Antonio Sandri
RACCONTI BREVI
Suora di clausura Il cercatore d’uova Il barbone, i ragazzi e la maestra
SUORA DI CLAUSURA
SUORA DI CLAUSURA Mauro Argemi, Anni 23, E’ stato tolto alla sua famiglia, alla fidanzata, agli amici, da una improvvisa disgrazia. Gli annunci di morte non sono né belli né brutti, sono tutti eguali poiché non riescono ad andare di là dalle parole. L’unica indicazione che li rende diversi l’uno dall’altro è l’età. Ventitré anni sono veramente pochi per morire. La Chiesa non riuscì a contenere tutti coloro che corsero per dare l’estremo saluto a Mauro. Vi erano i familiari, i compagni di scuola, gli amici, qualche insegnante ed anche parecchi ospiti ed operatori della Residenza degli Anziani dove era morto. Furono eseguite, accompagnate dalla chitarra le canzoni che spesso Mauro aveva cantato assieme a quegli stessi che adesso le cantavano per lui: Quando busserò alla tua porta, Tu sei la mia vita; Nostra Signora del cammino. Nella omelia il Sacerdote raccontò che cosa era successo. Mauro faceva parte di un gruppo parrocchiale che aveva scelto come servizio l’assistenza agli anziani nelle Case di Riposo. Ad ognuno veniva affidato un ospite anziano che l’interessato adottava. Non lo sceglievano loro: accettavano quello che sarebbe toccato in sorte. Voleva significare la disponibilità, l’accettazione e l’obbedienza. A Mauro era toccata una signora, autosufficiente e piena di vita. Si chiamava Sandra. Andava a trovarla regolarmente ogni sabato e, qualche volta durante la settimana, se l’Università gli lasciava un po’ di tempo. Era iscritto a Ingegneria e aveva superato senza difficoltà il biennio. Alla fidanzata, ventenne, iscritta al primo anno in Biologia, era toccato in sorte un anziano in carrozzella, già colpito da demenza senile. Andrea si era affezionato a Sandra. Lei gli raccontava i dispetti che faceva alle altre ricoverate. Le considerava avversarie. Era gelosa, ma in compenso possedeva una ironia innata che rivolgeva tanto verso se stessa che verso gli altri. Lui le parlava dei suoi esami e della fidanzata. Sandra fu colpita da un ictus e si trovò ridotta in carrozzella, ma quel che è peggio, non riusciva più a parlare e faticava a riconoscere le persone. Mauro
continuò a starle accanto, a raccontargli della sua vita, anche se lei, il più delle volte, non si accorgeva nemmeno della sua presenza. In una stupenda giornata di primavera, un po’ ventosa, Mauro era seduto accanto a lei. L’aveva portata all’aperto, parcheggiando la carrozzella vicino al muro per proteggerla dal vento e si era seduto accanto a lei. Le parlava dell’ultimo esame e di come se la era cavata piuttosto bene, quando una losa si staccò dal tetto e lo colpì alla testa. Mauro cadde sul prato, morto. Sandra nemmeno se ne accorse. Solamente dopo parecchi minuti, una infermiera, passò lì vicino e vide cosa era successo. Una grande tragedia: la morte aveva scelto una giovane vita e aveva preservato quella più vecchia, malata. Ci furono i funerali. Fu una cerimonia commovente, Conclusa l’omelia del sacerdote, si celebrò il rito della benedizione della salma accompagnata dal canto “In paradisum deducant te, angeli” ed, infine, si elevò, alto e struggente sotto le volte della navata, il grido pieno di speranza: “ Io credo, risorgerò, questo mio corpo vedrà il Salvatore” Cristina, la fidanzata, non cantò, non accompagnò i canti con la chitarra come soleva fare quando Mauro era vicino a lei, non si alzò alla proclamazione del Vangelo, né alla consacrazione e nemmeno alla benedizione. Stette seduta rigida su di un banco, in terza fila, circondata dagli amici. Finita la funzione non accompagnò la salma al cimitero. Rimase seduta, con gli occhi lucidi, fissi sul Tabernacolo. Non rispose a nessuna domanda, né alle condoglianze. Rimase immobile, finché tutti se ne furono andati. Non si vide più in Parrocchia, né in alcuna altra parte. Per questo la notizia giunse inaspettata. Erano passati sei mesi e Cristina invitò tutti gli amici in Parrocchia, perché voleva parlare a loro e salutarli. Nessuno mancò. “Grazie di essere venuti. Volevo salutarvi. Mi faccio suora di clausura e, probabilmente, non ci vedremo più su questa terra.” Parlava sottovoce in maniera tranquilla, con gli occhi fissi davanti a sé, guardando tutti e nessuno. “Quando Mauro è morto, volevo suicidarmi. Senza di lui il mondo aveva perduto ogni significato. Ho chiesto il perché della sua morte. Alcuni mi risposero: è il destino, siamo nelle sue mani. Significava che non vi era nessun perché. In un mondo che termina con la morte, non esiste una spiegazione che abbia un valore. Altri: è la volontà di Dio, bisogna farsene una ragione ed accettarla. Al prete che mi aveva dato questa risposta ho urlato che di un Dio che manifestava la sua volontà troncando un amore, non poteva pretendere la mia fede e tantomeno il mio amore. Un altro mi disse: è il mistero della misericordia di Dio. Troppi misteri, anche se è vero che da qualsiasi parte tu vada prima o dopo incontri il mistero. Talvolta sotto il mistero si nasconde il Male . Il mistero, rispetto al destino, dice che esiste qualcuno, Dio, al quale si può chiedere il perché. Mi faccio suora di clausura per conoscerLo a fondo in questa vita ed essere sicura di poterLo interrogare nell’altra. Voglio sapere il perché e Lui mi deve rispondere. Ho amato Mauro con tutta me stessa, non sono stata sua solo perché non me lo ha chiesto.
Queste mani gli hanno dato piacere così come le sue hanno dato piacere a me. Sono ancora su di me. Cristo, che si è fatto uomo per amore, queste cose le conosce. Gli porto in dono anche questi piaceri che ci siamo scambiati. Ora la mia strada mi conduce lontano da voi. Non importa che voi mi ricordiate. Si ricordano le cose passate, che non sono più. Sarò vicina a voi nella preghiera e voi siate vicini a me nello stesso modo.” Si alzò e, con la testa china e gli occhi abbassati, uscì dalla stanza.
IL CERCATORE D’UOVA
IL CERCATORE D’UOVA C’era una volta un uomo che amava molto le uova degli uccelli, senza distinzione di famiglia, genere e specie. Nemmeno faceva distinzione di taglia grossa o piccola e del paese da dove provenivano. Amava le uova, perché dentro di loro c’era racchiusa la vita, la possibilità di vita. Poiché se non c’è possibilità, non c’è nemmeno vita. Amava quelle uova da cui la vita sarebbe poi esplosa in forme, colori, suoni meravigliosi che lasciava stupefatta ogni persona che si fosse soffermata, anche solo un po’, a contemplare quanto erano belli gli abitanti di questo mondo. Per questo le raccoglieva. Aveva pensato a lungo se doveva raccogliere uova fecondate, ma aveva deciso di no: - Essere fecondate è già essere determinate. Non fecondate, lascia aperta ogni possibilità di vita. Non si sa mai! Partiva la mattina con un grande sacco e si attardava per prati, monti e valli, lungo i torrenti, dentro i canneti e nella spiaggia del mare. Ogniqualvolta trovava un uovo lo raccoglieva e lo metteva nel sacco. Con delicatezza e rispetto. Raccolse uova di gallina, di faraona e, poi, di anatra, di fringuelli, di tordi e corvi. Anche uova di aquila ed uno di struzzo trovarono posto nel suo sacco. Il sacco diveniva sempre più pieno e più pesante da portare e, quindi, decise di tornare a casa, con tutta quella vita in nuce stipata dentro il sacco. Giunse a casa, stanco ma felice. Aprì il sacco e gettò un urlo di orrore. Il peso delle uova poste una sopra l’altra le aveva schiacciate. Anche i gusci delle uova dell’aquila e dello struzzo, le ultime e le più preziose, si erano rotti.
Anche il suo cuore, che tanto aveva bramato possedere le vite che potevano crescere dentro le uova, si era trasformato in quella poltiglia che non aveva più nome né identità. Per un anno rimase sconsolato a guardare, dalla finestra della sua capanna, la foresta e la vita che vi brulicava. Vedeva i colori, sentiva i suoni, ammirava le forme, ma queste non gli appartenevano. Erano là, fuori. Finché un giorno trovò la maniera di tornare ad essere un cercatore di uova. Si disse che era stato uno stupido a voler assiepare tutte quelle uova in un sacco. Si disse che le uova, come la vita, avevano bisogno di spazio e partì in cerca di uova, senza alcun sacco sulle spalle. Trovato un uovo, tornava immediatamente a casa e lo poneva, con delicatezza ed amore, su di un asse che aveva infisso appositamente nel muro della sua capanna. Fu un impegno lungo e faticoso, ma molto soddisfacente. Ogni qualvolta depositava un nuovo uovo, si sentiva felice, avvertiva tutta quella possibilità di vita, disposta ordinatamente sull’asse, vibrare dentro di sé. In verità, la vera asse, dove venivano depositate quelle uova, era il suo cuore. Un giorno, entrando in casa, fischiettando felice poiché aveva raccolto l’uovo rarissimo del colibrì del Pantanal, cominciò ad avvertire un brutto odore. Pensò fosse dovuto alla poca circolazione dell’aria. Aprì le finestre e ripartì alla ricerca dell’uovo ancora più raro dell’uccello paradiso dell’isola di Tasmania. Ritornò, dopo alcuni giorni, senza avere trovato traccia del più stupendo volatile che ci fosse sotto il sole, pur essendosi spinto fino alle lontane foreste della parte australe del mondo. L’odore era aumentato e cominciò a preoccuparsi. Esaminò, con cura, tutte le uova che facevano bella mostra di sé nell’asse a loro riservata. Anche in quella che aveva disposto per loro nel suo cuore. Man mano che procedeva nell’esame, il suo cuore cessava di vivere. Continuava a battere, ma solo per inerzia, senza diffondere gioia. Le uova erano morte. Stavano marcendo. Il cercatore di uova non andò più a cercare. Per due volte aveva pensato di essere riuscito a raccogliere le innumerevoli possibilità di vita racchiuse nelle uova, per due volte aveva fallito. La vita gli era morta nella capanna e nel cuore. Nessuno ebbe più notizia del cercatore di uova che abitava in una capanna al limitare della foresta. Nessuno seppe quello che ancora fece, se lo fece, per raccogliere e possedere possibilità di vita.
IL BARBONE, I RAGAZZI E LA MAESTRA
IL BARBONE, I RAGAZZI E LA MAESTRA Non aveva scelto di fare il barbone, c’era scivolato dentro. Così perlomeno riteneva. Quando gli chiedevano perché lo era divenuto, non rispondeva e pensava all’albero della cuccagna. Quando era giovane, in occasione della sagra del paese, in mezzo ad un prato si impiantava un palo della luce, si cospargeva di uno strato di grasso ed in cima si appendevano i regali che pendevano dai raggi di una crociera. Una soppressa, un tacchino, tre bottiglie di vino e una bicicletta che costituiva il desiderio di tutti i ragazzi. Tutti potevano gareggiare, raggruppati in squadre di tre elementi. Anche lui aveva gareggiato. Si saliva uno sulle spalle dell’altro, si spalmava con cenere il palo per rendere meno scivoloso il grasso, e poi, a forza di braccia e di gambe, si saliva. Quando il componente di una squadra scivolava in giù, ne subentrava una altra. Lui era arrivato in cima, era riuscito a toccare la bicicletta, i suoi compagni urlavano assieme agli spettatori, ma cominciò a scivolare in giù. Strinse il palo con quanta più forza poté, ma fu tutto inutile:
inesorabilmente, lentamente scivolò. Si senti in colpa verso i compagni di squadra, verso i suoi familiari, verso il paese. Era in cima ma non riuscì evitare di scivolare fino in fondo, fino a che i suoi piedi non toccarono il terreno, ancora più in giù fino a che si trovò seduto nell’erba, abbracciato strettamente al palo. Nello stesso modo era divenuto barbone: vi era scivolato dentro, senza riuscire a fermarsi. Sempre più giù. Laureato, direttore di una Associazione di Artigiani, sposato con una figlia ed una ottima entratura sociale, era divenuto anche socio del Lyon Club. Poi, aveva appena compiuto cinquant’anni, la disgrazia: sua moglie e la figlia erano morte in un incidente automobilistico. La colpa era stata della moglie. Non aveva rispettato il segnale di stop. Aveva sofferto e molto, ma non era stata la sofferenza a farlo scivolare. Essere senza famiglia fu come togliere il freno all’automobile parcheggiata in una strada in discesa. Prima piano, poi sempre più velocemente, cominciò a scendere. Dapprima il lavoro. Non riusciva più a svolgerlo in maniera accettabile, fu esonerato dall’incarico e parcheggiato in una sede periferica, dove c’era poco da fare. Aspettavano che desse le dimissioni e lui infine si dimise. Vendette anche l’appartamento. Si sentiva un estraneo e si vergognava. Ma era ancora troppo per lui perché continuava a sentire la responsabilità di essere conosciuto. Quando uno è conosciuto deve comportarsi in una maniera consona a come è conosciuto. Uno colpito da una disgrazia come era avvenuto a lui, doveva comportarsi come uno che era stato colpito dalla disgrazia di perdere la famiglia. Così voleva la società in cui viveva e comportarsi in maniera adeguata era una sua precisa responsabilità. Lui non si sentiva capace di portare nemmeno la responsabilità di essere conosciuto. Si recò alla Caritas diocesana e donò tutto quello che possedeva. Quando uscì da quegli uffici possedeva solo quello che indossava ed aveva i soldi per prendere il treno ed andarsene in una cittadina lontana che non aveva mai visto e dove nessuno lo poteva conoscere. Così si ritrovò barbone. Se ne stava seduto sul gradino di una vetrina della Standa. Di notte si stendeva nella galleria che iniziava lì vicino. Imparò a sopravvivere. Vi è sempre qualcuno che ti addotta e poi il Comune deve conservare una certa decenza al centro della città. Ogni tanto, alcuni volontari lo prelevavano per fargli il bagno e, con l’occasione, gli cambiavano la biancheria. Lasciava fare, perché nessuno gli chiedeva di assumersi delle responsabilità. All’inizio gli facevano molte domande, imparò che l’unica difesa verso coloro che desiderano conoscere quello che pensi e ti è successo, è di non rispondere assumendo una espressione vacua. In tale modo anche le
inevitabili incitamenti a cambiare vita, a divenire più responsabile, cadevano nel vuoto. Se proprio aveva bisogno di qualche cosa, sapeva che in ogni comunità esisteva qualcuno che aveva la vocazione di aiutarti. Normalmente costava solo una predica. Poteva sopportarlo. Non sopportava le domande sulla sua vita, gli sembrava rubassero l'anima, o meglio, volevano che ritornasse e lui non voleva. Passarono gli anni e lui si trovò ancora seduto nel gradino della Standa, con il corpo anchilosato e pieno di dolori e nessuna responsabilità. Era un barbone e da lui si voleva solamente che vivesse come tale, senza disturbare troppo. Era Dicembre inoltrato. Un Dicembre freddo e, ogni mattina, era sempre più difficile alzarsi e spostarsi dalla galleria al gradino della vetrina. Aveva cominciato ad andare ai vicini giardini. Amava guardare quel sole che non dava calore, spostarsi lentamente tra le foglie degli alberi. Lo contemplava per tutto il giorno. Con il freddo dell’imbrunire tornava rifugiarsi in Galleria. Da alcuni giorni soffriva a tutte le giunture, la pelle si screpolava e formava piaghe, ma soprattutto lo assaliva un terribile male alla testa. Si disse che avrebbe dovuto chiedere aiuto, ma aspettava, non si sentiva pronto di venire ricoverato in Ospedale. Voleva vedere ancora per qualche giorno il sole che non dava calore tra le foglie degli alberi. Ma il male alla testa aumentava. Gli sembrava dovesse scoppiare da un momento all’altro. Proprio allora si avvicinò un gruppetto di ragazzini accompagnati dalla maestra. - Anche lui ha diritto al Natale, ad un regalo e ad un po’ di affetto. Si misero attorno e cominciarono a cantare una nenia natalizia. Quelle voci stridule gli penetrarono nella testa come spade e più cantavano più il dolore si faceva insopportabile. Si disse che era sufficiente avere pazienza alcuni minuti e. avrebbero smesso, Se ne sarebbero andati. Ma continuavano a cantare e lui dette un grido - Basta! Zittirono. La maestra disse ai ragazzi che era un uomo che aveva perso non solo la dignità, ma anche la riconoscenza. Non dovevano lasciargli il regalo perché era stato cattivo. E se ne andarono.