the trip N°10 dicembre 2011 – febbraio 2012 / free press Nobody Detroit / Cracovia Buñol / Brasile Franco Fontana thetripmag.com
“Il colore è un mezzo di esercitare sull’anima un’influenza diretta. Il colore è un tasto, l’occhio il martelletto che lo colpisce, l’anima lo strumento dalle mille corde” Vasilij Kandinskij La natura l'ha creato. L'uomo se ne è innamorato. E come tutti gli amanti è stato manipolato, osannato e bistrattato. Qualcuno lo vuole chiaro, qualcun altro scuro. C'è chi l'ha sintetizzato, chi l'ha enfatizzato e chi invece ha deciso di abbandonarlo. Ma che cos'è il colore? Gli antichi gli hanno dato un nome per identificarlo con un potenziale, una funzionalità. I greci l'hanno associato ai quattro elementi della natura: fuoco, acqua, aria e terra. In India è strettamente legato al concetto di energia e tutt'oggi si pensa che influenzi l'equilibrio dei chakra. Immaginate sullo sfondo nero un grande triangolo trafitto da un raggio di luce che, attraversando il prisma, si scompone nei colori dell’arcobaleno. Avete immaginato bene: il disegno è del grafico inglese Storm Thorgerson, ideatore della copertina dell’album “The Dark Side of The Moon” dei Pink Floyd. Peccato che l’idea sia di Isaac Newton. Lo scienziato inglese, studiando la dispersione ottica della scomposizione di un raggio di luce che attraversa un prisma di vetro, fu il primo a dimostrare che la luce bianca è composta dalla somma di tutti i colori. Oggi sappiamo che l’occhio umano ha tre tipi di cellule – i coni – sensibili alla lunghezza d’onda della luce che arriva. La loro capacità di risposta è centrata a tre diverse lunghezze d’onda: il blu, il verde e il rosso. I colori primari. Quindi il colore altro non è che una radiazione elettromagnetica, avente una lunghezza d’onda all’interno della quale si trova il cosiddetto “spettro del visibile” ossia tutte le radiazioni percepite dall’occhio umano. Questo vuol dire che vediamo tutti gli stessi colori? Il primo a protestare contro la teoria newtoniana fu
Goethe che nel suo saggio “Della teoria dei colori” affermò che il colore non può essere un fenomeno prettamente fisico ma al contrario qualcosa di vivo, di umano, legato alla sensibilità dell’osservatore. Non possono quindi essere spiegati con una teoria solo meccanicistica ma devono trovare spiegazione anche nella poetica, nell’estetica, nella psicologia, nella filosofia e nel simbolismo. La teoria goethiana, per quanto fosse errata nel campo della fisica, rappresenta un tentativo di spiegare il “colorato” mondo che ci circonda e che l’uomo percepisce con i sensi. Goethe non vuole studiare né la luce né l'occhio; che l'uomo percepisca i colori attraverso gli occhi è senza ombra di dubbio. Ma questi possiedono, esplicano e manifestano anche altre funzioni che non sono connesse soltanto all'ambito prettamente visivo e sensoriale, ma possono svolgere anche un ruolo “morale”, sensibile ed estetico. Le percezioni cromatiche avvengono quindi non solo all'interno dell'occhio, ma anche a livello mentale, immaginativo. Il linguaggio del colore si configura così come un linguaggio simbolico particolare, fatto di suggestioni che non provengono dalla sola osservazione razionale. In epoca più recente, grazie allo studio di due biologi cileni, si è arrivati alla conclusione che chi percepisce il colore è colui che lo sta creando. Addizionando la luce di Red, Green e Blu si formano tutti gli altri colori. Ma esiste un numero infinito di combinazioni di diverse lunghezze d'onda che dall'oggetto arrivano all'occhio e che messe insieme possono dare la stessa sensazione ad esempio di “giallo”. Quindi il colore altro non è che la sensazione che noi abbiamo di quella qualità visiva delle cose. Noi non vediamo i colori ma viviamo il nostro spazio cromatico. E questo significa che siamo noi a creare il colore, siamo noi a creare il mondo di cui facciamo esperienza. Good trip. Valentina Diaconale "Gumslinger" di Mateo
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sommario
editoriale
il manifesto del LSD
good morning
Polonia
Gianni Dessì
portfolio
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eventi dal mondo
Brasile
nobody
La Tomatina
total black magic
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Franco Fontana
Detroit
inviati
Swansea
Roma
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redazione the trip N°10 dicembre 2011 - febbraio 2012
sede legale via Gasperina 188 - Roma
direttore responsabile Valentina Diaconale valentinadiaconale@gmail.com direttore editoriale Lorenzo Verrecchia lorenzoverrecchia@thetripmag.com art director Andrea Bennati info@andreabennati.com responsabile redazione Francesca Rosati redazione Claudia Bena, Simone Bracci, Anna Mastrolitto e Paolo Valoppi photo editor Martina Cristofani responsabile web Veronica Gabbuti responsabile marketing abc project
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Registrazione Tribunale di Roma n. 329 del 6 ottobre 2009
foto Andromalis - metamop.org Susan Blatchford Dmitry Dudin - flickr.com/flydime Franco Fontana Manuela Galli - lemalalingua.pullfolio.com Alessia Laudoni - alessialaudoni.com Francesca Magistro - lightstalker.org/francesca-magistro Geronimo Patton Greta Pompei - greta.pompei-voeller@hotmail.com Gabriele Rubini - rubiochef.com Andrea Tonellotto - andreatonellotto.com Vincent Urbani - vincenturbani.com Anna Volpi - flickr.com/photos/annavolpi La foto in copertina è di Andrea Tonellotto
hanno collaborato Gianluca Bernardo, Ian Cerruti, Francesca Coppola, Marianna Kuvvet, Francesca Romana Massaro, Domenico Naso, Heidelberg Project, Alexandra Rosati, Annamaria Scaramella.
L’illustrazione dell’editoriale è di Mateo mateo-art.com contatti info@thetripmag.com thetripmag.com
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EVENTI DAL MONDO a cura di Francesca Rosati
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INDIA 8 MARZO – 9 MARZO “HOLI” Segna la fine dell’inverno e l’arrivo della primavera, lo sbocciare dei fiori, il ritorno del sole. Celebra anche diversi eventi religiosi della mitologia Hindu e originariamente era di buon auspicio per i raccolti e la fertilità della terra. Ma soprattutto mostra un’India gioiosa ed esuberante come non mai, dove le strutture sociali si allentano: Holi accorcia le distanze tra persone di età, sesso e caste differenti, e per un paio di giorni soltanto ricchi e poveri, donne e uomini, vecchi e bambini sono uniti e festeggiano uno accanto all’altro. Durante la vigilia si accendono dei falò per ricordare la morte della demone Holika, bruciata viva, e il giorno dopo le strade si bagnano di colori in una battaglia di gavettoni di polveri e liquidi colorati che non ha rivali. Tradizionalmente le polveri vengono da piante usate nella medicina ayurvedica e i liquidi sono fiori bolliti e lasciati ammollo per una notte intera. Ogni regione del Paese segue tradizioni e rituali diversi, ma in ogni parte dell’India lo spettacolo è davvero sorprendente. holifestival.org 10
AUSTRALIA 28 DICEMBRE – 1 GENNAIO “THE FALLS” È uno di quei festival che ti catapultano in un altro mondo, belli per la musica e per l’ambiente. In questo caso si può scegliere tra Lorne (Victoria), nel bel mezzo della foresta pluviale di Otway, e la famosa Marion Bay (Tasmania), una delle ultime spiagge selvagge del pianeta. O si può fare un on-the-road australiano per ballare prima nella giungla e poi vicino al mare. Portatevi la tenda e lasciate fuori ogni pensiero … o voi che entrate. fallsfestival.com
ESSAKANE (MALI) 12 GENNAIO – 14 GENNAIO “FESTIVAL AU DÉSERT” Il Festival au Désert si svolge annualmente nel Nord del Mali, solitamente a Essakane, a due ore da Timbuktu. Si ispira alle grandi festività tradizionali dei Touareg e propone poesie, canzoni e balli beduini, cavalcate sui cammelli e giochi popolari. Oggi ha aperto le porte e dà il benvenuto anche ad artisti provenienti da altri paesi africani, europei e del mondo. Ma si suona e si balla ancora con i piedi nella sabbia, senza cancelli, recinti o biglietti di ingresso. festival-au-desert.org
PLAYA DEL CARMEN (MESSICO) 30 DICEMBRE – 8 GENNAIO “THE BPM FESTIVAL” Per il suo quinto compleanno il BPM festeggia a Playa del Carmen, con grandi dj e produttori di musica elettronica che suonano giorno e notte per dieci giorni consecutivi sotto il sole cocente del Messico, circondati da spiagge bianche e acque cristalline. Il 5 gennaio, giorno dell’anniversario, tenetevi pronti perché tra le varie feste in programma sono previste sorprese speciali. thebpmfestival.com
PARK CITY (UTAH) 19 GENNAIO – 29 GENNAIO “SUNDANCE FILM FESTIVAL” Il migliore del suo genere, vetrina indiscussa del cinema indipendente statunitense e internazionale, sostenuto da sempre da Robert Redford che nel 1985 ne assume il potere organizzativo tramite il suo Sundance Institute, un’organizzazione noprofit che sovvenziona il lavoro di cineasti indipendenti. Il festival ha lanciato, per citarne uno tra i tanti, il grande Quentin Tarantino. E oggi come ieri un film targato Sundance è una certezza. sundance.org
Sasu Ripatti (Vladislav Delay, Luomo)
TRAVELLING AROUND MUSIC MUTEK.ES - BARCELLONA foto di Alessia Laudoni
HARBIN (CINA) 5 GENNAIO – 5 FEBBRAIO “HARBIN ICE AND SNOW FESTIVAL” Nasce nel 1963 ma viene interrotto durante la Rivoluzione Culturale di Mao come tutte le manifestazioni artistiche che distoglievano l’attenzione dal partito. Perché questo festival di sculture di neve e di ghiaccio – ripreso nell’85 – permette di distogliere l’attenzione da qualsiasi cosa, ha un che di magico e di surreale. Il ghiaccio viene lavorato con il laser ma anche secondo tecniche più tradizionali, con torce e lanterne. Le sculture sono incredibilmente realistiche e rifinite, e la loro vulnerabilità le rende ancora più speciali.
MIAMI / BAHAMAS (FLORIDA) 10 FEBBRAIO – 13 FEBBRAIO “BRUISE CRUISE FESTIVAL” Decisamente unico. Un festival rock di tre giorni a bordo di una nave da crociera nei tropici. Da Miami alle Bahamas andata e ritorno. Concerti in mare, feste sulle isole, spettacoli, letture e workshop, circondati dal lusso e dai servizi offerti dalle navi Carnival Imagination: bar aperti 24 ore su 24, casinò, piscine, vasche idromassaggio, ristoranti, cene a buffet e tanto altro. bruisecruisefestival.com
Definita dal sociologo catalano Manuel Delgado “la cittá bugiarda”, Barcellona riesce sempre a far parlare di sé e non lascia mai indifferenti i viaggiatori che arrivano da tutto il mondo. Molti turisti ripetono l’esperienza del viaggio più di una volta perché sono attratti dai prezzi accessibili, un buon clima (in media 339 giorni di sole all’anno!), le spiagge, una ricca offerta culturale e culinaria, i club, e negli ultimi anni anche i festival internazionali di musica. Spesso gli amanti della musica associano, infatti, la città ai festival San Miguel Primavera Sound o Sonar, ma da tre anni a questa parte un altro giovane e promettente festival contribui-
sce a posizionare Barcellona nella mappa delle città della musica: il Mutek.es. Mutek è un’associazione culturale senza scopo di lucro fondata nel 2000 con il fine di contribuire allo sviluppo e alla diffusione della creatività digitale legata al suono, la musica elettronica e le arti audiovisive. Qualche anno dopo la sua nascita, il Mutek è approdato in Messico, Argentina, Cile e dal 2009 è gradito ospite della capitale catalana. Per la terza edizione del festival, tra gli artisti in programma dall'8 al 11 febbraio, vedremo: Luomo, Danuel Tate, Deadbeat, Eddie C, Dilo, Falty Dl, Rob Hall, Shackleton, Brandt Brauer Frick, Dockser, Pulschar, San Proper. Diversi i punti di incontro per la musica, le interviste con gli artisti, i workshop e le conferenze: tra questi la mitica sala Apolo, il club Moog, l’affascinante Convent di Sant Au-
gusti o lo spazio polivalente Miscellania. Torna ad essere parte della programmazione del festival anche il progetto LiveSoundtracks che quest’anno vede come protagonisti per la sonorizzazione di due film d’autore il produttore finlandese Sasu Ripatti (Luomo), che suonerà con l’alias di Vladislav Delay, e la giovane artista colombiana Lucrecia Dalt. Dulcis in fundo, ci saremo anche noi di TravellingAroundMusic per dirigere un panel sul fenomeno del turismo musicale, quindi veniteci a trovare! Se invece una terribile influenza dovesse impedire la vostra partenza, potete sintonizzarvi su Struments Radio per seguire in streaming i live e gli altri appuntamenti del festival. mutek.es - mutek.org Anna Mastrolitto travellingaroundmusic.com
intervista
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Franco Fontana il racconto di una vita a colori di Claudia Bena Raccontare Franco Fontana vuol dire, dopo aver studiato la storia della fotografia, metterla da parte e sentire l’immagine. All’inizio degli anni Sessanta, in un’epoca artistica in cui si abbandonava il colore, mentre in fotografia non aveva ancora canoni estetici e tecnici consolidati, Fontana lo enfatizza, eleggendolo a filtro della propria esperienza personale, a celebrazione dell’io. È il suo codice di lettura della realtà, che esisterebbe ugualmente, ma dopo la sua interpretazione diventa altro. Attraverso la macchina fotografica, appiattendo la prospettiva con il teleobiettivo, ci restituisce la sua visione. Ed in fotografia l’astrazione è la forma più alta della composizione. Significa vedere il reale e riuscire a sorpassarlo. Come Weston con il celebre scatto al peperone, dare un’identità agli oggetti, eleggendoli a veri e propri soggetti. Dai suoi primi scatti fino all’ultimo lavoro, dove il suo sguardo si è posato sui monumenti funebri del cimitero monumentale
Torino, 2004 – dal catalogo Postcart
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di Genova, la gioia della vita prevale su ogni cosa, compresa l’imponente tradizione cattolica che vede nella morte l’ultimo contatto con chi ci lascia, ed introduce i cimiteri come un potente memento mori. Fontana invece gioca con la morte, in un equilibrio tra Eros e Thanatos che ricorda più la meravigliosa tradizione greca antica. Nelle sue foto c’è tutto, dal cielo, all’orizzonte all’asfalto; dalle ombre alle persone in carne ed ossa fino ai nudi. Quando ha iniziato a vedere il paesaggio così come lo racconta? Non serve una chiave per fare fotografia, la realtà esiste, l’astrazione è l’interpretazione del fotografo, una reinvenzione, a differenza della pittura ad esempio. Nella tela la realtà ce la metti tu. Nella fotografia è a portata di tutti. Come con il marmo, puoi farci un posacenere o la Pietà di Michelangelo. Il fine, nell’arte, è rendere visibile l’invisibile. Fotografare è un
Puglia, 1978 – dal catalogo Postcart
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intervista
Vita Nova. Cimitero monumentale di Staglieno, Genova, 2010
pretesto, non un mestiere. Soprattutto, è una cancellazione in favore di un’elezione. Pulire, sintetizzare. Dare significato alla forma. Significare la forma per significare la vita, anche rinunciando ad ogni riproduzione della realtà. La cultura è come uno specchio. Ognuno davanti alle opere d’arte capisce solo ciò che sa. E la gente identifica i paesaggi attraverso il mio lavoro. Anche questa è cultura. Il suo percorso artistico? La mia non è una professione, ma una realtà di vita. Fare quello che vuoi fare, con la gioia di farlo. Quello che importa è rimuovere la memoria. Continuare a rischiare. Il rischio è la vita. Non ho vissuto di paesaggi. Nei miei scatti vedi tutto. Ci sono le ombre, poi c’è la gente. Ho lavorato anche tanto su commissione. Nelle sue opere, quanto è testimonianza e quanto reinvenzione? La mia opera non nasce come testimonianza, ma se ne riappropria ugualmente. È un mezzo per fare arte. Sono foto di pensiero, che non documentano, come la musica. Così come non è necessario conoscere l’uomo per apprezzarne l’opera. Qual è il suo rapporto con le nuove tecnologie? L’analogico è archeologia, sotto il punto di vista della praticità, dell’economia e della qualità. Il computer è comunque solo un mezzo. Non c’è il tasto “Picasso”, il tasto “Rem-
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brandt”. Se riesci a fare capolavori con il computer sono ugualmente capolavori. L’importante è metterlo in chiaro. Ad esempio nel mio lavoro “il paesaggio che verrà” io ho creato delle immagini irreali unendo particolari reali presi dal mio archivio di diapositive; diversi luoghi, in diversi momenti della giornata. Basta dichiararlo. Ci parli del suo ultimo lavoro. Mi hanno chiesto di fotografare il cimitero monumentale di Genova. Ho accettato la sfida, ma mentre scattavo mi rendevo conto che non stavo concludendo il mio stile. Ad un certo punto vedo dei bassorilievi di un erotismo spaventoso, in cui c’era tutto tranne che la morte. O meglio, a metà tra amore e morte, Eros e Thanatos. Da qui l’idea di “Vita Nova”, una sorta di “Antologia di Spoon River” a Staglieno. Un po’ richiamano i miei nudi, tanto sembrano vivi, e tanto i miei nudi sono classici. L’effetto solarizzato, simile alle rayografie di Man Ray, è dovuto allo strato di polvere che ricopre le statue. Che importanza dà al suo ruolo di formatore? Io non sono un insegnante, ma un maestro. Non ho fatto nessuna scuola, quello che trasmetto non sono competenze e conoscenze, ma le mie emozioni e la mia esperienza. Sono acqua di sorgente. Tra i miei alunni c’è chi è predisposto ad accogliere ciò che trasmetto e chi no. Tra tutti, due quelli che più mi sento di sponsorizzare: Alex Mezzenga e Carlotta Bertelli.
Vita Nova. Cimitero monumentale di Staglieno, Genova, 2010
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racconto di viaggio
Brasil colorido
un amante che vive in me testo e foto di Anna Volpi vincitrice del concorso fotografico 2010 "the trip - il mondo a Roma" Ci immaginiamo un Brasile pieno di colori vivaci che si muovono al frenetico ritmo di suoni pulsanti. Colori che ballano su persone, bandiere, strumenti musicali. E in alcuni momenti si può trovare questo, ma i colori che incontriamo io e Lella sono fermi, silenziosi, storici, potenti e magici. Piove tutti i giorni. Le gocce arrivano senza preavviso e con furore. Le nuvole viola sovrastano un oceano grigio per dieci minuti, poi il sole torna a colorarci la pelle. A Joao Pessoa siamo ospiti di due ragazzi tramite couchsurfing.com. Siamo come a casa. Le serate si colorano di conversazione, film, forrò (la musica tipica della regione) e caipirinhas con lime verdissimi. Daniel ci porta a Bahia de Traiçao. Chilometri e chilometri di verde intenso, dove ci perdiamo. Il verde delle foglie suona ogni volta che cade una goccia di pioggia. La terra è rossa e sabbiosa, piena di pozzanghere alte fino alle portiere della Jeep. Un uomo in bici ci porta fuori dalla foresta e dalla riserva degli indios, fino ad una baia dove aspettiamo una zattera che traghetta noi e la macchina dall’altra parte. Come un taglio prematuro al cordone ombelicale siamo su un autobus dirette a Jericoacoara. Joao ci ha fatto vedere il colore che la gente ha dentro. Colori caldi, accoglienti, di tutti i tipi, pronti a mescolarsi con i nostri, che si sono rinvigoriti moltissimo dalla partenza dall’Italia, che ormai neanche sfiora i nostri pensieri. Per arrivare a Jericoacoara, o Jeri,
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bisogna fare 25 km tra dune biancastre, palme alte e asini. Ci si impiega un’ora. Il paese è piccolo, sei strade sabbiose che portano all’oceano. La spiaggia è grigia e lunghissima, dominata da una grossa duna bianca, da dove si guarda il tramonto e il suo arancio che mette a riposo i surfisti. L’altra spiaggia è affiancata da una collina verde dove riposano vacche. Sembra la Svizzera. Molte persone da molti luoghi del mondo non sono state capaci di lasciare Jeri. Qui la vita scorre tranquilla e limpida, colorata dall’amicizia, il sole, la capoeira, il surf, la pesca. Dopo un pomeriggio di birra e cachaça da Mario al suo locale Dumundu, in compagnia di persone di varie nazionalità cominciamo a colorarci l’anima anche noi, e capiamo molto bene perché sia così facile rimanere sulla sabbia della cara Jeri. Un appuntamento che non può mancare è la capoeira del tramonto, quando i ragazzi a torso nudo si muovono nell’aria come se il loro corpo non avesse peso. Ma dobbiamo lasciare Jeri. Arrivati a Barreirinhas riusciamo ad unirci ad un gruppo che parte per il parco nazionale Lençois Marenhenses. Attraversiamo un fiume, poi viaggiamo per un’ora lungo una stretta stradina di sabbia tra due mura di fogliame verde scuro. Ci fermiamo e scaliamo una piccola salita di rena, arriviamo in cima e vediamo bianco. Fino all’orizzonte ci sono solo dune bianche che vivono accanto a lagune di acqua piovana. Un silenzio pesante, vivo. Mi giro e vedo verde
fino all’orizzonte. Il mondo sembra tagliato a metà, verde e bianco che vivono uno accanto all’altro, così diversi ma parte di un tutto. Guardiamo il tramonto. Mezzo mondo che si incendia. Sao Luis ha un cuore antico, e per antico si intende il periodo della colonizzazione, gli inizi del XVII secolo. Il centro storico della città è un collage di azulejos, piastrelle di ceramica variopinte importate dai Portoghesi. Coprono tutti gli edifici di questo sito dell’UNESCO, che un tempo era ricco e promettente. Ora il centro sta cadendo a pezzi, mancano piastrelle ovunque, interrompendo il flusso geometrico delle decorazioni. Si possono comprare magliette e calamite che raffigurano le forme e i colori delle piastrelle, ma i veri colori e le vere forme di Sao Luis si vedono il giovedì e venerdì sera, lungo una piccola via del centro, ad una festa che si chiama Toda vida es uma fiesta. Dopo la festa si va al Raggae. Sao Luis è la capitale di questa musica, e qui si balla lentamente, stretti stretti al compagno o alla compagna. Il Raggae qui ha un colore soffice, innamorato. Si dice che il Brasile è di mille colori perché ci sono così tante mescolanze di etnie, e i colori qui non si vedono, si vivono. Escono dagli schemi. Ci sono colori che non avevo mai sentito prima, che molti devono ancora scoprire. Non stanno mai fermi, le sfumature e le tinte si mescolano in continuazione, perché la vita qui non si osserva ma si indossa, si assorbe, finché ti entra nel sangue e ti colora da dentro.
la passeggiata lungo il mare a Joao Pessoa
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racconto di viaggio
Number House - foto di Geronimo Patton
magic trash di Francesca Rosati
È grigia Detroit. Grigia di cemento e di grattacieli e di palazzi abbandonati, grigia di smog. La sua storia invece è sempre stata o bianca o nera, senza mezze misure. Da città simbolo del sogno americano in quanto capitale dell’industria automobilistica statunitense, si trasformò alla fine degli anni Sessanta in città fantasma per via della crisi industriale, delle tensioni razziali e delle rivolte del ’67 durante le quali venne messa al rogo e devastata. Fu un’esplosione, e la città non si riprese più. Metà della popolazione, rimasta senza lavoro, fece i bagagli e se ne andò, lasciando alle sue spalle lotti vacanti e strutture abbandonate, covi perfetti per lo sviluppo di violenza e criminalità. Da allora i governi non hanno fatto nulla di concreto, limitandosi a fare quello che gli riesce meglio: promettere. Promettere nuovi impieghi, nuove costruzioni, programmi riabilitativi che non sono mai arrivati. Oggi come allora c’è da aver paura a Detroit. La città più di qualsiasi altra rappresenta i ghetti americani, la crisi economica, il traffico di droga, la violenza, gli omicidi. Le sue strade sono crudeli, cattive. Chi viene da fuori per tifare i Lions va alla partita e poi si sbriga a riprendere la macchina e a tornare sull’autostrada, per andare via, lontano, e subito.
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Ma in questo grigiore una macchia colorata c’è. Nella east side, a Heidelberg Street, si staglia un paradiso bizzarro che non può lasciare indifferenti: entrarvi significa intraprendere un viaggio in cui l’inconscio ha la meglio sul conscio. Le case son dipinte e decorate con oggetti scartati o gettati nell’immondizia che riprendono vita e soprattutto rianimano il quartiere. E questi stessi oggetti si tramutano in istallazioni da Paese delle Meraviglie. Vestiti usati e vecchi peluche vengono spolverati e colorati e poi appesi a porte, finestre, tetti. Macchine in rottami diventano vasi di fiori variopinti. Porte e lamiere di edifici abbandonati si trasformano in sculture astratte o realistiche, a forma di piante, di animali, di persone. E le persone, quelle vere, restano a bocca aperta di fronte a questo capolavoro vivente che coglie di sorpresa: cammini per le strade di una città grigia e semideserta e tutto a un tratto ti ritrovi in un mondo surreale dove la spazzatura diventa magia. Tyree Guyton, il papà del Heidelberg Project, è oggi un pittore e un artista riconosciuto a livello mondiale, ma venticinque anni fa era un ragazzo come tanti che tornava a casa dopo il servizio militare. Un ragazzo che da bambino aveva visto la sua città bruciare e i suoi tre fratelli morire inghiot-
racconto di viaggio
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foto di Susan Blatchford
titi dalla strada. Un ragazzo cresciuto troppo presto che ritrovando il suo quartiere in uno stato di degrado, povertà, apatia e criminalità diffusa scelse di reagire e impugnò deciso la sua di arma, un pennello. Insieme al nonno dipinse una casa a pois e poi, con l’aiuto dei bambini del quartiere, pulì gli edifici abbandonati, raccogliendo il materiale per trasformare le strade, i marciapiedi, le abitazioni, gli alberi in opere d’arte. Come in una sinfonia. Ma come tutte le rivoluzioni che portano un cambiamento e che svegliano le coscienze, il progetto non ha avuto sempre vita facile. Nonostante la fama e l’appoggio di tante persone,
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Party Animal House - foto dagli archivi del Heidelberg Project
fu parzialmente demolito nel ’91 dal sindaco di allora, Coleman Young, e poi di nuovo nel ’99, sebbene Guyton avesse ottenuto numerosi riconoscimenti e premi istituzionali, e il quartiere fosse visitato da centinaia di migliaia di persone ogni anno. Chi è al potere, si sa, preferisce sudditi dalle menti sopite e facilmente manovrabili piuttosto che persone vive, pronte al cambiamento e inclini all’ispirazione. Il Heidelberg Project è questo che fa: apre le menti, dà da pensare, propone un’alternativa valida alla violenza e al degrado, offrendo delle soluzioni. È quindi arte nella forma più pura perché è catalizzatrice, non mera esteti-
ca. Ogni installazione racconta una storia sulla società: c’è la casa “party animal” che celebra gli orsetti lavatori, le volpi e i fagiani, tutti quegli animali che vivono fianco a fianco con gli abitanti di Detroit. C’è il lotto “OJ – obstruction of justice” (impedimento della giustizia) e il lotto dedicato all’industria automobilistica, dove tutto ha le ruote. C’è la casa a pois, che rappresenta le divergenze della comunità di Detroit, e ci sono i box informazioni creati dai bambini. Perché è a loro che si rivolge soprattutto il progetto, alle nuove menti, al nostro futuro. A loro, che quando camminano per andare a scuola sono circondati da case
bruciate, crimine e degrado, Tyree Guyton ha offerto una nuova prospettiva non solo da vedere. Bambini e ragazzi ci vivono, ci giocano, ci crescono e imparano ad apprezzare e a sognare qualcosa di diverso. E magari un domani pretenderanno qualcosa di più dalle istituzioni. In questo senso il Heidelberg Project costituisce un esempio di come la comunità possa prendersi cura dei suoi membri laddove le istituzioni rimangono immobili a guardare il degrado su cui troppo spesso speculano. È un’organizzazione nata spontaneamente che ha come obbiettivo quello di migliorare la vita delle persone
e salvare un quartiere dimenticato attraverso l’arte. Perché tutti hanno il diritto di vivere nella propria comunità, di sognare un cambiamento all’interno invece di cercare sempre l’altrove, la via di fuga. E la missione è quella di arricchire un domani anche la comunità più allargata, tramite le persone che già oggi stanno cambiando le loro vite grazie a questo progetto. Staremo a vedere. Intanto oggi parlano i dati: in questi ultimi venticinque anni, Heidelberg Street non è stata più teatro di crimini seri. I suoi abitanti, persone che prima non erano mai entrate in un museo, sono vicini all’arte, partecipano al progetto, ai suoi programmi,
festival e workshop. Vi è la possibilità di lavorare e soprattutto di passare il tempo, riflettere e creare in uno spazio all’aria aperta, interagendo con persone che vengono da tutto il globo per ammirare questo angolo di cielo nell’inferno. Il Heidelberg Project è una colla. Unisce e coinvolge le persone, i loro pensieri, i loro sentimenti. È una calamita, che ti costringere a tornarci per vedere a che punto è arrivato. Perché una volta che entri, non lo puoi più dimenticare.
heidelberg.org
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curiositá
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good day! il mattino ha l’oro in bocca testo e foto di Gabriele Rubini Quel che vedo è rosso. Il rosso intorno a me. Ovunque è permeato di rosso. È il mio colore preferito. Non potevo sperare di meglio. Sarà che siam fatti di sangue. Ed il sangue è rosso. Sarà che da sempre è sinonimo di sensualità, passione, calore e come nella pubblicità così in cucina è l’arma vincente. Che maleducato, non mi sono neanche presentato. Il mio nome è Rubio, Chef Rubio. Mi chiamo Gabriele e, sì, sono un cuoco. Sarà forse per tutto questo che vedo rosso. Sarà perché la natura in maniera neanche troppo implicita con il rosso ci comunica da sempre attenzione, son bello, mangiami, bevimi, strizzami, strappami… insomma fa qualcosa ma mettimi dentro di te che ti faccio bene. O sarà semplicemente per il fatto che ho passato troppo tempo con gli occhi chiusi rivolti al sole. Cretino che sono. Ogni mattina la stessa storia. Ma non è colpa mia se prima di alzarmi fisso l’interno delle palpebre illuminate dal sole fantasticando sui viaggi fatti e su quelli che farò. Spalanco di colpo gli occhi e nient’altro che il bianco. Flash. Bianco. Flash. Ancora un bellissimo bianco. Assurdo come il bianco possa nascondere dietro il suo candore una vasta gamma di colori. C’è chi lo definisce un non colore. Pazzo. Il bianco è IL colore. Il bianco è purezza. È candore. È poesia mai uguale. Il bianco è una delicata vernice che protegge i colori più caldi nascosti nei frutti dell’avvenire. La neve non è forse questo? Una delicatissima ma durevole protezione per qualcosa che sboccerà? Trasformandosi in acqua diventa un fiume di musica per il risveglio della natura e dei suoi colori. E nel bianco dell’inverno su ogni tavola con conserve,
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frutti, salse dai colori accesi, si ricerca il colore. Il colore del calore. Quello che riscalda il cuore e appaga i sensi. Che riporta alla memoria il caldo e la vivacità di un’estate ormai passata. Che col pensiero ci proietta alla primavera che presto tornerà. Il bianco è l’essenza del tutto. Il mio bianco, il mio tutto, sta cominciando a sciogliersi. Gli occhi si stanno abituando. Dalla coltre di bianco luce comincio a vedere del blu. L’Oceano pacifico. Ho sete, dove cazzo ho messo l’acqua? Eccola. Ora una macchia enorme gialla. L’Australia. Mmmm. Scrambled eggs. Perché mi son scordato di comprarle? Ok basta ripassare a memoria la piantina del planisfero. Tanto sta lì da anni, è ormai un tutt’uno col soffitto, non si sposta. Alza ‘sto culone che si parte. Per dove? Boh. India? Messico? Laos? Naaaa... Mi infilo una ciabatta. Liscio l’altra e continuo verso la cucina sorridendo. La mia professoressa di greco un giorno venne con due scarpe sinistre in classe. Io posso andare quindi in giro “spaiato”. Com’era il Kazakistan? Ah, arancione. Ho voglia di una spremuta d’arancia. Metto due fette a tostare nel frattempo. Marmellata di fichi pronta. Clack! L’argento del coltello splende sotto i miei occhi. Fa che sia rossa. Fa che sia rossa. Taglio. È rossa. 'Sto rosso mi perseguita. Tlin. Il pane è pronto. Spalmo. Addento. E mentre mastico guardo fuori. La luce tagliata del sole invernale mi piace. Anche se non è calda è fantastica. Ecco che sensazione mi dà. Di uno scatto fatto con una 35 mm compatta. Spremo verso bevo. Richiudo il barattolo dal contenuto giallo verdastro. Torno nel regno del planisfero. Mi fermo. Non c’avevo mai fatto caso. Non c’è il
nero. Il nero è come il bianco. È la sua nemesi. Senza l’uno non esisterebbe l’altro. Il pazzo dice che è assenza di colore. Il pazzo non sa che il nero li contiene ed ingloba tutti quanti. E credo che debba smettere di produrre planisferi incompleti. Mi vesto con la calma di un sicario. Prendo il mio rotolo dei coltelli nero. I pantaloni neri. Le scarpe anch’esse nere. Giacca da lavoro… bianca. Ao’, faccio lo chef, mica ‘r becchino. rubiochef.com - fishechip.com
RICE PUDDING ingredienti: 160 gr riso, 60 cl latte, 5 gr gelatina in fogli, 5 cl acqua, 40 gr di zucchero, 1 Bacca di vaniglia,1 pizzico sale, 25 cl panna da montare, 500 gr frutti di bosco freschi (o frutti di bosco congelati) PROCEDIMENTO Intiepidire il latte in un pentolino e scaldarlo per 10 min con la bacca di vaniglia in infusione senza mai portarlo al bollore, quindi togliere la bacca, alzare la fiamma e cuocere per circa 20 min a fuoco medio il riso. Mentre si sta cuocendo, ammollare i fogli di gelatina in acqua fredda. Al riso cotto aggiungere ora i 30 gr di zucchero, il sale ed unirvi anche la gelatina ben strizzata cominciando a mescolare con spatola fino a raffreddare il tutto. Montare la panna con i restanti 10 gr di zucchero ed incorporarla al riso. Adagiare in uno stampo, dove avrete messo sul fondo i frutti di bosco. Prima di servire far raffreddare in frigorifero per circa 4 ore (l'ideale sarebbe farlo la sera prima)
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nobody is there anybody out there? reportage fotografico di Andrea Tonellotto andreatonellotto.com
Trasformare ciò che si vede in una visione, qualcosa di più ampio di una semplice registrazione della realtà, è arte. Riuscirci utilizzando un mezzo come la polaroid, che tra le caratteristiche ha l’impossibilità di manipolazione, ottenendo immagini che si distaccano dal reale, immergendoci tra la metafisica di De Chirico e la desolazione dei luoghi urbani come in un quadro di Hopper, è pura poesia. Andrea Tonellotto vuole mostrarci la realtà così come la vede lui, o meglio ce la mostra come vuole che noi la vediamo. C’è la presenza dell’uomo, come autore, ma l’assenza come protagonista. Non c’è giudizio, ma sospensione. La sua è un’indagine che si perde nelle linee, nella composizione, astraendo la realtà per renderla descrivibile, per riuscire a rinchiuderla in un quadrato che è la sua visione.
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Annamaria Scaramella MADRID – Matadero Al Sud della città, un po’ defilato dal circuito turistico di Madrid, si estende una superficie di 148.300 m2 interamente dedicata alla creazione artistica e alla sperimentazione. Aperto nel 2007, il Matadero di Madrid è senza dubbio uno degli esperimenti di archeologia industriale più riusciti. L’ex mattatoio, chiuso nel 1996, non ha infatti nulla da invidiare alla Tate Modern. Anzi, a differenza di questa non è museo convenzionale, bensì uno spazio multidisciplinare vivo e cangiante, un laboratorio di idee e progetti al servizio della ricerca, della formazione e della produzione. Uno spazio pubblico gratuito e quando alcuni concerti sono a pagamento le cifre sono sempre molto contenute. mataderomadrid.org
Francesca Coppola BRIGHTON – Sunday roast Tavoli in legno, luce soffusa e profumo di crispy pork: gli ingredienti di una domenica a Brighton. Gli stessi del tradizionale piatto inglese originario dello Yorkshire: maiale accompagnato da verdure e salse. La medicina perfetta per liberarsi dello stordimento causato dalle danze sfrenate e dai fiumi di alcol della notte precedente.Il miglior Sunday roast è certamente quello della mamma, ma la maggior parte dei Brightonians vive lontano dal proprio paese natale perciò deve gustarlo in uno dei pub tra le lanes. Il prezzo medio è intorno alle 9 sterline, la scelta varia oltre al maiale tra pollo, manzo e agnello arrosto e viene servito dalle 12.30 p.m. fino all'ora di cena. Dopo la grande abbuffata è doveroso un giro tra i vicoletti del centro.
Francesca Romana Massaro LIPSIA – Spinnerei Dallo schiavismo nei campi di cotone alla libertà d’espressione attraverso una parola sola: Spinnerei. Si nasconde, nel cuore di Lipsia in Germania, un quartiere artistico, centro nevralgico della creazione che prende forma all'interno di un'antica fabbrica di cotone. Tra le sue mura, studi e laboratori ma anche atelier, botteghe e gallerie. Un microcosmo a prova di artista. Non solo si può visitare, ma si può anche andare al Kino, un cinema gestito e decorato da uno dei pittori presenti nello Spinnerei e, se volete, potete anche dormire nella pensione che alcuni ragazzi hanno creato tra gli studi/ rifugi dei maestri. Per dormire: meisterzimmer.de. Per arrivare: volo diretto Ryanair da Roma Ciampino tre volte a settimana al costo di 20,99 euro.
Ian Cerruti CARTAGENA – brividi colombiani Divertente e sexy come il suono della salsa, intrigante e malizioso come le sue bellissime donne, soave e dolce come le specialità gastronomiche, la Colombia dà i brividi. Se volete perdervi nei vicoli di Cartagena non date retta alla Lonely Planet: vi ritrovereste solo più poveri e molto spaventati (chi l’ha scritta deve aver girato il paese con un carro armato). Parlate con i tassisti, vi potranno fare da guida, da procacciatori di avventure notturne e anche da sommelliers per le nottate da narcoturisti. Insomma, siate accorti and don't behave like a gringo. Americani e nord europei sono tra le vittime preferite della delinquenza quindi, dato che in fondo siete latini, comportatevi come tali.
Polonia di ieri e di oggi di Domenico Naso foto di Vincent Urbani
racconto di viaggio
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il mercato coperto Sukiennice -Cracovia
Cracovia conserva un’anima austro-ungarica ma il clima è quello di una Vienna più allegra di una Budapest al passo con i tempi Dalla finestra della camera d’albergo in pieno centro storico non c’è vista. L’affaccio, asfittico, è su un altro palazzo. Niente tramonti suggestivi, dunque, né viste mozzafiato sulla città. Meglio, un motivo in più per confondersi tra la gente nelle strade di Cracovia. Il centro storico è di una bellezza che stordisce, e non è un caso se fa bella mostra di sé tra i siti tutelati dall’UNESCO come patrimonio dell’umanità fin dal primo elenco del 1978. Ma visitare Cracovia, la Cracovia del 2011, è ben altro che un semplice tour turistico. L’anima di questa città, per secoli il centro più importante dell’intera Polonia, è intrisa di storia ed eventi epocali,
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di invasioni e umiliazioni, di sollevazioni e riscatti. È un po’ la summa di tutta la storia polacca. Ma è anche, e forse soprattutto, il punto di vista privilegiato per comprendere la Polonia del terzo millennio, quella definitivamente (e brillantemente) uscita dal grigiume filosovietico e poi piombata con l’entusiasmo di un teenager tra i ventisette membri dell’Unione europea. Camminando per la città te ne accorgi subito: i giovani, se non fosse che i loro colori sono così evidentemente slavi, potrebbero essere confusi tranquillamente con quelli di qualsiasi altra città d’Europa. E in più, nei loro occhi si vede la scintilla
dei newcomers, la voglia irrefrenabile di dire al mondo: “Ehi, siamo europei a tutti gli effetti e finalmente possiamo dimostrarlo!”. La globalizzazione dei costumi, ovviamente, ha fatto tappa anche qui. E, altrettanto ovviamente, il primo luogo dove si percepisce è in discoteca. Ogni tanto, qualche successo che viene dalla Repubblica Ceca fa riaffiorare per un attimo quel gusto tutto slavo per il trash. Retaggi del passato, residui infinitesimali di una Polonia che non c’è più. I giovani di Cracovia sono visibilmente affamati di contaminazioni occidentali, pur restando saldamente orgogliosi delle loro radici. Ma una serata
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il ponte sul fiume Wisla - Cracovia
in discoteca permette di capire le residue differenze tra loro e i giovani di casa nostra. Avete presente una qualsiasi discoteca alla moda di Roma o Milano? Ecco, a Cracovia la “fauna” discotecara è molto diversa: semplicemente, i giovani sembrano divertirsi davvero, senza sovrastrutture da tronisti. E guardare centinaia di persone dimenarsi senza inibizioni è un piacere per gli occhi di chi è abituato a ben altri ambienti più impomatati. La vodka non manca mai, così come la birra, ma il cliché dei giovani dell’Europa orientale perennemente alticci non risponde alla realtà. Sarà che Cracovia conserva un’anima austro-ungarica, a differenza del resto della Polonia di impronta tedesca o russa, ma il clima è quello di una
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la montagna Czantoria - Polana
Vienna più allegra, di una Budapest più al passo con i tempi. Per trovare un po’ di sana e vecchia arretratezza da Patto di Varsavia bisogna visitare le zone rurali attorno alla città, dove qualche maglione totalmente fuori moda e un paio di automobili uscite dalla catena di montaggio negli anni Ottanta sembrano stare lì per ricordarci cos’era quel lembo d’Europa fino a meno di vent’anni fa. A Polana, meno di due ore in macchina da Cracovia, ci aspetta la scena più caratteristica: un barbecue polacco in piena regola, con famiglia ospitale e allegra che riempie i nostri piatti con una velocità degna dei banchetti luculliani del nostro Sud. Ma il posto che più di ogni altro ci è sembrato il trait d’union tra la Polonia di ieri e quella di oggi è la
miniera di sale di Wieliczka, a 20 km dalla città. È una sorta di “fabbrica di cioccolato” dedicata al sale, con 3,5 km (sui 350 totali) di profondissimi cunicoli e gallerie aperti al pubblico. I saloni ampi e sfarzosi, ovviamente realizzati scolpendo nel sale, sembrano sale da ballo di una corte ottocentesca e l’attrezzatissimo bar a quota -180 metri sarebbe supercool se fosse vicino ad altri generi di città europee. La guida, un Willy Wonka polacco dalla divisa nera e l’aria austera, ci invita a leccare le pareti, provocando un misto di ilarità e perplessità tra i turisti, e poi, con un ghigno che somiglia spaventosamente a quello di Riff Raff quando accoglie Janet e Brad nel maniero di Frankfurter, avvisa (o minaccia?) che la visita nel sottosuolo salino durerà al-
meno due ore. Esperienza sconsigliata ai claustrofobici, insomma. Niente, però, in confronto alla visita al campo di Auschwitz. Non proviamo nemmeno a descrivere le sensazioni tumultuose che assalgono il visitatore: tanto, troppo, è stato detto e scritto, e rischieremmo solo di aggiungere retorica alla retorica. Una scena, però, vale la pena raccontarla: una turista americana di mezza età, così come si fa davanti alla Torre Eiffel o al Colosseo, al Castello della Bella Addormentata di Disneyland o al geco di Gaudì a Barcellona, si fa fotografare allegramente sotto la terribile insegna che accoglie il visitatore nel campo: Arbeit macht frei. Forse la rubiconda yankee pensava di essere a Las Vegas, di fronte a una riproduzione made in China…
Il rientro a Cracovia ci ricorda un’altra caratteristica principale di quella città: Karol Wojtyla è ovunque. Gigantografie, musei, calendari, statue: tutto ricorda l’amatissimo papa, ex arcivescovo della città e qui considerato un leader politico più che un pastore di anime. Il sentimento cattolico è diffusissimo, quasi invadente. Le chiese sono piene, la messa è un appuntamento fisso, ma i giovani le disertano, preferiscono fare altro. Forse aveva ragione Giovanni Paolo II quando, deluso dalla piega che avevano preso le cose nella sua Polonia post-comunista, aveva parlato di un passaggio dall’ateismo marxista a quello liberalcapitalista. Ma il cammino della globalizzazione passa anche attraverso il distacco dalla religione. Sta succedendo ovunque, in
Europa, e la Polonia non fa eccezione. I giovani, dicevamo, pensano ad altro. Hanno decenni di oscurantismo culturale da recuperare, hanno voglia di raggiungere e superare i loro coetanei occidentali. E visti i risultati ci stanno riuscendo alla grande. Dai baffoni di Lech Walesa ai vestiti firmati dei polacchi di oggi non sono passati solo vent’anni. Sembra un’altra era, un altro mondo, un altro pianeta. Eppure lo spirito polacco, che a Cracovia si manifesta nel modo più creativo e stimolante possibile, è rimasto sempre quello. Grazie al cielo. L’articolo è dedicato a Maria e alla famiglia Wojtyczka
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la Tomatina la festa del pomodoro di Buñol di Anna Mastrolitto foto di Dmitry Dudin È risaputo che gli innamorati durante qualche lite a volte si tirino dietro i piatti, i bicchieri o anche le valigie quando l’altro non vuole saperne di andare via. Che ci fosse qualcuno che partisse in macchina, in treno o in aereo per andare a tirare i pomodori addosso a qualche sconosciuto, io proprio non ne avevo idea. Ma non si finisce mai di imparare. Anche se, come per tutte le leggende, ci sono varie versioni dei fatti, tutti sembrano concordare che questa storia abbia origini abbastanza remote… C’era una volta, nella lontana estate del 1944 in una località della Spagna vicino Valencia chiamata Buñol, un gruppo di ragazzi che, offeso dal non essere stato selezionato per la sfilata della festa del paese, decise di organizzare un agguato a base di salsa di pomodoro e altri ortaggi contro i partecipanti dei carri. Senza volerlo quei ragazzi spagnoli hanno lanciato una moda che oggi è diventata un appuntamento fisso per tutti coloro che per almeno un giorno all’anno hanno
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voglia di tornare bambini. Dal 1959, infatti, la Tomatina è diventata parte delle feste ufficiali del paese e ha fatto di Buñol una delle località più famose della Spagna, dove durante l’ultimo mercoledì di agosto si danno appuntamento migliaia di Peter Pan in arrivo da tutto il mondo. I cinesi, che non vogliono mai farsi mancare nulla, hanno anche replicato l’iniziativa in varie città della Cina scatenando l’ira di un gruppo di sociologi, economisti e giornalisti che pensano che l’evento possa generare un impatto negativo per i valori sociali del paese, dove buttare il cibo è un tabù. A Buñol, invece, la festa della Tomatina, oltre ad avere un impatto economico positivo sul turismo e a scatenare il buon umore, porta anche benefici salutari ai partecipanti e al paese. Le strade, dopo essere state ripulite dai pompieri, grazie all’acido naturale contenuto nei pomodori appaiono più brillanti che mai. E come se non bastasse, il succo di pomodori con le sue vitamine risulta essere un vero toccasana per la pelle.
Una volta terminata la battaglia dei pomodori, si può partecipare ad altre attività con la possibilità di vincere gustosi premi come il jamon serrano, messo in palio per chi riesce a salire fino in cima all’albero della cuccagna unto con il grasso del prosciutto! QUALCHE CONSIGLIO Da organizzare: un weekend a sorpresa per il vostro partner. Anche se in quei giorni andrete molto d’accordo, nel momento del primo lancio di pomodori vi ricorderete tutti i motivi che durante l’anno vi hanno fanno perdere i lumi della ragione. Da indossare: scarpe chiuse, vestiti vecchi e maschera da sub. Da non dimenticare: una macchina fotografica resistente all’acqua. Da non mettere in valigia: i pomodori, il Comune ne distribuisce circa 120 tonnellate. Prima di tornare a casa: fermatevi a Valencia per mangiare l’autentica paella. Buon divertimento!
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la giusta distanza
in bilico sulla foce del fiume Tawe testo e foto di Francesca Magistro É colpa di Pietro se sono qui. “E poi che ci vai a fare in Galles?”. “Londra non m’innamora, non so perché”. Al The Old Truman Brewery si portano i jeans arrotolati, le paillettes ricordano fiacche il glam-rock, il tinto è pessimo e sono esposte tante foto mediocri. Odio gli happenings. Con tutta me stessa. Quello di Pietro è un “project of the local fishing industry as it declines”, recita il cartellino. Phil tira la rete, Phil studia la mappa isobarica, Phil sgancia l’amo dal bianco e dal nero. Il titolo è “Tide zero”, ovvero il momento in cui la marea si ritira, noto anche come “slack water”, marea stanca. La condensa, la polvere sulla lente, le rughe tra le mani nelle tonalità di grigio che rimbalzano nella grana. Lo sento il sale addosso di quei mesi trascorsi sulla barca e sugli scogli in attesa di ritardi e anticipi della marea che arriva e bagna. Ogni giorno, senza orario preciso... la marea arriva e bagna. Per un attimo non sono più a Brick Lane ma lì, a prendermi gli spruzzi e a riposare gli occhi. Ginocchia e cuore. Cosa cercavo, cosa cerco... Fermo un’offerta last minute e in tre ore di verde pastello al finestrino raggiungo Swansea. A Swansea piove, ma poco importa. Secondo la regola che i luoghi nuovi
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te li devi conquistare poco alla volta, vado a piedi. Cittadina costiera ad est della penisola di Gonwer, Swansea è anche contea del Galles. Il suo nome significa “foce del fiume Tawe” e ha avuto origine all'epoca delle razzie vichinghe. Esco dalla stazione e ci sono solo io. Swansea conta 169.880 abitanti di cui nessuno disponibile a dare informazioni. M’incammino e il riflesso su una vetrina mi ricorda che nello zaino porto una tenda che non userò mai. Mi serve raggiungere il centro, un punto informativo e una stanza. Giro l’angolo ed è vita. Il riflesso delle squame al mercato del pesce, le gengive della merciaia, la glassa sulle torte. Assaggio, sento, respiro. Secondo Wikipedia il 13,4% della popolazione parla gallese, secondo me molto di più. I ragazzi sono tallonatori negli All Whites, le ragazze fanno le commesse al Nails Salon. Starbucks è l’unico posto con il wireless. Prenoto una stanza a poco e nel nero del mio caffè mi stupisco del riflesso di un sorriso. Sul bus mi perdo ma i pensionati aggrappati a borse e borsette mi adottano presto. Alla fermata l’autista si intrattiene, i volti sono di ceramica, i sorrisi il Golfo di Napoli e fuori piove e piove. La mia stanza è in cima, vista Snowdonia, e batte 3:0 il vintage lon-
dinese in ogni dettaglio. Per non parlare dei sanitari e delle vettovaglie della sala da pranzo. Il proprietario è così alto che entra a stento nel gabbiotto e vederlo incastrato com’è, tra sedia e incisivi, mi fa quasi dispiacere. Fuori non c’è tregua e investo 10 quids negli stivali di gomma. Passeggio per il Maritime Quarter, arrivando fino a un magazzino che scopro essere il National Waterfront Museum, sorto intorno a vecchi bacini portuali trasformati in aree residenziali. Sulla costa la pioggia non si distingue dall’acqua e non è un caso se Dylan Thomas si accanì sulla poesia. Alla permanente “Man and Myth” al Dylan Thomas Centre imparo che da lui prendono nome i miei Dylan preferiti, Bob e Dog. Ho fame, entro in un locale illuminato a neon pallido dove mi servono il miglior fish&chips siculo di tutti gli UK. Antonio mi racconta come ci è finito, qui e vent’anni fa, ancora picciriddu, mentre fuori si fa buio. Torno nella mia stanza, l’asciugamano grande, l’acqua azzurra quanto la vasca. Finalmente ti ho trovata, giusta distanza. Lavo via la salsedine di un viaggio non mio e sono pronta. Il Great Outdoors incanta e la gente è la sua gente. E questo sì, che innamora. Tudor Court Hotel
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VIA NICOLA ZABAGLIA, 25 - 00153 - ROMA - Tel. 06 5781466 - info@osteriadegliamici.info CHIUSO IL MARTEDÌ
arte
tu x tu di Alexandra Rosati
Diplomato all’Accademia di Belle Arti a Roma al corso di scenografia di Toti Scialoja, Gianni Dessì muove i primi passi in Via degli Ausoni, alla fine degli anni Settanta e, insieme a Ceccobelli, Gallo, Nunzio, Pizzi Cannella e Tirelli, dà vita alla ‘Nuova Scuola Romana’. Definiti anche anarchici individualisti, seppur diversi fra loro, formano un importante gruppo alternativo dell’arte contemporanea. Tra Roma, Parigi, Berlino, New York, Rio de Janeiro, Istanbul, Venezia, Milano, San Paolo, Tel Aviv, Helsinki e tante altre città, la sua ricerca trova spazio in ogni senso e in ogni luogo. Conosco Dessì da qualche anno, e l’esperienza di muovermi in mezzo alle sue creazioni fra le mura domestiche è stata immensa. Ogni cosa parla in qualche modo di sé, che sia un quadro o una scultura di ogni dimensione, il sentimento che rimanda cattura l’attenzione, incanta, avvolge e accoglie. Per l’intervista sono entrata per la seconda volta nel suo atelier. Nel suo regno l’artista si fonde completamente con le sue opere. Posso solo immaginare quanto ciò accada all’attore che si sposta tra le sue scenografie. Mi sono tornate in mente le parole di Ezra Pound, autore che ha segnato la giovinezza di Dessì per la profonda affinità di pensiero, a proposito di quello che “un solo ideogramma può presentarci: un occhio che guarda dritto nel cuore, il cuore guardato, e l’azione del guardare”. Quando ci siamo seduti sul divano e ha cominciato a parlare, sorridente e disponibile come un perfetto ospite, il tempo si è magnificamente fermato. Qual è il contesto storico nel quale sei “venuto alla luce”? Sono entrato nel mondo dell’arte quando la pittura era bandita perché inattuale, non poteva veicolare “senso”, era un’attività sorpassata. Invece io ho avuto la netta percezione che fosse il campo dove ritrovare una originarietà, una forma nuova, una fonte di possibilità, proprio in virtù del suo essere negletta. La sperimentazione legata a quegli anni si tramutava il più delle volte nella pratica del disegno: spazio che, trovando espressione sulla carta, diventava luogo significativo perché superava l’idea di progettualità legata al concettuale. Il disegno non più come pratica ideologica o verifica di temi, ma luogo in cui è possibile mutare il senso dell’immagine. Qual era il tuo sentimento nei confronti di quello che stava accadendo, dunque? Il mio desiderio era dipanare un groviglio, trovare il filo che lega il senso all’immagine: dal disegno, che prendeva corpo nell’evidenza della parete, ho cominciato a lavora-
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re col ferro. Il materiale veniva utilizzato come forma espressiva che coinvolgeva la superficie bianca della parete. Sulle mie tele, di grandi dimensioni, cominciano così ad apparire escrescenze e poi strappi. Questi segni che lasci hanno un’importante caratteristica: la monocromaticità. Perché? Il colore, inizialmente assunto nella qualità del bianco e del nero, ha assorbito a lungo la mia concentrazione, per dar forza alla nuova pratica del disegno. Poi, alla metà degli anni Ottanta, con un mio quadro che si chiama “Punto a capo” è arrivato il giallo, che ha occupato sempre più spazio. Lo ritroviamo infatti nelle “Camerae pictae”, nelle mie scenografie e nelle mie ultime opere, come la scultura “Tu x Tu” che rappresenta il volto di Ezra Pound. Io non riesco a distinguere mai l’artista dall’uomo. Tu non vedi da un occhio, e dovresti avere una visione bidimensionale, mentre le tue opere sono tridimensionali. Dal momento che hai ampiamente scavalcato questo apparente limite, mi incuriosisce sapere che rapporto hai con la quarta dimensione: quella del tempo. Con tutte le dimensioni ho un rapporto conflittuale: ne assumo le contraddizioni, e ne faccio esperienza per creare qualcosa. Non mi basta che la pittura sia schiacciata in piano, la scultura la nego mettendoci sopra la pittura che la schiaccia, e il tempo lo assumo nel suo senso ciclico ritornandoci sempre attraverso. I limiti, per me sempre valicabili, mi portano a considerare le cose senza inizio né fine, senza un teorema da dimostrare, per esperire nell’immagine un senso particolare che prende non solo la vista e la tattilità, ma dà anche la sensazione di un percorso circolare. Al mio sguardo cieco ho sempre pensato molto. Uno dei miei primi lavori con significato tangente a questo fatto, è un’opera del 1980, “Artemisia”. Il quadro celebrava quello di Artemisia Gentileschi “Giuditta che decapita Oloferne”, legato alla sua vicenda personale, la violenza subita dal pittore Tassi: nel mio lavoro, più complesso perché ispirato anche al mito di Diana e Atteone, lo sguardo diventa impudico, fa violenza e genera violenza. Come il mio occhio, quello di Artemisia ferisce e crea, dunque, in quanto ferito.
a pagina 65 “Tu x Tu”, il volto di Ezra Pound (2010)
moda
total black magic testo di Marianna Kuvvet foto di Greta Pompei Tempo fa mi è capitato di leggere l’affermazione di un illustre personaggio del mondo della moda italiana che definiva la scelta del nero come la più facile e scontata. Tale affermazione mi è rimasta impressa e, pur non volendo peccare d’arroganza, mi permetto di dissentire. Se da una parte per chi lo indossa il nero può superficialmente sembrare la scelta più ovvia e banale (e sottolineo “può” sembrare), dall’altra il designer che decide di abbracciare il total black decide di privarsi di un elemento fondamentale, per l’appunto il colore, puntando su forme, tagli, sovrapposizioni, asimmetrie e materiali. Un tessuto non sarà mai dello stesso nero di un altro così come due designer degni di essere chiamati tali non creeranno mai due abiti neri uguali. Non solo. La scelta del non colore, intesa anche ma non esclusivamente come predisposizione per il dark look, è espressione di un modo di pensare, di una concezione estetica ben precisa. Uno dei sostenitori di questa scelta è l’inglese Gareth Pugh, le cui collezioni sono inevitabilmente e continuativamente dominate dal nero, sporadicamente interrotto dall’altro non colore per eccellenza, il bianco. La decisione del designer di eliminare l’elemento colore è collegata alla teatralità e drammaticità delle sue creazioni, all’eccessività delle forme che vengono quasi bilanciate e giustificate dal nero, il quale d’altra parte dà loro forza e carattere. E proprio forza e carattere sono confermati dall’altro elemento prediletto di Pugh, ossia il triangolo, antico simbolo di potere. La figura geometrica si discosta
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e contrasta la forma naturale del corpo della donna, donando tensione e rigidità alla silhouette femminile. Altro fautore dell’acromatismo è lo svedese Richard Soedeberg, mente creativa che si cela dietro il brand Obscur, il cui nome già la dice lunga sulla filosofia dominante le creazioni del designer. Obscur racchiude in sé tutta l’essenza dei paesaggi austeri e affascinanti del Nord Europa, la loro cultura crepuscolare e misticheggiante. Soedeberg esprime la volontà di donare un’anima agli abiti e si distingue per la meticolosa ricerca e complessità della costruzione tecnica dei suoi pezzi, caratterizzati da destrutturazione, particolari removibili e modificabili. I materiali usati sono rigorosamente naturali, dal lino al cashmere, dalla pelle alla lana, e le forme e i tagli ricordano le creazioni di Rick Owens e Ann Demeulemeester. Proprio quest’ultima può e deve essere considerata un’altra illustre “maestra del nero”. Da oltre venti anni lo considera un punto di partenza, la base di ogni sua creazione, lo scheletro di quella che sarà l’architettura finale di un abito. Abile a dare al non colore tutte le sfumature e la profondità che questo può assumere tramite l’utilizzo di diversi materiali quali pelle, piume e tessuti, la designer belga ha definito il nero come “pura poesia, il più bello e misterioso dei colori”. In fin dei conti, ha detto tutto lei.
a pagina 67 Frange Nere Suede, 35mm
150 - omaggio ai perdenti
Roma
“Ho visto dei romani passare intere ore in muta contemplazione, affacciati a una finestra della villa Lante, sul Gianicolo” Stendhal. Passeggiate romane. 1829
a cura di Claudia Bena
C’è un unico filo che unisce noi romani da secoli. È quella gioia compiaciuta che ti invade quando ti fermi ad osservare la tua città. Quando una luce diversa illumina una strada conosciuta, mostrandola in modo nuovo, inaspettato. Quando alzi lo sguardo, all’alba, al tramonto, ma anche di notte, fino a quando lo abbassi sui sanpietrini lucidi di pioggia che incorniciano in una pozzanghera solo un muro, una finestra, un pezzo di cielo. Questa città riesce a farsi perdonare tutto, e provo un certo piacere a concludere qui la mia polemica storica. Roma non era predisposta per essere capitale. E l’Italia non era pronta per essere unita. Le teorie federaliste di Cattaneo, così controverse ai giorni nostri, centocinquanta anni fa risultavano piene di senso. Il sentimento di appartenenza nazionale risorgimentale non aveva basi nella maggioranza della popolazione e per questo è rimasto incompiuto. Come sottolineava Proudhon in uno dei suoi saggi contro l’Unità d’Italia: “Qui, l’unità è cosa fittizia, arbitraria, pura invenzione politica, maneggio monarchico o dittatoriale, che non ha nulla a che vedere con la libertà. Fino a pochi anni or sono, la critica liberale, ostile alla casa di Napoli, faceva osservare che i siciliani non hanno mai potuto tollerare i napoletani: perché si
la terrazza del Gianicolo
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pretende oggi che tollerino i piemontesi?”. Dalla proclamazione dell’unità d’Italia sotto Vittorio Emanuele II a Roma capitale bisognerà aspettare dieci anni. Altri ottanta per raggiungere l’ideale repubblicano di Mazzini e Garibaldi, entrambi significativamente assenti nel 1870. Secoli di dominio papale avevano reso questa città un museo, lontana dalle metropoli europee, ancora incatenata ai passati fasti, impedendo lo sviluppo di una classe borghese che la rendesse adatta al ruolo di capitale. Ma toglierla al potere della Chiesa era ineluttabile, nonostante il nuovo popolo italiano fosse ancora così soffocato dalla morale cattolica. Oggi la storia ci ha restituito i nomi ed i volti di tutti coloro che hanno combattuto per questo ideale. La statua equestre di Garibaldi, circondata dai busti candidi dei garibaldini, sovrasta il Gianicolo, spalle al Vaticano, rivolta verso quello spettacolo che è Roma. La sua urbanistica è studiata apposta per stupire, facendoti trovare quasi per caso, percorrendo i suoi vicoli, improvvisamente dentro una piazza. Al pellegrino che giungeva da lontano rappresentava la magnificenza di Dio e della Chiesa, a me regala sempre grandi sorrisi. continua su thetripmag.com
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Manuela Galli lemalalingua.pullfolio.com Still in Shibuya Manuela Galli nasce a Firenze nel 1983. Consegue la laurea in Comunicazione Linguistica e Multimediale per poi specializzarsi in Comunicazione Visuale presso l’Istituto Europeo di Design. La sua passione per la fotografia nasce pochi anni fa, ispirata da un improvviso richiamo dei dettagli del mondo circostante. Di (pigra) formazione autodidatta, predilige il fotoreportage di viaggio e la fotografia “non-sense”. La foto, scattata a Tokyo in prossimità del trafficato incrocio pedonale del quartiere Shibuya, ritrae, in contrasto, l’attesa immobile di una ragazza giapponese.
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distribuzione ROMA 40 GRADI Via Virgilio 1 ALTROQUANDO Via del Governo Vecchio 80 ASSOCIAZIONE GRUPPO IDEE Casa Circondariale Rebibbia N.C. BAR DEL FICO Piazza del Fico 26 BARNUM CAFÈ Via del Pellegrino 87 BLACK MARKET Via Panisperna 101 BUCAVINO Via Po 45 CAFFÈ LETTERARIO Via Ostiense 95 ex Mattatoio CAFFE PROPAGANDA Via Claudia 15 CARGO Via del Pigneto 20 CIRCOLO DEGLI ARTISTI Via Casilina Vecchia 42 CONTESTA ROCK HAIR Via del Pigneto 75 Via degli Zingari 9/10 DEGLI EFFETTI Piazza Capranica 79 DELLORO ARTE CONTEMPORANEA Via del Consolato 10 DULCAMARA Via Flaminia 449 FABRICA Via Girolamo Savonarola 8
IN-ES.ARTDESIGN Piazza della Suburra 6
TIEPOLO Via Giovanni Battista Tiepolo 3
JARRO IL QUATTORDICESIMO Piazzale di Ponte Milvio 32
TREE BAR Via Flaminia 226
LIBRERIA DEL CINEMA Via dei Fienaroli 31
ULTRASUONI RECORDS Via degli Zingari 61/A
LONDON CALLING Via XXI Aprile 2
URBAN STAR Via Enrico Fermi 91/93
MAXXI (LIBRERIA MONDADORI ELECTA) Via Guido Reni 4/A
VILLA BALESTRA Via Ammannati
MONOCLE Via di Campo di Marzio 13 NECCI Via Fanfulla da Lodi 68 N’IMPORTE QUOI Via Beatrice Cenci 10 OFFICINE FOTOGRAFICHE Via Giuseppe Libetta 1 OSTERIA DEGLI AMICI Via Nicola Zabaglia 25 PANAMINO BAR Parco Y. Rabin 23 Via Panama PARIS Via di Priscilla 97/99 PASTIFICIO SANLORENZO Via Tiburtina 196 PEAKBOOK Via Arco dei Banchi 3/A PIFEBO Via dei Serpenti 141 Via dei Volsci 101/B RASHOMON CLUB Via degli Argonauti 16
FRENI E FRIZIONI Via del Politeama 4/6
RGB46 Piazza di Santa Maria Liberatrice 46
FULL MONTI Via dei Serpenti 163
SALOTTO 42 Piazza di Pietra 42
GALLERIA DOOZO Via Palermo 51/53
SANTA SANGRE TATTOO Via dei Latini 34
GOA CLUB Via Giuseppe Libetta 13
SOFA WINE BAR Via Cimone 181
HAPPY SUNDAY MARKET Lanificio Factory Via di Pietralata 159/A
S.T. FOTO LIBRERIA GALLERIA Via degli Ombrellari 25
IED Via Alcamo 11 Via Giovanni Branca 122 IL BARETTO Via Garibaldi 27
STONE ISLAND Via del Babbuino 73 SUPER Via Leonina 42
VOY Via Flaminia 496
WOK Viale Col di Lana 5/A
NEW YORK CONTESTA ROCK HAIR 535 Hudson Street EPISTROPHY CAFE 200 Mott Street INVEN.TORY 237 Lafayette Street THE BOX 189 Chrystie Street
MILANO BOND Via Pasquale Paoli 2 BITTE Associazione Culturale A.R.C.I. Via Watt 37 CALIFORNIA BAKERY Piazza Sant’Eustorgio 4 Viale Premuda 449 Largo Augusto (Via Verziere ang. Via Merlo 1) CAPE TOWN CAFé Via Vigevano 3 CIRCUSTUDIOS Via Pestalozzi 4 EXPLOIT Via Pioppette 3 FONDAZIONE ARNALDO POMODORO Via Andrea Solari 35 F.R.A.V. Via Vetere 8 (ang. Corso Porta Ticinese) FRIP Corso di Porta Ticinese 16 HUMANA VINTAGE Via dei Cappellari 3 INTRECCI Via Larga 2 JAMAICA Via Brera 32 LA CASA 139 associazione culturale A.R.C.I. Via Ripamonti 139 LA SACRESTIA Via Conchetta 20 TRATTORIA TOSCANA Corso di Porta Ticinese 58
ERRATA CORRIGE Nel numero 9 di novembre 2011, le immagini a pagina 58 e 59 del racconto di viaggio sulla Cappadocia sono state scattate da Patrizia Lungonelli. Ci scusiamo con la fotografa e i nostri lettori.