the trip magazine n° 15

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Parvati Valley

Benares

Andamane

Orissa

Mumbai

Auroville

Vandana Shiva

the trip spring 2013 N째15



RACCONTACI IL TUO FINALE

E VINCI IN OGNI VIAGGIO BATTE UN CUORE DI MUSICA seguici

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Raccontaci il tuo Trip e vinci la Thailandia! Inviaci il tuo racconto di viaggio per partecipare al contest creativo e vincere un viaggio in Thailandia! Il vincitore del contest creativo sarà pubblicato sulla rivista the trip magazine e riceverà in premio 2 voli A/R verso la Thailandia (offerti dell’Ente del Turismo Thailandese) e il pernottamento per due notti a Bangkok in una delle strutture di Venere.com

Come partecipare?

Vai su www.thetripmag.com dove troverai le istruzioni per partecipare e dove protrai inviarci il tuo racconto di viaggio!

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...

era vero ieri, è tanto più vero oggi. Oggi che l’India è diventata sotto i miei, sotto i nostri occhi, un luogo così lontano da quello custodito nella memoria e nel cuore da sembrare un mondo completamente diverso. E probabilmente lo è. Atterrare a Delhi non è più, come un tempo, atterrare dentro a una magica realtà che ti catapultava in un universo a parte. L’odore dell’India, su cui Pasolini è stato capace di scrivere un libro pur avendo trascorso nella “più grande democrazia del mondo” soltanto quindici tumultuosi giorni, non ti accoglie più come un tempo. Sparito il bene augurante Ganesh che ti salutava all’arrivo, ad accoglierti è un aeroporto ultra moderno e, di fuori, l’odore di smog di ogni città del mondo. Delhi è molto più vicina all’Europa, adesso, di quanto non lo sia a una piccola città indiana. O a Calcutta, ad esempio. Ogni discorso di carattere antropologico, ogni disquisizione sull’occhio dell’Occidente, sul mito del buon selvaggio o sull’industrializzazione lascia il tempo che trova. L’India, da un punto di vista strettamente realistico, non è più una superpotenza emergente ma abbondantemente emersa. Il boom economico, che noi ci ostiniamo a definire miracolo quando invece dura da più di dieci anni, ha cambiato e cambierà ancora profondamente il volto del paese di Gandhi. Meglio o peggio, bene o male, non spetta a nessuno dare giudizi o valutazioni di merito così generali e generalizzati. Certamente esiste un nodo da sciogliere. E il nodo è la giustizia sociale, il benessere aumentato che per il momento riguarda ancora una parte piccola, troppo piccola di quel miliardo abbondante di persone che si aggira nelle strade e sui sentieri dell’India. Riguarda quegli universi, e sono tanti, che si trovano di colpo a doversi confrontare con un mondo che non possono conoscere né tantomeno riconoscere. Il mondo dei tribali dell’Orissa, del Tripura, delle Andamane o del Nord-Est in generale, ad esempio: mondi malinconicamente destinati a un tramonto senza riscatto, già di fatto rinchiusi in un ghetto di turisti portati a osservarli nei mercati e nei villaggi divenuti tristemente simili, troppo simili, alle riserve dei nativi americani. Culture millenarie falciate via dal progresso in pochi anni invece che nello spazio di secoli. L’India dei villaggi, così cara a Gandhi e a tutta la poesia, desueta finché si vuole, di intellettuali e attivisti locali che lottano per mantenere in vita cultura e tradizioni e fare in modo che lo sviluppo diventi, se non altro, sostenibile. L’India che mi è sempre stata cara, l’India che ho amato e che continuo a portarmi dentro come un rimpianto, come una ferita, come una luce, bisogna ormai andare a cercarla dentro alle pieghe di questa nuova India così simile al resto del mondo. L’India dei gesti e delle parole antiche, l’India delle convenzioni e delle tradizioni, l’India del rispetto, dell’amore, dell’onore. L’India della lentezza, della compassione e della comprensione. I volti degli anziani che inalberano fieri capelli bianchi e rughe ed esperienza, l’India delle preghiere, delle risate, delle canzoni popolari sguaiate. L’India di Benares o Varanasi che dir si voglia, dove continuo a tornare come si torna da un amante teneramente e follemente amato da giovane, sul cui volto non si vedono i segni degli anni. Benares, il grande amore della mia vita che si è portata via e conserverà per sempre la memoria dell’altro mio grande amore, cremato sulle rive del Gange e per sempre parte di quel mondo che avevamo, insieme, così tanto amato. Spero che ciascuno, dentro foto e parole, ritrovi un pezzo della sua India. Spero che ciascuno, dentro foto e parole, sia spinto a fare un viaggio di quelli veri. Un viaggio, non una vacanza. Dentro a uno dei mille volti dell’India, per fare provvista di ricordi da conservare e accarezzare. Da tenere buoni nelle notti d’inverno, quando si ha bisogno di qualcosa per scaldarsi il cuore.

Francesca Marino

illustrazione di Enrico Riposati

6 | editoriale




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L'EDITORIALE

REPORTAGE

IL PERSONAGGIO

DI FRANCESCA MARINO

DI LORENZO CASTORE

MIRRA ALFASSA

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EVENTI

LADAKH

MEDIOEVO OCCIPITALE

DISCOVERY OF INDIA

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INTERVISTA

BENARES

HOTEL

DOVE COME QUANTO

A VANDANA SHIVA

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MY TRIP

ORISSA

PARVATI VALLEY

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WILLIAM

PARTECIPA

DARLYMPLE

AL CONTEST

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MUMBAI

IN ITALIA

TRA I SIKH

28 ISOLE ANDAMANE

redazione the trip n°15 spring 2013 direttore responsabile Valentina Diaconale valentinadiaconale@gmail.com direttore editoriale Lorenzo Verrecchia lorenzoverrecchia@thetripmag.com direttore artistico Valentina Gruer valgruer@gmail.com responsabile di redazione Francesca Rosati francescarosati7@gmail.com redazione Claudia Bena photo editors Annalisa D’Angelo e Valeria Ribaldi responsabile web Veronica Gabbuti veronicagabbuti@thetripmag.com

editore The Trip s.r.l. Via Apollo Pizio 13 - Roma centro stampa Pignani printing Via degli Imprenditori snc Zona industriale Settevene – Nepi (VT) sede legale Via Gasperina 188 – Roma Registrazione Tribunale di Roma n. 329 del 6 ottobre 2009 contatti info@thetripmag.com thetripmag.com

hanno collaborato Elena Adorni, Fulvio Benelli, Mirta Brignone, Matteo D’Amicis, Luca Di Fulvio, Fabio di Genova, Federico Di Vita, Marianna Kuvvet, Francesca Marino, Angelica Parroni immagini Olivier Blaise - fontainebleau-photo.com Lorenzo Castore - agencevu.com / lutzphotos.com Olimpia Cavriani - olimpiacavriani.com Rohit Chawla - cosurvivor.in Himanshu Khagta - khagta.com Lorenzo Giordano - lorenzogiordano.com Francesca Marino Rita Mbanerjee - rita.mbanerjee.com Stella Morielli - responsableblethinking.wordpress.com Kartikey Shiva - kartikeyshiva.com Claes Skoog La foto di copertina è di Lorenzo Castore agencevu.com / lutzphotos.com L’illustrazione dell’editoriale è di Enrico Riposati enricoriposati.over-blog.it

coordinatore tecnico Damiano Mencarelli responsabile marketing Luca Salice lucasalice@thetripmag.com

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ROMA

Piazza del Risorgimento 11

tel +39/06/39031327



In questo culto di tradizione millenaria le regole castali si ribaltano: danzatori mascherati appartenenti alle caste inferiori invocano le divinità e sono venerati come dèi.

Kannur (Kerala) dicembre - aprile Theyyam Festivals

Artisti ornati d’oro e d’argento affollano le strade, monaci mascherati ballano al suono di cembali, flauti e trombe, e gruppi di danzatori raffigurano le leggende e le favole di questa regione, un piccolo Tibet in confine indiano.

Ladakh 1 - 15 settembre Ladakh Festival

Ogni tre anni, in una di queste quattro città a rotazione, prende vita il più grande raduno del mondo, con decine di milioni di Hindu che si bagnano nelle acque del fiume sacro.

Haridwar, Allahabad, Nasik, Ujjain Kumbh Mela

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EVENTI


Immerso nella magica Parvati Valley, questo festival elettronico e psichedelico celebra l’amore, l’unione e la passione per la musica.

Kasol (Himachal Pradesh) maggio- giugno Beyond Spirit Festival

Un grande carnevale portoghese, l’unico del subcontinente. Tre giorni e tre notti di musica, balli e colori difficili da dimenticare.

Goa febbraio Goa Carnival

Diverse migliaia di menestrelli itineranti Baul (in bengali pazzo o posseduto) nei loro tipici abiti color zafferano girano per l’accampamento fumando ganja e scambiando pettegolezzi per poi radunarsi intorno ai falò, cantare e danzare fino all’alba.

Kenduli (Bengala Occidentale) 14 - 16 gennaio Baul Mela

Migliaia di aquiloni colorati vibrano in cielo per festeggiare l'arrivo della primavera.

Ahmedabad (Gujarat) 14 gennaio International Kite Festival


Vandana Shiva nel 2010

intervista a Vandana Shiva

per una Democrazia della Terra di Francesca Rosati foto di Kartikey Shiva | kartikeyshiva.com «Noi possiamo sopravvivere come specie solo se viviamo in accordo alle leggi della biosfera. La biosfera può soddisfare i bisogni di tutti se l’economia globale rispetta i limiti imposti dalla sostenibilità e dalla giustizia. Come ci ha ricordato Gandhi: La Terra ha abbastanza per i bisogni di tutti, ma non per l’avidità di alcune persone».

V

andana Shiva è un’attivista politica e ambientalista vegetariana che si batte da decenni per cambiare i modelli e le tecniche dell’agricoltura che servono gli interessi dei potenti a scapito dei piccoli produttori, della biodiversità e della sostenibilità. Dopo essersi laureata in fisica alla University of Western Ontario, Canada, e aver lavorato come ricercatrice all’Indian Institute of Science e all’Indian Institute of Management di Bangalore, abbandona gli studi accademici per fondare, nel 1982, il Research Foundation for Science, Technology and Natural Resource Policy, un istituto di ricerca alternativa. Darà poi vita a Navdanya, un movimento delle donne per la protezione della diversità biologica e culturale, dell’agricoltura non-violenta, della Terra e dei piccoli agricoltori, e a Seed Freedom, una campagna globale che sensibilizzi sulla precarietà della nostra provvista di semi. Navdanya significa “nove semi” ed è una rete di custodi di semi e di produttori biologici sparsi in diciassette stati dell’India. Ha contribuito alla cre-

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azione di 111 banche di semi in tutto il paese, ha formato più di 500.000 agricoltori e ha contribuito a impostare la più grande rete di commercio equo e solidale biologica nel paese. Navdanya ha anche istituito un centro di apprendimento sulla conservazione della biodiversità, Bija Vidyapeeth, e un’azienda agricola biologica di quarantacinque ettari in Doon Valley, Uttarakhand (India del Nord). Finora ha conservato più di cinquemila varietà di piante tra cui tremila di riso, centocinquanta di grano, centocinquanta di fagioli rajma, quindici di miglio e diverse varietà di legumi, verdure, piante medicinali e molto altro. Nel 1993 Vandana Shiva ha ricevuto il Right Livelihood Award, un premio che ogni anno viene assegnato davanti al parlamento svedese alla vigilia dell’assegnazione del Nobel per la Pace, e che riconosce lo sforzo di quelle persone o di quei gruppi che si battono per un mondo migliore e un’economia più sostenibile. È anche vicepresidente di Slow Food.


Che cosa si intende per Rivoluzione Verde e quali sono stati i suoi effetti sul tuo paese? La Rivoluzione Verde avrebbe dovuto essere una rivoluzione ecologica dell’agricoltura. Tragicamente, è il nome che è stato utilizzato per diffondere l’agricoltura chimico / industriale in paesi come l’India. Non era verde. Non era rivoluzionaria. Ha circoscritto l’agricoltura indiana in un’unica regione, il Punjab, limitandola a due raccolti, riso e grano. La diffusione delle monocolture ha aumentato la produzione di questi cereali, ma ha causato il crollo di tutte le altre - miglio, legumi, semi oleosi, ortaggi, frutta. La biodiversità è stata distrutta, e con essa le diete sane e nutrienti e la produzione indipendente e famigliare. Lo scienziato statunitense Norman Borlaug ha ricevuto il Nobel per la Pace nel 1970 per aver sviluppato questo metodo di coltura, eppure il Punjab è diventata zona di guerra nel 1980. Oggi registra un alto numero di suicidi tra i suoi agricoltori, un “treno del cancro” trasporta i malati fuori dal Punjab per andarsi a curare, i suoli sono morti, l’acqua sta scomparendo. Perché se ne parla così poco? Così poco si sa sui disastri della Rivoluzione Verde perché la sua storia e il suo falso miracolo sono fondamentali per l’agricoltura industriale e per la diffusione degli OGM e dei prodotti chimici in agricoltura. Quali ripercussioni sta avendo sul settore agricolo il boom economico e industriale che sta investendo l’India? La storia della shining India non riflette la realtà della crisi che sta affrontando l’agricoltura di questo paese. 270.000 agricoltori si sono suicidati negli ultimi quindici anni poiché sono rimasti intrappolati nel debito prendendo prestiti per semi e prodotti chimici costosi. Il 95% dei semi di cotone è ora controllato da Monsanto, una multinazionale di biotecnologie agrarie. Il governo ha revocato gli acquisti dagli agricoltori per il Sistema di Distribuzione Pubblico. Come risultato un indiano su quattro è affamato, e un bambino su due è distrutto dalla fame. E milioni di tonnellate di grano stanno marcendo nei depositi. Cosa è sopravvissuto del movimento no global? Il movimento no global non è finito, ha assunto nuove espressioni: Earth Democracy, Rights of Mother Earth, Indignados, Occupy. Di cosa ti stai occupando in questo momento? Mi sto occupando di Freed Seedom, in modo che ogni agricoltore sia sovrano e non dipenda dai semi OGM brevettati da Monsanto. Sto creando una democrazia alimentare che dia a tutti il diritto di un cibo sicuro, sano, sostenibile. Vandana Shiva, un mondo migliore è ancora possibile? Sì. Perché non vi è alcuna certezza che questo sfruttamento, questo sistema non sostenibile possa perdurare. Perché io, insieme a milioni di altri, coltivo una speranza attraverso alternative come il movimento Freed Seedom, Gardens of Hope. seedfreedom.in navdanya.org

intervista |15


Da oggi ancora più lontano. A casa tua.

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2013 the trip IN TUTTA ITALIA E NEL MONDO A PARTIRE DA 25€ THETRIPMAG.COM/ABBONAMENTI


indian trip foto di Rohit Chawla | cosurvivor.in Stella Morielli | responsablethinking.wordpress.com Himanshu Khagta | khagta.com


LE TAPPE DEL VIAGGIO 2° Manali

3° Kasol

4° Manikaran

5° Kheer Ganga

1° Delhi

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bindi, o “terzo” occhio, vi proteg1 Ilgerà pure contro la sfortuna, ma per i procacciatori di affari farà l’effetto di un puntatore laser

prezzo che vi viene chiesto per una 2 Ilcorsa in risciò va diviso per due e al rimanente va tolto un buon trenta percento, e comunque vi stanno fregando

affidarsi all’oscillazione della testa 3 Mai di un indiano

4

I pantaloni da Aladino sono come i cappelli con il logo dell’Italia, roba per turisti

5 Più è sporco più si mangia bene possono raggiungere svaria6 Itetreni centinaia di metri di lunghezza, se sbagliate settore e il treno è affollato vi farete mezzo viaggio a piedi

caricati da un toro è sfortuna, 7 Essere da una vacca è bad karma

8 Per il vero lassi vedi punto 5 di partire studiatevi le regole del 9 Prima cricket 10 Chai sempre e dovunque 11 Caffè mai e da nessuna parte per masticare corretta12 Rassegnatevi, mente il paan serve una laurea triennale

abituatevi mai al suono del clac13 Non son o metterete a repentaglio la vostra vita

scimmie sono quasi mai amiche 14 Le dell’uomo

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Fessi no, scortesi neppure

PUNTI di Matteo D’Amicis

16 Scortesi no, fessi neppure l’inquinamento che c’è compra17 Con re cibi in busta è da galera qualcos’altro oltre il main ba18 Esiste zaar alcuni posti potete trovare acqua 19 Inpurificata sfusa per non sprecare la plastica

il turismo è inquinamen20 Eto,comunque fatevene una ragione pozze di sangue per terra sono solo 21 Le succo di paan che viene sputato

22

Meglio le pale che l’aria condizionata, non sentirete le zanzare mentre vi pungono

birra può costare quanto pranzo, 23 Una cena e pernottamento messi insieme cosa più importante dopo il passa24 La porto è la torcia cosa più importante dopo la torcia 25 La è averla sempre a portata di mano i non romani, le strisce pedonali ser26 Per vono solo a scopo decorativo di arrivare in India di notte 27 Cercate così da aumentare lo shock culturale del giorno dopo

28

Gli indiani praticamente non sudano, se senti cattivo odore sull’autobus sei molto probabilmente tu stesso

al cinema anche se non par29 Andate late hindi, qualcuno sarà ben contento di farvi la traduzione istantanea

di capire perché, nonostante 30 Cercate avevate una voglia matta di tornare a casa, appena tornati volete già ripartire

my trip |19


sul tetto del mondo di Mirta Brignone

PoRTAMoNETE

SACCo A PELo

munitevi sempre di banconote di piccolo taglio

iModiuM

FoToTESSERE

ça va sans dire

necessarie per attivare una sim indiana

CASSA PER LA MuSiCA

S

ono seduta al tavolino di una guest house di Delhi, l’Ajay Guest House. Ci sono già stata altre volte qui, conosco chi ci lavora e mi sento un po’ a casa. È un posto accogliente, si mangia bene, le stanze sono abbastanza pulite, e poi la verità è che in India, una volta che scegli una guest house, inevitabilmente ci torni sempre. Come spesso mi accade, è da ore che sono qui, seduta a questo tavolino a scrutare la gente che entra e esce, che mangia o chiacchiera, che beve chai o gioca a scacchi. A Delhi a luglio le temperature sono estreme, di giorno arrivano anche a toccare i 54 gradi e così decido di rifugiarmi di nuovo in montagna, a Manali, nel Himachal Pradesh. Il viaggio in bus dura quasi quindici ore ed è la terza volta in una settimana che faccio questa tratta ma non mi dispiace. I

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ToRCiA

paesaggi commuovono, i sali e scendi tra le montagne su stradine strettissime tutte curve levano il fiato. L’autista fa un’unica tirata che dura tutta la notte, mastica e sputa paan in continuazione. La sua guida è spericolata e incredibile, non ci sono sensi di marcia o precedenze, e mezzi pesanti in discesa incrociano quelli in salita a velocità inverosimile. Ma quando arrivi la mattina dopo sorridi e capisci che ne è valsa la pena. L’aria è fresca e pulita, il verde scuro delle foreste e l’umidità del Beas River ti circondano e, se alzi gli occhi, eccole lì, le vette innevate dell’Himalaya. Anche qui torno dove sono già stata, a Old Manali, la parte più alta della città, lontana dal caos. Chandra Cottage è la piccola guest house del mio amico rajasthano Ramu, un ragazzo come me, che per guadagnare qualcosa e scappare dal

caldo torrido del deserto gestisce questa pensione con i suoi due fratellini. Ci sono solo quattro camere con bagno e un balcone sovrastato dai ghiacciai, ma non serve nient’altro. Qui, a soli duemila metri, di giorno il clima è mite e la sera basta una felpa. Dalla fine degli anni Sessanta Manali è meta per pellegrini e turisti, sportivi e avventurosi amanti del trekking, ma anche amanti del suo charas. Il possesso e il consumo sono proibiti in India, eppure la quantità di piante di marijuana che cresce come erbacce sul ciglio della strada è sorprendente, così come l’uso che ne fanno tutti. Ramu la usa per farci i brownie, la gioia dei suoi clienti. Esausta dal lungo viaggio, mi riposo per un giorno intero, senza grandi aspettative, senza pensare a cosa mi avrebbe riservato il giorno seguente. Quando ero a Dehli


da sinistra a destra: foto di Rohit Chawla: il villaggio di Barshaini foto di Stella Morielli: strada da Manali a Vashisht, Himachal Pradesh foto di Rohit Chawla: cascata di Rudranag nel traggitto per Kheer Ganga foto di Stella Morielli: Old Manali, Himachal Pradesh foto di Stella Morielli: presso il Tempio di Vashisht, Himachal Pradesh foto di apertura di Rohit Chawla: verso Kasol

Ramu mi chiamava spesso per parlarmi di una festa a Kasol, un paesino hippie nella Parvati Valley. Parvati come il fiume che prende a sua volta il nome dalla moglie di Shiva, il dio distruttore. Si tratta di una divinità che rappresenta la bellezza, e ammirando questa immensa vallata di natura incontaminata si capisce subito perché sia stata battezzata così. Kasol invece è il tipico paesino hippie dalle usanze occidentali, ristoranti con menù europei, baretti reggae e via dicendo. Non essendoci mai stata, decido di partire con Ramu senza portarmi niente, pensando che sarei tornata presto. Prendiamo quattro bus diversi, ma stavolta non sono quelli turistici, sono i veri bus statali. Non ci sono né biglietti né controllori, ma una miriade di persone schiacciate insieme a bambini, vecchi e animali, uno sul tetto, un altro attaccato dietro. In un at-

timo perdo Ramu e conosco altri ragazzi, australiani e polacchi, che viaggiano alla ricerca di questa festa. La musica è trance, indiani e stranieri ballano insieme. Non si tratta di una festa tradizionale indiana con maschere e tamburi, ma di un vero e proprio party trance con persone vestite di colori fosforescenti che ballano sotto le casse. Un po’ spiazzata dalla situazione, inizio comunque a godermi la serata con i ragazzi e con Ramu. L’uso di sostanze allucinogene non è raro in questi paesini, e non sono solo i turisti a farne uso. Non mi preoccupo di Ramu e delle condizioni in cui si trova, ma capisco che non torneremo mai a Manali; e così con gli altri cerchiamo una guest house per la notte. La mattina seguente, a colazione, Ramu ci parla di Kheer Ganga. Non so di cosa si

tratti precisamente, ma le facce stupite e incredule del ragazzo australiano e della ragazza polacca mi incuriosiscono molto. Sono entrambi emozionatissimi, chiedono a Ramu se possono venire con noi, dicendosi anche disposti a pagarlo. Io ho dormito solo due ore e ho una gran voglia di tornare a casa a Manali dalle mie cose. Mi spaventa l’idea di camminare dalle quattro alle sei ore su per una montagna in mezzo al nulla, senza borsa o sacco a pelo, ma non sono cose che accadono tutti i giorni e così decido di partire. Con un bus arriviamo a Manikaran, famosa per le sue sorgenti termali. La temperatura raggiunge i novanta gradi e le vasche devono essere raffreddate con l’acqua del fiume gelido per permettere alle persone di entrarci. Arroccata sulle montagne e attraversata dal Parvati River, con grandi

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foto di Himanshu Khagta: le terme bollenti a Kheer Ganga

e lunghi ponti che collegano le due metà, è un altro paesino surreale dell’Himachal Pradesh. Da qui prendiamo un altro bus, che ci porterà ancora più in alto. Una volta giunti alla fine del tratto percorribile in macchina, ci incamminiamo su piccoli sentieri, circondati da alte montagne e fitti boschi. Dietro di noi la gigantesca vallata, immobile e solenne, i raggi di sole che illuminano le montagne come riflettori, l’aria fredda e secca, il silenzio ovattato di una natura così imponente in confronto a noi, quattro esseri minuscoli. Mi fermo in un negozietto perché è l’ultimo che incontreremo. Un chai, una bottiglia d’acqua e un pacchetto di biscotti. Non bisogna appesantirsi troppo. Io e Ramu abbiamo solo un piccolo zainetto, mentre gli altri due ragazzi, muniti di scarpe da trekking, zaino grosso in spalla con borracce e sacchi a pelo, sembrano molti più pronti ad affrontare il viaggio. Sono ormai le quattro del pomeriggio quando iniziamo a camminare, col passo veloce in fila indiana. Le salite sempre più ripide accorciano il fiato e ogni mezz’ora o

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poco più ci fermiamo a prendere aria. I vialetti spesso si diramano, spesso spariscono, ma Ramu sembra conoscere bene la strada e ci ripete di contare i fiumiciattoli che attraversiamo. A volte bisogna attraversarli mettendo i piedi sui sassi che sbucano fuori dall’acqua, mentre più in alto si usano dei grandi tronchi che fanno da ponti. Nessuno ha niente da dire. Stiamo scalando l’Himalaya. Dopo quasi quattro ore Ramu sembra preoccupato, noi siamo stanchi e andiamo più lenti, e ormai è buio, non si vede più niente. Devo ringraziare il display illuminato del mio vecchio telefonino se non sono rotolata giù. Ramu intanto continua a ripetere che non ci si può più fermare perché è pericoloso rimanere lì dentro di notte. Non sono sicura di ricordarmi le ultime ore di scarpinata, ma certamente mi ricordo il momento dell’arrivo. Ramu urla in hindi e fischia, mentre accelera il passo senza lasciare la mia mano. La foresta è sempre meno fitta e si intravedono delle luci in alto. Usiamo le forze rimaste per quell’ultimo pezzo di strada e finalmente ci troviamo

qui, in alto. Fa un freddo gelido ma noi non lo sentiamo. Ci buttiamo a terra stravolti urlando “We are on top of the world!”. E veramente sei a un passo dal cielo, un cielo talmente pieno di stelle che è più bianco che nero. Il tuo fiato crea delle enormi nuvole di fumo. Sei a tremila metri d’altitudine ma non li senti. Hai solo una gran voglia di vivere e il cuore che scoppia di gioia. Kheer Ganga è raggiungibile solo tre mesi l’anno, per il resto è inagibile per via della neve. Non c’è altro che una fila di capanne in ferro da affittare per la notte a pochissime rupie e un minuscolo bar dove ti servono del buon chai e da mangiare. É tutto scaldato a legna, non c’è elettricità. La mattina quando ti svegli ti ritrovi fuori dal mondo, nella natura più pura. E poi ti immergi nelle vasche bollenti di terme naturali di Gauri Kund, sotto un sole vicinissimo e con una vista senza paragoni. Il giorno prima non avrei mai immaginato di ritrovarmi lì, in quell’angolo di paradiso sulla terra. Dimentico la fatica e gli imprevisti del viaggio, e mi lascio cullare dall’acqua bollente, nuda, sul tetto del mondo.


LEggERE L'iNdiA «Il Mondo è l’India, ed é un mondo per poesia» ( P.P.P.)

vista da noi

un saggio (o due)

di Pier Paolo Pasolini

a cura di Giovanni Filoramo Laterza - 1996 - €11

L'odore dell'india Il pensiero del poeta che si riversa nelle vie per descrivere le facce di una realtà lontana. La strada attira il suo sguardo, descritta come in sogno. Un uomo che si perde alla ricerca della verità più intima insita in ogni singola persona che incontra. E questi personaggi che ritrova nel suo percorso sono vicini come se li avessimo incontrati noi. Questo è l’odore dell’India che ha investito Pasolini. Un odore che, come ogni profumo della vita, non dimenticheremo mai. Garzanti -1962 - €9,50

raccontata da un'indiana

il tappeto rosso di Lavanya Sankaran

L’India dei matrimoni combinati. Quella dei vicini che ti spiano. L’India cattolica di chi vorrebbe essere inglese e di chi lavora per i ricchi indiani. L’India degli studenti confusi e di chi invece sa bene quello che vuole. Una lente di ingrandimento su Bangalore che diventa un intervento chirurgico fino alle viscere dell’India moderna. Nessun giudizio dall’autrice, che nel suo paese è tornata per restare. Marcos y Marcos - 2005 - €14

Hinduismo

Storia dell'india moderna di Barbara e Thomas Metcalf Sicuramente è il viaggio che crea l’esperienza, ma affrontarlo con un bagaglio culturale pieno ci permette di relazionarci in maniera più preparata, più profonda. L’India è un paese antico e vasto. La sua storia ruota principalmente intorno alla religione. Alle religioni, anzi. L’ottanta per cento della popolazione è hinduista, un termine coniato dagli inglesi, un neologismo che cerca di unire una molteplicità di culti sparsi per tutto il continente. La storia dell’India è quella dei suoi conquistatori, dall’impero Moghul al colonialismo inglese, ma è la sua storia dall’indipendenza ai giorni nostri ed è ancora in divenire. Mondadori - 2001 - €9,80

un testo sacro

Ramayana. il divino inganno Illustrato da Sanjay Patel

e da un inglese

Passaggio in india di E. M. Forster Un romanzo che racconta l’India degli inglesi vista dagli inglesi. Una storia di incomprensioni culturali e di curiosità esotiche che sfociano in dramma e ingiustizia. La poesia delle descrizioni stride con ciò che viene descritto. Conquistatori che non si sentono a casa e conquistati che ne subiscono il fascino. Mondadori - 1924 - €9,50

Questo è un raccondo di dèi, ma soprattutto di uomini. È Vishnu che si incarna in essere umano, Rama, per sconfiggere il più cattivo dei demoni. Parla di lealtà, di giustizia e di amore. Di amicizia e speranza. Di guerra e di pace. Una storia immutabile e attuale da raccontare ai bambini prima di andare a dormire. Per questo di tutte le versioni ho scelto quella disegnata da Patel, illustratore della Pixar, figlio di immigrati indiani, perché avvicina l’opera immortale di Valmiki ai nostri tormentati giorni. L’ippocampo - 2010 - €19,90

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India

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nove storie sacre di Angelica Parroni

N

onostante il rapido sviluppo economico e tecnologico, in India religione e spiritualità persistono e hanno ancora uno spazio enorme nella vita quotidiana. Nel suo saggio “Nove Vite”, William Dalrymple riesce a descriverne i tratti essenziali, con la penna precisa e dettagliata dello storico esperto dell’India, e con la voce delicata e soave del romanziere che si cala nel ruolo dei suoi personaggi. Nove vite, nove storie, nove ritratti commoventi che appartengono all’India dei centri commerciali ma ci catapultano in un tempo antico e scomparso.

il racconto della monaca Karnataka (india Sud ovest) Prasannamati Mataji è una monaca jaina che spazza davanti ogni suo passo con un ventaglio di piume di pavone per non calpestare anima viva. Appena adolescente sceglie l’ascetismo, rinuncia al mondo e a ogni legame, si strappa via i capelli e inizia a pellegrinare, le gambe unico mezzo di locomozione. Se la porta è chiusa, non si vede nulla; ma se la si apre solo un po’, tutto si illumina.

il danzatore di Kannur Kerala (india Sud ovest)

Per nove mesi l’anno Hari Das lavora come secondino in un carcere e come costruttore di pozzi per dei ricchi indiani. Ma durante gli altri tre balla la theyyam e danzando diventa un dio. ...ti porgono uno specchio affinché tu possa vedere il tuo volto trasformato in quello di un dio. È allora che accade. È come un’improvvisa esplosione di luce.

Le figlie di Yellamma Karnataka (india Sud ovest)

Rani Bai e Kaveri sono state consacrate alla dea Yellamma quando erano bambine. Sono delle devadasi, schiave degli dèi, e come tali incontrano una decina di uomini al giorno per soldi, ma sono rispettate e venerate da (quasi) tutti. Tutti dormono con noi, ma nessuno ci sposa. Molti ci abbracciano, ma nessuno ci protegge.

il cantore epico Rajasthan (india Nord ovest)

Pur essendo analfabeta, Mohan Bhopa è uno degli ultimi cantori dell’epopea medievale di Pabuji, e quando la recita - anche per otto ore consecutive - lo spettacolo diventa un rituale e lui un intermediario tra la terra e il divino.

il racconto del monaco Valle del Kangra, Himachal Pra desh (india del Nord)

Tashi Passang è un monaco buddista tibetano costretto all’esilio nella valle del Kangra. Prima di fuggire in India rinunciò ai voti monastici per imbracciare le armi e unirsi alla resistenza tibetana contro i cinesi, e fu poi costretto con l’inganno al servizio dell’esercito indiano per molti anni. Se sei stato un monaco, è molto difficile uccidere un uomo. Ma a volte può essere tuo dovere farlo.

il creatore di idoli Tamil Nadu (india Sud Est) Srikanda Stpathy è uno scultore di idoli. È un artigiano, ma anche un creatore di divinità; la sua officina è un laboratorio, ma al tempo stesso un tempio; la sua attività è un’arte, ma soprattutto un atto di devozione. Gli dèi crearono l’uomo, ma noi qui siamo così fortunati che aiutiamo a creare gli dèi, pur essendo dei semplici mortali.

La signora del crepuscolo Bengala (india Nord Est)

Manisha Ma Bhairavi è una donna sadhu tantrica che vive nel campo crematorio di Terapith in Bengala, dove venera la dea Tara e si prende cura dei teschi e dei suoi devoti, tra cadaveri bruciati, sacrifici animali, incantesimi, alcol, ganja e sesso rituale. Per bere da un teschio Certo che sopravvivrà… devi prima trovare il cadavere adatto. Per quanto tutto stia cambiando, è pure sempre il fulcro della nostra vita, la nostra fede, e il nostro dharma.

La fata rossa Sindh (Pakistan) Lal Peri Mastani è una donna enorme dalla pelle scura, sempre vestita di rosso. È una sufi nata in India ma trasferitasi nel Sindh, dove vive in un santuario e, ricoperta di bracciali d’argento, balla la danza estatica del dhammal fino a cadere in trance. Ogni luogo è bello a modo suo. La sabbia, le colline, le montagne in lontananza: sono tutte diverse manifestazioni di Dio. clupviaggi.it per un viaggio nei mondi perduti del Karnataka

il canto del menestrello cieco Bengala (india Nord Est) Kanai è un menestrello baul cieco che cammina lungo le strade del Bengala cantando, suonando, pregando e praticando lo yoga tantrico, tra bicchieri di rum e chillum di ganja. A volte il matto e il cieco comprendono le cose meglio e più nitidamente, del savio e del vedente.

curiosità |25


Mum3ai

la città più popolosa dell’India di Veronica Gabbuti foto di Olimpia Cavriani | olimpiacavriani.com

26|curiosità


Smendicanti, ono stanca di leggere gli odori, la povertà, la ricchezza, la polvere, la sporcizia, le latrine, la pioggia, il sudore, i gli sciancati, i ciechi, i senzatetto, le puttane, gli slum, Bollywood, il curry, le mucche sacre, i cani morti, il traffico, lo smog, i colori, le fregature, gli incantatori di serpenti, i baba, i taxi, i clacson. O meglio, sono stanca di leggere luoghi comuni su Mumbai. Da qui la mia scelta: far parlare i numeri.

1995. Bombay cambia nome in Mumbai. Oggi è la 5ª area metropolitana più popolosa del mondo, con i suoi 13,83 milioni di abitanti, su una superficie di 437,77 km2, che significa circa 31.600 abitanti per km2.

0,5% è la percentuale di turisti che si recano in India. Eppure a Mumbai esistono 6 importanti musei, 3 laghi, 10ine di templi e più di 50 siti di interesse storico-artistico.

7 isole della costa del Konkan costituiscono Mumbai, che si trova a 11 metri sopra il livello del mare. 24 giorni di pioggia si

900 Rupie è lo stipendio medio di un indiano, pari a circa 16 dollari americani. Non sono in molti a poter pagare 20 dollari un cocktail in un grande albergo della città, o 5.500

registrano di media a luglio, con percentuali che arrivano al

95% di umidità, causando epidemie e morte.

3 linee ferroviarie suburbane collegano la città: 1) Western line 2) Central main line 3) Harbour line Alle 05.30 del mattino inizia l’ora di punta del traffico.

1 milione di persone vive nello slum di Dharavi, erroneamente considerato il 1° slum di Mumbai per dimensioni. In realtà Dharavi è solo il 5°, secondo una stima recente. 1900 firme degli abitanti dello slum Shiv Koliwada sono state falsificate nel 1999 per demolire le baracche e costruire appartamenti di lusso.

dollari una suite all’Oberoi Hotel. Di certo può tutto Mukesh Ambani, il 1° uomo più ricco dell’India, 4° al mondo, secondo il magazine Forbes. Con il suo patrimonio pari a 29 miliardi di dollari, una casa di 27 piani e 600 persone al servizio, Ambani è l’altra faccia di Mumbai.

24 anni aveva Ajmel Amir Kasab, terrorista pachistano impiccato nel novembre 2012, ultimo dei Deccan Mujahidin colpevoli della lunga serie di attentati del 26 novembre 2008. In quel giorno si sono registrate 500 vittime tra morti e feriti. Fu colpito alle 22.30 anche il Leopold, bar storico aperto nel 1871, un’istituzione per gli stranieri in città.

800

1200 sono i film prodotti a Bollywood nel florido 2002, anno di grande splendore nell’economia indiana, 2° solo al clamoroso boom edilizio degli anni ’70.

4 lingue si parlano nella metropoli: hindi, inglese, gujarati e marathi, composto a sua volta da 42 dialetti. Qui convivono an-

pano oggi alla Lakmè Fashion Week, e la città si anima per 11 giorni durante il Ganesh Chaturthi, festa in onore del dio Ganesh.

persone è il limite di capienza del carcere di massima sicurezza di Arthur Road, ma 2000 carcerati vi sono rinchiusi ancora oggi.

che diverse religioni: in percentuale

68% sono hinduisti 17% musulmani 4% buddhisti e cristiani

25 metri è la lunghezza di un Pagri, il turbante indiano per eccellenza.

4 caste separano realmente la popolazione: Kshatriya, Brahmini, Vaishya e Shudra. 1 sola categoria è fuori casta: si tratta dei Paria, gli intoccabili. Miseri e impuri. 2 dollari è il prezzo della prestazione di una prostituta di Mumbai, 14 anni l’età media delle bambine, tutte intoccabili, che sono costrette a farlo. Ogni 20 minuti a Mumbai viene violentata una donna. 100 è il numero telefonico di emergenza della Polizia locale.

Mumbai è anche festa, musica e colori. Ben

79 stilisti parteci-

4 letture interessanti: 1184 pagine: Shantaram, best seller capolavoro di Gregory David Roberts, Neri Pozza. 330 pagine: Narcopolis, di Thayil Jeet, romanzo autobiografico di tossicodipendenza e alcolismo nella Mumbai capitale dell’oppio (sempre Neri Pozza). 286 pagine: La città color zafferano. Mumbai tra metropoli e mito, di Prakash Gyan, Mondadori, che racconta le contraddizioni di Mumbai attraverso la sua cultura pop, le leggende metropolitane e gli slum. 12 libri: il Codice di Manu, scritto nel V secolo a.C., l’opera più importante e autorevole riguardante il dharma, ossia i diritti e doveri che tutelano e vincolano l’uomo indù nella vita sociale, politica e religiosa a seconda della casta di appartenenza. curiosità |27


28|racconto di viaggio


direzione Havelock testo di Luca Salice foto d’apertura Olivier Blaise | fontainebleau - photo.com foto di chiusura di Claes Skoog

«E

ccola Wendy! La seconda stella, poi si volta e via sempre dritto!». Le parole di J. M. Barrie mi riecheggiano in testa mentre dal finestrino dell’aereo inizio a scorgere le prime isole, svelate una a una dalle luci dell’alba. Dopo aver attraversato l’India, dopo i 1600 chilometri di viaggio da New Delhi a Calcutta passando per Varanasi, dopo più di venti giorni di tragitti rocamboleschi con ogni mezzo possibile, finalmente stiamo per approdare in quella che sembra davvero l’isola uscita dal romanzo dello scrittore scozzese, l’isola raggiungibile solo dalla mente libera di un bambino, l’isola che non c’è. l’isola di Havelock

racconto di viaggio|29


South, Middle e North Andaman sono le tre isole più grandi che formano la spina dorsale dell’arcipelago. Intorno a queste una miriade di altre più piccole, la maggior parte non visitabili. Esistono infatti ancora tribù autoctone che vivono isolate dal resto del mondo, talmente a contatto con la natura che durante lo tsunami del 2004 molte riuscirono a salvarsi seguendo le formiche fino in cima a un monte. Una calda mattina di febbraio atterriamo a Port Blair, capitale dell’arcipelago, e dopo aver sbrigato le pratiche per il visto (bisogna farne uno ad hoc che non può superare i trenta giorni) ci imbarchiamo su un traghetto dall’aria un po’ fatiscente, direzione Havelock. La nostra casa sarà il Coconut Grove, una ventina di bungalow molto spartani disposti a semicerchio che sonnecchiano tra le palme a pochi metri dal mare. L’atmosfera che si respira è unica, una piccola comunità di viaggiatori

30|racconto di viaggio

provenienti da ogni dove condivide le giornate tra escursioni nella giungla, nuotate, pesca e musica.

Questo angolo di terra non ha ancora ceduto al turismo di massa, che distrugge i paesaggi e lo spirito dei luoghi. Molti gli israeliani che viaggiano dopo aver finito gli anni di leva, molti i ragazzi del Nord Europa venuti in India per sottrarsi al rigido inverno, molti i musicisti, pochi gli italiani. Qui si viene anche per staccare dopo un periodo trascorso in India, madre meravigliosa ma nello stesso tempo esperienza forte, intensa al punto che può lasciare spossati. Sull’isola il ritmo è completamente diverso, sincronizzati con la luce del sole si torna al tempo naturale. Havelock conta diverse spiagge ma sono due quelle che resteranno impresse nella mia mente: Radha Nagar, da tutti chiama-

ta beach n°7, e Elephant Beach. La prima è considerata una delle più belle dell’Asia. Ci si arriva percorrendo un sentiero sterrato che attraversa una foresta di alberi secolari, un labirinto visivo impreziosito dalle orme di elefanti che verso l’ora del tramonto vanno a bagnarsi nelle acque cristalline. La giungla impetuosa lascia spazio a una spiaggia bianca lunga un paio di chilometri, incontaminata, libera, unica. In alcuni tratti sembra che la giungla voglia entrare in mare. Proseguendo oltre si giunge a una piccola laguna incantata, dove l’acqua è più blu del blu e dove, nonostante il cartello di divieto di balneazione causa coccodrilli, molti ragazzi si riuniscono per regalarsi pomeriggi lisergici scanditi dal suono della dub, moderna psichedelia. Elephant beach è tutta un’altra storia. La prima volta che proviamo ad arrivarci ci perdiamo. Al secondo tentativo raggiungiamo quella che ai miei occhi appare come una sce-


nografia di Tim Burton. Trovandosi sul lato dell’isola colpito dallo tsunami la spiaggia si presenta come un enorme cimitero di alberi neri che affacciano su un mare abbagliante, un punto nero in un oceano verde. Dopo il tramonto la vita si sposta dalle spiagge al paese, paese per modo di dire. Bancarelle, sigarette, candele e baracchini in cui cucinano pesce, riso e verdure.

Molti ragazzi si riuniscono in spiaggia per regalarsi pomeriggi lisergici al suono della dub, moderna psichedelia. A quest’ora poi si possono incontrare viaggiatori da tutto il mondo e spesso si finisce a spendere la notte raccontandosi esperienze di viaggio. Cullati dalle amache delle guest house parti di umanità si incontrano e si scambiano esperienze e consigli, si scambiano vita. Voci soffuse che bisbiglia-

no nell’ombra, i volti appena rivelati dalla luce delle candele. Chi invece si affaccia in spiaggia nel cuore della notte si trova davanti uno spettacolo unico. La marea, ritirandosi, lascia sul bagnasciuga un tappeto di plancton, che illuminato dai raggi lunari prende una colorazione fluorescente. Sembra di avere un cielo stellato ai propri piedi. In queste ore regna il silenzio, tutta l’isola sembra sospesa in un sonno profondo, persino gli uccelli smettono di cantare. Verso le cinque i primi raggi di sole richiamano in spiaggia i patiti dello yoga. Soli o in piccoli gruppi danno il benvenuto al nuovo giorno. Noi, a differenza loro, il buongiorno lo diamo verso l’ora di pranzo. In pochi giorni veniamo completamente assorbiti dall’isola, in una condizione di serenità quasi fanciullesca. La mente è libera, i pensieri non più offuscati dalla quotidianità cittadina diventano chiari e solidi. La

sensazione di benessere e connessione è grande. È una totale disintossicazione dalla realtà nella quale siamo abituati a vivere, spesso addomesticati. Questo angolo di terra, così bello e così spartano non ha ancora ceduto al turismo di massa, quello che distrugge i paesaggi e lo spirito dei luoghi. Senza neanche accorgercene ci ritroviamo sul molo insieme a molti altri, gli sguardi malinconici ma appagati. È ora di andare, e mentre il traghetto si lascia alle spalle Havelock sorrido pensando a come è facile tornare bambini in luoghi come questi. «Dovete fare pensieri dolci e meravigliosi», spiegò loro Peter. «Saranno loro a sollevarvi in aria».

la spiaggia di Radha Nagar, conosciuta come beach n° 7

racconto di viaggio|31



i fiumi partono dalle montagne Reportage fotografico di LORENZO CASTORE

Chandigarh, capitale di due stati, Haryana e Punjab, 1997

reportage|33


Badrinath, Uttar Pradesh, 2000



Varanasi, Uttar Pradesh, 2001






Varanasi, Uttar Pradesh, 2001 nella pagina precedente: Yumnotri, Uttar Pradesh, 2001



Allahabad, Uttar Pradesh, 2001


reportage Allahabad, Uttar Pradesh, 2001





i fiumi partono dalle montagne Acqua è dove, a Benares, la gente scende a purificarsi da ogni peccato, e dove, specialmente nel Gange, ogni hindu desidera si perdano le proprie ceneri. Acqua sono i fiumi, i torrenti e le pozze ai quali ogni mattina gli abitanti dei cinquecentomila villaggi dell’India rurale scendono con le loro brocche. Acqua in India è quella che scivola dai vertiginosi ghiacciai dell’Himalaya verso la grande pianura. E acqua è quella dei monsoni che si scaricano sulle campagne e sulle foreste, irrigandole per tutto l’anno. Qui l’acqua non è solo una questione di vita o di morte o di lotta per averla. Qui è anche fede e purificazione. È linea di comunicazione tra realtà e infinito, il confine tra la nostra limitatezza e qualcosa a cui la mente non può arrivare. Si dice che Allahanad, nell’Uttar Pradesh, sia bagnata da tre fiumi. Due sono quelli visibili, il Gange e lo Yamuna, alla cui confluenza ogni dodici anni si svolge il più importante ritrovo degli induisti; il terzo, lo Sarawati, non c’è. BIO Lorenzo Castore nasce a Firenze il 22 giugno 1973. Ha lavorato in Europa (1997-2011), a New York (1997-2001), a Cuba (20002002) e in India (1997-2001): privilegia progetti a lungo termine e collaborazioni particolari sui temi più diversi. Il suo interesse principale è la vita e la memoria e i loro aspetti più misteriosi e nascosti in relazione con storie individuali e personali e con la Storia. Le sue opere cercano di essere semplici e complesse allo stesso tempo, e sono realizzate utilizzando differenti linguaggi fotografici a seconda delle esigenze narrative. I suoi lavori sono stati pubblicati su molte riviste come Le Monde 2, Liberation, Sunday Telegraph, L’Espresso, Amica, Ventiquattro, D, Marie Claire, Die Zeit, Sportweek etc. Ha vinto il premio Mario Giacomelli (2003) e il premio della Leica European Publishers (2005). Ha pubblicato due libri: Nero (2004) e Paradiso (2006). Rappresentato da Agence / Galerie VU’. I suoi lavori sono stati esposti in numerose mostre personali e collettive. Malana, Himachal Pradesh, 1997 nella pagina precedente: Allahabad, Uttar Pradesh, 2001

48|reportage



FuJiFiLM presenta

ALBERTo ALPoZZi

S

pesso mi viene chiesto che fotocamera usi?, come se fosse lo strumento, il medium, a creare la fotografia. L’immagine è il nostro cervello, la nostra weltanschauung, la nostra sensibilità a crearla. Il mezzo tecnologico certamente aiuta e semplifica in alcune situazioni il lavoro. Uso fotocamere diverse a seconda delle necessità e in certi luoghi la comodità e la velocità sono fondamentali. Utilizzo la reflex ma ultimamente mi sono avvicinato anche alle Compact System Camera, in particolare alla FujifilmX-Pro1, che ho avuto il piacere di testare in scenari difficili, dove spesso ti muovi allo stretto o di corsa, appesantito da un giubbotto anti-proiettile ed elmetto e ho potuto apprezzarne la leggerezza e maneggevolezza ma soprattutto la sua dimensione ridotta che permette di essere meno invasivi quando ti devi interfacciare con culture differenti. Come tutte le fotocamere professionali ha una serie di impostazioni semiautomatiche con precise rese cromatiche e contrasti che, una volta settate, ne permettono l’utilizzo con estrema facilità anche con una sola mano, caratteristica fondamentale in quei momenti in cui si scatta in situazioni estreme e il millesimo di secondo fa la differenza. Alberto Alpozzi Alberto Alpozzi nasce nel 1979; vive a Torino e ed è fotografo professionista freelance da oltre dieci anni, specializzato in reportage e fotografia per l’architettura. Attualmente insegna fotografia per l’architettura al Politecnico di Torino presso la facoltà di Architettura. A dicembre 2011 e 2012 è stato in Afghanistan come fotografo embedded per documentare la missione Isaf nel distretto Rc-West, ad agosto 2012 in Kosovo al seguito della K-FOR e a novembre 2012 in Libano; sempre per l’Esercito Italiano nell’anno 2010 ha condotto degli incontri di aggiornamento professionale per il personale dell’Ufficio Comunicazione della Regione Militare Nord.

«L

a fotografia è racconto, testimonianza, condivisione. È essere gli occhi degli altri sul mondo, è aprire una finestra su quei fatti e luoghi che non tutti possono vedere e vivere in prima persona. La fotografia di reportage in particolare è narrazione che permette di far vivere e comprendere cosa accade in mondi distanti da noi. Si fotografa per gli altri, per chi guarderà le nostre immagini che tanto più comunicheranno meno avranno necessità del supporto della parola. Documentare scenari di guerra, o aree di crisi, è un dovere affinché si possa far comprendere quante siano le sfaccettature, oltre al canonico “buonismo”, che ci stanno dietro poiché l’attuale bulimia mediatica tende a proiettare facili istantanee ormai disumanizzate avendoci abituati al dolore e alla violenza come unica chiave di lettura. È un dovere di ogni comunicatore rieducare lo sguardo dell’osservatore facendo lo sforzo di non ridurre il tutto a mero spettacolo senza ricorrere a facili immagini di propaganda. Oltre alla documentazione ci deve essere l’astrazione, l’andare oltre al quotidiano vissuto e congelato nel singolo scatto: dietro ad ogni fotografia deve esserci un’altra immagine, un altro racconto, un’altra realtà. La fotografia è un’istantanea, un ritaglio della realtà, ma cosa accadde l’istante dopo (e l’istante prima)? Cosa c’è oltre la nostra inquadratura? Non ci si deve soffermare sul qui e ora ritratto, ma ritrarre quel “perché del qui e ora” e soprattutto “quel che sarà”, andare oltre e renderlo visibile, l’immagine creata deve essere un punto di partenza, non di arrivo». alberoalpozzi.it


il carcere femminile di Herat, Afghanistan


la strada per Leh a cinquemila metri verso la terra dei lama di Marianna Kuvvet foto di Rita Mbanerjee | rita.mbanerjee.com

C

i provo. Si, metto subito le mani avanti perché spero ma non sono sicura di riuscire a rendere giustizia a ciò che ho visto. Ci provo, dicevo quindi. Permettetemi anche di dilungarmi un attimo per introdurre quella che è stata solo una parte di un viaggio più lungo in India. Prima di raggiungere Manali e da lì partire in jeep per Leh, io e i miei compagni di viaggio, ignorando consigli e buon senso, eravamo stati in Rajasthan in pieno agosto. Nonostante la bellezza e l’indiscutibile fascino di quella regione bisogna dire che il cibo era orrendo, la temperatura a stento sopportabile e la febbre alta chi prima e chi poi aveva colpito quasi tutti. Erano questi quindi i presupposti da cui partivamo. Lo voglio sottolineare perché il cambiamento di paesaggio, colori, clima e persone è stato veramente drastico. Dopo la sacralità di Pushkar, Jaisalmer e le notti passate nel deserto a dormire sulle selle dei cammelli che ci avevano condotto lì, ci siamo quindi avviati verso il Nord, un po’ debilitati fisicamente, vestiti come beduini e chiaramente molto felici. Dal caldo Rajasthan il nostro obiettivo era Manali. Più facile a dirsi che a farsi. Lo spostamento è durato quattro giorni di frane, mancate comunicazioni di strade interrotte, pullman presi d’assalto, ristoranti pieni di gente esausta che avevano esaurito qualunque liquido potabile che non fosse Fanta. Dopo diverse soste, alcune volute altre no, qualche bus, un meraviglioso toy train sull’orlo del precipizio in mezzo a una vegetazione rigogliosa, circondati da curiosi indiani che ci scattavano foto come fossimo noi la cosa affascinante di quel posto assurdo, raggiungiamo l’Himachal Pradesh e infine Manali. Una camera con terrazza sulle montagne, il verde tanto verde da sembrare finto, mercati tibetani, Vashist dall’altra parte del fiume. Eravamo arrivati in un altro mondo. Dopo tre giorni in questo paradiso di quiete e relax è finalmente iniziato il viaggio alla volta di Leh, capoluogo del Ladakh, divisione dello Stato di Jammu e Kashmir arroccata fra le catene montuose del Karakorum e dell’Himalaya. Ci dirigevamo quindi verso l’estremo Nord, lì dove l’India confina con la Cina e il Tibet, il tetto del mondo. Si dice sia il viaggio a essere veramente importante, non la meta. Nonostante la meta fosse in questo caso di tutto rispetto, mai fui più d’accordo. La Manali-Leh consiste in un percorso di circa 470 km a un’altitudine media di oltre 4000 metri e massima di 5.328. La strada è infatti percorribile solo nei pochi mesi l’anno a cavallo della stagione estiva, essendo altrimenti ricoperta dal ghiaccio. Noi abbiamo deciso di dividere il tragitto in due parti, facendo una sosta intermedia a Keylong. Da Manali siamo quindi partiti in jeep, e quando abbiamo pian piano abbandonato il verde rigoglioso per trovarci a picco su burroni che avevano tutto il diritto di essere definiti tali, la passione per l’erba del nostro autista ha a tratti fatto vacillare la sicurezza che tanto ostentavo. La strada era stretta e in condizioni ovviamente tutt’altro

52|curiosità

La città di Leh è il capoluogo del Ladakh, divisione dello stato di Jammu e Kashmir, arroccata tra le catene montuose del Karakorum e dell’Himalaya. La Manali - Leh consiste in un percorso di circa 400 km a un’altitudine media di oltre 4000 m e massima di 5328. La strada infatti è percorribile solo d’estate.


che ottimali. Spesso i grossi camion rossi, addobbati e pieni di incomprensibili scritte e colorate immagini sacre, arrivavano nel senso di marcia opposto e si era costretti a farli passare fermandosi a pochi centimetri dallo strapiombo. Abbiamo fatto una sosta a Rotang, ridendo senza motivo a causa dell’altitudine che stordiva e dava alla testa, e in un agglomerato di tendopoli, forse l’equivalente dei nostri autogrill, circondati da viaggiatori che cercavano di raggiungere Leh, chi in pullman, chi come noi in jeep, chi in bici (eh si). Dopo una notte a Keylong, villaggio di neanche duemila anime a un’altitudine di circa 4200 metri, siamo ripartiti. Avevamo deciso di abbandonare la comoda jeep e viaggiare in minibus, per scoprire al momento della partenza che il minibus in questione altro non era che la stessa jeep con cui eravamo arrivati lì, ma decisamente sovraffollata. Fra i nostri compagni di viaggio, eravamo otto in tutto, una signora indiana con il mal d’auto. Pensate a cosa possa voler dire avere il mal d’auto in quelle condizioni di viaggio. La donna ha infatti elegantemente dato di stomaco dal finestrino per buona

parte del tragitto. La scomodità e il mal di testa che non riuscivamo a sconfiggere nonostante il rischio di overdose da paracetamolo sono stati ben presto dimenticati. Di fronte a quei paesaggi che sono nella mia testa i più belli che abbia mai visto, ho capito cosa vuol dire non avere le parole per descrivere qualcosa. Dal finestrino vedevo canyon, paesaggi lunari, altipiani desertici. Quando ci siamo fermati a Tanglang La, il passo più alto, a oltre 5.300 metri, una scritta recitava You are passing through the second highest pass of the World. Unbelievable is not it? Credo che effettivamente incredibile sia l’unico aggettivo utilizzabile. Abbiamo continuato quindi fino a Leh, imbattendoci costantemente negli improbabili cartelli che avevano accompagnato tutto il nostro viaggio con frasi come Don’t be a gama in the land of lama e alternandoci il posto vicino al conducente per evitare di perdere del tutto la sensibilità alle gambe. Quando finalmente siamo arrivati a destinazione e siamo scesi dalla jeep, intorpiditi e confusi, in testa avevo un solo pensiero: sono veramente una persona fortunata.

curiosità|53


BENARES

la santa di Fulvio Benelli e Fabio di Genova foto di Lorenzo Giordano | lorenzogiordano.com

54|racconto di viaggio


Viaggio nella città dove si muore per l’ultima volta. Dal tramonto all’alba, sulle rive del Gange, afferrati da un’esperienza indelebile che illumina la vita. Del suo senso più recondito.

C

i sta aspettando, Benares. Ci è venuta persino incontro, per prepararci all’impatto. Siamo sulla banchina dell’affollata stazione ferroviaria di Agra, duecento chilometri a Sud di Nuova Delhi. Un luogo profondamente diverso dai comodi scenari dove entrambi siamo cresciuti. Quando arriva il convoglio, avvolto in un cappotto di fumo antracite, proviamo timidamente a farci largo, subendo gli spintoni dei paria che bisticciano chiassosamente per accaparrarsi gli ultimi sedili. Appena il tempo di posare gli zaini nella cappelliera e lei si siede accanto a noi. Il corpo, sinuoso ed elegante, adagiato sulle spalle dell’uomo che la accompagna. È giovane, s’intuisce dalla lucentezza delle mani. Un fazzoletto le copre il volto; i piedi sono nudi, perché non è previsto che cammini, mai più. È morta. Stanno trasportando il suo corpo a Varanasi, dove le ceneri saranno disperse e la sua anima liberata per sempre dai lacci della carne. Senza guardarci, alziamo gli occhi e lasciamo lo sguardo vagare nello scompartimento. Ci sono corpi senza vita ovunque. Una qui, l’altro là. Come se addormentati, in vista del lungo viaggio. L’accompagnatore che ci siede di fronte, un ragazzo sulla trentina, porta un abito bianco. Quando un hindu muore, una riunione di famiglia decide chi trasporterà le spoglie del caro estinto. Il designato si congeda dal lavoro, si rasa il cranio e inizia un periodo di digiuno e preghiere. Poi, vestito di bianco, si mette in viaggio. Da ogni parte del subcontinente, affrontando dieci, anche quindici giorni di cammino; a piedi, con la corriera, sul carro merci o bestiame, sul tuk-tuk, in treno. Entriamo così in città, con un macigno nella pancia e le certezze capovolte. Entriamo con l’esercito dei morti.

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Benares, o Varanasi, è la più antica città vivente della Storia. Antica come Babilonia, gli uomini la abitano da oltre quattromila anni. Mark Twain ha scritto che “è più antica della storia, della tradizione, della leggenda, e appare invero antica più di tutte queste cose messe insieme”. Maestosa e decadente, si srotola lungo le sponde del Gange. Il fiume sacro, la madre ancestrale cui dovere la vita; vi si accede attraverso un centinaio di gradinate color mattone, i gath. Varanasi è la più importante tra le sette città sacre dell’India, pellegrinaggio obbligato per i fedeli, non solo induisti, anche sikh, giainisti e musulmani. Inoltre a Sarnath, mezz’ora di cammino, Siddharta Gautama, il Buddha storico, pronunciò il discorso sulle Quattro Nobili Verità, l’elemento cardine della dottrina buddista. La città ospita oggi tre milioni e mezzo di persone, tra cui circa cinquantamila bramini consacrati a officiare le cerimonie rituali. La principale è la cremazione con la dispersione delle ceneri. Si mira a raggiungere la moksha, la salvezza, e sfuggire alla ruota delle reincarnazioni, il samsara. A eccezione per le morti bianche, i bambini, in India si prega affinché il defunto raggiunga la meta suprema: non vivere mai più. A dispetto di tanta sacralità, il primo impatto non è diverso da quello avuto con altri luoghi dell’Uttar Pradesh. Un dedalo di mercanti dall’aria fragorosa, massaggiatori ambulanti, venditori di stoffe e di tè, barbieri di strada, mendicanti petulanti, vacche e scimmie e cani randagi si accalcano in una variopinta e speziata anarchia. Ci sentiamo sporchi, per via del viaggio, ma le persone che vediamo intorno lo sono di più; si direbbe che hanno un velo grigiastro incollato sul viso.

La bellezza della vita è nella sua caducità. Tutti moriamo, accettarne la lezione è il passaggio obbligato per una nuova vita. Senza paure, né alibi. Intanto gli accompagnatori, scesi dal treno con i propri cari in spalla, si allontanano in rassegnata parata. Devono registrarsi in una sorta di anagrafe e aspettare il proprio turno. Potrebbero passare settimane. Qualche ora dopo, stesi sul letto della pensione, abbiamo poca voglia di parlare. In Occidente la morte è il tabù con la falce, la donna incappucciata del settimo sigillo; acquattata al buio dell’inconscio archetipico, ingoia ogni tentativo di felicità. Vederla normalizzata, burocratizzata, ci ferisce. Ci scopriamo attaccati alla sofferenza come una questione identitaria. Il responsabile della guest house ci viene a chiamare, vuole mostrarci qualcosa. Dice di chiamarsi Baba, lo seguiamo sul tetto. È scesa la sera, il crepuscolo si è liquefatto in una vena di rosso pastello e carta da zucchero. La città, di colpo, è ascesa a un silenzio irreale. Tutte le luci spente. Sul fiume una processione di lumini galleggia sul dorso della corrente, sembra una cometa di fuochi fatui. È la puja, la preghiera del tramonto. Un bramino salmodia una nenia mentre con gesti calcolati ruota candelabri e bracieri. I bambini adagiano sull’acqua le offerte devozionali. Seduti sul tetto, fumiamo. Non siamo i soli. Due cupe vampe, come ciminiere, s’innalzano fino alla luna. Sono le pire dei gath principali, c’illustra Baba, Manikarnika e Harish chandra. I cadaveri sono bruciati ininterrottamente. Da quattromila anni. Con lo sguardo accompagniamo i lapilli che danzano nell’aria. La patina sulla faccia della gente - che abbiamo anche noi - ora capiamo cos’è. Sono le molecole dei corpi in disgregazione. È la polvere della Bibbia, la cenere che eravamo, e che ritorneremo. Non ti fa impressione?, domandiamo a Baba. Good karma, bad karma, risponde laconico.

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Hiding Souls Lontano dalle lusinghe dell’esotismo, le persone ritratte sono fissate nell’istante e colte nell’atemporalità per aprire uno squarcio su vite che non saranno raccontate, senza nessun intento descrittivo. Hic et nunc, qui e ora. Una rinuncia al facile approccio etno-documentaristico del Viaggio in India in favore di una visione più intimistica e paradossalmente più aperta al confronto con un’umanità altra, così lontana eppure così vicina nei suoi sentimenti più profondi. Lorenzo Giordano

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Descritto nelle Upanishad, il karma è il lato immateriale delle azioni, e forma il destino degli esseri viventi. Se per i cristiani è la buona condotta a garantire il paradiso, gli induisti cercano l’aderenza con il dharma, un concetto sottile e articolato che potremmo sinteticamente tradurre così: le cose come devono essere fatte. Quest’attitudine, attraverso le reincarnazioni, genera il karma necessario per giungere alla definitiva liberazione dal dolore della vita. La beatitudine del vuoto, il nirvana. Muti, ci poniamo delle domande. Il Cristianesimo, attribuendo la facoltà di risorgere a un solo uomo, ha privato tutti gli altri di questa prospettiva. Se si aggiunge l’idea di peccato originale, non sorprende che da noi l’esistenza sia ridotta a una gimkana psichica tra l’angoscia e il senso di colpa. Qui tutti risorgono, anzi, a un certo punto vorrebbero smettere. Sul serio non vuoi rinascere?, Baba alza le spalle e continua a fumare. Nella notte i denti gli luccicano come stelle. Non è ancora giorno quando ci svegliamo, dall’orizzonte s’intravedono i primi bagliori. Per le vie c’imbattiamo solo in vacche addormentate. Scendiamo i gradoni e, contrattando, noleggiamo una barca. Trasportati da una coppia di fratelli, gli occhi come buchi neri, passiamo in rassegna alcuni gath. La città si sta svegliando, e si riversa al fiume. Donne lavano i panni. Una madre immerge energicamente un neonato tenendolo per il tallone. Uno yogi, barbuto e flessuoso, deterge i lunghi capelli. Le abluzioni nel Gange sono auspicio di buona fortuna. Arriviamo al Manikarnika gath mentre si leva il sole. Il fuoco, solenne come una preghiera, continua a puntare il cielo. Un grappolo di persone sta calando nella foschia del fiume le spoglie di un individuo. Deve essere un lebbroso, non è concesso loro di essere cremati. A riva, scendiamo dalla barca. Vogliamo addentrarci, arrivare all’epicentro di quel cuore che purifica e divora. Il paesaggio è spettrale, sembra l’Inferno nelle illustrazioni di Doré. Ci sono roghi ovunque. Avanzando, non riusciamo a evitare le lacrime. Sono il fumo e l’odore di carne bruciata. È la commozione. Gli addetti intanto accatastano legna. Nessuno si guarda negli occhi, perché se la gioia è un’esperienza vera se condivisa, il dolore si prova da soli. Altri raccolgono polvere, il residuo dei falò. È un buon fertilizzante. Quando vi è morte, vi è rinascita, recita la Bhagavad Gita, il sacro poema dell’Induismo. Ci viene incontro un bramino. Ci invita a seguirlo nell’edificio che si arrampica alla nostra sinistra. Lo indica: calce viva senza vetri alle finestre, sembra una struttura post-atomica. Titubanti, accettiamo. Dentro, una notte sempiterna. Giusto qualche lumino sul pavimento, sparso qua e là. Qui vive chi aspetta di morire, dice. La legna per ardere costa cara e le caste più basse non possono permettersela. E così attendono. Settimane, talvolta mesi, dimenticati a terra senza mangiare né lavarsi. Un’anziana signora, magra come il ramo di un albero, si alza scricchiolando al nostro passaggio. Tremante, ci porge la mano e mormora qualcosa in hindi. Fatele un’offerta, incalza l’officiante. Gli spieghiamo che per la morale occidentale è intollerabile pagare qualcuno per farlo morire. È tanto che aspetta il suo turno, non ce la fa più. Alla fine la morte, ecco cos’è. Una pratica da sbrigare. Una faccenda che riguarda i vivi. Perché quello che si cela oltre la porta, a nessuno è dato saperlo. Le diamo mille rupie. Senza dire nulla, accende un sorriso su quello che un tempo era il suo volto. Usciamo dal gath con l’impressione di aver inghiottito una palla rovente. Eppure ci sentiamo sollevati. Come astronauti di ritorno sulla Terra. Per le strade va in scena l’usuale baccano, ma non ci infastidisce più. La bellezza della vita è nella sua caducità. Tutti moriamo, accettarne la lezione è il passaggio obbligato per una nuova vita. Senza paure, né alibi. Mentre Varanasi ci palpita intorno, ogni gesto, ogni persona, assume ora un significato differente. Tutto è al suo posto, tutto ha la sua poesia. Dei giovani in una locanda giocano a karrom. Una bambina, riparata alla penombra di un cortile, pianta dei fiori.

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in Orissa viaggio tra le popolazioni delle foreste di Elena Adorni foto di Francesca Marino

S

e il viaggio in India ti porta nello stato orientale dell’Orissa, ti catapulterà in un altro tempo dove la sensazione sarà quella di essere nel continente africano. Attraversato dal fiume Mahanadi che bagna paesaggi incontaminati, la sua ricchezza più grande sta nella popolazione, o meglio nelle popolazioni. La particolarità di questo stato indiano infatti è data dalle sue sessantadue tribù, tutte diverse ma in certi aspetti simili e legate tra loro. Come l’origine africana, appunto, che possiamo scorgere nei tratti dei volti delle persone e in alcuni riti e balli tradizionali, senza sapere come questi segni somatici e culturali siano giunti fin qui. Sappiamo però con certezza che questi popoli condividono una natura pacifica, una religione di tipo animista e un’organizzazione sociale basata sulla divisione del lavoro per di più di raccolta, caccia, agricoltura e pesca. Purtroppo la fauna dell’Orissa ormai è poco presente nel territorio e gli uomini, una volta dediti alla caccia, ora accompagnano le donne nei lavori di raccolta e agricoltura, portando sempre avanti però il proprio compito rituale, assumendo gli incarichi di stregoni e maghi. In queste tribù le donne hanno un ruolo rilevante per l’economia delle comunità e anche per il benessere dei nuclei famigliari, e hanno ottenuto una posizione egualitaria rispetto a quella maschile. La ricchezza di risorse della zona e l’indole pacifica delle popolazioni purtroppo hanno reso in alcuni casi semplice e immediato lo sfruttamento dei territori da parte di multinazionali e governo indiano, causando la distruzione di interi villaggi. In India le tribù sono protette da un dettato costituzionale e soggette a un programma di sviluppo, ma tutto ciò non ha impedito di trasformarsi in mero controllo politico da parte delle culture dominanti. Non si tratta di uno sviluppo sostenibile, le percentuali di alfabetizzazione infatti sono bassissime e quelle di povertà altissime. Famoso il caso dei Dongria Kondh, una popolazione dell’Orissa tra le più sperdute dell’India, che conta circa ottomila abitanti.

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I Dongria vivono di caccia e raccolta in piccoli villaggi lungo il monte Niyamgiri, territorio coperto di dense foreste. La montagna è il loro tempio, la casa del loro dio che protegge i boschi tutti intorno, linfa vitale che gli permette di vivere a stretto contatto con la natura. Ci si può perdere nell’armonia dei colori e degli ornamenti che adornano i volti e i corpi delle donne Dongria Kondh. Vivono sulla loro montagna e non potrebbero stare in nessun altro posto. Purtroppo questo luogo è stato preso di mira per costruire un’immensa miniera di bauxite, di cui la montagna è molto ricca. I Dongria Kondh hanno intrapreso una lunga lotta per difendere la loro terra e sono riusciti a vincerla, riuscendo a preservare indipendenza, salute, ma soprattutto le profonde conoscenze di quell’ecosistema che proteggono da secoli. L’etnia più visibile è la tribù Bonda, che una volta a settimana converge su Mundiguda, al confine con l’Andhra Pradesh. Le donne sono le prime a scendere ondeggianti dalla montagna fitta di foresta, approdando in un lembo di terra rossa che diventerà un bazar improvvisato. La donna Bonda sembra una divinità pagana: testa rasata, cerchi enormi di alluminio intorno al collo e taglia minuta. La loro nudità è coperta solamente da collane colorate e dai ring, piccole gonne cucite dalle donne stesse con il telaio famigliare. Arrivate a destinazione iniziano a barattare le stoffe con i materiali di cui hanno bisogno come pesce secco, sapone e tabacco disidratato. Gli uomini in perizoma se ne stanno in disparte e molti cedono all’alcolismo. Un’immagine malinconica che sbiadisce un passato ancestrale da abili cacciatori. Spariscono le tradizioni e come spesso accade le vie di fuga occidentali prendono il loro posto. L’assenza di vestiti, gli ornamenti e la semplice umanità dei volti di queste persone mi emozionano. Di fronte alle enormi collane della tribù Gadaba, alla nudità sacra dei Bonda e alla resistenza dei Dongria Kondh rifletto sull’inevitabile fugacità delle culture tribali che stanno scomparendo dal nostro mondo.

nella pagina seguente le tribù Dongria, 2003


curiositĂ |61


La musica ha fatto parte fin da subito del mondo di Cornetto, perché è il linguaggio che forse più di tutti fa sognare e viaggiare sull’onda delle emozioni. Dagli spot degli anni ’60 a Cornetto Summer of Music Tour Negroamaro Contest sono state tante le occasioni in cui la musica ha affiancato il Cuore di Panna nel suo percorso, che quest’anno decide di rimettersi in viaggio seguendo il nuovo motto “Enjoy the Ride, Love the Ending”. Se ti godi ogni momento del viaggio, amerai ancora di più il finale. Sali a bordo anche tu, decidi quale sarà il finale di questo racconto e scopri i premi di Cornetto su thetripmag.com

RACCONTACI IL TUO FINALE

«CHI È KIM?» di Luca Di Fulvio Eccomi a Lahore. Oggi si trova in Pakistan, ma un tempo non tanto lontano apparteneva all’India dell’Impero Britannico. In ogni caso era ed è nel Punjab. Sono qui a causa di un libro, per quanto incredibile o cretino possa sembrare. Mi faccio largo in questo gran casino verso il punto dal quale voglio iniziare il mio viaggio. Quando parlo mi prendono per un angrezi, un inglese. D’altro canto io il punjabi o l’urdu non lo so. Alla fine arrivo dove volevo arrivare. Ho il libro in tasca. Leggo il primo paragrafo del primo capitolo. “Sedeva, beffandosi delle ordinanze municipali, a cavallo del cannone Zam-Zammah, sul suo basamento di mattoni di fronte al vecchio Ajaib-Gher, la

Casa delle Meraviglie, come gli indigeni chiamano il museo di Lahore”. Chi è? Kim. Il ragazzino protagonista del romanzo di Kipling. Non so perché ‘sto cavolo di ragazzino mi ha portato fin qua. Ma lo scoprirò, mi dico. Provo a mettere ordine. Mentre Kim se ne sta qui sul cannone, vede arrivare un vecchio strano. È un pahari, pensa Kim, un montanaro. Il vecchio viene dal Botiyal (Tibet) ed è un lama. E chissà perché, incontrando questo vecchio strambo che cerca un miracoloso Fiume della Freccia, Kim decide di diventare il suo chela, il suo discepolo. Mendica per lui, l’uomo Santo, e a volte, la notte, mentre girovagano per l’India, si domanda: «Chi è Kim?». E gli piglia una spe-


cie di agitazione quando gli frulla nella testa quella semplice domanda che però non ha una risposta. Lascio il cannone e vado a nord, dove il vecchio lama e Kim si dirigono verso la fine del romanzo. Comincio a salire anch’io, attraversando prima i bassi monti Shivalik. Non a piedi come loro. Non con la neve. Nemmeno a dorso di un cammello battriano. Io ho un catorcio con quattro ruote dicendo che assomiglia a una macchina. Qui dicono Allah kerim, Dio è misericordioso. Speriamo che questo cesso non muoia per strada. «Chi è Kim?» mi risuona in testa mentre mi inerpico per regioni così solitarie e silenziose che mi sembra di sentire il rumore dei miei pensieri. Perché quel ragazzino se lo domandava in continuazione? E soprattutto perché me lo domando io? Mi sto innervosendo. Lo odio ‘sto Kim! «Non me ne frega niente di chi sei, Kim del…» urlo a un certo punto dal finestrino. Ma la frase mi si blocca all’improvviso in gola. Da dietro una roccia è comparso un tizio strano. Mi guarda senza muoversi. Inchiodo. La macchina slitta sulla strada polverosa. Quasi lo piglio ma quello mica si sposta. Ora che sono vicino mi accorgo che è un vecchio. O forse è un bambino rugoso. Voglio dire, è chiaro che sia vecchio, ma ha due occhi da bambino. Che strano… «Vuole un passaggio?» gli chiedo in inglese. Il vecchio rimane immobile ancora per un po’, poi gira intorno alla macchina, sale e si siede. Non mi guarda. Sta seduto dritto come se avesse ingoiato una scopa e guarda davanti. «Dove va?» gli chiedo. Mi accorgo di parlare a voce troppo alta. Come se urlando mi potesse capire meglio. Comunque il vecchio capisce, evidentemente,

perché punta un dito davanti a sé, fino a sbattere contro il parabrezza. Guardo nella direzione che ha indicato. Ci sono monti e gole e monti e gole. Per l’esattezza davanti c’è l’Himalaya, immenso. Quel cavolo di dito spiaccicato contro il parabrezza è vago. «Dove di preciso?» ripeto sempre a voce troppo alta. Il vecchio ritrae la mano. Poi punta il dito di nuovo e di nuovo, lentamente, allunga il braccio, fino a sbattere ancora contro il parabrezza. Ingrano la prima. Meglio muoversi prima che questo tizio si spappoli la falange dell’indice. Appena la macchina si muove il vecchio si volta verso di me e mi sorride. C’è un modo di sorridere degli orientali che a volte ti fa pensare che siano deficienti. E a volte invece ti entra dentro. Tanto dentro. Questo vecchio non sorride come un deficiente. E io mi sento un po’ a disagio. E un po’ bene. Accelero. Guido. C’è una specie di domanda che mi si agita dentro e credo di non volerla sentire. Il vecchio guarda avanti per un’ora. E poi all’improvviso mi dice: «Tu chi sei?» Inchiodo. E anche io guardo avanti, senza riuscire a voltarmi verso il vecchio. Adesso fa freddo. Siamo ai piedi delle più grandi montagne del mondo. E forse comincio a capire perché un romanzo mi ha portato fin qui. «Chi è Kim?» Non so per quanto tempo rimango in silenzio. So solo che ora mi sto voltando verso il vecchio. Lui mi guarda con quegli occhi da bambino nella sua faccia da vecchio. Annuisce. E allora sento che sto aprendo la bocca per rispondere alla sua domanda…

foto di Rohit Chawla: l’Himalaya vista da Kasol


in Italia

TRA I SIKH a cura di Claudia Bena

D

imenticatevi le cinque K, i segni fisici della fede per ogni sikh. Il battesimo (khalsa) non è mai stato obbligatorio. In pochi indossano il turbante (kesh), che nasconde i lunghi capelli raccolti ordinatamente con il pettine (kangha). La spada cerimoniale (kirpan), pur essendo solo un simbolo della lotta contro l’ingiustizia è comunque un’arma. Il bracciale (kara) lo indossano ancora. Le mutande (kacha), simbolo di castità, non abbiamo indagato. La comunità che si riunisce di domenica vicino Lavinio non è numerosa come le altre sparse per tutto il territorio dell’agro pontino. E trovarla non è stato

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semplice. Forse perché pensavamo di imboccare la nettunense e seguire il primo sikh in bicicletta. Invece non ne abbiamo visti. E molti indigeni non erano neanche a conoscenza dell’esistenza del tempio. Che poi è un prefabbricato circondato da un parcheggio. Veniamo accolti in maniera molto educata. Tutti ci guardano. L’interno del tempio è diviso tra la zona per gli uomini e quella per le donne. Chiunque può partecipare alle funzioni, e fare foto non è un problema. Provo a parlare con qualche ragazza che mangia fuori il Langar, il pranzo collettivo dei sikh, ma nessuna parla italiano, o non sembrano interessate a parlarlo con me. Poi arriva Poma. È un poeta, dice. Si trova bene in Italia. Il suo padrone è buono con lui. A questa parola rabbrividisco. Tra i principi fondamentali del sikhismo c’è lavorare onestamente, e nel nostro paese questo significa sfruttamento. Nel complesso la religione sikh parla di uguaglianza: non esistono caste, non esiste clero, non c’è differenza tra uomo e donna e hanno tutti lo stesso cognome. Singh (leone) per gli uomini e Kaur (leonessa) per le donne. Sono pacifici e fedeli, sono vegetariani e gli è interdetto fumo e alcol. Erano la guardia privata di Indira Gandhi, fino al 13 ottobre del 1984. Il movimento indipendentista che cercava di dividere il Punjab dal resto dell’India occupò il Tempio d’Oro di Amritsar, il luogo di culto sikh più importante. Indira Gandhi represse la rivolta nel sangue. Uccise il leader Jarnail Singh Bhindranwale, i soldati, ma anche le donne e i bambini. E le sue guardie personali si vendicarono puntando le armi che avrebbero dovuto difenderla contro di lei. Oggi il Punjab è la seconda regione più ricca dell’India. Nonostante ciò ancora riusciamo a perpetuare la grande menzogna per cui nel mondo occidentale c’è lavoro e si guadagna meglio. Guardando questa gente non posso non guardare a noi e alla nostra civiltà ormai esaurita. Il declino del vecchio mondo è disarmante e troppo evidente di fronte alla schiavitù in cui costringiamo gli immigrati.


il personaggio

la madre di Valentina Diaconale illustrazione di Valentina Gruer

I

l 24 febbraio del 1968 più di cinquemila persone si riunivano intorno a un albero di Banyan. Centoventiquattro uomini avevano con sé una manciata di terreno del paese da cui provenivano e che in quel momento rappresentavano. Ognuno di loro versava la propria terra all’interno di un’urna di marmo bianca, mentre le parole de La Madre declamavano i quattro punti della Carta di Auroville. Una piccola galassia a forma di spirale nasceva in mezzo a un mare di deserto. A Sud dell’India, nello stato del Tamil Nadu, a pochi chilometri da Pondicherry, il sogno di una donna francese prendeva vita mentre lei lontana, collegata via telefono, lottava contro il disfacimento del suo corpo. Strano il destino di Mirra Alfassa, un’esistenza dedicata all’approdo di una nuova specie umana, e quando il primo mattone della città fondata grazie alle sue parole viene posto, lei non c’è. Ma sono sicura che la sua assenza il giorno dell’inaugurazione di Auroville dispiaccia più a me che oggi racconto la sua storia che a lei. Semplicemente perchè lei mi direbbe: ma io c’ero. La Mére, al secolo Mirra Alfassa, nasce a Parigi nel 1878 da padre turco e madre egiziana. Riceve un’ottima educazione scientifica e matematica improntata al materialismo. Attratta dalla musica e dalla pittura cresce nella Parigi degli Impressionisti vivendo uno dei momenti più rivoluzionari dell’arte moderna. Si sposa diciannovenne con un pittore discepolo di Gustave Moreau e comincia ad avvicinarsi all’occultismo. Divorzia dal pittore e si risposa con un filosofo. Il nuovo marito aspira a diventare deputato delle Indie francesi e nel 1914, seguendo la campagna elettorale si reca con la moglie a Pondicherry. È qui che comincia la seconda parte della vita di Mirra, segnata dall’incontro con Sri Aurobindo che avviene il 29 marzo, pochi mesi dopo il suo arrivo. Si riconoscono subito. Lui è il maestro che da giovane appariva nei

suoi sogni, lei è la discepola tanto cercata. Rimangono insieme solo un anno a causa della guerra che porta Mirra in Giappone dove si dedica alle pratiche zen. Dopo quattro anni Mirra torna in India, questa volta da sola, e nell’ottobre del 1922 va a vivere con Aurobindo nella guest house in Rue del la Marin al n.9, dove diventerà La Madre e dove rimarrà per il resto della sua vita. Il maestro le affida la direzione dell’Ashram di Pondicherry e Mirra, trovandosi a confronto con quel “campionario delle difficoltà umane” come lei stessa definiva l’Ashram, comincia a fantasticare sulla costruzione di «un luogo sulla Terra in cui nessuna nazione abbia il diritto di dire è mio, dove ogni uomo di buona volontà possa vivere liberamente come un cittadino del mondo… un luogo dove i bisogni dello spirito e dell’amore per il progresso prevalgano sulla soddisfazione dei desideri delle passioni, la ricerca dei piaceri e del godimento materiale». Una parigina ostinata e anticonformista, una donna imbevuta di razionalismo positivista che non si lascia ammaliare da mistiche spiritualità ma che trasforma se stessa in un laboratorio vivente dedicato alla ricerca della “specie nuova”. Un viaggio all’interno del proprio corpo, attraverso la materia, fino in fondo alle cellule, a caccia di quel “terribile nodo” da sciogliere. Quello della vita con la morte, considerando quest’ultima come una grande menzogna dalla quale dobbiamo liberare le nostre cellule assuefatte dalle leggi di Newton e di Mendel. «La morte non è una cosa inevitabile: è un incidente sempre accaduto finora… È solo una cattiva abitudine». Ed ecco che la sua presenza fisica non conta più. Lei c’era quarantacinque anni fa. Come c’è oggi. auroville.org

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medioevo occipitale (diciamo)

di Federico Di Vita

Q

uella mattina Loretta Smerigliati avrebbe fatto di testa sua. Non aveva intenzione di passare tutte le vacanze di Goa a sonnecchiare tra i palmizi del resort in attesa dell’ennesimo Martini dry. Aveva anticipato perfino la sveglia puntata all’alba e, data una circospetta occhiata in giro, s’era alzata facendo attenzione a non svegliare Bruno. Presa la borsetta Louis Vuitton uscì di soppiatto, lì c’era la Lonely tutta appuntata, non aveva bisogno d’altro per scoprire l’India che voleva vedere lei, quella genuina. Il suo piano per entrare a contatto con quanto di selvaggio si nasconde nel subcontinente partiva prendendo in prestito la jeep del compagno, certo, il portinaio l’avrebbe vista uscire ma chi poteva supporre che quella danarosa ragazzina avesse intenzione di dirigersi per centinaia di chilometri a Sud-Est, tra gli altipiani della riserva di Bhadra? Nessuno, e quindi era deciso: per prima cosa avrebbe visto una tigre. Per farlo non si sarebbe servita dell’aiuto di chissà quale sherpa in sari, no, avrebbe sorpreso la tigre nella giungla da sola, magari l’avrebbe trovata di spalle, appostata in attesa di fiutare una preda. Con un po’ di fortuna ne avrebbe scovata una bianca. Dopo ore di cammino su sentieri sterrati la signorina Smerigliati era giunta in una valle oltre la quale con la vettura era impossibile proseguire. Smontata dal veicolo l’aveva abbandonato all’ombra di un ficus dalle foglie incredibilmente grasse, di lì la vegetazione si faceva più fitta e, non senza prima essersi data una spruzzata del rinfrescante Parfum Sauvage Chanel allo zenzero, Loretta si addentrò tra le fitte piante con passo sfrontato. Il sole, seppur filtrato dalla vegetazione, cominciava a farsi sentire, era aprile ma l’umidità non dava tregua e del resto la giornata avanzava, erano passate diverse ore da quando la ragazza aveva lasciato il resort e da due, forse tre, proseguiva a piedi. Nella giungla zone più intricate lasciavano il passo a chiazze polverose, da qualche minuto Loretta continuava a ripetersi che per avvistare una tigre ci vuole la pazienza di Siddharta. Cominciava a sentirsi stanca e una volta superata l’erta su cui camminava stabilì che era giunto il momento di appostarsi. Di là dalla collina si apriva una stretta valle circondata da tre monti. Loretta discese e si sedette all’ombra di un

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fumetto edito da Amar Chitra Katha | amarchitrakatha.com

gigantesco Bargab. Sotto le fronde ombrose la signorina Smerigliati si guardò intorno e vide seduta in terra una smisurata figura di ragazzo, aveva quattro braccia e testa di elefante. Il mostro paffuto sostava dolorante col dorso appoggiato a una montagna. «Chi sei? Che cerchi in questi luoghi dove la tua specie era incognita?», chiese l’essere, vivo!, dagli occhi e dai capelli nerissimi, sanguinante proprio alla giuntura dove la figura umana diveniva bestiale. «Piacere, Loretta Smerigliati. Cerco una tigre bianca, dice in India ce n’è, sono una fan sin da bambina dell’illustre Gandhi, mi piace molto il cibo speziato, infatti stasera avevo in mente di portare Bruno da One undred and one Curry’s dreams, la Lonely dice che è tipico...» Un poderoso fiotto di sangue sgorgò dalla proboscide dello smisurato gigante. «Fermati, ti supplico...» «... certo che mi fermo, in India si viene per trovare se stessi, oltre alle vacche sacre, quelle magrissime, belline, non hanno problemi di linea loro, poi voglio vedere i santoni, dice nei templi a pagoda c’è gente che dopo una certa età tende a fluttuare...» «Loretta. Io sono il Dio Ganesh, ho una sola zanna perché supero i conflitti, sono celibe, scriba del sacro Mahabharata, distruttore della vanità. Il corpo straziato della mia terra ti implora di abbandonare questo estremo rifugio». «Ma quale abbandono Ganesha, io voglio scoprire l’India vera, quella genuina, rimettiti, domani ho in programma la visita a Bollywood e poi un bel tuffo nel fiume sacro, ti ricordi come si chiama? Peccato non esserci per i monsoni, e senti Ganesha, io sono figlia di una dottoressa, se fossi nata qui che casta sar-»

L’enorme corpo vacillò, la proboscide diede un guizzo sinistro, un assordante barrito si levò nell’aria, il sangue schizzò violento dall’incavo tra le spalle, le braccia di Ganesh vorticarono e il Dio, con violentissimo tonfo, cadde. La testa di elefante ruzzolò davanti ai piedi di Loretta. Passati alcuni mesi, il corpo disseccato e le variopinte bende di Ganesh furono ritrovate da certi viaggiatori, che pulito e impagliato lo presentarono alla biennale di Milano. Vinse il secondo premio.


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MoNoCLE Via di Campo di Marzio 13 NECCi Via Fanfulla da Lodi 68 N’iMPoRTE Quoi Via Beatrice Cenci 10 oFFiCiNE FoTogRAFiCHE Via giuseppe Libetta 1 oSTERiA dEgLi AMiCi Via Nicola Zabaglia 25 PANAMiNo BAR Parco Y. Rabin 23 Via Panama PARiS Via di Priscilla 97/99 PASTiFiCio SAN LoRENZo Via Tiburtina 196

CALiFoRNiA BAKERY Piazza Sant’Eustorgio 4 Viale Premuda 449 Largo Augusto (Via Verziere ang. Via Merlo 1) CAPE ToWN CAFÈ Via Vigevano 3 Centro Culturale di Milano Via Zebedia 2 CiRCuSTudioS Via Pestalozzi 4 EXPLoiT Via Pioppette 3 FoNdAZioNE ARNALdo PoModoRo Via Andrea Solari 35 FoNdAZioNE STELLiNE Corso Magenta 61

PEAKBooK Via Arco dei Banchi 3/A

F.R.A.V. Via Vetere 8 (ang. Corso Porta Ticinese)

PiFEBo Via dei Serpenti 141 Via dei Volsci 101/B

FRiP Corso di Porta Ticinese 16

RASHoMoN CLuB Via degli Argonauti 16 RgB46 Piazza di Santa Maria Liberatrice 46 SANTA SANgRE TATToo Via dei Latini 34 SoFA WiNE BAR Via Cimone 181 S.T. FoTo LiBRERiA gALLERiA Via degli ombrellari 25 SuPER Via Leonina 42 TiEPoLo Via giovanni Battista Tiepolo 3 TREE BAR Via Flaminia 226 uLTRASuoNi RECoRdS Via degli Zingari 61/A uRBAN STAR Via Enrico Fermi 91/93 ViLLA BALESTRA Via Ammanniti VoY Via Flaminia 496

gENiuS ACAdEMY Viale Col di Lana 8 HANgAR BiCoCCA Via Privata Chiese 2 HuMANA ViNTAgE Via dei Cappellari 3 iNTRECCi Via Larga 2 JAMAiCA Via Brera 32 LA SACRESTiA Via Conchetta 20 LA FABBRiCA dEL VAPoRE Via Procaccini 4 LoMogRAPHY gALLERY SToRE Via Mercato 3 MC2gALLERY Via Malaga 4 MiCAMERA Via Medardo Rosso 19 PHoTogRAPHiA Viale Lazio 1 PHoToLogY Via della Moscova 25 SPAZio FARiNi Via Farini 6 SPAZio FoRMA Piazza Tito Lucrezio Caro 1 SPAZio | PRoSPEKT Via Sartirana 2 THE HuB Via Paolo Sapri 8 THE PHoTogRAPHERS’ RooM Piazza Fidia 3 TRATToRiA ToSCANA Corso di Porta Ticinese 58 WoK Viale Col di Lana 5/A




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