Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo. Speciale Covid

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ATLANTE GUERRE SPECIALE COVID19 2020

ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO SPECIALE COVID19 2020

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ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDO SPECIALE COVID

Direttore Responsabile Raffaele Crocco

Segreteria Jessica Ognibeni

Coordinamento Emanuele Giordana

Hanno collaborato Teresa Di Mauro (Caucaso) Elia Gerola (Usa, Oceania) Lucia Frigo (Europa) Luciano Scalettari (Africa)

In redazione Daniele Bellesi Alice Pistolesi (Vicino Oriente) Maurizio Sacchi (America latina) Beatrice Taddei Saltini

Con il supporto di

Partner Redazione Associazione 46° Parallelo Via Salita dei Giardini, 2/4 38122 Trento info@atlanteguerre.it

Con il contributo di In collaborazione con Editrice AAM Terra Nuova S.r.l. Via Ponte di Mezzo, 1 – 50127 Firenze Tel. +39 055 3215729 info@aamterranuova.it www.aamterranuova.it

Con il sostengo di

Progetto grafico ed impaginazione Daniele Bellesi Progetto grafico della copertina Daniele Bellesi

Foto di copertina Un volontario della CRI (Croce Rossa Italiana) di Alzano Lombardo sta parlando con Claudio Travelli, paziente Covid19. Dopo essere stato visitato, Travelli secondo con la sua famiglia decide di continuare le cure presso la sua casa di Cenate Sotto (Bergamo) il 15 marzo 2020. Il giorno successivo - 16 marzo - la sua famiglia decide di chiamare nuovamente l'ambulanza perché le condizioni di Claudio stanno peggiorando. Claudio sta effettuando un secondo tampone Covid19, dopo che il primo si è rivelato negativo. Questa volta il test è positivo. ©Fabio Bucciarelli www.fabiobucciarelli.com

www.atlanteguerre.it Testata registrata presso il Tribunale di Trento n° 1389RS del 10 luglio 2009 Tutti i diritti di copyright sono riservati Finito di stampare nel settembre 2020 Grafiche Garattoni – Rimini



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EDITORIALE

Il Coronavirus non ha creato un Mondo migliore Ci abbiamo sperato, diciamolo: per lungo tempo abbiamo sperato che la grande crisi nata dal Covid19 creasse le condizioni per un Mondo migliore. Non sarà così. Sarà semplicemente un Mondo diverso. La pandemia non ha riequilibrato la distribuzione della ricchezza. Mancano i dati, ma l’impressione è che i ricchi lo siano diventati un po’ di più. Certo, il Pil mondiale è crollato ovunque, con punte del 30% negli Stati Uniti nei primi sei mesi del 2020, del 10-12% nell’Unione Europea, del 25% in Africa. Ma ad essere colpiti sono stati soprattutto i poveri. L’economia informale, quella di strada, che consentiva a miliardi di persone di vivere in Africa, America Latina e Asia, è stata spazzata via. I lavoratori dipendenti di Europa e Stati Uniti hanno visto i loro posti di lavoro sfumare, spesso con scadenti ammortizzatori sociali a disposizione. E mentre tutto questo accade, alcune cose non si fermano, immense risorse – che potrebbero essere impiegate per contrastare l’epidemia sul piano sanitario, sociale ed economico – vengono investite in altro. Ad esempio, in armi. Difficile sapere quale sarà il bilancio finale, nel 2020, ma intanto la spesa militare globale nel 2019 è stata di 1,9trilioni di dollari Usa. Significa 300 volte il budget a disposizione dell’Oms, l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Considerando il riposizionamento militare e geopolitico di questi mesi e pensando alle troppe tensioni sociali nate nei Paesi a “democrazia limitata”, è facile immaginare un balzo in avanti o quanto meno un mantenimento del livello di spesa. In più, gli osservatori notano come “cyberwar” e criminalità abbiano fatto del Covid19 un nuovo teatro di operazioni. Le tensioni sono in aumento, lo dimostrano la nuova guerra fredda fra Stati Uniti e Cina, la posizione assunta da Nuova Zelanda e Australia contro Pechino, l’agitarsi fra vaccini certificati e movimenti militari di Russia e Turchia. Servirebbero forniture mediche, sanitarie, alimentari. Si risponde comperando aerei, elicotteri, sistemi d’arma. In questo scenario, era importate fare il punto “altro” della situazione, raccontare cioè come le cose stanno andando non tanto e non solo con la conta dei troppi morti e contagiati dal Coronavirus. È importante capire in quale Mondo rischiamo di vivere sopravvivendo alla malattia. È fondamentale sapere quali strumenti abbiamo per difendere diritti, democrazia e, dove si può, la pace. Questa piccola pubblicazione, vuole essere un contributo a tutto questo. Raffaele Crocco 17 agosto 2020


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Il pronto soccorso dell'ospedale Papa Giovanni XXIII dove sono sotto osservazione i sospetti pazienti Covid19, Bergamo il 21 marzo 2020. Dato il crescente numero di persone affette da coronavirus, gli ospedali accolgono piĂš persone del previsto e hanno bisogno di mettere i pazienti in emergenza corridoi delle stanze.

Un paziente Covid19 con complicazioni respiratorie che indossa una ventilazione con elmetto riposa sul suo letto dell'Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo il 3 marzo 2020.


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MINE ACTION E COVID 19

Sapersi proteggere non è sempre una scelta La comunità internazionale attiva da circa 25 anni sul fronte della prevenzione da incidenti causati da ordigni inesplosi (Explosive Ordnance Risk Education – Eore) ha reagito interrogandosi su come il settore potesse svolgere un ruolo in termini di risposta all’emergenza determinata dal Covid19 dato che l’attività di prevenzione del rischio cerca di ridurre il pericolo di lesioni da ordigni esplosivi sensibilizzando donne, ragazze, ragazzi e uomini in base alle loro diverse vulnerabilità, ruoli ed esigenze e promuovendo comportamenti più sicuri. Apparentemente, alla luce di questa crisi Covid19, il modo più efficace per mitigare l’impatto del Covid passa ed è passato attraverso il cambiamento del comportamento che è proprio il campo e la competenza degli attori impegnati sul fronte internazionale della Mine Action in scenari bellici e post-bellici. Il cambiamento del comportamento a rischio è l’obiettivo perseguito e il risultato desiderato. Ma ovviamente non è facile, come in molti altri settori, vedi prevenzione Hiv, Wash (Water Sanitation Hygiene), sicurezza stradale, prevenzione dei matrimoni precoci, ecc. Questa nuova pubblicazione dell’Atlante, ci offre l’occasione di ricordare che, escluso l’approccio faccia a faccia per le limitazioni dovute al Covid19, la rete dei progetti della risk education internazionale è stata messa a disposizione con nuove modalità dalle varie organizzazioni e agenzie UN impegnate sul tema, con messaggi di prevenzione sul rischio ordigni e di prevenzione Covid19, in linea alle disposizioni e linee guida Oms. Uno sforzo collettivo Questo è stato il primo grande sforzo per assicurare comunque un’azione collettiva e coordinata. Diversi gli interrogativi ed i tentativi di risposta rispetto alle altre attività: per esempio il quasi fermo totale di progetti di bonifica con grave danno anche per piccole comunità che traggono reddito da questo impegno lavorativo. Oggi più che mai, bisogna rendersi conto che le operazioni di bonifica umanitaria sono quelle che consentono agli aiuti alimentari o ai mezzi di soccorso di operare, almeno in parte, in modo sicuro garantendone l’accesso. Queste operazioni, presumibilmente, subiranno l’impatto della crisi economica con un minore impegno di cooperazione internazionale nei prossimi anni. A dispetto di ciò, armi e guerre continueranno a vedere l’incremento di attività in un risiko mondiale, ove la ragione non ha ottenuto benefici dai segnali negativi globali della pandemia. L’Italia ha comunque mantenuto il suo impegno economico per la Mine Action nel 2020 con la volontà di mantenere una leadership basata sull’esempio in questo settore di cooperazione. Quando lavarsi le mani è un lusso Importante è non dimenticare che i diritti delle persone con disabilità e il loro accesso alle cure sono spesso limitati dallo stigma della disabilità in sé e che, in scenari tragici come quello disegnato dal Covid19, sono acuiti e non scemati. Le istituzioni nazionali responsabili della risposta all’emergenza Covid devono tenere conto della diversità umana e devono stabilire meccanismi che garantiscano l’uguaglianza e la non discriminazione basata sulla disabilità. Il nostro pensiero corre a coloro per i quali anche lavarsi le mani è un lusso cosi come avere una mascherina. A coloro che nel proprio campo potrebbero incontrare una mina… Sapersi proteggere non è sempre una scelta. Giuseppe Schiavello Direttore ItCBL Campagna Italiana Contro le Mine


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Il figlio di Teresina Gregis Ivan e il marito Franco piangono la sua morte sulla sua bara dopo il funerale privato al cimitero di Alzon Lombardo il 21 marzo 2020. Teresina che soffriva di problemi respiratori, è morta a casa ma non è andata in ospedale a causa dell'alto numero di pazienti con coronavirus che stanno trattando. Un'operazione congiunta dell'esercito italiano e dei carabinieri per caricare le bare sui camion dell'esercito e portarle via dal magazzino dove erano immagazzinate a Ponte San Pietro, Bergamo, Italia, il 24 marzo 2020. Causa Covid19 emergenza, cimiteri e servizi di cremazione nel bergamasco faticano a tenere il passo con l'enorme mole di lavoro e il loro regolare funzionamento non può essere garantito. Le bare vengono raccolte e trasportate nelle parti esterne della provincia o anche in altre province.


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INTRODUZIONE

Il Mondo post Covid è diverso e pare non sia migliore Presi dalla quotidiana lotta all’epidemia, forse non ce ne siamo accorti: il mondo è cambiato. E tanto. Il Covid19, piombato sul Pianeta nel 2020, ha modificato in profondità rapporto politici fra Paesi e potenze regionali, facendo nascere nuovi conflitti e generando un totale riposizionamento. Ciò che era latente è diventato scoperto: Cina e Stati Uniti sono in guerra non dichiarata, ma lo sono. La Russia cerca di riguadagnare consenso internazionale, ruolo, così come la Turchia, alle prese con il nuovo e vecchio sogno di impero Mediterraneo. L’Oceania ha riscoperto l’orgoglio della propria diversità. Il tutto mentre le economie traballano e gli esseri umani rischiano di tornare indietro di 50 anni nella lotta alla fame e alla miseria. Diciamolo: non è un bel quadro. Braccio di ferro Il gioco tornato di moda sembra esser braccio di ferro. E a stimolare virili richiami al confronto è sempre la Cina, ognipresente sulla scena internazionale e sempre meno simpatica ai rivali. Persino l’Oceania ha deciso di scendere in campo contro Pechino. In occasione dell’Aspen Security Forum del 5 agosto 2020, il primo Ministro australiano Morrison ha ammesso che ciò che fino a poco tempo prima risultava “inconcepibile e considerato impossibile” come un conflitto armato tra Australia e Cina, non è più tale. Insomma, il confronto in armi è possibile, se la Cina non smetterà di interferire. Ovviamente, Canberra non è sola, sa di essere appoggiata dalla Nuova Zelanda. I due Paesi hanno proposto di formare una “area comune” alle altre isole del Pacifico, hanno riaffermato i loro rapporti con Taiwan – che Pechino considera propria – e chiesto all’Oms di aprire un’indagine internazionale sulle responsabilità di Pechino nella diffusione del virus. Morale: le grandi isole del pacifico voglio fermare la Cina, bloccando gli investimenti del Dragone sui loro territori e a dispetto di una economia – la loro – sempre più dipendente proprio dai cinesi. Pechino ha risposto alzando i dazi sulle merci australiane. Canberra ha invece lanciato una poderosa campagna di acquisti d’armi. La Cina protagonista Pechino è comunque nei pensieri di tutti. Di Trump, ad esempio, che sembra dover passare alla storia come il Presidente del declino degli Usa. I dati sono impietosi: l’epidemia, che ha proprio negli Usa il picco, ha creato una disoccupazione record e, nel primo semestre del 2020, il Pil del Paese è crollato del 30%. Gli Stati Uniti non sono più – forse nemmeno sul piano militare – la superpotenza egemone e il Presidente ha scelto una strategia di difesa: no al multilateralismo, ritiro dagli scenari impegnativi e nuova Guerra Fredda, questa volta contro la Cina. Il risultato è nel massiccio investimento militare, nel progressivo disimpegno dalla Nato e nel dispiegamento delle flotte a controllo delle nuove aree sensibili: Mar della Cina e Artico Quanto conta la flotta Nel Mar della Cina, Pechino vuol dettar legge. Lo sta facendo capire a tutti, con provocazioni ai vicini – Giappone soprattutto – sul possesso di isole e isolotti e potenziando la flotta. Gli Stati Uniti rispondono con manovre congiunte agli alleati nell’area. Poi, Washington ha ripreso a vendere aerei da combattimento – sono gli F16 – a Taiwan, mandando Pechino su tutte le furie. Il rischio d’incidenti – dicono gli osservatori – sta aumentando. Certo è, che il controllo dei mari resta vitale. Il 90% del traffico di merci e beni è ancora sull’acqua e, quindi, controllare le rotte, accorciarle, renderle e tenerle agibili, è fondamentale. Lo sa Mosca, che proprio sulla futura nuova rotta al Nord, la rotta Artica, punta per garantirsi un futuro. Il Presidente Putin sta affrontando la peggior crisi economica e politica della sua ormai lunga leadership. A dispetto degli annunci, l’epidemia continua a mietere vittime in Russia e l’economia è in ginocchio, con il mercato interno praticamente fermo e i ricavi della vendita del petrolio insufficienti a coprire i buchi della bilancia commerciale. Putin ha continuato a rilanciare, con un attivismo “soft” fatto di aiuti ai Paesi satellite di Europa e Asia Centrale, mantenendo le posizioni militari nel Vicino Oriente e,


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soprattutto, annunciando al Mondo di aver trovato un vaccino al virus. La notizia, arrivata all’inizio di agosto del 2020, è stata smentita dagli scienziati, scettici sul fatto che il farmaco funzioni, ma tant’è: Mosca è rimasta sulla scena. In questo quadro, le speranze vere di rilancio per Putin sono davvero a Nord, il quella rotta Artica che il ritiro del ghiaccio sta rendendo praticabile. I trasporti fra Asia e Europa e Nord America diventerebbero più veloci ed economici e praticamente tutta la rotta sarebbe davanti alle infinite e lunghe coste settentrionali della Russia. Come dire: Mosca diventerebbe la padrona del più grande nastro trasportatore della storia dell’uomo. I giochi dei grandi, i giochi dei piccoli Nel resto del Pianeta, le cose vanno avanti, esattamente come prima. Grandi crisi e guerre son ancora lì. Si combatte in Siria, Libia, Ucraina, Somalia, Yemen, India, Thailandia, Filippine, Myanmar. In Africa, la tensione è salita fra Etiopia, Sudan e Egitto per il controllo delle acque del Nilo. Il virus, poi, ha scompaginato molto sul fronte dei diritti. Nell’Est d’Europa le fragili democrazie hanno continuato a logorarsi, con gruppi dirigenti sempre più impegnati a smantellarle per curare i propri interessi e affermare le proprie oligarchie. L’elenco è lungo: Ungheria in testa, poi Polonia, Montenegro, Serbia. La Bosnia è stata al centro dell’ennesimo scandalo, per gli affari della famiglia presidenziale sulle attrezzature mediche. In Ucraina, sono diffusi i timori di un accordo opaco tra Kiev e Mosca sul Donbass. In Moldavia, Georgia e Bielorussia le elezioni non sembrano aver portato maggiore democrazia, anzi hanno scatenato le opposizioni e i dissensi. Nel Vicino Oriente si continua a morire. Lo si è visto in Libano, piegato dall’esplosione del porto di Beirut nei primi giorni di agosto del 2020. Troppi i morti e i feriti per non scatenare la protesta in un Paese che stava comunque rischiando di esplodere, pressato dal debito estero non pagato e dalla crisi economica. In Siria i soldati turchi continuano a combattere. Soldati turchi che sono diventati da esportazione e occupano aree nel Mediterraneo, per dare forma alla politica neoimperialista di Ankara, che cerca spazio anche grazie agli aiuti sanitari portati là dove interessa: Vicino Oriente, appunto, Balcani, Asia Centrale. La Turchia sta tornando protagonista sulla scena internazionale. Economia: è un disastro Ma il vero pericolo per tutti viene dal blocco dell’economia e dalla fatica a rialzarsi. Se gli Stati Uniti segnano la peggiore crisi economica della loro storia, l’Africa – che da 25 anni segnava una crescita robusta e costante nonostante tutto – è al tracollo. Il Pil crollerà, soprattutto perché a fermarsi è stata la cosiddetta economia informale, di strada, quella dei venditori ambulanti. È una tragedia che l’Africa condivide con America Latina e Asia. Si rischia di retrocedere di cinquant’anni, a livello planetario, nella lotta alla fame e alla miseria, cancellando i buoni risultati ottenuti a partire dal 1990. A frenare il futuro è anche il crollo delle rimesse degli emigrati, bloccate dal lungo lockdown e dalla conseguente chiusura delle frontiere. I circa 200milioni di migranti del Mondo, mantengono circa 800milioni di persone. Secondo la banca Mondiale, nel 2019 hanno mandato nei loro Paesi d’origine 554miliardi di dollari. Quest’anno, si prevede che l’importo diminuirà di circa il 20%, fino a scendere a 445miliardi di dollari. In alcuni casi, le rimesse sono buona parte del Pil interno ai Paesi. Tonga, ad esempio, ha il valore relativo più alto nel Mondo, con il 37,6%, ovvero 183milioni di dollari per il 2019. In Europa il Montenegro è il più minacciato: le rimesse rappresentano il 25% del Pil. In Ucraina è il 10,5%, in Albania il 9,4%. L’Unione Europea sotto pressione Tutto questo ha messo sotto pressione l’Unione Europea, che ha faticato a trovare solidarietà interna per uscire dall’epidemia ed era assolutamente impreparata sul piano della politica estera. Alla fine, i 27 Paesi hanno trovato un accordo sugli aiuti al proprio interno, sulle regole per averli, mettendo in campo il Recovery Fund da 750miliardi di euro. Interessante scoprire che mentre questo accadeva, dal bilancio comunitario venivano tagliati – da 15,5 a 3,5miliardi – i fondi per la cooperazione, mentre non venivano toccati i 13,5miliardi destinati alla difesa comune. L’Unione sembra aver deciso di puntare ad un modello di difesa armata sempre più integrato fra i vari Paesi, in grado di riempire i buchi lasciati dagli Sati Uniti, decisi a disimpegnarsi dal Vecchio Continente. È presto per dire che ci sarà un esercito europeo, ma le basi sono state gettate. La crisi da Covid19, con la sensazione di pericolo imminente e di insicurezza che si porta dietro, sembra confermare che le risposte che si trovano sono sempre, solo, risposte armate.


Distribuzione dei casi di contagio nel mondo per regione secondo l’OMS

Western Pacific 1% Western Pacific 2%

Africa 1%

Africa 2%

Eastern Mediterranean 7%

Eastern Mediterranean 9%

South-east Asia 1% Europe 21%

Americas 36%

Eastern Mediterranean 1%

FEBBRAIO

MARZO

APRILE

Europe 39%

Europe 55%

Western Pacific 77%

Western Pacific 2%

Western Pacific 2%

Western Pacific 1%

Africa 3%

Africa 5%

Africa 5%

Eastern Mediterranean 9%

Eastern Mediterranean 4%

Eastern Mediterranean 13%

MAGGIO

GIUGNO

Americas 54%

Europe 17%

Americas 59%

South-east Asia 21%

South-east Asia 14%

South-east Asia 10%

Americas 45%

South-east Asia 4%

LUGLIO

Americas 54%

Europe 17%

Europe 9%

e sei re i ni er

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L'avanzare del contagio: i numeri globali di casi totali e decessi Il numero di persone positive e decedute per Covid19 secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità. Dati https://ourworldindata.org/covid-cases e https://ourworldindata.org/covid-deaths.

morti totali (cumulativi) alla fine di ogni mese contagi totali (cumulativi) alla fine di ogni mese Febbraio

2.921 85.237 38.524 807.308

Marzo

Americas Eastern Mediterranean

227.696

Aprile

3.140.000

Europe Africa

South-east Asia Western Pacific

367.985

Maggio

6.010.000 502.086

Giugno

10.250.000 668.445

Luglio

17.300.000 0

4.500.000

9.000.000

13.500.000

Coronavirus e fame nel mondo: ecco i Paesi a rischio Il World Food Program delle Nazioni Unite ha evidenziato come la pandemia di Coronavirus abbia esacerbato situazioni di povertà in moltissimi Paesi del mondo, con gravissimi impatti sulla sicurezza alimentare e il rischio di fame e carestie. Nella mappa, il "gruppo A" (in rosso) rappresenta gli Stati per cui il Wfp ha previsto un "rischio altissimo" mentre il "Gruppo B" (in ocra) rappresenta i Paesi a "rischio alto". Dati: Wfp, External Situation Report #9

Rischio altissimo

Rischio alto

18.000.000


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ASIA ORIENTALE

I tanti "casi" del Continente più vasto e popolato Il 23 gennaio 2020 la città cinese di Wuhan viene sigillata. Poi è la volta di Huanggang e quindi di Ezhou. Secondo l’Oms isolare una città grande come Wuhan è “senza precedenti nella storia della salute pubblica”. Ed è da qui che comincia la storia del Covid19. Per reagire, il continente più vasto e popoloso del Pianeta adotterà risposte diverse anche se si possono indicare tendenze e persino buone pratiche. Se la Cina è una sorta di Pianeta a sé, si può tentare una divisone: i Paesi alla frontiera con la Rpc: Cambogia, Laos, Vietnam, Myanmar (e Thailandia), vicini, ma tra i meno colpiti al Mondo. Paesi a grandi numeri, dall’Indonesia alle popolatissime Nazioni dell’Asia del Sud con esplosioni virali tardive, mal gestite e seminascoste. E ancora Paesi ricchi, tecnologicamente avanzati ma non sempre socialmente virtuosi (Corea del Sud, Malaysia, Singapore). Infine le aree della guerra più o meno conclamata, come nel caso degli endemici conflitti birmani (Vicino Oriente e Asia Centrale vengono trattati nelle rispettive sezioni), del conflitto Delhi Pechino e di quello Pechino Washington. Ma se il fenomeno Covid lo si legge nella chiave di una possibile tregua, la risposta è univoca: non ha funzionato. Peggio: cinesi e indiani si sono scontrati lungo la frontiera himalayana mentre (si veda la parte sugli Usa) è da mesi in corso un esercizio muscolare nella regione marittima Indo-pacifico che sta trasformando la guerra commerciale tra Washington e Pechino anche in una pericolosa dimostrazione di forza militare. Pianeta Cina In Asia orientale, la Cina resta pur sempre il Paese guida e non solo perché tutto è iniziato (o sembra essere iniziato) a Wuhan. Alle prese con nuove fiammate di virus, la Rpc ha reagito sempre con fermezza e precisione. Ma se la guerra al virus è, se non vinta almeno sotto controllo, altrettanto non si può dire per la guerra vera: gli incidenti sul confine con l’India a maggio e la tensione con gli Usa nei mari, hanno messo il Paese in allarme per un possibile nuovo conflitto con Delhi e uno ancora più pericoloso con Washington. Sia India, sia Stati Uniti stanno negoziando con Pechino ma con scarsi risultati. E se una guerra guerreggiata è al momento da escludere, i rapporti tra queste tre superpotenze sono tutt’altro che stabili e tranquilli e sono dunque “focolai” assai più gravi di quelli del virus. L’escalation coincide con gli attacchi verbali americani alla Cina (colpevole di aver diffuso il “virus cinese”) e si alimenta di antichi dissidi sulla frontiera tra Delhi e Pechino e su un’escalation di tensione con Washington cui la Cina ha reagito perdendo la sua tradizionale calma. Ne sono una prova le leggi restrittive imposte a Hong Kong e la spinta al rialzo della spesa militare. I Paesi della “cintura” Se si guarda una tabella salta all’occhio che in Asia solo quattro Paesi hanno decessi zero. Escludendo Timor Est (25 casi 0 decessi al 9 agosto 2020) e Turkmenistan (0 casi 0 decessi), gli altri sono Cambogia e Laos cui si può aggiungere il Myanmar (6 vittime) e da poco il Vietnam (10), casi questi ultimi recentissimi e nati da una seconda ondata del virus. Nei Paesi della “cintura” Sud della Cina, alla periferia dell’Impero dunque e i più vicini all’epicentro di Wuhan, abitano circa 180milioni di persone e sono Nazioni che ospitano comunità cinesi e un vasto via vai di lavoratori cinesi e non da e per la Cina. Non arrivano a 1500 casi. Innanzi tutto han chiuso subito le frontiere con la Rpc: scelta commercialmente dura, ma intelligente. Poi hanno isolato interi villaggi al primo caso (il Vietnam già da febbraio 2020) e allestito quarantene in luoghi come i monasteri (Myanmar) sapendo di avere strutture cliniche fragili e poco diffuse. I positivi sono stati subito isolati, identificati e resi noti per età, sesso e residenza. Sostenere che sono regimi autoritari o dittature mascherate (Phnom Penh è l’unica capitale che desta qualche sospetto sui numeri) è vero, ma riduttivo. Sembra semmai aver funzionato una logica culturale di autodisciplina di comunità dove la salute resta un bene collettivo da preservare. Disciplina, autodisciplina, trasparenza e rigore oltre alla pregressa esperienza della Sars. Più consigli e aiuti dalla Cina, interessata a non guastare i rapporti coi primi vicini del progetto Nuova Via della Seta.


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Il caso Indonesia La gestione del virus in Indonesia è stata invece ondivaga, con regole incerte e litigi tra Governo centrale, Province e Governatorato della capitale. Un’inchiesta della Reuters in aprile 2020 sosteneva che i morti fossero almeno due volte tanto i dichiarati. Dopo un inizio goffo e incerto, il Presidente Jokowi ha preso il comando con piani per affrontare il problema. Ma ci sono anche 270milioni di persone sparse su 17mila isole: è un Paese decentralizzato, con governi locali eletti dal popolo e una burocrazia inaffidabile. Il lockdown è stato poroso e lo Stato non è finanziariamente abbastanza forte da sostenere i danni all’economia. Il Governo ha evitato metodi draconiani anche per via di un passato militare e autoritario, ma la situazione resta preoccupante anche se i numeri sono sempre relativamente bassi (oltre 123mila casi e 5.659 decessi al 9 agosto). India, Pakistan, Bangladesh I numeri di Bangladesh, Pakistan e India (questi ultimi i più alti con oltre 43mila decessi), hanno sempre destato sospetti, sia per la scarsa capacita di test, sia per la difficoltà di individuare i malati, sia per mancanza di trasparenza. In India il virus ha rafforzato il nazionalismo del primo Ministro Narendra Modi e scatenato l’islamofobia, oltre a far pagare un caro prezzo ai migranti interni. Rispetto agli abitanti, tutti i grandi Paesi dell’Asia del Sud – così come l’Indonesia – registrano in realtà relativamente pochi casi e pochi decessi per Paesi tanto sovrappopolate (l’India con quasi un miliardo e 400milioni di abitanti, il Pakistan con oltre 200milioni, il Bangladesh con 160). Il trend ascensionale delle infezioni e dei decessi nei tre Paesi sembra però confermare l’ipotesi di governi che hanno cercato in tutti i modi di non allarmare le loro popolazioni, ma con prospettive che lasciano molti interrogativi. In India la vicenda Covid si è infine associata a un sempre più muscolare atteggiamento anticinese già visto a novembre 2019 nel boicottaggio indiano del Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep), che riunisce i 10 membri dell’Associazione delle nazioni del Sudest asiatico (Asean), Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda. E rivisto a maggio negli scontri al confine. Ricchi, tecnologici, spietati Nei Paesi ricchi dell’Asia – con l’eccezione del virtuoso Giappone – spiccano i casi di Corea, Malaysia e Singapore: nonostante siano avanguardie tecnologiche con la patente di democrazie, un benessere diffuso e buoni ospedali si sono distinte per vistosi buchi neri “sociali”. Quando Seul ha visto una ripresa del contagio a maggio con un focolaio nei club Lgbtq+, si è diffusa una reazione razzista nei confronti del diverso, identificato come untore per le sue pratiche sessuali. Singapore e Malaysia hanno fatto altrettanto, se non peggio, coi migranti. La città-stato li ha rinchiusi in grandi dormitori dove sono scoppiati focolai di Covid19. La Malaysia ha messo molti migranti in prigione e perseguito i giornalisti che hanno raccontato la svolta autoritaria contro i più deboli: una forza lavoro immigrata cui Kuala Lumpur, come Singapore, non può rinunciare ma cui non sono stati garantiti diritti. Virus e conflitti La richiesta di tregua dell’Onu a marzo, riecheggiata dal Papa, non ha funzionato: né in India, né in Thailandia. Solo in parte nelle Filippine e nel Myanmar dove però il cessate il fuoco, decretato a Yangon il 10 maggio, ha escluso le aree…dove si combatte. Non sarebbe sbagliato dire che il Covid ha spinto semmai l’Asia verso una svolta autoritaria. La paura di nuove ondate non è comunque passata. È connessa soprattutto al fatto che gli ultimi casi di Covid19 registrati sono in gran parte di persone che fanno ritorno nel Paese d’origine. È il motivo per cui il Myanmar ha deciso di prolungare la chiusura degli aeroporti e praticare una strettissima sorveglianza su chi rientra via terra. Con una complicazione in più rispetto ai suoi vicini che hanno frontiere, seppur porose, fortemente controllate. Yangon ha invece a che fare con intere città e aree che sfuggono al controllo del Governo centrale quando non sono apertamente in guerra, come nel caso degli Stati del Rakhine e del Chin. Spinti dall’emergenza Coronavirus anche nei campi profughi bangladesi – che hanno raccolto l’esodo forzato dei Rohingya del 2016-17 – molti profughi hanno tentato e tentano clandestinamente di tornare in Myanmar: intercettarne alcuni ha permesso di scoprire che vi erano dei positivi. Lo stesso vale per gli sfollati interni nel Rakhine: circa 240mila che vivono in condizioni precarie di assistenza.


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