Io imparo da solo

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Elena Piffero

L’APPRENDIMENTO SPONTANEO E LA FILOSOFIA DELL’UNSCHOOLING



Elena Piffero

Io imparo da solo! L’apprendimento spontaneo e la filosofia dell’unschooling

Terra Nuova Edizioni


A mia nonna Margherita

L’educazione è una cosa ammirevole, ma è bene ricordarsi di tanto in tanto che nulla che valga la pena conoscere può essere insegnato. – OscarWilde



Introduzione

“Ciao bambini, cosa ci fate in giro stamattina, non dovreste essere a scuola?”. Oppure: “Come sarebbe a dire? Non mandate i vostri figli a scuola? Ma l’istruzione è obbligatoria, no? E cosa fate? Lezione voi a casa? E gli amici, la socializzazione?”. Domande comuni di una giornata normale. No, i miei figli non frequentano la scuola. E nessuno fa loro lezione a casa. Io e mio marito abbiamo deciso di dar loro l’opportunità di essere unschooler: i nostri bambini si istruiscono da soli. Quando abbiamo intrapreso questa scelta familiare, non eravamo preparati a diventare gli ambasciatori dell’unschooling a tempo pieno, e certo non ne avevamo l’ambizione. Eppure avremmo dovuto saperlo: l’insolito incuriosisce, e una scelta così controcorrente, fuori dal solco di un’istituzione che in Italia, nonostante tutte le difficoltà in cui si trova, continua a rappresentare un mostro sacro, suscita domande a raffica. Domande curiose, nel migliore dei casi; a volte invece riceviamo critiche, segnali di aperta disapprovazione o inviti a ripensarci, magari da parte di persone benintenzionate che, abituate a considerare la scuola come l’ambiente normale dove ha luogo l’istruzione dei bambini, ci ritengono un po’ strambi, oppure del tutto incoscienti. Fare gli ambasciatori dell’unschooling è una responsabilità non da poco, di cui ci siamo trovati investiti involontariamente. È un fardello pesante soprattutto per i bambini: è già complicato dover spiegare ai coetanei che non sanno “che classe fanno” perché a casa non ab·5·


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biamo classi, poi spesso ci si mettono anche gli adulti a suggerire loro che chiedano a mamma e papà di mandarli a scuola. La cosa importante da sottolineare è che non abbiamo intrapreso questo percorso a cuor leggero, bensì dopo un lavoro intenso di lettura, approfondimento, confronto e discussione, tra di noi e con chi condivideva le nostre inquietudini. Purtroppo, la maggior parte dei testi su cui si è basata la nostra riflessione (ricerche, studi, articoli, libri) non è disponibile nella traduzione italiana, ma solo in lingua inglese. Il che funziona bene per arginare le preoccupazioni della parte anglofona della nostra famiglia allargata, ma per tutti gli altri pone obiettivamente delle difficoltà. Visto che non trovavo il libro che avrei voluto poter leggere, ho deciso di scriverlo, così finalmente ho un testo di cui consigliare la lettura a curiosi e critici. Cari lettori, avete tra le mani la nostra risposta alle sopracciglia alzate: un libro per affermare con forza che esistono vie alternative all’apprendimento promosso dalle istituzioni scolastiche, percorsi altrettanto legittimi, validi e fondati e altrettanto degni di essere presi in considerazione. L’unschooling, tra tutte queste alternative, è considerata quella più radicale: comporta una scelta di vita e come tale non è per tutti, ma non è una scelta sconsiderata, antisociale o privatistica come mi è capitato di sentire e di leggere. Ed è un peccato che la difficoltà a reperire informazioni al riguardo renda questa opzione inaccessibile a molte famiglie. Se si vuole intavolare un serio dialogo sull’educazione dei nostri bambini, un argomento cruciale e di bruciante attualità, non si può escludere questa prospettiva.

La nostra storia La scelta di non mandare i figli a scuola è radicata nella nostra storia come coppia e nello stile di vita che abbiamo deciso di ab·6·


Introduzione

bracciare. In un certo senso, è stata la conseguenza di riflessioni già maturate, anche se, una volta che ci siamo decisi in questo senso, la scelta dell’unschooling ci ha spinto a riconsiderare il modo in cui affrontavamo le relazioni, il lavoro, il nostro ruolo nella società, le nostre responsabilità in maniera molto più profonda di quanto non avessimo pensato. Ho cominciato a informarmi sulla possibilità di rinunciare alla frequenza scolastica quando la mia primogenita aveva appena un anno. Abitavamo in Inghilterra ed eravamo lontani da parenti e amici, quindi avevamo tutto il tempo di ponderare un’eventuale decisione tra di noi, senza pressioni sociali. Tra le tante cose che avevo letto quando ero ancora incinta, una riflessione mi aveva colpita e convinta più di altre: si basava sulla constatazione che istinti e paure, inclusi quelli legati all’accudimento dei neonati, si sono sviluppati sia nelle madri che nei bambini nel corso di decine di migliaia di anni di evoluzione per garantire la sopravvivenza della specie. Durante tutto questo tempo la specie umana è vissuta in comunità di cacciatori-raccoglitori, in una situazione ben diversa quindi da quella che esiste oggi. Un cucciolo d’uomo che avesse perso la vicinanza fisica dei genitori, inerme e incustodito, in una comunità di cacciatori-raccoglitori sarebbe diventato il facile spuntino di qualche predatore. La selezione naturale ha permesso la sopravvivenza solo dei bambini che rispondevano all’abbandono con un segnale che richiamasse i genitori: il pianto. Anche un cucciolo d’uomo nato nel terzo millennio cerca il contatto e la vicinanza fisica ed è più tranquillo se sta in braccio, perché è questo che durante l’evoluzione della specie gli ha garantito di scampare a morte certa: il suo istinto non conosce carrozzine, passeggini e lettini con le sbarre. Peter Gray ha chiamato discrepanza evolutiva questa mancanza di corrispondenza tra le condizioni ambientali di oggi e gli istinti e le necessità biologiche, geneticamente determinate nel lungo corso della storia umana. ·7·


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Al di là della teoria, non è che mia figlia mi lasciasse molta scelta. Evidentemente era un frutto perfettamente riuscito dell’evoluzione, perché strillava da perforare i timpani se l’appoggiavo un attimo e dormiva solo nella fascia, o attaccata al seno. Dopo un mese di tentativi per farla dormire nel suo lettino, ero stremata dall’insonnia e dal mal di schiena e sono convinta che l’estensione del nostro letto matrimoniale in un letto-per-tre mi abbia salvato la vita. Stessa cosa per l’alimentazione complementare: ha resistito a qualunque pressione e si è svezzata orgogliosamente da sola, cominciando a mangiare cibi solidi in quantità apprezzabili a quattordici mesi, ben oltre ogni nostra ragionevole aspettativa. Tutto questo ci ha portato a farci parecchie domande. Quali processi, quali abitudini, quali convenzioni la vita nel ventunesimo secolo comporta, che sono incompatibili o in contraddizione con le nostre necessità biologiche e quindi con il nostro benessere? Non sarà mica che anche la scuola ne faccia parte? La lettura di John Holt e Peter Gray e poi una conversazione con Helen Lees, amica di un’amica e insegnante alla Newman University di Birmingham specializzata in educazione parentale, sono state esperienze per me rivelatrici. Mio marito era più perplesso, ma il suo ruolo nella coppia è sempre stato quello di fare l’avvocato del diavolo. Nell’esprimere le sue perplessità, offriva a me la possibilità di rispondere ai miei stessi dubbi. Sono proprio questi dubbi, i miei, quelli di mio marito e quelli di tante persone con cui parliamo, che mi hanno spinta a voler scrivere questo libro. Fin da quando ero ragazza ho sentito fortissimo il desiderio di viaggiare e di scoprire modi di vivere diversi da quello a cui ero abituata: probabilmente avevo, nascosto da qualche parte nel marasma dei miei pensieri, un barlume di consapevolezza di quella discrepanza evolutiva di cui parla Peter Gray, una spinta a cercare in società non occidentali una risposta all’inquietudine di fronte a un modello di sviluppo ·8·


Introduzione

economico e culturale che sembra generare soprattutto frustrazione e infelicità. Nell’unschooling ho trovato una speranza, l’affermazione di un concetto di sviluppo della persona umana nella sua interezza e con i suoi diritti, prima di tutto quello alla libertà e all’autodeterminazione. E una via alla formazione che rispetti le basi biologiche dell’apprendimento che l’evoluzione ha impresso nel nostro Dna. Ci tengo però a chiarire che non ho nessuna qualifica in pedagogia né in psicologia infantile. Sono una mediorientalista con un dottorato in Politiche dello sviluppo sostenibile, scritto tra gli slums del Cairo. Dallo studio dell’urbanizzazione informale sono passata a quello dell’apprendimento informale: evidentemente ho un’avversione per il “formale” e per le imposizioni dall’alto. Coerentemente con quello in cui credo, quando ne ho sentito la necessità e il desiderio, mi sono “istruita da sola” in filosofia dell’educazione. Il lavoro di documentazione che ha portato alla stesura di queste pagine è stato quindi il frutto di un percorso di autoformazione: alla selezione e all’analisi delle fonti ho cercato di applicare i criteri della ricerca nelle scienze sociali che mi erano familiari per il mio breve passato accademico, e qua e là ho inserito esempi della nostra esperienza familiare che mi sembravano pertinenti. Non ho ambizioni di avanzamenti di carriera o riconoscimenti visto che la carriera e l’accademia me le sono lasciate alle spalle senza rimpianti: mi assumo serenamente la piena responsabilità di ogni errore e di ogni imprecisione che posso avere commesso, ma ritengo che sollevare una questione importante come quella dell’unschooling pur con qualche errore sia meglio che non sollevarla affatto. Questo libro è stato scritto soprattutto per i genitori: i bambini in Italia non sono tenuti a frequentare la scuola, ma la maggior parte dei genitori non lo sa. Le opzioni di homeschooling e unschooling sono quasi tenute nascoste, o perché chi rappresenta le istituzioni responsabili per l’istruzione le considera sconsiderate, o forse per·9·


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ché, al contrario, si teme che la loro solidità convinca sempre più famiglie ad abbandonare la scuola e a innescare una crisi sociale. Il mio obiettivo è sfatare entrambe queste credenze: l’homeschooling e l’unschooling non sono scelte sconsiderate e non sono nemmeno una minaccia per la società. Semmai, il contrario. Mi auguro quindi che il libro venga letto sì da tanti genitori, ma anche da insegnanti, educatori e, perché no, da qualche politico, perché fare luce sull’apprendimento fuori dal percorso scolastico apre prospettive sulla formazione e lo sviluppo personale che sfuggono se si guarda solo a quello che succede a scuola. Carol Black nel suo blog scrive che raccogliere dati sull’apprendimento basandosi sul comportamento dei bambini a scuola è come raccogliere dati sullo sviluppo delle orche assassine osservandone il comportamento al SeaWorld1. Qualsiasi biologo naturalista, continua la Black, sa che un animale in uno zoo non si svilupperà correttamente se l’ambiente in cui si muove non risponde alle necessità sociali con cui la sua specie è evoluta. Diciamo che questo libro cerca di raccontare la storia delle orche assassine fuori dai delfinari. Un noto proverbio africano ricorda che serve un villaggio per crescere un bambino. L’unschooling è una via all’apprendimento efficace, piacevole e motivante se la famiglia è sufficientemente serena, fiduciosa, consapevole e impegnata a facilitare le relazioni e gli scambi con il resto della società. Idealmente, una rete di famiglie dedicate a questo tipo di istruzione parentale potrebbe offrire ai bambini opportunità di dialogo, interazione libera, gioco e apprendimento cooperativo, risorse condivise e supporto. Purtroppo, sono ancora poche in Italia queste realtà, perché l’unschooling, sebbene sembri in crescita, resta un’opzione di nicchia. 1.  Black C., A thousand rivers, blog post disponibile sul sito http://carolblack.org/a-thousand-rivers.

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Introduzione

Da una parte, spero che il libro che state per leggere possa incoraggiare altre famiglie insoddisfatte della scuola ad abbracciare questa filosofia di vita. Dall’altra spero che qualche amministrazione particolarmente illuminata sia ricettiva a questi stimoli e risponda ripensando l’offerta di spazi e risorse educative a disposizione della comunità. Con un investimento minimo rispetto a quello dedicato alla scuola, si potrebbero facilmente mettere in piedi centri culturali a gestione partecipata e democratica, aperti a tutti, grandi, piccoli e anziani, magari collegati alla biblioteca locale; centri con spazi ricreativi, qualche semplice laboratorio artigianale, che possano accogliere e mettere in rete individui e gruppi interessati a offrire competenze e a imparare nuove abilità. Centri in cui bambini e ragazzi possano trovarsi a giocare liberamente e dove lo scambio culturale sia incoraggiato a tutti i livelli. Sono strutture tutte da immaginare, che però potrebbero favorire il sorgere di quelle comunità educanti di cui la nostra società disgregata ha così disperatamente bisogno.

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Capitolo 1

Dalla natura alla struttura e ritorno: l’apprendimento spontaneo

«In un mondo normale, parlare di svezzamento non avrebbe alcun senso. Ma, credo che tutte ne conveniate, il nostro attuale non è un mondo normale. O meglio, il mondo cerca disperatamente di restare normale, ma noi esseri umani facciamo del nostro meglio per stravolgerlo e renderlo inadatto a quelle che sono le nostre caratteristiche, appunto, normali. Intendendo per normale tutto quello che si è evoluto, seguendo regole inalterabili, in milioni di anni di esistenza sulla terra, con un incessante e lentissimo fluire di prove, errori e adattamenti che hanno consentito, di volta in volta, alle varie forme di vita di esistere e coesistere nel miglior modo possibile. […] Questo non vuol dire rifiutare ciò che ci viene dal progresso scientifico ma, piuttosto, usarlo correttamente, cercare di valutare sempre con la massima cura non solo i vantaggi, ma anche i possibili svantaggi di ogni innovazione. [...] Nel caso dello svezzamento, così come (è stato) raccomandato almeno nei paesi sviluppati da quasi un secolo, questa valutazione non è mai stata fatta. Si è così deciso di modificare tradizioni millenarie senza curarsi di valutare se fossero buone o cattive, inventandosi un modello “moderno” di svezzamento senza ugualmente curarsi di valutare se fosse buono o cattivo»2. 2.  Piermarini L. (2008), Io mi svezzo da solo! Dialoghi sullo svezzamento, Bonomi Editore, Pavia.

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Dalla natura alla struttura e ritorno: l’apprendimento spontaneo

I paragrafi qui sopra sono tratti dall’introduzione di un libro che probabilmente (mi auguro!) molti di voi conosceranno: è un libro scritto dal pediatra Lucio Piermarini, pioniere in Italia dell’autosvezzamento. Il titolo del testo che avete tra le mani, riprende, parafrasandolo, proprio lo slogan di Piermarini: Io mi svezzo da solo!. È una citazione intenzionale, un omaggio alla sua riflessione, tuttora considerata da molti radicale, che pone il bambino, e non i genitori o il pediatra, al centro dello svezzamento. Ma cosa ha a che fare con il tema di questo libro? Se nel paragrafo qui sopra sostituiamo la parola “svezzamento” con “istruzione”, si comincia già a intuire che qualcosa c’entra. I due processi, quello di svezzamento secondo le tabelle tuttora in voga tra molti pediatri e quello di istruzione scolastica obbligatoria, sono per numerosi aspetti paralleli. Noi esseri umani siamo il frutto di decine di migliaia di anni di evoluzione, osserva Piermarini, e se siamo ancora qui è perché in queste decine di migliaia di anni, prima che facessero la loro comparsa i pediatri, l’evoluzione deve aver predisposto naturalmente i bambini, attraverso la curiosità e la propensione a osservare e imitare, ad abbandonare progressivamente il latte materno per inoltrarsi nell’esplorazione del cibo degli adulti. Ognuno in pressoché totale indipendenza, posto che gli venisse permesso di farlo; ognuno seguendo i suoi ritmi, ognuno sviluppando le proprie preferenze. Anche ora, i bambini che riescono a convincere i genitori a fidarsi di loro e a offrire loro la possibilità di partecipare, assaggiando, ai pasti degli adulti, si nutrono bene e crescono sani. I bambini non hanno bisogno di tabelle di introduzione degli alimenti nella dieta, né di calendari dello svezzamento: se lasciati liberi di seguire il loro istinto, si svezzano da soli perché non possono farne a meno, sono programmati per questo dalla legge della sopravvivenza. L’apprendimento in questo è del tutto simile allo svezzamento. Da circa due milioni di anni l’evoluzione della specie umana ha comin· 13 ·


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ciato a dipendere dalla trasmissione culturale: gli strumenti e le attività (caccia, pesca, raccolta e lavorazione del cibo) che garantivano la sopravvivenza comportavano conoscenze minuziose e abilità ben perfezionate, complesse da scoprire ma indispensabili per individui che vivevano assieme. È diventato cruciale quindi poter contare sul patrimonio di saperi conquistato dalle generazioni precedenti. La trasmissione di questi saperi non spettava agli adulti, non era qualcosa che veniva impartito ai bambini. Dall’alba della storia umana i bambini si istruiscono da soli, ognuno con i propri tempi e i propri modi, se viene data loro la possibilità di partecipare al mondo reale, perché sono geneticamente programmati per farlo: imparano da quando nascono (anzi, dal grembo materno!) e durante tutto il corso della vita, da ben prima che i primi insegnanti professionisti ricevessero l’abilitazione all’insegnamento. Di insegnanti l’umanità ha fatto a meno per decine di migliaia di anni, ma di imparare no, non ne può fare a meno: è il segreto della sopravvivenza dell’uomo, e anche della sopravvivenza di molte altre specie di mammiferi. La curiosità, la motivazione e l’abilità di imparare sono innate e non scompaiono certo al compimento del sesto anno di età. Con l’inizio della scuola dell’obbligo però l’apprendimento, prima libero e spontaneo, diventa un percorso strutturato, segmentato e programmato con precisione, controllato dall’alto, verificato e quantificato. Nei circa duecento anni da quando l’istruzione scolastica ha fatto la sua comparsa, la scuola è diventata uno dei rituali principali della società occidentale: la frequenza scolastica è considerata oggi una pratica assolutamente normale, anzi necessaria. Ci siamo così abituati all’idea di un’istruzione obbligatoria, forzatamente impartita, che i bambini lo vogliano o no, che abbiamo smesso di interrogarci sulle premesse su cui si basa, sui modi e i mezzi che utilizza e sui risultati che ottiene, nel bene e nel male. Eppure, dall’interno della scuola arrivano sempre più forti gli echi dello scontento. · 14 ·


Dalla natura alla struttura e ritorno: l’apprendimento spontaneo

Negli ultimi decenni un corpus crescente di ricerche e studi sull’apprendimento e sulla psicologia dello sviluppo ha confermato quello che alcuni sospettavano: che gran parte di quello che si fa in ambito scolastico è inutile o addirittura dannoso per l’apprendimento e per un’equilibrata crescita psicologica ed emotiva. L’istruzione scolastica primaria non solo non favorisce ma, sotto certi aspetti, ostacola l’evoluzione dei bambini in adulti responsabili, realizzati e inseriti nella vita sociale, e questo libro in parte illustra come3. Si tratta di un’affermazione forte, ma tutt’altro che infondata: l’istituzione stessa della scuola sembra essere parte del problema. Di fronte all’accumularsi di tante voci critiche, e anche di una crescente frustrazione da parte di insegnanti, genitori e scolari, la risposta delle istituzioni deputate all’istruzione obbligatoria è stata deludente. Le riforme si sono susseguite negli anni, ma senza intaccare le radici del problema, anzi casomai hanno reso il sistema scolastico ancora più burocratico, più rigido, più oppressivo. E il livello dei contenuti, come qualsiasi insegnante di lungo corso è pronto ad assicurare, ha continuato ad abbassarsi. Come tutte le istituzioni, anche la scuola tende a comportarsi con inerzia e a resistere alle spinte verso il cambiamento. In questo ha sicuramente un peso la forza dell’abitudine, così come lo hanno gli interessi economici e burocratici e la scarsa disponibilità di informazioni per i principali interessati, cioè insegnanti e genitori. In Italia il dibattito è ancora relegato a una nicchia, anche a causa della scarsità di testi disponibili in traduzione. Esistono materiali sul metodo Montessori e sull’approccio antroposofico di Rudolf Steiner, sulle esperienze sempre più numerose di scuole all’aperto e di asili nel bosco, ma la maggior parte dei testi che ipotizzano percorsi al di fuori del tracciato delle istituzioni scolastiche non è ancora stata tradotta 3.  Due titoli su tutti: Holt J. (1964), How children fail, Pitman Publishing Company, Londra; Gray P. (2015), Lasciateli giocare, Giulio Einaudi Editore, Torino.

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in italiano nonostante alcuni risalgano agli anni ‘70, se non prima. Il dibattito di conseguenza è rimasto parecchio indietro. Uno di questi percorsi alternativi, quello di cui parleremo in questo libro, è l’unschooling: il suo assunto di base è che, grazie a quello che è stato chiamato, a seconda degli autori e dei contesti, autoapprendimento, apprendimento autodiretto, spontaneo o informale, i bambini possono istruirsi efficacemente da soli, senza scuola, senza pressioni o strutture imposte dall’esterno. Affidarsi esclusivamente o quasi all’apprendimento informale per l’educazione dei bambini rappresenta una presa di distanza radicale dalle teorie pedagogiche che vanno per la maggiore. Pochissimi professionisti nel mondo dell’istruzione sono disposti ad accettare che un modo apparentemente casuale, disordinato e scombinato di imparare, senza una sequenza né una direzione precisa, possa portare i bambini a sviluppare in maniera soddisfacente il loro potenziale intellettuale. E questo, per un genitore che stia considerando l’opportunità o meno di scegliere l’unschooling, spaventa. Eppure, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, l’autoapprendimento offre infinite possibilità per lo sviluppo cognitivo e relazionale, intellettuale, e può essere considerato un efficace percorso di istruzione, anzi di autoistruzione, in grado di sostituire il percorso scolastico (almeno per quanto riguarda il ciclo di istruzione obbligatoria). Le neuroscienze, la psicologia e nuovi studi di pedagogia confermano che l’apprendimento informale è infatti straordinariamente comune ma anche straordinariamente efficace. Per riprendere l’analogia con cui questo capitolo si è aperto, diciamo che l’apprendimento informale sta alla scuola come l’autosvezzamento sta alle tabelle di introduzione dei cibi solidi ai lattanti. Numerose ricerche hanno dimostrato che bambini che si svezzano da soli crescono senza problemi: allo stesso modo numerose ricerche sull’apprendimento informale mostrano che, generalmente, porta ad adulti · 16 ·


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competenti, perfettamente in grado di funzionare nel sistema sociale e culturale in cui vivono pur non avendo mai messo piede (o quasi) a scuola. L’obiettivo di questo libro non è dimostrare che i bambini che seguono un percorso di unschooling raggiungono risultati accademici straordinari, o che l’apprendimento informale risulti in individui in qualche modo “superiori”. Questo libro vorrebbe semplicemente esplorare e spiegare una via alla formazione diversa ma assolutamente percorribile, valida e con tutta probabilità più appagante rispetto a quella scolastica.

Homeschooling e unschooling sono sinonimi? I lettori italiani hanno forse qualche dimestichezza in più con il termine homeschooling, ma homeschooling e unschooling non sono la stessa cosa. Homeschooling (tradotto in maniera piuttosto limitativa con l’espressione “scuola a casa”) indica generalmente la scelta di chi rinuncia o esce da un percorso di istruzione scolastica, inclusa quella delle scuole democratiche o libertarie, per privilegiarne uno che si sviluppi a partire dalle mura domestiche. A partire, perché di solito gli homeschoolers trascorrono molto tempo fuori da casa: in biblioteca, all’aria aperta, con gli amici, in giro per la città o la campagna o la montagna, per musei, al cinema, in ludoteca, in qualche attività di volontariato o coinvolti in qualche apprendistato. Per i bambini che seguono questo percorso, non esiste separazione fra la vita quotidiana e l’apprendimento: la scuola è il mondo. Nell’immaginario popolare, l’homeschooling corrisponde all’imitazione della vita in classe in un ambiente domestico, con i bimbi che trascorrono l’equivalente delle ore di lezione curricolari seduti al tavolo di cucina e i genitori-insegnanti che impartiscono le lezioni preparate in precedenza. Alcuni genitori homeschooler ricreano in ef· 17 ·


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fetti una sorta di “scuola-a-casa”: individuano materie e abilità che si intende affrontare e sviluppare con un programma più o meno specifico, utilizzano materiali didattici appositamente predisposti o libri di testo scolastici, fissano obiettivi spesso ispirati alle direttive ministeriali per l’anno di riferimento e individuano forme di verifica del progresso. Rispetto a quello che avviene a scuola, l’insegnamento comunque è più personalizzato, interattivo e intensivo. Non ci sono infatti lentezze burocratiche e procedurali da fronteggiare (l’appello, la compilazione del registro, la gestione della disciplina in classe), il rapporto studente-insegnante è chiaramente più favorevole e si può seguire il ritmo di apprendimento dettato dal bambino, avanzando nei contenuti solo quando i prerequisiti sono stati raggiunti. In genere poi, gli stili di apprendimento e le attitudini dei bambini vengono assecondati: così sono necessarie meno ore di lavoro per acquisire le stesse conoscenze rispetto all’insegnamento scolastico. L’homeschooling comprende però anche altri percorsi: in alcuni casi il programma viene individuato e pianificato dai genitori, ma sulla base degli interessi specifici dei figli; in altri casi l’apprendimento è a progetto, cioè basato su unità di contenuti scelte dai bambini che i genitori contribuiscono ad approfondire e sviluppare. Per gli unschooler, che si trovano all’estremo non-strutturato dell’insieme degli homeschooler, la definizione di cosa, come e quando, dove e con chi imparare è lasciata ai singoli bambini, che sono gli assoluti protagonisti della propria educazione, a prescindere da ciò che la scuola pratica, impone o esemplifica. Le istituzioni scolastiche non costituiscono un punto di riferimento, né in termini programmatici né in termini di risultati attesi o di obiettivi didattici da perseguire. Così come hanno fatto in età pre-scolare, i bambini imparano senza lezioni, senza insegnanti (o con gli insegnanti che di volta in volta si scelgono), senza aule, senza programmi didattici, senza materie, senza voti. Imparano semplicemente partecipando · 18 ·


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alla vita quotidiana della famiglia e della comunità: sono loro i principali responsabili del proprio percorso di auto-formazione. Questi approcci non sono a compartimenti stagni: la flessibilità permessa dall’assenza di imposizioni fa sì che nell’esperienza pratica spesso le traiettorie individuali seguano approcci misti. In questo libro si parla principalmente dell’esperienza dell’unschooling: in essa, l’apprendimento informale è predominante, ma ciò non significa che un bimbo unschooler non possa decidere di ricorrere a un apprendimento più strutturato nel perseguire un interesse particolare (una lingua straniera, una disciplina sportiva, lo studio di uno strumento musicale e così via). Una struttura talvolta aiuta a focalizzarsi e a realizzare che la disciplina e la pratica quotidiana portano ad avanzare meglio e più rapidamente e che diventare abili ed esperti in qualche campo è una esperienza gratificante. L’importante non è la presenza o meno di struttura, ma la libertà di scegliere: un apprendimento strutturato liberamente scelto è ben diverso da un apprendimento strutturato imposto dall’esterno.

Imparare a casa: dal formale all’informale Molte famiglie che rinunciano all’istruzione scolastica seguono almeno inizialmente un approccio semi-strutturato di “scuola-a-casa”. Di solito, però, dopo questa prima fase l’apprendimento prende una forma più libera e flessibile. Non tutte le famiglie passano dall’homeschooling strutturato all’unschooling: molte si assestano su una via intermedia, in cui il controllo dei genitori è rilassato ma si cerca di far sì che almeno quelle che sono considerate le conoscenze e le abilità di base siano acquisite. In altri casi si giunge alla conclusione che è proprio l’apprendimento informale e autodiretto quello che più si addice allo stile dei bambini e alla filosofia familiare. Non esiste una

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ricetta universale che funzioni per tutti e l’adattabilità dei percorsi è probabilmente uno dei punti di forza dell’homeschooling. La nostra esperienza riflette questo percorso dal formale all’informale. In Inghilterra, dove abitavamo, la nostra primogenita avrebbe dovuto cominciare a frequentare la scuola a cinque anni. Quando abbiamo deciso di non iscriverla, ero determinata a procurarmi materiali stimolanti per guidarla a riconoscere le lettere e avviarla alla lettura. Ho fatto un po’ di ricerche tra Internet e la biblioteca locale e ho deciso di provare con il metodo Montessori. Ho allestito un vassoio con farina di mais scaduta che avevo nella dispensa e ho preparato modellini delle lettere intagliati nel cartoncino, preparandomi a introdurle a gruppi di tre e seguendo le indicazioni di presentazione del manuale Montessori. Già dal primo tentativo però mia figlia, dopo una manciata di minuti di curiosità iniziale, sembrava molto più interessata a disegnare nella polenta il ritratto dei membri della famiglia che a riprodurre le lettere. Forse non è pronta, mi sono detta all’inizio; decisamente non è pronta, ho concluso dopo la quinta o sesta volta che la polenta finiva rovesciata sul pavimento, «perché così c’è più spazio e gli alberi non ci stanno disegnati nel vassoio». Ho provato a passare alle lettere alfabetiche tattili: appassionata del fai-da-te, ho trovato ritagli di feltro e del cartoncino robusto e mi sono messa all’opera con forbici e colla. Dopo aver ultimato sì e no metà alfabeto, il disinteresse palese di mia figlia, che usava i cartoncini con le mie belle letterine di feltro per costruire percorsi e strade per i pupazzi, mi ha fatto desistere. Non ho mai completato l’intera serie. Mi sentivo una pessima insegnante: mi chiedevo dove stessi sbagliando, ma non volevo che la frustrazione mi facesse innervosire e così ho lasciato perdere, rimandando a tempi migliori. In fondo in Finlandia, il cui sistema di istruzione è considerato uno dei migliori al mondo, le scuole cominciano solo a sette anni: facciamo finta allora di essere in Finlandia anche noi, mi sono detta. · 20 ·


Dalla natura alla struttura e ritorno: l’apprendimento spontaneo

Qualche settimana dopo però, mia figlia mi ha regalato un disegno in cui aveva ritratto se stessa e la sorellina, scrivendo correttamente in stampatello sia il suo nome che quello della sorella. Evidentemente, io ero una pessima educatrice Montessori e mia figlia non aveva bisogno dei materiali che con tanto impegno (e tempo, ed energie) le stavo preparando: stava imparando a riconoscere le lettere e a scrivere da sola. E non avevo idea di come stesse facendo. Quello che è successo a me e mia figlia è solo un esempio, ma a quanto pare riflette un’esperienza comune. In una rassicurante serie di interviste realizzate da Alan Thomas e Harriet Pattison in Inghilterra e in Australia, questo passaggio da un insegnamento più formale a un apprendimento informale trova numerosi riscontri4. Due elementi sembrano influenzarlo: il primo è la resistenza che molti bambini oppongono alle lezioni formali da parte dei genitori. A scuola, i bambini non hanno scelta, sono tenuti a fare quello che dice l’insegnante e a mostrare almeno qualche segno esteriore di interesse: fingere attenzione e concentrazione diventano quasi forme d’arte. A casa invece le relazioni sono più dinamiche e i bambini hanno un ruolo più attivo. Se non sono interessati, lo rendono subito evidente: come tutti i genitori sanno, è inutile e controproducente insistere a insegnare qualcosa che il bambino non ha voglia di imparare, o forzarlo a portare a termine un’attività controvoglia. Credo che questa esperienza sia familiare anche ai genitori dei bambini che frequentano la scuola, quando si tratta di svolgere i famigerati compiti. Questo non vuol dire che i bambini che vengono educati a casa non siano in grado di adattarsi alle lezioni strutturate di tipo scolastico; quelli che poi a un certo punto scelgono di rientrare a scuola (e molti lo fanno, di solito in corrispondenza delle superiori) sembrano 4.  Thomas A.; Pattison H. (2007), How children learn at home, Continuum International Publishing Group, Londra.

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effettuare questo passaggio senza difficoltà5. Probabilmente hanno maturato la consapevolezza che le regole del gioco a scuola sono diverse e sono disposti ad accettarlo, ma a casa rivendicano con forza la libertà di intraprendere il loro personale percorso di esplorazione, nei modi e nei tempi che sono loro più congeniali. Il secondo elemento è una considerazione pedagogica. La scolarizzazione della società ci porta a credere, più o meno inconsciamente, che un bambino non possa imparare se non gli si insegna. Eppure, un bambino di quattro o cinque anni, che non è mai stato a scuola, ha imparato da solo, e con pochissimi interventi di insegnamento mirato, una straordinaria quantità di cose dal punto di vista motorio, intellettuale, sociale ed emotivo. Ha imparato a stare seduto e poi a camminare, a usare con competenza una o più lingue per interagire con chi gli sta intorno, ha imparato a riconoscere, esprimere e mettersi in relazione con una vasta gamma di emozioni proprie e altrui. Ha imparato a muoversi nell’ambiente sociale e culturale in cui è immerso, a interagire con modalità differenti con un gran numero di persone e a comportarsi in maniera appropriata in situazioni anche molto diverse. Gli adulti lo hanno accompagnato, incoraggiato e sostenuto in questo processo, gli hanno offerto, spesso inconsapevolmente, informazioni, modelli di comportamento, opportunità di partecipare e confrontarsi con il mondo intorno. I momenti di insegnamento vero e proprio, di “lezione”, sono stati l’eccezione però, non la regola. L’inizio della frequenza scolastica segna un cambiamento drammatico di prospettiva. L’apprendimento non è più libero ma è regolato da un’autorità centrale, nazionale, che definisce e controlla cosa, come e quando viene insegnato (o non insegnato) ai bambini e come 5.  Si veda a questo proposito Gray P., A survey of grown unschoolers I: overview of findings, blog post su Psychology Today, disponibile sul sito www.psychologytoday.com/us/blog/freedom-learn/201406/survey-grown-unschoolers-i-overview-findings.

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Dalla natura alla struttura e ritorno: l’apprendimento spontaneo

il conseguimento degli standard minimi di apprendimento deve essere accertato. I contenuti e i parametri di riferimento vengono stabiliti dall’alto e non sono necessariamente in linea con lo sviluppo e le necessità individuali dei singoli bambini (come potrebbero, del resto?), ma un fine più alto e nobile, l’istruzione per tutti, giustifica questi mezzi per così dire omologanti. Esiste una separazione netta fra educatori ed educandi, che prevede che i primi operino e i secondi subiscano il processo definito istruzione: in pratica, gli insegnanti agiscono come depositari di conoscenza e saggezza, e i secondi come ricevitori, incaricati di immagazzinare questa conoscenza e poi di riprodurla su richiesta per dimostrare di averla acquisita. I bambini sono divisi per annate e confinati in un ambiente a sé, la scuola, con le sue regole e le sue consuetudini: l’apprendimento viene suddiviso in materie, il suono di una campanella segna la fine di un’attività e l’inizio di un’altra, l’insegnante stabilisce se e quando i bambini sono autorizzati a parlare, leggere, scrivere, muoversi, a cosa devono pensare e persino se e quando possono andare in bagno. Non ci sono basi pedagogiche né tantomeno biologiche che giustifichino questo mutamento. In altre parole, non ci sono fondate ragioni per pensare che un bambino di sei anni non possa continuare a fare quello che ha fatto da quando era ancora nel grembo materno, in pressoché totale autonomia: osservare e ascoltare, selezionare e assorbire informazioni, rifletterci su, elaborarle, collegarle in un sistema che dia un senso alle esperienze, formulare ipotesi e testarne la validità, esplorare, sperimentarsi, sbagliare e correggersi, porre e porsi domande, cercare le risposte, confrontarle e confrontarsi. Imparare, insomma. Considerata la mole di informazioni, conoscenze, competenze e abilità che un bambino di cinque anni ha maturato, apparentemente senza sforzo, molti genitori trovano che sia naturale lasciare che questo processo di sviluppo possa continuare indisturbato. Perché inter· 23 ·


Io imparo da solo!

rompere un percorso che finora ha dato risultati straordinari? Come recita il detto inglese, “If it ain’t broke, don’t fix it” (se non è rotto, non aggiustarlo), è meglio evitare di intervenire per modificare, correggere o migliorare qualcosa che già funziona bene così com’è, perché il rischio è che un intervento risulti controproducente. A dire il vero, anche i bambini che cominciano a frequentare la scuola continuano a sperimentare vari gradi di apprendimento “informale”, solo che le occasioni sono ridotte, perché è l’istruzione “formale” che occupa la maggior parte delle loro giornate. Per chi frequenta la scuola, l’apprendimento formale e informale si intersecano e si influenzano a vicenda, tanto che numerose ricerche a partire dagli anni ‘60 hanno messo in stretta relazione il contesto familiare con i risultati scolastici. La presenza di un ambiente domestico sicuro e stabile, ricco di stimoli intellettuali e di discussioni costruttive tra genitori e bambini, modelli comportamentali positivi in termini di valori sociali ed educativi e infine alte aspirazioni legate alla realizzazione personale e alla partecipazione civica sono stati individuati come elementi cruciali per il successo o il fallimento scolastico, più di ogni altro fattore6. Questo conferma che sia sul piano intellettuale (le discussioni tra genitori e bambini) sia sul piano dei valori (cittadinanza attiva, integrazione sociale, attitudini verso l’apprendimento), la sfera informale continua ad avere un ruolo fondamentale anche per chi è inserito in un percorso scolastico. Non c’è nulla di speciale quindi nell’apprendimento informale: fa parte della vita di tutti, anche di quella di chi va a scuola e lo sperimenta part-time. Solo che per i bimbi unschooler è praticamente tutto quel che c’è. 6.  Desforges C.; Abouchaar A. (2003), “The impact of parental involvement, parental support and family education on pupils’ achievement and adjustment: a literature review”, Department for Education and Skills, Research Report, n. 433, Londra.

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Bibliografia

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Io imparo da solo!

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Io imparo da solo!

Indice

Introduzione ............................................................................. 5 La nostra storia ........................................................................ 6 1. Dalla natura alla struttura e ritorno: l’apprendimento spontaneo ................................................................................ 12 Homeschooling e unschooling sono sinonimi? ....................... 17 Imparare a casa: dal formale all’informale ............................... 19 2. Apprendimento informale: cos’è? ......................................... 25 Il curriculum informale .......................................................... 25 Le modalità dell’apprendimento informale: autodiretto, collaterale, implicito ............................................................... 29 Con quali strategie i bambini interiorizzano il curriculum informale? .............................................................................. 32 In conclusione: imparare è un’attività sociale .......................... 45 3. Il curriculum informale è sufficiente? ................................... 48 Le basi: la lettura .................................................................... 48 Le basi: la scrittura ................................................................. 60 Le basi: il calcolo matematico ................................................. 63 E tutto il resto? ....................................................................... 65 Un curriculum diverso da quello scolastico non è sbagliato ....................................................................... 67 Un curriculum diverso da quello scolastico non lascia impreparati alla vita ................................................................ 69

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Indice

4. L’unschooling come scelta di rispetto e libertà ..................... 75 La scuola: dittatura benevola sull’intelletto? ............................ 79 L’unschooling e il diritto al benessere e al ben-diventare ......... 87 L’unschooling e il rifiuto delle discriminazioni ....................... 97 L’unschooling e la valorizzazione della neurodiversità ........... 110 L’unschooling e il rifiuto delle valutazioni ............................ 115 5. L’unschooling come scelta di vita consapevole ................... 122 L’unschooling e la centralità delle relazioni familiari ............. 126 L’unschooling e la cultura familiare ...................................... 131 L’unschooling e il rischio di enclave ideologiche o religiose ............................................................................. 137 L’unschooling come scelta pionieristica ................................ 146 L’unschooling come pedagogia politica ................................ 153 Post Scriptum: “Sono andato a scuola e sono cresciuto bene lo stesso”........... 159 Appendice. Istruzione obbligatoria e obbligo scolastico: cosa dice la legge ................................................................... 163 Le modalità di verifica dell’obbligo dell’istruzione ................ 164 Esami di fine anno: una tutela opportuna? ........................... 173 Bibliografia ........................................................................... 175 Sitografia ............................................................................... 177

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Direzione editoriale: Mimmo Tringale, Nicholas Bawtree Curatore editoriale: Enrica Capussotti Autore: Elena Piffero Editing: Claudia Benatti Direzione grafica e copertina: Andrea Calvetti Impaginazione: Andrea Calvetti e Alessia Maglione © 2019 Editrice Aam Terra Nuova, Via del Ponte di Mezzo 1, 50127 Firenze tel 055 3215729 - fax 055 3215793 libri@terranuova.it - www.terranuova.it I edizione: settembre 2019 Ristampa VI V IV III II I 2023 2022 2021 2020 2019 Collana: Tutta un’altra scuola ISBN: 978886681 4955 Nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta, memorizzata in un sistema di recupero dati o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo, elettronico o meccanico, inclusi fotocopie, registrazione o altro, senza il permesso dell’editore. Le informazioni contenute in questo libro hanno solo scopo informativo, pertanto l’editore non è responsabile dell’uso improprio e di eventuali danni morali o materiali che possano derivare dal loro utilizzo. STAMPATO IN ITALIA Lineagrafica, Città di Castello (Pg)


«Come sarebbe a dire, che non mandate i vostri figli a scuola? Ma non è obbligatorio? E allora come fanno a imparare a leggere, a scrivere e a far di conto? E in che senso, imparano da soli? E la socializzazione?». Queste domande nascono spontanee quando si affronta il tema dell’unschooling, e il libro che avete tra le mani cerca di fornire le risposte a partire dall’esperienza di chi ha fatto questa scelta per i propri figli. L’apprendimento spontaneo in un ambiente familiare e sociale incoraggiante e ricco di stimoli, costituisce un valido percorso di istruzione, anzi di autoistruzione, in grado di sostituire quello scolastico. I bambini semplicemente continuano, come hanno fatto in millenni di evoluzione, a imparare da soli: sono biologicamente programmati per farlo e non ne possono fare a meno. Le numerose esperienze di unschooling sparse per il mondo ci dimostrano che i bambini, anche senza un programma didattico prestabilito e imposto dall’esterno, sviluppano con successo le loro capacità in autonomia, seguendo i propri ritmi. Rifacendosi a un nutrito corpus di studi sull’apprendimento, le neuroscienze e la psicologia dell’età evolutiva, questo libro racconta come e perché adottare l’unschooling, riportando con decisione al centro del dibattito sull’educazione i legittimi protagonisti: i bambini.

Elena Piffero ha conseguito un dottorato in Cooperazione internazionale e politiche per lo sviluppo sostenibile all’Università di Bologna e ha lavorato come ricercatrice in Egitto, Israele e Inghilterra. Vive in un casolare nella campagna modenese con il marito e i tre figli, e si occupa di sostenibilità nella vita quotidiana. È un’attivista sociale e ambientale con una forte convinzione: imparare vivendo e vivere per imparare costituisce un’avventura affascinante che arricchisce l’esistenza.

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