the trip magazine n°12

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the trip N째12 summer 2012 verso la fine del mondo Filippine / Messico New York / Bagnoli Bruno D'Amicis thetripmag.com




Tea e Luisa si conoscono dai tempi di Itaca. Quando il giovane Ulisse, senza pinne e boccaglio, scendeva in apnea con il coltello tra i denti per raccogliere qualche loro sorella ed offrire alla sua Penelope una delle prelibatezze della Sicilia. Tea e Luisa ne hanno viste e sentite di tutti i colori. Da quando i romani con le ancore gettate a mare e le vele riempite di vento assalirono e sconfissero i cartaginesi durante la Prima Guerra Punica, quando il mare si tinse di rosso e la spiaggia di Favignana - oggi assalita da frotte di turisti - prese il nome di Cala Rossa. Erano lì, quando il primo pescatore entrando in una delle grotte naturali di Marettimo pensò di vedere un cammello e per primo battezzò quella che nel tempo è diventata riserva naturale. La Cattedrale (famosa per le immersioni subacquee) stava ancora formando le infinite stalattiti e stalagmiti che costellano le pareti della grotta. Tea e Luisa hanno visto i fenici arrivare e gli arabi tornare. Hanno sconfitto Barbarossa e cacciato i turchi, hanno accolto i Mille e sfamato i soldati di due guerre mondiali. Hanno parlato in così tante lingue e idiomi che oggi fanno fatica anche a distinguere il trapanese dal marsalese. Nell’isola più ad est dell’arcipelago delle Egadi, Tea e Luisa hanno preso una decisione. A dir poco drastica. Abbandoneranno il loro scoglio per buttarsi in mare aperto. Nei secoli coloro che passavano per quel triangolino di Mediterraneo, dal pirata Khair-Ad-Din Signore di Tunisi fino a Ferdinando I che nel 1844 fece chiudere la cisterna scavata ai piedi del Castello di Punta di Troia, tutti, ma proprio tutti, avevano sempre rispettato le Regine dello scoglio, una stirpe che ancora oggi conta 850 specie viventi di cui venticinque solo in Italia. Paracentrotus lividus è il loro nome. Della famiglia degli Echinidae. Ricci di mare.

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È una decisione sofferta, ma Tea e Luisa, femmine fino alla punta dell’ultimo aculeo, non possono sopportare il ripetersi dello scempio dell’estate passata. Quello strano rumore, l’acqua che diventa torbida. Uno strappo. E un altro ancora. C’è una corrente assassina che trascina via tutto quello che trova sulla roccia. Alghe, molluschi, granchi, ricci, pomodori e datteri di mare, crostacei e simili. Un intero ecosistema spazzato via. Tea e Luisa erano lì, hanno visto questa specie di aspirapolvere marino che risucchiava anche le conchiglie di Marettimo. Loro sanno. Ma cosa possono farci? L’unica soluzione è il salto nel vuoto. Eppure per un attimo ci avevano creduto. In tutti quegli anni passati sott’acqua insieme, in quello che sapevano essere un piccolo miracolo nascosto nelle acque della Sicilia, avevano sperato di scamparla. Dall’inquinamento, dalla pesca di frodo, dai turisti. Eppure loro, che avevano sconfitto i cartaginesi, capitolavano davanti ad un Folletto. Avevano creduto che con quel minimo di rispetto che si usava in un'isola di 700 abitanti ci si potesse riempire il mondo. Non pensavano fosse solo un’idea, lontana mille miglia dalla realtà. Non pensavano che anche la loro distante isola fosse diventata alla fine il pied a terre dell’inciviltà. Ferite nell’orgoglio Tea e Luisa si guardano, si fanno coraggio e dando un ultimo sguardo a quel luogo felice che già ripopola la loro futura mente, si lasciano andare nel blu. Negli ultimi anni la pesca illegale dei ricci di mare nelle isole Egadi (che comprendono le isole di Favignana, Marettimo e Levanzo) sta non solo danneggiando l’economia locale delle isole ma sta provocando danni irreversibili all’ecosistema locale. Valentina Diaconale

"Mumble" di Valentina Gruer (Acquaforte/Acquerello)

l’isola che c’è


sommario

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04 eventi dal mondo

editoriale

Bruno D’Amicis

le Filippine

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Andrea Papi

30 capsula mundi

aurora boreale

verso la fine del mondo

Messico

58 Bagnoli vs. Ruhr

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60 Italia / chi ci crede ancora

l’isola di Lanzarote

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50 Giordania

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14 New York

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68 Atacama

70 Edward James

redazione the trip N°12 summer 2012 direttore responsabile Valentina Diaconale valentinadiaconale@gmail.com direttore editoriale Lorenzo Verrecchia lorenzoverrecchia@thetripmag.com direttore artistico Andrea Bennati info@andreabennati.com responsabile redazione Francesca Rosati redazione Claudia Bena, Simone Bracci, Anna Mastrolitto e Paolo Valoppi photo editor Martina Cristofani responsabile web Veronica Gabbuti coordinatore tecnico Damiano Mencarelli responsabile marketing Luca Salice lucasalice@thetripmag.com editore the trip s.r.l. via Apollo Pizio 13 - Roma

centro stampa Pignani printing via degli Imprenditori snc Zona industriale Settevene – Nepi (VT) sede legale via Gasperina 188 - Roma sede redazione via Apollo Pizio 13 - Roma Registrazione Tribunale di Roma n. 329 del 6 ottobre 2009 hanno collaborato capsulamundi.it, Stefano Feraco, Fabio Ferraro, Gaia Litrico, Valentina Piccinni, Alexandra Rosati.

foto Claudio Cristofani Bruno D’Amicis – brunodamicis.com Cedric Favero – cedricfavero.com Alberto Gajano – flick: albgaja Francesca Grillo Francesco Iervolino Alessia Laudoni – alessialaudoni.com Andrea Papi Paula Soler Moya - flick: paula soler-moya La foto in copertina è di Paolo Messina L’illustrazione dell’editoriale è di Valentina Gruer society6.com/ValentinaGruer

contatti info@thetripmag.com thetripmag.com

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EVENTI DAL MONDO a cura di Francesca Rosati

SEGNALACI ANCHE IL TUO

ROMA (ITALIA) FINO AL 14 OTTOBRE “ORTI E GIARDINI ” Un tuffo nel passato, negli antichi giardini sul Palatino. Un viaggio tra rose, cotogne, viburni, pervinche, petunie e verbene, tra le piante e i fiori che venivano raccolti prima in ogni angolo dell’Impero da Augusto e dai suoi successori, poi in America dai Farnese, e infine in Oriente e in Sud Africa dall’archeologo Giacomo Boni che restaurò i giardini nell’Ottocento. Lo stesso biglietto (12 €) consente l’accesso al Colosseo e al Foro romano.

GENK (PAESI BASSI) 2 GIUGNO – 30 SETTEMBRE “MANIFESTA 9” Nata nei primi anni Novanta con la fine della Guerra Fredda, è l’unica biennale di arte contemporanea itinerante e, insieme a quella di Venezia, è tra gli eventi artistici più importanti d’Europa. Quest’anno si svolge nell’ex fabbrica di carbone Waterschei, luogo suggestivo e imponente, e per la prima volta non presenta solo opere contemporanee ma anche storiche, sfruttando la location in modo sorprendente e innovativo. manifesta9.org

KULTURKOSMOS (GERMANIA) 28 GIUGNO – 1 LUGLIO “FUSION FESTIVAL” Una società parallela lontana dalla realtà di tutti i giorni prende vita nel Mecklenburg, nel Nord Est della Germania. Quattro giorni di musica, teatro, cinema, performance e installazioni artistiche. Ma soprattutto quattro giorni di libertà individuali, senza limiti e pregiudizi, per ricordare che la vita non è solo lavoro, stress e consumismo sfrenato. Iniziate a organizzarvi per il festival dell’anno prossimo, perché questo è sold out già da dicembre. fusion-festival.de

LONDRA (REGNO UNITO) 6 – 7 LUGLIO “BLOC” Bloc cambia casa e si trasferisce nei London Pleasure Gardens, nei Royal Victoria Docks, vicini all’acqua e sovrastati da costruzioni post-industriali. Ma la vera sorpresa è lo stage galleggiante sul M.S.S. Stubnitz, un’ex-nave militare tedesca comprata da un collettivo artistico e trasformata in un club che viaggia nei mari dell’Europa del Nord. E la line up prevede il meglio dell’elettronica più innovativa e molto altro. blocweekend.com

scrivi a info@thetripmag.com

ROMA (ITALIA) 7 GIUGNO – 2 AGOSTO “ROCK IN ROMA” Tra le diverse proposte musicali che negli ultimi anni sono nate nella Capitale, spicca “Rock in Roma”. La programmazione è ampia e intensa, e questa edizione prende quasi due mesi del calendario. In soli tre anni il festival si è affermato a livello nazionale e internazionale come uno dei maggiori eventi rock, grazie alla partecipazione dei grandissimi del momento. Due nomi a caso previsti per quest’anno? The Cure e Radiohead. rockinroma.com

Dita Von Teese

TRAVELLING AROUND MUSIC SUMMER JAMBOREE SENIGALLIA foto di Alessia Laudoni

SEZZADIO (ITALIA) 19 – 22 LUGLIO “BLISS BEAT FESTIVAL” La magia del Kirtan, la musica sacra devozionale, suonata dai più famosi artisti contemporanei fa da sottofondo a seminari, conferenze e workshop di yoga con gli insegnanti di maggior rilievo, passando dalla bellezza della musica alla pace del silenzio interiore. Tutto questo si svolge nella splendida cornice di Cascina Bellaria, una cascina tipica piemontese dell'800 tra campagne e colline, per avvicinarsi ai ritmi della natura. blissbeatfestival.com

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SWEUTSCHLAND (SVEZIA) 2 – 5 AGOSTO “SECRET ISLAND NATION” Il SIN è un festival che si svolge in un’isola idilliaca e solitaria nell’arcipelago della Svezia occidentale. Per quattro giorni si crea una vera e propria nazione utopica che vive secondo sue regole. Tutto viene costruito da zero e completato da un’elettronica raffinata eseguita da trenta artisti internazionali. L’unico punto negativo è il tempo, che potrebbe regalare delle sorprese. Non fatevi intimorire ma aspettatevi l’inaspettato. secret-island.eu

NORTHAMPTONSHIRE (REGNO UNITO) 23 – 27 AGOSTO “SHAMBALA FESTIVAL” Molto più di una festa monumentale, Shambala è uno spazio dove giocare, reinventarsi e rigenerarsi per poi tornare al mondo reale. Il tema di quest’anno sono i tempi che cambiano, la rivoluzione tecnologica, lo sgretolarsi di questo sistema economico inadeguato e amorale, il crollo di alcuni dittatori e le masse che urlano per essere sentite. Tanta speranza e anche musica, teatro, cinema, circo, workshop di greco antico e di sostenibilità ambientale. shambalafestival.org

Dal 4 al 12 agosto musiche, macchine, costumi e strambe acconciature trasformano Senigallia in un set cinematografico degli anni Cinquanta. Ma non si può parlare del Summer Jamboree senza averlo vissuto, perché il Jamboree è più di un festival, è come un film. Ho chiesto a Romina Diorci, organizzatrice di eventi e festival-goer che conosce bene questo mondo, di raccontarci la sua esperienza. Come descriveresti la tua esperienza al Jamboree? È considerato uno dei migliori festival del genere rockabilly nel mondo. Senigallia è meravigliosa, si ritorna ai favolosi anni ‘50:

ristoranti, alberghi, negozi, tutti partecipano all'evento. Un’esperienza da vivere grazie anche ad un'organizzazione favolosa considerando che la maggior parte degli eventi sono gratuiti. La migliore performance che hai visto al festival? Performance burlesque: ovviamente Dita Von Theese. Performance live: Wanda Jackson, Stray Cats. Cosa consiglieresti di mettere in valigia prima di partire per il Summer Jamboree? Un costume all'Ester Williams, un abitino vintage e se non si ha un taglio perfetto una bella parrucca! Per gli appassionati del genere quale altro festival consiglieresti in giro per il mondo?

A metà giugno in Gran Bretagna (Hastings) c'è il Rockabilly Rave, piccolo ma molto carino. Sempre a giugno, ma in Spagna (Calella): Screaming festival. In autunno a Londra: Rythm Riot London. Oltre oceano a marzo: Viva Las Vegas, il primo del genere. Romina, quale sarà il prossimo festival a cui parteciperai? Surfer Joe a Livorno, per gli appassionati di musica surf, dove trovi le origini del rock n’roll. Il padrino della surf music è Dick Dale con il suo stile chitarristico aggressivo ed energico vicino allo stile di vita dei surfer anni ‘50.

Anna Mastrolitto travellingaroundmusic.com


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intervista

Bruno D'Amicis brunodamicis.com

silhouette di un camoscio appenninico nel suo ambiente

fotografo di natura di Paolo Valoppi foto di Bruno D’Amicis Bruno D’Amicis vive e lavora all’ombra delle montagne d’Abruzzo, anche se viaggia spesso all’estero per i suoi progetti. Laureato in Scienze Biologiche e fotografo naturalista professionista dal 2004, lo spiccato interesse per i temi della conservazione degli ambienti naturali e della biodiversità è la sua caratteristica principale. Quando è iniziata la tua esperienza con la fotografia naturalistica e qual è stato il percorso che ti ha portato a questo tipo di fotografia? Il mio rapporto con la fotografia è nato nel 1995, quan-

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do ho letteralmente rubato la reflex a mio padre per i miei primi scatti. Avevo sedici anni e un grande interesse per l’ornitologia: il mio intento, quindi, era quello di documentare le osservazioni di uccelli che sino ad allora avevo fatto solo con il binocolo. Piano piano, attraverso uno studio che definirei ossessivo delle immagini dei grandi fotografi, mi resi conto dell’immenso potere che queste potevano avere, e iniziai a cercare un modo meno documentativo ma più intimo di rappresentare la natura. Contemporaneamente iniziai a esplorare con assiduità le montagne d’Abruzzo, dove si trovano le radici della mia famiglia, facendo

raganella italiana in canto

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intervista

i primi emozionanti incontri con orsi, lupi e camosci. Questo insolito hobby è così divenuto una passione divorante e, dopo una laurea in Scienze Biologiche, decisi che volevo farne la mia professione. Era il 2004 e mi ero appena trasferito a Berlino, dove sono stati cruciali l’atmosfera effervescente e internazionale della città e l’incontro con diversi professionisti tedeschi per imparare i veri e propri trucchi del mestiere, e rendere così possibile la realizzazione del mio sogno. Imparai a lavorare per storie e progetti piuttosto che per singole immagini, e iniziai timidamente a seguire le mie idee per i primi lavori a lungo termine. Dopo un progetto durato tre anni sui Monti Tatra in Slovacchia, dove ho passato oltre duecento giorni sul campo per fotografare orsi e altri animali dal vero, ho iniziato a vedere il mio nome girare e a entrare in collaborazione con alcune delle più importanti riviste internazionali del settore. Questi primi contatti all’estero mi hanno poi permesso di rientrare a vivere in Italia, in quell’Abruzzo che ha nutrito la mia passione. In un’altra intervista definisci l’essere fotografo ambientalista più uno stile di vita che una professione. Quali sono le caratteristiche fondamentali? Per riuscire a superare tutte le difficoltà che comporta questo mestiere, io credo si debba avere innanzitutto una passione incontrollabile, che non ti lascia dormire, per capirci. Bisogna essere disposti a grandi sacrifici. Ci si sveglia prestissimo e a volte non si ritorna a casa che a notte fonda. Pazienza e perseveranza sono messe a dura prova. Si dorme più spesso in sacco a pelo, dopo aver mangiato solo un panino per cena, che a casa, nel proprio letto. E questo, talvolta, può andare avanti per settimane. È chiaro che sono poche le persone in grado di restarti vicino, e sono davvero grato alla mia compagna per non avermi ancora abbandonato. Ma non conosco altro modo per ritrarre la natura nella sua essenza più vera, se non condividendo con i miei soggetti le stesse condizioni e adeguandomi alle loro abitudini. Quanto lavoro e quanto studio c’è dietro ai viaggi e ai progetti che intraprendi? Come fotografo naturalista a tempo pieno, negli anni ho fatto la scelta ben precisa di voler fotografare esclusivamente dal vero (cioè senza lavorare con animali tenuti in condizioni di cattività) e principalmente le specie animali più rare ed elusive o meno note al pubblico, all’Estero come in Italia, e dedicarmi in minore misura alla fotografia di fiori, dettagli o paesaggi. Oggi riuscire a fotografare in paesi come l’Italia, in cui la natura è stata tartassata per secoli, specie rare come l’orso, il lupo o l’aquila reale, è molto più difficile che farlo in Canada o in Alaska, e comporta un lavoro dedicato e delle strategie particolari. La mia professione impone una certa continuità di risultati e non permette di lasciare nulla al caso. “La fortuna

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aiuta la mente preparata” diceva Pasteur, e io sono assolutamente d’accordo. Per fotografare un animale rimani appostato per ore o addirittura per giorni prima di riuscire a immortalarlo. Ci sono degli episodi particolari legati alla tua esperienza di cui ti ricordi? Di tutte le esperienze avute in natura in questi anni di campo, una delle più intense e che mi piace qui ricordare è stata quando sono riuscito a fotografare il gatto selvatico (o forse, meglio, quando questi si è lasciato fotografare da me) in natura, nei dintorni del mio paesino in Abruzzo. Si sa pochissimo su questo animale così diffidente e sconosciuto, e il solo averlo visto è vanto di pochi. Dopo aver saputo di una certa radura dove alcuni amici guardaparco ne avevano avvistato con certezza un esemplare, ho deciso di tentare. Mi sono appostato ai bordi del bosco, alba e tramonto, seduto immobile sotto una coperta mimetica per ore, nei giorni lasciati liberi da altri lavori. Da amante e possessore di gatti, infatti, so bene che si tratta di animali abitudinari, e speravo che anche il loro cugino selvatico rispettasse questa regola. Bene, c’è voluto un totale di oltre venti giorni di appostamento, suddivisi in due anni, prima che un gelido mattino di febbraio arrivasse il fatidico momento e il mitico gatto si materializzasse di fronte ai miei occhi increduli. Non so davvero che cosa mi abbia fatto resistere così tanto tempo e senza alcuna certezza di risultato, se passione o testardaggine, ma, quando i due penetranti occhi di giada del gatto selvatico mi hanno guardato attraverso il mirino della macchina fotografica, ho davvero dimenticato tutti gli sforzi e percepito soltanto una calda e genuina sensazione di pura felicità.

gatto selvatico ripreso in natura nell'Appennino

Rispetto al passato quanto è cambiato il panorama dell’editoria ambientale? Sono cresciuto sfogliando da bambino le meravigliose riviste di natura che allora erano Airone e Oasis, sognando un giorno, di potervi pubblicare le mie immagini e posso quindi affermare che c'è stato un cambiamento piuttosto radicale. Si assiste ad una generale diminuzione dell'interesse per le tematiche ambientali, meno spazio ai libri monografici,i servizi lunghi e completi, mentre stanno prendendo piede i lavori multimediali e i servizi di poche pagine. Sono ancora giovane, ma mi sento della vecchia scuola e rimpiango la profondità dei servizi di un tempo, la cura nella stampa, la selezione capillare delle foto, tutto quello che rendeva importante il lavoro del fotogiornalista. Puoi dirci qualcosa riguardo a progetti e lavori futuri? Sento che il futuro mi allontanerà un po' dal mondo della fotografia per vedermi sempre più coinvolto nella protezione dell'ambiente. Mi muoverò forse anche nell'ambito del Mediterraneo.

sabbia e neve sulle montagne del Caucaso

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Dal 1978, Ben&Jerry’s conquista i palati dei più golosi grazie a gelati buoni davvero, perché nati rispettando il concetto di sviluppo finalizzato a raggiungere obiettivi di miglioramento economico, sociale e ambientale. Difendere il delicato equilibrio di Madre Natura è molto importante per il brand, come dimostrano gli sforzi compiuti per ridurre l’impatto ambientale della propria filiera. Perché un pianeta più caldo fa sciogliere prima il gelato! A Ben&Jerry’s, lo sapete, piacciono tutte le idee che contribuiscono a rendere il mondo un posto migliore e a difendere il benessere dell’ambiente. Per questo sicuramente gli amici di Ben&Jerry’s apprezzeranno quanto fatto per la High Line della Grande Mela...

the High Line testo e foto di Francesca Rosati Una volta ci correva la ferrovia. Adesso, accanto alle rotaie in disuso, crescono piante e fiori. È la High Line di New York, un progetto - non proprio originale se si pensa alla Promenade Plantèe di Parigi, uno spazio verde situato sul tracciato di una vecchia linea ferroviaria sopraelevata, ma riuscito meglio - nato nel 2006 quando, dopo anni di mobilitazioni, cominciarono i lavori su questa vecchia railway line in disuso dal 1980. Dopo essersi opposti alla sua demolizione, gli Amici della High Line selezionarono una squadra che condusse i lavori di riqualificazione della struttura. L’idea di una sorta di giardino pensile sopra Manhattan sembrò da subito la più allettante. La sopraelevata infatti è un polmone verde sospeso sopra le strade, il traffico e i passanti sempre di fretta di tre quartieri di Manhattan tra i più dinamici del momento. Siamo nella parte Ovest della città, più precisamente nei neighborhood Meatpacking District, West Chelsea e Hell’s Kitchen/Clinton, che negli anni

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Trenta, quando la sopraelevata fu costruita, erano delle zone prettamente industriali. Oggi la maggior parte delle warehouse e delle fabbriche in disuso sono state convertite in gallerie d'arte, studi di design, atelier di moda, ristoranti, musei, locali e abitazioni, dando vita a spazi urbani molto interessanti a livello architettonico ed estremamente in voga tra i giovani. Sul parco sospeso è vietato salire con biciclette e skate e portarvi a passeggio i cani, ma la sopraelevata è raggiungibile da diversi punti, molti forniti di ascensori, che quindi permettono l'accesso ai disabili e ai passeggini. Tutto questo dalle sette di mattina alle dieci di sera. La prima parte del parco, che corre da Gansevoort Street alla ventesima strada, è stata inaugurata il 9 giugno del 2009. In un secondo momento, esattamente due anni dopo, l'8 giugno del 2011, è stata aperta anche una seconda sezione che va dalla ventesima alla trentesima strada, con un grande prato dove poter prendere


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il sole, fare picnic e godersi il passaggio delle persone, diverse panchine dove sedersi a riposare e una passerella a grata attraverso cui osservare la città sotto ai propri piedi. Non solo: c’è l'anfiteatro per rappresentazioni teatrali e proiezioni di video e film, spazi per l’esposizione di opere d’arte, artisti di strada, negozi, bar, gelaterie e altro ancora. L'associazione "Friends of the High Line" sceglie esclusivamente partner ristoratori i cui prodotti sono buoni non solo per chi li mangia, ma anche per chi li produce e nel rispetto dell'ambiente. Proprio come Ben&Jerry's si impegna a fare ogni giorno con i suoi gelati.

pertura della terza e ultima parte della High Line, che arriva fino alla West 34th Street.

E non è finita: i lavori continuano e i newyorkesi aspettano con ansia l'a-

Chissà che lo stesso non si ripeta sulla sopraelevata della tangenziale est

Può sembrare banale, ma passeggiare sopra la città regala momenti rilassanti e un punto di vista totalmente diverso. I classici palazzi a mattoncini rossi di Manhattan, con le scale antincendio esterne, non li vedi più col naso per aria ma dall'alto. E così quelle trascorse sulla High Line con il mio compagno e mia figlia sono state ore particolari. Eravamo lì, sospesi sulla città, in una dimensione altra, a goderci strade e palazzi da una prospettiva nuova.

che esiste intorno alla stazione Tiburtina di Roma. Perché basta poco a rendere bello qualcosa di apparentemente mostruoso, a creare un parco, un polmone verde nel bel mezzo della città, anzi sopra di essa. E molto spesso sono le piccole azioni a permetterci di raggiungere quei traguardi e obiettivi che possono farci sentire meglio. Questa la filosofia di Ben&Jerry's, la stessa pensata e adottata dagli Amici della High Line di New York. thehighline.org facebook.com/benjerryitalia twitter.com/benjerryitalia benjerry.it

nelle immagini: la sopraelevata di Manhattan (NY)


raccogliere nuvole a Luzon testo e foto di Claudio Cristofani


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racconto di viaggio

le piantagioni di riso di Banaue

Il riso è l’alimento più diffuso in Asia. In genere viene coltivato in pianura, dove è più facile incanalare le acque e raccogliere i chicchi. Ma esiste un luogo incredibile dove il riso viene coltivato a 1500 metri di altitudine: si trova sulla cordigliera dell’isola di Luzon, nelle Filippine. Qui il popolo degli Ifugao, “popolo delle colline” appunto, dalle origini geografiche misteriose, forse della Birmania, forse dell’Indonesia, ha occupato questi monti quasi inaccessibili qualche millennio fa, e qui ha inventato una delle più formidabili opere di ingegneria idraulica che esistano al mondo. Non avendo a disposizione un terreno pianeggiante, ha terrazzato i lati scoscesi delle montagne e li ha trasformati in luoghi adatti a coltivare il riso. Con una pazienza, una fatica e un’ingegnosità uniche, gli Ifugao hanno scolpito la montagna a scalini e ogni scalino è stato racchiuso dentro

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i terrazzamenti nella provincia di Ifugao

un recinto di argilla o di muri di pietra, in modo da raccogliere l’acqua che serve per piantare e far crescere il riso. Recentemente queste piantagioni, che hanno il loro centro nella cittadina di Banaue, sono state dichiarate patrimonio mondiale dall’Unesco. Ma scoprirle e valorizzarle non è stato facile. Fino a un secolo fa gli Ifugao vivevano in un loro mondo isolato. Che fosse leggenda o realtà - a vedere questi contadini aggirarsi con in mano un machete ben affilato, si ha voglia di crederci - avevano la fama di tagliatori di teste, e spagnoli, filippini e americani non si addentravano volentieri nella cordigliera. Negli ultimi decenni il turismo è cominciato lentamente a penetrare per vie ancora molto accidentate in questi territori, e a Banaue sono sorti piccoli alberghi che accolgono avventurosi stranieri. Qualcuno pensa che sia un male, che venga

così intaccata e stravolta una cultura che era rimasta intatta per secoli. Ma non è possibile fermare la storia. Nell’autunno scorso un tifone si è abbattuto sulla zona, in più punti le montagne sono franate e alcune strade sono diventate quasi impercorribili. Le risaie a terrazza hanno resistito, allora come nei duemila anni precedenti, “ma è sempre più difficile legare i giovani alla terra e a questo lavoro duro, che anche quando non è tempo di semina o raccolto richiede una quotidiana attenzione per la manutenzione dei muri di contenimento”, ci dice il guidatore della jeepney che ci ha condotto nelle zone più alte e impervie. I giovani vogliono un’altra vita, anche se perfino nei luoghi più sperduti c’è sempre una scuola, che in genere è l’edificio più importante e curato del paese. O forse se ne vogliono andare proprio per questo, perché hanno im-

parato che esiste un mondo del tutto diverso al di là delle montagne. Le jeepney, come quella che ci ha condotto sopra Banaue, sono il più popolare mezzo di trasporto pubblico delle Filippine. Nascono con le jeep abbandonate dall’esercito americano dopo la seconda guerra mondiale, ma hanno subìto un’evoluzione secondo il fantasioso spirito locale e sono diventate dei camioncini luccicanti carichi di immagini e scritte, che sembrano cadere a pezzi ad ogni buca del terreno e invece sono capaci di affrontare le salite più ardue. “Ha quattro ruote motrici?”, chiediamo all’autista. “No, solo le posteriori, ma il motore è solido, dura anche vent’anni”, risponde tranquillo. Noi guardiamo meno tranquilli il tragitto che abbiamo alle spalle, pensando che sarebbe un disastro ripercorrerlo a piedi.

Siamo arrivati a Banaue provenendo da Vigan, una cittadina sulla costa in stile spagnolo, occupata dai giapponesi, che si è miracolosamente salvata dai bombardamenti dell’aviazione statunitense, proprio perché i giapponesi hanno preso il volo (alla lettera) pochi minuti prima che gli americani decidessero di sganciare il loro carico micidiale. E così la distruzione della città è stata evitata. Abbiamo percorso per un tratto la strada costiera verso Sud, per poi abbandonarla e addentrarci tra montagne e foreste, foreste e montagne, e poco altro. Qualche casa isolata, con i panni stesi, i bambini seduti per terra e i cani che scorrazzano tra un lato e l’altro della strada; infine, un villaggio all’incrocio di due strade, con il mercato e quattro botteghe in fila che funzionano da ristoranti per chi è venuto a comprare. Su e giù fino a

Banaue, sei ore di auto ricompensate dall’apparizione, ormai al tramonto, di queste montagne che da lontano ricordano la Torre di Babele di Bruegel e da vicino lasciano rispecchiare il cielo in tante pozzanghere, con ai margini piccole figure di uomini e donne piegati a raccogliere le nuvole.

DETTAGLI DI VIAGGIO Il sistema di irrigazione dei terrazzamenti di Banaue è collegato alle foreste fluviali sovrastanti. Le terrazze, proclamate dall’Unesco patrimonio dell’umanità, sono state costruite quasi 2000 anni fa con le mani e pochi utensili. Hanno bisogno di continua manutenzione, soprattutto dopo le piogge torrenziali che nella Cordillera filippina a nord dell’isola di Luzon sono periodiche.

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curiosità

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il terzo paesaggio autoritratti dell’invisto di Valentina Piccinni foto di Andrea Papi (andreapapistudio.tumblr.com) Giovane artista romano che ha fatto della fotografia analogica il suo mezzo, non solo di espressione, ma anche di ricerca intellettuale, estetica ed introspettiva, Andrea Papi ha partecipato alla VI, alla VIII e alla X edizione del Festival Internazionale di Roma, oltre all’avere a suo attivo diverse mostre personali e collettive tra Roma, Torino e Venezia. Questo progetto fotografico ha avuto inizio dalla lettura di una riflessione di Gilles Clément espressa nel breve scritto “Manifesto del Terzo paesaggio”, per poi volgersi verso una direzione puramente intimista e viscerale. Clément, paesaggista, ingegnere, agronomo, botanico, entomologo, giardiniere e scrittore, si interroga sulla “natura” del paesaggio contemporaneo globale, soffermandosi su una parte di esso, che definisce come Terzo paesaggio, caratterizzato da residui, riserve e insiemi primari (zone incontaminate). Ma è sui primi che focalizza la sua attenzione, svelandone la natura di spazi incolti, indecisi perché su di loro il giudizio dell’uomo si è arrestato, sospeso. Spazi dinamici, precari, forse destinati a non più esistere, a scomparire. Sconfinamenti naturali e allo stesso tempo luoghi di confine, lembi

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di terra liminari che delimitano il paesaggio antropizzato, e che si allargano man mano che la maglia metropolitana si fa meno fitta. Questi stessi scenari extraurbani, periferici, sono stati per due anni oggetto di interesse di Andrea Papi, che si è mosso tra l’estrema periferia sud di Roma (Capannelle e il litorale) e quella nord (Marcigliana) passando per le zone boscose di Villa Ada e Forte Antenne, per spostarsi ancora verso la Bufalotta e il Parco dell’Aniene. La ricerca dei residui, di spazi riconquistati dalla natura o incolti, è solo il primo atto del progetto del giovane fotografo, che è andato consolidandosi, in seguito allo sviluppo e alla stampa di numerosi scatti, attraverso un atto puramente riflessivo e concettuale che lo ha portato ad allontanarsi dallo spunto originario e a scoprire ed indagare la natura solipsistica del suo fare, esclusivamente legata ad un movimento introspettivo, ad una dinamica auto-perpetuante insita nelle regioni più profonde del suo sé. Postosi davanti all’evidenza di queste sue scritture di luce, Papi, in una sorta di dilatato processo epifanico dovuto alla ripetuta e attenta osservazione delle sue creazioni, è stato soggetto di una presa di coscienza del percorso

inconscio che ha sotteso questa errante ricerca, che guarda al paesaggio ma mai seguendo un approccio documentaristico. I luoghi immortalati da Papi con la sua Holga 120 sono spazi vuoti, privi di ricordi, di tutte quelle sfumature di senso che solo l’esperienza che si fa di qualcosa è in grado di dare. Desideroso di evadere da una condizione emotiva non facile, di prendere le distanze da luoghi per lui evocativi, l’autore si è allontanato dalle strade quotidianamente battute per inoltrarsi in scenari che escludono la possibilità della presenza del passante, appropriandosene, in completa solitudine, e conferendo loro la funzione di passaggi. Siamo dunque chiamati ad osservare una teoria di variazioni sul tema, apparizioni di una molteplicità che tende verso la restituzione di un’unità impossibile, proprio perché si ripresenta come la trasposizione “paesaggistica” dell’Io in divenire dell’autore stesso. Trapassi da uno stato emotivo ad un altro, tracce di un percorso introspettivo, dunque autoritratti dell’invisto che non chiedono di essere letti come traguardi, come tappe permanenti, ma come passaggi verso quella che Papi definisce una “nuova identificazione”.

Le immagini di Andrea Papi sono state esposte alla Galleria MuGa (via Giulia 108 - Roma) nel settembre del 2011

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IMWT In Marketing We Trust - Foto di E. Bastoni

curiosità

luci e suoni

venticinque scatti a La Pelanda 1819 iscritti e 3051 foto pervenute. Un solo nome, quello di Luciano Solfiti, vincitore assoluto del concorso fotografico “La casa della fotografia a Roma”, lanciato da The Gate Visibile Connection in collaborazione con Roma Capitale, Zètema Progetto Culturale e Nikon. Un progetto nato per valorizzare le espressioni musicali, folcloristiche, teatrali e artistiche della Capitale.

Un concorso aperto a tutti i fotografi, esperti o amatori. Luciano Solfiti vince con “Luci e Suoni”, fotografia scattata a Piazza del Popolo, grazie alla “sua grande abilità, per la composizione e il grande effetto ammaliante del suo scatto”. Altre ventiquattro fotografie giudicate “le migliori”, che ritraggono in modo assolutamente esaustivo i diversi eventi di Roma come ad esempio la maratona, il carnevale o la notte

dei musei, sono state selezionate per comporre la mostra progettata a conclusione dell’intero percorso: venticinque scatti che nelle Sale Atelier de La Pelanda di Roma, dal 7 al 13 giugno, hanno mostrato agli occhi dei cittadini e di chi viene a scoprire Roma musei, spazi all’aperto, teatri, locali che ospitano appuntamenti noti ed imperdibili ma anche iniziative meno conosciute che sono tutte da scoprire e vivere.

a

Vienna , solo

emozioni fortissime.

Giulia, Francesco e Andrea hanno vissuto 5 giorni indimenticabili a Vienna, un pieno di emozioni! Hanno visitato luoghi ricchi di arte e cultura, hanno attraversato il Danubio, giocato, ballato il valzer e fatto le ore piccole in discoteca. Parti subito anche tu! Scopri Vienna e il viaggio dei 3 testimonial su www.ctsassociazione.it/viennaperte. Con CTS volo a/r e 2 notti in hotel 3 stelle, con prima colazione, da 217 euro tutto compreso. Riservato ai soci CTS. Tutte le offerte su www.cts.it/vienna. “Luci e Suoni” di Luciano Solfiti – piazza del Popolo (Roma)

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l'arcobaleno di Tromsø testo e foto di Stefano Magni


racconto di viaggio

Il cielo può essere rosso all’alba e al tramonto, può essere blu nelle terse giornate di luglio, o grigio nei giorni di pioggia. Tutto questo è normale. Non lo è il fatto che il cielo possa anche diventare verde. Verde smeraldo. Per vedere una cosa del genere non occorre andare su un altro pianeta. Basta andare a Tromsø di notte e contemplare l’aurora boreale. L’aurora è un fenomeno misterioso e affascinante, difficile da comprendere. È una fosforescenza in piena notte. Quando è tenue appare come un immenso arco verde, fisso nel cielo stellato. A volte un pezzo di questo arcobaleno intensifica la sua luminescenza e inizia a muoversi in un modo e a una velocità completamente imprevedibili. Sembra qualcosa di vivo e alieno. Non c’è da stupirsi se leggiamo che nell’Italia settentrionale avessero segnalato gli Ufo, nel 1957, quando si vide una delle rarissime aurore nei no-

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stri cieli. La fantasia degli antichi e dei moderni si è sprecata per cercare di spiegare cosa fosse quella strana luce: anime dei morti, battaglie fra giganti, code di volpi siderali. Fu solo nel 1899 che uno scienziato norvegese, Kristian Birkeland, scoprì la loro vera natura. L’energia sparata dal Sole, durante le tempeste sulla sua superficie, quando raggiunge il nostro pianeta viene deviata (fortunatamente per noi) dal campo magnetico. Una parte di questa energia rimane a gravitare attorno ai due poli magnetici, formando le due aurore: quella boreale (del Nord) e quella australe (del Sud). Per un italiano, i luoghi ideali di osservazione sono la Norvegia, la Svezia e la Finlandia settentrionali. Solo quando c’è un’attività solare molto forte l’aurora si vede anche dall’Islanda e dalla Scozia. La Groenlandia è più fuori mano. L’Alaska e il Canada settentrionale sono ancora più fuori mano.

In Siberia il termometro stesso si spaventa tanto è bassa la temperatura. Tromsø, nella Norvegia settentrionale, è la meta ideale per chi vuol vedere questo fenomeno con una gran frequenza e senza patire troppo freddo. È letteralmente un’isola temperata incastonata nella regione artica. Pur essendo a oltre 69° di latitudine Nord, ben al di sopra del Circolo Polare, non registra temperature troppo inferiori a quelle delle nostre Alpi. È un piccolo miracolo climatico: è costruita su un’isola, in mezzo a un fiordo che accoglie la corrente del Golfo. Già nel XVIII secolo era una cittadina vitalissima, tanto da meritare il nomignolo di “Parigi del Nord”. Oggi conta settantamila abitanti ed è, ancora di più, tutta un pulsare di vitalità. Passeggiando fra le vie sue del centro, costeggiate da case lignee e colorate del ‘700 e ‘800, non ci si rende nemmeno conto di essere così vicini al Polo. Gli autobus,

sempre puntuali, caricano e scaricano torme di ragazzi, anziani e numerosi immigrati del Sud del mondo. Uomini e donne guidano, disciplinatamente, auto di tutte le cilindrate, sia in superficie che nel gruviera di tunnel scavati nelle alture circostanti per evitare il traffico e lo smog. Le ragazze si destreggiano su tacchi alti fra i ghiacci con incredibile maestria. Unica caratteristica insolita: i catarifrangenti. Sono ovunque e tutti li indossano, a forma di bracciali o a corpetto intero. A quelle latitudini, il buio dura ventiquattro ore dalla metà di novembre alla metà di gennaio. Poi ricomincia a spuntare il sole, ma basso, sotto le montagne: si passa dall’alba al tramonto in una manciata di ore, senza soluzione di continuità, con il cielo sempre tinto di rosso. Poi è ancora notte. Dalla tarda primavera all’estate, in compenso, è il giorno a durare 24 ore.

Il periodo giusto per osservare le aurore, dunque, va da ottobre ad aprile. Vivere in una dimensione così aliena rispetto al resto del mondo richiede una notevole serenità mentale. Sarà anche per questo che, tutti i mesi, Tromsø organizza eventi. In gennaio si svolge il Tromsø International Film Festival, proiettato su uno schermo di ghiaccio nel centro cittadino e dedicato al cinema indipendente. Ma è soprattutto la musica a far da padrona di casa: miti norvegesi come il Bel Canto e i Röyksopp sono nati qui. I festival musicali vanno dal Northern Lights Festival, dedicato al jazz, al folk e alla sperimentazione (fine gennaio, inizio febbraio), arrivando fino all’Insomnia Festival, dedicato alla techno (ottobre). In pratica, se non avete voglia di passare la notte a guardare il cielo, avete sempre qualcosa di interessante da fare in città. Una guida locale avverte: “Se volete passare la serata al chiuso, non

avrete possibilità di vedere un’aurora. Da quando nei locali hanno vietato il fumo, si riscontra una maggior frequenza di avvistamenti fra i fumatori. L’ideale, per chi vuole fare “auroraspotting”, è uscire dal centro cittadino, allontanarsi dalle sue luci e andare nei dintorni, da soli o in tour guidati. Occorre molta pazienza e costanza. L’aurora non c’è sempre. Gli abitanti di Tromsø riferiscono che capiti, in media, una volta a settimana. Non c’è alcun modo di prevederla, se non poche ore prima. Basta un cielo nuvoloso per nasconderla alla nostra vista. Certo, il 2012 è un anno di eccezionale attività solare. Chi scrive l’ha vista sei notti su sette, a fine gennaio. Dal prossimo ottobre, quando il buio tornerà a dominare le giornate, varrà la pena di tentare la sorte. nelle immagini: l’aurora boreale a Tromsø

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curiosità

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capsula mundi

ashes to ashes, dust to dust di Claudia Bena Cos’è “Capsula Mundi”? Capsula Mundi è il risultato di un progetto nato dalla riflessione sul tabù culturale della morte. La conclusione è di un semplice spostamento di prospettiva che riporta questo evento come potente momento di verifica dell’ordine naturale delle cose, ordine stabilito, tra l’altro, da un processo evolutivo durato milioni di anni. Attraverso l’osservazione ed il rispetto del ciclo naturale saltano tutte le barriere culturali, etniche e religiose. Spogliata di ogni orpello culturale, la morte rivela potentemente il suo incanto nel profondo mistero delle trasformazioni, senza le quali non ci sarebbe vita. Capsula Mundi è un feretro transustanziale. La sua forma è l’uovo, una forma perfetta, arcaica, realizzata in plastica di amido, materiale completamente biodegradabile. Al suo interno il corpo è posto in posizione fetale. La capsula viene messa a dimora nella terra, come un seme, e sopra di essa viene piantato un albero, la cui essenza è stata scelta in vita dalla persona scomparsa. Il nuovo cimitero che si creerà negli anni sarà un bosco composto da diverse essenze arboree, finalmente rispettato e protetto dalla collettività. La sepoltura rappresenta la civiltà. Che lettura volete dare della nostra attraverso il vostro progetto? È il culto della sepoltura che ha segnato l'inizio delle civiltà, e ciò che pensiamo è che in questo momento storico

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la civiltà stia perdendo ciò che è parte integrante dell'evoluzione umana: il legame tra uomo e Natura. L'esigenza di progettare un cimitero nuovo è nata da una riflessione intorno al senso che diamo alla morte. I luoghi contemporanei che noi dedichiamo ai cari estinti sono freddi, distanti, risolti con edificazioni di mura e corridoi nella logica economica del minimo ingombro - minimo costo. Nulla di questa architettura parla della nostra civiltà, di ciò che noi siamo, delle nostre origini. Né si può lasciare questa responsabilità esclusivamente al mondo religioso, considerando la grande mescolanza di etnie che compongono oggi le città europee. C'è bisogno di nuovi luoghi e simboli che parlino un linguaggio universale. Avete in corso trattative con enti locali per la realizzazione della vostra idea? Purtroppo tutte le volte che c'è stato un interesse concreto da parte di enti o persone è sempre seguito uno scarso progresso di fronte alla mole di impegno necessario a risolvere tutti gli aspetti del progetto, compreso quello di affrontare un mercato controllato da persone potenti, non sempre aperte ai cambiamenti, timorose di perdere i privilegi. Perché il corpo intero e non solo le ceneri, che non incontrerebbero ostacoli dal punto di vista legislativo? Il progetto originario non era con le ceneri perché il nostro intento è di la-

sciare che la natura segua il suo corso, quindi il nostro corpo, attraverso un processo ben sperimentato, arrivi a mineralizzarsi, unendosi così con il mondo vegetale e rientrando nel ciclo infinito della vita. È possibile declinare il progetto nella gestione delle ceneri, certo. Il bosco sacro si può costruire anche con la sepoltura delle capsule piccole che abbiamo comunque prodotto. Damian Hirst espone veri animali sezionati o teschi come opere d’arte, Gunther von Hagens, l’autore di Body Worlds, ha già una lunga lista di donatori per il suo progetto scientifico a scopo divulgativo. Come interpretate questa attenzione verso i corpi dopo la morte? L'arte deve esprimere tutta la sua potenza provocatrice e per questo non deve avere vincoli pregiudiziali. È evidente però che il nostro progetto non vuole esibire il corpo come oggetto ma anzi rispettarlo come soggetto facente parte di un sistema più ampio in cui si integra e agisce. Per questo motivo il corpo con Capsula Mundi viene adagiato nudo in posizione fetale in un involucro biodegradabile: per favorire il rientro nel ciclo naturale, sottolineare l'appartenenza al mondo biologico. Non c'è una celebrazione della forma estetica del corpo ma, nell'intento di unirsi al tutto, c'è il dissolversi dolcemente nella Madre Terra. capsulamundi.it

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verso la fine del mondo reportage fotografico di Paolo Messina paolomessina.com

Da Machu Picchu in Perù, fino ad Ushuaia in Argentina, passando per la Punta del Diablo, il Perito Moreno e il Parco Nazionale Torres del Paine. Un viaggio attraverso la regione steppica delle Ande, la Patagonia, un viaggio alla scoperta del mondo, quello vero, non contaminato, dove l’ambiente mostra ancora un paesaggio ancestrale fatto di ghiacciai, laghi, pianure e altopiani. Il ghiaccio e l’acqua, la terra e il fuoco. Undici scatti in cui il fotografo Paolo Messina ha immortalato queste terre remote del globo, così lontane dalla civiltà moderna, così vicine alla fine del mondo.


passo Pachacutec, punto pi첫 alto lungo il Lares Trek per Machu Picchu, (ca 4600m)


panorama lungo il Lares Trek per Machu Picchu


veduta panoramica di Punta del Diablo, Uruguay


parco Nazionale Torres del Paine, Cile. 12.000 ettari furono donati dall'italiano Guido Monzino


le Torri del Parco Nazionale Torres del Paine


Perito Moreno Glacier, Argentina


Perito Moreno Glacier, Argentina


Perito Moreno Glacier, Argentina


curiosità

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orgoglio nomade

Giordania – Wadi Rum di Veronica Gabbuti foto di Francesco Iervolino “Butta via quella sigaretta. Fumare, per una donna, è una vergogna”. Ahmad si rivolge a me senza neanche guardarmi in faccia, con un tono di voce impercettibile, solenne nella sua lunga tunica bianca e perfetta con la kefiah annodata a mo’ di turbante, come si usa qui, nel deserto del Wadi Rum. È chiaro che lo sto disturbando, che non gli interessa parlare con me, che è diverso dai beduini invadenti e febbrili che ho incontrato a Petra. Improvvisamente i pantaloni tecnici che indosso, le scarpe da trekking, la guida che stringo in mano, il profumo del duty free e l’arsenale tecnologico che mi porto dietro mi pesano, mi soffocano. Sono sgraziatamente europea, mentre lui è impeccabile nella sua terra rossa e silenziosa. Ahmad è un beduino, e con i suoi fratelli ha costruito un campo nel Wadi Rum in cui se vuoi vivi come loro, se no te ne vai. In passato per i beduini l’unica attività considerata degna di un uomo era la

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guerra, ma lavorare con il turismo (pur sempre disprezzando i turisti) rappresenta oggi una valida alternativa. Verso sera, nel campo, tento di capire - facendo qualche timida domanda la ragione di tante differenze tra loro, nomadi del deserto al confine tra la Giordania e l’Arabia Saudita, e gli altri beduini, che per trecento anni hanno vissuto all’interno delle cave tombali della città di Petra e che oggi sono stati trasferiti da un governo coscienzioso nel villaggio di Oum Seyhoun. “Mi offendi, con questa domanda. Quelli non sono beduini, quelli non sono come noi”. “Ok. Spiegamelo. Voglio sapere perché voi siete così dignitosi e perché loro lo sono così poco”. Ho detto la frase giusta, ora siamo amici. “Prima di tutto, noi amiamo e preserviamo la nostra terra, loro bruciano plastica nelle tombe. Noi portiamo lunghe tuniche come i nostri Padri, per non lasciare impronte sulla sabbia, e conosciamo i nomi dei nostri ante-

nati fino a venti generazioni indietro, mentre loro non hanno storia. Non ce ne andiamo in giro su asini sporchi e rumorosi, cavalchiamo solo cammelli o cavalli e li trattiamo con cura. Non trucchiamo gli occhi di nero per sembrare più belli, quella è roba da donne. E le donne occidentali come te non ci interessano”. “Ahmad, scriverò un articolo su di te una volta tornata in Italia. Parlerò del Rum Star Camp, delle vostre tradizioni, di tuo fratello Salem che fuma troppe sigarette, del tè alla menta con la salvia, di come cucinate il mensaf con la brace sotto la sabbia, del tramonto, delle mille candele con cui illuminate le montagne per far luce sul campo, della luna piena, degli scarabei, del caldo torrido, del freddo gelido e della sabbia che ti spacca la bocca. Ma non so come farti leggere quello che scriverò”. “Miss, contattami su facebook. O sul nostro sito, rumstars.com. Siamo beduini, ma è il 2012”. Mi accendo una sigaretta e sorrido.

la Valle della luna in Giordania

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cenotes silenziosi di Stefano Feraco foto di Angelica Parroni


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racconto di viaggio

È mattina. Dalle terrazze di Chichen Itza la vista della giungla è magnifica. Sulle piramidi, dipinte di rosso, si levano costruzioni in legno sontuosamente decorate con oro e piume. Due pietre sacrificali, poste di fronte alle divinità, Colibrì azzurro e Tlaloc, Dio della fertilità e Signore di tutte le acque, sono intrise di sangue. I sacerdoti Maya, interamente dipinti di nero con una mistura allucinogena di erbe ed insetti tritati, hanno i capelli graveolenti di sangue rappreso, e danzando ondeggiano recipienti dai lunghi manici dai quali si leva il fumo bianco dell’incenso copale. L’ipnotico rullare dei tamburi rende l’aria densa. Una fila di donne, schiavi e bambini, adorni di monili d’oro e paramenti di coloratissime piume, cantano, danzano e avanzano verso il bordo del Cenote Sacro dove si lasciano cadere in sacrificio al Dio Chac Mool. La parola “cenote” deriva dal termine Maya “d’zonot” (acqua sacra che dà la vita), ed è una cavità sotterranea con acqua permanente, per la maggior parte dolce, proveniente dai fiumi e dall’acqua piovana. Queste cavità, formatesi diversi milioni di anni fa, prevalentemente nella regione dello Yucatan in Messico, sono state vitali per l’esistenza e le cerimonie delle popolazioni Maya. Nei cenotes avvenivano sacrifici umani e i Maya credevano fossero i luoghi dove si andava dopo la vita. Il più famoso è il Cenote Sacro di Chichen Itza, in fondo al quale furono rinvenuti gioielli e manufatti, ma anche ossa umane e animali. Ore 8:00 - Siamo a Playa del Carmen e la nostra guida, Carlos, controlla l’attrezzatura che ci garantirà la sopravvivenza quando saremo immersi a più di venti metri sotto terra. Ore 8:30: ci inerpichiamo nella giungla, per raggiungere, a pochi chilometri da Playa del Carmen, il cenote Ponderosa e El Eden. Nel cenote si entra solo con una guida munita di uno speciale permesso:

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troppi i subacquei, attratti dall’avventura o dalla speranza di trovare resti preziosi degli antichi Maya, che non sono più tornati in superficie. temperatura acqua: 26°C visibilità: circa 70 metri durata immersione: 70 minuti profondità media: 20 metri tipologia percorso: in grotta di diametro da 3 a 8 metri penetrazione: circa un chilometro. L’autista ci recupererà da un'altra apertura. Ore 9:00 - Sono esaltato e vigile. Un brivido corre lungo la schiena quando mi lascio cadere nell’acqua, appesantito da diversi chili di zavorra. Svuoto GAV e polmoni, e in assetto orizzontale mi lascio cadere nella profondità come un paracadutista nell’aria. Immediatamente lo stupore vince ogni altra emozione: l’acqua è così trasparente che sembra di volare. A quindici metri di profondità accendo la torcia primaria. Carlos, davanti a me, inizia a srotolare il filo di Arianna. Tutt’intorno si dirama un dedalo di gallerie: ora posso capire quanto sia facile smarrirsi. Il sole filtra ancora nella cavità con fasci dorati, ma si spegne appena iniziamo a penetrare le profondità della terra. L’atmosfera è surreale. Tutto è immobile. Sembra di essere nel vuoto, nello spazio siderale. Con la torcia illumino formazioni di stalattiti e stalagmiti completamente immerse che formano sculture monumentali. Sembrano scolpite dalla mano di un dio che ha voluto nascondere alla vista dell’uomo, spesso distruttore, un capolavoro di bellezza incomparabile. I fasci di luce che colpiscono zone di quarzo creano innumerevoli piccoli bagliori e rilasciano caleidoscopiche immagini multicolori. Vorrei gridare dalla felicità. In milioni di anni l’acqua delle piogge, filtrando nel terreno, ha costruito fragili cattedrali di carbonato di calcio che

formano guglie e colonne con forme incredibili. Raggiungiamo i venti metri di profondità e per un paio di metri l’alloclino - il passaggio dallo strato di acqua dolce superiore a quello di acqua salata inferiore - rende la vista tanto sfocata che non riesco più a leggere gli strumenti. Continuiamo il nostro viaggio fuori dal tempo, e dopo circa un’ora, passata come fosse un minuto, inizio a vedere la luce che filtra da un apertura: è la nostra via d’uscita. Ci fermiamo ancora un attimo a gustare quel mondo remoto, mi giro a testa in giù, braccia e gambe aperte. Spengo la torcia: il buio è immobile, il silenzio assoluto. Penso ai milioni di anni che sono serviti per creare questo mondo senza suoni fatto di forme di incredibile bellezza e armonia. Penso alla nostra esistenza, una traiettoria nel tempo e nello spazio insignificante nell’evoluzione dell’universo; eppure questa vita così breve ci dona attimi di completa immedesimazione con la natura facendoci sentire parte integrante e fondamentale del tutto. Ore 15:00: il successivo cenote, il “TajMahal”, è meno angusto, più luminoso e con maggiori formazioni calcaree che si allungano fino a venti metri di altezza. Caliamo il nostro equipaggiamento su lunghe scale di legno a pioli. I turisti, che si bagnano e nuotano nella parte più esterna, ci guardano stralunati quando scompariamo sotto la superficie cristallina dell’imboccatura della grotta primaria. Ore 17:30: siamo di nuovo sul pickup con i capelli al vento. Si torna alla base. Distrutti dalla stanchezza, fieri e appagati, ci godiamo il tramonto. Il mondo esterno non è poi così male: le palme e accarezzano il cielo, che si tinge di rosa e poi di viola. Ringrazio Chac Mool, Dio di tutte le acque, e prego per avere al più presto tra le mani una birra ghiacciata.

il cenote di Chichen Itza

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curiosità

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Bagnoli vs. Ruhr

l'ex centro siderurgico Italsider di Bagnoli (Napoli)

“mille(mila) lire” in più di Fabio Ferraro foto di Francesca Grillo É il 1991 quando il centro siderurgico Italsider di Bagnoli, nella zona ovest di Napoli, chiude. In quel che era un quartiere fortemente operaio si decide, per la riqualificazione dell’area, di puntare sul turismo. Osservando il panorama dell’area flegrea dal belvedere del Parco virgiliano a Posillipo, viene da pensare a quanto la zona non sia stata valorizzata. Si sarebbero potuti realizzare, nella paludosa Bagnoli, giardini e palazzi residenziali, e dar vita, come ipotizzò nel 1889 l’architetto italo-scozzese Lamont Young, al “Rione Venezia”, per trasformare l'area in una vera attrazione turistica. Bagnoli venti anni dopo invece presenta un desolante paesaggio abbandonato, caratterizzato da una serie di mostri di archeologia industriale. È stato realizzato un parco acquatico per le tartarughe, un grande centro sportivo con pista ciclabile, il Bagnoli Hub con un mega centro benessere e un grande auditorium per congressi, tutto però ancora da mettere in funzione. Procedono ad intermittenza i lavori per la realizzazione degli studi cinematografici Napoli Studios mentre sono ancora fermi quelli per il grande parco urbano di 160 ettari che doveva affacciarsi sul mare, ancora pieno dei residui di ghisa, acciaio e cemento. All’interno dell’ex area industriale al

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momento sono attivi soltanto la Città della Scienza, museo scientifico all’avanguardia dal 1993, e il Pontile Nord, splendida passeggiata a mare inaugurata nel 2005. Si parla spesso del progetto Ruhr da imitare, quel modello tedesco che va tanto di moda oggi. Gli efficientissimi Deutsch sono riusciti in meno di dieci anni, con un progetto da 563 milioni di euro, a trasformare uno dei distretti industriali più inquinati del mondo in una metropoli creativa che accoglie ogni anno lo stesso numero di visitatori della nostra Pompei. Le miniere di carbone dello Zollverein oggi sono reperti di archeologia industriale, nel 2001 l’area è stata dichiarata patrimonio dell’Unesco, 10.000 nuovi posti di lavoro e migliaia di monumenti industriali, centinaia di musei e teatri recuperati. Nel 2010 la Ruhr è stata nominata capitale europea della cultura. In Italia spesso la cultura, elemento fondamentale per il futuro, passa in secondo piano. Nel deserto occupazionale del Meridione, dotato di un grandissimo patrimonio storico, artistico e culturale, bisognerebbe imparare a sfruttare quelle che sono le risorse immediatamente disponibili. A Napoli per problemi economici e politici ma anche per scarsa fiducia nei propri mezzi ci troviamo a fare i conti con un'area dal futuro ancora molto incerto come quella di Bagnoli.

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El diablo volcan di Simone Bracci foto di Alberto Gajano


racconto di viaggio

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in mezzo all’Atlantico esiste un piccolo atollo a largo del Marocco battente bandiera spagnola è l'isola vulcanica di Lanzarote Se non ci sei nato, se non ci hai vissuto, non puoi sapere cosa si prova. Osservare dall’interno l'isola iberica di Lanzarote, abitandoci, il piccolo atollo che batte bandiera di Spagna pur galleggiando a largo del Marocco, in pieno oceano Atlantico, è uno spettacolo suggestivo. Mare, sole e vento si uniscono in una landa emersa dalle acque, divisa al suo interno in maniera armonica tra natura incontrastata, zone rurali e un parco vulcanico, selvaggio e incontaminato: il Timanfaya National Park. Lanzarote è costituita quasi nella sua

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interezza da territorio vulcanico e si percorre internamente (e agevolmente) con la propria auto, costeggiando la strada che corre lungo la Ruta de Los Volcanes, un tragitto impressionante che si addentra con tortuose stradine in un paesaggio post apocalittico, odierno contrasto con l’epoca che stiamo vivendo. Chi è nato qui racconta come il panorama sia continuamente mutevole, come si possa facilmente passare da zone ricoperte di terra rossa, plasmate da potenti colate di lava che hanno reso le geografia isolana frastagliata e

di complessa lettura, ad altri punti, in cui tutto è ricoperto da un manto di cenere rappresa. Il parco crea subito la sensazione di vivere in un'atmosfera irreale, specialmente se si pensa alla potenza dormiente del vulcano. O dei vulcani, uniti in un’unica faglia, che in passato hanno sconvolto non poco la fisionomia dell’isola, quando l’intera area di Lanzarote fu devastata da terremoti, eruzioni e conseguenti inondazioni. La successione di eventi che sconvolsero l’isola tra il 1730 e il 1736 si lascia intuire vagando con lo sguardo verso

correndo lungo la Ruta de Los Volcanes il paesaggio di terra rossa e cenere rappresa racconta una Natura in continua mutazione Est, dove spiccano imponenti montagne alle cui pendici sorgevano interi villaggi spazzati via da lava e fuoco. Tutt’oggi è ancora questo il nucleo fondante del terreno che circonda le vallate di Lanzarote. Qui i colori si confondono come tempera su tela. Dal nero carbone al rosso vulcanico, ogni passo nel Timanfaya è una scoperta, ogni angolo ne rivela una visione diversa, la fragilità dell’essere umano e la meraviglia della geologia: bocche effusive, caverne e malpaíses compongono un quadro degno di esser visto e rivisto. Perché

nemmeno chi ora ci vive si stufa mai del diablo volcan. Lo scenario ti rapisce, l’odore di magnificenza si respira ogni giorno, ti entra nel DNA e modifica la tua percezione della natura stessa. È facile diventare più ossequiosi nei suoi confronti, ci vuole solo un attimo, magari uno scatto. Ora la morfologia è completamente differente da qualche secolo fa, ma l’effetto è rimasto inalterato nel tempo e chi l’ha scelta come casa la descrive come il posto ideale dove mettere radici.

DETTAGLI DI VIAGGIO Dichiarata dall'Unesco "Riserva mondiale della biosfera", Lanzarote è il viaggio da "cercare" qualora cercaste una intera sequenza di emozioni all'unisono. Natura selvaggia (deserto nel parco Timinfaya), intrattenimento (Jameos del Agua, un complesso di rocce vulcaniche) e sport acquatici (la spiaggia di Famara, protetta da scogliere a strapiombo).

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chi ci crede ancora

la madonna dei centauri a cura di Claudia Bena Iter centaurorum para totum. Mantieni sicuro il viaggio dei centauri. Infinite sono le vie del Signore, molti i modi per raggiungerlo. C’è chi si nasconde dietro vetri antiproiettile, coperto d’oro, e chi più umilmente affronta lunghi pellegrinaggi con la sola forza del corpo, tenutario di tradizioni che stanno scomparendo. Anche al nord alcune tradizioni sono dure a morire. Ma mentre il meridione d’Italia si contraddistingue per lo spirito della fede, che si sente forte come cinquanta anni fa, al settentrione in processione si va in moto. Chi l’avrebbe mai detto che figure mitologiche come i centauri si sarebbero riunite in onore della Sacra Famiglia? Vicino Alessandria, a Castellazzo Bormida, la processione della terza domenica di luglio è caratterizzata dal rombo dei motori. La Madonna della Creta infatti dal 1947 è primaria patrona dei motociclisti. Accanto agli ex voto che ritraggono la vergine mentre salva la popolazione dalle piene del fiume Bormida o dalla famosa peste dei Promessi Sposi del XVII secolo, che le valse l’incoronazione nel 1880 dal Capitolo vaticano, da quasi un secolo si trovano i caschi dei motociclisti, per grazia ricevuta. La proclamazione

a primaria patrona dei motociclisti è dovuta principalmente alla nascita nei pressi del santuario di un Moto club, a sottolineare come questo luogo di culto trovi le sue radici nel popolo. Da quando nel 1631 la madonnina venne avvicinata, per evitare il forte rischio di contagio, in una chiesetta costruita a spese di un fedele nel sito dove adesso è eretto il santuario, i danni del tempo, le guerre e le continue alluvioni portarono più volte i vescovi del paese a decidere per la demolizione. Ma sempre il volere popolare spinse le successive autorità religiose ad erigerne di nuove. Neanche l’ondata anticlericale napoleonica poté nulla contro la potenza della Madonna, che ne ha fatti di miracoli. Placato il vento dal nord, nel 1839 ripresero i lavori per la costruzione del Santuario. E così, come avevano iniziato mezzo secolo prima, gli stessi abitanti della cittadina furono parte attiva dell’edificazione. Tanta fatica e tanto impegno necessitano poi di altrettanta costanza, e così cambiano i mezzi ma il fine è lo stesso, ed ogni anno quasi centomila fedeli raggiungono il santuario, che il vademecum del buon pellegrino vorrebbe su due ruote.

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arte

cercando la via diritta di Alexandra Rosati foto di Cedric Favero (cedricfavero.com) “Sono nato nel 1940 e mi piace essere vivo. Una moglie, quattro figlie e un figlio. Cammino curvo, ma cerco la via diritta, la luce e la sincera verità e credo che la bellezza abbia un senso. Ho creato sulle duecento opere, ma preferisco quel che fa la mia figlioletta di cinque anni, sento che dovrei ancora incominciare”. Parole che lo descrivono perfettamente nel profondo, quelle di Mario Irarrazabal, che di vie più o meno diritte ne ha percorse innumerevoli, durante il suo interminabile cammino, che lo ha portato in viaggio per il mondo, ma anche nelle viscere dell’uomo. Scultore e istallatore, nato a Santiago del Cile nel 1940, dopo i primi studi nel paese di origine prosegue il suo percorso artistico all’estero. In Minnesota frequenta il seminario della Congregazione della Santa Croce, in seguito studia Filosofia all’Università di Notre Dame in Indiana, specializzandosi con un Master in Belle Arti, e nel ’64 raggiunge l’Italia, dove si laurea in Teologia all’Università Gregoriana di Roma. Da considerarsi determinanti gli anni in Germania, dove lo scultore Waldemar Otto gli dà l’impronta tecnica e stilistica. Da sempre attivista per i diritti umani, al suo rientro in Cile, dove insegna scultura all’università, viene arrestato dagli agenti dei servizi segreti di Pinochet e portato in un centro clandestino di tortura di Santiago, con la falsa accusa di detenzione e contrabbando di armi. Questa esperienza rafforza la sua creatività, e le sue opere di stile figurativo comunicano tematiche di marcato im-

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pegno sociale: ingiustizia, incomunicabilità, solitudine e sofferenza. L’unione tra la composizione formale, il tema e i materiali scelti – bronzo, alluminio, pietra, marmo e cemento, utilizzati con la tecnica della fusione nell’involucro di cera – è talmente intima da risultare immediata ed evidente. Egli lavora sulla figura umana espandendo le membra e deformando i corpi con intenso espressionismo, dalla postura delle figure stesse e delle loro teste, spesso chine verso il basso, che ne completano l’effetto espressivo. Intenzionalmente o no, le sue creazioni sono pregne di valore simbolico. Ne è un esempio la sua opera più rappresentativa, “La mano del deserto”, gigantesca scultura in ferro e cemento, alta undici metri. Situata nel bel mezzo del deserto di Atacama, lungo la Carretera Panamericana, la strada che unisce l’Alaska con la Terra del Fuoco, perfettamente amalgamata col paesaggio, appare all’improvviso con le dita che emergono dalla terra. Forse il risultato che Mario Irrarazabal voleva ottenere con la sua Mano del desierto era di una totale naturalezza, ma l’immagine è carica di potenza e impotenza al tempo stesso, eterno conflitto dell’uomo con la natura.

a pagina 71: "Hand of the Desert". Atacama desert (January 2012) Courtesy of Cedric Favero © 2012 all rights reserved


personaggio

the sound of green di Gaia Litrico foto di Paula Soler-Moya Le terre e gli scenari dei paesi esotici sono stati spesso luoghi di ispirazione per artisti, letterati, pittori e scultori. Molto diversi dalla realtà quotidiana, questi territori riuscivano a toccare le note della creatività degli artisti europei e a suggerire nuovi e interessanti modi di esprimere la propria arte. Le immagini di Gauguin, che trascorse un lungo periodo a Tahiti e poi alle Isole Marchesi, o di Picasso, che si fece travolgere dalla cultura africana e dalle maschere tipiche di quelle popolazioni, sono un chiaro esempio del fascino che l’esotico ha esercitato sulle personalità artistiche, distante non solo fisicamente ma anche culturalmente. È il caso di Edward James. Gentleman inglese, sostenitore del movimento surrealista e amico degli artisti che ne facevano parte, raccolse le migliori opere del movimento: da quelle di Salvador Dalí e Pablo Picasso a quelle di René Magritte e Paul Delvaux, distinguendosi per aver riunito in un'ineguagliabile collezione esclusivamente lavori surrealisti. Dalì lo descrisse come “il più folle e matto di tutti i surrealisti messi insieme. Gli altri fanno finta, lui no!”. Quasi una profezia. Nel 1945 infatti James scopre una piccola località nel Messico centrale, Xilitla, 610 metri sopra il livello del mare, tra le montagne di San Luis Potosì, Sierra Madre. Qui regna la foresta pluviale con i suoi giochi di ombre onnipresenti e di luci che si infiltrano nei piccoli spazi concessi dalla fitta vegetazione. Lo sguardo sensibile del collezionista deve essersi incontrato con uno spettacolo della natura folgorante e surreale: vortici di piante e alberi che svettano verso il cielo, un verde tappeto di vegetazione sotto ai piedi, cascate d'acqua, sorgenti naturali e piccoli laghi. Da qui il nome di “Las Pozas”, le piscine. Queste visioni suggeriscono immediatamente a James l'idea forse più folle realizzata della corrente surrealista: quella di costruire in quell'angolo di foresta, in quel giardino paradisiaco, delle strutture che potessero essere espressione della sua fantasia visionaria e onirica. I lavori continuano per decenni fino all'anno della sua morte, nel 1984, anche se sono rimaste delle strutture incomplete,

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a testimoniare l'idea di James secondo cui non si deve mai terminare la costruzione della propria casa, abbandonandola ad un continuo processo creativo, senza arrivare mai al termine del progetto. “Las Pozas” consiste in un'architettura multiforme composta da diverse decine di strutture differenti. Case, torri, archi, porte e varchi, scale e rampe, ponti, piscine, fontane e sentieri di pietra sembrano condurre il visitatore in un paese delle meraviglie. Tra alberi, liane e piante si nascondono La Scala del Cielo, La casa con tetto di Balena e tutti gli altri edifici che si inseriscono armoniosamente nel parco naturale. Ed è proprio il labirinto di vegetazione che, fondendosi con il genio artistico di James, aggiunge un che di visionario ad un progetto già di per sé onirico e surreale. Alla foresta e alle strutture è dato un ruolo e uno spazio ugualmente importante. Quelle sculture non sono state immaginate svincolate dalla natura, bensì per esser calate nella foresta di San Luis Potosì. Per questo l’artista non ha abbattuto nulla della vegetazione presente. La creazione di James e la foresta hanno così coesistito per un lungo periodo, ma negli ultimi anni la convivenza si sta trasformando in competizione: molte delle forme in pietra si stanno ricoprendo di muschi, licheni e piante che si aggrappano alle sculture. Ma chissà che anche questo non fosse un effetto previsto dal gentleman inglese, che scrisse dei versi dedicati proprio alla giungla, suo grande amore che lo accompagnò fino alla morte. “Sarò grato di morire in questa piccola stanza, circondato dalla foresta, grande oscurità verde, solo dalla mia oscurità di alberi- e dal suono, il suono del verde” Edward James

a pagina 73: i giardini di Las Pozas (Messico)


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