ha osato? Ma si rende conto? Gialla! Io non c'avevo pensato… Adesso il quartiere é diventato tutto giallo. Ed è stato veramente spontaneo, non mi sono chiesta il perché». «Mondrian lo studiai molto. Effettivamente ha cercato tutta la vita la base cromatica del giallo, del rosso… Ma prima di morire con Boogie Woogie è impazzito anche lui, e i suoi colori sono diventati come dei neon di Las Vegas. Quindi non so quale sia stata la sua risposta, non so quale 05
TERESA SAPEY sia stato il suo ultimo scritto, ma è diventato anche lui più sensuale». PROFESSIONE «Io mi sono laureata in architettura nell’ottantacinque. Erano anni neri in Italia. Ho vinto una borsa di studio per una specializzazione all’estero, sono andata a Parigi e lì ho iniziato a lavorare. La nostra è una professione vocazionale: trovo che nel momento in cui non lavori non sei veramente architetto. Tutti i miei colleghi che sono rimasti in Italia, mi dispiace doverlo dire, ma: parole, parole, parole. In Italia si parla di architettura, ma non si costruisce; io preferisco essere un architetto mediocre ma che opera tutti giorni, piuttosto che un grande chirurgo cattedratico che non opera mai. Non c’è niente da fare, l’esperienza conta. Quando tu hai 30 progetti sul tavolo e vai diverse volte al giorno in cantiere anche le tue risposte e la tua velocità progettuale cambiano. Il nostro lavoro è la realtà, è rispondere alla realtà, devi essere lì; loro saranno geni, non lo dubito, ma quel tipo di progetto assomiglia veramente a un parto. Noi invece facciamo parti multipli: è anche una questione di velocità intellettuale, significa rispondere con i materiali, rispondere ai problemi in cantiere, sopravvivere agli errori, agli sbagli. È imperfetta la nostra professione, certamente».
Teresa Sapey si é laureata presso la Facoltà d’Architettura del Politecnico di Torino (1985). Ha un Bachelor in “Fine Arts” (BFA Parsons School of Design, Parigi). Nel 1990 fonda lo Studio Teresa Sapey a Madrid. Sapey combina la sua attività professionale con la docenza. È professore a contratto presso l’Università Camilo José Cela di Madrid ed è professore invitato nel master di “Design e architettura” dell’Università Politecnica di Madrid dal 2004. Lo Studio Teresa Sapey lavora per organizzazioni pubbliche e private collaborando con professionisti del design e dell’arte. Nel 2004 Sapey contribuisce attivamente al progetto Hotel Puerta de America insieme con Norman Foster, Jean Nouvel. Nel 2005 vince il concorso indetto dal Comune di Madrid per l’ideazione del Parking Pubblico Vazquez de Mella, e la parziale riorganizzazione della rispettiva piazza. Nel 2005 ha vinto un premio per la progettazione del migliore negozio di Madrid, Custo Barcelona. Nel 2008 ha progettato il primo Parcheggio ecologico mondiale a Valencia. Sapore Sapey, Electa Mondadori, 2004, è una raccolta monografica che sintetizza gli ultimi dieci anni di produzione architettonica dello Studio Sapey. Nel 2010 esce la seconda monografia Sapone Sapey, anch’essa edita da Electa Mondadori.
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Siamo già pieni di oggetti, che è pressoché inutile farne
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degli altri, se si deve fare qualcosa allora che abbia un senso farlo 02
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quotidianamente, non chiedo quest’attenzione continua al mondo che ci sta intorno… Quindi sì, faccio degli oggetti comuni, normali, che tecnicamente non hanno niente di speciale, con cui le persone possano rapportarsi in un altro modo… Quindi un processo legato al sentire… Voglio descriverlo questo interruttore – che tra l’altro per il momento è un prototipo: un disco di tessuto morbido con dentro un bottoncino anch’esso ricoperto di stoffa… Si tratta di un interruttore monouso, il tessuto si avvolge intorno al filo e alle parti elettriche isolandole perfettamente. Semplice e molto facile da montare. Si mette direttamente sul filo – spesso mi aggeggio a mettere gli attacchi –, quindi con l’adesivo si blocca tutto e si crea il contatto. Non si può riutilizzare. È morbido. È uno dei miei oggetti in cui c’è un po’ di funzione. Sono attratta da quegli oggetti di cui i designer non si occupano, come la puntina (oggetto di cui l’autore è anonimo), oggetti di uso quotidiano, “numeri primi”, perfetti, che funzionano
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Monoblocco, portamatite, autoproduzione, 2003. Foto Italo Perna/Polifemo Fotografia
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The Fly, puntina da disegno, prodotta da Alessi nel 2001. Foto Italo Perna/Polifemo Fotografia
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Pluvio, vaso in ceramica. Realizzato da Attese Edizioni per la IV Biennale di Ceramica nell’Arte di Albisola, 2010. Foto Italo Perna/Polifemo Fotografia
“Siamo tutti abituati vedere le cose come ce le hanno presentate; invece, in qualche modo, bisogna rimetterle in gioco. Bisogna riscoprirle, guardarle in modo diverso, più “pulito”, come se non le conoscessimo poi così bene”
DONATA PARUCCINI
OGGETTI CHE PARLANO
Gli oggetti quotidiani possono ancora dirci cose nuove, migliorare la qualità della vita anche attivando relazioni impreviste. L’interruttore, per esempio, perché non sia un semplice interruttore come tanti altri, bisogna renderlo più interessante: deve attrarre, incoraggiare il “mettersi in relazione
Sembra timida, è stata definita schiva. Io la trovo intensa, sa ascoltare. I suoi oggetti parlano per lei, sono molto belli, carichi di poesia, e muovono il desiderio di averli. Quando ho visto il suo “interruttore volante” ho pensato: «io questo interruttore lo voglio», anche se in fondo resta un interruttore come tutti gli altri… Qual è la sfida nel ridisegnare oggetti che non hanno margini di modificabilità dal punto di vista della funzione? Siamo circondati da oggetti. Quotidianamente abbiamo rapporti con loro. Io mi occupo di questi rapporti. Non sono funzionalista. Il mio intento è quello di migliorare il nostro intorno attraverso oggetti che piacciano, con i quali possiamo relazionarci anche solo esteticamente. Nel guardarli, nell’osservarli, non soltanto nell’usarli. Gli oggetti quotidiani possono ancora dirci cose nuove, migliorare la qualità della vita anche attivando relazioni impreviste. L’interruttore, per esempio, perché non sia un semplice interruttore come tanti altri, bisogna renderlo più interessante: deve attrarre, incoraggiare il “mettersi in relazione”, deve farci interrogare sul senso della sua funzione. Non
anche industrialmente, che non ha senso neanche ridisegnare, che percepisco però come una piccola sfida per provare a dire ancora qualcosa, è il caso della puntina “Fly”. Questa sensibilità è un dono, oppure il risultato di un lungo e costante esercizio? No, non è un dono, è un esercizio assolutamente, un continuare a porsi delle domande. Cerco ogni volta di dire qualcosa che ancora non è stato detto. Non sempre ci riesco, però non ha senso per me riproporre una cosa, che altri magari hanno già fatto molto meglio di me. Mi faccio delle domande, penso a cosa io potrei dire rifacendo un altro oggetto. Siamo già pieni di oggetti, che è pressoché inutile farne degli altri, se si deve fare qualcosa allora che abbia un senso farlo. Chi fa un lavoro creativo alla fine assorbe continuamente informazioni che poi incasella chissà dove. Disegniamo quello che abbiamo visto, quello che abbiamo vissuto e anche quello che siamo: la nostra formazione, ciò che abbiamo fatto nell’infanzia, spunti presi da discipline diversissime, l’arte – da cui tutti noi attingiamo a piene mani – che poi, piano piano, tassello dopo tassello, elaboriamo.
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DONATA PARUCCINI
Nasce nel 1966 a Varedo (Milano). Studia Industrial Design all’ISIA di Firenze diplomandosi, nel 1990, con Jonathan De Pas. Dal 1994 al 1997 lavora con Andrea Branzi e parallelamente inizia la libera professione. Dal 1996 al 2004 ha preso parte alle esposizioni di Opos. Nel 2007 è stata membro del “Consiglio Italiano del Design” istituito dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Nel 2010 la Triennale di Milano gli ha dedicato una personale. Vive e lavora tra Milano e Parigi. I suoi oggetti sono in produzione per Alessi, ENO, Morellato, Nodus, Pandora Design e RSVP.
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