L’eterno ritorno di Clara Hart

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Louise Finch L’ETERNO RITORNO DI CLARA HART

Traduzione di

Paolo Maria Bonora


Ai miei piedi c’è di nuovo un cadavere. Il cielo è trapunto di stelle e il terreno è cosparso di vetri. Aria fredda e umida e foglie nuove. Sangue sulla strada, ghiaia sulla sua pelle. Il respiro mi gratta la gola. Mi infilo le nocche in bocca e le mordo. Che problemi ha questo giorno? La morte lo attraversa come filo spinato – quella dell’anno scorso, e ora questa qui. Veder morire la stessa ragazza cinque volte è davvero troppo. Ai miei piedi c’è un cadavere: ha gli occhi chiusi, ma non per molto. Ancora un paio d’ore e si risveglierà e ricominceremo tutto da capo. Mi dispiace. Mi accuccio. Le liscio i capelli. Mi avvicino. Svegliati, Clara. Ci siamo dentro insieme, io e te.


la prima volta

1.1

Questo giorno è un ladro. Lo definiscono “l’anniversario” della mamma. Ma no, a me non suona corretto. Non per un giorno così. Una data che se ne sta acquattata nel calendario, che sottrae felicità un giorno dopo l’altro e si prepara a sferrare il colpo finale a tradimento. Tengo la testa bassa – niente sguardi diretti – ma ogni mattina mi chiedo se sia già arrivato. È oggi? Tipico, quando il giorno finalmente arriva non è quella la prima domanda che mi passa per la mente. Ma questa: uno stronzo mi ha appena tamponato? Maledizione, nel giro di pochi secondi questa giornata ha già compiuto il proprio destino. Al di là di ogni aspettativa. Ovvio, al destino io non ci credo. Ironico, eh? Bravo, Universo, sul serio, non c’era bisogno. Mi tolgo il cispo dagli occhi e sbadiglio. Ho toccato un nuovo fondo, svegliarmi in macchina; mi fa male il collo dopo una notte passata contro la portiera, le articolazioni scrocchiano, la cravatta è troppo stretta e ho la bocca impastata e sudicia come una lavapiatti. Nello specchietto vedo una porzione del parcheggio della scuola. Ah già, ecco, mi ricordo. Sono nascosto nell’angolo dove gli insegnanti non mi possono vedere. E a quanto pare nemmeno questo idiota. La macchina che mi ha tamponato, una Micra malconcia, si ferma nel posteggio accanto. Un altro dei rari 9


studenti con la patente, anche se non riconosco le ruote. Scendo, mi infilo la camicia spiegazzata nei pantaloni e costeggio a grandi passi la fiancata del veicolo incriminato. Con il corpo blocco la portiera del conducente prima che possa metter fuori anche solo una gamba. “Ohi”, dico. La registro subito: Clara Hart. Capelli neri, piercing alle orecchie e al naso a punta, ma uniforme immacolata. Ha le labbra strette nella sua solita smorfia di disapprovazione, gli occhi socchiusi. Non c’è da stupirsi che mi abbia tamponato… probabilmente non vede al di là di quel suo pomposo senso di superiorità. “Cavolo, mi hai appena tamponato.” “Buon venerdì anche a te, Spence. Sai che sei in ritardo per l’appello?” Cerca di sgusciare via. La prendo per un braccio e le do uno strattone. “Guarda qui.” “Lasciami.” Libera il braccio e mi lancia un’occhiataccia, ma mi segue sul retro della mia MG d’epoca. Punto un dito verso il fiammante metallo argentato e mi fermo. Dopo centinaia di ore passate in garage con questa macchina ne conosco ogni millimetro, meglio delle mani con cui ci ho lavorato sopra. E il paraurti è impeccabile. È perfetto, cazzo. Dico: “Mi hai graffiato il paraurti”. “Dove, scusa?” “Proprio. Qui.” Suono poco convinto alle mie stesse orecchie. Clara strizza gli occhi, le mani sui fianchi. “Non c’è niente. Cosa vuoi che ci faccia, se non c’è letteralmente niente? Vuoi gli estremi della mia assicurazione?” Ha le sopracciglia scure alzate, pronte a far guerra. Faccio scivolare lo sguardo sulla sua Micra scalcagnata. Mi passo la lingua sui denti e sento una vampata d’imbarazzo risalirmi strisciante nel petto. Lo stronzo sono io? 10

Dico: “Mi sorprende che ti abbiano assicurata”. Lei alza due dita e piega il primo. “Innanzitutto, non l’ho neanche sfiorata, la tua macchina, guardala! E poi non tutti possono farsi comprare la macchina da mammina e papino ricchi sfondati.” “Non mi dire.” Ma il mio cuore ha una fitta. Lascia trapelare quello che lei sa. Ricchi sfondati un tubo. Niente mamma. “Ora posso andare?” Il secondo dito è ancora alzato, come se si fosse dimenticata di averlo. “C’è anche chi ha degli standard da rispettare.” “Sei seria?” “Hai dormito in un fosso?” Arriccia il naso. “Quello in cui tu hai imparato a guidare.” Cristo, guidare in un fosso? Ignoro la mia risposta di merda e alzo lo stivale per agganciare lo zaino. L’espressione soddisfatta di sé che ha Clara mi dà la nausea. Certo, stamattina sarò anche uno straccio, ma almeno non vado a sbattere contro le macchine altrui. Ecco cos’avrei dovuto dirle. Clara recupera la sua roba dall’auto e se ne va pestando i piedi. Lo zaino le rimbalza sul fianco e ha un blocco da disegno stretto sotto un braccio. È come un punto esclamativo troppo allungato, capelli scuri, uniforme blu marine e pesanti scarpe nere sulle gambe più pallide che si siano mai viste. Mi sto preparando a urlarle dietro qualcosa di sagace e tagliente quando lei mi lancia un “E fatti una doccia!” da dietro la spalla. Le si torce una caviglia e inciampa, quasi cade. Non si volta, non vede che sto per sbellicarmi. Il karma è un bastardo, Clara. La seguo a debita distanza per essere sicuro di non raggiungerla. Non me ne fregherebbe nulla dell’appello ma so che a Anthony romperebbe doversi far vedere da 11


solo. Mi ha anche mandato un messaggio per chiedermi dove sono e mi sa che si è ricordato di che giorno è, e questo è parecchio commovente. Faccio una smorfia di scuse al signor Barnes e mi infilo in una sedia. Anthony mi stringe la spalla con una mano e mi studia, la fronte sempre più aggrottata. Forse puzzo davvero. Difficile da dire, ora che sono penetrato nella nube di Hugo Boss di Anthony. “Hai di nuovo litigato con tuo papà?” chiede. Scuoto la testa, gli occhi fissi sul banco. “Difficile discutere se non ci si parla.” Difficile parlare se non si sta a casa. E credo che Anthony sia lì lì per fare un commento su che giorno è, ma poi dice: “Bene, amico, bene. Hai finito il tema di filosofia?”. “Certo.” Il ricordo è perso da qualche parte nella nebbia di ieri sera. Ho cominciato il tema con due birre in corpo, ma potrei scrivere anche da svenuto e riuscire a tirar fuori una roba passabile. Comunque, non conta granché. Ancora poche settimane alla fine della scuola e agli esami e poi nulla di tutto questo avrà più importanza. Comunque lo correggerò. Controllo qualità eccetera. Anthony chiude un aeroplanino di carta e me lo schiaccia contro la testa. “Non sei solo un bel faccino, eh?” “Per niente.” Attorno a noi gli studenti sono stravaccati sui banchi, sfiancati dal ripasso ma carichi per il venerdì, in attesa di buttarsi nel weekend. Clara è un paio di file davanti a noi e scribacchia qualcosa su un quadernino. La fisso, sperando che si volti e torni a vergognarsi di avermi quasi ammaccato il paraurti, ma tiene la testa bassa. Suona la campanella. Mi alzo con tutti gli altri, ma il signor Barnes mi ferma con un “James Spencer? Due parole”. Chiude la porta su un manipolo di studenti che aspetta di prendere posto per la prima ora, e restiamo soli. 12

Barnes si sistema sull’angolo della scrivania, muovendosi finché trova una posizione abbastanza scomoda per sputare il rospo. Passa lo sguardo sulla mia camicia spiegazzata, la mia cravatta storta, i capelli che non vedono una doccia da giorni. Eccolo che arriva: “Va tutto bene, James?” “Tutto ok, sì.” “Stamattina sei arrivato di nuovo in ritardo.” Già, ovvio. È un tipo a posto, il signor Barnes. Secco secco fino al soffitto, e calvo. Oggi è vestito di marrone, con una cravatta verde lime per dare al look un tocco stravagante. La sua giacca mi fa prudere gli occhi. Non per essere sgarbato, lo sono già in troppi con lui, ma pure Clara era in ritardo, e però a lei lo sta facendo, il terzo grado? “Tutto ok”, ripeto. “Anche la tua media ne risente.” “Già, giusto.” Una pausa. Forse Barnes mi guarda la parte superiore della testa. “Sai che puoi venire da me, o da uno qualsiasi degli altri insegnanti, se hai bisogno di parlare? Vero?” Ecco. Mi chiedevo quando ci sarebbe arrivato. Barnes vuole quello che vogliono tutti, la parte più profonda, più oscura di me, e basta. Che io tiri fuori i sentimenti per lasciarglieli esaminare e farmi dire che non sono importanti come ottenere il massimo dei voti agli esami. No grazie. “Posso andare?” “Ci vediamo a filosofia. Cerca di non fare tardi.” Barnes congiunge le mani, serra le labbra. L’immagine della premura. So perché, ovvio. Non vogliono che pianga, che mi droghi o beva o che mi trasformi in un vandalo sotto i loro occhi. Non vogliono che un’altra statistica studentesca deragli; almeno, non prima di aver ottenuto dei risultati decenti agli esami da sbattere nel registro scolastico. 13


Barnes è gentile, come dicevo, ma è meglio ricordarsi che nessuno di loro mi conosce davvero. Non cadere nella loro trappola. Sono solo un altro ragazzo sul nastro trasportatore. Un compito da dimenticare quando la giornata finisce. Butto via in palestra la prima metà dell’ora buca, a farmi la doccia. Il deodorante toglie un po’ dell’odore rimasto sulla camicia di ieri. Sembra ancora che ci abbia dormito dentro, ma una volta che ho su la giacca non si nota. Ai denti pensa il dentifricio. Due tachipirine attutiscono il cerchio alla testa. Quando torno dai miei amici sono mezzo umano. Anthony e Verme sono in mensa, dove passiamo le ore buche. Sembrano una cena, quei due: una costosa bistecca accanto a una misera porzione di patatine rachitiche sul tavolo grigio. In mensa c’è un perpetuo odore di verdure troppo cotte, ma è meglio della sala comune che è un po’, be’... comune. Anthony ha i piedi su una sedia e un ghigno in faccia. Verme ha il broncio. Mi devo essere perso qualcosa di piccante, ma non riesco a fingere alcun interesse. La mensa è quasi vuota. Giusto il traffico occasionale alle macchinette. È per questo che a Anthony in particolare piace questo posto. Osservare avidamente il viavai. “E facci un sorriso, Mia”, urla alla ragazza che sta attraversando la stanza. Quando mi stravacco sulla sedia Anthony si volta verso di me e aggiunge: “So cosa la tirerebbe su”. “Del cioccolato?” dico, mentre Mia infila le monete nella macchinetta. Ci lancia un’occhiata da dietro le spalle e io le restituisco un sorriso di comprensione. È imbarazzante come Anthony non si rassegni. Fa per dire qualcosa, ma io scappo via dal tavolo, controllando nelle tasche di 14

avere dei contanti e superando Mia che, conquistata la merenda, si allontana a testa bassa. Anthony urla: “Stasera festa. Porta tua sorella”. Mia non lo guarda, non si ferma. Io infilo cinquanta centesimi nella macchinetta per prendermi un Mars e torno al tavolo, dove Anthony sta dicendo: “Mia è un tre stelle e mezza… non la ordinerei di nuovo, ma il suo lo fa”. Ancora ’sta storia. Come se avessi energia mentale da buttare per dare un voto a Mia. Anthony mi assesta un colpetto con il piede e, visto che mi ha obbligato ad affibbiarle un numero, dico: “Non so. Tre massimo”. Anthony fa: “Ci andresti, se capitasse”. “Bah.” Il suo sorriso vacilla. “Ci vediamo alle sette?” Oh. Già. Mi metto le mani sullo stomaco per soffocare il brontolio, mi mordo l’interno della guancia. Faccio un verso indistinto in direzione di Anthony. Avrei dovuto dire qualcosa settimane fa, quando è stata fissata la data della festa. In un certo senso speravo che Anthony se ne rendesse conto, si ricordasse spontaneamente che era l’anniversario della mamma, e la spostasse. Ma mi sa che si è dimenticato – non è sua mamma, dopotutto – e adesso eccomi qui, in fondo a questa fossa, che guardo in su. Dico: “Magari…”. “Andiamoci piano stasera, Ant”, dice Verme, battendomi sul tempo. “Già, certo”, sbuffo io. Verme ci andrà piano quando sarà morto. Le feste di Anthony sono leggendarie. A partire dalla seconda superiore, quando i suoi l’hanno lasciato a casa da solo la prima volta, si sono evolute passando da un’anarchia soft, per principianti – partite a sardine strafatte, cioè venti ragazzini ammucchiati nel sottoscala –, alla 15


carneficina delle ultime volte, robe da rovinarsi la reputazione. Tutti ricordano una festa dai Mansbridge o, per lo meno, il primo settantacinque per cento di essa. L’ultima volta Verme è finito a culo nudo a pisciare nella vasca idromassaggio alle nove di sera. Non l’ha ancora superata. Non l’avrei superata nemmeno io se le ragazze a scuola continuassero a chiamarmi “Cazzo di cane”. Non che sia peggio di “Verme”, ma si dice che il suo attrezzo sia più animale che umano. Verme sembra nauseato da questi ricordi. “Sai cosa? Mi sa che stasera non riesco”, dico, infarcendo la voce di toni di scusa. “Come?” Anthony mi dà un colpetto leggero alle costole. “Non fare così. Non ci puoi privare della tua compagnia solo perché ti sei divertito troppo per i cavoli tuoi ieri sera. Eddai, fai vedere chi sei.” Il giudizio nel suo sguardo mi fa arrossire il collo. “Mi sa che dovrei darmi un po’ una calmata.” “Non esiste. Chiodo scaccia chiodo, anche con le sbronze.” “Sì, ma…” “E abbiamo quasi chiuso con tutte ’ste stronzate.” Fa un gesto con la mano in direzione del paesaggio tirato a lucido attorno a noi. “L’ultima festa prima del vero ripasso e degli esami. So che questo lo vuoi festeggiare, amico.” Faccio una smorfia. Non ha senso insistere e mettere in stand-by la nostra amicizia finché va a Anthony. Può essere molto permaloso e io non ce la faccio ad affrontare questo giorno da solo. Magari lascerebbe perdere se gli dicessi perché non posso andare. Ma ci sono delle regole per i genitori morti: non parlarne più dello stretto necessario; la morte deprime. Il mio trauma è molto meno interessante per gli altri 16

di quanto lo sia per me. E poi, a parte la festa, l’altra opzione che ho è una serata con papà, a evitare l’argomento. A fingere che l’anniversario non sia oggi. A fingere che lei tornerà dal lavoro da un momento all’altro. No, se devo fingere, meglio farlo con persone che non sanno la verità. “Comunque”, dice Anthony con un’occhiata obliqua. “Che amico saresti se non mi aiutassi a festeggiare il fatto che io e Bee ci siamo lasciati?” Ecco, l’asso nella manica, la rottura. Anthony mi ha inchiodato. Ha ragione. Non si abbandona un amico che è appena stato mollato. Nemmeno se gli brucia solo nell’orgoglio. Nemmeno se ho i postumi di una sbronza colossale. Nemmeno se sono l’ultima persona che dovrebbe essere dispiaciuta. “Allora, ci vieni?” fa Anthony. Lancio un’occhiata a Verme, che sta giocherellando con la cravatta. “Spence, usa le parole, amico”, dice Anthony e poi, distratto: “Ooh, ciao, guarda un po’ qua”. “Cristo.” È ancora lei, l’idiota che mi ha rovinato la macchina, attraversa impettita la mensa come se non ci vedesse, come se non ci fossimo proprio. “Be’?” fa Anthony, notando la mia espressione. “È carina. Un tempo non ti piaceva, Spence?” “No”, rispondo troppo velocemente. “Io me la farei a sangue”, concorda Verme. “È sempre venuta a scuola qui?” “Dio benedica la pubertà”, dice Anthony. “Favoloso, eh? Un attimo prima solo tristi sfigatelle, tutte rossetto nero e ciccia, e quello dopo tutto il grasso nei loro corpi è stato risucchiato nelle tette e nel culo.” Fa uno sgradevole rumore di risucchio e si stringe il petto. 17


“Già, funziona così”, dico. “’Fanculo alla scienza, eh?” “Quattro stelle. Da lontano sembra un vero affare. La consiglierei a un amico.” “Niente stelle. Arrivata danneggiata”, mormoro io, pensando alla mia auto e alle sue cicatrici emotive. “Vado a invitarla.” “Grande, Ant”, ridacchia Verme. Io dico: “No, basta che…”. “Ehi. Festa da me stasera?” Clara si ferma. Immobile, con un Bounty scartato quasi portato alla bocca – un gusto di merda per le merendine da aggiungere ai suoi crimini –, dice: “No, grazie”. “Eddai”, le fa Anthony. “Soddisfatta o rimborsata. Vieni a una festa, quella dopo è gratis. Offerta speciale di lancio. Ti farò fare il tour guidato di persona.” Clara guarda il pavimento. Probabilmente si sente a disagio anche solo a parlare con Anthony. Lui non ha torto. Forse, un tempo, potrei aver nutrito un certo interesse, per cinque minuti. Siamo in pochi nel nostro anno. Città piccola. Bacino di ragazze limitato. E Clara non è orrenda, nonostante il piercing al naso e i numerosi dilatatori nelle orecchie ce la mettano tutta. Se Anthony mi obbligasse ora le darei tre stelle e mezza, tolti i punti per la guida e la personalità. Clara è una che non partecipa. Una di quelle che se ne sta separata dalla folla, di proposito, come se fosse lei a rifiutare noi. Una persona che tra cinque anni, quando ripescheremo la foto di classe, nessuno di noi riconoscerà. Né divertente. Né memorabile. Né niente. Persone come Clara mi fanno storcere il naso; credono di essere così superiori a noi altri, che cerchiamo tutti di fare del nostro meglio per tirare avanti. Feste, squadre sportive e comportamenti sconsiderati sono tutti parte dell’uniforme collettiva che lei si rifiuta di indossare. È sempre stata 18

così, sempre, da quando mi ricordo. A seconda del punto di vista il suo atteggiamento può essere intrigante o irritante, e io so bene quale dei due è per me. Clara alza di scatto la testa e, inspiegabilmente, si rivolge a me, non a Anthony. “No, grazie. Ho sentito parlare delle tue feste e ho di meglio da fare la sera che guardare qualcuno cagare sul tavolo o prendermi una malattia venerea.” Dà un morso a quella schifezza al cocco e se ne va, a testa troppo alta. “Se cambi idea”, le urla dietro Anthony. Sottovoce aggiunge: “Seeeh. Malattia venerea. Le piacerebbe”. Comincio a ridere, ma il dolore mi risale la schiena, un’eco dell’impatto fantasma che mi ha svegliato, e mi piego in avanti giusto in tempo per sentire Anthony ripetere: “Seeeh. Malattia venerea. Le piacerebbe”. Questa volta non rido, perché… diavolo! Ecco un déjà- vu bello pesante, di quelli che senti nei reni. È solo questo giorno che trova nuovi strani modi per prendermi a calci anche se sono già a terra.

1.2 Affronto con fatica la giornata di scuola – ora buca, filosofia, pranzo, storia, altra ora buca – ma riesco a superarla. A casa resto in piedi fuori dalla porta, chiavi in mano, occhi sulla rosa rampicante accanto alla finestra, cercando di ricordare come si chiama. Assurdo che le piante abbiano dei nomi. Assurdo che le piante ci sopravvivano. Mi riscuoto ed entro. La casa è silenziosa come una tomba. Faccio cadere lo zaino nell’angolo dell’ingresso e chiudo la porta del salotto. Non ho bisogno di vedere la nostra grande libreria 19


incassata, un tempo piena zeppa di tascabili di seconda mano dai dorsi screpolati, ora ricoperta di polvere e di una manciata dei vecchi Stephen King di papà. La cucina non è granché meglio: abbiamo un piccolo calendario ancora fermo alla fine dell’anno scorso e l’orologio sopra la porta che segna in perpetuo l’una e quindici; batterie scariche. Questo posto è una specie di set cinematografico poco convincente. Vorrei poter far ripartire le lancette, velocizzarle, farla finita con oggi, passare a domani. Invece è la solita solfa: il microonde fa ping, il tostapane fa pop e io mi siedo con i miei spaghetti precotti, una fetta di pane e una Coca con un goccio di vodka della bottiglia che ho nello zaino. Dopo lavo e asciugo per cancellare ogni traccia del fatto che ho mangiato. Alle cinque e mezzo sono steso a stella sulla moquette di camera mia, il solito ordine perfetto devastato dai detriti giornalieri, libri, portatile, appunti di ripasso su Nietzsche, come se studiarlo una volta non fosse già stata una sega mentale sufficiente. Dalle casse geme Black Hole Sun. Ho lo sguardo fisso nel vuoto quando sento i passi attraversare strisciando l’ingresso e – ci risiamo, sempre uguale – c’è una pausa prima che bussi alla porta. Chiudo di scatto il portatile su tre faccine sorridenti. Appare la testa di papà. Dietro le lenti ha gli occhi castano scuri sfocati, la fronte corrugata. Esita. “Che c’è?” Si strofina il lato del naso. “Com’è… ehm… com’è andata la giornata?” Mi stringo nelle spalle. “La tua?” “Oh, sai. Gestibile. Una di quelle un po’ toste, a essere sincero, James…” dice. “Volevi cenare? Vado…” “No, ho mangiato da un amico.” “Bene.” 20

“Già.” Fisso la moquette. Una di quelle un po’ toste. Cristo. Gestibile. Mi si chiude la gola. “Ieri sera eri da Anthony, giusto?” “Eh, sì”, mento. Ieri sera mi serviva spazio. Ieri sera sono stato da solo, ho evitato papà. Ieri sera mi sono riempito di birra fino ad affogare ogni pensiero su di lui o su mamma o su questo posto o su qualsiasi altra cosa. Ieri sera ho parcheggiato nell’angolo più sfigato del parcheggio della scuola perché non sapevo in che altro posto andare che non fosse inquinato da lui o da questa schifosa giornata di merda che non volevo veder arrivare. Sarebbe imbarazzante, ma per fortuna papà non ha idea di dove sono stato, la sua mente più che essere assente è emigrata. Nessun recapito di inoltro. Papà non si accorge della bugia. Finito con le domande vuote, fa per voltarsi, e io mi vedo di nuovo da solo nella stanza. Immagino che si allunghi per tutta la notte. Ho, in maniera chiarissima, una visione di questo momento l’anno scorso, quando mi sono reso conto che il mondo non sarebbe stato più lo stesso. Quando ho passato in rassegna ogni piccola cosa che una persona morta non farà mai più, proprio come le domande inutili di papà: andare a casa di un amico, cenare, lavarsi i denti… “Poi esco.” Alzo la voce così mi sente. “Festa da Anthony.” “Oh…” Fa di nuovo capolino. “Oh.” Aggrotta la fronte. “Stasera?” Annuisco. Attendo. Quasi mi aspetto della resistenza. Quasi la voglio, perché chi mai andrebbe a una festa in una giornata come questa? Ma la porta si richiude e questo è quanto. Riapro il portatile. Lo sfondo del desktop siamo noi – una foto di lei, me e papà –, tutti sorridenti, come una 21


famiglia felice da scatola dei biscotti. Non riesco a ricordarmi il suono della sua risata. “Inutile, eh?” mugugno. Va bene, davvero. Papà non vuole che stasera ciondoli per casa a ricordargli lei. Io e papà ce la caviamo meglio separati. Viviamo su un terreno instabile, due tessere di domino vacillanti, destinate al disastro. Se siamo troppo vicini e uno dei due crolla, crolliamo entrambi. Spengo la musica e faccio partire un episodio di una serie, su cui non riesco a concentrarmi. Il mondo è di nuovo finito e sono rimaste solo le persone sexy. Guardo finché non mi si anestetizza il cervello. Parte in automatico un altro episodio. Il tempo scivola via in blocchi di trenta minuti finché è ora di vestirsi e di andare a ’sta maledetta festa. Urlo un saluto ed esco prima che papà possa rispondere. In macchina, mentre mi stacco dal marciapiedi, mi esplode il mal di testa. Mi pulsa nelle ossa. Boom, boom, boom, come il ticchettio di un orologio. Come un conto alla rovescia. Facciamo le feste da Anthony per un solo motivo: casa sua. È fuori dalla nostra cittadina, giù vicino ai paesini chic, lungo una di quelle tortuose stradine di campagna su cui le auto scivolano troppo veloci e dove alte siepi nascondono bestie di mattoni. Case grandi, giardini ancora più grandi, macchine lucenti, allevamenti amatoriali di galline e cani grossi come cavalli. Punteggiano la campagna come se la nostra città le avesse sputate via. Snobismo fino all’orizzonte. Quella di Anthony è la mia seconda casa da quando i Mansbridge sono sgusciati qui sette anni fa, fuggendo l’ostilità di Londra. Il signor Chiamami-Dom Mansbridge era braccato dalla stampa per aver escogitato non so che schema offshore di “gestione patrimoniale”, dove accan22

tonare i milioni extra delle semicelebrità. Niente di illegale ma, come papà ha borbottato con disapprovazione sopra la sua tazza di caffè, “non nello spirito britannico”. La faccia del signor M a volte finisce ancora sui giornali, perciò i Mansbridge sono la cosa più simile a delle celebrità per gli standard della nostra città. Non c’è da stupirsi se queste feste sono imponenti. La notorietà. Il glamour. I genitori assenti. Sul ripiano di marmo della cucina c’è l’alcol: roba da pochi soldi e roba rubata, birra, liquori, sidro. Bottiglie di prosecco portate da ragazze che si fingono eleganti. Tutt’attorno, un bel mix di sconosciuti e di ragazze del quarto anno troppo carine per filarti. Io faccio come fossi a casa mia. Bevo. Verso. Bevo. Finché ho ancora un po’ di coordinazione prendo la chitarra dalla macchina e suono per la gente in giardino. Solo classici, cose che perfino i genitori potrebbero cantare. Gli spettatori diventano un pubblico; qualcuno si unisce. La folla è il motivo per cui ho imparato a suonare, la ragione per cui ho implorato di poter seguire delle lezioni dopo aver mollato il violino. Mamma diceva che non avrei avuto costanza nemmeno con la chitarra, ma aveva frainteso il fascino di diventare musicista il giorno che per me aveva scelto il violino. Dubito che avrei ammaliato le folle cantando Brahms a squarciagola. Passo a qualcosa di meglio, One More Cup of Coffee, ma nessuno sa le parole. “Santo cielo, stai cercando di spingerci tutti a tagliarci le vene?” chiede Bee, collassando accanto a me e facendo volare spirali di capelli biondo fragola. “Non ne conosci nessun’altra?” “Given to Fly?” propongo. “Sempre così tetro. Intendo qualcosa di un po’ più allegro, tesoro. Cosa mi dai?” Bee ammicca con le sopracciglia. Due battute di un silenzio intenso, strano. 23


Ridacchio, mi passo una mano tra i capelli e dico: “Solo marce funebri. Devo rispecchiare il mood”. Lei prende la chitarra, tamburella qualcosa sul fianco e canta una strofa degli Arctic Monkeys, poi si ferma e mette il broncio. Il mio stomaco fa una capriola. Bee è un essere umano adorabile, cazzo. È anche tutta simmetrie, lunghe gambe e lunghe ciglia. Da liceali sofisticati come siamo, il fatto che sia così figa è uno dei motivi principali per cui la gente la ama. E con “gente” intendo chiunque, compreso Anthony fino a cinque giorni fa. A proposito di questo: “Non è un po’ da insensibili essere qui?” Lei sbuffa, scostando una manciata di riccioli mentre i suoi braccialetti suonano le percussioni. “Dio, non staremo facendo finta che a Anthony importi qualcosa dei recenti avvenimenti, vero?” “Mi sa che si riprenderà.” “È il suo piano preciso, secondo me. Sempre che riesca a trovare un corpo caldo che non ha già ‘preso’.” Mi stringo nelle spalle. “Di sicuro non una delle mie decisioni migliori”, fa lei. Per uno sconvolgente momento credo che si riferisca al fatto di aver mollato Anthony, ma poi seguo il suo sguardo fino a dov’è lui, in piedi oltre le porte della cucina, con le spalle che sobbalzano, la bocca spalancata. È vestito di rosa e azzurro, in tinta con la battutaccia che sta raccontando, qualunque sia. “Già”, dico io, con troppa enfasi. “Di tutti i ragazzi…” Sul viso di Bee si apre un sorriso. “E quali altre opzioni disponibili avevo, piccolo Spence?” Faccio uno strano rumore gutturale. Bee le conosce benissimo le altre opzioni, dannata lei. Mi piglia per il culo. Riprendo di scatto la chitarra e passo il pollice sulle corde, per farle gemere. 24

Bee estrae un lecca-lecca alla Coca-Cola da una tasca nascosta. Me lo mette in bocca, si alza in piedi, si toglie dei pelucchi dalle cosce e mi tende una mano. Entriamo e mi rendo conto che ho di nuovo perso un’occasione perfetta per parlare da solo con Bee, miserevole bastardo che sono. Invece vengo cooptato in inutili giochi alcolici nei quali riverso segreti e liquidi. Prima ancora che il lecca-lecca alla Coca che ho in bocca si dissolva sono sbronzo. Bevo. Verso. Bevo. Ballo male e mi lancio in battute che sono ancora peggio. Bevo. Il mondo accelera. Bevo. Nemmeno le undici e tutto ha preso una certa piega. Fuori, Mia Turner è afflosciata su una panchina del giardino illuminata ad arte da faretti dorati. Si tiene indietro i capelli scuri e mossi e vomita in una fioriera. All’estremità opposta, per niente turbati dallo spettacolo offerto da Mia, due persone limonano. Poi c’è Lana, che in pratica sta cavalcando Shaun contro la parete della casa, e Felix, subito dentro, che si sta scolando birra da un imbuto. Il pavimento è scivoloso e da angoli bui arriva un’aria viziata di canne. Il salotto si è disintegrato in rumori e colori e caos. Corpi gli uni contro gli altri, senza coordinazione, senza un ordine. Alcuni salgono e altri scendono. Alcuni agitano le mani e altri ondeggiano. L’aria puzza di alcol e deodorante da quattro soldi. Il ritmo della festa pulsa contro i muri e mi drena le energie. Sono stanco di tutto, adesso, vorrei solo far smammare tutti a casa. Mi chiedo perché mai sono venuto. Il mio campo visivo è tutto angoli morbidi. Ho la mano appiccicosa per via di un drink mal calcolato. Mi inoltro nella muraglia di jeans del salotto, cercando di individuare una faccia amica. Urto il tavolino con gli stinchi e ho fortuna. Verme, mezzo affogato nella pelle marrone del divano. Scosta la testa quando mi rovescio accanto a lui. 25


“Bene, Verme. Tutto a posto?” Dai cuscini arriva un grugnito indistinto. “Non è che ora vomiti sul divano?” Un altro grugnito. “Vuoi dell’acqua?” Volta la faccia verso di me, i tratti distorti. “Tutto quello che voglio, cazzone, è essere lasciato da solo a morire.” “Bene.” “Come una tigre sconfitta nel Serengeti.” “Le tigri non vivono nel Serengeti, amico.” Gli prendo gli occhiali e glieli rimetto sul naso. Lui comincia a gemere, a borbottare non so cosa su David Attenborough, mentre con le dita sottili si strofina gli occhi sotto le lenti. Gli do un colpetto sulla spalla e consiglio di farsi un sonnellino come l’animale nobile e orgoglioso che è, anche se somiglia più a un suricato ferito che a un maestoso predatore. Rotola di nuovo dall’altra parte. Mi siedo su di lui per orientarmi. La mia attenzione viene attirata da qualcosa in un varco tra la gente. Capelli neri che ondeggiano, un orecchio scintillante. Mi metto in piedi sul divano, a cavalcioni della testa di Verme, per spiare da sopra la folla. A quanto pare Clara Hart non aveva niente di meglio da fare stasera, dopotutto. È qui – là – che balla nella mischia. Il vestito con le spalline tutto abbassato sul davanti, così le si vede il petto bianco, un lampo di pizzo nero. Clara balla come la gente dice sempre che desidererebbe saper ballare, tutta membra sciolte e occhi chiusi, come se nessuno la stesse guardando. Tiene le braccia sopra la testa, ruota il mento sotto i capelli umidi. Si rovescia addosso il contenuto del bicchiere e lo schizza sulle persone attorno a lei. A occhi chiusi non si accorge delle occhiatacce che le lanciano, di come tutti la evitano. Ma io sì. Non sapevo che a Clara piacesse ballare. Non sapevo le piacessero le feste. 26

Mi porto il bicchiere alle labbra e bevo fino a vuotarlo. Anthony si fa largo tra la folla. Si ferma, e Clara si volta verso di lui. Incrocia il mio sguardo e mi indica. Mi fa un cenno. Ma Anthony le mette le mani sui fianchi. Ovunque. Malattie veneree? Le piacerebbe… Ridacchio, ma è una risata secca e stridula. Clara continua a guardarmi, ma chi se ne fotte. Vado a prendermi un altro drink.

1.3 Drink individuato, fatto sparire, rimpiazzato. Barcollo, pisciata, cerniera. In fondo alle scale un foglio di carta dice: NON PENSARCI NEMMENO, STRONZO Io ci penso. Lo supero barcollando e mi trascino di sopra agganciato al corrimano. Il piano superiore è off limits per via della lussuosa moquette color crema, e il fatto che tutti rispettino quel cartello dice molto di quanto la gente adori le feste dai Mansbridge. O di questo, oppure di quanto poco vogliano farsi cacciare a pedate. Ryan ha imparato la lezione a sue spese l’ultima volta, quando Anthony ha staccato la musica e l’ha fatto sloggiare. Prima lo ha obbligato a umiliarsi per bene, però. Uno spettacolo niente male. In ogni caso quassù non c’è nessuno. Proprio nessuno. Nemmeno le anime disperate in fila per il bagno. Le ho notate venendo qui, una sfilza di vesciche sulle spine, ragazze che stringevano le gambe ed entravano in gruppo, come se con un pubblico si pisciasse più in fretta. 27


Il cervello mi sciaborda contro il cranio. Riesco a malapena a stare dritto. Mi serve un posto dove nascondermi, dove posso chiudere gli occhi senza perdere un sopracciglio o venir sfregiato dal disegno a pennarello di un cazzo. Ci son già passato e ne ho già disegnati due volte, che vergogna, eh? Ma quando apro la porta della camera di Anthony lui è lì, vicino al letto, nel buio. Accendo la luce e lui fa un salto. “Oh cacchio, amico.” Sospira di sollievo e torna a frugare nei cassetti. “Pensavo che fossi un trasgressore.” In camera di Anthony sembra che siano passati i ladri, vestiti ovunque, tazze e piatti impilati su ogni superficie. Accanto ai miei piedi una pila di vestiti sporchi. Mi piego barcollando per raccogliere un calzino. Dico: “Cazzo sì. Sono un ribelle”. “Esagerato un po’?” “Ant. Anthony. Tutti apologeti del cazzo di sotto.” Gli lancio un’occhiata. Sa cosa intendo. “Uh-hu”, fa. “Sai cosa ti serve?” Si raddrizza, gira la mano e mi fa vedere. Cosa? Non riesco a mettere a fuoco. Pillole o polverine o chissà cosa. Faccio un passo indietro. “No. No. Io no.” “Ti caghi sotto? Ti darebbe la carica. Forse.” Anthony passa in rassegna quello che ha. Forse mi cago sotto davvero. Forse mi perdo delle cose perché gli insegnanti hanno messo una paura fottuta al piccolo Spence di dodici anni, raccontandogli che basta una volta sola per morire. Ma quando sto per fare un passo avanti e per una volta dire di sì, per tendere la mano e accettare qualsiasi cosa mi venga offerta, ho un flash di mamma nella mente, la delusione dipinta sul viso mentre io mi svuoto lo stomaco sulla porta di casa dopo un primo esperimento fallito con la vodka. Questo lei lo odierebbe e io odio il fatto che lei lo odierebbe. 28

Anthony dice: “Metti già nel tuo organismo un sacco di schifo. L’alcol ti uccide più in fretta”. “Tanto moriamo tutti.” “Già, ok.” Anthony rimette la roba nei cassetti. “Pensi di chiuderla qui con la festa?” “No.” “Vuoi sdraiarti un po’?” “Ti prego.” Anthony mi accompagna nella camera di suo fratello, ordinata e vuota da quando Eric è partito per l’università cinque anni fa. Ormai lo vediamo solo online. Anthony mi fa sdraiare sul copriletto. Mi toglie gli stivali e io mi scuso per averli ancora ai piedi – la moquette, Cristo, animale che sono! Il soffitto ribolle, ma quando chiudo gli occhi il buio accelera. Meglio aperti. “I pantaloni lasciameli, che cazzo”, dico, scalciando non appena Anthony mi tocca i jeans. Lui alza le mani. Io mi giro di pancia. Non so perché gli amici sono subito pronti a spogliarti quando sei ubriaco. Come se svegliarsi con addosso i jeans, la pelle raggrinzita e le palle irritate fosse peggio che svegliarsi senza un cazzo di vestito addosso. Mi risveglio dopo un po’. Sempre in camera di Eric. Sempre vestito, con la pelle raggrinzita e le palle irritate e tutto il resto. La musica rimbomba, le risate salgono su dalle scale, un sacco di chiacchiere, di urla e il rumore della vasca idromassaggio. Giù nell’ingresso sbatte una porta. Controllo il cellulare: è appena passata mezzanotte. È imbarazzante essere stato spedito a fare un pisolino così presto. Per lo meno significa che è un nuovo giorno, nessun anniversario di niente. Salto giù dal letto, lasciandomi quel peso alle spalle. Il timer è ripartito. 29


I miei stivali sono per terra, scarpe autocalzanti che non riesco a calzare senza usare le mani. Li ignoro e mi metto in piedi sulle gambe deboli. Controllo di nuovo il cellulare mentre percorro il corridoio. Anthony e Verme si sono dati da fare. Selfie nella chat di gruppo di loro due che leccano guance di ragazze. Vecchio trucco. Le ragazze colte di sorpresa ci cascano sempre, ma magari in segreto gli piace. Una ha la didascalia: “Sa di gallina”. Ci sono foto di Clara. È devastata. Palpebre pesanti, spalline del vestito giù, pelle velata di sudore. Un solo movimento sbagliato e le si sarebbero visti i capezzoli. Quand’è stato? Mezz’ora fa. Clara Hart, chi se lo aspettava? A quanto pare sa come ci si diverte. In cima alle scale sento una risatina soffocata. La porta della camera di Anthony è chiusa, ma riconoscerei ovunque la risata sporca di Verme. Armeggio con la maniglia e spingo. La serratura gratta, ma non cede. “Verme.” Do una manata sul legno. Ancora e ancora, e poi ci appoggio contro la testa. “Ehi, viscido bastardo. Meglio non fumare lì.” Il clangore della serratura che scatta. Ci metto la mano sopra e spingo. Si apre, di pochissimo, poi mi sbatte contro, forte. “Che cazzo?” “Spence?” La voce di Anthony. “Apri la porta, testa di cazzo.” La socchiude. Appaiono la sua testa e un braccio, il gomito contro lo stipite a bloccare l’accesso. “Ti spiace?” dice. “Sono un po’ occupato, se capisci cosa intendo.” “Ah sì?” Questa è una stronzata bella e buona, perché so che ho sentito Verme. A meno che Anthony non voglia un po’ di privacy con lui, nel qual caso do alla sua 30

patina di eterosessualità aggressiva cinque stelle per lo sforzo. Cerco di spingere, di fare spazio. Anthony barcolla. La vedo. Giusto un lampo. Lì, sul letto. Troppa pelle. Parti di lei che non avrei mai pensato di scorgere. La porta torna a chiudersi. Anthony occupa l’apertura. “Mi dai un minuto?” “C’è Verme lì dentro?” “No.” “L’ho sentito.” “Non c’è.” Lo fisso. “Cosa…?” “Spence, amico, devi andartene fuori dai…” spinge la porta con forza e io barcollo all’indietro, nel corridoio “…coglioni”. La serratura scatta. Fisso la porta, non troppo sicuro di cos’ho visto. Nemmeno di chi. Non era… non era Clara Hart. Scendo di sotto. Mi siedo su un divano. La gente entra ed esce ballando dal mio campo visivo. Nessuno ci rimane. Nessuno fa domande, perché che domande potrebbero farmi? Mi alzo, mi verso da bere. Mi porto il drink al divano e mi risiedo. Tamburello con il dito contro il bicchiere. Bevo un altro po’; il mix alcolico è forte e mi scalda. Vorrei poter fermare i pensieri. Vorrei non averla vista sdraiata a gambe aperte così; è sbagliato. Imbarazzante. Non ha nemmeno cercato di coprirsi. ’Sta cazzo di Clara che mi sveglia, mi urta la macchina, conquista la festa. Non mi vuole lasciare in pace. Ed era lei, ne sono quasi sicuro. Mi strofino gli occhi finché non diventa tutto caldo e il mondo si frantuma in schegge. Non riesco a credere che Anthony l’abbia rimorchiata. 31


Domani sì che morirà di vergogna. Cosa importa quanto è divertente ora, Clara è un ripiego del cavolo rispetto a Bee. Verme ancora ancora. Verme ci andrebbe, senza problemi… sempre se là dentro c’era lui. Parli del diavolo. Verme si butta a sedere sul divano, gli occhi stravolti. “Ehi ehi, Spence! Fatto sonnellino?” Lo fisso. “Clara Hart? Sul serio?” “Amico, era a caccia.” Ha un’espressione allegra. Spavalda. Mi sa che mi farebbe l’occhiolino se non avesse perso ogni capacità di coordinazione. È il suo sguardo, più che le sue parole, a farmi scattare. “Schifoso.” Verme incurva le labbra preoccupato. Scendono e si piegano l’una sull’altra, schioccando come carne cruda. “Eddai. È una festa.” “Non mi dire?” Di colpo gli torna il sorriso. Alzo lo sguardo sul soffitto come se potessi vederci attraverso, vedere quello che sta succedendo dall’altra parte. Torno su Verme. La sua stupida faccia, gli occhiali spessi. “Ti stai divertendo, fratello?” chiede mentre armeggia con cartine e tabacco. Mi riscuoto. Dai. È una festa. È Verme. È Anthony. Che problemi ho? Faccio un verso di disapprovazione, a voce alta, scaccio dal cervello questi pensieri sleali già formulati per metà. Loro sono i miei migliori amici. Io sono un coglione. “Le ragazze”, dico, e il mio sospiro mi prosciuga. “Perché sono un tale casino?” “Merda, puoi dirlo.” “Già”, concordo. Verme fa un sorrisetto. “L’hai vista che ballava prima? Completamente andata.” “Scommetto che domani si sentirà una cazzona.” 32

“Un cazzone stasera l’ha sentito.” Verme fa una risatina, bassa e sporca. “Come no.” Sento sapore di vomito. L’ho vista, là sul letto. Non è niente. Questa giornata mi sta rendendo paranoico, rende tutto troppo grande. Mi serve una regolata, mi serve… “Sai cosa mi serve?” dico. “Mi serve che mi fai sballare. Subito, cazzo.” Verme rolla. Io lo guardo nervoso, gli occhi sbarrati. Mi chiedo come cavolo è successo che i problemi di Clara siano diventati i miei, penso a quanto mi sentirò meglio quando mi sarò fatto una canna e avrò bevuto e lei se ne tornerà di sotto dando il cinque alle sue amiche perché ha trascorso trenta minuti con il tizio più popolare della scuola. Se non altro mi sentirò meglio dopo aver fumato, bevuto cinque drink e dormito. Tutti i problemi cancellati: i suoi, i miei, quelli di tutto il mondo. Tamburello con i gomiti sulle ginocchia quando si sente un rumore nell’ingresso. Un colpo e un rimbombo. Brutti suoni. Oltre lo schienale del divano ho una buona visuale sulla porta aperta. Che inquadra la base delle scale, e Clara. Ha le gambe dritte, mezza sul pavimento, mezza sulle scale. Mi alzo in piedi. Lancio uno sguardo a Verme, che ha gli occhi sulla canna. Clara ha il vestito incastrato attorno ai fianchi e le si vedono le mutande, di pizzo nero. Barcollo, instabile, come se fossi io e non Clara a essere appena piombato giù dalle scale come un sasso. Dovrei andare da lei, aiutarla a rimettersi a posto il vestito, ma toccarla mi sembra sbagliato, perciò resto in piedi, inutile. 33


Non riesco a staccarle gli occhi di dosso. “Oddio, Clara.” Bee la raggiunge in un lampo e le si accuccia accanto, aiutandola a mettersi seduta, lisciandole il vestito. Mi avvicino con tutta la nonchalance possibile prima di rendermi conto che Bee mi sta fulminando con lo sguardo. La nonchalance è la strategia sbagliata. “Sta bene?” chiedo. “È caduta giù dalle scale.” “Eh sì.” “Ti fa male la testa, Clara? Dove ti fa male?” chiede Bee, e Clara la fissa, gli occhi come due finestre vuote. “Bevuto un po’ troppo?” mi intrometto, e Bee mi lancia un’occhiataccia. “Anthony è ancora di sopra?” Clara scuote la testa. “Fatele tutti un po’ di spazio”, grida Bee, anche se nessuno le sta prestando attenzione. “Tutto a posto laggiù?” In cima alle scale appare Anthony, che ci guarda dall’alto, illuminato da dietro come una specie di essere onnipotente. Scende di un paio di scalini. Ora anche altre persone cominciano a rendersi conto della situazione, attirati dall’urlo di Bee. Si accalcano sulle porte, sbirciano da dietro gli angoli, si spostano nell’ingresso. Esitano, non abbastanza vicini da poter essere accusati di voler aiutare, ma abbastanza per vedere cosa sta succedendo, e permettermi di cogliere i loro sussurri. “Com’è messa…” Clara alza di scatto la testa. “Vado a casa.” “Oh cielo, non dire sciocchezze, non ti ha vista nessuno”, dice Bee. “È stata solo una caduta da niente.” Clara riesce a rialzarsi, barcolla fino al portone e lo spalanca con foga. “Dove stai andando?” chiede Bee. “A casa.” 34

“No, Clara, non puoi guidare in queste condizioni, tesoro, sei ubriaca.” Clara fa guizzare lo sguardo attorno a sé, studia tutti i punti vuoti. Poi si stringe le braccia attorno al corpo, così forte che è come se stesse cercando di scomparire. “Vado a piedi.” “Cos…?” “Scusa, devo proprio andarmene”, dice dalla porta aperta, guardando verso l’interno. Occhi umidi e bocca troppo serrata. Ha le braccia bianche, chiazzate di rosso dove se le è strette con troppa forza. “Dille che non può.” Bee si rivolge a me e io rispondo con un’alzata di spalle. Clara imbocca il vialetto e Bee la segue. Io resto sulla soglia con Anthony. “Tutto a posto, amico?” mi chiede lui. Guardiamo le ragazze. “Clara, dove stai andando?” urla Bee. Clara accelera sempre di più sulla ghiaia. Corre e inciampa, fa uno scatto e un urletto, ma non cade. Esce correndo dal cancello e si ferma. Non può andare da nessuna parte. Non c’è marciapiede, non c’è luce. Il tempo si dilata e rallenta, preme su questo istante. Vedo Clara, là fuori nel buio, e Bee che le si avvicina. In un lampo Clara si illumina. Bee urla. Tutto accelera. C’è un’auto nel punto in cui Clara era in piedi e Clara non c’è più. Niente ha senso. La ghiaia gratta. Un fiotto d’aria fredda nella mia bocca. I pugni stretti fino a diventare bianchi. E poi sono sulla strada e ci sono vetri infranti e fanali rotti e un piede nudo piegato a un’angolatura sbagliata e io non voglio vedere. Non voglio vedere. Ma no, non riesco a chiudere gli occhi.

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