Storie, aneddoti e curiosità sulla gastronomia dal mondo
Marco Agostini
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Ottobre 2023 Copyright @2023 - BBQ Hangout srl
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INDICE
Introduzione
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N° 41
L’esplosione dei noodles instantanei nel mondo
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N° 42
La triste vita del Colonnello Sanders, l’uomo immagine di KFC
17
N° 43
L’incredibile storia dell’ascesa e del declino del pane negli Stati Uniti
23
N° 44
La sottile differenza tra cibo messicano e cibo tex-mex
29
N° 45
L’incredibile guerra della Brunswick Stew
35
N° 46
Delmonico: la madre di tutte le steakhouse
39
N° 47
La storia parallela della cucina canadese
47
N° 48
Il mito clandestino del Moonshine
53
N° 49
Le 4 ere d’oro del Jerky
59
N° 50
La resurrezione del bacon
65
N° 51
Il sushi, dalle stalle alle stelle e ritorno
73
N° 52
Tutti i disastri comunicativi di Burger King
81
N° 53
La “nobile” storia della Worcestershire Sauce
87
N° 54
I 10 movie restaurant più interessanti del mondo
93
N° 55 N° 56
La rivincita storica delle chicken wings
101
Il lato oscuro nella storia delle soda
107
La clam chowder, una storia da costa a costa
115
I confini sconosciuti della cucina cinese
121
N° 57 N° 58 N° 59
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N° 60 N° 61 N° 62 N° 63 N° 64 N° 65 N° 66 N° 67 N° 68 N° 69 N°70 N° 71 N° 72 N° 73 N° 74 N° 75 N° 76 N° 77 N° 78 N° 79 N° 80
La variegata storia dei cocktails
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Le mille storie delle tapas
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La bolla della carne di rana negli USA
143
50 piatti tipici per 50 stati
149
Il pitbeef, un sandwich di manzo in una terra di mare
159
Il pulledi pork, storia di uno sconosciuto di successo
165
La storia in comune tra bricchette e automobile
171
Il fil rouge tra Italia e Mac’n’Cheese
175
La radice delle gare “Man vs Food”
179
Eggnog e Vov: storia a ritroso dello zabaione
183
Cibo, etichetta e buoi dei paesi tuoi
187
Il manifesto del banana bread
191
Il cibo indiano non esiste
195
I peggiori dispetti nei fast food
199
La sanguinosa storia del chili texano
203
Il cornetto, storia del padre del croissant
209
Perché l’hamburger da noi si chiama “svizzera”
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Po’boys: la verità di Louis Armstrong
217
Il bias messicano tra tequila e mezcal
223
La grande eredità degli Speakeasy
227
Il cibo surgelato è colpa dei tacchini
231
L’abitudine britannica della “ dozzina del fornaio”
237
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MARCO AGOSTINI
Lombardo, 45 anni, un passato da consulente commerciale e una passione da sempre per tutti gli aspetti della gastronomia, Marco Agostini vanta quindici anni di esperienza nel settore Barbecue. Parte attiva e promotore di molte delle prime iniziative, dei primi corsi e dei primi eventi alla base degli albori del Barbecue in Italia, Marco rappresenta oggi una delle figure di spicco del settore nel nostro paese. Sommelier AIS, degustatore ONAF, la sfaccettata esperienza in ambito gastronomico ne ha fatto un professionista eclettico in grado di influenzare tecniche e tendenze nel settore e lo hanno portato a creare negli anni un nuovo concetto di barbecue creativo, mirato ad elevare la cottura barbecue al livello delle espressioni di cucina più accreditate. Membro della prima squadra italiana ad ottenere l’invito al prestigioso Jack Daniels Invitational a Lynchburg, Tennessee e unica finora ad averlo ottenuto per due anni di fila, la partecipazione attiva negli ultimi 5 anni al circuito di barbecue competitivo internazionale della Kansas City Barbecue Society e le qualifiche di KCBS Certified Barbecue Judge, KCBS Certified Table Captain e Certified Steak Cookoff Association Judge, ne fanno uno dei più conosciuti ed apprezzati esponenti del barbecue italiano in ambito internazionale. Personaggio storico della formazione didattica del barbecue in Italia, ha contribuito in diversa misura alla stesura dei piani didattici, all’organizzazione e alla materiale esecuzione di molte delle principali linee di corsi barbecue oggi presenti nel nostro paese. Responsabile della Weber Grill Academy di Milano dal 2015, la prima sede italiana per numero di corsisti, con oltre 3000 attestati rilasciati e creatore dei contenuti formativi per l’intera Weber Grill Academy Italia. Autore dei libri Subito Barbecue. Universo Barbecue e Universo Bistecca blogger sul sito grillexperience.it e sul gruppo Facebook Barbecue Creativo, personaggio televisivo con partecipazioni a trasmissioni su Gambero Rosso, Rai1, Rete4 e Italia1, consulente tecnico per molte delle principali manifestazioni italiane di settore, consulente ristorativo in ambito barbecue e grilling, tra i massimi esperti nazionali sulle tecniche di affumicatura ed in particolare sull’affumicatura a freddo, Marco Agostini è fondatore della BBQ Hangout che attraverso il mondo Genius Barbecue mira a portare il grande pubblico ad entrare in contatto con i livelli più alti esprimibili dalla cucina barbecue. 9
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INTRODUZIONE
Noi italiani viviamo da sempre, ma in particolare modo negli ultimi decenni, sul filo sottile dell’equilibrio tra un’immensa fortuna ed una gravosa condanna che abbiamo ereditate dai nostri avi. Il lascito positivo è certamente la meravigliosa terra in cui viviamo ed il patrimonio di tradizioni che si porta in dote. L’Italia è un paese unico al mondo per infinite ragioni. Godiamo di una eterogeneità climatica e geografica eccezionale e concentrata in una superficie molto contenuta che ci permette di passare dall’alta montagna al mare in due ore di auto e che comprende isole paragonabili a quelle tropicali, profondi laghi alpini come ampie e fertili pianure. Non bastasse questo, una storia travagliata nella quale si sono succedute infinite dominazioni e una frammentazione feudale nell’epoca dei mille comuni ci hanno regalato un patrimonio di tradizioni e una ricchezza gastronomico-culturale che non ha paragoni al mondo. Le infinite varianti locali delle nostre ricette, così come i nostri formaggi o i nostri vini, così numerosi e così diversi uno dall’altro, ci rendono giustamente famosi all’estero come la nazione del “mangiar bene”. Il contraltare di tanta fortuna è la condanna ad un’eterna tendenza a chiuderci in noi stessi, a nutrire una perenne diffidenza nei confronti di ciò che è diverso ed una sorta di genuina “spocchia” che ci porta a ritenere universalmente e incontrovertibilmente migliore qualsiasi cosa che provenga dal Bel Paese. Diciamocelo, in confronto a generazioni straniere cresciute con lo zaino in spalla che hanno generato dei veri e propri “cittadini del mondo” noi appariamo sempre un po’ “provincialotti” e la situazione è stata resa ancora più evidente dall’incredibile abbondanza e facilità di accesso alle informazioni, garantite da internet e dai social network. Vediamo il mondo celebrare comunemente abitudini alimentari che noi facciamo fatica a comprendere ed accettare, perché le abbiamo già catalogate e classificate prima ancora di conoscerle. Avremmo facilmente la possibilità di degustare vini bianchi neozelandesi davvero incredibili ma noi li rifiutiamo perché hanno il tappo a vite, oppure costruire abbinamenti meravigliosi semplicemente provando le ricette delle mille salse esistenti al mondo e di cui ignoriamo l’esistenza, se non ritenessimo che “le salse servono solo a coprire il sapore degli alimenti”. Uscire dal nostro guscio ci aiuterebbe a comprendere come ogni espressione gastronomica al mondo abbia la stessa dignità della nostra e che in fin dei conti hanno tutte una matrice povera e semplice, esattamente come quella italiana. Questa raccolta di ricostruzioni storiche, aneddoti e curiosità relative ai piatti e alle tradizioni della cucina nel mondo con un occhio particolare per una di quelle più snobbate ma ricca di insospettabili contenuti come quella degli Stati Uniti, vuole proprio essere un passo verso questa direzione. Intende rappresentare l’apertura di una finestra che ci permetta di osservare in modo leggero, piacevole e disimpegnato cosa succede e cosa è successo al di fuori dei nostri confini sulle tavole delle case o dei locali del mondo per aiutarci a comprenderlo meglio. 11
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CREATIVE STORY N° 41
L’esplosione dei Noodles instantanei nel mondo Se anche tu come me, sei cresciuto guardando gli Anime giapponesi, di sicuro hai visto un migliaio di volte i vostri personaggi preferiti mangiare quintalate di Ramen, seduti per terra con le gambe incrociate sotto un tavolino basso basso. Quel tavolino si chiama Kotatsu ed è dotato al centro di una resistenza per scaldare la zona inferiore, che viene ricoperta con un futon d’inverno.
Ma torniamo a noi: anche in occidente e persino nei supermercati della nostra tradizionalista Italia, puoi trovare ormai molto facilmente confezioni di Instant Noodles che altro non sono che la versione pronto-cuoci del Ramen. Per capire le ragioni e i percorsi di questa diffusione è quindi giusto dedicare due parole preventive a questo piatto. Il Ramen è un piatto semplice ma saporito, adatto a mille trasformazioni. Si possono aggiungere verdure, pesce, carne, uova e un’infinità di condimenti a piacere. La sua origine non è del tutto certa. Secondo alcune fonti è un piatto importato dalla Cina, secondo altre è un piatto giapponese inventato all’inizio del diciannovesimo secolo. E se la storia è controversa, l’etimologia della parola forse lo è ancora di più. Infatti ci sono almeno quattro diverse teorie: La prima sostiene che la parola “ramen” sia la pronuncia giapponese del cinese 拉麺 (la mian), che significa “tagliatelle tirate a mano”. La seconda riporta come forma originale 老 麺 (laomian), cioè “tagliatelle antiche”. La terza racconta che inizialmente i ramen fossero tagliatelle cotte in una salsa ricca di amido (鹵麺 – lāomiàn). La quarta e ultima teoria racconta infine che l’origine del nome sia da attribuire alla parola 撈麵 (lo mein) che significa “mescolare”: in questo caso, il riferimento sarebbe al modo con cui le tagliatelle vengono 13
mischiate con la salsa. Qualsiasi ne sia stata l’origine, per mangiare questo piatto ci sono delle regole fondamentali ed incontrovertibili da seguire: Deve essere bollente 1) Va gustato entro 8-10 minuti, perché i noodles non devono scuocere nel brodo (quindi non c’è spazio per le chiacchiere!) 2) Si mangia assolutamente con faccia e mani vicine alla ciotola: abbastanza vicine da poter portare agevolmente i noodles alla bocca con le bacchette, pur lasciando spazio all’aroma del brodo, in modo che possa penetrare nel naso ed amplificare la sensazione di piacere. 3) Il brodo va bevuto direttamente dalla ciotola o con l’aiuto di un mestolino. Per i giapponesi il Ramen è un’occasione speciale all’interno della giornata lavorativa, un godimento privato, una coccola a fine giornata.
Contrariamente alla conoscenza che abbiamo imparato a fare in Italia del Giappne, in tutto il mondo il Ramen è di gran lunga il piatto preferito della cucina nipponica, molto più del sushi e della tempura. Ma il Ramen è molto di più di una zuppa, è il cibo dell’anima giapponese ed è da questa frase che parte il nostro viaggio alla scoperta della nascita degli Instant Noodles. Momofuku Ando, padre degli Instant Noodles, si trasferì da Taiwan in Giappone dopo la Seconda Guerra Mondiale, e dopo una serie di tentativi imprenditoriali fondò la Nissin Food, che all’inizio produceva sale. Dopo la sconfitta nel conflitto con gli USA, il Giappone si trovò alle prese con un periodo di profonda crisi unita a scarsità di materie prime e il Ministero della Salute prese a incoraggiare i cittadini a consumare pane di grano, fornito dagli Stati Uniti. Ando non condivideva questa scelta. Giudicava innaturale introdurre nella dieta Giapponese un cibo così estraneo alla tradizione, trovando più coerente incoraggiare il consumo di Ramen, piatto icona del paese. Il Ministero rispose al signor Momofuku che le aziende di ramen erano ancora troppo piccole e deboli per sostenere il fabbisogno nazionale. 14
Fu proprio questa convinzione che spinse Ando a provare a sviluppare una produzione di noodles in proprio. La sua ferma convinzione era che: «Ci sarebbe stata pace sulla terra quando i popoli avrebbero avuto abbastanza da mangiare». Era il 25 agosto 1958 quando i primi instant noodles, precotti e disidratati, prodotti dalla Nissin fecero la loro apparizione sugli scaffali dei supermercati ma questo fu solo il primo passo verso un’evoluzione che li ha portati a diffondersi in tutto il mondo, basata su 3 successive invenzioni legate all’evoluzione tecnologica del lavoro di Ando. Prima Invenzione: CHICKEN RAMEN (1958) In un piccolo capannone dietro la sua casa nella città di Ikeda, prefettura di Osaka, Momofuku iniziò a lavorare su un’invenzione per fare velocemente il ramen a casa tramite l’aggiunta di acqua calda. Lavorò da solo, dormendo solo 4 ore per notte e senza un giorno di riposo per un anno intero. Per questo il Chicken Ramen, risultato di molte prove ed errori sperimentali, venne soprannominato “il Ramen Magico” e divenne un immediato successo in tutto il Giappone, arrivando poi addirittura ad essere esportati al di fuori della nazione. Seconda Invenzione: CUPNOODLES (1971) In uno dei suoi viaggi in America, Momofuku osservò che i manager dei supermercati Americani durante la pausa pranzo aprivano i pacchetti di Chicken Ramen, li versavano in una cup da caffè cospargendoli di acqua calda, lo condivano con un po’ di salsa e li mangiavano con una forchetta. Fu così che Momofuku capì che anche il modo di mangiare i ramen poteva essere rivoluzionato per potersi rivolgere più facilmente ai mercati di tutto il mondo: ecco che nacquero i Cupnoodles, ossia i noodles gia confezionati in ciotola usa e getta. Terza invenzione: RAMEN SPAZIALI (2005) Questa fu un’invenzione che Momofuku perseguì per lungo tempo, applicando varie tecniche sviluppate nel settore aeronautico per poter mangiare in condizioni di gravità zero. Il Ramen spaziale è basato sul perfezionamento di un metodo di liofilizzazione istantanea dell’olio caldo sul quale lavorava già dal 1958. Il condimento poteva essere liofilizzato insieme ai noodles permettendo la rigenerazione attraverso l’acqua calda di un piatto completo in ogni suo aspetto non richiedendo alcuna ulteriore aggiunta e grazie a quest’ultima invenzione, Momofuku ha varcato i confini del globo ed è infine arrivato nello spazio con i suoi Ramen. Per comprendere l’importanza storica degli Instant Noodles basta dire che nella madrepatria sono stati votati più volte come l’invenzione più famosa del Giappone, addirittura davanti a treni ad alta velocità, computer portatili e karaoke. A Yokohama, a circa 30 minuti di treno da Tokyo, sorge il Cupnoodles Museum, dedicato ai prodotti e alle scoperte di Momofuku Ando e suddiviso in vari spazi concepiti sia per gli adulti che per i ragazzi, L’esperienza più divertente è sicuramente quella della Mycupnoodlees Factory, una vera e propria mini-fabbrica dove ogni visitatore può creare la propria confezione di cupnoodles con un design originale e ingredienti scelti in base ai propri gusti. Tornando agli anni successivi alla nostra infanzia, dire che si cresciuti mangiando Instant Noodles sarebbe decisamente eccessivo ma è indiscutibile che i oggi i nostri figli considerano il ramen un cibo piuttosto comune e gli Instant nooodles una soluzione pratica per poterli replicare a casa, rappresentando un’ancora di salvezza per una cena dell’ultimo minuto. E probabilmente proprio questo rappresenta il miglior omaggio che si possa fare a Momofuku Ando, e alle motivazioni che lo hanno spinto ormai quasi settanta anni fa ad inventarli.
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CREATIVE STORY N° 42
La triste vita del Colonnello Sanders, l’uomo immagine di KFC L’immagine di Kentucky Fried Chicken, la catena di fast food celebre per il suo inimitabile pollo fritto, è legata a doppio filo con quella del famoso Colonnello Sanders, il fondatore e ideatore del suo esclusivo metodo di frittura a pressione e della speciale panatura segreta. Il logo stesso di KFC è la sagoma stilizzata di Sanders nella sua immagine bianco-candido, il colore del suo tipico outfit che era solito indossare quotidianamente, composto da un completo elegante e dall’inconfondibile papillon nero in stile suddista. Un altro motivo per il quale il Colonnello è famoso è un noto racconto motivazionale, abusatissimo in tutte le scuole di formazione professionale di qualunque grado, che ne racconta la vita costellata di continui insuccessi e del boom miliardario di KFC giunto solo in età avanzata dopo una perseveranza durata una esistenza intera. Le persone amano le storie semplici ed un buon racconto deve sempre avere un happy ending e un riscatto dell’eroe grazie alle sue virtù. La realtà purtroppo però è stata per Sanders decisamente più complessa, amara e avara di soddisfazioni di come ci viene raccontata. Harland Sanders nasce nel 1890 in una piccola fattoria di Henryville, Indiana e rimane orfano di padre già all’età di 5 anni. La madre per sbarcare il lunario è costretta ad accettare diversi contemporanei e saltuari lavori che la fanno stare via da casa a volte anche per settimane intere. Cosi il piccolo Harland ha dovuto imparare in fretta a badare a se stesso e ai due fratelli più piccoli ed è in questo periodo che inizia a sviluppare le sue prime esperienze in cucina. All’età di 12 anni la madre si risposa e trasferisce tutta la famiglia a Indianapolis con il nuovo marito con il quale però Sanders aveva un rapporto a dir poco conflittuale. Nemmeno un anno dopo decise quindi di andarsene di casa e di tornare alla sua città natale, dove inizia a lavorare in una fattoria per 10$ al mese, oltre vitto e alloggio e contemporaneamente a conseguire un’istruzione di base. I successivi 28 anni vedono Sanders barcamenarsi in un infinito succedersi di lavori diversi che lo hanno portato a girovagare per tutto il sud degli Stati Uniti, il cui elenco ha davvero del surreale: soldato nell’esercito (inviato tra le altre cose anche a Cuba), guidatore di tram, pompiere per una compagnia ferroviaria, assicuratore, segretario, venditore di pneumatici, operatore di traghetti, e addirittura ostetrico e avvocato (dopo essere riuscito a conseguire una laurea per corrispondenza alla La Calle University). Uno dei problemi di Sanders era quello di soffrire di considerevoli quanto comprensibili difficoltà di natura sociologica che lo portavano a frequenti e poco apprezzate “mattate”, con conseguenti inevitabili licenziamenti. Alcune clamorose furono un acceso litigio con il proprio assistito durante l’avvocatura con conseguente abbandono dell’aula nel bel mezzo di 17
un’udienza o il procedimento disciplinare subito per condotta immorale quando era sotto le armi, o la rissa tra i dipendenti di una compagnia ferroviaria da lui causata o l’allontanamento per insubordinazione da parte della Prudential Life Insurance Company o ancora l’abbandono del proprio posto di lavoro su un traghetto come protesta contro la vicina costruzione di un ponte che collegava le due sponde servite dalla sua compagnia. A questo bisogna aggiungere un fato non certamente favorevole, in un periodo già difficile come quello della Grande Depressione, come quando una volta liquidato dalla compagnia di Traghetti nella quale era riuscito ad acquistare qualche quota societaria, decise di investire tutto ciò che aveva in una azienda che produceva lampade a petrolio, esattamente un anno prima del lancio sul mercato di massa delle lampade elettriche. La sua vita familiare non va certo meglio. Si sposa all’età di 18 anni con Josephin King con la quale ebbe tre figli ma dalla quale divorziò a causa dei continui litigi conseguenti alla propria instabilità emotiva e lavorativa. Il divorzio unito alla morte del suo unico figlio maschio a causa di una banale tonsillectomia lo portarono ad un lungo e profondo stato di depressione sfociato in un tentativo di suicidio.
Le cose sembrarono vedere una svolta quando Sanders prese in gestione una stazione di servizio a Corbin nel Kentucky. Per arrotondare le entrate decise di preparare dei pasti caldi da vendere agli automobilisti, a base di pollo in padella, prosciutto, fagiolini e okra. Si trattava di un lavoro estremamente sacrificante che vedeva Sanders svolgere quotidianamente da solo il lavoro di commesso, benzinaio e cuoco in un’attività aperta h24 ma il mondo iniziò lentamente ad accorgersi di lui proprio grazie alla fama di quel pollo. Decise cosi di dismettere le pompe di benzina per far spazio ad un vero e proprio ristorante 18
che ebbe finalmente un buon successo. Durante questo periodo i crescenti volumi portarono Sanders a trovare un sistema che accelerasse i tempi di cottura del pollo. Brevettò cosi la frittura a pressione in apposite pentole, che scoprì essere in grado di produrre un fritto più leggero e croccante e che gli valse il riconoscimento ad honorem di Colonnello del Kentucky da parte del governatore, per i suoi meriti nella promozione dello Stato (più o meno il corrispondente in Italia, dell’Ambrogino per gli abitanti di Milano). Furono anni molto buoni per Sanders, forse i migliori in assoluto, durante i quali comunque il suo pessimo carattere e la sua celebre sfortuna non si fecero ugualmente mancare, con una sparatoria avvenuta con un concorrente a seguito di un litigio sul posizionamento di un’insegna pubblicitaria nella quale morì un suo stretto collaboratore o con un incendio che rase al suolo la struttura e che lo obbligò a ricostruire il ristorante da zero. Nel 1950, all’età di 60 anni, il destino decise però di voltare ancora una volta le spalle a Sanders: la viabilità dell’area in cui sorgeva il ristorante viene completamente stravolta dalla nascita della nuova Interstatale 75 che di fatto lo tagliava fuori di 7 miglia dai principali flussi automobilistici. In nemmeno 2 anni, Sanders bruciò tutti i suoi risparmi nel tentativo di mantenere aperto l’unico successo della sua vita, arrivando infine a svendere all’asta il locale e riducendosi a vivere con un sussidio di 105 $ al mese. Pochi anni prima Sanders aveva ricevuto una richiesta di franchising da parte di un ristorante di South Salt Lake, Utah, per utilizzare la sua ricetta sui piatti a base di pollo. Il pollo fritto era una specialità del Sud, non molto frequente in Kentucky e la deliziosa ricetta di Sanders rappresentava un modo per differenziarsi dalla concorrenza. Il grafico ingaggiato dal ristorante per reclamizzare la novità si inventò cosi il nome “Kentucky Fried Chicken”. L’accordo, che vide triplicare le vendite del ristorante, prevedeva un compenso per Sanders di 4 cent per ogni pollo venduto, certamente non il business principale per il colonnello all’epoca ma comunque un buon biglietto da visita. In quel momento di estrema difficoltà a Sanders non rimase che aggrapparsi a quest’ultima ancora di salvezza. Inizio a girare in macchina il paese promuovendo il proprio franchising “Kentucky Fried Chicken” a tutti i locali che trovava lungo la sua strada demandando alla nuova moglie Claudia il compito di spedire le spezie e i preparati e di gestire i pagamenti. Il meccanismo di vendita adottato non era dei più efficienti e si basava molto sulle capacità di persuasione del Colonnello: Sanders preparava dei pasti dimostrativi a proprie spese per dimostrare l’efficacia della propria soluzione abbattendo qualsiasi remora alla prova da parte del gestore e convincendolo poi cosi alla firma del contratto. Si è trattato dell’ennesimo periodo economicamente molto difficile con un continuo reinvestimento di denaro e un’infinità di chilometri percorsi. Era un metodo lento, costoso e faticoso per procacciarsi lavoro e in alcuni momenti Sanders non aveva nemmeno i soldi per un hotel, essendo costretto a dormire nella propria auto tra un trasferimento e l’altro, ma alla lunga i suoi sforzi furono ricompensati consentendogli di raggiungere il ragguardevole numero di 600 franchising. 4 centesimi a pollo non erano una grande commissione ma su quei numeri la sua attività iniziava a diventare interessante, con 16 dipendenti ed un piccolo magazzino 19
per la distribuzione dei prodotti. Fu cosi che arrivò una proposta di acquisto da parte di John Brown Jr., un avvocato del Kentucky, proposta che il Colonnello rifiutò con fermezza. Dopo molta insistenza e alcuni ripensamenti però Sanders si rese conto di come alla soglia dei 74 anni quella vita non potesse più essere percorribile a lungo per lui. Accettò infine quindi l’offerta, a patto della garanzia che la sua ricetta e i suoi standard qualitativi venissero confermati. La cifra pattuita fu di 2 milioni di $ di cui solo 50.000 $ al momento della firma, per comprendere l’entità della quale, occorre considerare la quotazione attuale di KFC che si aggira sui 15 miliardi di $. Nonostante le promesse, KFC venne rimodernato su concetti certamente profittevoli ma contrari alle convinzioni di Sanders: il franchising divenne complessivo su tutti i prodotti dei locali e non solo relativo ai piatti a base di pollo e la fee divenne fissa mensile e non più commisurata alle vendite. Nasce KFC per come lo conosciamo oggi. Brown ritenne inoltre che l’immagine del colonnello fosse troppo legata a KFC per privarsene: ideò un logo che lo raffigurasse nel suo tipico completo bianco, usato negli anni delle visite porta a porta, in modo che lo sporco di pastella non si vedesse e che rimanesse apparentemente immacolato per l’appuntamento successivo. Brown offrì a Sanders anche un vitalizio di 41.000 $ all’anno come brand ambassador affinché girasse il paese a scopo promozionale o per interviste e video pubblicitari.
Non passarono nemmeno 7 anni che Brown decise di vendere KFC alla Heublein, inc. la quale completò l’opera di conversione all’attuale format fast food: cambiò la formula di molti elementi creati dal Colonnello, tra i quali anche la celebre pastella, introducendo più rapidi e profittevoli ingredienti precotti. Preoccupato, Sanders iniziò ad effettuare dei test a sorpresa nelle filiali per sincerarsi della reale qualità dei prodotti e finendo per rimanerne inorridito. E lui non fece certo segreto del suo disappunto, facendo riemergere il proprio noto carattere problematico. Celebri alcune sue uscite pubbliche, quando ad esempio in un’intervista 20
riferendosi alla nuova salsa gravy, da lui un tempo descritta come “cosi buona che butterete via il pollo”, la definì “simile alla colla di acqua e farina che mia mamma usava per attaccare alle pareti la carta da parati” oppure quando assaggiando il pollo fritto con la nuova pastella, scaraventò il piatto sul pavimento dal disgusto senza proferire altra parola. Sanders non si fermò qui aprendo un ristorante estraneo a KFC insieme alla moglie, chiamandolo “The Colonel’s Lady” riproponendo i propri cavalli di battaglia. Inizio cosi un duro periodo di rappresaglie con la sua stessa azienda, che sfociò in lunghe cause legali con l’accusa di diffamazione e uso illegittimo dell’appellativo “Colonnello” a scopi commerciali, poi sanate con un accordo extragiudiziale le cui cifre non sono mai state rese note. Nonostante questi attriti continuò comunque a lavorare per la KFC a 41.000 $ all’anno per tutto il resto della sua vita, girando incessantemente il paese in perenne viaggio tra un aereo e l’altro per un’azienda che non riusciva ad abbandonare ma che non sentiva più sua, fino alla fine dei suoi giorni avvenuta per le conseguenze di una leucemia all’età di 90 anni. Sanders è certamente stato un esempio di caparbietà e dedizione ma la sua vita e i suoi successi sono stati ben lontani dal poter essere definiti il coronamento di un sogno imprenditoriale, come invece ci viene raccontato. La sua è stata un’esistenza difficile, costellata di note amare e immensi sacrifici mai completamente ripagati. La proverbiale sfortuna di Sanders è stata addirittura ispirazione in Giappone per la nascita del mito della “Maledizione del Colonnello”: nel 1985 in occasione della vittoria della Japan Championship Series di Baseball da parte dei Hanshin Tigers, alcuni tifosi gettarono goliardicamente una statua di Sanders rubata dal locale KFC, nel vicino e tumultuoso fiume Dotonbori. Tutti i tentativi di recupero furono vari e tra gli appassionati serpeggiò la convinzione che finché la statua non sarebbe stata ritrovata i Tigers non avrebbero più vinto un campionato. Ed in effetti finirono nuovamente in finale nel 2003, 2005 e 2014 perdendo tutte le volte. La fama del Colonnello Sanders è forse tutta qui, in bilico tra un successo planetario ed una vita spesa alla ricerca di qualcosa che probabilmente non è mai stato trovato davvero.
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CREATIVE STORY N° 43
L’incredibile storia dell’ascesa e del declino del pane negli Stati Uniti Il pane accompagna da sempre la vita dell’uomo. Oggi viene visto come un completamento del pasto, il famoso “companatico” ma si tratta di una visione relativamente moderna, mentre nei secoli ha sempre rappresentato un vero e proprio alimento, per altro di fondamentale importanza nella sussistenza del genere umano. È una preparazione semplice, realizzata con pochissimi ingredienti e ricavata direttamente dal grano, la principale coltivazione dei fertili terreni dei tempi antichi. Per capire la centralità del pane nella nostra vita basti pensare che forme di pane sono state trovate addirittura nelle tombe dei faraoni egizi come cibo destinato a sfamarli durante il passaggio nell’aldilà. Moltissime nazioni, soprattutto europee affiancano alle proprie ricette tradizionali un tipo di pane specifico, tradendo le umili origini della propria cucina. Ne sono meri esempi la Baguette francese o il Pretzel tedesco. Noi italiani poi, con tutta la nostra bio e geo diversità, riusciamo a declinare questa specificità addirittura a livello regionale, dalla Rosetta milanese alla Mafalda siciliana. Gli Stati Uniti da questo punto di vista dovrebbero essere la massima espressione di questo fenomeno, essendo figli della cultura apportata dalle varie ondate migratorie che li hanno pervasi. Molte delle tradizioni gastronomiche americane che stiamo presentando in queste Creative Stories se lo hai notato infatti, non sono altro che l’esaltazione o la rielaborazione di ricette o usanze di origine europea (e in alcuni casi asiatica). Invece la storia della panificazione negli Stati Uniti è stata diversa, sotto molti aspetti più turbolenta e riassumibile come una forte altalena di successi che lo hanno portato dalla ribalta iniziale, seguiti da un successivo e pesante declino che ne ha rasentato la scomparsa, fino alla timida riscoperta negli anni più recenti. Se ci pensate, togliendo casi particolari come quello di San Francisco che vedremo in seguito, non esiste un pane tradizionale degli Stati Uniti che esuli dall’anonimo e amorfo pane in cassetta. Scopriamo insieme perché. La principale causa deriva indirettamente da una serie di innovazioni tecnologiche che si sono succedute in quegli anni. Nel 1868 i fratelli Fleischmann commercializzano il primo lievito istantaneo, una polvere di lievito disidratato, grano e malto. L’anno successivo è stata la volta della Baking Powder, un valido sostituto chimico del lievito, basato su bicarbonato di sodio e cremor tartaro. Ma la vera rivoluzione avviene nel 1873 quando Edmund LaCroix inventa il suo Swiss Steel Roller, un innovativo mulino che consente di separare facilmente il germe di grano e la crusca dall’endosperma, che consentiva di ottenere farine più raffinate ed un pane molto più bianco. Questo che può sembrare un fattore insignificante, era al contrario un eccellente attrattiva 23
per il consumatore: i coloni portavano con loro il retaggio culturale maturato nella vecchia Europa in cui la selezione ed il setaccio delle farine era un costoso processo manuale che produceva per altro un ampio scarto. Il pane bianco era quindi quello delle persone ricche e dei nobili, un prodotto il cui colore era per se stesso dimostrazione sufficiente di una migliore qualità. In un’epoca di forte industrializzazione negli Stati Uniti di qualsiasi produzione, non ultima quella alimentare, l’arte bianca si era prestata molto poco fino a quel momento a causa della difficolta della gestione del processo di lievitazione. Improvvisamente nel giro di 5 anni l’industria ha potuto buttarsi a capofitto in un settore fino a quel momento del tutto trascurato e poteva farlo presentandosi con un bellissimo e “nobile” pane bianco. Questa caratteristica fu per altro cavalcata ad arte dai neonati imprenditori della panificazione, dipingendo il pane bianco (impossibile da ottenere a basso costo dai panettieri artigianali) come un prodotto più “pulito” oltre che prezioso e che la produzione industriale donava loro senza l’utilizzo delle “sporche” mani dei fornai. Fu un successo clamoroso e il pane bianco, più raffinato e delicato spostò definitivamente i gusti dei clienti. Per valutare l’impatto dell’innovazione, considera che nel 1890 circa il 90% delle casalinghe produceva il proprio pane in casa mentre dopo soli 30 anni, questa percentuale è scesa al 10%. Un altro duro colpo al pane artigianale arrivò nel 1941 dallo stesso governo degli Stati Uniti. Il difficile periodo successivo alla Grande Depressione e i contingentamenti conseguenti alla Seconda Guerra Mondiale portarono alla richiesta rivolta ai produttori di pane industriale, di aggiungere alle proprie ricette i famosi Super-8: otto integratori che aumentavano l’apporto nutrizionale del prodotto. È grottesco sottolineare come il pane bianco con aggiunta dei Super-8 di fatto apportava i valori nutrizionali di un pane integrale: in pratica si andava a restituire artificialmente al pane gli elementi che erano stati tolti alle farine attraverso il processo di raffinazione.
Partiamo come sempre dalla situazione di partenza, quella della madre patria britannica, 24
prima dell’esodo nella colonia del nuovo mondo. Nel Regno Unito all’epoca della scoperta dell’America, il pane era la principale forma di pagamento dei lavoratori e misurava il livello di sussistenza della famiglie. Ancora oggi esiste in lingua inglese l’espressione “breadwinner” per descrivere chi svolge il lavoro che contribuisce maggiormente a livello economico all’interno di in un nucleo familiare, un po’ come il nostro “portare a casa il pane”. Era un bene trasversale alle varie classi sociali, dal costo abbordabile e si misura che il 60% dell’apporto calorico della popolazione del periodo arrivasse proprio dal pane. Naturalmente una volta nel nuovo mondo, i coloni cercarono di replicare le proprie abitudini alimentari sfruttando al massimo le disponibilità alimentari offerte dal nuovo territorio, un po’ come avevamo visto nella Creative Story dedicata al Thanksgiving. È proprio dall’incontro tra un piatto tradizionale degli indiani d’America e questo tentativo di emulazione dei coloni che nasce quello che forse è il pane per antonomasia negli Stati del Sud: il Cornbread, un pane di mais, in casseruola e non lievitato. Al di fuori di questo, il frumento rappresenta certamente la principale coltivazione sulla quale è stata approntata la colonia americana dal Maryland al New England. Il fenomeno più interessante nasce però a metà del 1800 nel Selvaggio West e più precisamente a San Francisco. A quel tempo l’attività prevalente di quella nuova frontiera degli Stati Uniti era la ricerca dell’oro, setacciando i fiumi o scavando nelle miniere. L’oro è stato scoperto nel 1848 e ha dato luogo l’anno successivo ad un autentico esodo di proporzioni bibliche di persone a famiglie alla ricerca di fortuna, passati poi alla storia come i 49ers (amici appassionati sportivi, mai sentito parlare dei San Francisco 49ers?). Tra questi c’era anche Isidore Boudin, che avrà un ruolo determinante nella nostra storia. A quell’epoca anche in Europa era molto in voga l’abitudine nella panificazione di utilizzare il metodo della lievitazione spontanea: l’impasto veniva lasciato maturare all’aria e attaccare da microrganismi ambientali liberi che ne innescavano la fermentazione. Un piccola porzione dell’impasto “innestato” veniva conservato in barattolo dai coloni per facilitare la lievitazione del giorno successivo e più passava il tempo e più il risultato migliorava. Si esatto, è l’antesignano del concetto di Pasta Madre. L’innesto era un autentico patrimonio della famiglia e veniva conservato con molta cura. Cronache dell’epoca riportano l’abitudine dei coloni di dormire a contatto con il proprio innesto per evitare che il freddo pungente lo facesse morire. Sembrava l’inizio di una florida tradizione di nuova panificazione negli Stati uniti e invece… delle 7 grandi famiglie di panettieri come Colombo, Toscana o Baroni che sull’onda di quell’intuizione hanno dato vita alla cosiddetta “Bread revolution” che ha portato nella città di San Francisco oltre 70 panetterie in pochissimi anni, rimane il solo stoico Boudin. Ancora una volta i produttori non si fecero mancare l’occasione per volgere a proprio vantaggio l’iniziativa e nacque cosi l’Enriched Bread, di cui il più famoso è stato il Wonder Bread, il pane che rendeva forti, intelligenti, in forma e più energici che mai, oltre che essere un eccezionale coadiuvante alla crescita. Si sprecarono in quel periodo locandine ed inserti pubblicitari che ritraevano muscolosi bambini che a torso nudo sfidavano sorridenti il gelo dell’inverno mangiando Wonder Bread. 25
Il colpo di grazia arriva nel 1958 con l’invenzione del cellophane, una plastica che assicura la massima conservazione della morbidezza del pane. Questa innovazione ha un’importante conseguenza: la freschezza del pane, fino a quel momento misurata dalla fragranza della crosta, improvvisamente diventava invece rappresentata dalla morbidezza. I consumatori letteralmente strizzavano le confezioni per constatare quanto il pane fosse elastico e di conseguenza quanto fosse ancora fresco. I produttori iniziarono cosi ad aggiungere più zucchero e additivi all’impasto e a lavorarlo più velocemente e più a lungo al fine di ottenere un’alveolatura molto fine ed un impasto arioso e leggero con cotture che minimizzassero la presenza di crosta, alla ricerca di una pane sempre più morbido. La scelta stessa di preaffettare il pane nelle buste era dettata dal fatto che era diventato troppo morbido per poter essere tagliato a casa mantenendone integra la forma. Nasce ufficialmente cosi il pane in cassetta per come lo conosciamo oggi, quello dei toast per capirci. A questo punto della storia il pane artigianale in America era praticamente estinto, tanto che che si poteva guidare per miglia e miglia i lunghi tratti del paese senza la possibilità di trovarne in vendita. Come spesso succede però, la storia ritorna con i suoi corsi e ricorsi. A partire dagli anni ’80-’90 c’è stata un’oggettiva maggior attenzione nei confronti dell’alimentazione e dei suoi aspetti salutistici in particolare. La ricerca di pane integrale o fatto con cereali alternativi ha rispostato l’attenzione sulla produzione artigianale, che ha iniziato a rialzare la testa attraverso farine e lieviti migliori e puntando molto sulla propria differenza qualitativa. Ulteriore aiuto è arrivato dalla nuova tendenza nei decenni successivi del prodotto locale in tutti i settori della gastronomia e della produzione artigianale come nuova frontiera del “lusso accessibile”.
In questo senso occorre sottolineare la vera opera di “resistenza” nei vari decenni, perpetrata 26
dai produttori di origine francese o che comunque panificavano alla francese, davvero gli ultimi ad arrendersi e tra i pochi che hanno saputo mantenere viva un’attività che per un lungo periodo è stata un lumicino in costante procinto di spegnersi. Normale che questo ritorno di fiamma abbia visto proprio il pane francese, tra cui naturalmente la baguette, a farla da padrone, tanto che oggi in America è quasi sinonimo di pane di qualità. Il nuovo movimento ha ridato linfa ad una produzione di nicchia ma che ha saputo mettere in crisi i giganti della produzione industriale, tra cui la stessa Hostess Brands, produttrice del pane Wonder Bread, che ha dovuto dichiarare bancarotta nel 2012, incapace di adeguarsi ai rinnovati gusti dei consumatori. Naturalmente il pane industriale rimane ed i volumi dei due mercati non sono paragonabili ma la scomparsa del Wonder Bread, una vera istituzione della storia americana, è un segnale molto forte circa un evoluzione in atto di cui non vediamo l’ora di vedere gli ulteriori sviluppi.
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La sottile differenza tra cibo Messicano e cibo Tex-Mex Se hai preso sufficientemente confidenza con le Creative Stories dovresti ormai aver capito che nel settore della somministrazione di massa gli americani sono davvero imbattibili: non si tratta affatto (paradossalmente) di cosa si mangia ma dell’abilità comunicativa, della loro capacità unica di saper creare un mito ed un’identità precisa intorno a qualsiasi cosa, anche la più insignificante. Succede cosi ad esempio che le catene più importanti al mondo nella vendita di pizza siano americane e incredibilmente non italiane e che la maggior parte delle persone nel mondo assaggino la propria prima pizza da Pizza Hut o da Domino’s. Una cosa non molto diversa accade per il cibo messicano e ti potrebbe stupire sapere che la maggior parte dei piatti che pensavi fossero l’emblema del Messico nel mondo, sono in realtà invenzioni molto recenti della cultura Tex-Mex, ossia di quella singolare commistione gastronomica che si è creata negli stati meridionali di confine degli USA, una volta possedimenti spagnoli e messicani e tra gli ultimi ad unirsi alle 50 stelle della bandiera nazionale. Ma per capire meglio, partiamo dall’identifiacazione della cultura culinaria originale messicana. La citazione iniziale dell’Italia non è affatto una similitudine casuale. Il caso ha voluto che anche la geografia ci mettesse del suo, inserendo entrambe in una penisola dalla forma simile ad uno stivale. Le stesse bandiere nazionali sono praticamente identiche. Esattamente come da noi, in Messico esiste una fortissima divisione territoriale che ha generato tradizioni culinarie molto specifiche e tipiche delle varie regioni del paese come Oaxaca o lo Yucatan, giusto per citare le più celebri. Esattamente come da noi, anche in Messico, dietro i 3-4 piatti-cliché famosi nel mondo, esiste un profondo, vastissimo quando gastronomicamente estremamente interessante substrato di piatti meno o per nulla conosciuti ma di una complessità e valore assolutamente indiscutibili. Quali sono quindi i piatti messicani più famosi? Il Mole, carne di manzo stufata in una salsa corposa e speziata, spesso arricchita di cacao, i Tamales, involtini di carne e crema di mais bolliti in foglie di banano, il Pozole, una zuppa leggermente piccante con carne di pollo, il Chilaquiles, tortillas di mais fritte, con carne di pollo, uovo strapazzato, fagioli e salsa e il Guacamole che non ha certo bisogno di presentazioni. Nessuno dei piatti che ti aspettavi e che vengono citati come “messicani” dai più importanti siti di cucina, tra cui praticamente tutti quelli italiani, giusto? Ciò che il mondo conosce come “messicano” è ciò che gli Stati Uniti hanno trasmesso come 29
tale attraverso catene globali del calibro di Taco Bell, Chipotle o Baja Fresh, ovvero il cibo Tex-Mex. Questa divisione sostanziale ha una comune matrice: quella della dominazione spagnola nella zona dell’America Centrale. Mentre nel Messico questa è andata ad impattare su un cultura millenaria preesistente, negli attuali stati del sud ovest americano si è riversata sulle sole tribù indiane presenti, per altro spazzate via in pochi anni dall’invasione coloniale. In Messico c’è stata quindi una fortissima resistenza popolare e ancora oggi la cucina tradizionale ha radici profondamente riconducibili alla cultura azteca e maya. La cucina Tex-Mex al contrario è invece molto recente e molti dei suoi piatti non hanno nemmeno 100 anni di storia. Il nome rimanda in modo evidente allo stato del Texas ma solo perché è stato il primo in quell’area di totale dominio spagnolo ad annettersi agli Stati Uniti come ventottesimo stato a seguito della secessione del 1836. Un ruolo non meno significativo hanno avuto stati come New Mexico e Arizona, che sono stati per altro gli ultimi due ad annettersi, se si escludono Hawaii e Alaska. Il Texas si ritrovò per diversi decenni come unico stato USA in quel tratto, come una penisola dei possedimenti americani, circondati per praticamente tutti i suoi confini dalla cultura ispanica. Inevitabile una fortissima commistione. La nuova disponibilità di ingredienti “ricchi” come conseguenza dell’annessione, come carne di manzo, formaggio o farina, oltre a spezie come il cumino (no, nemmeno questo è messicano) hanno influenzato in modo irruente una cultura gastronomica fragile, data dalla tradizione di immigrati messicani strappati alle loro radici, mescolata all’impronta spagnola. Inizialmente il termine Tex-Mex non aveva nulla a che fare con il cibo ma era la contrazione con la quale veniva comunemente chiamata la Texas-Mexican Railway, l’importantissima rete ferroviaria costruita nel 1877 che collegava per la prima volta il sud del Texas (e il vicino Messico) con gli altri Stati. Il nomignolo fu poi esteso in senso canzonatorio ai cosiddetti Tejanos, i discendenti dell’incrocio etnico tra americani e texani ed infine da questi a quella strana commistione tra cultura messicana e americana che caratterizzava la loro cucina, i cui piatti tipici noi oggi attribuiamo erroneamente alla tradizione messicana. Curioso sottolineare come questa versione “fusion” della cucina messicana non è nemmeno l’unica: esiste ad esempio pur essendo molto meno conosciuta, la Cal-Mex, nata in California, altra storica colonia spagnola, come si può notare dalla matrice ispanica di città come Los Angeles, San Francisco o San Diego. La questione è resa quindi ancora più complicata: quello che noi conosciamo come “messicano” è in realtà un’unione dei piatti Tex-Mex e CalMex. Vediamo insieme i più conosciuti piatti che noi pensavamo essere messicani e da dove sono plausibilmente nati. Le Fajitas I lettori di “40 Creative Stories” Vol.1, possono trovare una delle 2 storie omaggio proprio 30
dedicata a questo argomento. Ti anticipo comunque che la ricetta e soprattutto il nome “fajitas”, cioè “striscioline”, sono nati solo nel 1969 come invenzione da parte di Sonny Falcon, un commerciante di carni di Austin, che cercava una soluzione economica che sfruttasse i tagli di recupero della macellazione per farne dello streetfood da vendere in una sagra popolare. Le Tortilla Chips Partiamo dal dire che le tortillas per come le conosciamo noi, sono già di per se un’invenzione Tex-Mex: le tortilla messicane ovviamente esistono ma sono fatte esclusivamente con farina di mais e sono molto piccole. Le tortillas giganti e bianche, ovvero fatte con la classica farina di grano sono totalmente di matrice americana. La versione chips poi è nata solo nel 1940 a Los Angeles dal proprietario della fabbrica El Zarape Tortilla, che per primo ha provato a tagliarne una a triangoli e a friggerli. Naturalmente gli piacquero cosi tanto che decise di commercializzarli, con il successo che potete ben immaginare. Burrito L’originale Burrito nasce durante la Rivoluzione Messicana del 1910 quando Juan Mendez, un rivenditore di cibo da strada che operava vicino al confine con gli Stati Uniti, avvolse della carne di manzo in una delle larghe tortillas americane per mantenerla al caldo. Questo gli portò vendite consistenti ed inaspettate, tanto da fornirgli il denaro per acquistare un asino (“burro” = “asino”, in spagnolo), varcare il confine ed andare a vendere i suoi “burritos” in america. Cio che però noi intendiamo con questo nome è in realtà il “Mission Burrito”, ovvero quello grande (negli USA enorme) che contiene oltre alla carne, crema di fagioli e riso, inventato nel ristorante El Faro, nel Mission District di San Francisco, nel 1961. Chimichanga Anche in questo caso si tratta di un argomento già toccato nella Creative Story n.32: il nome nasce da una sbagliata interpretazione di una esclamazione volgare in spagnolo della proprietaria del ristorante El Carro di Tucson, Arizona quando un burrito gli è caduto nella pentola delle fritture. Una giornalista amica della donna, presente in quell’occasione assaggiò il piatto giudicandolo ottimo e decise di pubblicarlo il giorno successivo sulla sua rubrica del giornale locale, decretandone il successo. Chile con Queso È la crema al formaggio con peperoncino tritato che vedete un po’ ovunque, non ultimo sulle nacho chips. La base tipica e caratteristica per realizzarlo è un formaggio chiamato Velveeta, prodotto dalla Kraft, il che è gia tutto dire… La ricetta nasce dal tentativo dei Tejanos di replicare il “queso fundito”, questo sì una ricetta 31
tipica, ma che usa l’Oaxaca, un formaggio completamente diverso per un piatto più simile ad una fonduta europea ma con aggiunta di chorizo piccante. Margarita Ebbene si: anche la Margarita non è messicana. Sulla sua invenzione non ci sono elementi inconfutabili ma ciò che è certo è che si tratta di un cocktail inventato in America. La versione più celebrata vorrebbe che nel 1942 Pancho Morales, proprietario di un locale a El Paso, abbia ricevuto da parte di una turista l’ordinazione di un Magnolia, un cocktail elegante e decisamente insolito per la clientela a cui era abituato. Non sapendo come farlo ne creò uno li per li, usando la Tequila. Il drink piacque alla donna, che però appuntò non si trattasse affatto di un Magnolia. Morales si scusò, dicendo di aver capito male e di aver inteso gli avesse ordinato un “Margarita”. La versione alternativa, molto meno romantica, vorrebbe il Margarita come invenzione a tavolino studiata dal bar Tail o’Clock di Los Angeles, promossa dal locale importatore di Tequila con l’obiettivo di spingere il consumo del celebre liquore messicano. La cucina messicana è una cucina molto nobile e variegata, cui portare un profondo rispetto e che ti consiglio caldamente di provare, magari sul posto. Quella Tex-Mex è certamente più “piaciona” e divertente ma è una cosa molto, molto diversa.
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L’incredibile guerra della Brunswick Stew Il sud degli Stati Uniti è la vera patria del comfort food, quei piatti poveri nati più dall’esigenza di sopravvivere che da qualsiasi concetto gastronomico ma diventati poi con il tempo un patrimonio culturale regionale. Tra questi, visitando uno dei numerosi joint presenti sul territorio, è molto probabile che tu ti imbatta prima o poi in una Brunswick Stew, una sorta di stracotto di carne in una zuppa spessa, calda e dai sapori rustici e pieni. Si tratta di un piatto che forse più di ogni altro tradisce l’esigenza di dover fare di necessità virtù, avvertita dai primi abitanti di quelle terre immense e bellissime, quanto aspre e difficili, spesso poco generose. In questo senso la Brunswick Stew tradisce il suo ruolo di piatto di recupero riconducibile alla prevalente attività venatoria dei primi coloni. Una vera Brunswick Stew è realizzata infatti con una moltitudine di carni e tagli diversi provenienti da selvaggina povera come scoiattoli, lepri ed opossum. Oggi molto più ordinariamente viene realizzata con pollo, manzo o maiale e viene declinata in modi piuttosto diversi dalle tradizioni dei singoli Stati a seconda della combinazione di ingredienti scelta, delle verdure presenti, della densità e del livello di spaziatura. Addirittura in Kentucky assume un nome diverso: il famoso Burgoo. Appare evidente come non sia certo il piatto più famoso della tradizione sudista ne tantomeno il più celebrato o apprezzato, dovendo pagare pegno ad una cucina che ha davvero tanto altro da offrire. Nonostante questo, la paternità della Brunswick Stew è incredibilmente oggetto di un’accesissima disputa iniziata fin dai primi decenni del 1900 tra la contea di Brunswick, Virginia ed il piccolo paese di Brunswick, Georgia entrambi eredità di immigrati tedeschi originari dell’omonima città della Sassonia. Il piatto ha indiscutibilmente una matrice riconducibile agli indiani che abitavano quelle terre prima dei coloni, ai quali hanno insegnato l’abitudine di stufare a lungo sul fuoco la carne cacciata insieme all’immancabile e abbondante mais. La tradizione povera si è poi trasmessa da questi agli schiavi di colore ed è stata infine tramandata come ricetta popolare delle classi meno abbienti. L’approccio delle due entità regionali non potrebbe essere più diverso ma è innegabile che entrambe, ciascuna a suo modo, prenda la questione estremamente sul serio. In Virginia la Brunswick Stew è fatta principalmente con il pollo ed il coniglio, ha un sapore più delicato, è spessa, cotta fino a sfaldare completamente la carne ed è concepita tendenzialmente come piatto unico. In Georgia al contrario, è fatta con maiale e manzo, è più liquida con i pezzi di carne ancora ben in evidenza, contiene rigorosamente piselli non ammessi invece in Virginia, è decisamente più speziata e piccante e costituisce un piatto di 35
accompagnamento al barbecue. In Virginia si sono autoproclamati inventori della Brunswick Stew sostenendo in base ai documenti del registro della contea, che l’origine fosse riconducibile ad una battuta di caccia poco prolifica organizzata nel 1839 dal Dottor Creed Asking, membro della camera dei delegati insieme ad un gruppo di amici. Di ritorno al campo base dopo una giornata infruttuosa, Haskings trovò il suo schiavo e cuoco di campo che aveva cotto in una zuppa degli scoiattoli catturati con una trappola. Dopo le iniziali riluttanze, scoprì la proverbiale bontà del piatto, riproponendolo al suo ritorno nei suoi comizi politici, decretandone il successo. Ad ulteriore dimostrazione della loro tesi viene evidenziata la prima pubblicazione ufficiale della ricetta della Brunswick Stew in un libro di cucina, il Southern Recorder of Milledgaville del 1862 in cui il piatto viene definito come “Virginia Brunswick”
In Georgia invece ne riconducono la nascita al ritrovamento sull’isola di St. Simon di una pentola in ghisa da 25 galloni fatta risalire alla “Vagabondo”, una nave che trasportava schiavi per il lavoro nei campi. Si trattava di un formato insolito per un utilizzo familiare ma adattissimo a servire una zuppa ad una moltitudine di persone, come si usa spesso fare ancora oggi nelle feste popolari con oggetto la Brunswick Stew. Giusto per sancire la cosa, le amministrazioni cittadine hanno ritenuto di erigere un piccolo monumento a celebrazione del luogo in cui è nata la “vera” Brunswick Stew, datandola 2 luglio 1898, in base alle ricostruzioni storiche.
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In Virginia hanno dato all’identità della ricetta un’aura decisamente più formale: è stato istituito il titolo di Brunswick County Stewmaster, l’esperto cuoco autorizzato a preparare il piatto negli eventi pubblici per la comunità ed un apposito percorso di formazione di 12 mesi per poterlo diventare, a cui sembra si iscrivano periodicamente centinaia di ragazzi. Nella contea viene anche organizzato annualmente un contest molto popolare, per determinare il campione tra gli Stewmasters. In Georgia al contrario, credono di più in una trasmissione di natura familiare delle ricette e della tecnica, molto basata sull’esperienza, che rispetti maggiormente la natura povera del piatto e amano definire informalmente i propri cuochi come gli “Stew Dogs”. Nel Sud degli Stati Uniti è frequente sentir dire che “se Georgia e Virginia litigano per la Brunswick Stew, il North Carolina se la mangia!”. È curioso infatti che pur non potendo vantare alcun diritto sulla paternità del piatto, i numeri prodotti nei due Stati originari non si avvicinano nemmeno lontanamente a quelli del North Carolina, dove la Brunswick Stew è davvero il side dish per eccellenza, usato spessissimo nei joint, con l’aggiunta di affumicato pulled pork.
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Delmonico: la madre di tutte le steakhouse
Tra tutte le immagini di New York che ti saranno passate davanti agli occhi ti sarai certamente imbattuto almeno una volta in quelle di un edificio d In realtà poche persone sanno, quantomeno da questa parte dell’oceano, che la vera madre del concetto moderno di Steakhouse per come lo conosciamo oggi, a cui tutte queste istituzioni carnivore devono molta della propria identità è proprio Delmonico. A Delmonico si deve la nascita di piatti che hanno cambiato l’America per sempre come le Eggs Benedict, il dessert Baked Alaska o l’Aragosta Newberg di cui una delle derivazioni è la forse più famosa in Europa, Aragosta Thermidor. Delmonico rappresenta cosi tanto per la storia delle Steakhouse in America che il suo nome si è diffuso a macchia d’olio su tutto il paese, utilizzato da Steakhouse che nulla hanno a che fare con la proprietà originale, per identificare un stile ristorativo basato su eleganza e raffinatezza. Lo stesso concetto di Delmonico Steak indica genericamente una bistecca dalle dimensioni generose, con un’ottima marezzatura e di particolare pregio, risultando ormai completamente slegata dall’attività di origine. 39
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Questo in realtà è anche dovuto alla storia di Delmonico, particolarmente travagliata e piena di avvenimenti durante in suoi quasi 200 anni di vita. Una storia estremamente variegata ed interessante, che merita di essere raccontata. Ed è quello che volevo fare con te in questa Creative Story. L’apertura di Delmonico’s è per molti versi un caso se non unico, estremamente raro di inizio programmato di un business di successo in America, solitamente caratterizzati da semplici ed umili origini. Giovanni Del Monico era un conosciuto e professionalmente affermato, capitano di marina che nel 1827 decise di emigrare negli Stati Uniti insieme al fratello Pietro dal minuscolo paesino di Mairengo nel Canton Ticino svizzero. Giovanni aveva girato il mondo, era una persona ormai benestante ed un grande appassionato di vino, in particolare francese che si divertiva a commercializzare come attività parallela nei suoi viaggi. Vedendo il grande successo riscosso dal fratello Pietro, abile pasticcere, a seguito dell’apertura di un lussuoso caffè-pasticceria a Berna, gli propose di aprirne uno simile insieme a lui a New York che facesse anche da emporio di vini di altissima qualità per i cittadini più altolocati della città, nella zona nevralgica di William Street, dove aveva già trovato un locale adatto. I Del Monico non badarono a spese e allestirono un autentico caffè parigino bohémien spendendo la mirabolante cifra per l’epoca di 20.000$ in monete d’oro. I due fratelli decisero di cambiare il proprio nome, contraendolo e francesizzandolo con l’accento sulla “o” finale, in un epoca in cui questo era sinonimo di classe ed eleganza. L’idea iniziale era quella di chiamare il caffè “Jean Delmonico and Brother” che ancora figura nella documentazione originale, poi invece rimasto solo “Delmonico and Brother”. L’attività si rivelò da subito un enorme successo tra i numerosi e ricchi commercianti europei regolarmente presenti in città e si propose fin da subito con una caratterizzazione fortemente innovativa: Delmonico era una sala da the e caffè con pasticceria e non venivano serviti pasti, cosa inconcepibile per un locale della New York dell’epoca, solitamente di derivazione diretta delle Chop House britanniche, ovvero rozze taverne dove si beveva e si consumava un piatto caldo. Era inoltre un luogo aperto alle donne, altro evento più unico che raro, e veniva cosi frequentato da eleganti coppie in pausa dallo shopping e non da rozzi lavoratori della middle class. Nel giro di soli 4 anni i fratelli Delmonico avevano allargato la loro attività all’intero edificio fino alla retrostante Beaver Street. Ènel 1930 però che diedero il via ad una vera e propria rivoluzione: decisero di convertire una delle sale a ristorante. Anche in questo caso l’ispirazione fu presa dai più raffinati ristoranti francesi. Per capire davvero l’impatto avuto, basti segnalare che Delmonico è stato il primo locale a New York a servire su tavoli apparecchiati con tovaglie, il primo ad usare il nome francese “restaurant” poi diventato come vediamo, di uso comune nella lingua inglese, il primo a non vendere il cibo a peso o a porzioni come si usa fare ancora oggi nei joint ma a servire piatti predosati uguali per tutti, il primo a non offrire un menù fisso del giorno ma un menu “a la carte” con piatti prezzati singolarmente in modo che il cliente potesse decidere cosa voleva 41
mangiare e quanto voleva spendere. Naturalmente tutto il personale di cucina comprendeva unicamente cuochi francesi. Inutile dire che Delmonico si impose immediatamente come un emblema di raffinatezza famoso in tutta New York. Con la crescita degli affari i due fratelli aggiunsero al proprio staff il nipote Lorenzo, figlio del terzo fratello della famiglia rimasto in Svizzera, che si rivelerà determinante nel successivo futuro di Delmonico.
Nel 1935 però un disastroso incendio che devasto tutta Lower Manhattan distrusse il locale ma i Delmonico non si diedero affatto per vinti, anzi solo due mesi dopo ricostruirono il locale con la nuova lussuosissima apertura sull’angolo al 2 di South William Street esistente tutt’oggi. Ancora una volta non badarono a spese. Gli interni furono decorati con costosi pavimenti intagliati e raffinati decori alle pareti, importati direttamente dall’Europa. L’ingresso fu impreziosito da due serie di colonne, di cui quelle più interne fatte arrivare direttamente da Pompei in Italia. La sbalorditiva cantina del locale comprendeva 16.000 bottiglie di pregiato vino francese, di gran lunga il miglior caveau di tutti gli Stati Uniti. Il ristorante veniva regolarmente approvvigionato con i migliori prodotti d’oltre oceano e per quelli freschi i Delmonico acquistarono delle serre fuori città dove fecero coltivare direttamente ortaggi altrimenti irreperibili negli States dell’epoca, come ad esempio i carciofi. Nel giro di pochi anni però tra il 1842 e il 1848 Giovanni e la moglie morirono e Pietro decise di ritirarsi e di cedere le proprie quote a Lorenzo, che ereditando anche quelle del fratello divenne cosi unico proprietario dell’attività. Paradossalmente iniziò cosi l’epoca di maggior fortuna e prosperità di Delmonico. Lorenzo infatti aveva imparato molto da Giovanni avendo lavorato a lungo al suo fianco e a 29 anni era nel pieno della propria maturità professionale ed imprenditoriale. Tra i suoi maggiori meriti, oltre all’indubbia capacità di dare continuità all’eccellenza che aveva ispirato l’attività dei famosi zii, Lorenzo aveva un grande sensibilità nel cogliere le 42
evoluzioni sociali e di mercato. Sotto la sua guida sono nati i piatti più rivoluzionari del locale, che hanno segnato la storia non solo di Delmonico ma anche di tutti gli Stati Uniti. Si accorse tra le altre cose, che il centro nevralgico della ricchezza cittadina si stava sempre più spostando verso nord di Manhattan e fu cosi che decise di aprire un secondo ristorante tra Broadway e Chamber Street, sempre impostandolo in base alla grandeur francese che ha fatto la fama di Delmonico. Il successo fu clamoroso, costituendo il locale di elezione sia per i broker ed il finantial district a mezzogiorno che per il jet-set più modaiolo della città a cena. Su quest’onda Lorenzo prosegui la sua espansione verso nord ed in pochi anni seguirono aperture a Union Square, ribattezzato dalla stampa “il locale più lussuoso che new York abbia mai visto”, a Broad Street, a Madison Square e a Pine Street. Furono decadi d’oro nei quali Delmonico aveva i migliori cuochi come Charles Ranhofer, considerato per un ventennio in miglior cuoco d’America o come Antonio Filippini e i migliori manager come John Longhi. Tra i clienti dei vari ristoranti della piccola catena hanno inoltre figurato personaggi del calibro di Charles Dickens, Oscar Wilde, James Bennett, Nikola Tesla, Edoardo VII, Mark Twain, Theodor Roosvelt, Napoleone III e molti altri, che contribuirono ulteriormente ad accrescerne il mito.
Per anni Lorenzo si massacrò letteralmente di lavoro, dormendo anche solo 4 ore a notte (al giorno in realtà) occupandosi personalmente degli acquisti, del management e della presenza in sala ottenendo successi straordinari ma questo ebbe delle serie ripercussioni sulla sua salute e nel 1881 improvvisamente morì. Fu l’inizio della fine. Dopo la morte di Lorenzo i suoi luogotenenti, ormai quasi dei parenti acquisiti, che avevano professionalmente condiviso per anni con lui i successi di Delmonico, 43
si aspettavano di venire nominati come parte attiva di una successione. Ma la cosa non avvenne e Delmonico fu ereditato dal nipote Constant che però morì dopo soli tre anni e passò poi da questi al nipote di secondo grado Charlie. Quest’ultimo non si dimostrò uno sprovveduto e seppe dare continuità all’attività e alla fama di Delmonico, aprendo con un buon successo addirittura un ulteriore ristorante sulla Quinta Strada. Se però l’appeal e la reputazione rimasero invariate, la perdita di tutti gli storici collaboratori di Lorenzo a cui si aggiunse la morte di Ranhofer, portò risultati economici non altrettanto esaltanti, finendo nel tempo per mandar in crisi l’attività. Lentamente furono chiusi uno dopo l’altro tutti i ristoranti tranne i primi storici due e quando sopraggiunse la morte di Charlie nel 1901, la guerra di successione tra gli eredi e la ormai difficilmente sostenibile situazione economica portò nel 1919 alla decisione di vendere Delmonico ad un ristoratore di nome Edward Robins. Sfortuna ha voluto però che questo capitasse proprio il giorno prima che venisse decretato l’inizio del proibizionismo. L’indisponibilità a causa della guerra, di molti prodotti d’importazione e l’impossibilità di servire i propri celebri vini ne di poterli utilizzare per cucinare, fu il definitivo colpo di grazia che portò alla chiusura di Delmonico. Nel 1923, a meno di quattro anni dal proprio centenario, con un’ultima triste cena celebrativa brindata ad acqua minerale, chiuse ufficialmente un’autentica istituzione della ristorazione americana. Nel 1929 però l’immobile del primo ristorante in South William Street sfitto da sei anni, fu acquistato dall’imprenditore Oscar Tucci, che decise di riproporre gli antichi fasti del locale, riaprendolo con la stessa formula e chiamandolo “Oscar’s Delmonico’s”. Gli eredi della famiglia intentarono immediatamente una lunga causa legale con l’accusa di utilizzo illecito del nome Delmonico ma il giudice stabilì che essendo stata la cessazione dell’attività un atto volontario, questo comportava l’automatico decadimento di qualunque diritto acquisito. Naturalmente la sentenza diede libero utilizzo da parte dei ristoratori ad un nome che era da solo sinonimo di qualità estrema e raffinatezza. Nacquero in breve tempo numerosi Delmonico’s in tutta la nazione, dove la desinenza indicava semplicemente un determinato format del locale che nel tempo ne è divenuto letteralmente sinonimo. A molti piace pensare che quello che Delmonico ha rappresentato per gli Stati uniti fosse qualcosa di talmente grande da meritare di essere condiviso, diventando patrimonio di tutti.
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CREATIVE STORY N° 47
La storia parallela della cucina canadese Lo abbiamo detto mille volte in queste Creative Stories: gli Stati Uniti sono eccezionalmente bravi nel creare il senso del mito intorno a tutto quello che fanno. Ogni attività, ogni azienda diventa automaticamente icona man mano che accresce il proprio successo. La stessa cosa si può dire per la sua gastronomia e noi qui in queste pagine lo sappiamo bene: pensate a quanti piatti, concettualmente molto più banali di quelli di altre forme di cucina, riescono a diventare famosi in tutti il mondo, in alcuni casi addirittura leggendari come nel caso degli hamburger.
Se immaginiamo i confini settentrionali come uno specchio, l’immagine riflessa simile ma che ne identifica l’esatto opposto, è quella del Canada. Se gli Stati Uniti sono molto bravi a far parlare di se, del Canada e delle sue meravigliose terre al contrario, si conosce davvero poco. Lo stesso si può dire per la sua cultura gastronomica e i suoi piatti tipici, praticamente ignoti ai più. Il Canada viene visto spesso come una versione edulcorata degli States ma non lo è affatto. Si tratta di una nazione molto affascinante con una propria grande tradizione, di cui i suoi cittadini vanno giustamente, caparbiamente ed orgogliosamente fieri. Per darti un termine di paragone Il Canada è stato il primo paese per il quale McDonald ha derogato al proprio rigido format globalizzato, introducendo in via continuativa un panino simile al Lobster Roll, per avere la possibilità di penetrarne il mercato. 47
Lo stesso si può dire per moltissime altre catene, famosissime degli Stati uniti che hanno trovato in Canada una forte barriera all’ingresso legata all’orgoglio nazionale per la propria cucina. Eppure non lo sa nessuno. Come nessuno sa ad esempio che moltissimi piatti ed ingredienti a noi molto familiari sono dei grandi favorites del Canada. Esempi? Sapevi che i Bastoncini Findus sono una copia spudorata dei Fish Sticks della High Liner? L’azienda ittica canadese nel 1950 ha inventato un nuovo modo per riutilizzare e valorizzare in modo molto pratico i grossi blocchi congelati di filetto di merluzzo stoccati nei pescherecci operanti nell’Atlantico, tagliandoli a bastoncini destinati ad essere poi impanati e fritti. Celebre la pubblicità dei Fish Sticks promossa attraverso il barbuto Capitano Highliner con il fido amico Billy. Vi suona in qualche modo familiare?
Sapevi che le patatine soffiate al formaggio, la cui versione più famosa nel nostro paese è probabilmente quella delle Dixi della San Carlo, sono una versione delle canadesi Cheezies? E lo sapevi che la famosa pizza Hawaii di cui accusiamo sempre gli americani è in realtà un’invenzione della catena canadese Satellite Restaurant e che insieme all’ananas non prevede il prosciutto bensì il Canadian Bacon? Probabilmente no, a dimostrazione di quanto la storia gastronomica canadese debba per lunghi tratti essere riscoperta. Il Canada ha nella diversificazione regionale e culturale il suo principale elemento caratterizzante, tanto che la sua gastronomia, spesso viene definita “un insieme di cucine”. I motivi sono molteplici. Geograficamente a fronte di una popolazione che è meno di un 48
settimo di quella degli Stati Uniti, ha una vastità territoriale che la rende la seconda nazione più grande al mondo dopo la Russia. Il paese è attraversato da ben 6 fusi orari e il clima è compreso tra quello continentale del lago Erie nella zona dei Grandi Laghi, che ha la stessa latitudine dell’Italia Centrale e quello artico dell’estremo Nord, che si trova a soli 800km dal Polo Nord. La costa Ovest è isolata dalla presenza delle fredde Montagne Rocciose e la zona centrale presenta nel mezzo il cosiddetto Scudo Canadese, un antico altopiano montagnoso aspro e difficile. Intuibile come le zone dove si concentra la popolazione finiscano per assumere identità molto precise e distinte.
A questo si aggiunge che a partire dal 1500 il Canada è stato sanguinosamente conteso a più riprese tra la dominazione inglese e quella francese creando anomalie come il Quebec, un’autentica isola di cultura francese circondata da quella britannica ed è proprio per questo motivo un paese bilingue. Anche l’insediamento da parte dei coloni nelle terre orientali dei nativi indiani Wabanaki e Algonquian fu un ‘avvicendamento abbastanza complicato, che ha generato periodi molto lunghi di convivenza forzata da cui però deriva l’acquisizione della tecnica indiana per l’estrazione della sciroppo d’acero o di quella di essiccazione della carne di selvaggina, pratiche oggi fortemente radicate nella cultura canadese. Nella British Columbia il cibo è tipicamente semplice e contadino come nella sottostante area dell’Oregon. Le regioni del nord, dello Yukon e del Nunavut sono invece largamente influenzate dalle tradizioni delle popolazioni Inuit. Il tutto condito da influenze olandesi, asiatiche ed ebraiche, grazie a varie ondate migratorie succedutesi nei decenni. Tutto questo per dire che non potrebbe esistere terra più variegata, origine di piatti molto diversi tra loro, anche e soprattutto nel substrato culturale sul quale sono nati. l piatto canadese più antico di cui si abbia notizia, di evidenti origini indiane è il Pemmican che può vantare documentazioni scritte risalenti al 1814. Si tratta di una sorta di biscotto 49
crudo salato, ottenuto dal pestare in un mortaio carne secca di bisonte o renna, oggi prevalentemente sostituite dal manzo, insieme a bacche di mirtillo rosso e grasso animale fino a ricavarne una crema, che viene porzionata e lasciata asciugare. Altro piatto direttamente riconducibile agli indiani aborigeni è il Bannock una spessa focaccia dalla crosta croccante e l’interno morbido, servita calda e spesso sormontata da spesse fette di bacon. La tradizione francese ha regalato al canada la Poutine, un ricco contorno fatto di patate fritte con un tipico formaggio fresco e leggermente gommoso chiamato Squeaky, sormontati da abbondante salsa gravy. Altri piatti rappresentativi del Quebec sono la Tourtiére, un pasticcio di carne in crosta che deriva direttamente dalla Humble Pie della quale avevamo gia parlato in una precedente Creative Story e la Pea Soup, una purea di piselli con carne di maiale ed erbe.
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In comune con la tradizione americana sono il già citato Lobster Roll, tipico della Nuova Scozia e il Bagel, tipico di Montreal, più sottile e dolce rispetto alla versione newyorkese. La Saskatoon Pie è un a torta tipica della regione centrale del Saskatchewan, ripiena delle omonime saskatoon berries, simili ai mirtilli ma descritti con un sapore più dolce e tipicamente mandorlato. Sempre da Montreal arriva la Canadian Smoked Meat, molto simile al Pastrami e quindi di impronta evidentemente ebraica, ma con un profilo spiccatamente più pepato. Il “Katz” canadese è lo Schwartz’s Deli, considerato uno dei migliori ristoranti del Canada. Naturalmente è doveroso menzionare il Canadian Bacon, realizzato con la più magra lonza, rispetto al cugino americano e dal sapore e dalla consistenza più simile ad un prosciutto. Altrettanto diffusa è la versione “peameal” avvolta in farina di mais. Altro piatto identificativo della nazione è la Beaver Tail, la “coda di castoro”, chiamato cosi per la forma piatta e larga di questa frittella, abbastanza simile a quella che da noi vendono al luna park, ma con un impasto più croccante e generalmente ricoperta di crema di cioccolato o burro di noccioline. In British Columbia infine è impossibile non mangiare le Nanaimo Bars un dolce preparato a freddo come una cheese cake ma tra due fette di “crust” al cioccolato.
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CREATIVE STORY N° 48
Il mito clandestino del Moonshine Se ci pensate, ogni paese esprime se stesso attraverso i propri prodotti tipici. Pensiamo al mondo dei superalcolici: in Italia la solare e ridente costiera Amalfitana si esprime attraverso il Limoncello, le aspre catene alpine del nord attraverso la Grappa, all’estero la Francia attraverso il raffinato Cognac o la fredda Russia attraverso la potente e asciutta Vodka. Per il sud degli Stati Uniti questo si traduce nel Whiskey, in particolare il Bourbon e nel Moonshine. Quest’ultimo è però qualcosa di diverso da tutti gli esempi citati ed è forse la migliore espressione dell’orgoglio e della caparbietà sudista. Potete trovare lo stesso prodotto con molti nome “Lighting”, “Firewater”, “Skullpop”, “Mountain dew” ma certamente “Moonshine” è quello più popolare. Una curiosità a questo proposito: alcuni di voi potrebbero aver gia sentito il nome “Mountain Dew” associato ad un noto soft drink oggi di proprietà di PepsiCo. La cosa non è casuale: quando fu inventato nel 1930 da Barney e Ally Hartman conteneva una piccola dose di whiskey. Le difficoltà dettate dal tentativo di commercializzare la bevanda in pieno proibizionismo fecero propendere poi per eliminarlo dalla ricetta. Moonshine significa “chiaro di luna” ed è indicativo del fatto che la distillazione clandestina avveniva nelle notti di luna piena, quelle più luminose che evitavano la necessità di altre fonti di luce che rischiavano di venire scoperte dalle autorità americane. Di base si tratta di un whiskey clandestino ma il termine è poi diventato nel tempo sinonimo di qualsiasi forma di distillazione illegale.
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Di Moonshine si parla in riferimento alla produzione di alcolici in America a partire dal 18° secolo ma il termine esteso più in generale alle operazioni in clandestinità, è stato importato dalla natia Inghilterra. Essendo una alternativa “artigianale” del whiskey, la pratica del Moonshine ha origine negli stati molto ricchi di grano come la Pennsylvania, come attività di recupero per la produzione in eccesso. Il Moonshine inizia il suo mito però a partire dal 1791 quando per la prima volta di una lunga serie, il governo degli Stati uniti emana una nuova tassa sulla produzione di alcolici, che si calcola essere stata cosi alta da rappresentare circa 9 volte i costi complessivi dell’epoca. Come è abbastanza comprensibile, l’iniziativa non fu ben accolta dai molti produttori locali, in un epoca dove il whiskey era addirittura utilizzato come moneta di scambio al posto del denaro.
Per tre lunghi anni riuscirono con le buone e spesso anche con le cattive, a tenere lontani gli esattori delle tasse, costellando la storia di episodi reazionari e in qualche modo sarcastici ed irridenti nella loro drammaticità. Dalla Pennsylvania alla Georgia misero in atto numerose ribellioni armate, tra le quali un assalto alla città di Pittsburg. A lungo si organizzò il furto sistematico della borsa delle lettere ai servizi postali con tutti i provvedimenti giudiziari diretti ai produttori e resta celebre un episodio in cui un gruppo di coloni travestiti da donna assalì un esattore rubandogli il cavallo e sfregiandolo dopo avergli raso i capelli a zero.
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Le cose peggiorarono alla decisione del Maresciallo della Pennsylvania di usare il pugno di ferro imponendo la legge marziale. In tutta risposta una missione punitiva di 500 persone ne mise a ferro e fuoco la casa ma nei conflitti che ne derivarono, perse la vita uno delle principali figure della ribellione. Ne segui la marcia di protesta di una folla inferocita di oltre 6000 persone, tra le più violente di quel periodo, nota come “Whiskey Rebellion”. Tanto che per sedare i tumulti fu necessario l’impiego di un esercito di 13.000 soldati capitanati da George Washington in persona, comparabile per dimensione a quello che ha combattuto la Guerra di Indipendenza. Il governo ebbe alla fine la meglio ma il malumore covò a lungo sotto le ceneri della popolazione locale, creando una profonda instabilità politica, tanto da indurlo pochi anni più tardi nel 1801 a tornare sui propri passi abrogando l’impopolare imposta. Questo è stato il primo episodio della storia dalla sua costituzione, in cui la forza popolare fu in grado di modificare una legge e la cosa diede naturalmente nuovo impulso ai produttori di Moonshine che ripresero a distillare ancor più convinti di prima. Il problema si ripropose diversi decenni più tardi con l’avvento del Proibizionismo del 1920. Erano gli anni di Al Capone, che naturalmente fece del Moonshine uno dei suoi cavalli di battaglia, onnipresente in tutti i locali del celebre Gangster. Ancora una volta la produzione fu largamente costellata da episodi ai limite della leggenda come fughe, sparatorie e distillerie fatte esplodere prima di essere scoperte dai federali. A questo periodo si deve l’inclusione tra gli ingredienti tipici dello zucchero, fatto aggiungere ai Moonshiners da Al Capone per ottenere un prodotto più alcolico da poter poi allungare ed ottenere più bottiglie in un momento in cui la distillazione faceva fatica a tenere il passo con la domanda.
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La produzione del Moonshine aveva in ogni caso rotto definitivamente i propri argini. Si iniziò a distillare in qualunque luogo, utilizzando anche mezzi di fortuna come i radiatori delle automobili e cercando di sfruttare più prodotto possibile compreso le rischiose “teste” e “code” della distillazione. Da qui deriva molta della cattiva fama del Moonshine, come prodotto pericoloso per la salute che poteva comportare danni seri ai suoi consumatori come la cecità o addirittura la morte. Molti produttori attuali sostengono che in realtà si trattasse di informazioni divulgate dal Governo per screditarne l’utilizzo, il quale aveva in quel periodo incaricato Louis Armstrong di registrare annunci radiofonici che allertavano sul rischio insito nel bere alcolici. Ancora oggi uno dei test popolari più diffusi è quello di dare fuoco ad un cucchiaio di Moonshine: se la fiamma è blu si è di fronte ad un prodotto di buona qualità, se è gialla è contaminato, se è rossa contiene il piombo della serpentina del radiatore comunemente usata come condensatore. Da qui il detto “Lead burns red, means make you dead” (il piombo che brucia rosso significa che ti fa morire). Sempre nei primi decenni del secolo scorso acquista una particolare rilevanza la figura del Bootlegger. Se i moonshiner erano i distillatori clandestini che comunque mantenevano una propria aura di “arte e mestiere” sebbene di natura illegale, il bootlegger era il vero contrabbandiere che si occupava di vendere il prodotto finito. Il nome deriva dall’abitudine di nascondere piccole bottiglie di moonshine negli scarponi (da cui deriva l’abitudine generale americana di tenere gli alcolici in piccole bottigliette sempre a disposizione nelle tasche delle giacche) ma con il tempo il significato è stato esteso a qualsiasi attività di contrabbando, in particolar modo caricando le automobili per spostare casse di liquore da una località all’altra. Con il tempo i bootleggers impararono ad elaborare i motori e a rendere artigianalmente più performanti le proprie auto per sfuggire alle retate della polizia, oltre a ricavare nicchie e spazi nascosti dove poter alloggiare più bottiglie di moonshine. La particolare bravura come meccanici divenne quindi un elemento distintivo della “professione”. Hai mai visto il telefilm Hazard? Ecco, pur senza menzionare apertamente la distillazione clandestina, il contesto è esattamente quello. Per migliorare le proprie abilità di guida i bootleggers usavano sfidarsi apertamente in corse all’interno di piste di fortuna di forma tondeggiante, nascosti nella vegetazione. Èda questa tradizione che nasce la Nascar, il famoso circuito di gare automobilistiche americano, particolarmente amato nel sud degli Stati Uniti. La Nascar non ha peraltro mai fatto particolare segreto di questa origine, confermando ancora una volta la sfrontatezza con la quale i moonshiners approcciano la questione. Èabbastanza acclarato infatti che la Nascar sia stata fondata da Bill France grazie ai finanziamenti di un produttore di Moonshine e Junior Johnson, uno dei piloti più famosi della storia nonché proprietario di una casa automobilistica, è figlio di un moonshiner, oltre ad aver contribuito a fine carriera a creare insieme ad una famosa distilleria, il famoso moonshine “Midnight Moon”. Dopo la fine del proibizionismo la fama del Moonshine ha qualche decennio di appannamento, salvo rinvigorire negli anni ’60 e ’70, quelli della contestazione giovanile nei quali la 56
sua nomea di “cattivo ragazzo”, contrario alle leggi del sistema ne ha rispolverato i fasti, vivi ancora oggi.
Nel corso dei decenni molti stati si sono progressivamente aperti alla produzione di distillati e quindi molti Moonshine hanno adattato parzialmente la propria ricetta per conformarsi alle limitazioni (blande comunque) e produrre legalmente. Una particolarità è rimasta però nel fatto che “Moonshine” rimane di fatto sinonimo di “alcolico illegale”o “alcolico di contrabbando” e non può quindi essere usato per definire una categoria di prodotto. I Moonshiners hanno cosi deciso di aggirare la restrizione inserendo il nome “moonshine” nel nome del proprio brand commerciale, ad ulteriore testimonianza di una storia di resistenza e ostinata ribellione perpetrata fino all’ultimo.
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CREATIVE STORY N° 49
Le 4 ere d’oro del Jerky Praticamente fin dal primo momento in cui nel nostro paese si è cominciato a cantare “Mamma mia dammi cento lire che in America voglio andar…”, ovvero fin dagli albori del fenomeno dell’emigrazione verso gli Stati Uniti si è potuto assistere ad uno sdoppiamento delle nostre abitudini gastronomiche, come in una sorta di sliding doors. Hai mai visto una cartina che evidenzia cromaticamente la densità di popolazione degli Stati Uniti suddivisa per singolo stato dell’unione? Esclusa la California, potrai notare fino ad un terzo del territorio partendo da Est, una concentrazione di tanti piccoli stati con un colore intenso, coincidenti con le prime colonie del nuovo mondo. Poi a partire dalla fascia verticale che va dal Minnesota alla Louisiana inizia una serie di stati dai territori molto grandi e colori estremamente tenui, praticamente bianchi. Due terzi del territorio degli Stati Uniti sono costituiti da sterminati deserti, foreste e praterie nei quali potresti viaggiare a cavallo giorni interni prima di incontrare anima viva. Immaginati quindi quale dovesse essere la vita dei Cow Boy del selvaggio west, dei cercatori d’oro, delle famiglie di coloni, e dei viandanti che due secoli fa attraversavano quelle terre per raggiungere la costa del pacifico alla ricerca di fortuna. La loro sopravvivenza era legata al razionamento della poca acqua che riuscivano a portarsi dietro e a delle preziosissime strisce di carne essiccata a cui poter dare un morso per avere il supporto proteico necessario: il Jerky. Il Jerky ha fortemente caratterizzato quell’epoca ed è riuscita a sopravvivere indenne fino ad oggi sapendo mutare la propria essenza, passando attraverso 4 grandi epoche d’oro, nelle quali è riuscito a ritagliarsi ruoli molto diversi tra loro ma sempre incredibilmente centrali per un prodotto tanto semplice. Questa capacità di mutare ed adattarsi del Jerky, ne ha caratterizzato una storia molto antica e movimentata e ha influenzato fortemente la vita di svariate popolazioni. Il termine “Jerky” deriva dalla parola quechua “Ch’arki” che significa letteralmente “carne essiccata”. Il popolo quechua è stata l’etnia più importante dell’impero Inca, tanto che il loro idioma si è imposto come lingua ufficiale dell’impero. Il cuore dell’espansione quechua sono stati gli attuali Perù e Bolivia, dove si ritiene il Jerky sia nato. Questa è la prima epoca d’oro del Jerky. Siamo in pieno territorio andino, dove gli spostamenti erano lunghi e difficoltosi oltre che molto faticosi. L’abitudine di disidratare lentamente a fianco del fuoco delle strisce di lama o di alpaca era essenzialmente destinata a costituire delle scorte di cibo durevole e facilmente trasportabile a sostentamento dei viandanti. Da sottolineare che questa non è in realtà la traccia più antica esistente del Jerky. Strisce di carne essiccata al sole, in tutto e per tutto simili a quello attuale sono state ritrovate ancora 59
in eccellente stato di conservazione nelle tombe dei Faraoni come scorta di cibo per il passaggio nell’altro mondo, ma il collegamento tra le due culture cosi come avviene anche per le piramidi, rimane un mistero tutt’ora irrisolto. Tornando al 1500 e all’invasione dei conquistadores nei confronti delle grandi civiltà precolombiane, c’è da segnalare il grande interesse manifestato degli spagnoli nei confronti del jerky, tanto che lo portarono immediatamente con loro in Europa. Ci sono alte probabilità tra le molte ricette del vecchio continente, che da questa matrice originale derivi anche anche quella delle coppiette laziali in uso nel nostro paese. I confini dell’impero Inca erano allora sterminati e arrivavano incredibilmente a tangere anche le isole caraibiche. In particolare nell’attuale Jamaica era presente un sottogruppo etnico dei quechua, quello dei Arawak, gli indigeni che incontrò Colombo al suo arrivo nel Nuovo Mondo. Per far capire l’influenza che il contatto e lo scambio di conoscenze avvenuto con quella pacifica popolazione hanno avuto sulla nostra cultura, basti ricordare che dalla lingua Arawak derivano termini come Canoa, Amaca o Caimano. Una particolare declinazione Arawak del Jerky era la pratica del “jerking” ovvero marinare la carne con abbondanti spezie, tra cui il famoso e fruttato peperoncino autoctono Scotch Bonnet, e tuberi schiacciati, al fine di evitare che venisse intaccata dai fastidiosissimi mosquitos presenti sull’isola. Mi piacerebbe raccontarti che i pacifici Arawak abbiano convissuto serenamente con i conquistatori europei ma come puoi ben immaginare non fu cosi. Anzi, il loro carattere disponibile ed arrendevole ne rese rapido ed estremamente semplice lo sterminio programmato. 60
In pochi anni gli spagnoli rimpiazzarono completamente la popolazione esistente con carichi di schiavi provenienti dall’africa e destinati allo sfruttamento agricolo dell’isola. Successe cosi, che un gruppo di questi si ribellò alle pesanti condizioni di vita a loro imposte, fuggendo e nascondendosi nelle locali Blue Mountains.
Furono abili a difendersi e a nascondersi a lungo, riuscendo nel tempo a creare una vera e propria comunità indipendente chiamata Moroons che chiaramente sopravviveva solo con quello che quei territori avevano da offrire loro, ovvero cacciagione, piccoli volatili, o pesce in alcuni casi, sui quali applicavano la tecnica del jerking per preservarli al meglio possibile. Proprio da qui nasce il Jerk Jamaicano, una cottura a bassa temperatura con un particolare e speziatissimo condimento, oggi in prevalenza utilizzato sul pollo ma che in senso generale può essere esteso a qualunque cosa e che non ha più niente a che fare con la carne secca. Meno chiaro è il successivo collegamento, quello che porta ai nativi dell’America del nord, i pellerossa e alla seconda epoca d’oro del Jerky. Il popolo quechua aveva una forte sovrapposizione con un altro gruppo etnico, gli Aymara, tanto che spesso si parla di un unico macro gruppo chiamato quechumaran. L’invasione spagnola degli attuali Stati Uniti, proveniente dalla regione del Messico e che ha abbracciato i territori dal Texas alla California ha incontrato tra le mille tribù anche quella degli Yuman nella cui lingua si ritrovano diversi elementi comuni con quella Aymara. Èmolto probabile quindi una contaminazione avvenuta da parte delle popolazioni precolombiane. 61
Fatto sta che i conquistadores incontrarono l’abitudine molto diffusa tra i nativi americani di essiccare le carni di bufalo e più a nord di alce e di cervo, a fuoco lento, con un sistema in tutto e per tutto identico a quello visto sulle ande. iniziarono cosi a chiamarlo “Charqui”, adattamento in spagnolo dell’originale “Ch’arki” ed il termine fu rapidamente adottato dagli indigeni. Sempre riconducibile a questa tradizione è la preparazione del Pemmican, sempre di origine indiana e ottenuto da carne essiccata, grasso e bacche, di cui avevamo gia parlato nella Creative Story n.47 riguardante la cucina del Canada. Questo solo per sottolineare quanto fosse geograficamente estesa la tradizione del Jerky all’arrivo dei colonizzatori europei. Come detto in premessa, naturalmente il Jerky divenne molto popolare durante la colonizzazione del West da parte delle ex colonie britanniche provenienti dalla costa atlantica, rivelandosi fondamentale nelle migrazioni e nei lunghi viaggi, sui quali è stato costruito ciò che gli USA sono oggi. La terza epoca d’oro del Jerky arriva nel 1917 e ha come palcoscenico i drammatici eventi della Prima Guerra Mondiale e più precisamente nel momento in cui gli Stati Uniti decidono di intervenire attivamente a fianco degli Alleati. Nella fornitura in dotazione ai soldati nel caso dovessero trovarsi isolati ed impossibilitati ad allestire una cucina da campo, la U.S. Army prevedeva la cosiddetta “C-Ration” o “Combat Ration”o ancora “Reserve Ration”, il corrispondente di quello che da noi è noto come “Razione K”, in sostanza un pasto di emergenza, concentrato ed altamente proteico e calorico. 62
Il kit comprendeva naturalmente oltre a caffè solubile, cioccolato, gallette e corned beef, ben 450 grammi di ottimo Jerky che confermava ancora una volta il proprio ruolo sociale e il proprio alto indice di popolarità. La quarta e ultima era d’oro del Jerky è infine quella attuale, definita da alcuni in modo molto celebrativo “il nuovo rinascimento del Jerky”. La tecnica di disidratare vari tipi di carne in funzione della disponibilità, comunemente adottata ai tempi della conquista del West è stata riadottata per trasformare un prodotto povero e popolare in uno snack cool e alla moda, proponendo infinite varianti di gusto e di materia prima rispetto al classico Beef Jerky. Le prime varianti alternative sono state a base di carne di maiale, note anche come Pork Chips e oggi comprendono una scelta praticamente infinita, dagli esotici canguro, antilope, alligatore e struzzo, agli storici bufalo e alce, dai raffinati anatra e cervo fino agli ittici salmone e tonno e sono stati recentemente introdotti anche cammello, vermi di terra e cavallo (che per gli americani è tutto dire…). La stessa cosa si può dire per le marinature, dal pepe nero al piccante habanero, dal gustoso teriyaki all’intenso Tennessee whiskey. Ne è stata creata anche un versione più economica a base di carne macinata speziata e ricomposta, che puo ugualmente fregiarsi del nome Jerky ma che deve obbligatoriamente riportare la specifica “ground and formed”. L’onda del successo è tale che in un programma avviato dalla NASA nel 1996 e che ha coinvolto gli stessi astronauti nella selezione dei menu oggetto dei pasti nelle missioni spaziali, in mezzo a cibo di ogni sorta, liofilizzato in base alle più moderne tecnologie, è stato inserito anche il modestissimo e arcaico Jerky, alla conquista dello spazio e della sua prossima, ennesima ed inevitabile era d’oro.
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CREATIVE STORY N° 50
La resurrezione strategica del Bacon
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Prova ad immaginare di andare da McDonald o da Burger King, in qualsiasi altro fast food o anche solo in un pub o in un bar e di non trovare nemmeno un piatto contenente del bacon. Impensabile vero? Oggi il bacon è un ingrediente “cool”, decisamente associato ad un consumo “giovane”, usato per rendere più goloso ed invitante qualsiasi tipo di preparazione. Pensa che una ricerca ha stabilito che il 65% degli americani considera il Bacon il proprio piatto nazionale. Nella sua versione home made o in abbinamenti fortemente contrastanti come quelli con i frutti di mare, riesce addirittura a assumere una connotazione “gourmet”. Ma non è sempre stato cosi. Il bacon ha una storia molto antica è decisamente più travagliata di quanto si potrebbe supporre e i suoi albori sono stati tutt’altro che rosei. La sua ascesa non è stata però una naturale e lenta scalata al successo quanto frutto di una precisa opera di riposizionamento strategico. Ma andiamo con ordine. Tagli di carne di maiale conservata, sono storicamente molto presenti un po’ in tutta la regione asiatica ma il primo antesignano di ciò che oggi è il bacon potrebbe essere considerato 65
il Petaso, una spalla di maiale disossata e stagionata sotto sale che poi gli antichi romani facevano bollire insieme ai fichi secchi. Il bacon per come lo conosciamo oggi nasce però in pieno medioevo nell’Europa Centrale, dove nelle fattorie nei dintorni delle numerose miniere di sale presenti, i contadini nella stagione della macellazione del maiale, usavano conservare i tagli più poveri nel sale. Quello che non potevano sapere è che quel sale era fortemente ricco di nitrati che poi nel tempo, come sappiamo, scindevano in nitriti causando il famoso effetto “prosciuttato” che vediamo anche nel Pastrami e in diversi prodotti analoghi. Per capire la diffusione del fenomeno e quanto questo abbia plasmato le abitudini gastronomiche mitteleuropee, devi considerare come la presenza di miniere di sale andasse dall’attuale Ukraina alla Francia e che l’economia di intere città oggi molto famose, fosse fortemente incentrata sulla sua estrazione. Alcune di queste sono addirittura nate e sviluppate a quello scopo come Salisburgo (ovvero Salzburg, la città del sale).
A quell’epoca la produzione del bacon era naturalmente ancora completamente artigianale, destinata ad un uso familiare e frutto di un processo lungo spesso oltre un mese, nella quale ogni nucleo possedeva le proprie tradizioni e la propria personale ricetta di sale e aromi. Il primo passo verso il concetto di uniformazione della produzione si ha nel 1770 a Caine nel Wiltshire, in Inghilterra, ancora oggi regione tradizionalmente molto famosa per il Bacon, dove John Harris ha iniziato a commercializzare il suo “Wiltshire Cure”, una miscela di spezie brandizzata e bilanciata ma che soprattutto introduceva la novità di una soluzione per salamoia liquida, semplicemente da aggiungere all’acqua, che rendeva la preparazione 66
decisamente più pratica e veloce e l’ideale trampolino di lancio per la produzione industriale su larga scala. Come ormai sanno molto bene tutti i lettori delle Creative Stories, la madrepatria Inghilterra è stata la base di partenza per molti piatti e molte tradizioni diventati poi famosi e rappresentativi della cultura americana ma nati in realtà nel vecchio continente, attraverso l’esodo dei coloni nel nuovo mondo. Anche il Bacon non fa eccezione. È però necessario inquadrare in quale contesto questo passaggio è avvenuto. Non si può certo dire che si trattasse di una preparazione pubblicamente ben voluta ne ben considerata in quel periodo. Se il manzo era un prezioso animale da lavoro, indispensabile ausilio del pesante lavoro nei campi e la sua carne il cibo delle classi più abbienti e delle grandi occasioni, il maiale assumeva un senso esclusivamente come riserva alimentare delle famiglie contadine, quelle più povere, che lo macellavano una volta l’anno, uniche proteine animali di una vita di stenti. Tra tutti i tagli ricavati, i meno desiderati e preziosi erano quelli più grassi, spesso relegati al solo ruolo di condimento per le cotture. Si stima che fino alla Prima Guerra Mondiale, i ritagli di grasso e il lardo fossero il principale condimento utilizzato dalle famiglie del Centro-Nord Europa. Il Bacon si trovava appena sopra questa soglia: un salume ma della peggior specie, una delle principali espressioni del fatto che del “maiale non si butta via nulla”. Letteralmente Bacon e patate era considerato nella scala sociale il piatto meno dignitoso in assoluto, di cui quasi vergognarsi. Lo stesso William Shakespeare, celebre poeta e drammaturgo inglese di quel periodo, aveva definito il bacon come “il cibo dei furfanti”, facendo riferimento al fatto che fosse allora associato nella concezione popolare alle fasce più degradate e malfamate della popolazione. Per comprendere meglio il fenomeno, considera che il taglio di Bacon all’inglese comprendeva principalmente la lonza e si estendeva poi solo come conseguenza alla pancia, una lunga sezione unica che andava quindi dalla spina dorsale fino al ventre. Lo stesso termine “bacon” deriva da “Back”, ovvero “schiena”, “dorso” ed un esempio di selezione “nobile” lo possiamo facilmente trovare nel vicino Canada, dove il Canadian Bacon viene ottenuto SOLO da coppa, andando in direzione esattamente opposta a quello che vedremo per gli USA. Il retaggio britannico quindi, di una preparazione di sola pancia, privata dell’unica parte nobile si portava comprensibilmente dietro una reputazione infima e deplorevole, di chi non riesce a farsi carico nemmeno del minimo sostentamento. Ma torniamo nel Wiltshire. L’introduzione del processo a salamoia liquida aveva reso ancora più economico e accessibile un piatto già povero. L’industrializzazione aveva come scopo quella di produrre la nuova carne dei lavoratori, che doveva costare poco e rivolgersi principalmente alle numerose famiglie delle classi più umili della nazione, quelle con tante bocche da sfamare e con un grande dispendio calorico. L’esplosione della domanda ha generato una richiesta immediata di un numero enorme di suini. E dove potevano essere reperibili cosi tanti capi se non nelle sterminate terre delle colonie americane? 67
Devi sapere che i suini nel Nuovo Mondo non sono animali autoctoni a sono stati introdotti dagli esploratori europei Cristoforo Colombo prima e Hernando de Soto poi, nel numero di soli 13 esemplari, che lasciati allo stato selvatico e senza predatori naturali, si sono riprodotti incontrollatamente fino a giungere ad oltre 700 in soli 3 anni come vedremo meglio nella Creative Story n.64. In America era quindi disponibile in modo gratuito e pressoché illimitato una quantità enorme di suini selvatici che ormai avevano generato una selezione propria, chiamata “Razorback”: un’autentica manna per l’industrializzazione della produzione di Bacon. Naturalmente come sappiamo, pochi anni dopo gli Stati Uniti diventarono autonomi grazie alla Guerra di Indipendenza e anche la produzione di bacon venne internalizzata riprendendo integralmente l’impostazione popolare inglese. In quel periodo gli Stati Uniti erano una nazione tutta da costruire, in condizioni difficili, ricca di lavoratori poveri, emigrati dall’Europa, spesso per disperazione. Le esigenze alimentari erano simili a quelle delle classi operaie della vecchia Inghilterra e la povera versione industriale del Bacon era l’ideale per soddisfarle. Ad un secolo di distanza, a fine ‘800, l’area di Cincinnati era divenuta la nuova patria dell’allevamento del maiale, tanto da essere ironicamente ribattezzata “Porkopolis” e la vicina Chicago, la città di elezione per la produzione di Bacon e che interessava la macellazione di oltre un milione di suini all’anno. E qui arriviamo al vero momento “sliding door” di questa storia. La svolta nella reputazione del bacon la si deve in grande parte alla visione strategica di Oscar e Gottfrid Mayer, due fratelli immigrati dalla Germania giovanissimi e che trovarono occupazione naturalmente nel settore del bacon. i due ambiziosi ragazzi adottarono ciò che avevano visto ed imparato in patria nella stagionatura del maiale e decisero in breve tempo di mettersi in proprio vantandosi di saper produrre il miglior bacon di Chicago. Il prioritario obiettivo dei Mayer era naturalmente quello di migliorare la percezione pubblica del loro prodotto. Decisero quindi come prima cosa, l’introduzione di un proprio marchio che sapesse esprimere qualità. Optarono per “Edelweiss”, ovvero “stella alpina” evocando la purezza delle alpi ed il bianco candore del celebre fiore che richiamava una sensazione di pulizia. Dopo essersi distinti sul mercato ed essersi guadagnati una propria reputazione, decisero di cambiare nome e logo apponendo semplicemente la selezione “Oscar Mayer Approved” con tanto di firma, un concept incredibilmente all’avanguardia per l’epoca. L’ultimo passo di un’autentica rivoluzione culturale fu l’idea dei Mayer nel 1924 di commercializzare bacon confezionato già affettato, andando incontro ad esigenze di consumo sempre più pratiche e funzionali e portandolo quindi ad una concezione più moderna. In aggiunta all’intuito dei fratelli Mayer, ci sono state altre due grandi iniziative di marketing che hanno contribuito considerevolmente in questo processo evolutivo. La prima è a seguito dell’avvento in America di Edward Bernays, nipote del famoso psicoanalista austriaco Sigmund Freud e noto per essere il “padre delle Pubbliche Relazioni”. In un suo seminario del 1928 intitolato “Propaganda” spiegava come “manipolare in modo non 68
percepibile il comportamento e le opinioni delle masse in una società democratica”. La Beech-Nut Meat Packing Company, altra grande produttrice del settore, assunse immediatamente Bernays per applicare le proprie teorie sul mercato del bacon. In quegli anni si assisteva all’esplosione del fenomeno dei “white collars”, i colletti bianchi, ovvero gli impiegati, come nuova forma lavorativa del crescente settore terziario, considerato più evoluto e di tendenza. La nuova classe lavoratrice voleva una colazione meno proteica ed un minor consumo di grassi. Erano gli anni del boom dei cereali nel latte e del consumo della “other white meat” ovvero la carne di pollo al posto del grasso maiale. Bernays decise di giocare molto sull’associazione con le uova, un alimento considerato sano e completo, con immagini positive e accattivanti, tra le quali forse la più famosa è quella della figura della faccia felice nel piatto, dove gli occhi erano composti da due uova all’occhio di bue e la bocca sorridente da una fetta di bacon croccante. Incredibilmente, molto dell’immagine attuale della perfetta colazione americana degli anni ’50 a base di Eggs and Bacon deriva dal lavoro di Bernays.
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La seconda è avvenuto invece molti anni più tardi, nel 1990 e attribuibile ad una famosa catena di fast food, chiamata Hardee’s. Nonostante tutto il lavoro svolto in precedenza, l’immagine del bacon iniziava ad arrancare, veniva vissuto come un ingrediente che tradiva la sua età. Il maiale era stato ormai soppiantato già da un trentennio dal sempre più accessibile manzo come prima carne nazionale nei consumi degli americani. Hardee’s pensò di uscire con un’iniziativa che “spaccasse” l’opinione popolare, andando apertamente contro a tutte le convenzioni e le tendenze dell’epoca. Creò il Frisco Burger, un hamburger dichiaratamente “patriota”, che giocasse sui prodotti distintivi americani e che fosse estremamente gustoso. Tra due fette del caratteristico Sourdough Bread, c’era quello che è stato ribattezzato Thickburger, ovvero un saporito e corposo hamburger di manzo in controtendenza con quelli sempre più sottili nati con White Castle (come puoi leggere nella Creative Story n.1 presente sul libro “40 Creative Stories Vol.1”), due fette di classico American Cheese, una di pomodoro e naturalmente tanto bacon croccante. inutile dire che il Frisco Burger spopolò. Cosi tanto da venire immediatamente copiato da Wendy’s che creò il suo celebre “Baconator”, da Burger King che introdusse stabilmente il bacon nel suo panino di punta, il Whopper e poi da li, tutti gli altri. Il Bacon tornò immediatamente ed improvvisamente ad essere “giovane” e ammiccante. Sull’onda di quel successo nacquero movimenti come “Bacon makes everything better”, il bacon arrivò a diventare addirittura ingrediente ricorrente di molti ristoranti stellati americani. Nel 2015 la carne di maiale è tornata a superare per consumi il manzo sulla tavola degli americani e si calcola che da allora il prezzo di mercato del bacon sia triplicato, vero ed indiscutibile dimostrazione del successo di una riuscitissima campagna di marketing lunga più di cento anni.
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CREATIVE STORY N° 51
Il Sushi, dalle stalle alle stelle e ritorno Se si impara a conoscerla meglio, è facile rendersi conto di come la cucina giapponese sia incredibilmente complessa, articolata e affascinante ma la percezione che tutto il mondo ne ha si potrebbe sostanzialmente riassumere in un unico piatto, o in un’unica espressione gastronomica se vogliamo: il celebre Sushi. Effettivamente a discolpa di tanta banalizzazione, si deve ammettere che il Sushi incarna alla perfezione il vero spirito del Giappone e della sua cucina: è essenziale, rigoroso nella propria esecuzione, con una attenzione all’aspetto estetico profonda almeno quanto il meticoloso bilanciamento dei suoi sapori, tutti caratteri fortemente rappresentativi dell’approccio metodico della cultura del Sol Levante. Per rendersene conto basta elencare alcuni fact inerenti il sushi: per realizzarlo è indispensabile una particolare qualità di riso a grano corto della varietà Japonica, dolce a sufficienza da risultare coeso e con un gusto non “secco” ma senza arrivare a risultare appiccicoso e stucchevole in bocca. Per ottenere questo scopo bisogna cogliere il riso al giusto grado di maturazione e sottoporlo ad un lungo e meticoloso processo di lavorazione artigianale tramandato da generazioni. Diventare Shikunin, ovvero cuoco del sushi, richiede di suo una grande volontà e disciplina: l’apprendista può solo osservare per due anni, facendo il semplice lavapiatti, poi per quattro anni si occuperà unicamente della cottura del riso, poi passerà ad affiancare il proprio maestro nell’acquisto del pesce e nella sua lavorazione al coltello e solo allora potrà comporre i suoi primi nigiri. “Il Sushi è un’arte a sé” come recita un noto detto popolare, ponendolo a porta bandiera di tutto ciò che pervade l’aura mistica delle attività rituali giapponesi. Ma ancor più di questo, il Sushi ha ciclicamente alternato più volte nella sua storia millenaria, fasi di estrema nobiltà ad altre di maggior diffusione popolare, per non dire di estrema umiltà e proprio per questo identifica alla perfezione lo spirito di sacrificio e di resurrezione caratteristico del popolo giapponese. La premessa iniziale alla nostra storia è che il piatto nipponico più conosciuto al mondo in realtà non è affatto giapponese, quantomeno non nella sua forma originale. Sebbene in patria sia molto diffusa una leggenda che ricondurrebbe la nascita del Sushi alla moglie di un pescatore che in assenza del marito impegnato per settimane in mare, nascose del pesce nei nidi abbandonati di Martin Pescatore per nasconderlo ai ladri, riempiendoli prima di riso per proteggere il pesce e scoprendo che questo ne prolungava la conservazione. Questo racconto popolare gode in realtà di scarsissime se non nulle documentazioni storiche a supporto, in grado di dimostrarne l’attendibilità. 73
Sembrerebbe invece ormai assodato da citazioni in numerosi dizionari del VI sec. D.C. che esattamente come i Gyoza o come il Ramen di cui abbiamo gia parlato nella Creative Story n. 41, il Sushi abbia origini cinesi. In particolare sembra provenire dalla regione dello Yangtze e che abbia radici estremamente povere. La vasta comunità di pescatori delle placide e poco profonde acque del fiume azzurro, molto ricco di Carpe, viveva il grosso problema della conservazione del pesce, in un territorio vasto, che comportava spostamenti lunghi e difficili e con un clima caldo e umido. Il sushi nascerebbe quindi addirittura nel II secolo A.C., come forma di conservazione attraverso l’adozione di una tecnica a sua volta creata a questo scopo nell’attuale Laos tra i pescatori del fiume Mekong: il pesce veniva eviscerato, sfilettato e alternato a strati di riso bollito e sale dentro a delle botti. L’amido di cui era ricco il riso, con il tempo inacidiva fungendo insieme al sale da conservante per il pesce. Questo processo consentiva tra le altre cose al pesce di poter essere trasportato e commercializzato anche in luoghi molto distanti. Sembra che proprio il commercio sia stato alla base dell’introduzione in Giappone nel 700 D.C. circa, di questo pesce macerato. Come spesso avviene, lo spirito di emulazione ha fatto si che presto la pratica venisse introdotta anche nel paese del Sol Levate e che per affinità con il suo senso originale, questo sia avvenuto sulle rive del lago Biwa, anch’esso largamente popolato di Carpe, nella pregiata e autoctona varietà Funa, le mitiche “carpe dorate” oggi sempre meno reperibili, nonché uno degli specchi d’acqua dolce più grandi e più conosciuti della nazione. 74
Stiamo parlando di una preparazione molto diversa dal sushi attuale: la macerazione del riso richiedeva da 1 a 4 anni di attesa, creando miasmi nauseabondi e si trattava quindi di un piatto tutt’altro che delicato, sebbene sembri che una volta puliti dal riso putrido, i filetti di pesce avessero un sapore agre ed intenso ma piacevole. Questa particolare tipologia di sushi, nonostante sia oggi destinata ad un consumo di nicchia, esiste ancora ed è conosciuta con il nome di Narezushi, ovvero “sushi invecchiato”.
Il processo richiedeva tempo, pazienza, un discreto immobilizzo di risorse e aveva un resa abbastanza bassa in proporzione ai volumi necessari. Questo ne faceva una preparazione costosa, che i ceti più abbienti delle grandi città come i nobili, i guerrieri o i ricchi commercianti, amavano farsi spedire per poter godere dell’”esotico” pesce di acqua dolce da alternare ai più consueti frutti del mare. Già a partire dal 15° secolo, durante la guerra civile giapponese il processo di fermentazione del pesce venne notevolmente accorciato ponendo dei pesi sopra i contenitori di giunco che ne costringevano l’espulsione dei liquidi. Il gusto meno acido risultava quindi più leggero e delicato, dando origine ad una nuova tipologia, chiamata Mamanarezushi, ovvero Nare Sushi Crudo. Il vero primo passo del Sushi verso un consumo più popolare è avvenuto nel 1600, quando la capitale del Giappone è stata trasferita da Kyoto a Edo. Quest’ultima, coincidente con l’attuale Tokyo, era già una città portuale e mercantile più che fiorente e ne ottenne ulteriore vigore, espandendo tutte le proprie attività ricettive e sviluppando un’intensa vita notturna. L’esigenza di accelerare i processi produttivi ad opera dei commercianti locali ha portato alla pratica di condire il riso con aceto di riso prima di comporre gli strati, scoprendo che questo 75
accelerava notevolmente la fermentazione riducendola a sole poche ore. Questo nuovo stile, noto come Hayazushi ovvero “sushi veloce”, manteneva edibile tra le altre cose il riso, consentendone per la prima volta il consumo insieme al pesce conservato. L’autentico sdoganamento però si deve a Hanaya Yohei, considerato il padre del sushi moderno. Hanaya ha trasformato il Sushi in un cibo da strada nel 1824, posizionando il proprio chiosco, concettualmente una sorta di antesignano degli attuali street food, su uno dei pochi ponti sul fiume Sumida nel quartiere Ryogoku che non per nulla significa “luogo tra i due paesi”, una zona di altissimo passaggio che gli ha dato un’enorme visibilità. L’accesso al fiume, lo collegava direttamente al mare e gli dava quindi un’immediata ed illimitata disponibilità di pesce fresco, acquistabile direttamente dalle barche dei pescatori. Non esistendo più alcuna esigenza di conservazione del pesce, a Yohei venne in mente l’idea di proporre il pesce sfilettato e porzionato al momento su delle polpettine di riso che si prestassero in questo modo a fungere da boccone dal consumo veloce e agevole. Il riso veniva lasciato risposare con aceto di riso una volta cotto, in modo da riprendere parzialmente il sapore agre del piatto originale. Nasce cosi il Edomae Sushi, ovvero il “sushi di Edo”, il nigiri sushi per come lo conosciamo oggi. In questa fase nascono anche gli Hosomaki, una forma di sushi circondata da alghe nori, più agevole e pratica da essere mangiata a mani nude.
Inutile dire che l’iniziativa ebbe un successo clamoroso, tanto che fu replicata immediatamente da due chioschi rimasti poi celebri, il Kanukizushi e il Matsunozushi (che esiste ancora) e poi a seguire in tutta la città. Si stima che nel 1900, nelle vie di Tokio, ci fosse in media un chiosco sushi ogni 100 metri, innescando inevitabilmente una guerra commerciale tra i venditori. 76
Il Sushi, all’epoca proposto esclusivamente come Nigiri e Hosomaki, veniva mangiato con le mani e ai lati delle attività venivano posti dei lunghi drappi bianchi ove i clienti potessero pulirsele prima di procedere lungo il loro cammino. Gli avventori si contendevano naturalmente quelli con i drappi più sporchi, sintomo di una maggiore gradimento da parte del pubblico. Paradossalmente il Sushi era nato estremamente povero, per diventare poi un cibo per persone agiate e benestanti ed era tornato ora ad essere un pasto estremamente popolare ed accessibile alle fasce più umili. Ma le vicissitudini cicliche nella storia del sushi erano tutt’altro che concluse. Il terribile terremoto avvenuto nella città di Tokio nel 1923 e che si calcola avesse ucciso oltre 100.000 persone, ha comportato indirettamente due importanti conseguenze per il nostro racconto. La prima è stata l’esodo forzato di oltre un terzo della popolazione superstite, rimasto senza casa in una terra martoriata fisicamente ed economicamente dalla calamità. Questo si è rivelato uno straordinario veicolo di diffusione di questo “nuovo” concetto di sushi in tutta lo stato trasformandosi da ingegnosa invenzione locale a vero e proprio piatto nazionale. La seconda è derivata dal conseguente crollo del valore immobiliare degli edifici rimasti, che diventarono improvvisamente più accessibili anche per i gestori dei chioschi sushi. Nel giro di poco tempo la somministrazione del sushi cambiò completamente la propria natura, spostandosi dall’esterno all’interno e diventando un’attività ristorativa a tutti gli effetti, con dei tavoli, uniti ad un concetto di “servizio” più raffinato, e scoprendo una propria identità più formale. La proposta inizia inoltre a farsi più articolata, e maggiormente orientata al consumo attraverso le bacchette, più consona a ristoranti classici. 77
Con la fine della seconda guerra mondiale, migliorano i rapporti tra Giappone e Stati Uniti e il sushi approda infine in modo massiccio nel principale sbocco commerciale per i paesi asiatici: la California e le città di San Francisco e Los Angeles in particolare. Qui nel 1970 ha luogo, l’ultima fase della risalita sociale del Sushi. All’epoca, sebbene i ristoranti sushi fossero presenti già dal 1906, questo veniva ancora percepito come un curioso cibo etnico, praticamente sconosciuto al di fuori dei confini del Giappone. Ciò che probabilmente più ha contribuito alla sua diffusione fu la tendenza ad avvicinarsi ai gusti occidentali, “intaccando” quella che era la tradizione giapponese con ingredienti come maionese piccante, cream cheese o pesce fritto, creando di fatto un nuovo stile “fusion” non particolarmente amato dai puristi del sushi tradizionale. Nacquero inizialmente gli Uramaki che capovolgevano il concetto di hosomaki, considerati antiestetici e fastidiosi alla masticazione dagli americani, portando il riso all’esterno, seguiti dall’intuizione determinante di Ichiro Mashita, cuoco del Tokio Kaikan di Los Angeles, di cui avevamo già parlato nella Creative Story n. 32 contenuta nel libro “40 Creative Stories Vol.1”, che inventò il California Roll, probabilmente oggi la ricetta sushi più conosciuta al mondo, usando ingredienti tipicamente occidentali come il granchio cotto, l’avocado e la maionese. La proverbiale capacità americana di propagazione dei format commerciali ha poi fatto il resto, trasformando il sushi nel fenomeno di massa attuale. Oggi possiamo assistere a quasi cinquant’anni di distanza ad un’ulteriore ennesimo cambio di pelle del sushi: dal suo arrivo in Europa tra le novità di Harrods o lungo le vie del lusso della Milano da bere, come proposta giovane, etnica ma di raffinata tendenza e quindi costosa, il sushi si sta lentamente ritrasformando in un piatto popolare da All You Can Eat, nel procinto di ripercorrere per l’ennesima volta il suo ciclico cammino di saliscendi sociale.
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CREATIVE STORY N° 52
Tutti i disastri comunicativi di Burger King È probabile che tu abbia già visto The Founder, il film che narra il modo più o meno ortodosso in cui Ray Kroc, un piazzista di macchine per Milkshake riesce ad acquisire la catena Mc Donald dai suoi creatori, i fratelli Dick e Mac Mc Donald, e a trasformarla in una multinazionale con filiali presenti in tutto il mondo. “Perché mi parli delle origini di Mc Donald in una Creative Story dedicata a Burger King?”, mi dirai tu. Perché l’idea di aprire Burger King nasce da un’illuminazione di James McLamore giunta durante una visita al ristorante dei fratelli Mc Donald di San Bernardino in California e alla loro celebre organizzazione produttiva e tentò di replicarla in una sua versione a Miami. Ray Kroc all’epoca era ancora un semplice rappresentante e il caso vuole che la sua prima macchina per milkshake sia stata venduta proprio al Burger King di Miami. Fin dalla nascita di Burger King distanziata da quella di Mc Donald solo di pochi mesi, i due Big del fast food hanno vissuto in un clima di continuo confronto da cui è nata una guerra commerciale senza esclusione di colpi, tutt’ora in atto. Molte delle iniziative di Burger King si ispirano, o vengono studiate come risposta a quelle di Mc Donald. Sebbene non lo sappia quasi nessuno ad esempio, alla creazione di Ronald Mc Donald il personaggio di Mc Donald destinato ai bambini, con tutta la sua storia di antagonisti cattivi e di amici, di cui abbiamo già parlato nella Creative Story n.11, Burger King fece seguire la nascita di un suo alter ego nel Re del Burger, un vero e proprio re con drappo di ermellino e corona e con una struttura narrativa interamente speculare a quella di Ronald. Mc Donald può vantare numeri estremamente più grandi di Burger King e probabilmente proprio per questo motivo le campagne promozionali di quest’ultimo nei confronti del rivale sono state da sempre molto più graffianti ed irriverenti, al limite della presa in giro. Per avere un termine di paragone basti pensare alla campagna “Come as a Clown, Eat as a King” (arriva come un clown e mangerai come un re) con esplicito riferimento al clown, il simbolo di Mc Donald, nella quale ogni cliente disposto a vestirsi come un pagliaccio e a farsi fotografare mangiando un Whopper, riceveva un panino in omaggio. Il contraltare di tanta audacia è stato però quello di incappare spesso e volentieri in clamorosi scivoloni comunicativi o commerciali, a volte per imperizia e altre per sana ed immancabile sfortuna, delle autentiche gaffes per le quali Burger King è diventata nel tempo incredibilmente famosa. Tra quelle recenti, la più famosa è legata ad una promozione messa in atto da BK in occasione di Halloween nel 2015, nella quale veniva lanciata una nuova versione di whopper caratterizzata da un innovativo pane nero. L’iniziativa veniva accompagnata come ormai d’obbligo 81
da una massiccia campagna social con tanto di hashtag dedicato. Quello che BK non aveva considerato era che per poter essere di un nero cosi vivo e brillante, la ricetta del pane conteneva massicce quantità di colorante, con la sgradevole controindicazione di di non poter essere interamente assorbite dall’intestino. La scoperta il giorno successivo da parte dei clienti del Halloween Whopper che le loro feci avevano assunto un colore verde intenso, scatenò una diffusione virale di fotografie nelle quali dei liquami dal colore improbabile veniva associata al nome del nuovo panino di BK. Le conseguenze furono cosi disastrose che l’azienda americana cessò ogni iniziativa in occasione di Halloween per i successivi 2 anni.
In ambito social il disastro più clamoroso risale però al 2009 in pieno boom Facebook in America. Riprendendone il meccanismo, BK si inventò una bizzarra promozione che invitava i propri clienti a scaricare una app connessa al celebre social. Il meccanismo era semplice: se il cliente toglieva l’amicizia a 10 dei propri contatti, aveva diritto ad un Whopper gratis. Contemporaneamente i 10 “silurati” ricevevano un messaggio che li informava di cosa era appena avvenuto, invitandoli a scaricare l’app e a fare la stessa cosa per ricevere il medesimo bonus. Il problema è che l’app è stata scaricata da oltre 60.000 persone e l’improvvisa consapevolezza che la propria amicizia era stata svenduta per il valore di un decimo di un hamburger, ha creato problemi sociali non indifferenti ai malcapitati che naturalmente hanno accusato BK dell’accaduto. Il fomentare del problema che sembra abbia interessato oltre 200.000 persone, ha suggerito a BK di interrompere l’iniziativa dopo soli 10 giorni dal lancio. Un altro disastro rimasto celebre negli annali è quello delle patatine Satisfries nel 2013. BK ha sempre puntato molto sul gusto e tendenzialmente ha sempre avuto un quantitativo calo82
rico maggiore rispetto a quello già abbondante del concorrente Mc Donald. Quelli erano gli anni in cui si stava acuendo maggiormente la sensibilizzazione nei confronti dei fast food della sempre più pressante ondata salutistica nel mondo della somministrazione e BK decise di rispondere lanciando delle nuove patatine fritte, notevolmente più care ma con il 40% in meno di grassi ed il 30% in meno di calorie. Ancora una volta la campagna promozionale è stata imponente ma si è letteralmente abbattuta contro un muro quando i clienti hanno cominciato a condividere tabelle nutrizionali dalle quali emergeva che anche la sola confezione piccola di Satisfries conteneva 30 Kcal in più delle normalissime patatine di Mc Donald. Il progetto si è rivelato una perdita colossale e le Satisfries sono state tolte dai menu dopo pochi mesi. Un altro prodotto poco apprezzato dal pubblico sono state le Shake‘Em Up Fries, patatine che venivano servite in un sacchetto insieme ad una busta di insaporitore in polvere al formaggio, dall’improbabile colore arancio vivo. Il cliente doveva versare il contenuto della busta nel sacchetto, chiuderlo, scuoterlo e mangiare le sue formaggiose patatine fluo. Il pubblico non gradì, vanificando cospicui investimenti ma questo potrebbe rientrare nel normale ciclo commerciale di aziende di quella portata. Non sono state il primo progetto abortito in quel campo e non saranno nemmeno l’ultimo. Ciò che rende le Shake‘Em Up Fries una ferita aperta per BK è la scoperta che una decina di anni prima Mc Donald avesse testato un prodotto del tutto simile in una delle sue filiali per poi abbandonare il progetto a seguito degli scarsi risultati ottenuti. L’idea è probabilmente arrivata di seconda mano e quando la notizia trapelò, BK non ci fece esattamente una grande figura…
Un grande eco mediatico ebbe anche tutta la campagna pubblicitaria che accompagnò il 83
lancio del celebre Seven Incher, un nuovo panino di BK che era lungo la bellezza di 7 pollici, ovvero circa 18 cm. A noi europei questa misura può non dire molto ma in America viene considerata quella canonica dell’organo genitale maschile medio, tanto che il termine “7-inches” ne è diventato addirittura sinonimo in gergo slang. L’intento di BK era al solito di provocare e il nome del panino aveva un evidente doppio senso, ampiamente cavalcato dalla campagna pubblicitaria che ne seguì. L’immagine portante ritraeva una avvenente ragazza di profilo con gli occhi sgranati e la bocca spalancata all’inverosimile, nell’intento di ingoiare un panino cosi lungo da strabordare l’immagine. Nel caso il messaggio non fosse sufficientemente esplicito, il claim scelto per la campagna è stato “Ti lascerà a bocca aperta”. E se incredibilmente dovessero sussistere ulteriori dubbi, questi venivano definitivamente cancellati dalla sottostante descrizione che prometteva di “riempire il tuo desiderio con qualcosa di lungo, succoso e cotto alla griglia”. La pubblicità funzionò ma non nel modo in cui BK si aspettava, nel senso che scatenò feroci obiezioni da ogni parte ed in particolare da associazioni femministe e per la tutela dei minori, tanto da costringerne l’interruzione immediata e l’eliminazione del Seven Incher da tutti i menu. Non bastasse, sull’onda di tutto questo clamore la modella ritratta pensò bene poi di fare causa a BK, sostenendo di non essere a conoscenza dell’utilizzo che sarebbe poi stato fatto delle foto e di essere stata quindi “pubblicamente umiliata”. Non è dato sapere quanto costò all’azienda la conciliazione. Non meno goffa è stata la campagna Real Meal. L’intento evidente era quello di sfidare a muso duro il celebre Happy Meal di Mc Donald, proponendo un box, con un panino di taglia normale all’interno, quindi per adulti. Il pretesto che ha fatto pensare bene a BK di lanciarsi in questa avventura è stato il “Mese per la sensibilizzazione sulla salute mentale”. Per ricollegarsi al tema, BK ideò sei box di altrettanti colori, ciascuno riportante uno stato d’animo negativo come “Triste”, “Spaventato”, fino all’estremo “Don’t give a Fuck” (Non me ne frega un c…o) nel quale i poveri clienti avrebbero dovuto riconoscersi. Il tutto in una box per bambini… Si può fare di peggio? Sempre. La claustrofobica campagna pubblicitaria ritraeva un ragazzino triste, solo e angosciato in una stanza disadorna e in penombra, che mestamente affermava “Non tutti si svegliano felici (“happy” chiaro riferimento al happy meal). A volte ti senti triste, spaventato, ecc…”. Naturalmente la grottesca ironia non fu colta da nessuno e BK fu letteralmente investita da uno tsunami di improperi, dove i più gentili la accusavano di sfruttare il dolore dei malati per vendere un panino in più. Inutile specificare che fine abbia fatto il Real Meal... Ha del tragicomico poi la pubblicità ideata da BK nel 2017 che mirava a sfruttare l’incessante crescita di presenza nelle case dei nuovi dispositivi a comando vocale, Google Home. Lo spot non presentava nient’altro che un addetto del BK che fissando la camera con in mano un panino gridava “hey Google, cos’è un Whopper?” e poi se ne stava zitto per 15 secondi,
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lasciando che il dispositivo presente nell’abitazione cercasse su wikipedia e leggesse la definizione di “Whopper” e indirettamente di Burger King al telespettatore. In google però hanno gradito molto poco l’iniziativa e hanno messo in piedi in tempo zero una task force che in sole tre ore ha sviluppato e spedito ai devices un aggiornamento che eliminava la reazione. Purtroppo però in BK non sono stati altrettanto reattivi e per giorni e giorni ha continuato ad essere trasmessa quella che a quel punto era solo una incomprensibile pubblicità di un ragazzo che chiedeva cosa fosse un Whopper e poi se ne stava zitto tutto il tempo.
La fama di comunicatore irriverente che si accompagna a Burger King ha fatto sì che il suo annuncio del 1 aprile 2019 di voler introdurre nel loro menu l’Impossible Burger, fatto di sola materia vegetale e quindi completamente vegano, venisse considerato da chiunque uno scherzo. La manovra era eccezionale: per la prima volta un fast food rispondeva in modo cosi efficace ed innovativo alle esigenze vegane e vegetariane, dando finalmente scacco matto agli acerrimi rivali di Mc Donald, rimasti questa volta al palo. Ci volle una successiva pubblicazione di conferma sulla rivista Fortune per rendere credibile l’iniziativa e dargli tutta l’enfasi che meritava. Peccato che durante la presentazione ufficiale del nuovo panino i rappresentanti di BK siano stati messi in palese difficoltà da una semplice domanda da parte della stampa: “…ma cuocerete l’Impossible Whopper sulla stessa griglia dove cuocete gli altri hamburger…?”. Risposta: “Ehmmmm….” Perché anche nelle vittorie, i proverbiali scivoloni rimangono le vere firme d’autore di Burger King.
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CREATIVE STORY N° 53
La “nobile” storia della Worcestershire Sauce Avrai certamente notato che negli ultimi anni sta timidamente acquisendo una nuova popolarità un condimento che è ormai sempre più frequente tra i prodotti etnici o tra le salse dei supermercati, a seconda delle interpretazioni merceologiche: la Salsa Worcestershire. In realtà si tratta di un prodotto dalla storia secolare e anche nel nostro paese non si parla certo di una novità in assoluto anche se da noi non ha mai saputo guadagnarsi il giusto feeling, probabilmente anche a causa del nome con il quale tendiamo a litigare spesso e volentieri. Finiamo per pronunciarlo nei modi più assurdi: “uorciestersciair” è quello più diffuso, anche se mi è capitato di sentire spesso l’esilarante “uinciestersciair”. In realtà la pronuncia corretta sarebbe “huorsterscir” e non significa altro che “contea di Worcester”, la località inglese dove è nata. La salsa Worcestershire è un condimento dall’impronta spiccatamente esotica, molto complessa e articolata e che tra i suoi ingredienti comprende il tamarindo, l’aceto di malto, il pimiento, i funghi e la soia, il tutto partendo da una base di acciughe fermentate. Ricordi la Creative Story n. 8 sulla turbolenta storia del Ketchup. Si narrava di come originariamente nascesse dal Ketsiap cantonese e in generale dalla grande famiglia tradizionale delle salse asiatiche a base di pesce macerato, a loro volta imparentate con l’antico Garum risalente all’Antico Impero Romano. La Salsa Worcestershire deriva anch’essa da quella matrice, cosi come anche la nostra Colatura di Alici.
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Ma come ha potuto una salsa con quelle caratteristiche diventare una produzione tradizionale di una sperduta contea inglese di epoca vittoriana? Se leggi da un po’ di tempo le mie Creative Stories, mi avrai sentito citare più di una volta l’espressione “la storia la scrivono i vincitori”. Applicata al nostro contesto, questo indica come le aziende o i marchi storici che hanno portato alla celebrità un prodotto, ci hanno poi generalmente ricostruito dietro una storia, spesso accondiscende e celebrativa del suo creatore, che ne accrescesse il mito. Nel caso della Worcestershire questo nome è la “Lea & Perrins”, l’azienda che ne è quasi sinonimo e alla quale si deve molta della popolarità che ha poi avuto in tutto il mondo. La leggenda narra di come Lord Marcus Sandys, per molti anni governatore della colonia britannica del Bengala in India, fosse rientrato definitivamente in patria nel 1835 con una profonda nostalgia per la sua salsa preferita, scoperta durante il suo incarico e con la quale accompagnava tutti i pasti. Avrebbe commissionato cosi a John Weeley Lea e a William Henry Perrins, due chimici e farmacisti di Worcester, il tentativo di replicarne la ricetta, portata con se dall’oriente.
I due soci fecero del loro meglio con i prodotti che avevano reperibili nel loro laboratorio cercando di avvicinarsi il più possibile a quelli necessari e confezionarono due barili di salsa: uno per il committente e uno per loro stessi, incuriositi da quale potesse esserne l’esito. Il nauseabondo odore conseguente alla macerazione però, suggerì loro di spostare la botte 88
nello scantinato dove venne poi dimenticata per circa due anni, a valle dei quali, durante lo sgombero per una periodica pulizia, i due si accorsero che dalla botte proveniva un profumo profondo ed aromatico e non più sgradevole come ricordavano. Timidamente la assaggiarono e scoprirono un condimento straordinario diventato poi famoso in tutto il mondo. Tutto bellissimo e profondamente pionieristico. Ma come spesso accade, decisamente romanzato per non dire apocrifo. Partiamo dal presupposto che definire Mr. Lea e Mr. Perrins come dei farmacisti o peggio, dei chimici è alquanto generoso. I due erano più simili ad uomini di affari che si ingegnavano nella formulazione e nella vendita di presunti intrugli miracolosi. Basti sottolineare come all’epoca dei fatti, il loro prodotto più conosciuto fosse la “Lozione per far ricrescere i capelli ai calvi del Dr. Locock”. Il primo tentativo di commercializzazione della salsa infatti avvenne come “tonico dalle alte proprietà digestive e coadiuvante della buona salute”. Molto fumosa è anche l’origine della famosa ricetta reinterpretata dai due soci. Gia allargando il racconto alla tradizione orale dell’intera contea di Worcester, emergono ipotesi leggermente discordanti e in generale meno lusinghiere, tra le quali alcune vorrebbero che il risultato del lavoro di Lea e Perrins avesse talmente insoddisfatto Lord Sandys da portarlo a rifiutare il prodotto e altre che vedrebbero il ritiro di un primo barile e lo stoccaggio del secondo in attesa di una successiva richiesta di riapprovvigionamento da parte del committente poi mai avvenuta. Non tutto questo grande successo quindi. Ma tutto questo si scontra ancora più con l’assenza di una prova documentale che attesti la presenza di alcun Marcus Sandys al servizio di Sua Maestà nel governatorato del Bengala. Tra le tante, l’ipotesi più credibile sembrerebbe essere invece quella che vede Sandys un lord come tanti altri, la cui moglie si fosse perdutamente invaghita del sapore del curry, di difficile reperibilità all’epoca. Una amica di Lady Sandys, non di pari rango sociale, tale Elisabeth Gray gli avrebbe passato quindi per compiacerla e accontentarla in qualche modo, una antica ricetta di un condimento indiano che però c’entrava poco o nulla con il curry tranne che per la provenienza, portata a casa da uno zio di stanza nella colonia britannica. I committenti della salsa a Lea e Perrins sarebbero stati quindi totalmente inconsapevoli di cosa andavano loro ordinando esattamente e l’obiettivo sarebbe stato unicamente quello di tamponare in qualche modo della semplice voglia di curry, dando al racconto e alla scoperta un carattere decisamente più banale e approssimativo. Altra ipotesi molto probabile è il fatto che il successo iniziale della Worcestershire non fosse dettato tanto dall’apprezzamento gastronomico da parte dei suoi assaggiatori quanto del fatto che la sua acidità e profondità di sapore fossero in grado di rendere piacevoli anche carni in non perfetto stato di conservazione, cosa tutt’altro che rara in quel periodo. Per moltissimi anni e in parte tutt’ora, la Worcestershire Sauce è rimasta essenzialmente una Steak Sauce, anzi prestandosi a ricoprire il ruolo di capostipite di questo genere di salse volte all’esaltazione del carattere umami della carne di manzo. Altri utilizzi rimasti poi celebri e consolidati, sono quelli in aggiunta alle ostriche o alle uova, con ogni probabilità per motivazioni analoghe. Qualsiasi ne sia stato il motivo, Lea & Perrins arrivarono in breve tempo a vendere 640 bottiglie delle loro salsa e decisero quindi di dedicarvisi a tempo pieno cedendo definitivamente il 89
proprio negozio di Worcester. L’abilità commerciale dei due soci non tardò a far sentire il proprio peso: da prima spostarono le vendite sulla vicina e molto più grande Birmingham attraverso una rete di venditori e poi pagarono profumatamente le navi transoceaniche dirette in America per includere la loro salsa sulle tavole di tutti i passeggeri. Cosi facendo, durante le lunghe settimane di viaggio questi avevano la possibilità di assuefarsi e apprezzare quel particolare sapore, richiedendone di nuovo una volta approdati nel Nuovo Mondo. Il piano di Lea & Perrins funzionò, portando in dieci anni all’apertura di una filiale americana e alla strabiliante per l’epoca, produzione annua di 30.000 bottiglie di salsa, oltre ad una distribuzione che ormai interessava un quarto del globo. In particolare il mercato americano si rivelò molto florido anche a causa della grande conservabilità della Worcestershire Sauce, che consentiva anche a viaggiatori non particolarmente attrezzati, di spostarsi per i lunghi tragitti imposti dalle vastità americane, sempre con il proprio insaporitore/sanificatore di cibo a portata di mano. Per questo stesso motivo, la bottiglia usata per le esportazioni in America era più piccola rispetto a quella britannica. Devi considerare che in Inghilterra i due ex farmacisti avevano inizialmente fatto conoscere il loro prodotto semplicemente come “Lea & Perrins secret sauce”: le persone sapevano perfettamente cosa fosse e a cosa servisse ma negli Stati Uniti certamente non si potevano permettere altrettanto. Decisero cosi di creare una versione per l’esportazione adattando la ricetta ai gusti americani, sostituendo l’aceto di malto con quello di vino e triplicando le dosi di zucchero e di sale, e di aggiungere la specifica “Worcesterhire Sauce” in etichetta. Ancora oggi la formulazione del prodotto americano è differente e viene venduto in bottiglia avvolta nella caratteristica carta, destinata a ridurre il rischio che il vetro si scheggiasse e si rompesse durante in trasporto marittimo. Curioso notare come per ragioni ancora non accertate (probabilmente per agevolarne la pronuncia in paesi con un’anglofonia meno solida), Lea e Perrins decisero di abbreviare questa dicitura in “Worcester Sauce” per le esportazioni in Nuova Zelanda e Australia, facendo nascere un dualismo di versione nel quale probabilmente ti sei già imbattuto qualche volta. Tanto successo non passò però certamente inosservato e nel giro di qualche decennio la Lea&Perrins fu imitata ed in alcuni casi addirittura plagiata con tanto di falsificazione delle ormai celebri etichette da parte di numerosi produttori. Si calcola che nelle successive tre decadi fossero nate oltre 30 aziende lungo tutta la contea di Worcester che producevano salse analoghe alla Worcestershire Sauce originale. I due soci erano stati lungimiranti in tal senso, provvedendo in epoca non sospetta alla registrazione del nome e su questo fondarono il loro ricorso all’Alta Corte di Giustizia di Inghilterra nel 1876 per far valere la tutela del proprio marchio commerciale. Sorprendentemente però l’esito non fu quello atteso: si stabilì ufficialmente che la Lea&Perrins fosse ovviamente proprietaria del proprio logo e nome commerciale ma che non potesse vantare gli stessi diritti sul concetto stesso di “Worcestershire Sauce”, essendo ormai diventata nei decenni, patrimonio comune della gastronomia della contea. 90
L’unica cosa che ai due soci rimase da fare fu quella di aggiungere “the original” a “Worcestershire Sauce” e apporre la propria firma in etichetta, come puoi vedere nei prodotti tutt’ora in commercio, al fine di scoraggiare quantomeno le mistificazioni del proprio logo, per altro graficamente molto semplice e quindi facilmente confondibile, ed arrivare ad accettare cosi che la propria idea di aggiungere una specifica commerciale si sia paradossalmente rivelata la principale causa della propria concorrenza.
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CREATIVE STORY N° 54
I 10 Movie Restaurant più interessanti del mondo È fuori di discussione che nelle scene cruciali dei film, l’ambientazione, le sue luci e la sua atmosfera siano determinanti per riuscire a trasmettere le emozioni necessarie a trasformare una buona pellicola in un capolavoro. È quella che si può definire “scenografia”, per la quale esiste anche una categoria degli Oscar dedicata. Il legame con la location che ha ospitato alcuni film diventati icona di una generazione, è stato cosi forte che la prima immagine a cui vengono associati e proprio quella del posto preciso in cui sono ambientati. Esistono però dei casi particolari, nei quali questo rapporto è bivalente: certamente il film ha saputo rendere perfettamente il suo senso attraverso la propria presenza in quel luogo ma anche quest’ultimo è riuscito a sfruttare pienamente negli anni a seguire tutta la fama di ritorno che gliene è derivata. Sto parlando chiaramente di quella tipologia di ristoranti, che si sono trasformati in vere e proprie attrazioni turistiche, per motivazioni che vanno ben al di là della qualità della loro somministrazione. Uno sguardo attento ai casi mondiali di maggior successo in questa particolare categoria, ormai conosciuta con il nome di Movie Restaurant, ci permette di estrapolare una nostra selezione dei 10 più interessanti. L’elenco potrebbe comprendere un’infinità di nomi come Holsten’s in cui hanno girato la celebre scena finale dei Soprano’s o Twisters, il fast food di Albuquerque in cui hanno ricostruito il Los Pollos Hermanos di Breaking Bad. Ma qui non siamo alla ricerca dei più famosi o di quelli con i migliori incassi ma dei 10 ristoranti che abbiano una storia particolare e curiosa da raccontare, di quelli con l’idea più originale alla base o di quelli che hanno saputo sfruttare al meglio la propria correlazione con il film di origine. Per doveroso rispetto reverenziale, il primo dei ristoranti da menzionare in questa elite è obbligatoriamente il famosissimo Katz’s Deli. Ti ricordi la scena del film Harry ti presento Sally nella quale Meg Ryan fingeva un orgasmo al tavolo di un ristorante per dimostrare a Billy Crystal come le donne sappiano simulare in quelle circostanze? Quando nella sequenza successiva il cameriere chiede alla vicina di tavolo dei due, cosa volesse ordinare, questa risponde “quello che ha ordinato la signorina”. Quella battuta è stata nominata al 33imo posto delle migliori citazioni cinematografiche di tutti i tempi, in base alla classifica dell’American Film Institute e quella scena come saprai o avrai già capito, si svolgeva al Katz’s Deli di New York. In realtà il Katz era gia molto famoso per il suo Pastrami e ha fatto la storia della ristorazione americana anche prima che venisse girata la pellicola nel 1989, come abbiamo già raccontato nella Creative Story n.17 sulla controversa storia della nascita del Pastrami. 93
È fuori discussione comunque che il Katz abbia saputo sfruttare molto bene la circostanza, diventando un icona mondiale anche al di là della sua cucina e ancora oggi, se decidete di varcare in peregrinaggio la sua soglia, troverete sopra il tavolo utilizzato per la scena, un cartello che recita “qui è dove Harry ha incontrato sally. Ti auguro di provare ciò che ha provato lei”. Il secondo ristorante della nostra selezione è il TwedÈs Cafè. Il nome potrà non dirti nulla ma se sei un cultore delle serie Tv anni ’90 e lo vedessi, riconosceresti immediatamente il Double R Diner nel quale David Lynch inscenava le colazioni del detective Cooper a base di Cherry Pie e Caffè, nel suo indimenticabile Twin Peaks. Nella realtà, il locale si chiamava Thompson’s Cafè divenuto poi TwedÈs dopo essere stato ceduto nel 1998 sull’onda del successo del telefilm. Solo due anni più tardi purtroppo il Ristorante andò interamente a fuoco e venne ricostruito rinnovando completamente gli arredi in una chiave moderna. Questo naturalmente non ebbe un buon impatto sui fans che non riconoscevano più le ambientazioni originali e conseguentemente sugli incassi. Cosi dopo 15 anni, in occasione della programmazione delle riprese per la trasposizione televisiva della serie, i proprietari hanno colto l’occasione per ristrutturarlo, replicando fedelmente lo stile Diner anni ’50 che aveva stregato David Lynch la prima volta. Il terzo ristorante della nostra personalissima lista è il Kansas City Barbecue di San Diego, ovvero il locale dove è stato ambientato il film cult del 1986 Top Gun con dei giovanissimi Tom Cruise e Val Kilmer. Più precisamente tra i tavoli del joint californiano sono state girate le scene in cui Maverick e Goose cantavano insieme al piano Great Balls of Fire di Jerry Lee Lewis e quella finale in cui la splendida Kelly McGilliis inseriva nel Juke Box la canzone You’ve lost that lovin’ feelin’ grazie alla quale i protagonisti si erano conosciuti. La particolarità della sua storia è che il ristorante non era inizialmente contemplato tra i luoghi delle riprese e per puro caso l’assistente alla produzione del film vi si fermò per una birra, trovandolo perfetto per la famosa scena, che rimane una delle più iconiche del film. Vi ci portò quindi il regista Tony Scott, ottenendo la sua approvazione. Non altrettanto facile fu però convincere la proprietà del locale, che per consentire le riprese avrebbe dovuto chiudere al pubblico per alcuni giorni il locale. Naturalmente dopo lungo corteggiamento, l’operazione riuscì ed il proprietario dovette ammettere alcuni anni più tardi di aver preso in quell’occasione una delle migliori decisioni commerciali della sua vita. Sempre se appartieni a quella generazione, è probabile che tu ti ricorda la serie TV di grandissimo successo Cheers, conosciuta in Italia con il nome di Cin Cin, trasmessa originariamente dalla NBC nel 1982 e proseguita da allora per ben 11 stagioni e oltre 270 episodi. L’intera trama si svolgeva intorno alle vicende degli ospiti di un bar la cui ambientazione è stata creata in studio. Per la sola immagine esterna è stato però scelta la facciata molto caratteristica di un bar di Beacon Hill nei pressi di Boston, chiamato Bull&Finch. Te la ricorderai certamente: l’ingresso è sotto il livello del marciapiede e la celebre insegna “Cheers” con l’indice verso il basso che segnala il dover scendere le scale per entrare, capeggiava sulla ringhiera esterna. 94
Ciò che lo rende il quarto ristorante della nostra lista è il fatto che il proprietario, non diede particolare peso alla richiesta della produzione ed accettò superficialmente di concedere i diritti alle riprese per la cifra simbolica di 1$. La sua successiva inevitabile costernazione è stata però con il tempo mitigata dalla scelta lungimirante di cambiare effettivamente il nome del locale in “Cheers” e di modificare completamente gli arredi interni riproducendo fedelmente quelli del telefilm. Inutile dire che questo cambiò completamente le sorti commerciali della sua attività. Un caso molto diverso dai precedenti è quello del famoso Coyote Ugly Saloon di New York. In questo caso è la vera storia del locale ad avere ispirato la trama stessa dell’omonimo film del 2000. Il suo format graffiante a base di balli sexy delle bariste sul bancone e gigantesche bevute, era già famoso e l’idea della trama della pellicola è nata dalla casuale lettura da parte del produttore Jerry Bruckheimer di un articolo che la rivista GQ aveva dedicato al saloon. Perché allora costituisce il quinto nome sulla nostra lista? Perché la proprietaria del Coyote Ugly ha saputo sfruttare molto bene il volano mediatico garantito dal film per creare un format che stereotipasse ulteriormente i concetti chiave del film e aprire numerose filiali in America e nel mondo.
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La seconda metà della nostra classifica interessa invece locali presenti nel mondo che hanno saputo astutamente sfruttare le location ristorative fittizie, create per film e telefilm celebri e mal protette da copyright, per realizzare veri ristoranti che consentissero di riviverne la atmosfere. Se sei fan della celebre serie Friends che ha portato alla ribalta nomi molto famosi dello star system, uno su tutti quello di Jennifer Aniston, non potete non conoscere il Central Perk, il bar intorno al quale si svolge gran parte della trama. Sia il nome, che gioca sul nome Central Park come simbolo di New York che ospita idealmente la serie ed il termine “Perk” ovvero “ristoro”, sia la location rilassata ed accogliente con il suo iconico divano centrale, sono risultati particolarmente indovinati. Tanto che un imprenditore americano è riuscito a registrare una licenza con questo nome e a farne una replica fedele delle atmosfere del film, con sedi non solo a New York ma anche in diverse parti nel mondo tra cui Pechino e Dubai. Il format prevede muffin, cupcakes e piatti intitolati ai personaggi, costituendo il sesto e probabilmente più pacchiano nome sulla nostra lista.
Hans Ruedy Giger è un originale pittore e scultore surrealista svizzero, le cui opere sono caratterizzate da uno stile inquietante e tetro e che è diventato celebre nel mondo nel 1979 per essere stato il padre artistico della creatura Alien, protagonista dell’omonimo horror fantascientifico di Ridley Scott, premiato tra le altre cosa da un Oscar. Giger tra le bizzarrie della sua vita ha avuto quella di possedere un castello nella madrepatria svizzera, austero e cupo come i suoi lavori. Dopo la sua morte i nuovi proprietari hanno cosi pensato bene di sfruttarne la fama per convertirlo in un surreale bar a lui intitolato con il nome HR Giger che costituisce il settimo nome di questo elenco, i cui interni ricreano l’ambientazione terrificante della nave aliena dove i protagonisti vengono infettati dal parassita alieno all’inizio del film, con tanto di finte vittime imprigionate nella resina delle “fottute pareti” (cit.) 96
Una serie di film dal successo mondiale come è stato quello di Harry Potter, peraltro caratterizzato da atmosfere Old England particolarmente suggestive come il Castello di Hogwards, non poteva non avere ispirato degli emuli gastronomici, giusto? Infatti è cosi e ne abbiamo numerosi esempi anche noi in Italia. Tra le tante opzioni presenti però quale ottavo rappresentante della lista abbiamo scelto il Platform 1094 a Singapore, un nome poco evocativo che nasconde però un locale di livello, molto ben studiato con la riproduzione del calice di fuoco (letteralmente), cocktail fumosi che cambiano di colore quando il cliente unisce gli ingredienti che gli vengono portati al tavolo, e sorprendenti zuppe creative servite in coppe a forma di pentole per pozioni.
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Altra saga famosa e sotto con il nono nome. Ricordi nella trilogia dedicata al Signore degli Anelli, la Contea degli Hobbit, il caratteristico paese con le case dalle porte rotonde dove vivevano Frodo, Sam, Merry e Pipino all’inizio della loro avventura? Il set è stato costruito fedelmente e appositamente in Nuova Zelanda un anno prima delle riprese, per permettere all’edera di avvolgere rigogliosa gli edifici. Nel villaggio era presente anche il famoso Drago Verde la taverna dell’avvenente cameriera Rosie.
Il ricchissimo budget a disposizione ha fatto si che la Contea fosse realizzata con talmente tanta cura nei particolari da suggerire un suo riutilizzo come attrazione turistica alla fine delle riprese anziché essere smontata o abbandonata. Il Drago Verde è cosi diventato un vero pub per i visitatori, basato su grandi classici della cultura britannica, come la birra a caduta ed il sidro, oltre al “maiale stagionato con l’osso” (cit.). In questo caso quindi non si tratta di un’atmosfera ispirata alla storia ma letteralmente ci si ritrova DENTRO il film.
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Concludiamo questa breve rassegna con il decimo nome, diventato in America un gran classico e che forse è stato uno dei capostipiti di questa nuova tendenza di commercializzare la contestualizzazione immaginaria, originalmente pensata per la trama di un film. Nel famosissimo Forrest Gump di Robert Zemeckis e interpretato nel 1994 da Tom Hanks, il protagonista mantiene fede ad una promessa fatta al suo commilitone Bubba, morto tra le sue braccia in Vietnam, di acquistare un peschereccio per gamberi alla fine della guerra e di fondare un’azienda che lui intitolerà all’amico scomparso, la Bubba Gump Shrimp Co.
In questo caso siamo di fronte ad una situazione leggermente diversa da quelle che abbiamo visto in precedenza. Qui l’idea arriva direttamente dalla Viacom, proprietaria della Paramount Pictures a sua volta titolare dei diritti del film, che propone ad un celebre ristoratore della Florida di avviare una nuova catena di fast food per famiglie ispirato al tema ittico e dei gamberi in particolare, sfruttando famose citazioni del film e memorabilia. Il successo è a dir poco esplosivo e oggi la catena vanta sedi in tutto il mondo tra le quali molte località turistiche anche Europee, il che certamente lo rende il Movie Restaurant con il quale poter avere più facilmente a che fare.
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CREATIVE STORY N° 55
La rivincita storica delle Chicken Wings Hai mai assistito dal vivo ad una partita di uno degli sport americani per eccellenza? Nel tuo prossimo viaggio negli Stati Uniti ti consiglio di aggiungere al budget il prezzo di un biglietto per una partita di Basket o di Football: costano un botto e devi prenotarli mesi prima ma è davvero un’esperienza, molto diversa dal nostro concetto “ultras” di “andare allo stadio” e molto più simile ad uno spettacolo interattivo: divertimento puro. Fa parte dell’esperienza anche il cosiddetto Tailgate, un ‘insieme di party spontanei organizzati dai tifosi fuori dal parcheggio dove si mangia e si beve “la qualunque”. Non c’è partita che si rispetti che non abbia un tailgate nel piazzale. Il concetto non è però ascrivibile solo alle partite “live” ma fa proprio parte del folclore americano con cui viene concepito il rapporto con lo sport. È possibile ad esempio andarsi a godere la partita al bar, anziché allo stadio ma anche li l’evento viene vissuto mangiando e bevendo mentre si fa il tifo tutti insieme, in base ad un modello poi trasposto anche nei nostri bar da quando i diritti delle partite sono passate alle piattaforme on demand. Da noi il classico accompagnamento alla immancabile birra davanti al maxischermo è il panino o al limite qualche bruschetta. Da loro sono le Chicken Wings, quelle che noi chiamiamo “Alette di Pollo”. Sono cosi profondamente associate a questo ruolo, da aver fatto nascere negli anni dei “wings bar”, locali specializzati nella trasmissione di partite sportive e nel servizio di ali di pollo in infinite varianti, a fianco del concept molto americano del pitcher di birra ghiacciata, caraffe in condivisione per la tavolata che avrai visto in infiniti film. Questo format è un ‘autentica istituzione negli USA e se hai visto programmi come Man Vs Food ti sarà certamente capitata almeno una puntata in cui Adam Richman veniva sfidato a finire il proprio piatto di extra-piccanti alette di pollo entro un certo limite di tempo. Quelle alette sono un’esasperazione di quello che può esserne definita la versione moderna, quella che le ha rese il fenomeno che sono oggi: le Buffalo Chicken Wings. Non sono però sempre state rose e fiori e quella delle Chicken Wings è la classica storia di resurrezione, come spesso ti accade di leggere in queste Creative Stories. Fino a pochissimi decenni fa, le ali di pollo erano infatti considerate alla stregua delle interiora e dei colli, ovvero parti di scarto, da utilizzare per il brodo o per le lavorazioni industriali. Cosa è successo dopo? Meglio però partire dal “prima”: la carne di pollo viene riconosciuta come un grandissimo classico della cucina del Sud degli Stati Uniti ma come vedremo, la storia delle Chicken Wings viene in realtà innovata nel Nord. In senso assoluto la cottura delle ali di pollo divisa dal corpo non è una novità, anzi si perde nei secoli passati come espressione delle gerarchie 101
sociali nel potere di acquisto sulla carne. Le classi più abbienti potevano permettersi manzo o cacciagione mentre il pollo finiva sulle tavole dei poveri e chi come ad esempio gli schiavi di colore, non riusciva ad affrontare nemmeno questo acquisto, doveva accontentarsi delle sue parti povere come le ali appunto. Ecco perché il pollo è particolarmente amato negli Stati del Sud e cosi profondamente intrecciato con le tradizioni di quei luoghi. Qualcosa che vagamente assomiglia alle odierne Chicken Wings nasce però come dicevamo, più a nord e più precisamente a Chicago, che agli inizi del XX secolo era il principale hub di lavorazione e smistamento della carne verso il resto del paese, in particolare di carne di maiale e di pollo. Intorno al 1915 si ebbe nel triangolo Chicago-Kansas City-St. Louis, l’apice del fenomeno nato dopo la fine della guerra civile, noto come la Grande Migrazione: una grande quantità di persone di colore si spostarono dal Sud ai più aperti e tolleranti stati del nord alla ricerca di un lavoro dignitoso e che chiaramente trovavano più facilmente nel settore della carne. Come detto, le ali rientravano tra le parti di scarto e rappresentavano quindi materia prima a costo basso o addirittura nullo per alimentarsi, cucinandole attraverso il metodo con cui le povere famiglie di colore sapevano rendere tenero e delizioso anche il taglio di carne più povero: il barbecue. Sempre in questo contesto nasce l’associazione con le salsa piccante, anch’essa appartenente alla cultura afroamericana. La prima salsa piccante per le alette di pollo nasce infatti in un barbecue joint chiamato Argia B’s, ovvero quella che ancora oggi puoi trovare commercializzata come Mumbo Sauce.
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Ricordi quando in occasione della Creative Story n. 48 abbiamo parlato del Moonshine, il distillato clandestino venduto durante gli anni del proibizionismo? In quel periodo nascevano i cosiddetti Speakeasie, locali illeciti dove veniva servito alcool e dove il cibo veniva offerto gratuitamente a fronte di una consumazione. Si calcola che la sola città di Chicago ne contasse 10.000. Il cibo ideale? Doveva costare poco e far venire voglia al consumatore di bere ancora e ancora. Cosa c’era di meglio delle piccanti Chicken Wings? Nasce cosi nella concezione popolare la prima grossolana associazione tra il consumo di grandi volumi di Chicken Wings e i bar. Tutto però sembrò cessare con la fine del proibizionismo degli anni ‘30: il consumo di ali di pollo rimaneva un ripiego da “vorrei ma non posso”, tipica delle gente povera ma il commercio aveva iniziato in quel periodo a rivolgersi sempre più verso la vendita di pollo a busto, ovvero il pollo intero da cui nasce ad esempio la famosa ricetta del Beer Can Chicken. Succede che l’attenzione verso le Chicken Wings semplicemente cessa all’improvviso di esistere o quantomeno subisce un drastico calo.
La storia delle Chicken Wings è destinata però a cambiare nuovamente a cavallo tra gli anni ’60 e ’70. Erano gli anni della contestazione giovanile, quelli in cui sono nati i primi movimenti salutisti. Celebre di quel periodo era ad esempio il movimento fruttariano a cui apparteneva Steve Jobs e che in base ad alcune ricostruzioni sembrerebbe aver ispirato la famosa mela morsicata, simbolo della Apple. In quel mercato, improvvisamente più attento ai valori nutrizionali, si è cominciato a lavorare a parte il petto di pollo, cosce e sovracosce mentre le ali tornavano a ricoprire stabilmente il loro ruolo di scarto industriale. A farle ritornare in auge è però incredibilmente… un italiano, o meglio: un’italianA, l’inventrice delle chicken wings moderne, ovvero le Buffalo Chicken Wings. 103
Molti, a causa dell’associazione delle ali di pollo con le atmosfere country e del nome “Buffalo”, attribuiscono erroneamente la matrice della ricetta alle vaste distese percorse da solitari cowboy sul dorso del loro cavallo. Più banalmente invece, sono state inventate nella città di Buffalo, New York nel 1964 per mano di Frank e Teresa Bellissimo una coppia italoamericana proprietaria dal 1939 dell’Anchor Bar. In base al racconto di Frank di molti anni più tardi, Teresa in quell’anno sbagliò un ordine al proprio fornitore di carne di colli di pollo destinata alla preparazione del fondo per la loro salsa per spaghetti, e ricevendo invece un’enorme quantità di ali di pollo. Fu cosi che per settimane sperimentò numerose ricette a menu per riutilizzarle in modo creativo riproponendo sempre la stessa materia prima ma nel modo più variato possibile. Nell’occasione di una serata del figlio Dominic al locale insieme al suo folto gruppo di amici del college, Teresa propose le ali di pollo fritte, condite con la sua famosa salsa piccante, e accompagnate da blue cheese dressing e sedano. Inutile dire che il loro gradimento fu tale da suggerirgli di introdurle stabilmente a menu e nel giro di poco tempo divenne il piatto simbolo dell’Anchor Bar, tanto da costringere tutti i ristoranti di Buffalo ad introdurle nella loro proposta.
Le Chicken Wings rimasero in ogni caso una realtà locale fino al 1982, anno in cui Jim Disbrow, residente in Ohio ma che si recava spesso a Buffalo per lavoro, assaggiò le Chicken Wings rimanendone folgorato. Frustrato dal non trovare niente di simile nei dintorni della città in cui viveva, decise di aprire un ristorante che le servisse nella vicina Columbus, proponendole abbinate a ben 16 tipi di salse diverse e insieme ad un altro piatto tipico di Buffalo, il Beef on Weck, una sorta di roast-beef servito in un Kammelweck Roll, un pane di origine tedesca al cumino dei prati e coniando il nome Buffalo Chicken Wings, ovvero semplicemente le ali di pollo di Buffalo. Decise cosi di chiamare il ristorante Buffalo Wild Wings and Weck, poi conosciuto anche con l’acronimo BW3. 104
Come succede nelle classiche storie americane, al successo segui una discreta espansione a sei ristoranti nel successivo decennio. Successo che decretò tra le altre cose la nascita di Hooters altra famosa catena americana dedicata alle Chicken Wings, che ne copiò l’impostazione ma giocando sul fatto di farle servire ad uno stuolo di cameriere in abiti succinti e di cui ti avevo già parlato nella Creative Story n.24. La chiave di volta si ebbe però nel periodo 1990-1993 nel quale la squadra di football americano dei Buffalo Bills vinse il Super Bowl per quattro anni di fila, durante i quali le Buffalo Wings si rivelarono il perfetto cibo da stadio e da tailgate, dimostrandosi inoltre ideale per comunicare il senso di appartenenza dei tifosi nei confronti della squadra. E proprio dalle continue attenzioni dei media ricevettero un immenso risalto promozionale. Nel giro di pochissimo Mc Donald introdusse le sue Mighty Wings, e dopo di lui seguì KFC con le sue Hot Wings e addirittura Domino’s Pizza fu costretta ad inserirle a menù, sancendone definitivamente l’ascesa a piatto istituzionale americano. Sull’onda di questo clamore Buffalo Wild Wings & Weck modifico il proprio format nei Buffalo Wild Wings Grill & Bar, che volutamente riproduceva l’atmosfera di uno stadio, circondando con oltre 50 schermi l’enorme bancone e il patio frontale, dove naturalmente si poteva bere e mangiare le famose Buffalo Wings con 12 salse alternative possibili. Il format viene tutt’ora considerato la matrice dell’attuale concept di sports bar americano. Tra le altre cose che hanno contribuito al suo successo è doveroso menzionare il Blazin Wing Challenge, in cui si sfida il cliente a mangiare 12 delle wings più piccanti del menu in 6 minuti, capostipite di tutte le prove che potete vedere abitualmente nelle già menzionate prove di Man vs Food. Per darti la misura del fenomeno che le Chicken Wings ha assunto in America, devi sapere che la catena BW3 ha raggiunto le 1238 filiali, presenti in 50 Stati americani e in numerosi paesi stranieri tra i quali Canada, Dubai ed Emirati Arabi e la catena è stata recentemente venduta al gruppo Roark Capital già proprietaria dei famosi Wendy’s e Arby’s per la mostruosa cifra di 2,4 BILIONI di dollari al netto del passivo. Vuoi sapere un paradosso? L’enorme successo delle Chicken Wings come sempre succede, ha fatto lievitare considerevolmente i prezzi delle ali di pollo. I ristoratori si sono inventati quindi quelle che vengono chiamate le Chicken Wyngz, o “boneless wings”, in sostanza altre parti di pollo, in prevalenza petto che è definitivamente crollato nella classifica delle preferenze dei consumatori, ridotte a piccole porzioni, pastellate, fritte e accompagnate dalle stesse salse che di solito si abbinano alle Chicken Wings originali. In poche parole ciò che una volta veniva salvato del pollo, facendo finire il resto nella spazzatura, viene oggi camuffato da ala di pollo per poter godere dello stesso successo. Possiamo quindi affermare senza timore di smentita che le Chicken Wings si sono definitivamente prese la loro rivincita nei confronti della storia e che si sono guadagnate il loro posto definitivo nella gastronomia americana.
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CREATIVE STORY N° 56
Il lato oscuro nella storia delle Soda Pensaci bene: non esiste un’immagine pubblicitaria ambientata in estate che non comprenda un bicchiere di soda, magari con la cannuccia appoggiata sul bordo di un tumbler alto coperto da goccioline di condensa, che facciano capire quanto la bibita sia fredda a discapito di quella torrida giornata. Le soda sono esattamente questo: colorate, allegre, spensierate, ideali compagne di giochi e divertimento e proprio per questo cosi facilmente associate ai bambini. In America soprattutto, dove molto più che da noi, si amplifica questa percezione attraverso colori quasi psichedelici ed una dolcezza a tratti esasperata.
Quest’aria accattivante, moderna e il loro saper essere sempre in linea con le nuove generazioni non tradisce minimamente un passato che si rivela invece molto antico. Ti sorprenderà probabilmente tantissimo sapere che il sistema per carbonare l’acqua, ovvero per renderla gassata fissando l’anidride carbonica al liquido, risale ben al 1776, ovvero quasi 250 anni fa, ad opera del Dr. Joseph Priestley, e che la prima antesignana delle attuali soda, che era ovvero in grado di rendere stabile questo legame e consentire quindi la produzione industriale, fu una Ginger Ale nel 1783 per mano dello svizzero J.J Schweppe (si, quello della Schweppes). Quasi in concomitanza sono nate la Vernors, un’altra Ginger Ale e la Root Beer e piu in generale, a quell’evento seguì la nascita in pochissimi anni di un’infinità di soda, alcune delle quali sopravvissute fino ai giorni nostri. 107
Come puoi ben comprendere si tratta di epoche molto diverse da quella attuale e se è pur vero che alcuni di questi brand sono nati con lo stesso scopo che hanno poi mantenuto per tutta la propria storia, ovvero quello di rinfrescare e di allietare la clientela, moltissime altre hanno avuto invece percorsi più tortuosi ed in generale un passato più travagliato e difficile, che si discosta dall’immagine perbenista con la quale vengono oggi proposte. Ti ricorderai certamente la Creative Story n.48 in cui parlavamo del mito del Moonshine, il distillato clandestino americano e di quando ti raccontavo di come la famosa soda Mountain Dew, che per alcuni mesi qualche anno fa è stata distribuita anche in Italia negli Autogrill e che in slang significa appunto “chiaro di luna” come il distillato, fosse una bibita che nella sua ricetta originale conteneva una parte anche abbastanza marcata di whiskey. Ma forse l’esempio più calzante è proprio quello della soda più celebre in assoluto a livello mondiale, la famosissima Coca Cola. La sua invenzione risale al 1886 ad opera di John Stith Pemberton, un farmacista di Atalanta, Georgia che aveva combattuto come Tenente Colonnello nella Guerra di Secessione riportando gravi traumi fisici e psicologici a seguito dei quali era diventato pesantemente dipendente dalla Morfina, necessaria e lenire il dolore. Sfruttando le proprie competenze, cercò disperatamente una soluzione che potesse farlo uscire dalla propria situazione, ormai divenuta insostenibile e ritenne di averlo trovato in una rielaborazione del famoso Vino Mariani, una soluzione a base di foglie di cocaina macerate in vino rosso al quale lui aggiunse cannella, olio di noce moscata, caffeina e altri ingredienti, grazie alla quale provò a disintossicarsi. Il passo successivo fu naturalmente quello di provare a commercializzare il composto che inizialmente era stato proposto come antidolorifico e successivamente come antidepressivo, dato il suo effetto piuttosto blando. Curioso notare come a quel tempo l’ampia diffusione tra i numerosi reduci di guerra di fenomeni di alcolismo, dipendenza da stupefacenti e depressione, costituisse una problema molto sentito tra la popolazione ma che venisse considerato disdicevole parlarne. Tutte le iniziative promozionali sul medicinale venivano quindi dichiaratamente rivolte ad un pubblico femminile che invece ne faceva un uso praticamente nullo, mascherando i reali propositi dietro indicazioni terapeutiche come “mal di testa” o l’immancabile e onnicomprensivo “tonico per la salute”. La ricetta si avvicinò lentamente a quella attuale due anni più tardi quando in Georgia viene introdotto il divieto di consumo e conseguentemente di vendita, di alcol. Pemperton decise di sostituire cosi il vino con dell’estratto di cola, ma il gusto risultante, particolarmente piacevole, lo convinse a carbonare il medicinale e a venderlo come bibita presso le ormai diffuse soda fountains delle drogherie. Ribattezzò il prodotto “Coca-Cola” contraendo il nome dei suoi ingredienti più caratterizzanti, la Cocaina e l’estratto di semi di Cola appunto, riscuotendo immediatamente un ottimo successo. La presenza di tracce di cocaina è sempre stata minimizzata dalla Coca Cola Company nel corso dei decenni successivi riconducendola a sostanze minori ma ugualmente se ne stima la presenza in circa 9 milligrammi per ogni bicchiere venduto in quegli anni. Ma se questo è tutto sommato un fatto riconosciuto, meno risaputo è il vero motivo per cui si decise di 108
procedere ad eliminare nella lavorazione l’alcaloide dell’ecgonina rendendo così innocuo il principio attivo della cocaina. La versione ufficiale riconduce questa decisione all’editto governativo del 1914 che per la prima volta regolamentava la somministrazione delle sostanze psicotrope, la cui vendita era stata fino a quel momento completamente libera. La variazione nella ricetta risale però al 1903, ben 11 anni prima ed era stata decisa in ottemperanza di principi molto meno edificanti. Siamo in Georgia, uno stato del Sud, in anni nei quali la discriminazione razziale era ancora molto radicata. La presenza di cocaina nella Coca Cola era risaputa e il nome stesso del prodotto non ne faceva certo segreto. La politica commerciale aggressiva adottata per la vendita del prodotto poi, ne consentiva l’acquisto a soli 5 cents, un prezzo abbordabile anche alla meno abbiente popolazione di colore. L’unione di questi due fattori innescò un crescente timore nell’opinione pubblica che schiere di uomini “negri” in preda ai demoni della cocaina usassero violenza carnale nei confronti delle timorate donne del sud, terrore ulteriormente fomentato dai giornali locali che riportavano in continuazione notizie allarmistiche, volutamente esagerate verso questa direzione. La crescente fomentazione popolare ha cosi suggerito un’adeguamento che tranquillizzasse la rispettabili famiglie dei consumatori bianchi dal pericolo di selvaggi in stato di alterazione chimica. I poco piacevoli trascorsi iniziali della Coca Cola non ebbero per altro ripercussioni particolarmente felici nemmeno nei confronti del suo creatore John Pemperton. Come detto, la Coca Cola non ebbe più che un’effetto placebo sulla sua dipendenza dalla morfina e nonostante il successo della sua bevanda si ritrovò in pochi anni in una situazione di degrado totale, che unita a decisioni commerciali discutibili, lo portarono alla situazione di pesante indebitamento che lo costrinsero a (s)vendere la ricetta della sua invenzione ad Asa Griggs Candler un altro farmacista di Atlanta che poi portò la Coca Cola a diventare ciò che è oggi, per un valore corrispondente a circa 47.000$ attuali.
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Molto più in piccolo ma con rischi maggiori, una storia simile è stata vissuta da 7Up, che rappresenta per gli americani ciò che in Europa è la Sprite, ovvero una tipologia di soda chiamata “Lymon”, ottenuta da una miscela di Lime e Limone. Il nome originale del prodotto quando è stato inventato nel 1929 era “Bib Label Lithiated Lemon Lime Soda”. Il nome lascia intuire chiaramente come uno degli ingredienti di base fosse il Litio Citrato, una sostanza chimica frequentemente utilizzata per la cura di disturbi bipolari e depressione e qui utilizzata per rendere ancora più aspra e rinfrescante la sua formula. Con il passare degli anni, si sono manifestate in modo sempre più chiaro prove di gravi effetti collaterali, a fronte delle quali ne fu proibito l’uso e l’azienda produttrice modificò nome e ricetta. Il principale concorrente di Coca Cola, lo sai bene, è Pepsi. La loro guerra commerciale a suon di pubblicità comparative irriverenti ha fatto la storia della comunicazione negli ultimi 50 anni e gioca tantissimo su una contrapposizione voluta e netta che ne caratterizza quasi tutti gli aspetti: una si propone come tradizionale, l’altra si rivolge ai giovani, una impone i propri tradizionali colori e l’altra ammicca al patriottismo replicando quelli della bandiera americana e cosi via. Naturalmente quindi, nonostante siano partite in anni molto vicini, non sorprende che le loro origini abbiano per molti versi seguito percorsi opposti. La Pepsi nasce in North Carolina nel 1893 per mano di Caleb Davis Bradham, ancora una volta un farmacista, che inventa una miscela a base di estratto di cola, zucchero, vaniglia, noce moscata e olio di limone da servire nella soda fountain del suo drug store di New Bern, chiamandola semplicemente “Brad’s Drink”. Il successo inizialmente fu tiepido o quantomeno solo locale fino a quando 5 anni più tardi Bradham si decise a cambiargli di nome in “Pepsi Cola”, promuovendolo come coadiuvante delle funzioni digestive e dei disturbi gastrici e affiancandone il consumo ai numerosi barbecue joint della regione. Il nome deriva infatti da “dispepsia” ovvero indigestione, il problema che il prodotto sarebbe stato atto a curare. La ricostruzione della PepsiCo. ci racconta che la convinzione di Bradham fosse che la bibita avesse lo stesso effetto della pepsina, un enzima molto efficace per la disgregazione delle proteine. Non risultano però variazioni alla ricetta ed è certo invece che non contenesse alcuna addizione esterna di pepsina. È poco credibile quindi che un farmacista come Bradham potesse inconsapevolmente sostenere una tesi cosi avventurosa ed è molto più probabile che si sia trattato di una pura invenzione di natura commerciale, che comunque ha funzionato molto bene. Altro nome molto antico tra le Cola ma meno presente sui nostri mercati è la famosa Dr. Pepper. La bibita nasce a Waco, Texas nel 1885 per mano di Charles Alderton un farmacista (per l’ennesima volta…) originario di Brooklyn. Come si usa spesso fare in America, l’azienda ha ricostruito a posteriori la propria storia leggermente romanzata per ampliare il mito intorno al proprio prodotto con particolare dovizia di particolari. Si apprende cosi di come Alderton abbia formulato la propria ricetta di 23 ingredienti che compongono il suo inconfondibile sapore, cercando di ricreare in una bevanda gli aromi caratteristici che ormai avevano impregnato le pareti del vicino vecchio drug store di Mr. 110
Wade Morrison e che si percepivano appena varcata la soglia, miscelando gli ingredienti che vi erano contenuti. La bibita servita nelle classiche soda fountain veniva chiamata inizialmente semplicemente “Waco” e poi venne successivamente ribattezzata “Dr. Pepper” dal suo creatore, il che suona abbastanza curioso in considerazione che il nome non è in nessun modo riconducibile agli elementi di questa storia. La cosa ancora più curiosa è il fatto che la Dr. Pepper Snapple Group si sia sempre rifiutata di dare una propria versione al riguardo, cosa che ha fatto nascere le più svariate ipotesi circa l’origine del nome, dall’amore segreto di Alderton verso la figlia di Mr. Pepper, il proprio precedente datore di lavoro, fino alla composizione a tavolino del nome partendo da “pep” di pepsina come visto per la Pepsi, passando attraverso teorie cospirazioniste di ogni tipo. È comunque certo che in una ricostruzione storica cosi ricca di particolari romanzati e non dimostrabili, il totale silenzio dell’azienda a riguardo ha sempre fatto un rumore assordante.
Tornando alla Coca Cola, un’altro trascorso poco lusinghiero nella sua storia, sebbene solo in via indiretta, è stata la nascita della Fanta. Ci troviamo nel 1941 in piena Seconda Guerra Mondiale. All’epoca la Coca Cola era già largamente distribuita in Europa ed in Germania in particolare era già un best seller, molto radicato nelle abitudini di consumo della popolazione, tanto che figurava già come sponsor delle olimpiadi di Berlino del 1936. Dopo l’attentato di Pearl Harbor però è scattato un’embargo nei confronti della filiale tedesca della Coca Cola Company. Il capo filiale Max Keith, poi passato alla storia come un collabo111
razionista dei gerarchi nazisti, riuscì ad inventarsi li per li una nuova bibita distribuita solo per la Germania, prodotta da ingredienti che potessero essere economici quanto lo ero lo sciroppo precedentemente inviato dagli Stati Uniti. Si procurò quindi la purea di scarto dalle aziende di lavorazione della frutta, lo unì a del latticello scartato dall’industria casearia, a dello zucchero di barbabietola e all’anidride carbonica e ottenne un prodotto che ebbe nonostante tutto un eccellente successo commerciale. Cronache dell’epoca ricostruiscono come con ogni probabilità le buone vendite della bevanda non fossero dovute al gradimento degli acquirenti quanto al fatto che con il peggiorare degli esiti della guerra per la Germania, la disponibilità di zucchero si fece praticamente nulla e quella Fanta dal gusto discutibile abbia rappresentato una riserva disponibile per la popolazione in difficoltà. Ciò che rimane comunque è che questa trovata ha salvato la filiale tedesca dalla chiusura. Sembrerebbe che il nome “Fanta” derivi proprio da questo concetto di “fantasie”, ovvero “fantasia” in tedesco, nell’essersi inventati gli ingredienti con i quali poter supplire all’emergenza. La produzione della Fanta cessa con la fine della guerra e dell’embargo e riprende dieci anni più tardi, proprio da noi in Italia. L’idea di base è stata la stessa: creare una bibita sfruttando i prodotti locali. È per questo che nasce come bevanda all’arancia, tipicamente italiana e che ha cosi tanti gusti in giro per il mondo, fino ad arrivare ai più assurdi, che potete trovare sui mercatini medio orientali, asiatici o africani.
La Coca Cola Company, proprietaria del marchio ne ricostruisce la storia a partire dal 1955 omettendo completamente i sui albori nazisti che sono però provati e documentati. La gaffe che ha posto l’attenzione dell’opinione pubblica su quegli anni bui è stata paradossalmente commessa dalla stessa azienda nel 2015. Fino a quel momento sul sito ufficiale la Coca Cola company riportava il 1955 come data di nascita mentre proprio in quell’anno si decise di lanciare una edizione speciale per il 75° an112
niversario con un gusto che celebrasse “i bei vecchi tempi in cui è nata, quando c’era scarsità di risorse e le persone sfruttavano ciò che avevano grazie alla propria fantasia”, come recita la stessa comunicazione aziendale. Il rimando matematico agli anni del nazismo fu immediato, non esattamente dei “bei vecchi tempi” e la nuova-vecchia ricetta dell’edizione speciale era qualcosa di decisamente più complesso e “strano” della semplice soda all’arancia lanciata nel 1955 e che più verosimilmente si ispirava in qualche modo alla ricetta originale tedesca. Come puoi ben immaginare, le polemiche conseguenti interruppero immediatamente sia la vendita che la pubblicizzazione dell’iniziativa. La relazione tra Fanta e fascismo include indirettamente un altro grande marchio di soda, la Faygo, molto famosa in America ma non distribuita dalle nostre parti, una linea di bibite che replicano i sapori dei dolcissimi “frosty” della torte tipiche degli States. Molto controverso è il rapporto tra l’azienda ed il trasgressivo gruppo Hip Hop chiamato Insane Clown Posse, rappresentanti dello stile musicale ribattezzato “horrorcore” caratterizzato da testi graffianti ed un’immagine trash che li porta a salire sul palco costantemente truccati come clown gotici dall’aspetto inquietante. Gli ICP non hanno mai fatto segreto della loro passione per le bibite Faygo, anzi citandole spesso nei loro testi ed esibendole nei loro concerti ma questo è il genere di pubblicità non richiesto da un’azienda che commercializza un prodotto per famiglie e la Faygo se ne è sempre nettamente dissociata. Questo fino al 2017 a seguito dello scandalo sulla Fanta nazista appena menzionato. Gli ICP sono da sempre dichiaratamente anti-razzisti e anti-fascisti-nazisti e hanno partecipato nel 2017 ad una marcia contro le iniziative del presidente Trump che fece molto rumore e diede ulteriore popolarità al gruppo. Faygo improvvisamente riscoprì la propria vicinanza ideologica agli ICP sottolineando le origini ebraiche dei suoi fondatori e definendosi come l’anti-Fanta sulle tavole degli americani. Sicuramente un’intervento tempestivo e commercialmente efficace ma non molto edificante, che va ad aggiungersi agli angoli più in ombra del mondo delle soda, perennemente nascosti dalle mode colorate del momento.
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CREATIVE STORY N° 57
La Clam Chowder, una storia da costa a costa Se ci sei stato, converrai che San Francisco è una città molto particolare. È in California, antico possedimento spagnolo sulla costa Ovest degli Stati Uniti in passato connesso al Messico, di cui tradisce la matrice del nome. Non è però Los Angeles: non ci sono spiagge piene di culturisti in costume h24, palme e gente in occhiali da sole su auto cabrio anche di notte. Al contrario, ha un clima aspro in cui piove di frequente con un vento sferzante, spesso al di sotto dei 20°C anche a luglio. Non per nulla proprio in un isolotto di fronte alla baia è stato creato il celebre penitenziario di massima sicurezza di Alcatraz: nessuno si sognerebbe di scappare a nuoto nella sue gelide e pericolosissime acque. Se ti rechi al Fisherman’s Wharf, la sua celebre area portuale e ti infili in uno dei localini del Pier39, mentre osservi le otarie placidamente sdraiate sulla banchina, puoi ritemprarti con una bella Clam Chowder: una piccola forma di sourdough bread, un pane tipico di San Francisco di cui avevamo gia parlato nella Creative Story n.43, scavata all’interno dalla mollica e riempita di una spessa e vellutata zuppa di pesce, tradizionalmente ottenuta dall’avanzi del pescato, ricco di vongole e piccoli crostacei.
Lo so, l’idea ti fa storcere il naso. Noi italiani spesso facciamo fatica a concepire un piatto di questo genere che associa i latticini al pesce, ma ti assicuro che è davvero deliziosa e oltretutto corroborante e golosa allo stesso tempo, un vero comfort food assolutamente perfetto per quel contesto. 115
Talmente perfetto che sembra essere li da sempre, mentre invece come avviene per moltissimi piatti americani è frutto dell’influenza europea attraverso l’afflusso degli immigrati. Nella fattispecie, la Clam Chowder è una evidente rielaborazione delle molte ricette di zuppa francesi riadattata ai prodotti concessi dal territorio a disposizione… nel New England. Si, hai letto bene: il New England, una delle primissime terre conquistate dai coloni, posizionato nella parte nord della Costa Est degli Stati Uniti, ovvero a oltre 10.000 km da San Francisco. E allora come può essere diventata la Clam Chowder il suo piatto tipico? Immagina di allungare l’Italia di oltre sei volte e di trovare che a Pantelleria il piatto tradizionale sono i Pizzoccheri… Abbastanza curioso, no? In realtà sebbene venga snobbato dalla cultura gastronomica di massa e ancor più dal turismo, la Clam Chowder è un piatto che attraverso varie forme e declinazioni è presente nella maggior parte della confederazione, molto più di tanti altri decisamente più celebrati e considerati quasi dei piatti nazionali. Pochi sanno che la Clam Chowder ha accompagnato i colonizzatori del nuovo mondo lungo tutto il loro percorso che partendo dalla East Cost li ha portati alla conquista del West nel corso di 250 anni di avvicendamenti. La Clam Chowder è stata oggetto di guerre, movimenti culturali, scontri ideologici e politici.
Sembra paradossale lo so, ma conoscere la storia della Clam Chowder significa imparare e comprendere meglio quella degli interi Stati Uniti, ed è quello che ti volevo proporre in questa Creative Story. Se sei un assiduo lettore delle Creative Stories, ti dovrebbe risultare familiare l’inizio di questo racconto, in comune con la Story n. 26 sulle origini della cucina Cajun: l’area geografica degli attuali Quebec e New England è stata originariamente colonia francese ma a partire dal 1710 venne progressivamente assoggettata al controllo britannico, generando frizioni 116
sempre più accese con la popolazione insediata. Il cibo più rappresentativo di questa minoranza è stata proprio la Clam Chowder, un piatto nato dal concetto di zuppa alla francese ma realizzato con quello che era reperibile all’epoca dell’approdo dei coloni: frutti di mare, tra cui molte vongole e tuberi, e che veniva arricchita da carne secca. La clam chowder era quindi una densa crema di patate bollite in brodo, con vongole e carne e grasso animale. Con il tempo e con lo sviluppo dell’allevamento del bestiame, questa ricetta è stata ulteriormente arricchita da un altro elemento spesso presente nelle zuppe francesi: il latte o la panna. Sembra che il termine “Chowder” che oggi sta ad indicare uno stufato di mare, ovvero una zuppa di pesce cotta a lungo fino ad addensarsi, provenga da una tradizione dei villaggi di pescatori lungo la costa da Bordeaux alla Bretagna. Ad ogni porto all’arrivo dei pescherecci ci sarebbe stata ad attenderli una “chaudière” che nel francese moderno significa “caldaia” ma che all’epoca indicava qualunque supporto riscaldabile a fuoco vivo. Il pescato piu povero e sacrificabile veniva immediatamente cotto sotto forma di zuppa e condiviso dalla comunità. Non si parlava però assolutamente di molluschi. Anzi, sembrava tra i coloni ci fosse un rifiuto verso le vongole, la cui abbondanza veniva definita addirittura “il peggiore dei castighi di Dio” in base alle cronache giunte a noi dall’epoca degli insediamenti in New England. Furono gli indiani ad insegnare ad apprezzare nel tempo la loro presenza negli stufati e la Clam Chowder rappresenta quindi una declinazione tipica di questa particolare zona. Nonostante l’approccio piuttosto repressivo degli inglesi nei confronti delle comunità francofone e delle loro tradizioni, la Clam Chowder era velocemente diventata un piatto molto popolare, con ingredienti poveri e di facile reperibilità e molto corroborante nei freddi inverni in quella che veniva allora chiamata Nuova Scozia. Con disappunto britannico la sua diffusione andava quindi espandendosi, fino a raggiungere l’area di Boston dove risulta presente fin dal 1836 nel menu del Ye Olde Union Oyster House, il piu antico ristorante tutt’ora aperto nello Stato. La Clam Chowder era de facto il piatto più popolare dell’epoca, ed il metro del suo indice di gradimento tra la working class del nuovo mondo è facilmente riscontrabile leggendo alcune righe del capolavoro della letteratura americana Moby Dick, scritto in quel periodo e ambientato proprio nel New England: “Tuttavia, un caldo, profumato vapore proveniente dalla cucina ci portava a confutare l’infausta prospettiva che si paventava di fronte a noi. Poi quando arrivò quella zuppa fumante, il mistero fu deliziosamente spiegato. Oh, cari amici! ascoltatemi. Era fatto di piccole vongole succose, appena più grandi delle nocciole, mescolate con gallette pestate e carne di maiale salata tagliata a scaglie; il tutto arricchito con burro e condito abbondantemente con pepe e sale.” Non dovrebbe stupire più di tanto quindi, la creazione “d’ufficio” pochi decenni più tardi nel 1890, nelle aree immediatamente al di sotto del confine con il New England, della cosiddetta “Manhattan Style Clam Chowder”, una ricetta meno spessa, che al posto delle patate usava il pomodoro e che includeva diverse altre verdure, come sedano, carote e aglio. 117
L’intento era evidentemente politico e venne preso dalle popolazioni del Nord Est come un’autentica rappresaglia, causando una reazione che definire “dura” è un eufemismo. Il governatore del Maine arrivò addirittura ad emanare un provvedimento che proibiva formalmente l’uso del pomodoro nella Clam Chowder, e per quanto ci sembri paradossale e sebbene nessuno se ne curi, questa legge è tutt’ora in vigore in Massachusetts. La scrittrice Eleanor Earby la definì “la terribile miscela rosa” e “una considerevole eresia” nel suo libro New England Samples, in cui si legge anche “vongole e pomodoro non hanno più affinità tra loro di quanta ne abbia il gelato con i ravanelli”. Questo per dire a noi italiani, di come cambino le visioni a seconda delle latitudini… Al di là delle finalità, la nuova versione ebbe l’indiscusso merito di sdoganare la Clam Chowder nei confronti del resto degli Stati Uniti dove veniva vista in precedenza come un piatto “estraneo”, non patriottico o peggio ancora ostentativo degli Stati del Nord nei confronti di quelli sudisti. Nel giro di pochi anni ci fu quindi un vorticoso proliferare lungo la costa di personalizzazioni regionali che anche grazie alle umili origini del piatto, si saldarono in modo franco con le tradizioni popolari locali e che finirono in alcuni casi per diventare una commistione tra i due stili originali. La Clam Chowder del New Jersey ad esempio contiene pomodoro, panna, crema di asparagi e bacon con una miscela di spezie tipica, chiamata Old Bay. Quella del Rhode Island si basa invece sulla passata di pomodoro e contiene unicamente le vongole di eccezionali dimensioni del genere Quahogs, grandi a volte come un pugno, sgusciate. La versione Hatteras Island del North Carolina non ha come base ne panna ne pomodoro ma un brodo di pesce ristretto e usa le minuscole vongole del genere Littleneck. Quella del Sud Carolina, la She Crab Soup, contiene la polpa del locale Blue Crab. Particolare la storia della Minorcan Clam Chowder della Florida rielaborata da una comunità di immigrati dall’isola di Minorca in Spagna, una classica Manhattan Style, quindi con il pomodoro, ma con aromi mediterranei ed una forte presenza di Datil Pepper, un peperoncino aranciato dal caratteristico ed inconfondibile sapore aspro, dolce e piccante insieme. Procedendo poi lungo i confini con il Messico, nasce la Cabo Clam Chowder che si arricchi118
sce di fagioli, lime e chipotle. E poi il Gumbo della Louisiana con gamberi e okra e cosi via lungo tutto il paese, con un’infinità di micro e macro varianti fino a collegare quasi tutta la nazione. Ma a San Francisco, la Clam Chowder rimane bianca, in una versione molto, molto simile a quella del New England. Come mai? Sempre nella citata Creative Story n.43, avevo raccontato di un anno particolare, il 1849 durante il quale vi fu un’esodo senza precedenti verso ovest da parte di una intera generazione che si riversò in California alla ricerca del mito della corsa all’oro e che viene chiamata per questo “i 49ers”, che certamente avrai sentito riutilizzare per ribattezzare una famosa squadra di football americano proprio di San Francisco. Quell’ondata migratoria proveniva in buona parte dal Nord Est con influenze francofone evidenti. Basti pensare che il sourdough bread, il pane tipico della città è stato inventato da Isidore Boudin, un immigrato di origini francesi, erede di una famiglia storica di panettieri. Il primo approdo dei colonizzatori è stata naturalmente la zona del porto, ovvero quello che è oggi il Fisherman’s Wharf alle spalle del quale si è poi sviluppato il resto della città man mano che questa cresceva in dimensioni. Non è un caso che il Clam Chowder di San Francisco venga rigorosamente servito all’interno di una forma di sourdough bread ribadendo un binomio inscindibile fin dal suo arrivo in California, alla fine di un viaggio che gli ha visto attraversare un continente intero e lungo oltre due secoli.
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CREATIVE STORY N° 58
I confini sconosciuti della Cucina Cinese
Se anche tu come me, hai vissuto le prime uscite giovanili con gli amici in motorino e successivamente in macchina, tra la fine degli anni ’80 e i ’90, non puoi non aver speso almeno qualche serata tra i tavoli di un ristorante cinese tra wanton fritti, involtini primavera e birra Tsing Tao, nel periodo di punta dei loro anni di boom nel Bel Paese. Erano locali estremamente economici, alla portata di tutti, dove in cambio di poche migliaia di Lire a testa ci si rimpinzava di fritti, serviti per altro molto velocemente. L’ideale per chi per chi doveva risparmiare qualche soldo per la benzina e l’ingresso in discoteca, assumendo grosso modo il ruolo del menu a prezzo fisso o del all you can eat di oggi. Cosa conoscevi della cucina cinese allora? Nulla presumibilmente. Non sapevi che noi italiani siamo arrivati buoni ultimi in un processo di espansione della ristorazione cinese verso occidente già in atto da decenni, per non dire secoli, come ti avevo già raccontato nella Creative Story n.30. Lungo questo percorso la cucina cinese si è adattata sempre più ai gusti locali per avere un successo immediato, aiutato anche dalla proverbiale abilità commerciale cinese all’origine della sua celebre politica aggressiva sui prezzi. Quando i ristoranti cinesi sono arrivati da noi quindi viaggiavano già su format abbastanza consolidati: centri di distribuzione di prodotti surgelati o semilavorati, non particolarmente ricercati, studiati per poter proporre “tanto a poco” e proposti con ricette fortemente italianizzate. Un prodotto gastronomicamente tutt’altro che straordinario, unito a qualche episodio di trascuratezza adottato dai primi ristoranti cinesi in difficoltà a causa della saturazione del mercato, ha portato inevitabilmente alla categoria una nomea non esattamente lusinghiera, di locali raffazzonati e sporchi, non rispettosi delle normative e che servono cibo scadente, con forti dubbi sull’integrità della sua conservazione. Fama disastrosa che ha poi portato alla successiva conversione di molti di questi alla nuova moda della cucina giapponese a partire dagli anni 2000. Sono passati almeno 30 anni da allora e cosa puoi dire di conoscere oggi della cucina cinese? Presumibilmente la stessa cosa di quando eri ragazzo: poco o nulla. La Cina ci appare un mondo ancora troppo lontano, per altro non particolarmente aperto alla cultura occidentale e quindi nemmeno cosi desideroso di farsi conoscere a sua volta. Molti occidentali ignorano ad esempio che la Cina è stata per molti versi una delle più antiche culle della gastronomia e che molti paesi ne sono stati influenzati. Ritrovamenti di incisioni raffiguranti delle cotture, riportanti ideogrammi cinesi sono stati datati 1.500 A.C. e piatti come il Naan persiano o la Pita mediorientale discendono con ogni probabilità dallo 121
shaobing cinese. La stessa pasta cinese vanta una storia quantomeno parallela a quella italiana. Gia dal 500 A.C. Confucio introdusse il concetto di cucina come forma d’arte, con degli standard definiti e una prima forma di etichetta a tavola. Sempre in questo periodo la Cina eliminò i coltelli dalla tavola, considerati rozzi e irrispettosi dei commensali e del lavoro di realizzazione della ricetta per usare solo bacchette su cibo già porzionato in bocconi. Nella cultura cinese ancora oggi da allora, uno degli aspetti rituali più importanti nel ricevere degli ospiti è di organizzarsi per offrire loro il miglior cibo possibile.
Ma ancora più di questo, sempre nella Creative Story n.30 ti raccontavo dell’avvento nel 1800 della cucina cinese in California in occasione della corsa all’oro e di come in brevissimo tempo le famose lanterne illuminate al di fuori dei locali fossero diventate indicazione dei ristoranti migliori della città. In quella fase storica, quella cinese era ancora una cucina dalle grandissime tradizioni, fatta di ricerca della materia prima, di profondi quanto significativi rituali e di tecniche evolute e approfondite che si ergevano nettamente rispetto alle rozze abitudini dell’epoca, che molto raramente andavano oltre il semplice porre il cibo in una pentola sopra un fuoco. Forse l’esempio più emblematico in questo senso è l’anatra laccata alla pechinese nata proprio in quegli anni come avvicinamento alle richieste occidentali sulla base di una ricetta tradizionale nella corta imperiale, una preparazione che richiede 48 ore di lavorazione e che passa per la “soffiatura” della pelle e il riposo all’aria con il miele per ottenere la sua proverbiale croccantezza. Se la paragonate alla tipica alimentazione a base di fagioli in padella e carne secca in voga in quel periodo nel west, puoi avere un’idea di quanto la cucina cinese fosse allora considerata evoluta, all’avanguardia e generalmente di altissima qualità. L’involuzione che ha portato questa percezione di estrema considerazione alla triste fama 122
di cucina dozzinale che ha nei nostri giorni, non è però l’oggetto del nostro appuntamento di oggi essendo già stata trattata abbondantemente nella abbondantemente citata Creative Story n.30. Tornando alle mie domande iniziali, ciò che generalmente noi italiani sappiamo della cucina cinese è praticamente limitato al riso alla cantonese precotto con i piselli surgelati verde-psichedelico e cubetti di spalla industriale che mangia(va)mo nei “nostri” ristoranti cinesi. Se ci pensi però la Cina è un continente enorme di dimensione confrontabile all’intera Europa, con una rilevante complessità geografica e climi che vanno dal tropicale al subartico. Se ti dicessero di esemplificare la cucina Europea, tu quali piatti citeresti? La pizza? Fish&Chips? La Baklava? Blinis e Caviale con la Vodka? il Rösti? il Gulash? Hai gia capito che parlare genericamente di “Cucina Cinese” è quantomeno superficiale. Partiamo con il dire che la Cina si divide geograficamente in almeno due macro aree: la Cina del Nord, quella più tradizionale e culinariamente caratterizzata dalla coltivazione dei cereali e includendo soia e semi come la canapa e il sesamo da cui ricavare olii e aromi e la Cina del Sud, divisa dal fiume Yangtze e annessa solo in seguito, che invece basa la propria alimentazione su riso, pesce e frutta oltre al the.
Uno degli elementi che contribuirono maggiormente all’evoluzione regionale della cucina cinese fu, insieme alla disponibilità locale degli alimenti, la cosiddetta via della seta, la principale fonte di commercio della Cina con il mondo occidentale aperta durante la dinastia Han, attraverso la quale arrivarono per secoli alimenti sconosciuti. A titolo di esempio alimenti tipici della cucina cinese come piselli, cipolle, coriandolo, cetriolo o addirittura il peperoncino 123
erano totalmente estranei e arrivati poi in modo continuativo grazie alla via della seta. Questo complesso e articolato melting pot ha generato infiniti stili culinari che sono stati oggetto di difficili tentativi di classificazione e che a seconda delle interpretazioni comprendono da 200 ad oltre mille stili culinari diversi. Un detto cinese recita: “L’Est è dolce, il Sud salato, l’Ovest è agre e il Nord piccante” Senza entrare eccessivamente nello specifico è però chiaro, oggettivo ed incontrovertibile che esistano per lo meno queste quattro aree culinarie diverse, dalle quali sono nati 8 macro stili che caratterizzano la cucina cinese. 1. Cucina Sichuan Il nome ti dirà poco al di là dell’omonimo pepe ma viene considerata la più famosa della Cina. È basata sulla combinazioni di svariati tipi di carne e verdura normalmente cotti in stir frying e caratterizzata dall’utilizzo di abbondanti spezie, spesso piccanti o appunto pepate. Proprio questa combinazione di spezie, reperibile unicamente in quella regione, ne costituisce l’elemento caratterizzante ritrovatile praticamente in qualunque piatto. Tra i più famosi e rappresentativi il Kung Pao, pollo saltato a dadini spesso con frutta secca, il Fuqi Fei Pian, in sostanza polmone in padella e il Sichuan Hot Pot. 2. Cucina Hunan Conosciuta anche come Xiang, dal nome del fiume che attraversa una regione molto ricca di ingredienti e condimenti, con un’infinità di piatti diversi anche se molto spesso accomunati dalla presenza di pesce e di riso, condimento pieno e abbondante ed una speziatura delicatamente piccante, solitamente stufati o cotti in padella. I piatti più conosciuti sono il Pollo Dong’an, servito freddo e speziato con peperoncino e zenzero e il Maiale Rosso del Presidente Mao, al peperoncino, zenzero, salsa di soia e vino rosso. 3.Cucina Hui Viene considerata la cucina più semplice e delicata della Cina, basata principalmente sull’utilizzo di erbe, bacche e funghi autoctoni, cotti con una grande attenzione alla tecnica, adattando in modo millimetrico la gestione della temperatura al risultato che si vuole ottenere. Il piatto più famoso è certamente lo Yi Pin Guo, uno stufato di maiale, pollo, anatra, prosciutto, germogli di soia e oloturie, cotti a lungo a bassissima temperatura. 4. Cucina Lu È lo stile tradizionale dello Shandong nella Cina dell’Est. In controtendenza con altre regioni dell’est che come detto tendono ai sapori dolci, si basa sulla spiccata sapidità dei piatti e sulla ricerca costante di un elemento croccante nella cottura, spesso attraverso la frittura. Si tratta comunque di una scuola complessa che comprende oltre 30 tecniche di cottura e altrettanto celebri sono le sue zuppe. Tra gli ingredienti tipici, ci sono il maiale, il pollo ed il mais, cosa questa più unica che rara 124
in Cina. I piatti più conosciuti sono il Maiale Moo Shu, con cetrioli e funghi e la Carpa Agrodolce del Fume Giallo. 5. Cucina Zhe Tipica della provincia di Zhejiang, è basata su cotture brevi ma intense e colorate, di ingredienti naturali con sapori piuttosto delicati, tendenti al dolce e poco grassi che rispettano molto la materia prima, solitamente pesci d’acqua dolce e bambù. Viene considerata la cucina cinese più vicina per caratteristiche a quella giapponese. Tra i piatti più conosciuti il Dongpo, pancetta di maiale stufata nel vino di riso e salsa di soia e il Pollo del Mendicante, pollo ripieno cotto in un involucro di argilla. 6. Cucina Su Tipica della provincia dello Jiangsu, viene considerata la cucina dei grandi eventi, quella più preziosa e raffinata essendo stata tradizionalmente servita agli imperatori. Si basa su carni e pesci cotti in modo delicato e rispettoso, fino a sciogliersi in bocca. Tra i piatti piu famosi le Polpette Testa di Leone, di carne di maiale brasata e stufata nelle verdure, L’Anatra Essiccata, tipica della città di Nanchino e il Riso Fritto Jiangsu, riso saltato con carne di maiale, gamberi, uova e verdure e che ritroviamo in forma commerciale nei nostri ristoranti cinesi con il nome di Riso Fritto Speciale.
7. Cucina Min È una cucina molto articolata e ricca di materie prime tipiche della regione di Fujian, che accomuna tipicamente sapori di mare e di montagna e che è molto rinomata per le zuppe. È la regione che ha maggiormente influenzato la cucina di Malesia, Singapore e Taiwan a causa dei numerosi emigrati della regione che si sono spostati li. Tra i piatti tipici l’Omelette di Ostriche, il Bar Kut Teh, carne cotta nel the e il Popiah, una crepe sottile con carne, pesce e verdure. 125
8. Cucina Cantonese Conosciuta anche come Yue, tipica della regione del Guangdong. È la regione cinese con la maggior percentuale di emigrati verso occidente e questo è il motivo per cui è quella maggiormente associata al concetto europeo di “cucina cinese” essendo ampiamente rappresentata nei ristoranti del vecchio continente. È una cucina incredibilmente variegata che attraverso la bollitura o lo stir frying tratta praticamente qualunque cosa sia commestibile, sebbene abbia una certa predilezione verso la combinazione tra i crostacei, i frutti di mare e la carne di manzo. Questo è il motivo per cui una delle sue espressioni tipiche è il cosiddetto Dim Sum, il corrispondente asiatico delle tapas spagnole, ovvero una enorme varietà di piccoli bocconi di ricette diverse a costituire un pasto completo. Altra ricetta tipica è il Maiale Char Siu, aromatizzato al miele e alle cinque spezie. Naturalmente come detto, oltre a queste grandi 8 famiglie di cucina, meriterebbero una menzione altri stili molto importanti come la cucina dello Yunnan, unica per la presenza di latticini di mucca e pecora, quella dello Uyghur, con forti influenze mediorientali, quella Tibetana caratterizzata dall’utilizzo di carne di yak e molto calorica e tantissime altre a dimostrazione che queste nozioni, per la maggior parte sconosciute ai più, sono solo la prima scalfittura di un mondo gastronomico complesso ed estremamente affascinante.
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CREATIVE STORY N° 59
La variegata storia dei Cocktails Tu sei un tipo da cocktail? Se sei come me, letteralmente impazzisci per il rituale dell’aperitivo, il poterti rilassare con gli amici sorseggiando l’ennesima opera d’arte che gli esperti della mixology riescono a tirare fuori dal proprio cilindro. Non so se sei d’accordo con me, ma personalmente trovo in particolare che il mondo barbecue si sposi benissimo sia con la creazione di nuovi cocktail, sia con la creazione di nuovi fingergrills da alternare in continuazione al tavolo. Una volta (praticamente fino a ieri), lo si poteva ancora chiamare “apericena” ma si sa, le mode cambiano spesso intorno alla centralità del fenomeno del cocktail che riesce comunque a mantenersi “giovane”, fresco e di tendenza da sempre, a partire dalle influenze inglesi del Gin apportate dal Conte Camillo Negroni all’inizio del secolo, passando per il Vodka-Martini rigorosamente “agitato, non mescolato” di James Bond, alla novità del Flair acrobatico celebrato addirittura da un film con Tom Cruise, per arrivare al Cosmopolitan di Sex and the City e a tutti quelli che ancora verranno. Questo appare piuttosto sorprendente se si considera che la Mixology è un’arte con oltre due secoli di vita alle spalle. In senso lato, la miscelazione di alcolici con altri ingredienti potrebbe essere fatta risalire addirittura ai tempi degli antichi romani, nei quali il vino era molto “forte” e alcolico e doveva necessariamente venire “tagliato” con acqua, frutta, miele e spezie prima di essere servito. Se la intendiamo in senso compiuto però, ovvero come combinazione di diversi superalcolici aventi caratteristiche definite, dobbiamo risalire fino alla rivoluzione industriale dove ad inizio del 1800 nascono i primi Pounch.
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Come spesso abbiamo avuto modo di vedere in queste Creative Stories, non è passato molto prima che la nuova tendenza passasse dall’Inghilterra all’allora colonia americana e in particolare nel principale punto di approdo al nuovo mondo per gli emigrati europei: New York. Più precisamente nel 1806 nella Grande Mela nasce il termine “Cocktail”, in italiano letteralmente “coda di gallo”, con il quale il giornale The Balance and Columbian Repository sanciva i termini di questa nuova e colorata moda di unire “liquori con stimolanti combinazioni di zucchero, acqua e amari”. L’arte viene poi perfezionata e codificata nel libro “The Bartender’s Guide” scritto pochi decenni più tardi nel 1862 dal pioniere del settore Jerry Thomas, in cui per la prima volta raccolse per iscritto le ricette della tradizione orale tramandata in quel periodo dalla prolifica creatività dei barman newyorkesi, aggiungendone di proprie. A Thomas si devono non solo l’esistenza di ricette divenute dei classici come il Whisky Sour, il Brandy Daisy, il Gin Fizz, oltre al Martinez considerato l’antesignano dell’odierno Martini, ma anche di molte tecniche che sono tutt’ora alla base della scuola della mixology internazionale. Addirittura gli si riconducono gli albori della nascita del flair, per la sua abitudine di intrattenere i clienti nel suo bar con coreografiche modalità di preparazione dei suoi cocktail, tra le quali assunse una certa fama la pratica di dare fuoco alle proprie creazioni. Si stima che l’eccezionale fama che Thomas seppe guadagnarsi gli fruttasse l’eccezionale compenso di 100$ ala settimana, più di quanto guadagnasse il vice presidente degli Stati Uniti a quell’epoca. I decenni successivi videro tra alti e bassi, tra i quali anche il proibizionismo, il diffondersi in tutto il mondo della moda dei cocktails e probabilmente proprio da questo nasce la propria infinita capacità di rinnovarsi costantemente. Oggi i cocktails internazionali “ufficiali” riconosciuti dalla IBA, ovvero quelli più classici, sono 77 ma a questi va aggiunto un numero pressoché infinito di altre ricette nate in altrettanti stati diversi, ciascuno come riflesso di un particolare contesto storico oltre che della tradizione culturale e gastronomica del paese che ne ha visto i natali. E proprio qui arriva il bello. Si dice spesso che non esiste miglior romanziere della vita stessa e questo a maggior ragione vale per la variegata e variopinta mappa dei cocktail nel mondo, ciascuno con in serbo una storia curiosa ed interessante da raccontare. IL TOM COLLINS Nel libro di Jerry Thomas, tra i tanti, spicca un altro cocktail diventato poi un grande classico: il Tom Collins. Uno dei motivi per cui non passa inosservato è il fatto che fin dalla matrice britannica e londinese in particolare della mixology, con il nome John Collins si intendeva un drink a base di Gin. Thomas decise di codificarlo ma di ribattezzarlo ironicamente Tom Collins. Il motivo è da ricercare in uno scherzo che si era molto diffuso in quel periodo nella città di New York. In pratica si andava dai passanti a chiedere se per caso conoscessero un tale Tom Collins, 130
perché si sosteneva che un uomo con questo nome stesse raccontando cose orribili su di lui in un locale li vicino proprio in quel preciso istante. Lo scopo dello scherzo era di insistere talmente tanto da indurre il passante a precipitarsi iracondo nel locale pretendendo di parlare immediatamente con il Signor Collins. Lo stesso nome “Tom Collins” era quindi diventato sinonimo di presa in giro, di bluff e sembrò perfetto a Thomas per ribattezzare la sua versione di John Collins con una propria identità precisa senza lasciare che fosse semplicemente UN John Collins qualsiasi. Nemmeno da dire il fatto che l’idea si rivelò più che vincente: il Tom Collins è conosciuto in tutto il mondo mentre il John Collins è semplicemente sparito come concetto.
LA MARGARITA Credo che non esista un cocktail più controverso del Margarita. Partiamo con il dire che è un simbolo del Messico ma a dispetto del nome spagnoleggiante e della base di messicanissima Tequila, in patria non è affatto comune vederlo consumare dalla popolazione locale ed è diffusa invece principalmente nei locali turistici. Esistono infinite leggende che ne circondano la nascita e probabilmente nessuno scoprirà mai quale sia quella autentica. Quella più affascinante però vede Danny Negrete come suo creatore, un barista che aveva lavorato all’Agua Caliente Race Track, dove si esibiva una giovane e talentosa artista di nome Margarita Carmen Cansino, della quale si era perdutamente invaghito, senza però arrivare mai a dichiararsi. Quando conobbe la sua futura cognata, anch’essa di nome Margarita, decise di creare per lei un cocktail in occasione del suo matrimonio con il fratello ma che era però in realtà ispirato alla sua fiamma segreta e di chiamarlo appunto Margarita. Margarita Carmen Cansino fece poi strada nel mondo dello spettacolo e quando iniziò ad 131
avere successo decise di cambiare il proprio nome divenendo nientemeno che la “divina” Rita Hayworth. Per il resto c’è solo da segnalare che contrariamente alle storie ambientate tra le palme sulle spiagge assolate del Messico, il vero successo mondiale della Margarita si deve a Jimmy Buffett, conosciutissimo in America per essere il fondatore dei “Margaritaville”, una catena di cocktail bar ad ambientazione tropicale, nei quali la Margarita veniva proposta nella versione frozen. IL LONG ISLAND Il nome richiama in maniera evidente l’omonima isola di Long Island, dove in un locale di Babylon lavorava Robert Butt, il barman americano che l’ha inventato. Più curioso sottolineare come il cocktail sia noto anche come “Long Island Ice Tea” sebbene il the non sia neppure lontanamente presente tra gli ingredienti. Il motivo è che una volta versato in un tumbler alto si presenta in tutto e per tutto come un comunissimo the freddo, molto diffuso come bevanda in tutti gli Stati Uniti ed in particolare negli stati del sud. Sembrerebbe infatti che quella di Butt sia stata una ricetta fortemente ispirata da una molto simile creata negli anni ’20 a Kingsport,Tennessee da tale Ramson Bishop come stratagemma per mascherare la somministrazione di bevande alcoliche nei severi anni del proibizionismo, ma proprio per questo motivo mai codificata ne tantomeno reclamata dal suo ideatore. IL MOJITO Una leggenda narra che le sue origini sarebbero addirittura da ricercare nell’abitudine del pirata Sir Francis Drake di miscelare la aguardiente (l’antesignano rozzo e molto forte dell’odierno rum) con zucchero grezzo di canna, lime e hierba buena, una varietà locale di menta. Decisamente più documentabile è invece la nascita della sua versione moderna, riconducibile ad Angel Martines, proprietario della Bodeguita del Medio, il celebre locale cubano che negli anni ’40 è stato reso famoso dalla frequentazione di diversi personaggi di spicco, tra cui lo scrittore Hernest Hemingway.
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Sembra che il nome Mojito derivi da “mojo” un tipico condimento cubano a base di lime che ricorda la base pestata creata nella fase iniziale della preparazione del cocktail. Proprio ad Hemingway si deve moltissima della fama del Mojito nel mondo anche se sembra ormai accertato in modo incontrovertibile che lo scrittore fosse sì un assiduo frequentatore della Bodeguita del Medio ma non un consumatore di Mojito e che la celebre frase “My Mojito in la Bodeguita, My Daiquiri in la Floridita” a lui attribuita e scritta anche sui muri del locale, sia totalmente apocrifa. IL SEX ON THE BEACH Un cocktail ormai famosissimo e diffuso ovunque ma forse uno di quelli con la storia più recente e facilmente ricostruibile. Alla fine degli anni ’70 la Vodka godette di una notevole impennata di consumi sul mercato americano e di conseguenza in questo periodo diventò un alcolico di grande interesse per i bartenders e per le loro creazioni. Molto presto iniziarono le importazioni in America di prodotti correlati come le vodke aromatizzate alla frutta e gli Schnapps e nel 1987 la National Distribution, un’azienda di distribuzione di alcolici decise di indire un concorso per la creazione di un cocktail che contenesse il suo ultimo prodotto: uno schanpp alla pesca. Il concorso cadde esattamente dopo lo Spring Break, una tradizionale settimana di vacanza concessa agli studenti dei college nei paesi di matrice anglosassone che viene generalmente spesa integralmente tra feste, divertimento e alcol ai limiti dell’esasperazione. Ted Pizio, uno dei partecipanti al concorso, aveva l’abitudine di dialogare molto con i clienti del proprio cocktail bar di Fort Lauderdale, Florida ed in particolare di chiedere a tutti i turisti per quale motivo si recassero in città. Nella settimana in cui testò la sua nuova creazione la risposta più ricorrente tra i collegiali che invadevano il locale era “Spiaggia e Sesso”. Decise cosi in un epoca ancora piuttosto pudica e perbenista, invasa da cocktail con nomi tranquillizzanti ed evocativi come “Tequila Sunrise” di chiamare il proprio “Sex on the Beach”, scelta che gli diede un’eco mediatico incredibile.
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IL WHITE RUSSIAN Il rimando quasi automatico è con l’altrettanto celebre Black Russian, un cocktail creato nel 1949 dal barman del Hotel Metropole di Bruxelles in occasione della visita dell’ambasciatore americano in Belgio. Si tratta del classico cocktail “impegnativo” da dopo pasto, a base di vodka e liquore al caffè. Il White Russian nasce invece dieci anni più tardi proprio in Russia “tagliando” il Black Russian con della crema di latte e rendendolo molto più godibile. Proprio per questo motivo divenne celebre tra i russi per il consumo diurno e mattutino in particolare al posto della più secca vodka pura, in particolar modo da parte delle donne, che per questo lo chiamano anche “piccolo caffè del mattino”. Forse lo ricorderai anche nel film Il Grande Lebowsky, dove il protagonista usava prepararlo con del latte, oppure in una celebre battuta della Cat Woman interpretata da Halle Berry, in cui chiedeva “un White Russian, ma senza Vodka, senza Kalhua e senza ghiaccio”, ovvero ordinando del semplice latte.
L’AMERICANO Chiudiamo con un cocktail che a discapito del nome racconta una storia completamente italiana e che è per altro stato la base sulla quale è stato poi inventato il famoso Negroni, quando il Conte Camillo Negroni chiese al barman del suo locale preferito a Firenze di sostituire il tradizionale Seltz con del britannico Gin, in onore dei suoi trascorsi londinesi. Per l’Americano si parla invece di una storia decisamente più vecchia e articolata, un misto tra leggende non documentate e cronaca che è difficile dissipare in certezze assolute. Sembra nasca sulla base del celebre Mi-To, un cocktail creato a metà ‘ 800 per celebrare due eccellenze delle città di Torino e di Milano, ovvero il Punt e Mès (del vermouth con china) e il Bitter. Di li a poco Gaspare Campari nel suo bar il Galleria propone la sua versione “milanese” ovvero il celebre Americano per il quale usò semplice Vermouth Rosso al posto del Punt e Mès. E qui inizia la leggenda. All’epoca il ghiaccio era un bene di lusso e di scarsa reperibilità 134
corrente. L’Americano veniva servito “on the rocks” al contrario del Mi-To che era rigorosamente “liscio”. L’appellativo “Americano” sembrerebbe fosse un modo per descrivere il modo tradizionale americano di servire i drink con ghiaccio e che fosse un modo per sottolineare la superiorità della versione milanese rispetto quella piemontese. Un’altra ricostruzione vorrebbe invece che la versione milanese restasse tale, quindi una semplice reinterpretazione del Mi-To fino agli anni ’30, quando l’appellativo “Americano” gli venne attribuito in omaggio a Primo Carnera, un pugile italiano che diventò molto celebre negli USA e che per questo veniva affettuosamente chiamato nel nostro paese “l’Americano”, appunto.
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CREATIVE STORY N° 60
Le mille storie delle Tapas
Italiani e spagnoli sono due popoli da sempre molti vicini sotto infiniti aspetti. Indolenti, sregolati ma creativi ed incredibilmente ricchi di virtù nascoste. Non per nulla in Spagna ci chiamano “hermanos”, fratelli. Come noi hanno una geografia variegata che si traduce in una suddivisione in infiniti sottogruppi regionali, ciascuno con le proprie abitudini e usanze, spesso anche una propria lingua. Tutte caratteristiche che sembrano a volte elementi di divisione più forti dell’identità nazionale stessa. Questo significa però anche un patrimonio enogastronomico enorme, che fa dell’incredibile diversità il proprio vanto e valore differenziale. Esattamente come da noi. Se però l’Italia ha nella Pasta il piatto principe attraverso il quale viene riconosciuta e celebrata all’estero, è difficile identificare un ruolo simile in un piatto spagnolo. Certo, Paella e Sangria sono famosi in tutto il mondo ma li paragonerei di più alla Pizza: un piatto incredibilmente celebre ma che è più rappresentativo di una regione, o di poche regioni ben definite. Probabilmente l’unico elemento in grado di farsi da portabandiera universale della Spagna a tavola non è un piatto vero e proprio ma un’abitudine: quella di “tapear”, ovvero di andare per Tapas. Non potrei credere che tu non sappia di cosa sto parlando: piccoli bocconcini di salumi, for137
maggi ma anche ricette vere e proprie, che è possibile degustare al bancone dei tapas bar consumando un bicchiere di vino, di birra o più recentemente, di un cocktail. Qualcosa di simile al concetto attuale di finger food e di “apericena” ma con radici molto più profonde ed in una forma nettamente più strutturata ed articolata. Che si parli di tapas vere e proprie o dei più generosi “pinchos”, la loro versione delle regioni del nord e basca in particolare, rappresentano un’usanza autenticamente spagnola che esprime tutto il loro amore per la vita semplice ma allegra e piena di condivisione. Le tapas sono state tra le altre cose anche oggetto della reinterpretazione culinaria alla base della proposta del celebre El Bulli, il ristorante 3 stelle Michelin di Ferran Adrià, che faceva proprio dell’applicazione delle tecniche di cucina molecolare sulle tapas il proprio cavallo di battaglia. Una delle cose più curiose da raccontare sulle tapas è che la storia delle loro origini è quanto di più controverso mi sia capitato di incontrare sul mio cammino di redattore di queste Creative Stories. È quasi normale che se un piatto diventa un’icona culturale, la ricostruzione delle sue origini venga quantomeno romanzata. Nel caso dei Bagel, se ti ricordi la Creative Story n.20 inserita anche nel mio libro “40 Creative Stories”, si parlava addirittura di “bugie” per descrivere come la celebrazione di molti di questi presunti episodi storici, fosse stata intenzionalmente forzata oltre misura. Però mai mi era capitato di trovare cosi tanti racconti, tutti accreditati come autentici che riconducono la storia delle tapas agli episodi più singolari vissuti da Re e cavalieri, probabilmente per rendere più nobile l’immagine di un elemento gastronomico cosi importante per la cultura spagnola. Partiamo con il precisare che la parola “taper” da cui il nome tapas deriva, significa “coprire” e che sta genericamente ad indicare l’antica abitudine dei baristi di coprire il drink con un piccolo pezzo di formaggio o una fetta di prosciutto, per proteggerlo dal vento polveroso e allo stesso tempo per invogliare il cliente al consumo di cibi sapidi, che possano portarlo ad ordinarne ancora. E proprio a questa abitudine si lega quella che è probabilmente la storia più conosciuta tra quelle raccontate sull’origine dell tapas: a Re Alfonso X il saggio a seguito di un periodo di malattia, fu prescritto dal medico di corte di bere grandi quantità di vino, usato come un ricostituente. Onde cercare di alleviare gli inevitabili effetti dell’alcol il Re avrebbe chiesto gli venissero frequentemente serviti degli stuzzichini di accompagnamento. Una volta rimessosi e aver constatato l’efficacia di questo metodo, avrebbe imposto ad ogni locanda di servire piccole porzioni di cibo insieme alle bevande ordinate, ai fini di combattere il fenomeno dell’alcolismo. Simile è la storia in cui Felipe III avrebbe emanato un editto nel tentativo di frenare la crescente ondata di criminalità e violenza, conseguente agli eccessi di alcol perpetrati dai marinai durante le loro soste nelle città portuali. La nuova legge imponeva ai ristoratoti di includere nel prezzo una piccola porzione di cibo che potesse aiutare a mitigare gli effetti dell’abuso di alcolici. Una storia alternativa, che a seconda delle singole regioni in cui viene raccontata, avrebbe come protagonista Re Alfonso XIII o Re Fernando VII, è quella in cui il Re, fermatosi ad un 138
punto di ristoro insieme a tutta la sua corte durante un lago viaggio, si vide servito sul proprio bicchiere di Jerez, un vino piuttosto dolce, una fetta di prosciutto a coprire il bicchiere, per preservarlo dai moscerini. Ne fu talmente entusiasta da ordinare ancora e ancora e da pretendere che venisse esplicitamente chiesto a tutte le locande sul suo cammino di attrezzarsi per riproporre lo stesso servizio al sovrano.
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Più popolare è la credenza che il fenomeno del tapear nasca nell’abitudine delle locande della Spagna del 19° secolo di proporre sia vitto che alloggio ai viandanti presentando al loro ingresso delle piccole porzioni di cibo rappresentative dei piatti del ristorante, in considerazione de fatto che pochissimi ristoratori e ancor meno viaggiatori sapevano leggere e scrivere a quel tempo, rendendo quindi inutile dotarsi di un menu. Secondo altre credenze, le tapas potrebbero essere nate durante il periodo dell’inquisizione spagnola come strumento per verificare l’attendibilità dei cosiddetti “conversos”, ovvero gli ebrei che per timore delle rappresaglie si dichiarano convertiti al cattolicesimo. Le tapas, principalmente prosciutto o chorizo, non compatibili con i rigidi principi kosher di produzione ed elaborazione degli alimenti, sarebbero stati proposti loro come test della verità. Ennesima versione vedrebbe le tapas come conseguenza dei locali più popolari, di non offrire posti a sedere ma di obbligare gli avventori al consumo in piedi con il cibo servito al bancone. A questi, il baristi avrebbero usato presentare il bicchiere della consumazione coperto da un piatto capovolto, che poi sarebbe servito loro per poggiare le porzioni di cibo. Tutte queste versioni sono sicuramente molto folcloristiche ma è molto più probabile che le tapas abbiano avuto un’estrazione più povera e rurale, come forma di sostentamento per i contadini durante le loro infinte ore di lavoro nei campi, i quali avrebbero cercato nell’abitudine di effettuare diversi piccoli pasti con un bicchiere di vino corposo, il modo per sopportare la fatica e arrivare alla cena serale. Bisogna in ogni caso scendere a patti con il fatto che nessuno sarà mai in grado di determinare con certezza assoluta quale di queste storie sia vera o se addirittura l’origine autentica delle tapas sia da ricercare altrove.
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Le tapas sono ormai oggi un fenomeno troppo radicato e ramificato nel tempo, profondamente strutturato in tutte le sue espressioni, dai già citati pinchos, tradizionalmente tenuti insieme da uno stuzzicadenti, i montaditos, simile a piccoli panini o sandwich, i chopitos, ovvero tutto ciò che è pastellato e fritto, i banderillas, tutto ciò che come ad esempio le olive, può essere preso con uno stuzzicihino “a bandierina” e cosi via. Città come Malaga, Granada, Madrid, Siviglia, Cordoba, San Sebastian e molte altre vengono considerate come espressioni rappresentative del “tapear” ma ciascuna con caratteristiche proprie. Non si tratta per altro nemmeno di una prerogativa limitata alla sola spagna ma sebbene le tapas rimangano un fenomeno iberico per eccellenza, moltissimi stati del mondo possono vantare fenomeni abbastanza simili. In Messico ad esempio nelle Cantinas Boteras è usanza somministrare piccoli bocconi di cibo unitamente al bere, riproposti in forma diversa ad ogni riordino. Nelle Filippine, che vale la pena ricordarlo sono state sotto il dominio spagnolo per 333 anni, un fenomeno simile alle tapas è noto come pica-pica. In Argentina e in Uruguay la picada è l’abitudine di servire piatti freddi, solitamente salumi, formaggi e olive insieme al bere. Piccoli piatti di carne differenziati per prestigio in base al locale e serviti in accompagnamento al bere, sono i cosiddetti tira-gostos. In Korea vari piccoli piatti di pesce, carne e verdure in accompagnamento al bere prendono il nome di anju e in Giappone gli Izakaya sono il corrispondente nipponico dei tapas bar. In ultimo, i cicchetti veneziani serviti nei tradizionali bacari sono quanto di piu simile a questo concetto abbiamo nel nostro paese. Riuscire a dare un ricostruzione storica su “chi abbia influenzato chi” in un fenomeno cosi esteso, popolare, non documentato e radicato, è pressoché impossibile e ci dovremo quindi rassegnare a lasciare le origini della tapas avvolte nelle loro infinite coperte di leggenda, accontentandoci semplicemente di apprezzarle per quello che sono: un gustosissimo mistero che ci ha regalato la storia gastronomica mondiale e spagnola in particolare.
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CREATIVE STORY N° 61
La bolla della carne di rana negli USA Quando pensi alla carne di rana se non la hai mai assaggiata, potresti immaginare una consistenza viscida ed un sapore forte e selvatico, concettualizzando un po’ la percezione che abbiamo tutti dei rettili e degli anfibi. La realtà è ben diversa: al contrario è estremamente delicata, leggermente aromatica, assolutamente gourmet. L’Italia è per molti tratti del nord, ricca di risaie come nel Novarese, nel Vercellese o nel Pavese o è comunque ricca a ridosso delle montagne, di laghi e corsi d’acqua e in ogni caso anche in alcune zone del sud prime delle bonifiche di mussoliniana memoria le aree paludose erano numerose. Questo per dire che noi italiani vantiamo un passato nel quale la carne di rana era decisamente più presente nella nostre abitudini alimentari, di quanto oggi ci faccia comodo ricordare. Ancora oggi nonostante le restrizioni giustamente sempre più severe volte alla tutela di questi animali, il Risotto con le Rane rappresenta un’autentica prelibatezza, oltre ad essere il piatto tipico di molti paesi vocati alla produzione del riso, rappresentando il connubio tra i due elementi poveri più facilmente reperibili di un’epoca contadina che non esiste più. Se però ti potrà risultare abbastanza comprensibile che nel nostro paese la carne di rana sia presente da sempre nella nostra gastronomia, potrebbe stupirti molto di più il sapere che gli Stati Uniti, la nazione degli hamburger, degli hot dog e del barbecue tradizionale, hanno vissuto una fase storica breve ma incredibilmente intensa nella quale il consumo di carne di rana ha avuto un autentico boom, in cui veniva ritenuta il vero cibo del futuro di moltissimi Stati. Ti sembra incredibile? Per molti versi lo è, eppure è successo. Il consumo delle rane su larga scala ha assunto improvvisamente un’importanza rilevante nell’alimentazione nazionale, restando in auge per un certo periodo e poi altrettanto velocemente scomparire o quasi. Cosa è successo esattamente? È un racconto che non può non partire dal contesto storico nel quale è nato: siamo a Detroit negli anni ’30, quelli della Grande Depressione e dell’austerity. In molti Stati del Sud le rane erano all’epoca largamente diffuse, in particolare in Louisiana, nelle paludi del Bayou e in generale lungo tutto il Mississipi River ma non rappresentavano un alimento tipico della cucina locale, quantomeno tradizionale. Nonostante questo, le famiglie non abbienti, particolarmente numerose in quelle zone erano costrette a cibarsene, rappresentando un animale facile da cacciare e largamente disponibile. È in questa particolare fase socio-culturale che Albert Broel si inserisce nella vicenda. Broel è il discendente di una famiglia di nobili decaduti dell’Est Europa che si trasferisce negli Stati Uniti armato di una laurea in medicina e di modesti ma spendibili fondi economici, due caratteristiche queste poco diffuse tra gli immigrati del periodo. Broel era un cultore delle medicina olistica, una delle cosiddette medicine alternative, era un 143
uomo intraprendente ma soprattutto se visto con occhi moderni, un marketer assolutamente all’avanguardia, caratteristica che si rivelerà determinante nel prosieguo della storia. Broel ha saputo infatti costruire nel giro di poco tempo intorno alla propria vicenda un carattere di autoreferenzialità tale da rendere difficilmente distinguibile a posteriori la realtà dalle finzione dei suoi claim commerciali. È certo che dopo essersi sposato, il suo primo business sia stato quello di aprire uno studio attraverso il quale proporre la sua visione di medicina attribuendosi a torto o a ragione, una specializzazione nelle cure alternative delle malattie del sistema nervoso ma non passò molto tempo prima che venisse estromesso dall’ordine e la sua licenza ritirata, venendo considerati i suoi metodi di vendita, assimilati alla stregua di una truffa. E qui inizia la leggenda. Secondo una delle dubbie ricostruzioni a posteriori di Broel, reclamizzate durante il lancio della sua futura attività commerciale, questi deve la sua decisione di avventurarsi nell’allevamento delle rane alla propria madre. In un racconto afferma di essersi ricordato di un consiglio che era solita ripetergli di continuo: “Albert, se vuoi avere successo nella vita, alleva le rane!”. In un altra sarebbe stato portato a questa decisione da dei problemi digestivi dell’ormai anziana progenitrice che le imponeva di mangiare carni delicate, magre e leggere. È meno dubbio il fatto che il buon Albert abbia avuto invece occhio lungo: una rana autoctona americana era la Giant Bull Frog, una specie dalle enormi dimensioni, che garantiva quindi un’elevata resa. In quella situazione economica la richiesta di carne di rana era in forte ascesa, essendo il numero di esemplari locali messa in crisi dalla caccia forsennata da parte della popolazione affamata.
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Broel non ci pensò due volte, abbandonò tutto e acquisto una fattoria in Ohio dove costruire il primo allevamento di rane della nazione. Ma non si fermò qui e anzi, mise in essere tutto quello che ci aspetteremmo oggi a quasi un secolo di distanza dal responsabile marketing di una moderna start up. Creò la American Frog Canning Company destinata a produrre ed inscatolare derivati della lavorazione delle rane, in particolare delle cosce per le quali si inventò letteralmente dal nulla una fruizione ideale del prodotto, pubblicizzandola in modo insistente. Come detto, all’epoca la carne di rana era considerata un alimento di emergenza, non esistevano vere e proprie ricette e Broel decise quindi di porre rimedio a questa mancanza inventandone a getto continuo e pubblicandole attraverso collaborazioni con ogni genere di canale media disponibile a quel tempo. In brevissimo tempo giornali e radio bombardarono gli americani con ricette gustose ad un costo ridicolo e che naturalmente avevano come base i suoi prodotti, come ad esempio la Rana à la King, il Gumbo di Rana, la Bullfrog Pie, il Bullfrog Sandwich, la Bullfrog Omelette, l’Insalata di Ananas e Rana e infinite altre. La politica di Broel si basava sull’ingaggiare cacciatori di rane da ogni dove che gli procurassero a pochi centesimi, rane che lui manteneva nel suo allevamento in attesa di poterle lavorare ed inscatolare all’arrivo degli ordini. Molto presto questa impostazione si rivelò lacunosa, essendo la crescita della richiesta di molto superiore alla capacità dei cacciatori di scovare esemplari ogni giorno meno reperibili. Dopo un tentativo di importazione di rane della stessa specie provenienti dall’Indonesia, Broel decise però di cambiare orientamento, di trasferirsi in Louisiana, un territorio decisamente più adatto allo scopo e di seguire la strada della riproduzione controllata. Si rese velocemente conto di quanto facile fosse e di come da una sola coppia di esemplari fosse possibile nel giro di poche generazioni di rana, popolare un intero stagno di medie dimensioni. Gli venne cosi un’altra idea brillante: creare un business basato sulla vendita del format degli allevamenti per rane, inducendo altre persone a creare farm che fornissero carne alla sua azienda di inscatolamento. Qualcosa del genere era già stato tentato invero nel precedente passato con l’allevamento dei conigli ma con pessimi risultati: i costi di mantenimento e un consumo di carne di coniglio che negli States non è mai esploso davvero, si sono dimostrati un limite troppo grande per poter alimentare un modello di business a cascata, facendo implodere l’idea in breve tempo. Ma qui era diverso: le rane in pratica erano autonome, con costi di mantenimento davvero bassi e la comunicazione brillante di Broel aveva avuto un impatto considerevole sulla gastronomia locale, che stava davvero lentamente cambiando la sua conformazione con un notevole maggior orientamento alla carne di rana. Ancora una volta Albert lavorò molto bene: si procurò una manciata di testimonianze (vere o finte, non si è mai capito) di persone che avevano cambiato la propria vita grazie all’avvio di una farm di rane e scrisse un libro (tutt’ora in commercio e tutt’ora uno dei pochi testi sull’argomento, ndr) sulle tecniche di riproduzione e allevamento, a suo dire elaborato sullo studio dei più recenti e avanguardisti studi giapponesi in materia. Fu inoltre altrettanto bravo nel lanciare un claim che in quel periodo cosi difficile si rivelò dirompente: con un investimento di poche centinaia di dollari, la lettura del libro e l’aiuto 145
consulenziale di Broel in forma totalmente gratuita, un allevatore ben istruito avrebbe potuto raggiungere nel giro di 13 anni lo strabiliante guadagno di 360 milioni di dollari. Inutile dire che l’iniziativa ebbe un successo clamoroso e che ebbe un eco importante su tutti i giornali, che iniziarono a parlare di “boom economico degli allevamenti di rana”.
“La rana ha infiniti predatori in natura come serpenti, uccelli, pesci, ricci perché le sue carni sono deliziose ed estremamente digeribili” diceva Albert “e una rana è in grado di produrre fino a 10.000 uova perché molte di queste sono destinate a morire per la selezione naturale. Ma se noi le proteggiamo siamo in grado di ricavare moltissima carne anche solo da un esemplare e se la gente la assaggerà non potrà che richiederne ancora e ancora”. Ma come accadrebbe in ogni buon film che si rispetti, la natura cosi come le evoluzioni sociali richiedono i propri tempi e se vengono forzate, hanno inevitabilmente un rigetto. Il passaggio da riproduttore a consulente di Broel è stato troppo repentino e ci sono state numerose conseguenze che non ebbe il tempo di rilevare e considerare. È verissimo infatti che un allevamento di rane è facile ed economico da implementare e che la riproduzione avviene con estrema facilità. È altrettanto vero però che in condizioni di grande concentrazione negli stagni, le rane si rivelano estremamente sensibili alle malattie fungine, peraltro di difficile trattamento in quel contesto ambientale. Inoltre il mantenimento era effettivamente molto economico e gestibile quasi in autosussistenza se la rotazione degli esemplari nella farm godeva della velocità alla quale era abituato Broel. Diversamente, un esemplare adulto della mastodontica Bull Frog giacente in allevamento ha una richiesta alimentare giornaliera considerevole, che su quella concentrazione territoriale non riesce più a basarsi sulle sole prede naturali, dovendo necessariamente essere integrata da costoso mangime. In assenza di questo, le Bull Frog iniziavano ad alimentarsi dei propri stessi girini, distruggendo di fatto l’intero allevamento. 146
Il primo “crack” si ha con il fallimento della Southern Industries, una grossa farm che aveva creduto nell’idea di Broel con ambiziosi progetti di crescita, messa in ginocchio dalle azioni legali dei suoi importanti investitori che non avevano visto nemmeno l’ombra dei consistenti dividendi che erano stati loro promessi. Gli stessi giornali mossi sulla questione rilevarono che a fronte di 15.000 allevamenti avviati da Broel, oltre a quella di Albert e quelle delle presunte testimonianza fornite, non si registrano altre storie di successo accertate riconducibili al business della carne di rana. Seguì la foto di un giornalista che ritraeva un cartello esposto al di fuori dell’allevamento di Albert e che recitava “si acquistano rane”, e che generò un certo comprensibile clamore. In pratica accortosi di tutte le difficoltà sopra riportate e non ricevendo di fatto quasi più alcuna fornitura dagli allevamenti, Broel fece di nascosto un passo indietro, ritornando all’acquisto della materia prima da parte dei cacciatori, piuttosto che riprodurla nella farm. Il colpo di grazia infine arrivò con la fine della recessione dovuta alla Grande Depressione che riposizionò i consumi in direzione di alimenti più tradizionali anche se leggermente più costosi, in primis il pollo e con l’emanazione alla fine degli anni ’30 da parte dello Stato della Louisiana di una legge a tutela delle Bull Frog, specie autoctona messa a rischio estinzione dalla caccia dissennata di quegli ultimi anni. A Broel non rimase che dichiarare bancarotta e la fine del proprio sogno utopico. La mancanza di un prodotto industrializzato e di una distribuzione capillare fece ritornare la carne di rana alla stregua di un ingrediente reperibile unicamente andando a caccia nella paludi con stivali e retini e facendola sparire di fatto dalla tavola dei consumatori, solo una decina di anni dopo rispetto a quando ci è arrivata in maniera cosi prepotente. È curioso segnalare come tra gli anni ’70 e ’80 ci sia stata una lieve rinascita del business degli allevamenti di rana, la cui carne è principalmente destinata alla surgelazione e alla vendita a ristoranti raffinati, solitamente di matrice europea. Le moderne tecnologie hanno consentito un maggior controllo delle condizioni di vita negli stagni ed un’industrializzazione dei processi più rigorosa e redditizia e oggi il mercato della produzione di carne di rana negli Stati Uniti vale circa 40 milioni di $. Difficile non pensare che almeno un pezzo di questo successo non debba essere riconosciuto ad Albert Broel, il cui sogno forse più che un’incompiuta utopia, era semplicemente una avanguardista visione nata nel momento sbagliato.
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CREATIVE STORY N° 62
50 piatti tipici per 50 stati
Un Road Movie che si rispetti, ambientato lungo le infinite statali che in modo apparentemente indifferente scorrono sempre uguali attraverso il “middle of nowhere” americano deve necessariamente avere nel suo copione il passaggio di fronte ad un gigantesco cartello piantato in un campo di grano dorato, che invita a visitare il più grosso gomitolo di lana del mondo. Questa è una scena abbastanza rappresentativa del modo molto americano di sapere valorizzare le proprie cose, di saper tirare fuori una mano vincente anche quando non si ha nemmeno una coppia bucata. Cosa questa scarsamente comprensibile da un popolo come il nostro troppo abituato all’agio di poter crescere in mezzo ad ogni genere di reperto, proveniente da tutte le epoche che hanno contraddistinto la storia dell’uomo in Europa ed in Italia in particolare. Ecco che allo stesso modo in ambito gastronomico molti piatti americani hanno saputo attraversare i confini nazionali e assurgere ad icona, trascendendo la propria essenza a volte tutto sommato un po’ modesta, per trasformarsi in autentico simbolo. Molti di questi poi sono cosi radicati con il territorio di appartenenza dal finire per rappresentarlo a tutti gli effetti. Il Brisket? Indubbiamente coincide con il Texas. Il Lobster Roll? Maine senza ombra di dubbio. E cosi via. Se è però vero che la cultura americana è straordinariamente efficace in questo è altrettanto vero che gli Stati dell’Unione sono ben 50: impensabile che tutti possano essere riusciti a 149
portare i propri piatti alla fama internazionale. Anzi, molti di essi a noi europei suonano del tutto sconosciuti e in alcuni casi addirittura spiazzanti. Quali sono dunque i 50 piatti tipici e più rappresentativi di ciascuno degli Stati degli USA? Scopriamolo insieme in un elenco che parte da ovest per andare ad est. 1. Washington Più che un piatto tipico bisognerebbe parlare di un ingrediente tipico: il salmone, cucinato in mille modi, di cui forse quello in planking è il più famoso. Ma invece di una scelta cosi banale ho optato per raccontarti del Razor Clam, una sorta di mega-vongola gigante che si nasconde nella sabbia della costa e che si può gustare grigliata o fritta 2. Oregon Il piatto tipico in questo caso è un dolce, la Marionberry Crisp, una sorta di crostata bassa, realizzata partendo dalle Marionberry appunto, un frutto rosso simile alle more ma dal gusto più acidulo e meno dolce. Il frutto è molto presente nello Stato e ha una maturazione concentrata prevalentemente nel mese di giugno creando in quel periodo un’autentica invasione di Marionberry Crisp ovunque nel paese. 3. California Il Golden State si sa è una strano connubio tra la cultura americana e quella messicana e ci sono molti piatti rappresentativi riconducibili al concetto di taco o di tortilla ma io ne ho scelti due che non rientrano in questa casistica. Il primo è il celebre French Dip, un panino con carne il cui pane è inzuppato nei suoi stessi succhi, di cui avevamo tra l’altro parlato anche nella Creative Story n. 32. L’altro sono i Dangeness Crab un granchio dalla polpa dolce e delicata molto diffuso lungo tutta la costa. 4. Nevada Non moltissimo da dire in questo caso tranne forse che al Nevada e a Las Vegas in particolare con i suoi locali cosi glamour, viene riconosciuta una particolare e forse per noi insospettabile relazione con alcune bistecche di manzo. Tra queste assume particolare importanza la Prime Rib e vale anche la pena ricordare che alla capitale del Nevada è dedicata la Las Vegas Strip, il nuovo taglio bovino da bistecca identificato da Tony Mata. 5. Idaho Come per il Nevada anche qui si parla di carne bovina ma cotta in maniera differente. Le Finger Steak, sono dei ritagli di scarto della divisione del filetto in medaglioni o del trimming delle ribeye, pastellati e fritti in olio e grasso d’anatra. Sempre con il manzo poi ci sono gli Idoahoan, una sorta di toast stra-formaggiosi, ripieni di polpettone e patate 6. Montana Poco turistiche forse, ma molto autentiche sono le Bison Balls, grosse polpette di carne di bisonte, più magra e saporita rispetto al manzo e molto frequenti negli allevamenti dello Stato. Come per l’Oregon, anche in Montana il dolce tipico è una crostata, questa volta una Pie di Huckleberry (ti dice nulla Huckleberry Finn?), un mirtillo scuro, particolarmente dolce e croccante, paragonato per consistenza al caco mela. 7. Utah In questo caso non moltissimo da segnalare a dire il vero, tranne dei dolcissimi Scones conditi di burro al miele e le Funeral Potatoes, in sostanza patate grattugiate miste a formaggio, panna e brodo di pollo, cotte in casseruola e coperte di cereali, ironicamente chiamate cosi per il numero di calorie di ogni porzione. Da segnalare infine che lo Utah è la capitale ame150
ricana della lavorazione artigianale del cioccolato. 8. Arizona In Arizona il cibo preferito e il più rappresentativo è indiscutibilmente il Chimichanga, in sostanza un burrito fritto la cui storia era sempre compresa nella già citata Creative Story n.32. Da menzionare anche il Piki Bread, una preparazione di origine indiana usata come pane da accompagnamento e realizzato stendendo un impasto di acqua e farina d mais che viene avvolto su se stesso e fritto per ottenere una specie di flauto. 9. Wyoming In Wyoming amano particolarmente la selvaggina e la carne di bisonte. Probabilmente il piatto più rappresentativo è l’hamburger d’alce, sul quale però c’è abbastanza poco da dire tranne naturalmente la particolare intensità del sapore. Da menzionare anche un altro frutto tipico: le Chockecherries, delle piccole ciliegie rosso vivo e dal sapore leggermente acidulo con le quali però in questo caso si usa fare marmellate e liquori. 10. Colorado Il piatto tipico del Colorado è uno di quelli che iniziano ad essere conosciuti anche al di fuori dello Stato, anche per la sua particolare natura. Sono le celebri Rocky Mountain Oysters, che però con le ostriche non hanno niente a che fare. Sono testicoli di toro tagliati a fette, pastellati e fritti. Chi li ha assaggiati sostiene abbiano un sapore simile alla carne di pollo e sono il tipico snack da bar ordinato per accompagnare una birra artigianale, altra tipicità del Colorado. 11. New Mexico L’influenza del recente passato Messicano si fa sentire eccome e qui di cose da raccontare ce ne sarebbero parecchie. Il piatto più mangiato sono certamente i Tamales ma che sono in generale messicani per tradizione. Tipici del New Mexico sono invece i Blue Corn Pancake, con farina di mais blu nell’impasto che dona un aroma più nocciolato, il Pinon Coffee, caffè ricavato da una varietà di pinolo dal sapore molto delicato, oltre alla Carne Adovada, carne di maiale marinata per 24 ore in una purea di cipolla e spezie e il Posole, una zuppa di mais precedentemente bollito in acqua e lime, cosa che lo fa esplodere in cottura donando alla zuppa una consistenza molto particolare.
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12. North Dakota Altro Stato molto interessante gastronomicamente. Il piatto più rappresentativo è certamente la Strawberry Rhubarb Pie, la classica pie americana ma ripiena di fragole e rabarbaro, combinazione che sembra risultare incredibilmente buona. Da citare però anche la Knoephia che come potete forse dedurre dalla medesima etimologia di Knodel sono dei minuscoli gnocchi serviti in una cremosa zuppa di patate, il Walleye, il pesce più diffuso e servito solitamente gratinato o fritto, la Fleishkuekle, una specie di schiacciata ripiena di carne, molto radicata nella nazione e derivante dai primi immigrati russi e tedeschi e i Cheese Buttons, gnocchi di patata ripieni di formaggio e cotti nel burro.
13. South Dakota Cosi vicino al proprio gemello del nord, altrettanto ricco gastronomicamente eppure cosi diverso. Il South Dakota è conosciuto per la carne di Fagiano, considerato il simbolo dello Stato ma ci sono da menzionare anche i Bierocks, palline di pane ripiene di macinato di manzo e cavolo e il Chislic, il corrispondente dei nostri arrosticini, fatti con carne di manzo e agnello. 14. Nebraska Non tantissimo di interessante invece in questo caso. Sono tipiche la pannocchia fritta, la Raisin pie, una classica Pie americana ripiena di uvetta e i Frenchees, cheese sandwich grigliati e poi panati e fritti. 15. Kansas Naturalmente non si può non dire “Barbecue” e “Ribs” in particolare ma volevo andare un po’ oltre. Da citare come rappresentativi della cucina dello Stato anche il Grebble, del pane fritto molto invitante dall’aspetto simile alla nostra pizza fritta ma senza condimento e il Loose 152
Meat Sandwich, un bun ripieno di una cosa simile al Bruscìt lombardo, uno stufato magro di carne macinata: aspetto non eccezionale ma sembra essere molto apprezzato. 16. Oklahoma Sicuramente il piatto più rappresentativo è il Chicken Fried Steak, un spessa bistecca di pollo pastellata, fritta e servita sommersa di Gravy Sauce. Da menzionare anche la Fried Pie, un sottilissimo velo di impasto croccante e fritto che contiene una purea di frutta e le Tater Tots, piccole crocchette di patate naturalmente fritte. 17. Texas Naturalmente è quasi superfluo menzionare il Brisket che tutti conosciamo benissimo e la cui storia avevamo raccontato nella Creative Story n.3. Sarebbe però quantomeno ingeneroso non menzionare altri piatti iconografici del Lone Star State come la Pecan Pie e i meno conosciuti Kolaches, una sorta di paninetto ripieno di frutta nella versione dolce o dei leftovers del barbecue nella versione salata. 18. Minnesota Non moltissimo di interessante. il piatto più rappresentativo è il Tater Tot Hoddish, una casseruola di Tater Tots che avevamo gia descritto sopra, condito con carne e formaggio e ripassato in forno. Da citare anche i Krumkake, sottili rotoli di wafer croccante di origine norvegese ripieni di panna. 19. Iowa Questo è un altro esempio nel quale il piatto tipico trascende i semplici confini geografici dello Stato: è il famoso Corn Dog, uno stecco con un würstel pastellato e fritto. Molto caratteristici sono però anche il Pork Tenderloin, filetto di maiale, solitamente impanato, i Puppy Chow, dei piccoli “tortelli” di cereali e burro di noccioline che sembrano però riscuotere poco successo tra i non locali e gli Scotcharoos, simili ai Butter Cookies scozzesi ma coperti di cioccolato. 20. Missouri Poco di rilevante. La città di St. Louis ha una folta comunità italiana e piatti caratteristici molto conosciuti in Missouri sono quindi rielaborazioni come i ravioli fritti, i baked mostaccioli, una sorta di pasta al forno con montagne di provolone o la St. Louis Pizza il corrispondente della pizza “Ristorante” che troviamo nei banchi surgelati dei nostri supermercati. 21. Arkansas Anche qui il fritto impera. Il piatto tipico è senza ombra di dubbio il pesce gatto fritto in una pastella a base di farina di mais, ma molto celebri sono anche l’Okra fritta e i cetrioli fritti. 22. Louisiana Non cosi nota come meriterebbe, ma la cucina cajun della Louisiana di cui abbiamo anche parlato nella Creative Story n. 26 è una delle più ricche di storia e interessanti degli Stati Uniti. Se si deve dire un nome, forse la Jambalaya è il piatto più conosciuto, ma il Gumbo, una sorta di zuppa di crostacei e okra, i Crawfish, una razza di gamberi di fiume autoctoni, il Boudin, una salsiccia con riso, gli Shrimp & Grits, simili a polenta con gamberi e molto, ma molto altro ancora. 23. Wisconsin Stato interessante, con una tradizione gastronomica ricca ma praticamente sconosciuta. Il piatto più diffuso è il pesce fritto di tutti i tipi ma molto più particolari, sono il Kringle, un dolce a forma di anello ripieno di confettura, i Cheese Curds, piccoli bocconcini di formaggio 153
fritti in pastella, la Beer Soup, una zuppa di formaggio e birra e i Paczky, una sorta di krapfen derivante dalla tradizione polacca. 24. Illinois Il piatto tipico è per noi italiani un po’ difficile da affrontare: è la Deep Dish Pizza di Chicago, alta mezza spanna e iper carica di formaggio. A questa si aggiungono però i meno conosciuti Chicago Style Hot Dog ottenuti da una salsiccia di manzo con senape, cipolle, pomodori e peperoni, il Horseshoe, un sandwich “aperto” con carne di manzo, coperta da una montagna di patatine e salsa al formaggio e i Pierogi, gnocchi ripieni di carne, bolliti e poi piastrati. 25. Mississippi Da segnalare molti piatti poveri come Riso con i Fagioli Rossi, i Biscuits, tipo dei tortini salati da mangiare con Gravy e salsicce a colazione o la celebre Banana Pudding, ma forse il piatto più caratteristico, presente solo nello Stato è la Mud Pie, fatta con cioccolato, panna, frutta secca e murshmallow. 26. Michigan Il piatto più conosciuto sono certamente i Pastry, simili ad una sorta di empanada, ripiena di carne e patate e fortemente legati al passato minerario dello Stato, risultando particolarmente comodi come pasto per i minatori. 27. Indiana Degni di nota il Pork Tenderloin Sandwich, in cui tra due fette di pane viene tradizionalmente inserita una larga bistecca di maiale (che però nulla ha a che fare con il filetto), impanata e fritta, e la Sugar Cream Pie, un dolce tipico delle feste natalizie poi sdoganato a classico per tutte le stagioni. 28. Kentucky Interessanti sono i Lamb Fries, che non hanno nulla a che fare con le patatine ma sono invece ancora una volta testicoli di agnello fritti, il Bourbon Pudding o l’ottimo Burgoo, uno stracotto ricavato dai ritagli o dalla carne di coniglio, con patate, carote o altri vegetali. 29. Tennessee Il Hot Chicken, pollo fritto in una spessa pastella piccante, è un must oltre naturalmente alle iconiche ribs memphis style ma deve essere necessariamente menzionata la Moon Pie, un dolce risalente al 1917 e fatto con biscotti e marshmallow. 30. Alabama Tolti gli stra-famosi barbecue e pollo fritto, sono caratteristici unicamente di questo stato i pomodori verdi fritti, resi non meno famosi dal noto film, e le Boiled Peanuts, ovvero noccioline bollite.
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31. Ohio Non molto da segnalare tranne forse il Cincinnati Chili, spaghetti coperti da chili e abbondante formaggio, il corned beef sandwich, un panino ripieno di una sorta di carne salada e i Buckeyes, palline snack fatte di burro di noccioline e cioccolato 32. Georgia La Georgia è lo stato delle pesche e il dolce tipico non può che essere il Peach Cobbler ma il piatto più rappresentativo è probabilmente la Brunswick Stew, uno stufato di carni, in particolar modo selvaggina, di cui avevamo parlato nella Creative Story n.45 33. Florida Ovviamente non si può non citare la Key Lime Pie, una delle pies americane più famose in assoluto. La forte influenza cubana rendono però molto caratteristico anche il Cuban Sandwich con carne di maiale e formaggio e lo Stone Crab, un granchio paragonato per delicatezza all’aragosta e servito con una salsa alla senape. Da segnalare anche la carne di alligatore, molto spesso servita fritta. 34. New York Le tradizioni dello Stato finiscono per coincidere con quelli della omonima città della Grande Mela, il principale approdo per tutti gli immigrati europei e quindi un incredibile e complicato melting pot di culture e tradizioni. Infiniti piatti tipici come il Pastrami Sandwich, l’Hot Dog o la Cheese Cake hanno fatto la storia dell’intera nazione ma se dobbiamo stare su un singolo piatto, dico Buffalo Chicken Wings, inventate nella cittadina di Buffalo, poco fuori New York. 35. Pennsylvania Famosissima ovunque è naturalmente è la Philly Cheese Steak, un panino con striscioline di manzo saltate con una valanga di formaggio, ma vale la pena menzionare anche la Shooflie Pie, una torta alla melassa e la Whoopie Pie, un dolce composto da due tortine sovrapposte che racchiudono un ripieno alla panna 36. Virginia Condivide con la Georgia la paternità della Brunswick Stew ma la Virginia è quasi sinonimo di prosciutto e il suo Country Ham affumicato è un must delle feste natalizie per tutta la nazione. Da citare anche la Cherry Pie, la torta di ciliegie 37. West Virginia Viene considerata la patria del corn bread, un panificato senza lievitazione di origine indiana a base di farina di mais e dei Morel Mushrooms, una qualità locale di funghi che in stagione vengono fritti o saltati in padella. 38. North Carolina Parlare di Pulled Pork è un po’ come discutere dell’ovvio. Meno conosciuto al di fuori dello stato è il Cheerwine, un’alternativa alla più famosa Root Beer. 39. South Carolina Anche in questo caso dire “Pulled Pork” sarebbe molto scontato. Citiamo in aggiunta il Fat Back, fette sottili di carne di maiale con lardo di schiena e cotenna, fritte e rese croccanti come patatine. 40.Maine Il piatto icona dello Stato è senza alcun dubbio il Lobster Roll, un morbido panino allungato chiamato “New England” che racchiude polpa di aragosta condita. La paternità viene condivisa con il Connecticut. La differenza tra le due versioni è che in quella del Maine l’aragosta 155
viene tritata più finemente ed il condimento è a base di maionese, sedano e cipolla. Da citare anche i Baked Beans che rispetto a quelli più famosi di Boston sono decisamente meno dolci. Impossibile non citare infine i Fiddleheads, una strana pianta autoctona, dalle estremità arricciate, che viene fatta saltare in padella come ingrediente per insalate o come contorno. 41. New Hampshire Lo Stato è famoso per la produzione di mele e infatti i suoi piatti tipici sono il sidro e la ciambelle di sidro, simili alle nostre frittelle del luna park ma a forma di donuts. Ormai la Apple Pie è un dolce nazionale ma sembra che le sue origini derivino proprio dal New Hampshire. 42. Vermont Ha tradizioni molto simili a quelle del vicino New Hampshire e considerando le piccole dimensioni di questi Stati è abbastanza normale. Da segnalare una forte influenza canadese nelle abitudini, in particolare verso lo sciroppo d’acero, che caratterizza la Maple Pie ma soprattutto lo Sugar on Snow, l’abitudine di far cadere gocce di Sciroppo sulla neve in modo che formino delle piccole catene di caramelle. 43. Massachussets La Clam Chowder, la cremosa zuppa di vongole tipica di tutto il New England di cui abbiamo anche parlato nella Creative Story n.57, sembra trovi l’apice della propria autenticità a Cape Cod. Tipico del Mussachussets anche il Fluffernuter, un sandwich con burro di noccioline ed il fluff di marshmallow e naturalmente i Baked Beans che a Boston sono ricchi di melassa e quindi molto dolci. 44. Rhode Island Il Rhode Island viene considerato un po’ il luogo nativo dei Wiener Hot Dog anche se ormai è un piatto completamente dissociato da ogni appartenenza territoriale. Più caratteristici sono gli Stuffies, in sostanza vongole gratinate preparate usando le locali ed enormi Quahogs conosciuti anche come tartufi atlantici, e le Jhonny cakes, dei pancake realizzati utilizzando farina di mais bianco nell’impasto. 45. Connecticut
Come citato in occasione del Maine la versione tradizionale di Lobster Roll del Connecticut contiene aragosta bollita e divisa a pezzettini, per poter essere poi condita con burro fuso. 156
Tipici sono anche gli Steamed Burgers, hamburger che anziché essere grigliati vengono cotti con vapore ad alte temperature, Viene anche considerata la patria dei Donuts. 46. New Jersey In New Jersey dove la storia della pizza americana è partita e dove si può ancora trovare l’originale Tomato Pie, probabilmente quanto più simile possibile al nostro concetto di pizza. Il piatto tipico è però indiscutibilmente il Pork Roll o Taylor Ham, un panino con carne di maiale piastrata, uovo e formaggio, un classico della colazione del New Jersey. 47. Delaware Tre piatti su tuti rappresentano il Delaware: il Blue Crab, un granchio locale estremamente gustoso, il Capriotti’s, un sandwich ripieno di tacchino, stuffing del Ringraziamento e cranberry sauce e le Trashers, patatine fritte condite con abbondante aceto di malto. 48. Maryland Discretamente famose anche al di fuori dello Stato le Crabcakes, polpette di granchio fritte o al forno servite con una salsa tartara molto agre. Da provare anche il softshell Crab, il corrispondente delle nostre Moeche venete, la Smith Island Cake, una torta fatta di infiniti strati di impasto coperti di cioccolato e lo Stuffed Ham, un prosciutto inciso in profondità e farcito prima di essere infornato. 49. Alaska La Salsiccia di Renna è certamente il prodotto più conosciuto, con il quale si prepara una varietà locale di Hot Dog. Da menzionare poi Iil Muktuk, uno strano piatto fatto di grasso e pelle di balena, congelati insieme e mangiati crudi 50. Hawaii Nei locali più trendy in Italia cominciamo a vedere arrivare la moda dei Poke, importata dalla California ma che è tipica delle Hawaii. La parola significa “affettare” in sostanza una combinazione di ingredienti su una base di una grossolana tartare di pesce crudo. Da provare anche il Kalhua Pig, il maialino cotto in modo tradizionale.
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CREATIVE STORY N° 63
Il Pitbeef, un sandwich di manzo in una terra di mare Risalendo la Costa Est degli Stati Uniti, dopo aver abbandonato le Carolina’s, la Virginia e Washington DC, lungo la strada che condurrà poi al Rhode Island, al Maine e ai confini con il Canada ci si imbatte in uno stato minuscolo, eppure centrale alla storia di tutta la nazione: il Maryland. Il Maryland è stato un crocevia dei primi coloni nel nuovo mondo e un baluardo americano nella Guerra di Indipendenza. Il Maryland ha dato i natali all’inno nazionale, oltre ad un folto elenco di politici, legislatori ed inventori e da sempre è sinonimo di terra di grande tolleranza e di libertà, di ispirazione per tutti gli States. In Maryland sono stati inventati la tipografia linotipo, la lampada a gas ed il frigorifero. Il tutto in un fazzoletto di terra che coincide in pratica con la Chesapeake Bay, una profonda e frastagliata insenatura che fa da estuario al Susquehanna River, il più grande fiume non navigabile del Nord America. Il susseguirsi di rientranze dell’estesa costa e i suoi contrasti tra i verde vivo della vegetazione e l’increspatura di un mare che lascia presagire le caratteristiche del successivo New England, costituisce il panorama tipico del Maryland. Il quadro viene completato da oltre 50 fiumi minori, laghi e sorgenti che legano in modo indissolubile all’acqua la vita del Maryland, il suo lavoro, le modalità di trasporto, le attività ricreative e naturalmente la sua cucina. Il simbolo indiscusso dei prodotti della baia è il famoso Blue Crab, un grande granchio autoctono dalle carni delicate e pregiate, mangiato bollito, fritto o per preparare crab cakes. Eppure… come abbiamo visto nella Creative Story n.63 sui piatti tipici di ogni Stato, la preparazione gastronomica più conosciuta del Maryland ed in particolare di Baltimora, la sua capitale incastonata nel profondo della Chesapeake Bay, è il Pitbeef Sandwich. Per i pochi che non lo dovessero conoscere, si tratta di una sorta di roast-beef ma ottenuto da un diverso taglio di manzo cotto direttamente a brace viva e quindi notevolmente più saporito, specie se accompagnato dalla tipica salsa tiger, una maionese fresca e pungente. Ebbene si, una terra che vive del sodalizio tra uomo e mare nella sua massima espressione, è famoso nel mondo per un panino con carne di manzo. Assurdo non è vero? Non poi cosi tanto in realtà, se si impara a leggerne la storia. La storia recente del Pitbeef e il suo successo nazionale ed internazionale sono associabili per intero ad un nome: Bob Creager ed il suo “Chaps Pit Beef” sebbene la preparazione abbia radici molto più antiche che risalgono fino ai pionieri. Nei mesi invernali caratterizzati dalle temperature più rigide, nei quali non era per altro possibile pescare il Blue Crab, un’abitudine consolidata era quella di improvvisare delle braci di legna dentro delle buche nel terreno sopra le quali veniva posizionata una griglia per cuocere 159
in modo molto grossolano qualsiasi taglio di manzo si riusciva a recuperare dalla macellazione. La struttura ricordava vagamente i Pit, tipici della cultura barbecue del Sud e nonostante in questo caso si trattasse di una cottura “aperta” ne ha ripreso il nome.
Il Maryland ha storicamente avuto una forte influenza da parte della cultura tedesca ed ebraica dei suoi immigrati e i grossi tagli di carne abbrustoliti venivano tagliati al coltello per farcire dei tradizionali Kaiser Roll conditi con Horseradish, il nostro ravanello. In uno Stato a forte vocazione marittima quindi, i primi pionieri erano già storicamente abituati a concepire la cottura del manzo come possibile forma di sussistenza alternativa alla pesca.
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La nascita del Pitbeef come lo conosciamo oggi però ha una recente e precisa data di nascita, risalente solo al maggio del 1984. Gus Glava il proprietario di un night club sulla Pulasky Highway di Baltimora, in occasione del matrimonio della figlia, si era messo in testa di far cambiare a tutti i costi stile di vita al proprio neo acquisito genero Bob Creager, operaio in una acciaieria. Conoscendo la sua passione per la cucina decide cosi di attrezzare un grill al di fuori del proprio locale come servizio per i clienti del night e di affidarglielo. L’idea vincente di Bob è stata quella di riprendere la tradizionale quanto grossolana cottura del Pit Beef riadattandola. La cottura avveniva direttamente sulle braci ma distanziando la griglia a sufficienza da ottenere una cauterizzazione ed un sapore intensi ma in tempi di circa 2 ore, lunghi a sufficienza da intenerire leggermente le carni. Il taglio veniva poi sezionato in parti, proseguendo separatamente la cottura fino ai diversi livelli graditi ai clienti. In quel momento ancora non lo poteva sapere ma su questo aspetto sarebbero seguiti negli anni successivi numerosi dibattiti sul fatto che questa procedura potesse essere o meno definita “barbecue”. Bob decide inoltre di creare un proprio seasoning a base di paprika, timo, sale, pepe e cipolla in polvere da lasciar agire tutta la notte sulla carne e di non grigliare indistintamente qualsiasi taglio di manzo ma di concentrarsi, sul Eye Round, il nostro girello o magatello, di forma molto regolare che ben si prestava alla sua tecnica.
Bob decide infine di scostarsi completamente dalle classiche salse americane, dolci, acetate e a base di pomodoro rivolgendosi ancora una volta alla tradizione: a partire dalla fine degli anni ’60 a Baltimora stava diventando sempre più popolare una salsa creata da Martin Tulkoff, figlio di un produttore kosher di crema di horseradish, unendo 161
il prodotto storico di famiglia con della maionese. Martin per individuare un nome che ne descrivesse il carattere decise di lasciarsi ispirare dal simbolo del corpo militare anticarro durante di cui fece parte durante la sua militanza nell’esercito nella seconda guerra mondiale: una tigre che mordeva un carro armato tedesco. Nasce cosi la Tiger Sauce che Bob Creager decise immediatamente di inserire nel proprio Sandwich insieme al Pit Beef affettato finemente e a degli anelli di cipolla cruda. Il successo è tale da richiamare visitatori da tutto il Maryland e l’attività si converte in fretta in un ristorante vero e proprio. Era nato uno stile che sarebbe stato ribattezzato Baltimore BBQ, presto replicato dal principale concorrente del Chaps Pit Beef, il Pioneer Pit Beef e poi da molti altri, tanto da trasformare la Pulasky Highway da zona industriale infarcita di strip bar e sexy shop a via della ristorazione ed in particolare del Pit Beef, un piccolo angolo di inspiegabile tradizione carnivora al centro di una terra circondata dal mare.
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CREATIVE STORY N° 64
Il Pulled Pork, storia di uno sconosciuto di successo Chi non dovesse essere particolarmente addentro le logiche e la tradizione del Barbecue Americano in purezza, ovvero quello tipico del Sud degli Stati Uniti e fatto di cotture lente dentro a mastodontici e fumanti Pit, deve sapere che nel mondo Barbecue assurge a mito la cosiddetta “Holy Trinity”, la triade dei grandi classici di questa ancestrale forma di cucina: il Brisket, le Ribs e il Pulled Pork. La Holy Trinity è anche il veicolo più sfruttato per diffondere la cultura barbecue al di fuori degli US e anche l’Italia da questo punto di vista non ha fatto eccezione. È innegabile però che ogni nazione abbia il proprio profilo gustativo che più si adatta all’una o all’altra preparazione. Nel nostro paese quella che ha incontrato con più facilità il palato degli italiani è indiscutibilmente il Pulled Pork, ancor più delle dolci e glassate Ribs pur essendo concettualmente vicine alle nostre “costine”. Oggi a poco più di un decennio dalle prime menzioni agli eventi pubblici dedicati, si può trovare il Pulled Pork praticamente ovunque: dalle sagre popolari ai pub e perfino nei Supermercati e nei Discount nella versione precotta. Agli occhi di un appassionato è però innegabile che come sempre avviene nella diffusione di massa di un prodotto, ciò che ci arriva è la sua espressione più commerciale, quella meno autentica, un po’ come quando avevamo parlato nella Creative Story n.51 della nascita del Sushi e della forma edulcorata in cui invece questa antica espressione gastronomica giapponese si sia diffusa attraverso gli All You Can Eat di tutto il mondo. La Holy Trinity è appunto un assemblaggio di piatti, comodo a livello comunicativo ma che raggruppa identità geografiche americane molto diverse. Se io ad esempio penso al Brisket l’associazione quasi automatica è con lo stato del Texas. Se invece penso al Pulled Pork ci si sposta obbligatoriamente verso la costa est, ed il particolare verso il Nord e Sud Carolina, vera terra di elezione della cottura lenta del maiale in tutte le sue declinazioni locali e con la piccola città di Lexington a fare da capitale specifica. L’espressione “Pulled Pork” significa letteralmente “maiale tirato” a rappresentare ideologicamente il gesto di sfilacciarne agevolmente la carne una volta che questa ha raggiunto il punto di collasso della struttura collaginea dopo lunghe ore di cottura e affumicatura. E qui viene un po’ la stranezza: nelle Carolina’s l’espressione “Pulled Pork” non esiste, o meglio è il sintomo inequivocabile che il ristorante che la espone a menù si rivolge ai turisti. In quella zona il maiale è semplicemente sinonimo di “Barbecue” e quindi con questo termine si intende in automatico il maiale intenerito dal fumo e dalle lunghe cotture, che poi può essere servito indifferentemente sfilacciato o “choppato” a pezzettoni. In alcune zone specifiche coincide addirittura con il concetto di Whole Hog, ovvero quello di un maiale cotto e servito intero. Ma oltre a questo non esistono altre accezioni legate al nome. Per capirne la ragioni come al solito, occorre attraversare a ritroso la storia risalendo fino alla scoperta del nuovo continente ad opera di Cristoforo Colombo. A quell’epoca il maiale 165
per come lo conosciamo oggi nella sua versione domestica, non esisteva in America mentre era piuttosto comune portare qualche suino a bordo durante le esplorazioni navale in quanto costituiva un’eccellente riserva di cibo a fronte di richieste in termini nutritivi e di allevamento, davvero molto modeste. Le cronache dicono che Colombo al suo arrivo a Cuba portò con se 8 maiali che naturalmente incontrano immediatamente quelle che abbiamo visto diverse volte essere le radici culturali alla base dell’odierno barbecue: la cottura ad opera degli indigeni locali di grandi tagli di carne affiancati da un fuoco dentro a delle buche chiuse da frasche di legno, in modo da soffocare la combustione limitando la temperatura. Da questo incontro nasce la tradizione cubana della cottura del maialetto, del Lechon Asado, del Cuban Sandwich e successivamente del Cajon Chino creato da immigrati cubani in Florida che tentavano di replicare la cottura tradizionale del loro paese, usando un grill ripreso dalla onnipresente comunità cinese.
Una piccola curiosità: a questo stesso evento si deve l’origine del termine “bucaniere”: secondo la lingua in uso presso la tribù indigena Arawak presente nei Caraibi ai tempi di Colombo, il graticcio di legno sul quale veniva poggiata la carne prima di essere posizionata nella buca, prendeva il nome di “Bukan” (e la tecnica specifica “Baa’ Bukan”, da cui deriva poi l’etimologia della parola “barbecue” come abbiamo visto nella Creative Story n.28). I francesi alcuni decenni più tardi iniziarono a chiamare “buccanier” le persone dedite all’uccisone e all’affu166
micatura del maiale, figure che poi divennero frequenti sulle navi in perenne navigazione, che potevano permettersi solo brevi soste a terra e senza disponibilità di forme di cucina più evolute, come nel caso dei pirati appunto. Il Contributo più rilevante per la nostra storia lo ebbe però successivamente l’esploratore Hernando De Soto, che nel suo viaggio culminato con l’approdo nella baia di Tampa in Florida, portò con se 13 maiali. Conoscendo la grande capacità di adattamento dei suini e la loro proverbiale tendenza alla riproduzione, De Soto lasciò liberi gli animali in modo che potessero costituire una facile e pronta fonte di cibo per i futuri coloni. I maiali superarono abbondantemente ogni sua rosea aspettativa in questo senso e si stima che nei soli tre anni successivi, prima della sua dipartita a causa della malaria, il numero di esemplari fosse esploso all’incredibile quota di 700 capi, tanto da espandersi a nord lungo la costa. Se è vero che i maiali domestici non erano autoctoni degli States lo stesso non si può dire per i cinghiali che non ci misero molto ad incrociarsi con gli esemplari europei dando luogo ad una nuova razza, quella che ancora oggi viene chiamata Razorback o Feral Pig, meticci dalla pelle scura, stazza massiccia e comportamento decisamente aggressivo.
La celebre arteria stradale newyorkese di Wall Street prende il nome dal muro che anticamente venne eretto dagli olandesi a protezione del loro territorio. Pochi sanno però che uno dei principali motivi per cui venne creato, era proteggere le coltivazioni ed i possedimenti dei coloni dalle frequenti e pericolose aggressioni ad opera dei Feral Pigs selvatici, molto più frequenti di quelle dei nativi americani. Altra tradizione risalente a questo periodo è l’obbligo agli allevatori di mettere anelli al naso ai maiali domestici al fine di legarli ad una catena rendendo doloroso il tentativo di liberarsi per obbedire all’istinto di unirsi ai suini selvatici. 167
Nel territorio delle attuali Carolina’s i suini trovarono il proprio habitat ideale creando grandi colonie di esemplari facilmente cacciabili dai coloni, che per ammorbidirne le tenaci carni selvatiche adottavano la tecnica del Baa’Bukan insegnatagli dagli indiani, che l’avevano a loro volta appresa dai loro antenati Arawak, comuni agli abitanti dei Caraibi. Un po’ come avveniva anche nella tradizione rurale italiana, l’uccisione del maiale era una festa popolare da condividere, e segnava abitualmente alcune stagioni dell’anno o feste religiose. Ecco che nelle Carolina’s il Barbecue a base di carne di maiale divenne sinonimo di ritrovo e lo sfondo immancabile di matrimoni, comizi elettorali e celebrazioni di qualunque tipo, quale unica espressione possibile di quel tipo di cucina. Ma quindi da dove deriva l’espressione “Pulled Pork” se nelle Carolina’s, patri della cottura barbecue del maiale, non si usa? Tutto inizia con l’espansione verso Ovest. Anche in quel caso le massicce migrazioni dei coloni venivano accompagnate dalla importante presenza di capi suini al seguito. Si stima che negli anni della colonizzazione massiccia, un numero compreso tra i 40.000 e i 70.000 maiali partissero ogni anno dalla costa est verso le coste del Pacifico. In aggiunta agli esemplari vivi era molto frequente portare con se durante il viaggio, i tagli più poveri dalla macellazione conservatii sotto sale dentro a delle botti, per consentirne una più agevole movimentazione e conservazione, e che prendevano cosi il nome di “Barreled Pigs”. A meta dell’800 la popolazione suina del paese aveva ormai raggiunto una certa stabilità tanto da far nascere numerosi macelli locali per la lavorazione del maiale. Tra questi il più famoso era certamente Cincinnati, ribattezzata per questo “porkopolis” ma con il passare del tempo ed il miglioramento dei trasporti attraverso le ferrovie, delle condizioni igieniche e delle tecnologie di lavorazione, la tendenza fu sempre più quella di far lavorare e distribuire la carne direttamente dagli hub principali del paese: New York per la carne bovina e Boston per quella suina. In particolare a Boston si stava facendo sempre più strada verso la fine del secolo, un nuovo e molto più rapido approccio al sezionamento suino, effettuato a freddo e che lavorava su punti di taglio diversi, alla base della nascita in alcuni casi di tagli nuovi. La ricerca di nuove metodologie di lavorazione, che spesso acquisivano il nome geografico della zona in cui nascevano, era per altro una cosa molto diffusa all’epoca. Nello stesso periodo sono nati la New York Strip e le St. Louis Ribs e sempre sul maiale, il cosiddetto New Orleans Cut, un taglio che comprendeva collo e ribs non disossate, ma che non ha poi avuto successo commerciale, finendo così per sparire. Come hai già capito, è qui che nasce il cosiddetto Boston Butt, un particolare sezionamento che comprende una porzione di spalla e una di collo disossati. Ora, devi sapere che a seguito della guerra di indipendenza dall’Inghilterra, gli Stati Uniti mantennero le vecchie misure di volume in uso nelle colonie britanniche, non adeguandosi al “Nuovo Gallone” imposto dalla madre patria. I barili trasportati sulle navi continuarono a venire cosi suddivisi per dimensione in Tun, Pipe, Puncheon, Hogshead, Tierce e Rundlet. Il Pipe, quello più diffuso e ricorrente, veniva però chiamato dai lavoratori del porto in modo gergale “Butt”, una parola di estrazione popolare che aveva la stessa radice etimologica latina del nostro “Botte”. Il Butt era anche il contenitore più usato dai macellai di Boston per fare il Barreled Pig con i 168
tagli più poveri, tra cui il “Boston Cut” che prese presto il nomignolo di Boston Butt. Forse hai letto la Creative Story n.21 in cui ti raccontavo di come Kansas City sia diventata dal nulla la capitale del Barbecue pur non essendo propriamente una città del sud. Lo stile barbecue di Kansas City, era conosciuto come il “cross road”, ovvero il crocevia di tutti gli stili, una sorta di “fusion” tra le tradizioni dei vari stati, riadattate. Molto di quella storia si deve a Henry Perry, il capostipite dei pitmasters moderni, che non ha fatto altro che fare di necessità virtù, mettendo nello smoker “la qualunque” per ricavarne preparazioni classiche o che quantomeno gli assomigliavano. Per ciò che riguarda il Pork la scelta più logica era utilizzare il nuovo taglio di scarto conservato in botte e chiamato Boston Butt, estremamente economico e sempre disponibile. Per quanto possa sembrarti incredibile, il suffisso “pulled” è arrivato invece solo molti anni dopo e non ve ne è traccia documentata su alcun menu o pubblicazione prima del 1970. Nonostante la storia davvero molto recente non esiste una traccia certa della sua origine. Probabilmente la più convincente è l’abitudine dei migliori clienti di chiedere che gli venisse servita solo la parte più nobile, quella più chiara, centrale e succosa che veniva asportata attraverso un forchetta “tirandola” appunto rispetto al resto del corpo e che per questo veniva chiamata “Pulled White”. Il Pulled Pork è quindi per come lo conosciamo, un piatto dalla storia molto recente ed enfatizzato commercialmente fino ad acquisire tutta la sua fama ma che quasi nulla ha a che fare con il piatto tradizionale che si può degustare in un tranquillo, sobrio e per nulla modaiolo, joint di Lexington.
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CREATIVE STORY N° 65
La storia in comune tra bricchette e automobile Oggi nessuno assocerebbe mai il mondo dei combustibili barbecue a quello dell’auto. Si tratta di consumatori, volumi e tendenze poco conciliabili, se non addirittura agli antipodi tra loro. L’automobile nasce ad inizio secolo come mezzo in grado di svincolare i trasporti dall’utilizzo di energia animale, uno strumento simbolo di efficacia e di efficienza, oggi uno dei mercati più ricchi di informativa nei confronti del consumatore. Il barbecue amatoriale nasce invece solo negli anni ’50 con l’invenzione del grill con coperchio e rappresentazione estrema della hobbistica outdoor, del tempo libero e in generale uno degli ambiti più ricchi in assoluto di luoghi comuni e falsi miti. Niente di più divergente quindi. Eppure, c’è stata una precisa fase storica nella quale auto e barbecue hanno avuto un trascorso comune e anche di una certa importanza per lo sviluppo di entrambi. In particolare mi riferisco al mondo del combustibile e ancor più nello specifico, a quello delle bricchette di carbone, per quanto questo oggi ci possa apparire incredibile. Nel nostro paese associamo prevalentemente il prodotto alla nota marca produttrice di dispositivi di cottura Weber, che non più tardi di una ventina di anni fa, lo ha fatto conoscere agli italiani attraverso i sacchetti di bricchette a proprio marchio. Sebbene in Italia non venga ancora importata però, la marca di bricchette più venduta al mondo è di gran lunga la celebre Kingsford, leader indiscussa negli Stati Uniti con il 59% delle vendite nel settore. Si tratta per altro del marchio che ha inventato questa particolare tipologia di combustibile. La storia è abbastanza curiosa. Conoscerai certamente il celebre Henry Ford, l’iconico proprietario e fondatore dell’azienda automobilistica Ford Motor Company, tuttora esistente: La Ford infatti, non solo è una delle case automobilistiche più importanti del pianeta ma ha indubbiamente contribuito in maniera determinante allo sviluppo del mercato dell’auto negli Stati Uniti e poi all diffusione dell’automobile in tutto il mondo, trasformandolo da prodotto di élite per clienti benestanti o altolocati, a mezzo di trasporto per il ceto medio. Il momento determinante di questa evoluzione è stato il lancio alla fine negli anni ‘10 del secolo scorso, del suo celebre Modello T, un’auto proposta ad un prezzo molto accessibile per gli standard del periodo grazie all’introduzione di nuovi processi produttivi, tra i quali è doveroso menzionare la catena di montaggio. Ford fu in grado di vendere oltre un milione di esemplari nel solo 1919 e nell’anno successivo, oltre metà delle auto vendute negli Stati Uniti erano un Ford Modello T. Per darti un’idea dell’impatto del fenomeno sull’economia dell’epoca, questa politica strategica di estensione al mercato di massa di prodotti in precedenza economicamente esclusivi, attraverso la rivisitazione del processo produttivo in termini di efficacia ed efficienza, viene riconosciuto da li in poi con il nome di “fordismo”. 171
Allora le auto erano ancora realizzate con il pianale interamente in legno e a fronte dell’esplosione commerciale del Modello T, Ford si trovò a necessitare di una enorme quantità di materia prima in tempi brevissimi. Chiese cosi aiuto per il legno, al proprio primo cugino e quasi omonimo Edward kingsford, un immobiliarista e broker del legname del Michigan. La richiesta era oggettivamente ai limiti dell’impossibile, soprattutto con la velocità pretesa da Ford. Contrariamente a qualunque previsione però, Kingsford fu in grado di fornirgli il volume di legno richiesto, di elevata qualità ed in tempi strettissimi. Successe però che un elemento fino a quel momento trascurabile come lo scarto di lavorazione del legno, trasposto su quei volumi si rese improvvisamente evidente. Pur con tutta la sua lungimiranza, Ford era un’imprenditore vecchio stampo: in ottemperanza alla mentalità del tempo, estremamente volta al recupero delle risorse e coerentemente con il fiuto per gli affari per il quale era giustamente famoso, si scervellò su come poterli riutilizzare. L’idea giusta venne da una tecnica inventata pochi anni prima da Orin Stafford, un chimico della Università dell’Oregon che riuscì a realizzare delle pillole di carbone partendo dalla combustione in ambiente controllato di polvere di legna unita ad amido di mais. Folgorato dalla prospettiva di poter fare la stessa cosa ma in misura più grande partendo dai propri scarti di legno, Ford decise di creare a questo scopo la Ford Charcoal Company e chiese a Kingsford di supervisionare per lui le operazioni di sviluppo commerciale del progetto. Ford era una persona che sapeva pensare in grande e che non aveva paura di investire nel talento e nelle nuove prospettive. Una interessante curiosità legata a questa fase, è il fatto che Ford fece appositamente studiare e realizzare per la propria linea di produzione, un impianto di produzione all’avanguardia per quei tempi, commissionandolo nientemeno che a Thomas Edison. L’idea di Ford era quella di produrre una forma di combustibile moderna, più pulita rispetto a quella destinata al riscaldamento e quindi proprio per questo, pensata per la cottura del cibo ed in particolare della carne, che all’epoca era chiaramente ancora realizzata su brace viva. Inizialmente la commercializzazione delle bricchette venne quindi rivolta alla ristorazione, che però nonostante il buon riscontro non fu in grado per volumi di assorbirne completamente l’enorme produzione. Ford ebbe allora l’ennesima illuminazione della sua carriera, pensando di sfruttare le bricchette come opportunità per sviluppare il mercato di entrambe le sue aziende attraverso quella che oggi definiremmo un’attività di co-marketing. Decise di utilizzare le bricchette come veicolo per incentivare l’acquisto e l’utilizzo delle automobili, un po’ come aveva fatto l’azienda di pneumatici francese Michelin, quando creò l’omonima guida e classificazione dei ristoranti del territorio, per spingere le persone a viaggiare di più per provarli. Creò quindi degli ingegnosi “Pic Nic Kit” completi di bricchette di carbone, accenditore e un piccolo grill, da vendere abbinati alle proprie auto per promuoverne un utilizzo ludico, volto alle gite fuori porta e non più solo come mero mezzo di trasporto. Questa invenzione generò un vero e proprio fenomeno di costume, specie tra le classi meno abbienti delineando una nuova forma di cottura che poi portò George Stephen un paio di decenni più tardi alle evoluzioni alla base della nascita del kettle. Con l’avvento del dopoguerra però e dopo gli enormi successi del Modello B e Modello A, successori del Modello T, a 172
seguito dell’aumento del costo della benzina la Ford Company affrontò la prima contrazione di vendite della sua storia. Il nipote Henry Ford II, succeduto da qualche anno al defunto fondatore, optò per un’opera di profonda ristrutturazione e ottimizzazione aziendale categoricamente rifiutata dal nonno in passato e che prevedeva di concentrare le risorse verso la sola attività primaria. Giusto un anno prima dell’invenzione del kettle quindi, nel 1951 la Ford Charcoal venne ceduta ad un gruppo di investimento che decise di rinominarla Kingsford Charcoal in onore di chi fu un grado di fornire a Ford la materia prima ed il supporto per il lancio del prodotto. Da questo punto in avanti, le strade dell’automobile e del barbecue tornano a dividersi seguendo percorsi totalmente opposti ma rimane il fatto che se Ford non avesse deciso di rendere l’auto un bene di disponibilità popolare, il barbecue amatoriale come lo conosciamo oggi probabilmente non esisterebbe.
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CREATIVE STORY N° 66
Il fil rouge tra Italia e Mac’n’Cheese
Il piatto dei Mac’n’Cheese, i famosi maccheroncini con il formaggio filante, considerati ed utilizzati in America come un side dish, ovvero un contorno frequentemente servito in abbinamento ai piatti barbecue, sono un american classic di chiara derivazione italiana ma che vive un paradosso nel fatto che noi italiani non lo riconosciamo assolutamente come nostro. La leggenda più gettonata in America sulla loro storia vorrebbe che addirittura Thomas Jefferson, il famoso Presidente degli Stati Uniti, di ritorno da un viaggio in Europa alla fine del 1700, fosse stato talmente colpito da un piatto a base di spaghetti e formaggio, da portarlo a richiedere la costruzione in patria di una macchina produttrice di pasta per riuscire a riprodurlo. All’epoca la condivisione di informazioni e la velocità delle comunicazioni non erano nemmeno paragonabili a quelle odierne e il compito richiesto da Jefferson si basò su i soli semplici appunti da lui riportati su un quaderno. I formati più facilmente realizzabili da mani inesperte furono naturalmente quelli a pasta corta e in particolare i maccheroncini che ne hanno poi caratterizzato la storia. Successe a quel punto che una cugina di Jefferson, Mary Rundolph che stava per pubblicare il suo libro di cucina “The Virginia Housewife”, considerato uno dei più rilevanti del suo secolo, rimase anch’essa colpita dal piatto e lo introdusse tra le ricette. Ma fu solo mezzo secolo più tardi, negli anni della grande depressione che i Mac’n’Cheese divennero davvero popolari, quando la Kraft decise di produrli in scatola come piatto pronto a cuocere, rispondendo di fatto alle esigenze di una popolazione resa sempre più povera dalla Grande Depressione, attraverso un piatto decisamente economico ma molto calorico e nutriente. Fin qui tutto bene: si tratta di una storia molto lineare e che celebra la grandezza imprenditoriale degli Stati Uniti, contribuendo a dare storia ad un paese che di storia ne ha pochissima. Non fosse per il fatto che… da noi un piatto come i Mac’n’Cheese, che sia anche fatto con gli spaghetti, non esiste. Poco probabile quindi sia stato l’oggetto del desiderio di Jefferson quando richiese la costruzione di una macchina produttrice di pasta. Allora da dove nasce davvero? Al netto delle leggende folcloristiche, sembrerebbe che in realtà il piatto sia arrivato negli Stati Uniti in modo molto più capillare attraverso gli immigrati inglesi e che sia stato solo successivamente sdoganato e reso più popolare dalla storia di cui sopra (comunque vera, almeno in buona parte) che invece ebbe l’indubbio merito di rendere universale per questa preparazione il formato del Maccheroni, certamente più comodo da gestire. Ma come poteva un piatto di pasta essere popolare in Inghilterra? Il motivo è da ricercarsi in un libro medioevale italiano chiamato “liber de coquina” del XIII secolo che aveva lo scopo di catalogare le espressioni culinarie italiane e nel quale era pre175
sente un piatto chiamato “de lasanis”, antesignano delle odierne lasagne, realizzato creando diversi strati di piccoli fogli quadrati di pasta larghi pochi centimetri, alternati a formaggio stagionato grattugiato. Naturalmente il riferimento assoluto ai giorni nostri in questo senso, è il Parmigiano Reggiano nelle Lasagne alla Bolognese ma sembra che la stessa matrice interessi ad esempio anche i Pizzoccheri Valtellinesi realizzati con il Bitto cosi come altri piatti regionali italiani. La ricetta venne ripresa un secolo dopo dal libro francese “Form of Cury”, che ebbe un ampio respiro internazionale, dove però al posto della pasta stesa fresca si indicava l’uso di piccoli fili di pasta secca rinvenuta in acqua calda, probabilmente simili ai nostri Capelli d’Angelo attuali, ribattezzati in quell’occasione “Makerouns”. Residui storici di questa diffusione si hanno ancora oggi nel Alplelmagronen svizzero nel quale vengono aggiunte delle patate o nello Shells and Cheese, fatto con il formato delle Conchiglie o ancora nel Macaroni Pie scozzese in cui il piatto viene infornato.
La presenza di una ricetta di questo tipo nel libro è dovuta al perfezionamento in quel periodo della tecnica di essiccazione della pasta fresca in forni a legna che l’ha resa trasportabile dall’Italia, consentendole di poter essere facilmente esportata in tutta Europa e che è alla 176
base storica del suo successo al di fuori nei nostri confini. Si hanno tracce di immediata replica del piatto anche in Inghilterra ma la diffusione vera si ha ancora una volta con la pubblicazione di un libro che ne riprendeva la ricetta, il “The Experienced English Housekeeper” del 1769. Pochi anni prima in Inghilterra venne pubblicato con grande successo il primo esempio di enciclopedia venduta porta a porta, che dava ampio risalto tra le tante voci “alternative” usate come materiale integrativo per differenziarsi dalle altre pubblicazioni, all’arte del pastaio e alle sue tecniche, inteso allora come produttore di soli Spaghetti. Il libro di cucina introdusse cosi la variante dei noodles (spaghetti) misti ad una besciamella molto liquida realizzata a base di Cheddar e che rappresenta probabilmente la versione più simile al concetto di Mac’n’Cheese di oggi. Il nome “Macaroni” (italianizzazione di “Makerouns”), dove con il termine si arrivati ad intendere in realtà qualsiasi formato di pasta secca, era diventato un vero e proprio fenomeno di costume. Il nome “Macaroni” venne utilizzato anche per identificare una moda Dandy molto in voga all’epoca nelle classi abbienti dei “nuovi ricchi” nati con la Rivoluzione Industriale, che voleva l’utilizzo di abiti eccentrici, oltre che un modo pacchiano e sopra le righe di parlare e di atteggiarsi. Nacquero addirittura dei “Macaroni Club” e la parola venne usata nella celebre ballata “Yankee Doodle” nel cui testo si diceva che il protagonista “ha attaccato una piuma al suo cappello chiamandola Macaroni”. È solo in questo secolo il termine ha assunto un’accezione davvero negativa, diventando un sinonimo dei nostri “tamarro” o “coatto” e diventando un appellativo associato agli eccessi kitsch nel vestiario e negli atteggiamenti degli immigrati italiani. È stato però proprio quello il periodo storico in cui Jefferson prese contatto con il fenomeno rimanendone affascinato. Un’ultima curiosità è legata alla diffusione del piatto nel mondo. È molto famosa la versione americana ma pochi sanno che in Canada il Mac’n’Cheese è un piatto ancora più popolare. Le più raffinate abitudini francesi hanno modificato la ricetta importata dagli immigrati inglesi, avvolgendoli in una crosta di pasta sfoglia e aggiungendo uovo e senape. Il Walrus, considerato un po’ il Times del Canada, l’ha addirittura recentemente consacrato come il vero piatto nazionale canadese, soppiantando il Poutine.
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La radice delle gare “Man vs Food” Quasi certamente avrai visto almeno una puntata del celebre programma televisivo Man vs. Food, in onda dal 2008 anche in Italia sui canali DMax e Food Network. Come il nome suggerisce, lo scopo del programma e di portare il conduttore Adam Richman a viaggiare lungo gli Stati Uniti per affrontare le sfide mangerecce proposte da innumerevoli ristoranti, seguendo un format ormai consolidato nella ristorazione popolare a stelle e strisce. Il concept è bene o male sempre lo stesso: per promuovere una propria specialità, il ristorante propone al proprio cliente una sfida basata sul riuscire ad ingurgitarne una versione Extra-Large entro un determinato tempo. In caso di successo il cliente avrà mangiato gratis ricevendo solitamente un gadget-trofeo del locale e vedendo il proprio nome iscritto in una speciale wall of fame commemorativa su una delle pareti. Se invece non ci riesce, semplicemente paga il conto ma si sarà divertito. Oggi questo tipo di gare “promozionali” hanno assunto varie declinazioni, tra le quali la più celebre è forse quella relativa al piccante, come le Buffalo Chicken Wings condite con piccantezza progressivamente crescente, le salse o addirittura direttamente il peperoncino in purezza. Questo appare abbastanza normale in una nazione dalla cultura marketing e promozionale nettamente più evoluta e radicata rispetto alla nostra. Un po’ meno scontato è realizzare come le sfide ai mangiatori di cibo non siamo l’ultima trovata dell’agenzia di comunicazione di una multinazionale, poi diffusa e copiata in tutta la nazione, ma un qualcosa che ha radici molto più profonde. Le gare dei mangiatori sportivi alla Man Vs Food hanno infatti compiuto più di 100 anni di storia e le origini sono veramente curiose. In America sono un vero e proprio fenomeno di costume partendo dagli eventi più popolari di inizio secolo. Ce ne sono di tutti i tipi. Le più antiche e ufficialmente conosciute sono la gara di mangiatori di torte risalente al 1916 o quella dei mangiatori di spaghetti del 1919 ma quella che viene considerata l’olimpiade del genere è la gara di mangiatori di Hot Dog che come detto, può vantare più un secolo di storia. Ci troviamo nel 1860 a Coney Island vicino a New York, già considerata ai tempi una meta turistica importante e molto affollata, soprattutto durante la stagione estiva. In quegli anni l’immigrato tedesco Charles Feltman aprì a Coney Island un chiosco per la vendita di torte. Nel 1867 nemmeno un anno dopo l’apertura, decise però per differenziarsi dalla molta concorrenza presente, estendendo la propria gamma ai Frankfurter, gli antesignani degli attuali hot dog, da lui cosi amati quando era in Germania. Feltman non fu l’inventore degli Hot Dog, come ti avevo raccontato nella terza storia bonus di 40 Creative Stories Vol.1, ma quelli erano i primi anni in cui li si vedeva negli Stati Uniti e in breve tempo ottennero un successo per molte ragioni simile a quello maturato dagli hamburger: si trattava di un cibo gustoso, economico e comodo da essere mangiato in piedi e che in breve tempo divenne quindi molto popolare. 179
Ancora oggi sebbene mostri in maniera evidente il duro colpo subito dalla Grande Depressione senza riuscire mai a riassorbirlo davvero del tutto, presentandosi come un grande luna park in decadenza, Coney Island è tutt’ora sinonimo di hot dog nella cultura popolare. Tra le vie colorate, le spiagge e l’immancabile ruota panoramica, sono nate anche interpretazioni caratteristiche come la versione in cui si copre il Frankfurter con una salsa di carne e senape, fratello maggiore del forse più famoso Chili Dog e conosciuta per questo come Coney Island Style Hot Dog. Con le sue vendite, Feltman seppe crearsi negli anni un impero di 9 ristoranti, due bar, una birreria, una sala da ballo, un hotel, un cinema, un teatro e una montagna russa. Nel 1915 però due suoi dipendenti decisero di licenziarsi e di avviare una propria attività replicando integralmente il concept ed aprendo a poca distanza dalla sua sede, sulla direttrice principale. Fu cosi che nacque Nathan’s, tutt’ora esistente e probabilmente ad oggi l’insegna simbolo del Hot Dog a Coney Island.
Da subito dichiararono guerra commerciale spietata al loro celebre ex datore di lavoro, vendendo hot dog alla metà del prezzo e avviando una serie di curiose e stravaganti iniziative promozionali create in maniera provocatoria per far parlare di se attraverso quelle che oggi chiameremmo PR. Tra le tante, vale la pena ricordare l’aver regalato un hot dog a tutti i dipendenti del vicino Coney Island Hospital creando una grande massa di clienti vestiti in divisa bianca cangiante diretta verso il loro chiosco che nel mezzo del flusso di folla creò una curiosità incredibile. Ma come avrai già capito, la vera svolta per Nathan’s è stata quella di organizzare a questo scopo una gara nel giorno dell’Indipendenza per chi fosse riuscito a mangiare più hot dog in dieci minuti. 180
La gara esiste ancora oggi e nella sua semplicità, il format è rimasto praticamente lo stesso raggiungendo negli anni una fama planetaria, con tanto di diretta da parte della ESPN e picchi di ascolto di 2 milioni di telespettatori. Esistono metodi per l’allenamento e vere e proprie strategie di gara, come il “Dunking” ossia il mangiare il Frankfurter separato dal bun che viene imbevuto d’acqua e strizzato per occupare meno spazio nello stomaco o il “Carlene Pop” che prevede di saltellare continuamente durante tutta la prova al fine di facilitare il cammino del hot dog lungo il tubo digerente. Il record attuale appartiene a Joey Chestnut, per altro detentore anche del maggior numero di edizioni vinte, che nel limite dei 10 minuti è riuscito ad ingurgitare l’impressionante numero di 76 hot dog. Leggenda vuole che il primo vincitore della storia sia stato tale Jim Mullin, un muratore di Brooklyn che primeggiò mangiando “soli” dieci hot dog in dieci minuti. Intervistato a fine gara sembra abbia detto che volendo, sarebbe riuscito a mangiarne anche di più se quegli hot dog non fossero stati tanto stopposi… Una “gaffe” storica che a giudicare dal successo di Nathan’s negli anni a venire, va a confermare il buon vecchio detto “basta che se ne parli”.
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Eggnog e Vov: storia a ritroso dello zabaione Indipendentemente dalla provenienza geografica o dal ceto sociale, c’è un ricordo che con ogni probabilità accomuna ciascuno di noi: quello della nonna o della donna di casa adibita alla cura dei bambini, che sbatte un tuorlo d’uovo con dello zucchero, aggiungendo un goccio di caffè o di brandy, creando una cremosa bomba calorica, utile nei giorni di malattia o di estrema stanchezza. Si tratta per altro di un ricordo che non accomuna solo noi italiani ma praticamente tutto il mondo. Sebbene in forma leggermente diversa, miscele di tuorlo d’uovo e componente alcolica sono presenti ad esempio in Messico con il “Rompope” o in Portorico con il “Coquito” e in molti altri paesi molto distanti dal nostro. In se si tratta di una ricetta molto semplice, basata su pochi e facilmente reperibili ingredienti ed è quindi comprensibile possa essere nata in modo spontaneo in vari punti di un pur cosi vasto territorio. Nonostante questo, ci sono elementi troppo concordati per non pensare ad una radice comune. Tra questi certamente il suo ruolo di “ricostituente” nelle situazioni debilitanti oppure il fatto di riscaldarlo per utilizzarlo come corroborante contro il freddo, un po’ come avviene con il “Bombardino” nelle nostre stazioni sciistiche. Proprio la sua semplicità e la sua matrice “contadina” da cui deriva una diffusione principalmente per via orale, sono l’ostacolo maggiore ad una ricostruzione storica attendibile. Quello che però certamente si può fare è ripercorrere a ritroso le principali branche esistenti, scremandole delle rispettive leggende popolari e falsi storici che inevitabilmente arricchiscono il passato dei prodotti di estrazione cosi povera. La principale per dimensioni tra queste macro direttrici è certamente quella dell’Eggnog riconducibile a tutti i paesi di tradizione anglofona, non fosse altro per la gigantesca estensione coloniale raggiunta dall’impero britannico nel passato. La sua composizione classica prevede un liquore di solito particolarmente alcolico, in rapporto di uno a quattro con latte, caramello e naturalmente uovo sbattuto. La prima leggenda popolare vorrebbe ricondurre la sua nascita ad un singolo episodio, avvenuto nel 1700 quando il famoso e creativo barista londinese Carl Joannessons, famoso per i suoi innumerevoli esperimenti legati all’arte della mixology, creò per la prima volta l’eggnog. In realtà si tratta di un fraintendimento molto comune legato alle ricostruzioni storiche più approssimative. Joannessons creò infatti il Brandy Egg Nog, un cocktail a base brandy, solo ispirato agli ingredienti dell’eggnog (quindi all’epoca già esistente) ma che usava solo albume e che è tuttora un cocktail ufficiale I.B.A.. Molti storici culinari sono invece propensi a ricondurre un filo diretto tra l’attuale Eggnog e il Posset, una miscela di latte, uova, fichi e sherry, usato dai monaci nel XIII secolo come tonico di buona salute. Da notare come un ingrediente come lo sherry fosse piuttosto caro 183
all’epoca e accessibile solo dai ceti più abbienti, come appunto il clero. Un esame etimologico del nome “Eggnog” però lo riconduce quasi certamente alla congiunzione dei due termini “noggin’”, un’espressione popolare che indica una tazza di legno e “grog”, una birra scura molto forte ed alcolica. Il che tradisce probabilmente origini più popolari ed il fatto che la sostituzione con i più raffinati e costosi superalcolici sia avvenuta solo in seguito, conseguentemente ad un tentativo di nobilitazione della ricetta. Spostandoci nei nostri confini invece, il concetto di “liquore all’uovo” si traduce in un solo nome: il Vov. La sua invenzione risale al 1845 ad opera di Gian Battista Pezziol, un produttore di torroni come risposta all’esigenza di recupero dei tuorli, scartati del processo di lavorazione. “Vov” è infatti la contrazione del veneto “vovi”, che indicava appunto le uova. La genialità dell’idea di Pezziol fu in seguito premiata dalla commessa da parte delle forze armate durante la Seconda Guerra Mondiale del suo liquore all’uovo come ricostituente per le truppe al fronte, con la sola condizione di riconvertirne provvisoriamente il nome nel più marziale V.A.V. (Vino Alimento Vigoroso). A questo segui la moda a partire dagli anni ’70 e ’80 di servirlo caldo con la panna montata sulle piste da sci. Tutti elementi che hanno dato al prodotto una notevole longevità di quasi due secoli, legandolo in maniera indissolubile alla cultura popolare.
Il Vov non è stata però di per se una novità assoluta, ispirandosi alla ben più popolare e datata ricetta dello zabaglione. Ci sono infatti riferimenti storici certi che ne fanno risalire le origini in forma pressoché invariata, fino alla metà del 400 D.C. in almeno due codici manoscritti. Numerose sono le leggende legate alle origini del nome “zabaglione”, da quella che lo vorrebbe bevanda preferita del capitano di ventura Giovanni Paolo Baglioni, in forma dialettale “Zuan Bajon” a quella che la vorrebbe bevanda dedicata al francescano San Pasquale Baylòn, patrono dei cuochi e dei pasticceri. La realtà storica le smentisce però facilmente entrambe, essendo i più antichi riferimenti scritti allo zabaglione precedenti alla nascita di 184
entrambe queste figure. Storicamente molto è più probabile invece che la matrice sia legata alla preparazione moderatamente alcolica a base di uovo e birra chiamata Sabaia e citata dallo storico Ammiano Marcellino nel IV secolo, la cui etimologia a sua volta sembra derivare dal longobardo “Zaba”, ovvero “pasto rituale”. Ora, i Longobardi erano un popolo di origine germanica, la cui filosofia sul territorio natio era sempre stata quella di stringere alleanze con le popolazioni vicine piuttosto che disperdere le forze in sanguinose guerre fratricide. Altri popoli germanici contemporanei e simili per filosofia, erano i Sassoni e gli Angli. Ma se mentre i Longobardi si erano mossi in direzione di un’espansione verso sud, gli Angli e i Sassoni lo avevano fatto verso nord spartendosi i territori dell’attuale Inghilterra del sud ovest, e dalla cui coabitazione nasce il termine “anglosassoni”. È quindi estremamente probabile che rispettando le proprie origini teutoniche, la “Zaba” rituale fosse una preparazione a base di uova e birra, condivisa anche con gli Angli e i Sassoni, cosa che potrebbe aver dato origine, grazie anche alla facilità di realizzazione e all’accessibilità degli ingredienti, alla diffusione culturale alla base della nascita dei due ceppi descritti, quello dello zabaglione e quello dell’eggnog.
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Cibo, etichetta e buoi dei paesi tuoi Chi non ha mai sentito il detto “donne e buoi dei paesi tuoi”? Sta a significare in sostanza che le donne e gli affari dovrebbero rimanere all’interno dei propri confini, e in senso più concreto all’interno della cerchia delle persone che si conosce. Oggi in un’epoca ogni giorno più aperta alle esperienze multietniche di ogni tipo, appare come una posizione un po’ anacronistica ma in senso allargato nasconde una propria verità, in particolare in relazione al cibo. Un elemento cosi radicato nella vita quotidiana dell’uomo come l’alimentazione infatti, non può non essere strettamente legata agli usi, alle abitudini e alle consuetudini del luogo dove questa viene consumata. L’esempio maggiormente agli onori delle cronache in questi anni è forse quello del confronto con la cultura nipponica a fronte di una recente passione del nostro paese per il sushi, il wagyu e in generale per il sol levante. In Giappone alcuni comportamenti a tavola, alcuni modi di mangiare o semplicemente anche solo alcuni cibi per noi normalissimi, sarebbero visti come molto strani o addirittura in alcuni casi, offensivi. Solo a titolo esemplificativo l’abitudine considerata come imprescindibile dal nostro galateo di iniziare a servire a tavola partendo dalle donne, in Giappone viene considerato un affronto verso il capostipite maschile della famiglia, del più alto in grado nelle cene di lavoro o semplicemente dall’uomo più anziano tra quelli seduti a tavola, che deve obbligatoriamente essere omaggiato del primo piatto o del primo bicchiere come forma di rispetto. Ma senza andare troppo lontano, che espressione facciamo noi italiani quando vediamo uno straniero chiedere un cappuccino a fine del pasto o pretendere che primo e secondo vengano uniti in un piatto unico o ancora di poter mettere il formaggio grattugiato sopra una pasta con il pesce? Tutto è relativo e niente è scritto quando si tratta di consuetudini a tavola: bisogna viverle. Ecco che da un rapido giro del mondo è possibile individuare un’infinità di comportamenti simili decisamente meno conosciuti ed in alcuni casi al limite del paradossale che è divertente conoscere. Quando da piccoli si avanzavano le verdure nel piatto, cosa ci diceva la mamma? “Pensa ai bambini poveri!”. Il che significava “vedi di pulire bene il piatto che se no mi arrabbio”. Sempre rimanendo in oriente ma spostandosi in Cina, si ragiona esattamente al contrario. Pulire perfettamente il piatto significa dare da intendere al padrone di casa, che le sue porzioni non erano adeguate e che non si preso sufficiente cura del proprio ospite. È quindi buona educazione avanzare sempre una porzione di cibo del piatto come forma di rispetto verso chi offre il pasto. In India invece viene considerata fuori luogo la nostra abitudine di ringraziare costantemente quando si viene serviti del piatto o nel momento in cui ci viene versato del vino nel 187
bicchiere. Nella cultura indiana questo tipo di comportamenti attengono ad un rapporto marcatamente formale, nel quale ci si sforza di mantenere un atteggiamento ossequioso, nella maggior parte dei casi forzato. Applicarlo in un ambiente domestico o fra amici vorrebbe lasciar intendere che non si ha particolare piacere nell’essere li in quel momento. Tornando più vicino a noi, nelle vecchia Europa, il nostro “cin-cin!” con tanto di celebrazione del gesto facendo tintinnare i bicchieri l’uno contro l’altro, assume in Ungheria un significato politico che sottintende disprezzo, quindi altamente offensivo, specie tra la popolazione più anziana. Il significato rimanda ad una rivolta ungherese contro l’impero austriaco del 1848, soppressa con il sangue non senza una certa fatica. Una volta raggiunto lo scopo, gli austriaci con sprezzo e soddisfazione decisero di irridere i superstiti della sommossa ormai arresi, brindare loro davanti con dei calici di birra. Noi in Italia leghiamo molto dei nostri rituali giornalieri al caffè ma mai come in Giordania. Lì il caffè è al centro di qualunque confronto sociale e di qualunque trattativa: i matrimoni, le guerre, gli affari, le controversie… Il caffè è il preludio a qualunque incontro, nel quale esiste un codice comportamentale non scritto ma ugualmente molto importante. All’inizio viene servita una piccola tazza a ciascuna delle parti per assicurarsi che sia adatto ad essere servito. Poi inizia il servizio, sempre da destra verso sinistra con il limite massimo per ciascuno di tre tazze: una per l’anima, una per la spada e una per il diritto di cui si sta discutendo. Ciascun ospite si può fermare in qualunque momento semplicemente scuotendo ripetutamente la tazza ma è bene berne almeno una tazza. Rifiutare verrebbe considerato altamente scortese. Ciò che in Giordania è il caffè, in Russia è la Vodka. Tutti sanno infatti quanto questa carat188
terizzi la vita quotidiana dei suoi abitanti, che ne bevono ad intervalli regolari molte volte durante la giornata, partendo fin dalla prima colazione. Allo stesso modo esiste quindi un codice comportamentale in riferimento alla vodka che non dovrebbe mai essere infranto, basato su alcune semplici ma rigide regole: mai ospitare qualcuno senza offrirne almeno un bicchiere, mai rifiutarlo al tuo arrivo e alla tua partenza, non aprire una bottiglia se non hai intenzione di finirla, non rifiutare mai il cibo offerto in accompagnamento alla vodka e non mischiarla mai con altro. In Italia esiste l’espressione “pagare alla romana” ad indicare l’abitudine di dividere il conto della tavolata in modo tale che ciascun commensale paghi la propria parte effettivamente consumata. In moltissimi paesi dal Messico al Guatemala, dalla Scozia alla Thailandia, dalla Colombia all’Egitto è invece un’usanza che verrebbe considerata abbastanza strana mentre è molto più frequente che ci sia una persona tenuta a pagare per tutti, che può essere chi ha fatto l’invito o la persona più anziana presente o ancora gli sposi più recenti. Al contrario in Libano è usanza offrisi di pagare per tutti, considerando un disonore accettare di essere nelle spese di qualcun altro. Ma l’usanza più strana si ha in Australia dove è costume presumere che il conto debba essere pagato dal più ricco della tavolata. Tornando alla Cina, quando si serve il pesce questo deve essere mangiato senza mai voltarlo sull’altro lato. Sembra che il significato di questa abitudine risieda nel rimando all’immagine della barca dei pescatori rovesciata dal mare in burrasca e che evitarlo sia quindi di buon auspicio. E con il ritorno in Cina abbiamo completato il nostro giro del mondo sulle tavole, a dimostrazione del fatto che mangiare non è mai solo nutrirsi ma un’immersione nella cultura del padrone di casa.
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Il manifesto del Banana Bread Il Banana Bread non è forse il dolce per il quale gli Stati Uniti sono più famosi dalle nostre parti, soppiantato facilmente dalle Cheese Cake, dai Donuts e persino da dolci molto settoriali come la Red Velvet. Eppure nessuno di questi è in grado di compararne in patria il grado di diffusione trasversale da stato a stato. Il Banana Bread negli States è un po’ il il “dolce della nonna”, quello di umili origini ma che sa sempre farsi apprezzare come comfort food povero per eccellenza. Molto più delle Apple Pie ad esempio, ed il Banana Bread ha addirittura una propria giornata nazionale dedicata, che si tiene il 23 febbraio di ogni anno. Per dare l‘idea di quello che sto dicendo, il Banana Bread è stato per gli Americani durante la pandemia del 2019, ciò che il pane fatto in casa è stato per noi italiani. Google stima come durante il lockdown le ricerche relative alla ricetta del Banana Bread siano cresciute del 54%. A discapito del suo nome, si tratta di una torta vera e propria e come spesso abbiamo visto nelle Creative Stories, la sua storia viene ammantata a posteriori di una sorta di misticismo, mirato a probabilmente a nobilitarne le origini, quantomeno a livello di ideali. Una ricostruzione storica alquanto fumosa e non documentata, vorrebbe il Banana Bread quale ingegnosa soluzione degli americani alle gravi difficoltà passate durante il periodo della Grande Depressione. In particolare sarebbe l’invenzione delle casalinghe come forma di recupero delle banane stramature, diventate in quel periodo un bene di lusso, sfruttando un agente lievitante di recente introduzione, anch’esso economico e facilmente conservabile, perfettamente in linea con le esigenze di austerity di quel periodo: il Baking Powder. Per quanto incerta però, questa è la versione ufficiale e ufficiosa allo stesso tempo, che qualunque Americano ti riporterà con orgoglio se gli chiedi del Banana Bread. In realtà, le casalinghe americane non hanno inventato un bel niente ed il Baking Powder ha visto i propri natali diversi decenni prima della Grande Depressione. Il che rende immediatamente evidente l’apocrifia che caratterizza più o meno consapevolmente, questa edificante storiella. Partiamo da una opportuna premessa: il Banana Bread, non è un “banana Cake” per un motivo ben preciso. La banana è un frutto tropicale molto diffuso nei vicini Caraibi e nel Sud America ed è quindi normale che fosse ben conosciuto negli Stati Uniti da un arco di tempo molto lungo. Esistono documentazioni certe che attestano la disponibilità di banane sul mercato americano fin dal 1870. Il problema era che si trattava di un frutto altamente deperibile, che doveva necessariamente affrontare lunghi viaggi in nave per poter essere consumato e che era quindi un prodotto costoso destinato ad una clientela abbiente. Già all’epoca veniva pertanto proposto come surrogato la farina di banana, ottenuta dalla disidratazione e polverizzazione delle banane verdi, un prodotto tutt’oggi molto comune e popolare nell’area caraibica. Ricette di Banana Bread sono per altro presenti in diversi stati 191
equatoriali ed asiatici come ad esempio le Filippine, colonia americana dal 1905 e principale fonte di importazione di banane negli USA per oltre mezzo secolo. È quindi praticamente certo che il Banana Bread fosse presente e conosciuto negli States già dalla fine del XIX secolo. Ovviamente il sapore della banana verde aveva poco del frutto maturo ed anzi era decisamente poco o per nulla dolce. Si trattava davvero di un “pane” alla banana, nel quale non erano affatto presenti zucchero, burro e uova della ricetta attuale. Le cose cambiarono decisamente, facendo finire un po’ la farina di banana nel dimenticatoio, quando la United Fruit Company, che successivamente diventò l’attuale Chiquita, riuscì per prima ad organizzare un servizio di trasporto refrigerato delle banane dal luogo di origine alla destinazione. La banana rimaneva comunque un frutto mangiato singolarmente o al più, utilizzato sulle torte come guarnizione, un po’ come accade da noi per le fragole. Spostiamoci invece per un momento all’altro ingrediente imprescindibile di un perfetto Banana Bread: il Baking Powder, un agente lievitante di natura chimica, studiato per la sostituzione del lievito naturale, considerato troppo delicato per i trasferimenti negli immensi spazi degli Stati Uniti, specie nelle condizioni dell’epoca pionieristica e di cui ti avevo già accennato nella Creative Story n.43, parlando della storia del Pane negli USA. Come ti spiegavo in quel frangente, il trasporto e l’utilizzo del lievito avveniva a quei tempi con un concetto abbastanza simile a quello che noi oggi conosciamo come “lievito madre”. Il tutto senza sistemi refrigeranti e durante lunghi viaggi su polverosi carri, attraverso i deserti americani. Il problema di sostituire questo sistema di panificazione con qualcosa di altrettanto efficace ma meno delicato era quindi molto sentito praticamente da sempre, nel Nuovo Mondo. L’antesignano di questi sistemi alternativi era anticamente il Pearlash, un misto di liscivia, cenere e ammoniaca che però aveva i “piccoli” difetti di avere un odore terribile ma soprattutto di essere caustico. Molti traducono Baking Powder con “bicarbonato di sodio” ma è errato. Il Bicarbonato per poter produrre anidride carbonica che forzi l’impasto alla lievitazione, ha bisogno del contatto con un agente acido. I primi panettieri ad usarlo come soluzione, sceglievano volutamente latte inacidito come ingrediente proprio a questo scopo ma si trattava in ogni caso di un agente troppo blando. La successiva evoluzione del 1840 ad opera del chimico inglese Alfred Bird, portò all’utilizzo insieme al bicarbonato del Cremor Tartaro, una sottoprodotto acido della vinificazione che veniva però realizzato principalmente in Europa e la cui importazione risultava troppo costosa per gli americani. È però nel 1856 che si ebbe la rivoluzione: il giovane chimico Eben Norton Horsford riuscì ad estrarre dalle ossa animali Fosfato Monocalcico quale agente acidificante, che reagiva immediatamente al contatto con un liquido e che aveva come vantaggio di poter convivere inerte insieme al bicarbonato, se miscelato con Amido di Mais in grado di assorbire l’eventuale umidità in eccesso: nasceva la Baking Powder ed in particolare il Rumford, marchio tutt’ora esistente che Horsford decise di usare per il prodotto, dandogli il nome del ricco sovvenzionatore che ne finanziava le ricerche. 192
Alla Rumford si affiancò a breve un’altra azienda tutt’ora presente sul mercato delle Baking Powder, la Royal che invece preferiva la soluzione del Cremor Tartaro al posto del Fosfato Monocalcico ma trattando il prodotto nella medesima maniera, unendolo a Bicarbonato e Amido di Mais. Tra le due e le altre concorrenti nate di li a poco, seguirono anni di guerre commerciali spregiudicate e senza esclusione di colpi, in alcuni casi quasi certamente sfociate nell’illecito, ma ne riserviamo eventualmente il racconto ad un’altra futura Creative Story. La Baking Powder è però rimasta un prodotto professionale per panettieri e pasticceri per diversi decenni, poco conosciuto dal grande pubblico fino appunto alla Grande depressione. All’epoca tutti i libri di cucina esistenti e diffusi tra le massaie riportavano il vecchio metodo di lievitazione che partiva dal lievito o tutt’al più dal bicarbonato unito ad ingredienti acidi. Le due grandi aziende concorrenti decisero quindi di cogliere lo spunto della crisi economica per lanciare una massiccia pubblicazione di libri di cucina “moderni” che spiegavano come realizzare dolci economici partendo ovviamente dalla Baking Powder, unendosi all’esempio dato dell’azienda di farine Pillsbury con il suo “Balanced Recipes” del 1993 al cui interno ça vans sans dire, ci fu il primo Banana Bread in versione 2.0, partendo dal frutto come forma di recupero delle banane mature, la cui idea era ancora incline però più ad un pane che ad un dolce. Tutti riconducono a questa fase l’esplosione popolare del Banana Bread ma non è storicamente esatto. La partenza non fu però affatto così entusiasta come la leggenda vorrebbe. La si potrebbe invece definire eufemisticamente tiepida, almeno fino al 1950 anno in cui la Chiquita pubblicò anch’essa un proprio libro di ricette chiamato Banana’s Recipes Book, contenente il banana bread comprensivo però dei ricchi ingredienti di un dolce, resi nuovamente di comune reperibilità dalla ripresa economica, è decretando così ufficialmente la nascita del banana bread per come lo conosciamo oggi Come spesso abbiamo visto nelle creative stories sui piatti americani, il banana bread è quindi un dolce dalla storia molto recente, un po romanzata e nata principalmente per motivi commerciali ma allo stesso tempo un’istituzione intramontabile della storia a stelle e strisce che ha saputo assurgere a mito, come fosse esistito da sempre.
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CREATIVE STORY N° 71
Il cibo Indiano non esiste È possibile tu abbia già visto un film del 2014 che si intitola “Amore, Cucina e Curry”. Non capirò mai fino in fondo come possa venire permesso che un titolo originale come “The Hundred Foot Journey” venga trasfigurato in modo tanto ridicolo. Resta il fatto che il film in se, pur non essendo un capolavoro è carino e piacevole. La storia parla di un un giovane cuoco indiano che si trasferisce in Francia al seguito della sua famiglia, che decide di aprire in un piccolo paesino un ristorante indiano di fronte ad uno storico stellato francese, di proprietà di un’austera quanto raffinata signora. Dopo gli screzi iniziali nasce tra i due una simpatia che porterà il ragazzo prima lavorare per lei e poi ad iniziare da solo la strada che lo porterà a diventare uno degli chef più celebrati al mondo. L’austera signora non conosceva nulla della cucina indiana ma ha imparato presto ad accorgersi di quanto il giovane cuoco avesse una varietà di gusti e una capacità di interpretazione dei sapori nel proprio DNA, davvero sorprendenti, soprattutto se paragonate alle stantie consuetudini della cucina tradizionale francese.
Ogni volta che rivedo quel film non posso fare a meno di pensare quanto tutto questo rifletta molto della cucina indiana o quantomeno delle percezione che ne abbiamo noi in occidente. La cucina indiana è letteralmente millenaria, con radici antichissime che fondono le influenze di infinite culture. È una cucina ricchissima di spezie, ingredienti ed interpretazioni che va infinitamente più in la del pur buonissimo curry. È per giunta una cucina geograficamente molto diversificata, che propone svariati stili nei quali il “piccante” è solo una delle possibilità. 195
La cucina indiana è indiscutibilmente una delle più interessanti del panorama mondiale e non per nulla la preferita e una di quelle più rappresentate, in Inghilterra della quale a lungo l’India è stata colonia. Nonostante questo, tu cosa conosci davvero della cucina indiana? I nomi Masala Dosa, Kasmiri Aloo Dum, Chole Bhature, Meetha Paan, Kati Rool, Chaas o Daulat Ki Chaat, ti dicono nulla? Eppure sono alcuni dei piatti più rappresentativi e tradizionali della cucina indiana (oltre che essere uno spettacolo per gli occhi e per il palato). Vuoi che ti dica io invece quali sono i piatti che certamente conosci? Il Pollo Tandori, il Chciken Tikka Masala e il Samosa. Mi sbaglio? La verità della la quale allora devi prendere coscienza il prima possibile è che il cibo indiano che conosci… non esiste! O meglio, esiste e magari è anche buono. Ma è principalmente un feticcio per turisti nel mondo. Se hai letto la Creative Story n.29, ricorderai come una cosa simile sia successa anche alla cucina italiana ad opera degli italoamericani di seconda e terza generazione, che hanno reso famosissimi piatti come “Fettuccini Alfredo”, magari nati si in Italia ma molto lontani dal potersi definire davvero rappresentativi della nostra cucina. Il Tandori ad esempio, è un tradizionale forno in terracotta in alcuni casi interrato, in altri fuori terra, dalla grande inerzia termica e dalla particolare trasmissione di calore al cibo, il quale cuoce lentamente con una grande intensità naturale di sapore. Un principio che per alcuni versi può essere assimilabile nel mondo barbecue alle cotture su Kamado. Tandori è il metodo di cottura e non la ricetta. Nel Tandori si può cuocere praticamente qualsiasi cosa e il pollo è solo una delle infinite possibilità. Addirittura il Tandori viene utilizzato anche per la cottura del famoso pane naan a diretto contatto delle pareti in un immagine che avrai certamente visto diverse volte. Il Tandori però è uno strumento largamente diffuso e popolare un po’ in tutta l’Asia centro-meridionale e addirittura con ritrovamenti in siti archeologici egiziani e mesopotamici. In sé è vero che molto probabilmente la nascita del Tandori sia identificabile nell’area subcontinentale indiana 7000 anni fa, ma nell’epoca moderna non si può dire sia altrettanto rappresentativo di quella cultura o di quella regione ed oggi certamente lo è certamente di più di quella pakistana o dell’Afghanistan ad esempio. In particolare, a Delhi l’utilizzo del Tandori risulta praticamente sconosciuto fino al 1947, anno del grande esodo in India della popolazione Punjabi a seguito della guerra indo-pakistana. È un po’ come se a Roma avessero scoperto l’altro ieri la pasta alla Carbonara per la quale l’Italia è conosciuta in tutto il mondo… Discorso piuttosto simile si potrebbe fare per i Samosa. Si tratta di piccoli portafogli di pasta avvolti intorno ad un ripieno, diverso a seconda delle ricette e poi fritto, tradizionalmente servito in abbinamento ad un chutney. Anche in questo caso le origini sono antichissime, risalenti alla penisola arabica del periodo medievale dove prendeva il nome di Samusaj, trasformatosi poi nell’odierno Sambusak. I Samosa quindi sono molto frequenti in India ma un po’ come in tutta l’Asia e la zona indo-pacifica. Sotto lo stesso nome o attraverso appellativi diversi, sono infatti presenti anche in Bangladesh, in Nepal, in Pakistan, in Iran, in Indonesia e persino in Etiopia, in Israele, in 196
Sud Africa e alle Maldive. Una valutazione oggettiva quindi è che il Samosa è certamente presente in India ma nella nostra visione è altamente rappresentativo di questo stato solo perché in Italia ristoranti delle altre nazioni citate sono praticamente inesistenti. Ancora più curioso poi è il piatto che nella cultura occidentale è sinonimo di India per eccellenza: il Chicken Tikka Masala, piccoli bocconcini di pollo stufati in una saporita ed avvolgente salsa a base di pomodoro, panna e curry. In realtà il Chicken Tina Masala in India non esiste e ci è arrivato solo recentemente per assimilazione. Esiste un piatto chiamato Chicken Tikka (tikka = cubetti) ma pur avendolo ispirato in maniera evidente, presenta caratteristiche completamente diverse ad eccezione del partire da dello spezzatino di pollo come ingrediente principale. Il Chicken Tikka Masala (Masala = misto di spezie) nasce invece incredibilmente a Glasgow in Scozia in un ristorante bengalese per mano di un cuoco di origini indiane, uno dei tanti immigrati presenti nel Regno Unito a seguito dell’epoca coloniale. Oggi la ricetta, pur presentando infinite varianti, è famosa e apprezzata in tutto il mondo e l’India non ha potuto far altro che prenderne atto e farla propria, importandola. Naturalmente il Regno Unito è la prima nazione al mondo per consumi, tanto che l’ex ministro degli esteri Robin Cook lo ha dichiaratamente investito del ruolo di “vero piatto nazionale britannico”, che il deputato inglese di origine pakistane Mohammad Sarwar ha avviato le pratiche per il riconoscimento del Chicken Tikka Masala come prodotto IGP proprio della città di Glasgow e che il Burger King inglese ha introdotto nel proprio menu un apprezzatissimo Masala Burger. La cucina indiana quindi è davvero straordinaria, intrigante e diversificata e merita di essere scoperta e valorizzata in modo approfondito ma non attraverso i cliché commerciali e turistici attraverso i quali viene comunicata nei paesi del mondo occidentale.
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CREATIVE STORY N° 72
I peggiori dispetti nei Fast Food La nostra generazione sta vivendo un’epoca storica unica nel suo genere, con caratteristiche mai verificatesi in precedenza da quando esiste l’uomo. In particolare ciò che la contraddistingue è il tasso di evoluzione sociale e tecnologico, che ha raggiunto livelli impensabili in precedenza, creando un gap culturale tra noi e i nostri figli infinitamente più grande rispetto a quello che noi abbiamo avuto con i nostri genitori, che a sua volta era più grande di quello avuto da loro nei confronti del nostri nonni e cosi via. Probabilmente la cosa che è cambiata di più è il fattore “tempo”: tutto è diventato velocissimo, a tratti frenetico e la naturale maturazione delle cose è improvvisamente diventata un lusso che la società attuale non può più permettersi. Proprio su questo presupposto a partire dagli anni ’50 in America sono nati i Fast Food, che hanno poi acquisito un posto sempre più rilevante nella alimentazione mondiale con il successivo trascorrere dei decenni, specchio fedele di un cambiamento sociale tutt’ora in atto. Il contro, è che l’epoca della trattoria, di cui i nostri nonni conoscevano i proprietari fin da bambini e nella quale tutto si sapeva di tutti, è morta e sepolta. Oggi il servizio è ipercontrollato a livello sanitario ma freddo ed impersonale, svolto per te da un addetto di cui non sai nulla e che potrebbe essere diverso il giorno dopo, senza che questo rappresenti affatto un problema. Purché lo faccia in modo rapido. Una politica dei salari sempre più attenta ai costi ha poi fatto il resto, spostando verso quell’occupazione le fasce meno qualificate delle popolazione. Ad eccezione del lavoretto momentaneo degli studenti quindi, mediamente non certo un esercito di geni. Completa il quadro una contemporanea evoluzione tecnologica che rende tutto ciò che facciamo costantemente “videoregistrabile” ed “instagrammabile”. Metti tutto insieme e ti renderai conto della situazione potenzialmente esplosiva che si nasconde dietro il divisorio del drive del tuo fast food preferito. Ti sei mai chiesto cosa può succedere se al bancone c’è uno psicopatico o magari più semplicemente un ragazzino idiota in vena di scherzi? Puoi mettere la mano sul fuoco su ciò che è successo al tuo panino prima che venisse incartato ed infilato nel sacchetto del tuo take away? l’America in particolare, che vanta da questo punto di vista una storicità particolarmente rilevante, ha collezionato una serie di episodi che attraverso la vitalità della rete, ha reso clamorosi alcuni atteggiamenti discutibili del personale dei fast food durante lo svolgimento del loro lavoro. Ti racconto i più controversi. A Baltimora nel 2015 ad esempio, una dipendente del Checkers, una delle tante catene americane di fast food esistenti, ha pensato bene di mostrare al mondo attraverso un video “intelligentemente” postato su YouTube, la sua abitudine di pulire il pavimento della postazione dove 199
stava lavorando con il bun del hamburger che stava per servire, prima di condirlo con il resto degli ingredienti. Con la crescita delle visualizzazioni del video, l’azienda ha ritenuto opportuno rilasciare una dichiarazione in cui informava che i dipendenti in questione erano stati licenziati ma ormai il danno di immagine era fatto, causa di un calo di fatturato sostanziale per mesi.
Ancora peggio è andata alla catena di pizza a domicilio Domino’s, in una filiale del North Carolina, i cui dipendenti hanno mostrato in un video il loro “trattamento speciale” riservato ad uno degli ordini in preparazione: infilarsi il formaggio nel naso e risoffiarlo sulla pizza prima di infornarla, starnutirci sopra ed emetterci sopra la propria profumata flatulenza rettale prima di inscatolarla per poi chiudere pulendosi il sedere con la spugna del lavaggio piatti. In questo caso la catena ha subito una denuncia per adulterazione dolosa del cibo che ha portato alla chiusura della filiale e naturalmente, a nulla è servita la consueta presa di distanza da parte dell’azienda nei confronti dei lavoratori, immediatamente licenziati.
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Mai visto qualche ragazzino mimare uno sputo, facendo ballonzolare un groppo della propria saliva davanti alla bocca prima di lasciarlo cadere, magari da un precipizio o da un ponte? La stessa cosa è stata fatta nel 2018 da una dipendente della catena di fast food greco Pita Pit di Missoula, Montana. Il destinatario dello sputo in questo caso era uno dei panini in preparazione, pensando bene naturalmente di farsi riprendere dal proprio collega nel mentre e spiegando con una ricca serie di insulti il proprio disappunto verso il turno notturno a cui era sottoposta. La cosa che ha lasciato più basito il pubblico però è l’atteggiamento assolutamente indifferente tenuto dagli altri addetti durante il video. La domanda è sorta spontanea: quante volte era già successo? Dalla lista non sono esenti neppure i grandi nomi: allo sportello del drive del McDonald’s di North Little Rock, l’addetto al servizio ha ingaggiato un furioso litigio con il cliente di fronte in attesa sulla propria auto, a causa di un presunto errore sulla preparazione dell’ordine. All’apice della discussione, l’addetto ha pensato bene di sfogare la propria frustrazione versando l’olio bollente della friggitrice nell’abitacolo del cliente causandogli profonde ustioni. Le immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza sono servite all’azienda per il licenziamento del dipendente per giusta causa e naturalmente per la richiesta danni milionaria avviata dal povero malcapitato. La palma del dispetto più disgustoso perpetrato da un addetto fast food nei confronti dei suoi clienti va però ad una dipendente della catena Jack in the Box in Mississippi che aveva appena avuto un’accesa discussione con un proprio collega. Come “vendetta” questo ha ritenuto opportuno pubblicare sui social una foto della ragazza mentre stava armeggiando in modo sospetto con il suo hamburger in preparazione, avvisando che se qualcuno dovesse aver acquistato un panino tra le 22 e le 23 del 1 luglio 2017 in quella filiale, poteva averne mangiato una “versione speciale” arricchita dei fluidi corporei di lei. Quali “fluidi corporei”? Dopo un’indagine avviata a seguito del putiferio mosso dal post del ragazzo, la dipendente ha ammesso le proprie colpe spiegando che si trattava di sangue mestruale, crimine che l’ha poi fatta finire in prigione. L’ennesimo episodio che dimostra come “si stava meglio quando si stava peggio” e che le lente, rozze, polverose ma accoglienti osterie frequentate dai nostri nonni in fondo non erano poi cosi male
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CREATIVE STORY N° 73
La sanguinosa storia del Chili Texano Non credo esista nella gastronomia tex-mex e probabilmente nemmeno in quella generale, un piatto povero e rurale quanto lo sia il Chili Texano. La versione odierna è arricchita di fagioli, salsa di pomodoro, panna acida e molti altri ingredienti possibili in base alle diverse ricette ma “chili” è la contrazione del nome originale “chili con carne” che nasconde la sua vera natura: uno stufato di carne di qualunque natura, cotto a lungo insieme a dei peperoncini.
Se c’è una cosa che le Creative Stories ci hanno insegnato è che quando si ha a che fare con piatti cosi semplici e dalle cosi umili origini, è sempre difficile ricostruirne storicamente le origini: poca documentazione scritta e diffusione popolare troppo ampia per lasciare tracce certe. Il Chili rientra certamente in questa casistica, per giunta con l’aggravante di essere nato a cavallo della lunga divisione del territorio texano tra Messico e Stati Uniti. Questo fino a quando lo storico gastronomico texano Robb Walsh, non ha disegnato dopo anni di studio e ricerche, una teoria con talmente tante conciliazioni con eventi storici certificati da risultare oggi la più accreditata e credibile in assoluto. E la storia del Chili in Texas non poteva che essere inevitabilmente legata ai suoi trascorsi, quelli di una terra di frontiera aspra e contesa, fatta di sangue e sofferenza. 203
La patria del Chili in Texas è ufficialmente riconosciuta in San Antonio e con valide ragioni. San Antonio è stata anticamente terra di confine tra i possedimenti spagnoli e l’incombente colonizzazione inglese che avrebbe poi dato origine agli Stati Uniti. La prima volta che ufficialmente si sente attribuire questo nome all’area è stato nel 1691 a seguito di una spedizione della cattolicissima Spagna in onore di Sant’Antonio da Padova e che comprendeva un’insieme di missioni religiose tra le quali Alamo. Si, quella della battaglia di Fort Alamo, ma ne parliamo tra poco. La città vera e propria nasce però solo nel 1718, quando l’impero spagnolo rileva l’esigenza di creare un avamposto ai propri possedimenti, qualcosa che contrastasse o quantomeno disincentivasse i possibili attacchi da parte dell’allora vicino impero coloniale francese che comprendeva vaste aree tra il Canada e l’odierna Louisiana. Essendo una città nuova, creata sulla carta in modo totalmente virtuale, esisteva l’esigenza di popolarla. A questo scopo il re di Spagna pensò di trasferire forzatamente sul posto 200 famiglie dalle Isole Canarie ed è qui che ci ricongiungiamo alla storia del nostro Chili. Qualcosa di molto simile al Chili veniva già cucinato a base di carne da cacciagione da parte delle popolazioni Atzeche e che a seguito dei conquistadores aveva accompagnato l’espansione spagnola verso nord. Anche le tribù indiane Payaya che popolavano la San Antonio River Valley avevano l’abitudine di cucinare stufati di carne in pentole di pelle di bufalo ma il vero impulso alla nascita del Chili arrivò proprio con la popolazione canarina che introdusse cipolle, aglio e cumino negli stufati, patrimonio delle influenze della cultura berbera sulle isole. San Antonio crebbe in fretta, diventando in pochi anni il più grande avamposto spagnolo in Texas. Si trattava di una città in perenne fermento, un “porto di mare” con andirivieni quotidiano di proporzioni immani per l’epoca. Walsh riconduce a questa fase la nascita delle cosiddette Chili Queens, da altri storici riconosciute solo in un fase storica molto più tardiva. La piazza principale della città era Military Plaza, perennemente presidiata e vista come avamposto estremo di difesa dei possedimenti della madrepatria Spagna. A supporto delle truppe sono nati in modo spontaneo dei rudimentali punti di ristoro che oggi assimileremmo a degli street food, nei quali venivano serviti piatti tipici messicani come i tamales e dove il chili era ancora solo un ricco condimento da aggiungerci sopra, preparati ad opera di quelli che la storia definirà successivamente i Chili Kings, patrioti ispano-messicani dediti alla cucina e che fornivano pietanze di supporto cotte in pesanti pentoloni utilizzati per mantenere il cibo in caldo durante tutta la giornata, facendolo inconsapevolmente diventare ancora più buono. Gli uomini si occupavano della cottura, dell’approvvigionamento delle materie prime, del legname per le cotture e degli spostamenti di persone e materiali. Le donne invece gestivano materialmente la rivendita, rallegrandola con i colori, la musica e l’allegria tipica della cultura messicana e finendo inevitabilmente per acquisire di rimando, il nome di Chili Queens. Molto presto, a partire dagli inizi del 1800 ai francesi si sostituirono gli inglesi al di fuori delle frontiere, molto più motivati a conquistare nuovi territori e per San Antonio quale baluardo della resistenza, iniziò un periodo molto complesso e travagliato della propria storia, dove nel giro di pochi anni le dominazioni ispano-messicana e anglo-americana si succedettero 204
per ben 12 volte: un terreno di scontro ogni volta più sanguinoso e cruento, macchiato di rappresaglie, massacri, vendette oltre ogni limite di efferatezza. Per esprimere una misura del fenomeno basti pensare che nel 1845 San Antonio venne ufficialmente annessa agli Stati Uniti insieme a tutto il Texas. Da un primo censimento furono registrati poco più di 800 abitanti in una città che prima dell’inizio dei conflitti ne contava oltre 15.000. Ogni studente texano e non solo, conosce la storia di Font Alamo narrata anche da diversi film, in cui la conquista avvenuta dopo due giorni di feroce assedio combattuto porta a porta, da parte del generale Antonio López dell’esercito messicano con successivo trucidamento della guarnigione rimasta in segno di rappresaglia, è servita da collante per i coloni e gli avventurieri texani nell’annettersi all’esercito americano che riconquistarono nei due giorni successivi l’avamposto, ricambiando i messicani con la stessa crudeltà al grido di “ricordatevi di Alamo!”. Non da meno sono stati il massacro di Goliade del 1836 in cui gli uomini del generale Delgado furono legati tra loro, derisi e massacrati a colpi di machete non prima di averne passato la lama sulla suola sporca di fango degli stivali e mille atri episodi in cui il macabro andava di pari passo con il desiderio di conquista e di rivalsa da una parte e dall’altra. In tutto questo le Chili Queens da vere patriote interrompevano il loro servizio ad ogni nuovo ingresso dei “gringos” aspettando il successivo avvicendamento da parte dell’esercito messicano. Dopo l’annessione del 1845 l’attesa iniziava però a farsi lunga e la vita di chi aveva ormai fatto della somministrazione itinerante il proprio lavoro da due generazioni, sempre più dura. Chi cambiò per sempre lo stato delle cose fu la famiglia De La Torres cui una delle figlie decise di sposare un St. Clare, un anglo-francese, quindi un “nemico”.
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Gli angloamericani erano a San Antonio poco più che dei baraccati militarizzati, senza alcun sostentamento e ostracizzati in ogni modo dalla popolazione locale, specie sul cibo. Ridotti alla fame e coerentemente con il proprio ruolo di famiglia ibrida, nonostante le infinite perdite subite come tutti dalla guerra ad opera degli americani, i De La Torres decisero di vincere la propria riluttanza e finalmente dopo anni di assenza, la Military Plaza vide ritornare una bancarella di cibo da strada sul proprio suolo. Inizialmente le altre famiglie di San Antonio condannarono duramente la scelta, boicottandoli in ogni modo, in primis naturalmente negandogli le materie prime necessarie. Non c’erano mais ne patate per i tamales e la carne di manzo era un miraggio. L’unica ricetta realizzabile era quella del Chili sminuzzando la carne di qualsiasi animale selvatico i De La Torres riuscissero a cacciare. Inutile dire che le ciotole di chili caldo, una volta condimento e da quel momento in poi un piatto vero e proprio, si rivelarono un successo clamoroso, per giunta in mano ad una sola famiglia monopolista del servizio. Non senza difficoltà, una a una le altre famiglie tornarono sui propri passi occupando nuovamente il proprio posto a Military Plaza: era il 1860, ed erano tornate le Chili Queens. Seguendo la buona vecchia regola secondo cui la storia viene scritta dai vincitori, è solo da questo punto in poi che il nome delle Chili Queens compare nei libri, come delle allegre, festanti e colorate venditrici di strada che hanno accolto gli americani sostentandoli e facendogli conoscere un piatto meraviglioso a loro completamente ignoto ma che dietro il loro sorriso e la musica nascondevano una scia di sangue e di dolore che nessuno avrebbe mai raccontato.
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CREATIVE STORY N° 74
Il cornetto, storia del padre del croissant È un dato di fatto che i francesi siano particolarmente abili nelle attività di vendita. In primis di loro stessi, direbbero i non amanti della “grandeur”. È indubbio però che le più grandi catene di distribuzione europee come Carrefour, Auchan o Decathlon siano francesi. Anche a livello di comunicazione se ad esempio all’estero dici “formaggio” automaticamente associ la Francia alla massima espressione assoluta. Una celebre citazione attribuita a Charles De Gaulle dice “Come si può governare un paese che ha 246 varietà differenti di formaggio?”. L’Italia però di varietà ne vanta ben 487 e ad essere onesti, ben più particolari e differenti tra loro. Questo dice molto su quanto il magistrale appeal francese sappia influenzare le percezioni. Un altro esempio particolarmente lampante è quello del Croissant, un vero simbolo della pasticceria francese. La sua aura raffinata e ammantata di tecnica, la sua proverbiale leggerezza e friabilità li rendono idealmente il riferimento assoluto da cui deriverebbero tutti i dolci monoporzione “incurvati” a base di pasta sfoglia presenti nel mondo, tra cui anche il nostro Cornetto. Ma è davvero cosi? Il nostro rustico, leggermente più sgraziato ma decisamente appagante Cornetto, il compagno delle classiche colazioni all’italiana insieme al cappuccino, ha effettivamente degli antenati in comune con il suo cugino d’oltralpe, ma da una lettura dei loro avvicendamenti si evince chiaramente un posizionamento storico molto diverso da quella percepito. L’opinione comune, diffusa anche dalla già citata e ben nota “grandeur” francese, è che il cornetto sia una italianizzazione del croissant ma in realtà non è assolutamente cosi. Anzi, incredibilmente il primo ha origini tracciabili più antiche di quelle del secondo di oltre un secolo. Come dicevo comunque, entrambi discendono da un nonno comune: il Kipferl austriaco, che è però un dolce molto più “pesante” e meno elegante, spesso ripieno di noci, miele e altri ingredienti molto ricchi. Il nome in tedesco significa “crescente” e simboleggia un quarto di luna. La ricetta tipica nasce nella città di Vienna e ricorda in modo insistente il classico simbolo della bandiera ottomana, che capeggiava durante i lunghi assedi subiti dalla città austriaca da parte dei Turchi nel 1683. Purtroppo qui finiscono le certezze storiche ed iniziano i racconti leggendari, dei quali esistono però pochi riscontri documentali e forti dubbi ammantati delle nebbie tipiche dei racconti tramandati dalla tradizione orale. Il più famoso vorrebbe che dopo mesi di tentativi vani, i Turchi abbiano tentato di aggirare la resistenza viennese scavando un tunnel che passasse sotto le mura della città. Un panettiere impegnato nel suo lavoro notturno sarebbe stato allertato nel silenzio della notte dal rumore 209
degli scavi ottomani, dando l’allarme e salvando Vienna dalla capitolazione. Il panettiere avrebbe deciso di celebrare l’evento con la creazione di un dolce dalla forma di mezzaluna a mo’ di sfregio verso i nemici, ormai vinti ed in ritirata, che divenne un simbolo di festa e di riconoscenza. Sembrerebbe poi che il Kipferl sia arrivato in Francia grazie a Maria Antonietta d’Austria, promessa sposa di Luigi XVI. La prassi voleva che la sposa del Re rinnegasse ufficialmente le proprie origini per acquisire integralmente le tradizioni del paese che la accoglieva, diventando a tutti gli effetti una vera francese o quantomeno atteggiandosi come tale. È certo che Maria Antonietta non fece nulla di tutto questo e che anzi, abbia orgogliosamente conservato le proprie usanze austriache. Tra queste, figurava l’abitudine di accompagnare il tè pomeridiano con i suoi amati Kipferl. Proprio per questa riluttanza alla francesizzazione e per la notoria tendenza a concedersi facilmente ai vizi di corte, la nuova regina non ha mai goduto di particolare simpatia da parte della popolazione che la chiamava appunto l’”austriaca” in senso dispregiativo. La stessa famosa frase “se il popolo non ha il pane, allora che mangi brioche!” rivelatasi poi un falso storico creato e divulgato per screditare ulteriormente la regina uscente agli occhi dell’opinione pubblica negli anni della Rivoluzione, sembra in realtà si riferisse nelle intenzioni dell’autore, proprio ai Kipferl.
Ma di tutto questo come detto, non ci sono attestazioni storiche. È certo invece che la prima presenza documentata del croissant in Francia si abbia all’apertura agli inizi del 1800 di una caffetteria viennese, chiamata Boulangerie Viennoise da parte del pasticcere August Zang, originario della città austriaca. “Croissant” non era nient’altro che la traduzione francese di Kipfler, ovvero “crescente”, la cui ricetta era stata riproposta integralmente. Da notare 210
come la leggenda voglia che la nascita del caffè sia avvenuta proprio a Vienna, nelle stesse circostanze dell’invenzione del Kipferl, durante un’incendio ad un avamposto ottomano che tostò i chicchi conservati in un sacco e che proprio per questo rappresenti un binomio tipico della città di Vienna. Binomio che Zang riprese per replicare un locale che abbinasse i due prodotti simbolo della sua città natia. La nascita del Croissant moderno, nella sua versione sfogliata, cosi leggera e burrosa, si deve infine al pasticcere francese Sylvain Claudius Goy che ne pubblicò per primo la ricetta solo nel 1915. Da sottolineare come spesso il termine venga confuso con “brioche”, come dicevamo per il caso di Maria Antonietta. Con questa parola si dovrebbe invece intendere un dolce originario della Normandia (dal normanno antico Broyer, impastare con un matterello) che è però tondo con una piccola sfera di pasta sulla superficie ma dalla consistenza molto meno eterea ed elegante di Croissant e Cornetto. Se ti è venuta in mente la “brioche con il “tuppo” siciliana, effettivamente la ricorda molto, sebbene manchi una documentazione storica che attesti il fil rouge tra i due prodotti. Tornando al nostro Cornetto per l’appunto, le prime tracce certe si hanno nel 1683 a seguito dei sempre più importanti scambi commerciali che interessavano la città di Vienna e la Repubblica di Venezia. L’arte pasticciera veneta ne ha poi fatto una ricetta più elaborata e ricca, aggiungendo uova all’impasto, che infatti ne costituisce la principale differenza con il croissant. Il cornetto si diffuse poi a macchia d’olio nel resto d’Italia con la nascita del regno Lombardo-Veneto. Il Cornetto quindi nasce direttamente dal Kipferl e non come sotto derivazione del Croissant. Il nostro amato Cornetto è quindi fratello maggiore del più nominato e famoso Croissant e non il figliastro. Un fratello con peraltro origini più antiche di circa 140 anni.
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CREATIVE STORY N° 75
Perché l’hamburger da noi si chiama “Svizzera” L’Italia è una nazione giovanissima e questo è un dato di fatto. Dall’interno dei nostri confini prendiamo in giro gli stati del nuovo mondo per la loro storia praticamente inesistente se paragonata ai nostri secoli di vicissitudini infinte, con tutti i lasciti monumentali e artistici a testimoniarle. Gli Stati Uniti però ad esempio, hanno firmato la loro Dichiarazione di Indipendenza nel 1776, mentre noi siamo una nazione solo da 1861 e peraltro una Repubblica solo dal 1946, praticamente l’altro ieri. I nostro livello di scolarizzazione poi è a livelli accettabili solo da poche decine di anni: fino al cosiddetto “boom economico”, l’Italia era un paese di contadini semi analfabeti. Queste due considerazioni unite ad una comprensibilmente nulla familiarità con l’inglese, rendono più comprensibile la confusione che regna sovrana circa l’etimologia di alcune espressioni o di alcuni termini verosimilmente nati a seguito del fenomeno di emigrazione verso l’estero e in alcuni casi di immigrazione di ritorno. Si cita sempre infatti il massiccio esodo italiano verso gli Stati Uniti, il Belgio o la Germania
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alla disperata ricerca di opportunità e condizioni di vita migliori. Ma ci si dimentica di tutti coloro a cui non andrà poi cosi bene e che decisero quindi di tornare indietro portando con se il gergo imparato durante questa esperienza. Un popolo poco acculturato e ancor meno predisposto all’apprendimento, finiva infatti per creare quello che tecnicamente si definisce una “varietà linguistica”, ossia una storpiatura del linguaggio ottenuta dall’italianizzazione della lingua locale. A Brooklyn, a New York ad esempio, dove a lungo si sono concentrate le comunità italo americane, nasce una vera e propria lingua nota come “broccolino” (dal nome con il quale gli immigrati chiamavano Brooklyn appunto). Il business diventava il “bisinisse” che avrai sentito mille volte citare nei film sulla mafia americana, mentre “fattoria” non indicava più un’azienda agricola ma una fabbrica, dall’inglese “factory”. Pochi sanno ad esempio che il termine popolare “marchetta” inteso come “bollettino di pagamento”, consegnato alle prostitute per riceverne la prestazione dopo aver pagato in cassa e oggi esteso in modo dispregiativo al compenso per una prestazione losca o effettuata in modo non esplicito, sia un termine broccolino che deriva a sua volta dall’inglese “market” perché questo era il sistema con il quale funzionava il mercato di scambio a New York ad inizio secolo. A valle di questa importante premessa, se vivi nel nord Italia o se hai amici che ci vivono, è possibile tu abbia sentito l’espressione “Svizzera” utilizzato dai nostri nonni come nome popolare per ciò che noi oggi chiamiamo “Hamburger”, cotto in padella e servito al piatto. Ricordo distintamente come da ragazzini entrati prepotentemente a conoscenza del Burger Americano attraverso il mitico Burgy prima e Mc Donald dopo, ci chiedessimo quale mai potesse essere l’etimologia di questo nome cosi bizzarro e apparentemente cosi poco contestualizzato. Il dubbio on era peraltro solo nostro. Ho letto le ipotesi più fantasiose, dal fatto che siano stati gli Svizzeri i primi a farci conoscere l’hamburger, fino al fatto che in passato da noi per realizzare l’hamburger si utilizzasse solo carne Svizzera (?!?). Solo oggi e dopo attenta ricerca, sembra invece che le vere motivazioni siano proprio riconducibili all’immigrazione di ritorno. L’origine quasi certa è infatti quella che negli Stati Uniti viene chiamata Swiss Steak: carne macinata e schiacciata fino allo spessore di sottili fettine per poi essere brasata in padella con un sugo di pomodoro e verdure. Quindi una preparazione povera, che negli States viene spesso servito come piatto unico insieme alla pasta. Tutte connotazioni che lo rendono un cibo con il quale un emigrato ha avuto probabilmente spesso a che fare. Più curioso e meno certo, individuare perché in America chiamassero “Bistecca Svizzera” un piatto del genere. Ebbene ancora una volta, la confederazione elvetica non c’entra nulla. A venirci in aiuto è il Dictionary of Litteram and Nonliteral Terms, di Robert Palmatier, che riconduce il verbo improprio “to swiss” al mondo della tessitura di fine ‘800. Lo “swissing” consiste nel passare il cotone tra pesanti rulli al fine di rendere la stoffa più liscia e compatta. La stessa espressione è stata poi estesa al mondo della stampa in cui la carta subiva un processo simile e poi infine a quello della cucina, dove la carne “swissed” era quella che veniva schiacciata per renderla più tenera e masticabile. Da qui ad applicare 214
il termine a qualsiasi cosa di assottigliato come la carne macinata in questo caso, il passo è stato breve. Secondo alcune ipotesi “Swiss” è un nome onomatopeico che riprende il suono del macchinario in pressione sul tessuto. Secondo altre invece, il macchinario in questione più diffuso era di fabbricazione svizzera. Non esistono grandi certezze da questo punto di vista tranne il fatto la “svizzera” che ci cucinava la nonna, di svizzero non ha assolutamente niente.
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CREATIVE STORY N° 76
Po’ Boys: la verità di Louis Armstrong In italiano è “panino”, ossia “piccola porzione di pane”. In spagnolo sarebbe “boccadillo”, ossia il “bocconcino”. Già in inglese la cosa si complica, perché “Sandwich” non ha alcun significato etimologico ma riporta il nome di un luogo e in modo indiretto, di una persona: sembrerebbe che nel 1762 John Monatgu IV, conte di Sandwich ed incallito giocatore d’azzardo, usasse farsi portare i propri pasti tra due fette di pane per poterli mangiare con le mani senza spostarsi dal tavolo da gioco. Ma se ti rechi a New Orleans, “panino” è sinonimo di Po’ Boy: una pagnotta di pane francese che la tradizione vorrebbe con un ripieno di patate fritte, roast-beef, lattuga, maionese e salsa gravy ma che oggi viene servito ovunque nella città con infinite tipologie di farcitura, spesso rappresentative della cucina della Louisiana, ed in particolare fritte: gamberi, ostriche, pesce gatto, pollo, salsiccia piccante ma anche prosciutto, anatra o coniglio. Il nome “Po’ Boys” sta per “Poor Boys”, ossia poveri ragazzi. Questo è l’appellativo con il quale secondo la leggenda popolare, data per certa per quasi mezzo secolo, Benny e Clovis Martin proprietari del ristorante Martin’s Brothers French Market chiamavano gli operai in sciopero contro la compagnia tranviaria cittadina durante le agitazioni del 1929, rivendicando condizioni salariali e lavorative migliori. I due fratelli erano a loro volta dei colleghi degli scioperanti che alcuni anni prima avevano deciso di lasciare il lavoro per aprire prima una propria rivendita ambulante di cibo e poi un ristorante vero e proprio.
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I Martin si schierarono apertamente a sostengo dei tranvieri, offrendosi pubblicamente di servire gratuitamente ai “Poor Boys” impegnati nella loro lotta sindacale e durante tutto lo sciopero, un panino per ciascuno dei pasti, contenente la specialità della casa: Roast-beef, lattuga e maionese. Nell’epoca della grande depressione la comunicazione ha un grande effetto ed un’enorme eco e per ogni abitante di New Orleans cosi sono nati i Po’ Boys, tanto che la città riconosce ufficialmente i fratelli Martin come “creatori dell’originale Poor Boy Sandwich”. La prima crepa in questa storia arriva da una fonte insospettabile quanto completamente inconsapevole. Nel 1960, il clarinettista jazz Sidney Bechet pubblica la sua autobiografia “Treat it Gentle”. Bechet, nativo di New Orleans aveva condiviso i propri albori musicali e lavorativi con un’altro figlio celebre della città: Louis Armstrong. In particolare, racconta del primo piccolo concerto tenuto a New Orleans nel 1910 in cui lui e Satchmo (come era soprannominato Armstrong) erano stato pagati “davvero” qualche soldo per fare jazz, quando nonostante la loro giovanissima età, la musica era solo un passatempo nella loro dura quotidiana attività di scaricatori di sacchi di carbone. Di quell’episodio Bechet ricorda che la prima cosa che fecero per festeggiare, fu concedersi una tazza di soda ed un Po’ Boy. La cosa incuriosì accidentalmente diversi giornalisti gastronomici. Come poteva Bechet aver mangiato un Po’ Boy nel 1910 se il panino era stato inventato solo nel 1929? La pubblicazione del libro avvenne in pratica in contemporanea con la sua morte e non era quindi più possibile richiedere chiarimenti all’interessato. Certo, Bechet aveva lasciato New Orleans nel 1917 per farvi ritorno nel 1940 e poteva essere entrato in contatto con i Po’ Boys e aver fatto confusione nel suo racconto, ma l’episodio suonava ugualmente sufficientemente curioso da muovere degli approfondimenti. Una primo dato curioso che emerse, è che non esiste nessuna pubblicazione scritta che narri la versione ufficiale della nascita dei Po’ Boys, precedente ad un articolo pubblicato su un giornale di New Orleans nel 1969, ben 40 anni dopo i fatti. Risalendo poi all’annuncio pubblico avvenuto nel 1929 da parte dei fratelli Martin, la promessa era quella di servire un generico “pasto” a tutti i membri della divisione I94 impegnati nello sciopero, senza alcun riferimento preciso ad un panino. Furono inoltre ritrovate numerose pubblicità promosse nelle pagine interne dei giornali locali, tra le quali diverse del 1933 in occasione del cambio di sede del ristorante, dove veniva brevemente ripercorsa la storia dei Martin, scrivendo chiaramente che vendevano “panini di mezza pagnotta di pane francese generosamente riempiti con qualsiasi cosa si desiderasse, dal roast beef alle ostriche” vicino al vecchio mercato francese dove rimasero fino al 1929. Quindi all’epoca dello sciopero i Po’ Boys esistevano già. Infine furono rinvenute alcune dichiarazioni pubbliche rilasciate dal fratelli Martin prima del 1929 in cui menzionavano di aver creato delle porzioni economiche “Poor Boy” destinate a lavoratori agricoli e portuali della città. Sembrava ormai chiaro che qualcosa non andava nella versione ufficiale. Da un ulteriore ricerca emersero infinite pubblicazioni di articoli, menù di ristorante, pubbli218
cità o riferimenti di cronaca risalenti fino al 1851, che attestano chiaramente come a New Orleans fosse molto diffuso un panino con le ostriche fritte che rimandava in modo chiaro per caratteristiche al Po’ Boy dei Martin. Ma la vera definitiva spallata arrivò dall’estensione delle ricerche a due biografie. La prima era “Satchmo, my Life in New Orleans”, ovvero l’autobiografia di Armstrong stesso pubblicata nel 1954, in cui si venivano descritti minuziosamente scenari del quartiere in cui Stachmo viveva prima di trasferirsi a Chicago nel 1922 una volta raggiunto il successo. Descriveva un ambiente duro e difficile, pieno di malavita, prostituzione e degrado, con bambini come loro che giravano scalzi per le strade rovistavano nella spazzatura alla ricerca di qualcosa da mangiare per sopravvivere. E naturalmente con tanto Jazz, la musica dei poveri che è stata la sua fortuna. Nel libro sono anche presenti infiniti riferimenti di vita quotidiana con numerose citazioni di pasti a base di Po’ Boys. I racconti di Armstrong a dire il vero non sono mai passati per essere molto credibili. Louis era molto incline a romanzare le proprie storie spaziando parecchio con la fantasia. Basta dire da questo punto di vista che per la maggior parte della sua vita ha raccontato di essere nato il 4 luglio 1900, la festa nazionale nell’esatto anno di inizio secolo, per poi essere smentito decenni più tardi dal ritrovamento del suo atto di nascita datato agosto 1901. La cosa inizialmente non è stata quindi accreditata di particolare attenzione. L’altra biografia “Horn of Plenty” è invece molto più rigorosa ed investita di ufficialità, scritta dallo storico belga del Jazz Robert Goffin e dedicato alla vita di Louis Armstrong. Ovviamente in questo caso il libro è frutto di minuziosa ricerca, che ha coinvolto per altro svariati artisti, personalità e amicizie che hanno avuto a che fare con lui durante la sua vita. E naturalmente anche in questo caso compaiono riferimenti un po’ ovunque ai Po’ Boys.
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Un aspetto interessante è che il quartiere di cui racconta Armstrong oggi non esiste più. Completamente demolito e ricostruito in un progetto di riqualificazione cittadina non molti anni dopo la sua partenza da New Orleans. Da una ricostruzione catastale a posteriori, emerse chiaramente però che c’erano molteplici coerenze tra i riferimenti geografici, storici e urbanistici riportati nei due libri e che i dettagli minuziosi e attenti raccontati da Armstrong rispondevano certamente al vero. Molto ricorrente in particolare, è il riferimento all’”Alimentari di Gaspar”, una gastronomia del quartiere dove Armstrong ma un po’ tutti i musicisti e non solo, amavano passare per condividere un Po’ Boy: un pezzo di pane con patate o pastella fritta, prosciutto tritato, senape e gravy al costo di 5 centesimi. In sostanza veniva pulito il bancone e se ne recuperava qualcosa vendendo il ricavato in un panino destinato a chi non poteva permettersi nient’altro. Quasi certamente “Gaspar” era l’appellativo amichevole degli abitanti del quartiere per Gaspar Lo Cicero, immigrato siciliano e proprietario della gastronomia Lo Cicero’s il cui edificio curiosamente si trovava esattamente dove oggi sorge il municipio della città, prima della demolizione. I Martin quindi hanno indiscutibilmente svolto un ruolo commerciale fondamentale per il lancio e la consacrazione a simbolo cittadino dei Po’ Boys attraverso una nobilitazione e standardizzazione della ricetta, ma è altamente poco probabile che un panino dalle cosi umili origini sia stato inventato in occasione di uno sciopero di uomini bianchi in una città dal substrato cosi denso di persone di colore. Dei quartieri come quello di cui parla Armstrong si parlava ad inizio secolo solo se ci veniva ucciso qualcuno e la cultura nera come quella italoamericana e di altre etnie immigrate, erano semplicemente un anatema evitato volentieri dalla stampa. Dei veri Po’ Boys si sa quindi veramente poco, tranne che con ogni probabilità i “poveri ragazzi” erano solo “ragazzi poveri”: operai di manovalanza, truffatori e ragazzi di strada che vivevano di espedienti e la storia dei Martin semplicemente una bella occasione per pulire la facciata di un prodotto gastronomico molto diffuso e volente o nolente, rappresentativo della città di New Orleans.
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CREATIVE STORY N° 77
Il Bias Messicano tra Tequila e Mezcal Il Messico è forse il paese con più “bias gastronomici” al mondo. Avevamo già parlato nella Creative Story n.44 di quanto le tradizioni culinarie di un paese straordinariamente ricco e diversificato da questo punto di vista, siano poco conosciute al di fuori dei suoi confini ed in molti casi addirittura confuse con quelle Tex-Mex. Tra i tanti però, uno dei meno conosciuti è quello relativo alla Tequila.
Forse anche in seguito alla diffusione planetaria del cocktail Margarita, ma se si parla di distillati, e se viene citato il Messico, l’associazione pressoché automatica che viene fatta in quasi ogni paese del mondo è una sola: quella con la Tequila. La realtà è che pur essendo un prodotto indiscutibilmente riconducibile alla storia della nazione, i Messicani avvertono come molto più rappresentativo delle proprie tradizioni e vanno molto più orgogliosi, di un’altro distillato ricavato dall’agave: il Mezcal. Capiamo anzitutto quello di cui stiamo parlando. Tecnicamente si potrebbe dire che la Tequila è un tipo particolare di Mezcal ma ormai i due prodotti hanno assunto un’identità propria abbastanza definita. La materia prima di partenza è la stessa, il processo produttivo non è poi cosi diverso ed entrambe sono protette da un disciplinare (Consejo Regulador del Tequila e il Consejo Regolador del Mezcal) ma tra Tequila e Mezcal ci sono alcune 223
significative differenze. La Tequila si ricava da un tipo particolare di agave che si chiama Azùl e viene prodotta solo in 5 regioni del Messico. La “piña” ossia il cuore delle piante mature di agave, viene cotta a vapore per circa 24 ore al fine di attivare chimicamente la conversione dei carboidrati complessi in zuccheri fermentabili per estrarli più facilmente. Le “piñas” vengono poi macinate, schiacciate e filtrate per separare l’”aguamiel” ossia il succo, che viene lasciato fermentare e poi distillato due o tre volte prima di essere eventualmente fatto invecchiare in botte di rovere. Il Mezcal come detto, attraversa un processo di produzione abbastanza simile. Per il Mezcal si può partire però da 30 specie diverse di agave, comunque tendenzialmente più zuccherine della Azùl. Il Mezcal poi può essere prodotto in 9 zone diverse del Messico con profonde differenza nel prodotto finale dettate in buona parte dalla territorialità. Ma soprattutto la fase di cottura deve avvenire obbligatoriamente in un forno in terracotta interrato con combustione a legna, caratteristica da cui deriva l’inconfondibile e distintivo aroma affumicato. Questa breve descrizione è già in grado da sola di farti capire molto della “vera” differenza tra Tequila e Mezcal, che ti anticipo essere identitaria prima ancora che relativa al prodotto finale. Ma facciamo ancora un passo indietro. Sia Tequila che Mezcal sono tipologie di bevande sudamericane definibili come un “Mestizo”, ossia tradizioni e tecniche miste tra europee e mesoamericane che hanno dato luogo ad un nuovo prodotto autoctono. La fermentazione dell’agave era già praticata in epoca pre-ispanica per preparare la Pulque, una bevanda il cui utilizzo però era principalmente legato a funzioni religiose. Naturalmente è con l’arrivo dei conquistadores spagnoli che la tecnica della distillazione giunse in Sud America, sebbene esistano teorie a riguardo che la vorrebbero già importata in precedenza dall’Asia e praticata in “alambicchi” di ceramica per la produzione dell’Arrack, il vino di palma. Tequila e Mezcal si sono sviluppati parallelamente e lentamente nel corso dei secoli, principalmente attraverso distillerie rurali su piccola scala, destinati solitamente all’autoconsumo da parte delle singole famiglie terriere o al massimo del villaggio in cui risiedevano. A partire dal 1608 su autorizzazione del Re di Spagna fu permessa la vendita a terzi della Tequila, che all’epoca si chiamava semplicemente “Costantia”. Un ruolo molto importante nella sua diffusione in questo senso ebbe la famiglia Cuervo, la cui distilleria è ancora oggi una delle più conosciute a livello mondiale. Fino a circa 170 anni fa però il consumo rimaneva ancorato alle stesse dimensioni locali del Mezcal e in ogni caso limitato all’interno dei confini nazionali. Il primo tentativo di esportazione avvenne nel 1852 verso la California, in occasione della quale si decise di commercializzare il prodotto per la prima volta con il nome “Tequila” riprendendo il nome dell’omonimo piccolo paese nella regione di Jalisco da cui principalmente partivano all’epoca le esportazioni verso l’America. Il sindaco di Tequila, Don Cenobio Sauza, sviluppo’ su questa opportunità la propria omonima azienda di produzione fino a farla diventare il principale brand nazionale insieme a Jose Cuervo. 224
Il successo e l’espansione commerciale della Tequila arrivò però solo a partire dagli anni ’20 del secolo successivo quando iniziò ad incombere lo spettro della recessione che porto al proibizionismo. Con il divieto di produzione interna, fiorì l’importazione illegale del whisky dal Canada al Nord e della Tequila dal Messico a Sud. Già nei primi anni del ‘900 ci furono tentativi di industrializzazione del processo di produzione della Tequila ma naturalmente l’impennata della richieste diede un forte impulso in questo senso. La produzione diventa insostenibile per le piccole distillerie locali che chiusero a favore della concentrazione in poche grandi aziende con processi sempre più automatizzati e standardizzati a discapito naturalmente della personalizzazione. Oggi si contano in Messico non più di 100 produttori, proprietari di oltre 900 marchi di Tequila, commercializzati con oltre 2000 declinazioni. Ma i grandi nomi, quelli che concentrano la maggior parte dei volumi sono da tempo in mano a grandi multinazionali e hanno iniziato a produrre in impianti al di fuori dei confini nazionali, esportando dal Messico la sola materia prima. E il Mezcal in tutto questo? Il Mezcal è rimasto fermo al secolo scorso. Mentre il processo di cottura a vapore della tequila era facilmente riproducibile a livello industriale, la cottura a legna risultava decisamente più critica, con il proprio carattere distintivo che andava a compromettersi irrimediabilmente a fronte di una tecnica non ben eseguita. Per questo il Mezcal è sempre stato snobbato dai processi di distribuzione di massa lasciandolo relegato ad una produzione artigianale che ancora oggi caratterizza il 90% di quella complessiva. Per lunghi tratti fino agli anni ’90, questa è stata la sua condanna mettendo il Mezcal a rischio di scomparire se non nei confini della produzione domestica. Con la rivalutazione negli ultimi decenni della valorizzazione del gusto e di una maggior propensione alla scoperta gastronomica, specie se local, il Mezcal sta però fiorendo a nuova vita ed oggi con tutte le proprie particolarità e le differenti espressioni territoriali e produttive ha decisamente soppiantato l’asettica Tequila nel cuore dei messicani, avvertendola come una delle tante autentiche meravigliose tipicità messicane che gli stranieri non potranno mai capire fino in fondo.
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La grande eredità degli Speakeasy Passeggiando per le strade nebbiose e meno turistiche di Londra, se hai un amico che conosce bene la città, potresti avere l’opportunità di bere un drink in uno speakeasy. Oggi con questo termine si intende un locale che assomiglia molto ad un club. Un locale non “pubblicizzato”, esclusivo, a cui solitamente si arriva perché si conosce qualcuno che lo conosce, con una atmosfera solitamente ovattata spessa arricchita da una particolare selezioni di vini o di liquori. L’accezione “cool” che oggi ha assunto questa tipologia di locali, non ha mai fatto particolare segreto della sua origine, riconducibile ad un’esigenza di segretezza per motivi essenzialmente legati all’illegalità. Nel 1800 nel pieno dell’austera Inghilterra vittoriana, i locali di ritrovo nei quali venivano somministrati alcolici erano visti (in buona parte a ragione), come luoghi di aggregazione per gli strati più bassi della popolazione, e quindi fucine di attività illegali, malavita e gioco d’azzardo. Questo, unito all’esigenza di limitare il crescente accentramento della produzione di alcolici nelle mani di pochi e sempre più ricchi e potenti soggetti, portò il governo inglese al rilascio di licenze per la somministrazione di alcolici, concesse solo a fronte di una pesante tassazione.
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Come sempre avviene in questi casi, tanto più si stringe il pugno e tanto più di ciò che tenti di trattenere, scivolerà tra le dita. Fiorirono quindi in questo periodo una vasta serie di locali illegali con accesso “segreto” destinati alla somministrazione di alcolici senza licenza. La prima volta che il termine “speakeasy” compare pubblicamente è in testata di un giornale dell’epoca nel quale veniva riportato un articolo di denuncia sull’incipiente attività di commercio illegale di alcolici nella città di Londra. Sembra che ”speakeasy” fosse il modo slang del tempo per definire un modo di parlare “dolce”, quindi un sussurro. Il sussurro con il quale bisognava riportare una parola segreta o il nome di una persona di fiducia del proprietario, una volta bussato alla insospettabile porta del locale segreto. Come spesso è avvenuto per molte tradizioni inglesi poi passate al nuovo mondo insieme agli immigrati, il concetto di speakeasy ritorna in auge negli Stati Uniti nell’epoca del proibizionismo, durante la quale ebbero un vero e proprio boom. Si calcola che la sola città di New York arrivasse a contare fino a 100.000 speakasy negli anni ’20. I più iconici tra questi sono ancora in attività in forma ovviamente legale e pubblica, come il 21 Club. Può apparire come un fenomeno folcloristico e curioso, retaggio di un’epoca passata che ormai poco ha a che fare le nostre abitudini moderne, improntate sul liberismo. Gli Speakeasy però hanno portato con loro un’eredità sulla nostra società, che si riflette su ciò che siamo, molto più grande di quanto potresti immaginare. La prima e forse più ludica tra queste, ci rimanda alla nascita dei Cocktails che avevo già trattato nella Creative Story n.59. La miscela di frutta fermentata e successivamente di distillati e alcolici con altri ingredienti è molto antica ed è difficile attribuire a questa abitudine una data certa. Negli speakeasy inglesi del 1800 però indubbiamente i Cocktails hanno subito un notevole impulso ed è assodato che molto dei gradi classici codificati dalla I.B.A. circa un secolo più tardi, siano nati proprio in uno speakeasy. Il motivo è molto semplice ed intuitivo: la segretezza nella trattazione di alcolici imponeva l’utilizzo di canali non ufficiali per i rifornimenti, che molto spesso avevano per oggetto produzioni altrettanto illegali e di dubbia fonte. In molti casi il risultato erano superalcolici poco gradevoli, molto forti e agri, se non addirittura pericolosi. Sembra quindi che i Cocktails fossero un ingegnoso quanto colorato e divertente stratagemma per coprire il cattivo sapore
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di un prodotto pessimo. Strettamente correlata agli odierni cocktails è un altro protagonista dei nostri aperitivi: il fingerfood. Molto diffusa nei locali di ogni epoca è l’abitudine vista in diverse Creative Stories di accompagnare agli alcolici del cibo che consentisse di assorbirne meglio gli effetti e poter prolungare la bevuta. Lo avevamo visto ad esempio per le Tapas Spagnole nella Creative Story n.60 o tornando in America per le ostriche della n.15. Il carattere essenziale degli speakeasy era però la segretezza. Molti locali erano ad esempio dotati di banconi attrezzati con botole a scatto su cui poggiare le bottiglie, con la possibilità di farle precipitare in una botola con un fondo di pietre per distruggere le prove in caso di incursione delle forze dell’ordine. In queste condizioni, piccoli canapè veloci da preparare e da mangiare con le sole mani, senza piatti o posate e tutti diversi, per poter avere scorte di cibo diversificate in “poco ma di tutto” e che non destassero sospetti, erano l’ideale. Sembra che l’assortimento tipico del nostro modo attuale di fare aperitivo con cocktail a bancone, derivasse proprio da questo, vivendo una storia parallela a quella del tapear spagnolo o dei cicchetti italiani ad esempio. Gli speakeasy hanno avuto inoltre insospettabili influenze anche sul nostro modo attuale di vivere la società. All’epoca del proibizionismo ad esempio non era concepibile che una donna bevesse in pubblico. Negli speakeasy però l’intrattenimento femminile era un’esigenza, tanto come quella del cibo in accompagnamento agli alcolici. Inizialmente si trattava di intrattenitrici dalla dubbia moralità ma con il tempo ebbero indiscutibilmente il ruolo di sdoganare la presenza delle donne tra i tavoli o addirittura al bancone ed in seguito di conseguenza, anche come clienti, modificando per sempre il nostro concetto di “serata al bar” spostandola definitivamente verso i canoni moderni. Tra tanti meriti, gli speakeasy modificarono per sempre anche un altro elemento presente nella nostra società di allora e in buona parte anche attuale, decisamente meno etico. Per lo stesso motivo visto per i cocktails, le forniture di alcolici dovevano essere illegali quanto la loro somministrazione per riuscire a garantire un canale di segretezza sufficientemente coperto. Questo ruolo fu fondamentale per lo sviluppo e la diffusione della mafia italoamericana. Se vuoi avere un quadro di quel periodo, lo puoi trovare ben rappresentato nel film “Gli Intoccabili” con Robert De Niro, Kevin Costner e Sean Connery e che narra la storia di come fu catturato il famoso Al Capone, che in quel periodo aveva letteralmente in mano la città di Chicago gestendo l’importazione di contrabbando del whisky canadese e la sua distribuzione nei locali attraverso metodi più o meno coercitivi. È proprio nel periodo del proibizionismo che molti dei gangster americani degli anni ’30 sono riusciti ad acquisire il loro potere economico, sociale e politico e famiglie come i Maranzano, i Masseria, i Costello o i Genovese non sarebbero riusciti ad essere ciò che sono stati senza l’esistenza degli speakeasy. Forse il solo cruccio che ci verrà in mente quando sorseggeremo un drink tra le luci soffuse e le calde atmosfere ovattate di uno degli attuali club che portano questo nome.
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Il cibo surgelato è colpa dei tacchini Sono fermamente convinto che solo chi abbia una generazione ascrivibile negli “anta” sia in grado di capire davvero la natura dell’evoluzione (purtroppo in molti casi, involuzione) che il nostro rapporto con la cottura del cibo abbia subito nel corso dell’ultimo secolo. Abbiamo vissuto i nostri nonni che preparavano tutto in casa, che avevano il proprio orto ed i propri animali e che avrebbero considerato un’eresia l’ipotesi di acquistare un’arancia a 3 Euro solo perché già sbucciata e sgranata. Fossero con noi oggi ci prenderebbero per le orecchie chiedendoci “ma cos’è, non sei capace di sbucciartelo da solo??”. Abbiamo vissuto con i nostri genitori che ancora possedevano ben saldi quei valori ma conservandoli solo per le domeniche e le feste comandate. Poi ci siamo noi, che siamo un “di tutto un po’”, che amiamo e rimpiangiamo alla follia il risultato di quegli sforzi ma che molto più raramente abbiamo la sbatta di volerli perseguire. Ed infine ci sono i nostri figli che di quell’epoca non hanno vissuto nulla e che se gliela racconti ti guardano come se fossi matto. Rispetto a quando ero piccolo, gli immensi spazi che ricordo destinati ai banchi serviti del macellaio e del salumiere sono stati progressivamente sostituiti da murali refrigerati per i cibi già precotti o pronto cuoci confezionati, freschi o surgelati. Ma come siamo arrivati a tutto questo e perché? L’opinione maggiormente condivisa riconduce alla fase della serie di guerre con conseguente chiamata alle armi che comprese la II Guerra Mondiale e quella in Korea. Un periodo complicato che ha portato necessariamente il ruolo della donna al di fuori dello stretto nucleo delle mura domestiche dovendo sopperire all’assenza maschile. Questo avrebbe portato la necessità tempi sempre più contingenti e l’esigenza di pasti con tempi di preparazione più rapidi. Potremmo discutere per ore su quanto questa ricostruzione possa apparire forse un po’ semplicistica e di come più probabilmente quest’esigenza sia arrivata come evoluzione spontanea della società, frutto di una serie di cambiamenti etico-sociali e tecnologici in atto fin da inizio secolo. Resta il fatto che quel particolare momento storico è stato il catalizzatore. In particolare c’è stata una scintilla che ha segnato un prima ed un dopo: in una cultura come quella americana, cosi volutamente ammantata di misticismo, persino un fenomeno di cosi vasta scala e su un arco temporale cosi lungo, ha un inquadramento preciso: agosto 1953. Ma prima di arrivarci facciamo un passo indietro: la W.L. Maxson Co. di New York aveva già ideato alcuni prima, nel 1944 una tecnologia rivoluzionaria molto vicina a quella che oggi chiamiamo “abbattimento industriale”, che permetteva di congelare del cibo già cotto, in brevissimo tempo, in modo da poterlo rigenerare velocemente e con pochissima perdita qualitativa del risultato al momento del consumo. Il destinatario iniziale del progetto della Maxon era la marina americana, che aveva la pos231
sibilità di stoccare dei pasti già belli e impiattati su dei vassoi da servizio in metallo da self service per poi rinvenirli in pochi minuti in semplici forni a convezione. Questo sistema non prese però mai piede davvero, comportando l’esigenza di grandi spazi di stoccaggio surgelato, limitando questa possibilità solo alle navigazioni di corto raggio. Il vero business si rivelò essere invece quello con le compagnie aeree per la somministrazione di pasti caldi durante il volo, una cosa rivoluzionaria che trasformava gli aerei in veri e propri ristoranti volanti, laddove fino a quel momento era possibile solo servire ai passeggeri bibite e panini freddi. Ed è qui che entra in gioco il protagonista della nostra storia: Gerry Thomas, un dirigente della Swanson. La Swanson era un’azienda nata nel 1899 ad Omaha, Nebraska e specializzata in distribuzione di prodotti agricoli come burro, uova e latte, ai quali si aggiunsero negli anni anche alcune tipologie di carne, principalmente pollo e tacchino. Nel 1953 Thomas si imbarcò a Pittsburgh su di un volo Pan Am, assillato da un grande problema da risolvere urgentemente: in occasione della Festa del Ringraziamento appena trascorsa, le previsioni di vendita erano state completamente sbagliate. I consumi di quell’anno erano stati disastrosi e la Swanson aveva un’enorme quantità di carne di tacchino invenduta che molto presto avrebbe raggiunto i limiti della deperibilità. Durante il volo, Thomas venne improvvisamente distolto dai propri pensieri quando gli venne servita una grande novità introdotta dalla Pan Am in via sperimentale: un pasto caldo formato da un piatto unico, servito su un vassoio monoporzione per ciascuno dei passeggeri. Inutile dire che la folgorazione fu immediata. Thomas chiese ad una hostess di poter prendere in prestito uno dei vassoi e appena atterrato propose la propria idea ai proprietari della Swanson: creare dei pasti a base di tacchino precotto e preaffettato da vendere alla massaie, consentendogli di preparare un pasto per tutta la famiglia in pochi minuti e senza sporcare nulla. Sul mercato venne lanciato un prodotto che ha segnato un “prima” e un “dopo”, per giunta formulato in modo semplicemente geniale. Thomas fece realizzare dei vassoi di alluminio usa e getta a tre scomparti, destinati al tacchino con salsa gravy e due contorni come piselli e mashed potatoes. La confezione aveva l’aspetto di una TV degli anni ’50 e lanciava un messaggio molto chiaro: prepara la tua cena in pochi minuti e mangiala davanti alla televisione sul comodo vassoio di cottura, guardando il tuo programma preferito. Il tutto ad un irresistibile prezzo di 98 centesimi a porzione. Era nato ufficialmente il TV Dinner. La Swanson vendette 5.000 confezioni nelle prime settimane di lancio, per raggiungere le 10.000.000 dopo il primo anno e stabilizzarsi a 13.000.000 al secondo. Nel giro di soli due anni, la Swanson era diventata un’impero da 4000 dipendenti e 20 linee di produzione e venne venduta nell’aprile 1956 alla Campbel Soup Company. Da questo punto in poi il settore del cibo surgelato prese letteralmente il volo, diventando un fenomeno planetario ma la Swanson non ebbe ugual fortuna. Il suo successo venne immediatamente copiato dalla Quaker, con il suo FrigiDinner, più o meno lo stesso prodotto ma a base di pollo fritto al posto del tacchino, e da molte altre aziende attratte da un mercato completamente nuovo ed in piena esplosione. 232
Dopo un decennio abbondante nel quale si difese molto bene dall’aggressione della concorrenza, anche grazie ad un’efficace campagna comunicativa legata alla sponsorizzazione di famosi show televisivi che naturalmente, richiamano la funzione d’uso del TV Dinner, e ad un’espansione della scelta dei piatti proposti ad altri classici familiari degli anni ’50, negli anni ’70 inizia per la Swanson una fase di profonda difficoltà. Il mercato del cibo surgelato stava evolvendo in fretta e i consumatori erano bombardati ogni giorno da un’offerta sempre più sofisticata, che comprendeva oltre a vari piatti internazionali, cibi sempre più elaborati o in alcuni casi maggiormente attenti ai valori nutrizionali. In tutta risposta, la Swanson attuò una politica conservatrice suicida, rifiutandosi ostinatamente di mettere mano alle proprie proposte standard. Ma ancora peggiore fu la scelta di non prendere in considerazione un’innovazione tecnologica come il forno a microonde, continuando a ad impostare i propri piatti unicamente per la cottura in forno tradizionale. A fronte della conseguente e preoccupante crisi di vendite che ne seguì, la Campbell decise inizialmente di rivolgere maggiormente il marchio al mercato asiatico, attraverso prodotti a base di pollo e brodo di pollo surgelati per poi arrivare nei primi anni 2000 a scorporare la produzione surgelati nella azienda indipendente Pinnacle Foods, cui concedette in utilizzo il marchio Swanson per 8 anni. Concessione che però la Pinnacle decise di non rinnovare al 233
termine di questo periodo, creando il proprio marchio Hungry Man nell’ottica di una successiva cessione al concorrente di Campbell, Conagra Brands, qualche anno più tardi Ritornato il marchio alla base, Campbell decise infine di conservare la sola linea Swanson di prodotti per la colazione cambiandogli nome nel tuttora esistente Uncle Jemima, al fine di svecchiare la propria proposta, sancendo definitivamente la fine di un pezzo di storia americana, oggi dimenticato ma capace attraverso un’intuizione geniale, di generare dal niente un mercato da oltre 30 miliardi di dollari nei soli Stati Uniti.
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CREATIVE STORY N° 80
L’abitudine britannica della “dozzina del fornaio” Noi non ci rendiamo ne ci renderemo mai conto fino in fondo di quanto la matrice americana dei film e dei telefilm abbia modificato le nostre abitudini quotidiane, le nostre aspettative e le nostre ambizioni, specie se parliamo di food. E non parlo solo del cibo in se stesso ma anche di tutto ciò che ci ruota intorno. Nel paese della pasta e della pizza, ricordo con molta chiarezza gli anni dei “paninari” in cui da ragazzo, vidi arrivare per la prima volta gli hamburger nella somministrazione attraverso il mitico marchio Burghy, poi ceduto in massa alcuni anni più tardi a McDonalds in occasione del suo sbarco in Italia. Prima ancora che aprisse per la prima volta l’ingresso della sua prima filiale a Milano, tutti sapevamo già cosa fosse un hamburger e come doveva essere: il bun morbido con in mezzo il patty di manzo, la salsa e la fetta di formaggio filante, le patatine a fianco e la bibita extralarge con cannuccia. Era il mito del “Diner” in stile “fifties” che avevamo visto in mille film, da “Grease” in poi. Persino un’abitudine “aberrante” per i nostri gusti come bere un milkshake mangiando il panino, riusciva a diventare una cosa normale. Per lo stesso motivo, contro ogni previsione e polemica sull’introduzione di un marchio americano nella patria dell’Espresso, Starbucks non sta incontrando alcuna resistenza alla sua espansione in Italia e anzi, è in costante crescita. Perché avevamo già nella testa il mito del “coffee to go”, bevendo in relax una bibita-caffè solitamente golosa, magari mentre leggiamo un libro o navighiamo, esattamente l’antipode dell’espresso bevuto in piedi e di corsa al bancone perché devi fare spazio a chi si accalca dietro di te. Per quanto questo sia vero, ci sono cose a cui non ci abitueremo mai a causa di una barriera di conversione troppo elevata: non arriveremo mai a misurare la farina in once o i liquidi in cups, per capirci. Eppure c’è una misura concettualmente molto “americana” insospettabilmente presente anche da noi, sebbene non ci balzi cosi evidente alla vista: la dozzina. L’esempio più evidente sono le uova, in confezione da 12 (sebbene esistano anche quelle da 10) o divisa in due sottoconfezioni da 6 unite tra loro. Ma la stessa cosa potrebbe valere per le rose, vendute a dozzine dai fiorai o più banalmente le ore, conteggiare in due mezze giornate da 12. Ma il discorso potrebbe essere ulteriormente esteso: il termine “dozzinale” da noi sta ad indicare qualcosa di qualità mediocre, tanto che potrebbe essere venduto a blocchi di “12 alla volta”. Questo può farti capire in modo immediato che per quanto riguarda la dozzina, al contrario di misure come il miglio o il gallone, legati all’antica matrice britannica degli States, siamo stati noi ad averla regalata a loro e non il contrario. Il cosiddetto Sistema Metrico Decimale ormai ci appare naturale eppure il metro è una misura relativamente giovane, codificata solo nel 1889 e definito nella misura attuale solo nel 237
1960! La dozzina al contrario, ha radici antichissime riconducibili fino alla Mesopotamia e agli antichi egizi. La ragione è semplice e per molti versi in comune con il senso ispiratore del sistema metrico: il commercio. In quest’ultimo gli insiemi di misura sono a gruppi di 10 perché 10 sono le dita di una mano, anticamente utili a contare i prodotti in un baratto o il denaro in una vendita più evoluta. Allo stesso modo una mano che contiene sul palmo dei piccoli oggetti usando il pollice per mantenerli in equilibrio, lascia libere le altre quattro dita ed in particolare le tre falangi di ciascuno per un totale di 12, utili per i conteggi. Mentre il sistema metrico è però un criterio codificato in maniera ufficiale e studiato a tavolino per costituire un forma di misurazione incontrovertibile e comune a tutti i paesi che decidono di adottarlo, il metodo di misurazione britannico ha radici più volgari ed empiriche, che presentano quindi qualche carenza nella quale la dozzina è andata ad inserirsi in maniera molto più radicata rispetto che da noi. Se sei avvezzo all’utilizzo pratico della dozzina, avendo magari vissuto in America o anche in Inghilterra potresti esserti imbattuto in quella che loro chiamano la “Baker’s Dozen”, ovvero la “dozzina del fornaio”. In altre parole, quando ordini una dozzina di alcuni tipi di prodotti (molto diffusa ad esempio è nell’acquisto al bancone delle donuts), esiste la curiosa legge non scritta di aggiungerne un tredicesimo pezzo. Le ragioni di un’abitudine tanto bizzarra risalgono all’Inghilterra di re Enrico III del 1266. In quegli anni e più ingenerale in tutto il Medioevo come nei secoli successivi, il pane costituiva un prodotto di primaria importanza per il sostentamento dei cittadini e quello del panettiere era un lavoro importante e socialmente molto ben considerato. I panettieri erano riuniti nella corporazione della “Worshipful Company of Bakers” fin dal 1100 proprio per tutelare gli interessi di categoria e proteggere il proprio status muovendosi in un fronte comune. Gli ingenti costi sostenuti dal re a discapito della popolazione per il sostentamento della lunga guerra contro la Francia e per le successive Crociate in Terra Santa, con conseguente profonda instabilità politica interna al regno, misero però in pesante difficoltà l’economia inglese. Ridotti alla fame, sempre più panettieri stavano adottando comportamenti in contrasto con le politiche di cartello stabilite nell’associazione, applicando una politica di prezzi costantemente più aggressiva per aumentare le vendite. Il sovrano comprese in fretta come una guerra dei prezzi al ribasso avrebbe inevitabilmente portato in un’ulteriore spirale negativa l’economia del regno e decise pertanto di emanare quello che rimase celebre come l’”Assize of Bread and Ale”, che imponeva un prezzo minimo alla dozzina di pagnotte vendute dal panettiere e a quello dei barili e delle pinte di birra delle osterie, con sanzioni e pene molto pesanti per i trasgressori, che potevano arrivare fino alla tortura e alla gogna pubblica. I panettieri però adottavano misure molto diverse per le proprie pagnotte e questo si rivelò un metodo eccellente per eludere facilmente le nuove imposizioni impartite dal re. Il quale decise allora un correttivo, introducendo l’obbligo del prezzo minimo commisurato alla libbra di peso, anziché alla quantità in pezzi. La maggior parte dei panettieri però non possedeva affatto bilance, uno strumento costoso 238
all’epoca. Lo stratagemma ideato fu quindi quello di “tararsi” in termini di peso in relazione alla pezzatura standard delle proprie pagnotte per poi aggiungere al totale uno scarto di lavorazione “omaggio” come una pagnotta mal lievitata o mal cotta, per essere certi di superare il peso minimo imposto. L’abitudine conosciuta sotto il nome di “dozzina del fornaio” è rimasta come forma di cortesia non scritta, riconosciuta al cliente che raggiunge l’ordine di una dozzina, oggi un quantitativo considerevole e non più comune come un tempo. La dozzina in se stessa invece resiste come anacronistico retaggio di un tempo che non esiste più ma che ha l’indubbio vantaggio di regalarci ancora 13 ciambelle al prezzo di 12.
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THE
END
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