the trip magazine n°6

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the trip

N째6 / novembre-dicembre 2010 / free press




Itaca Accusato di sodomia. Per primo ha immaginato l'uomo volare.

Affamato di sapere. Dall'astrologia all'anatomia. Dall'architettu-

ra alla pittura. Uomo indiscusso della scienza. La sua Gioconda ancora ci sorride. Leonardo Da Vinci è stato tutto questo e molto ancora. Ma forse pochi sanno che sempre a lui si deve la creazione di quel classico gioco consistente in una vignetta che il solutore deve interpretare: il rebus. L'uomo e i suoi enigmi. Gli oracoli e i loro responsi. La storia e la scienza che si fondono. Tra esoterismo e simbologia le origini dell'enigmistica sono davvero antiche. Il primo sovrano della prima dinastia dell'antico Egitto, Narmer (3000 a.c.), identificato anche come il “mitico” Re Scorpione, si firmava con un disegno

Quando ti metterai in viaggio per Itaca devi augurarti che la strada sia lunga fertile in avventure e in esperienze. I Lestrigoni o i Ciclopi o la furia di Nettuno non temere: non sarà questo il genere di incontri se il pensiero resta alto e un sentimento fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo. In Ciclopi o Lestrigoni no certo, ne' nell'irato Nettuno incapperai se non li porti dentro se l'anima non te li mette contro.

costituito da un pesce (nar) e da uno scalpello (mer). La leggenda vuole che Omero si lasciò morire dalla vergogna per non essere stato in grado di risolvere un indovinello postogli da alcuni pescatori dell'isola di Ios in Grecia: “Quello che noi abbiamo preso, l'abbiamo lasciato; quanto non abbiamo preso, ce lo portiamo”. (Caro Omero, la soluzione erano “le pulci”). Nella Francia del '700 nasce la “charade”. Dagli enigmi e gli indovinelli che raffigurano un oggetto, concreto o astratto che sia, si passa ad una combinazione di lettere. Le “sciarade” divennero così in voga da diventare addirittura un modo per passare le serate, con le cosiddette “sciarade viventi”, raccontate

Devi augurarti che la strada sia lunga, che i mattini d'estate siano tanti quando nei porti - finalmente e con che gioia toccherai terra tu per la prima volta: negli empori fenici indugia e acquista madreperle coralli ebano e ambre, tutta merce fina, e anche profumi penetranti d'ogni sorta, più profumi inebrianti che puoi, va in molte città egizie impara una quantità di cose dai dotti.

da William Thackeray ne “La fiera delle vanità”. Una lunga lotta tra creatore e solutore. Il primo cerca di indicare un concetto o un insieme di cose, ma lascia al secondo la possibilità di trovare la soluzione per mezzo dell'ingegno. Simbologie che ci accompagnano nel tempo e che “the trip” oggi presenta a conclusione del suo primo anno di vita. Il miraggio dell'America, antichi popoli sconosciuti nel cuore del Brasile, le leggende degli “stupa” birmani, la frenetica vita della capitale del Vietnam. Una lotta partita con un semplice enigma e risolta con una sciarada. Perché “the trip” è riuscito a fonde-

Sempre devi avere in mente Itaca Raggiungerla sia il tuo pensiero costante. Soprattutto, però, non affrettare il viaggio; fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio metta piede sull'isola, tu, ricco dei tesori accumulati per strada senza aspettarti ricchezze da Itaca. Itaca ti ha dato il bel viaggio, senza di lei mai ti saresti messo in viaggio: che cos'altro ti aspetti?

re creatore e solutore e, tramite il lavoro del primo e l'ingegno del secondo, oggi continuiamo insieme a sfogliare quel piccolo Itaca.

E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso. Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.

Valentina Diaconale

Konstantinos Kavafis (1911)

sogno che solo qualche mese fa somigliava ad un'agognata


SOMMARIO

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04 editoriale

eventi dal mondo

intervista

Hanoi

26 New York

le spose dello Zambia

34 44

38 the Goth City

48

56

54

58 il Mato Grosso degli Xavantes

46 teatri d’invenzione

sentimental Araki

San Cristobal de las Casas

La Merica

36 i templi di Pagan

inviati

Mozambico e Tanzania

24

18

16 il mondo a Roma

12

62 Delfina Delletrez

66 l’ultimo Kaufman

69 libri

REDAZIONE the trip N° 6 novembre/dicembre 2010

sede legale Via Gasperina 188 – Roma

direttore responsabile Valentina Diaconale direttore editoriale Lorenzo Verrecchia lorenzoverrecchia@thetripmag.com vicedirettore Veronica Gabbuti capo redattore Francesca Rosati art director Andrea Bennati info@andreabennati.com responsabile marketing Luca Salice lucasalice@thetripmag.com

sede redazione Via Apollo Pizio 13 – Roma

editore Associazione di promozione sociale “ELLE” centro stampa A.T.I. Arte Tipolitografica Italiana srl Via Nicaragua 8 – 00040 Pomezia (RM) atispa.com

Registrazione Tribunale di Roma n. 329 del 6 ottobre 2009 hanno collaborato Pier Gabriele Barbato, Claudia Bena, Chiara Branca, Alessandra Corbi, Marco Costa, Maddalena Finocchiaro, Alessandro Gaston, Marianna Kuvvet, Liliana Lao, Andinnia Lopez-Cano, Gianluca Marziani, Anna Mastrolitto, Alessia Pienzi, Marta Saviane, Rebecca Vespa, Guy Volpi. foto Elena Adorni – elenaadorni@gmail.com Stefano Carini – stefano_carini@hotmail.com flickr.com/photos/stefanocarini/

Carlotta Caroli – carlita.caroli@gmail.com Ivan Cortellessa – ivan.cortellessa@gmail.com avanguardiavisionaria.it Giulio Di Mauro – giulio@postromantic.com giuliodimauro.com - postromantic.com Alessia Laudoni – alessialaudoni.com Monise Nicodemos – monisenicodemos@gmail.com Giona Peduzzi – gionapeduzzi@gmail.com Francesco Ricci Lotteringi – francescoricci.com Angelo Simeoni – angelosimeoni@gmail.com Cinzia Venezia – cinziavenezia@gmail.com avanguardiavisionaria.it la foto in copertina è di Francesco Ricci Lotteringi l'illustrazione dell'editoriale è di Kero - kerousel.com contatti info@thetripmag.com thetripmag.com


EVENTI DAL MONDO a cura di Francesca Rosati

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BALI (INDONESIA) 8 DICEMBRE – 18 DICEMBRE “GALUNGAN” La festa del Galungan si tiene ogni duecentodieci giorni ed è la celebrazione della vittoria di Dharma (virtù) su Adharma (male). Si dice che gli dei scendono in terra per andarsene l’ultimo giorno, detto Kuningan. Tutte le strade sono addobbate a festa con decorazioni floreali, e davanti a ogni casa c’è un piccolo tempio con minuscole offerte di fiori spesso collocato in piccole nicchie. Un viaggio a Bali è già di per sé mistico, ma questo è un vero e proprio tuffo nella spiritualità.

DIAFARABÉ (MALI) FINE DICEMBRE 2010 “DEWGAL” Quando il livello del Niger lo permette, la cittadina di Diafaré sembra un alveare in piena attività, con centinaia di migliaia di bovini accompagnati dai pastori Fula che attraversano il corso d’acqua per raggiungere pascoli più verdi. Dopo mesi passati ai margini del Sahara, i Fula si riuniscono alle famiglie e festeggiano con musiche e balli. Le donne si adornano di gioielli d’oro e di ambra, e passano ore a cotonarsi i capelli. Ogni uomo dipinge il suo animale preferito per il premio della bestia più grassa e pregiata. 08

BARCELLONA (SPAGNA) 2 OTTOBRE – 2 DICEMBRE “VOLL-DAMM FESTIVAL” Il festival internazionale di jazz di Barcellona è uno degli eventi più importanti nel suo genere. Giunto quest’anno alla quarantaduesima edizione, prevede centinaia di concerti ma anche parate, esposizioni, balli e degustazioni. Due mesi di festeggiamenti eclettici, durante i quali una città già di per sé viva e movimentata come Barcellona diventa meta obbligatoria per migliaia di appassionati jazz e non solo. barcelonajazzfestival.com

LIONE (FRANCIA) 8 DICEMBRE “FÊTE DES LUMIERÈS” Durante la Festa delle Luci, l’intera città di Lione si trasforma in un cielo stellato. Su i davanzali delle finestre vengono accese delle candele che regalano uno spettacolo magico. Sulla maestosa Notre Dame de Fourvière vengono proiettate luci di tutti i colori, mentre in Place des Terreaux hanno luogo degli spettacoli di luce davvero suggestivi. La festa richiama tecnici e creativi di ogni paese e circa quattro milioni di visitatori. fetedeslumieres.lyon.fr

LONDRA (INGHILTERRA) 11 DICEMBRE “WHIRL-Y-GIG” La musica spazia dalla trance alla techno più dura, dalla world music al jazz, dal rock alla classica. L’ambiente è hippie e le lucine colorate inebriano. A fine serata ci si siede tutti in cerchio a gambe incrociate e si solleva un tendone da terra, dei macchinari sputano aria fresca per gonfiarlo e dei proiettori lo decorano con immagini caleidoscopiche. L’effetto è quello di entrare in un mondo incantato. whirl-y-gig.org.uk

SVEZIA 13 DICEMBRE – 24 DICEMBRE “LUCIADAGEN” E “JULAFTON” A dicembre la Svezia diventa un presepio vivente da mille luci e colori. Si inizia al solstizio d’inverno con la festa di Santa Lucia, quando le figlie maggiori indossano tuniche bianche, cinture rosse e corone di candele, e preparano dolci per tutta la famiglia. Ogni anno ne viene scelta una che rappresenta la santa per tutta la Svezia, e viene incoronata dal premio Nobel per la letteratura. E poi via ai mercatini natalizi sparsi per tutto il Paese fino alla Vigilia di Natale.

CARAIVA (BAHIA, BRASILE) 29 DICEMBRE – 2 GENNAIO “UNIVERSO PARALELLO” Un festival trance unico nel suo genere, semplicemente perché si svolge su una delle spiagge più incantevoli del sud di Salvador de Bahia, in uno scenario da sogno, circondato da fiumiciattoli, piscine naturali, le acque dell’oceano e palme altissime, oltre che dal calore e la spontaneità degli abitanti di Salvador. Un viaggio psichedelico caratterizzato da armonia, pace e coscienza, a ritmo di musica trance, con tanto di installazioni e performance artistiche dal vivo. universoparalello.org

COROICO (BOLIVIA) 31 DICEMBRE – 2 GENNAIO “ANDEAN TRIBE” Il movimento trance appare sulle Ande boliviane alla fine degli anni ‘90. Dopo vari festival open air nelle foreste delle montagne, il dj Jimmy Luksić da vita all’Andean Tribe, che include anche membri di diverse nazionalità e culture. Quello che propone è una nuova atmosfera open space, musicale e psichedelica, per tutte le forme e le essenze creative. andeantribe.com

TRAVELLING AROUND MUSIC VS ALL TOMORROW’S PARTIES 10 – 12 DICEMBRE foto di Alessia Laudoni

All Tomorrow’s Parties (ATP) è un’organizzazione con base a Londra che nel corso di dieci anni ha promosso festival, concerti ed eventi in tutto il mondo, dagli USA all’Australia. Da sempre la line up delle performance è stata affidata a band e artisti di fama internazionale come Jim Jarmusch, Mogwai, Tortoise, The Flamine Lips, Pavement, Portishead, Sonic Youth, Vincent Gallo, Autrechre e molti altri. In contrapposizione ai festival maggiormente “tradizionali”, il tutto si svolge in un ambiente più intimo: pubblico e artisti - condividendo gli stessi alloggi - si trovano a convivere a stretto contatto durante

tutta la durata del festival. Altro elemento che caratterizza l’ATP è la sua natura sponsorship-free, elemento rarissimo per questo tipo di manifestazioni, che dà al pubblico la sensazione di muoversi in una realtà alternativa e assolutamente non commerciale. Ad undici anni dalla live performance di Belle and Sebastián, che nel '99 ispirò la prima edizione dell’ATP, gli artisti ritornano a collaborare con il festival, curando le tre serate del “Billed as Bowlie 2” in programma, dal 10 al 12 dicembre in Inghilterra nei pressi di Somerset. L’originale “Bowliw Weekender”, che aveva trasformato una piccola cittadina di mare inglese in un campo estivo per amanti della musica indie, fu in effetti il primo degli ATP festival. “Billed as Bowlie 2” rientra nel programma conclusivo per la celebrazione del decimo anniversario

dalla creazione dell’ATP, così come gli altri due eventi che hanno luogo nello stesso mese: “Nightmare Before Christmas curated by Godspeed You! Black Emperor” e “In Between Days 2010 curated by Amos”. Post-rock, avant-garde e hip hop underground, insieme ad un più tradizionale rock fare, sono i generi che si fondono nelle tre serate che vedranno in scena all’incirca quaranta artisti, tra cui Camera Obscura, Teenage Fanclub, Isobel Campbell e Mark Lanegan, The New Pornographers, Crystal Castles, Saint Etienne, The Go! Team e gli stessi Belle and Sebastian. atpfestival.com Anna Mastrolitto e Ian Cerruti annamastrolitto.blogspot.com travellingaroundmusic.com


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Nanga Parbat il divino e la montagna di Marta Saviane

te in Pakistan per conquistare lui stesso il Nanga Parbat. Ma senza aver fatto i conti con la storia: la notte del 2 giugno 1970 infatti l’altoatesino Reinhold Messner decide di approfittare del bel tempo e parte verso la cima. A seguirlo c’è suo fratello Günther. Riescono ad arrivare in vetta ma una volta lassù Günther inizia ad avere delle fortissime allucinazioni. Quelle quote non sono fatte per l’uomo: sopra i 7.500 m si parla di “zona della morte”. Iniziano a urlare, ma nessuno li può sentire, si sentono in trappola e sono costretti a prendere una decisione che gli sarà fatale: scendere dal versante opposto, più scosceso di quello da cui erano saliti. Camminano per tre giorni, senza cibo né acqua. La loro lotta contro la morte si fa sempre più disperata e, proprio quando ormai sono quasi giunti a valle, Günther

viene travolto da una valanga. Reinhold sconvolto vaga per altri due giorni finché viene salvato da due pastori. Ma il freddo ormai gli ha congelato sette dita dei piedi, che in seguito gli verranno amputate. Il suo destino si lega così a quello del Nanga Parbat dove nel ’78 compie la prima vera solitaria di un ottomila, dal campo base fino in cima. È forse quel giorno che è nato il mito di Messner che pochi anni dopo sarà il primo uomo ad aver scalato tutti i quattordici ottomila della terra. È lo stesso Messner ad affermare oggi che la storia del Nanga Parbat racchiude in sé la storia di tutto l’alpinismo: un lungo viaggio, che attraversa la natura e lo spirito, la solitudine e il coraggio, in un luogo, quello delle montagne, dove - per usare le parole di Erri De Luca - “si vede il mondo come era senza di noi e come lo sarà dopo”.

La storia del Nanga Parbat è stata raccontata in un documentario grazie a filmati d’epoca e alla testimonianza di Reinhold Messner, Hans Kammerlander e Nives Meroi che sulle sue pareti hanno compiuto imprese memorabili. In onda domenica 12 dicembre su RaiStoria alle 21:00. a pagina 12: Karl Untekircher (deceduto sul Nanga Parbat nel 2008) foto di Simon Kehrer

lo “stile puro” di Nives Meroi

l’alpinista più forte del mondo Ovunque nel mondo i monasteri sono arrampicati su alte pareti rocciose, in Andalusia come in Grecia, in Thailandia come nel Bhutan, perché da sempre le montagne rappresentano il confine tra cielo e terra, tra divino e profano. Numerosissimi sono i monti legati al divino, dal Golgota all’Olimpo, dal Sinai all’Ararat. Spesso si tratta di storie legate al passato, ma molti sono i luoghi dove si crede ancora che le montagne siano sacre. In Pakistan, Tibet e Nepal per esempio diverse popolazioni venerano degli dei che dimorano sulle vette dell’Himalaya, tanto che prima di qualsiasi spedizione alpinistica i locali sono soliti fare un rito propiziatorio rivolto agli spiriti del luogo. Che si sia credenti o meno, insomma, la montagna è un

luogo mistico, volto alla riflessione e alla contemplazione. Il simbolo dell’ascesi. Lo è anche per l’inglese Alfred Mummery, il primo uomo al mondo che nel 1895 tenta la vetta di una montagna sopra gli ottomila metri. Sceglie il Nanga Parbat, il nono gigante del mondo, una montagna incastonata nell’estremo occidente dell’Himalaya, chiamata Diamir, “il re delle montagne”. La sua folle impresa fallisce, ma è proprio con il suo fallimento che inizia la storia di questa montagna. Negli anni ’30 i nazisti, convinti che le origini del loro DNA risiedessero proprio in quelle terre, fanno del Nanga Parbat il loro campo di battaglia, “attaccandolo” per ben cinque volte. Moriranno trentuno uomini. Poi nel 1953 il tirolese Hermann Buhl compie

una delle imprese più leggendarie dell’alpinismo: armato solamente di piccozza, macchina fotografica e un maglione di lana riesce a raggiungere la vetta dopo un giorno di cammino in solitaria: "Si ha l'impressione di planare sopra ogni cosa - scriverà poi - di aver perso ogni contatto con la terra, di essere staccati dal mondo e dall'umanità. Mi sembra di trovarmi su una minuscola isola in mezzo a un oceano sconfinato”. Ora deve scendere ma è costretto a passare una terribile notte lassù in equilibrio su un ciglio sospeso su una voragine di 4.500 m, lottando con sé stesso per non addormentarsi. Sopravvivrà, entrando così di fatto nella storia. Vent’anni dopo, il suo capo spedizione, il tedesco Herrligkoffer, tornerà nuovamen-

Sono ben quattordici le montagne più alte del mondo, i giganti di roccia e ghiaccio che superano gli ottomila metri. E la friulana Nives Meroi, insieme a suo marito Romano Benet, ne ha scalati ben undici, armata solamente di forza di volontà e una passione sconfinata. Tra le sue conquiste vanta la scalata in soli venti giorni nel 2003 del Gasherbrum II, del Gasherbrum I e del Broad Peak, ma anche la conquista dei due colossi della terra: il K2 e l’Everest. Il suo viaggio alla conquista di tutti gli ottomila del mondo si è però fermato quando l’alpinismo è diventato un fenomeno mediatico fatto di record e spettacolarizzazione. Ma se oggi la prima donna al mondo ad aver vinto tutti i giganti della terra è la sudcoreana Oh Eun-Sun, che nell’aprile del 2010 ha

finito la sua collezione con l’Annapurna, Nives Meroi per tutti è ancora la più forte. Perché? Perché da vent’anni si fa interprete di quell’alpinismo “pulito”, ovvero senza l’aiuto di ossigeno, campi fissi e sherpa, che è forse l’unico modo di vivere la montagna per chi la ama davvero. Nives, lei ha scalato ben undici ottomila, ce n’è uno a cui è particolarmente legata? Ogni montagna mi ha regalato esperienze diverse. Di certo il Nanga Parbat, in Pakistan, è stato il primo ottomila a “permettermi” di conquistarlo e questo è stato un regalo bellissimo. È stata la montagna a “permetterglielo”? Non voglio umanizzare la montagna però

sicuramente ti insegna a non considerarti onnipotente. Dopo tante montagne che ho scalato sono arrivata alla consapevolezza che noi uomini possiamo metterci tutta la nostra forza però a un certo punto bisogna dire Inshallah (se Dio vuole). Tutte le sue grandi conquiste le ha fatte insieme a suo marito, Romano Benet: cosa vuol dire scalare insieme per così tanti anni? Quando si scala ognuno è isolato nella propria fatica, non c’è molto altro che la concentrazione sul proprio corpo. Eppure sentire che c’è una condivisione dello sforzo e del cammino crea una complicità incredibile. Se io e Romano non avessimo vissuto insieme tutte queste esperienze oggi non riusciremmo a parlare la

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Nives Meroi insieme a Romano Benet

stessa lingua, non riusciremmo ad avere la stessa visione della vita. Si è mai sentita svantaggiata per essere un’alpinista donna? Noi donne ovviamente siamo sfavorite fisicamente. Io però non mi sono mai sentita “inferiore” agli uomini perché noi alpiniste riusciamo a compensare in un’altra maniera: con l’esperienza ho capito che abbiamo più resistenza, più forza psicologica. Quanto tempo ci vuole per scalare una montagna di ottomila metri? Una volta arrivati ci vogliono circa venti giorni per acclimatarsi al campo base: il corpo non è abituato a quelle quo-

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Nives Meroi sulla cima del K2

te, l’aria è completamente rarefatta e questo fa sì che per ogni passo si debba respirare numerose volte. Lassù ogni movimento richiede una fatica incredibile, tutto è uno sforzo di volontà ancor prima che fisico. Si dice che bisogna bere molto, perché? Più si sale più il sangue diventa denso e concentrato nelle zone vitali. Per questo bisogna bere almeno quattro litri al giorno, ma è praticamente impossibile perché per fare ogni litro bisogna sciogliere in un pentolino quasi un metro cubo di neve! A quelle quote la natura sa essere indomabile e implacabile: come vive

il pericolo un alpinista? Lassù si è in balia della natura, ti rendi conto di quanto la vita sia fragile e questo ti insegna a eliminare i pensieri inutili, superficiali, perché c’è poco tempo per scegliere e bisogna fare sempre la scelta giusta. Cosa si prova ad arrivare in cima a più di ottomila metri? La gioia è enorme, ma lo è altrettanto la fatica. Non riesci a godere appieno dello spettacolo perché sei esausto e non puoi perdere la concentrazione. La vetta è solo metà del cammino. Ora ti aspetta la discesa. La cosa bella però è che quando arrivi in cima il tuo sguardo non è più uno sguardo di conquista, ma è uno sguardo

che abbraccia l’orizzonte: senti di essere un tutt’uno con il mondo che ti circonda. Per chi non ha la passione dell’alpinismo è difficile capire cosa spinge gli scalatori a sfidare i pericoli della montagna. Può spiegarci qual è il senso dell’alpinismo per lei? Forse l’alpinismo può sembrare un’attività inutile, così come possono sembrarlo cantare o dipingere. È un’attività libera, un gioco, ma inteso in modo più elevato come lo intendono i bambini, ovvero un’esplorazione del mondo e quindi di se stessi. Per me salire su una montagna è un modo per guardare la realtà da una prospettiva nuova.

Lei è una sostenitrice del cosiddetto “light style”, stile alpino. Cosa vuol dire? Vuol dire salire una montagna con le sole proprie forze, senza l’aiuto dell’ossigeno, senza fermarsi in campi intermedi attrezzati e soprattutto senza mollare i pesi agli sherpa che così fanno fatica al posto tuo. Ciò quindi non ha nulla a che vedere con tutti i costanti record che si leggono sui giornali… Credo che la montagna proietti le idee del suo tempo. Oggi l’alpinismo è spettacolarizzato, non conta più mettere in gioco le proprie forze, non conta più l’avventura in sé ma il risultato. Si usano bombole, sherpa ed elicotteri per arrivare su e poi correre a fare un altro record. Questo è

il risultato della nostra società, che è una società ingorda. C’è una cosa che la montagna le ha insegnato in particolare? Quando sei lassù la fatica è estenuante. Ti ripeti continuamente “ogni passo è un passo in meno”. Si impara la pazienza, si impara a concentrarsi sulla terra, a fare attenzione ai particolari... ed è proprio lì che si nasconde la realtà.

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the trip

il mondo a Roma 1

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Rumori, odori e immagini dal mondo nel cuore di Roma: i cinque continenti in cinque piazze della Capitale. È accaduto il 16 ottobre 2010. Gianluca Marziani, Gino Bianchi e Gerard Bruneau, insieme alla redazione di “the trip”, hanno selezionato le foto finaliste del concorso fotografico “il tuo viaggio” per creare una mostra itinerante nella Capitale, conclusasi al Museo del Chiostro del Bramante. In collaborazione con Tam Airlines e Nikon e sotto il patrocinio dell'Assessorato alle Politiche Culturali e della Comunicazione, “the trip” ha presentato l'evento “il mondo a Roma”. Di seguito le prime cinque finaliste esposte al Chiostro al Bramante.

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1. Anna Volpi Machu Picchu, Perù (2007) Senza titolo (vincitore di due biglietti TAM Airlines per il Brasile e di una reflex Nikon d3000) anninavolpina@gmail.com 2. Emanuele Bastoni Madagascar (2008) “Stars Watching” imagoarts.it

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3. Lavinia Parlamenti Plage Borely, Marsiglia, Francia (2010) “Life on Mars” lavinia.parlamenti@libero.it 4. Manuela Galli Jaipur, Rajasthan, India (2010) “Cows and temples” lemalalingua.pullfolio.com 5. Simona Belotti Sydney, Australia (2007) “Climbing” simonabelotti.com 16

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dulcis in Hanoi di Alessandro Gaston foto di Monise Nicodemos

È notte. Da poco meno di un’ora io e mia moglie Monise abbiamo messo piede in Vietnam, ad Hanoi per la precisione, la capitale. Un taxi ci sta portando al nostro albergo, nel quartiere vecchio della città. Un dedalo di stradine contornate da edifici in stile coloniale francese alternati ad edifici moderni, colorati quanto malandati, ma soprattutto ombreggiati da una miriade di fili elettrici

che si snodano in tutte le direzione senza un’apparente logicità. La città è deserta, il silenzio è altrettanto surreale, rotto solo dal gracchiare di qualche apparecchio televisivo che si può udire attraverso le finestre lasciate aperte in questa notte afosa. L’atmosfera ci induce nella quanto mai errata considerazione: “C’è una calma quasi zen in questo posto”.


Ma il mattino seguente, quel luogo pacifico e silenzioso che avevamo intravisto dal finestrino di un taxi è scomparso. L’uscita di buon ora dall’albergo ci catapulta nell’immenso caos vietnamita. La città si rivela un formicaio di motociclette, carretti, risciò, macchine e qualsiasi altro mezzo di locomozione immaginabile, basta che abbia un motore a trascinarlo e un clacson per segnalarlo. In Vietnam dopo poche ore di attenta osservazione, si scoprono le regole base della guida locale. Regole che

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ruotano tutte intorno alla componente principale della viabilità, il clacson. È molto semplice. Il clacson deve essere suonato - due volte ogniqualvolta si sorpassa o si venga sorpassati da un altro veicolo, sia esso a destra, sia esso a sinistra, sia che ci si trovi in movimento, sia che ci si trovi in sosta al margine della strada. Ora calcolando che le statistiche nazionali parlano di ventidue milioni di motocicli su strada, è facile comprendere il continuo e assordante sottofondo di strombazzamenti che ti accompagna

in un moto perpetuo, senza soste. Un mantra che in poco tempo riesce ad ipnotizzarti, fino a spingerti ad affittare una moto e unirti al concerto collettivo diventando parte integrante di questa enorme orchestra popolare (non per niente è un Paese comunista, no?). Probabilmente nessuna rinomata guida lo segnalerà mai, ma tra le cinque cose da fare assolutamente in Vietnam c’è proprio il perdersi in moto nel caos metropolitano. Senza meta. Basta allacciarsi il casco, fare un bel respiro

ed immettersi in carreggiata. Intorno a voi si schiuderà un mondo straordinario che si muove su due o tre ruote. Famiglie intere stipate sotto la cappottina di un risciò che vengono trascinate da un esile conducente tutto ossa e muscoli, moto-venditori ambulanti di polli, pesci rossi, spezie, verdure e incredibilmente scrofe, chiuse in resistenti gabbie di bambù intrecciato e legate lateralmente alle moto, a sembrar quasi parte integrante di un motore primitivo, o postmoderno a seconda dei punti di vista.

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Una volta che ci si congeda dall’orchestra e si mette piede sul marciapiede, si entra a contatto con un’altra abitudine consolidata nella cultura vietnamita: il cibarsi a qualsiasi ora del giorno. Il fiume di centauri - nel senso di mezzi uomini e mezzi Honda - è accompagnato da argini di ristorantini e venditori ambulanti che con i loro carretti soddisfano la fame atavica dei cittadini. Ogni punto di ristoro è articolato in un pentolone ribollente, un contorno di piccoli contenitori di spezie, salse, uova e peperoncini,

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uno o due tavolini alti trenta centimetri accompagnati da un nugolo di sedie o sgabelli giocattolo su cui accucciarsi e godersi il propri pho, la tradizionale zuppa di noodle, adatta a tutte le ore del giorno. Sublime. I pasti possono essere perfezionati da un buon caffè vietnamita, il celebre Kopi Luwak. La provenienza di questi ricercati, quanto costosi, chicchi è di quelle che non ci si aspetta, un po’ come il finale di Twin Peaks. Un curioso mammifero, lo zibetto, è solito infatti nutrirsi di bacche di caffè che, una

volta ingerite e parzialmente digerite, vengono rilasciate ad uso e consumo dell’homo sapiens, da sempre attratto dalla dietrologia, in tutte le sue forme. Una tazzina di Kopi Luwak costa all’incirca quanto una ventina di caffè non defecati da nessuno, insomma è il caffè più costoso del mondo. Inutile dire che si potrebbe parlare per giorni e giorni di questo prodotto alimentare, cercando risposte a domande che sorgono naturalmente: “Che cosa aveva in mente la prima persona che ha intenzionalmente raccolto

feci di zibetto, per poi tostarle e farne una bevanda?”, “Lo zibetto è consapevole del potere economico che si cela in lui?”, ma sarebbe un mero esercizio di stile. A questo punto il lettore potrebbe chiedersi se esiste un angolo di pace ad Hanoi. Certo. Il meritato riposo per le orecchie e le mascelle lo si trova ad ovest del quartiere vecchio, nell’imponente mausoleo dove è custodita la salma del grande leader e combattente Ho Chi Minh. Il mausoleo, che si ispira chiaramente al suo simile mosco-

vita, è un blocco di granito grigio che riprende il rigore e la semplicità di colui che viene comunemente indicato come lo “Zio Ho”, ancora oggi la figura paterna di riferimento per tutti i vietnamiti. Di rigore un copricapo o un ombrellino, non tanto per rispetto alla salma o per un vezzo british, quanto per sopravvivere nella lunghissima coda che si snoda nel parco intorno al mausoleo. L’attesa per entrare dura giusto il tempo per ripensare accuratamente a tutta la propria vita. La cosa che attira maggior-

mente la nostra attenzione è che la stragrande maggioranza di persone in fila con noi è rigorosamente vietnamita. Non solo scolaresche in gita, ma anche persone anziane, forse alla prima escursione fuori dal proprio villaggio, per visitare colui che ha permesso ad ogni vietnamita di essere orgoglioso e camminare a testa alta in mezzo ai francesi, ai giapponesi e agli americani che nel tempo si sono succeduti facendo di questo Paese uno dei più terribili teatri di guerra della storia. Oltre tre milioni di tonnellate di bombe

convenzionali, accompagnate da quattrocentomila bombe al napalm, settantadue milioni di litri di erbicidi e defolianti chimici, oltre a centinaia di migliaia di bombe a frantumazione e mine antiuomo. Numeri terrificanti che è possibile leggere non solo nei libri di storia, ma anche negli occhi e nelle espressioni di ogni singolo vietnamita. Numeri in grado di modificare irrimediabilmente la conformazione e la morfologia stessa del Paese. Prima di entrare nel Mausoleo ci si spoglia finalmente

delle borse, delle macchine fotografiche, ma anche dei clacson e degli strilli dei venditori ambulanti, e ci si immerge nel silenzio più assoluto, in un ambiente buio e freddo che ti rigenera dalle temperature cocenti che si registrano esternamente. Approfittatene al massimo, anche perché imponenti guardie in impeccabili uniformi militari vi costringeranno a tenere il passo ed uscire in una manciata di secondi, dove ormai sapete cosa vi aspetta.

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zenzero zafferano e cumino

le spose dello Zambia testo e foto di Carlotta Caroli Mongu - È come un tempio, il loro tempio. Il luogo per eccellenza (dopo l’armadio e la stanza da bagno) in cui le donne riescono a dare vita ad alchimie di bellezza e bontà. È il ponte dove l’attesa universale si concretizza nella pazienza mistica, dove la magia rosa fa sbocciare amori deliziosi e passioni succulente, stimolando anima e corpo. Perché lì la forza di gravità lascia il posto alla chimica della lievitazione. E se il tempo finisce dove comincia la cucina, vuol dire che quella è, se non proprio l’essenza della femminilità, almeno la pura e cruda, deliziosa verità. Zenzero e zafferano e cumino. Passione, delizia, croce: viaggi sensoriali da fuso orario a fuso orario, peccati universali che combaciano, cosicché nessuno prevarichi sugli altri. E se la donna di Neanderthal passava la giornata a masticare il cibo crudo fin quando un giorno, per puro caso, non fece cadere un pezzo di bisonte sul fuoco realizzando lentamente la svolta che quel gesto inavvertito aveva creato, la donna africana usa la cucina come luogo per svelare i segreti più inconfessabili, i segreti

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delle lenzuola. Sarà per tutto il misticismo che circonda il rituale della preparazione del cibo in Zambia - dove la cucina tradizionale è un fuoco all’aperto e il pasto un piatto di polenta da mangiare con le mani dopo che, con le stesse, la polenta è stata adeguatamente lavorata - che il “Kitchen party” diventa il momento più traboccante di significato nella vita di ogni donna “che si rispetti” (cioè una donna sposata). E quando si parla di spose zambiane meglio rimuovere l’idea della gioia incontenibile delle spose occidentali che sorridono e si pavoneggiano e danzano a testa alta, pancia in dentro e petto in fuori. No. Le spose zambiane sono tristi, perché sposarsi significa sì avere un marito, ma anche lasciare la famiglia. E sorridere, danzare, piroettare tra le pieghe del vestito più bello non è segno di rispetto per questo tipo di separazione. E allora la bella sposa siede scalza su un materasso, affiancata dalle due testimoni che le fanno coraggio. E non guarda in faccia le altre donne, non può commentare sottovoce

i vestiti delle invitate, non può addentare un’ala di pollo né può commuoversi dell’atteso forno a microonde e della padella formato famiglia. Non è semplice essere una sposa zambiana nel giorno del matrimonio. Ma è affascinante esserne spettatori. Tuttavia è bene sapere a cosa si va incontro quando si è invitati ad un “Kitchen party”, altrimenti si può credere di essersi imbattuti in una situazione in cui gli interessi di qualcuno sono stati demoliti in favore degli interessi di qualcun altro. Quando poi capisci il meccanismo, fai parte della festa, del raccoglimento, del piacere e della compassione, cioè il sentimento principale del “Kitchen party”. Che - non lo avevo ancora detto - è la festa della sposa e per la sposa, che segue il matrimonio in chiesa e precede il ricevimento serale. L’equivalente per gli uomini - almeno nella provincia occidentale e per i maschi appartenenti a certe tribù - è leggermente più complicato: i giovani di età compresa tra i dieci e i quindici anni vengono allontanati dalla famiglia per un periodo di sei mesi, periodo che passe-

“Kitchen party”. É tradizione tra i lozi che la più piccola damigella d’onore indossi un abito da sposa

ranno nelle fitte foreste zambiane in compagnia di alcuni anziani che li istruiranno su tutto quello che sarà loro utile sapere, comprese delucidazioni sulla vita di coppia. Se i ragazzi sopravvivono ai sei mesi selvatici, non c’è niente di pratico che debbano ancora imparare. È allora che avviene il passaggio da sbarbatelli anonimi a uomini veri e potenziali mariti. Tornando al “Kitchen party”, si chiama così perché, mettendo un attimo da parte il concetto di parità dei sessi, è in cucina che la donna passa la maggior parte del tempo, o almeno secondo alcuni è lì che dovrebbe passarlo. Non solo: i regali che le invitate consegnano sono rigorosamente oggetti per la cucina. Via libera, dunque, a piatti, bicchieri, coltelli giappo-

nesi, tovaglie, pentole, sedie e credenze, purché il tutto sia del colore indicato nel biglietto di invito. Se l’invito prevede il rosso, allora un oggetto bianco sarà offensivo. Ciò che conta di più, comunque, è la danza che segue la consegna del regalo alla sposa, la quale non ha ancora mai alzato lo sguardo da terra. Una alla volta tutte le partecipanti si alzano, si avvicinano alla sposa, le consegnano il dono, le spiegano il perché abbiano scelto proprio quello, le suggeriscono come usarlo e poi le svelano qualcosa di più con la loro danza. Sensuale, sinuosa, felina, morbida, una danza che segue il ritmo delle canzoni lozi o delle preghiere vorticose dall’accento mistico e purificatore che le altre don-

ne intonano. Una danza individuale che mima l’atto sessuale, che spiega come comportarsi quella notte quando il letto dovrà essere diviso in due. E le danze raccontano anche il carattere di ognuna delle donne, la sua malizia, la timidezza, l’irriverenza, l’euforia, la stravaganza, l’inibizione, la spensieratezza. Si danza. Ci si guarda. Ci si confronta. Con la danza che racconta, suggerisce, consiglia. Perché quella danza in cucina, accogliente come un sacco a pelo e calda come un bacio, sia essa il frutto della saggezza o dell’inesperienza, è il punto fermo di una cultura, la ricchezza del suo sapere, l’opportunità di dire la propria. E di farlo per una volta senza correre il rischio di essere fraintesi.

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sleepers reportage fotografico di Francesco Ricci Lotteringi francescoricci.com “I want to wake up in the city that doesn’t sleep To find I'm king of the hill Top of the heap These little town blues Are melting away I'll make a brand new start of it In old New York” “New York, New York” Frank Sinatra





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baile

l’addio a “Lima la gris”

critical mass

Con l’arrivo dell’estate, i limeños dicono addio a “Lima la gris”: alla fine di settembre il sole fa capolino e il cielo diventa blu. Percorrendo la Panamericana Sur Highway per quasi cento chilometri verso sud, si arriva ad un lungomare paradisiaco di nome Asia, dove una ventina di spiagge esclusive si susseguono e si affacciano sulle acque fredde dell’Oceano Pacifico. Le persone passeggiano, incontrano amici, fanno sport o portano fuori i bambini. Le serate sono calde e morbide. Discoteche, locali e ristoranti aprono le porte ai tanti ospiti. Si possono assaggiare i deliziosi piatti freddi della cucina tradizionale peruviana. Gli abitanti di Lima si incontrano qui, lontano dalla città, accompagnati da uno spirito diverso: i gruppi si riuniscono in uno spazio circoscritto per divertirsi, per schiarire la mente e tirare fuori nuove idee. In una giornata di dicembre, un profumo umido di sabbia invade le narici e ci dice: “L’estate è arrivata”.

In realtà è un evento organizzato in molti centri urbani, ma a Ginevra mi sembra che ottenga più partecipazione che altrove. Ogni ultimo venerdì del mese, nel tardo pomeriggio, chiunque sia dotato di un mezzo su ruote senza motore – pattini, monopattini e skateboard compresi – può unirsi a questo corteo variopinto e rumoroso che si raduna spontaneamente nel centro della città, di solito nei pressi di Pont des Bergues, da dove parte per attraversare il Rodano e invadere tutte le strade più frequentate dal traffico dell’ora di punta. La parata riesce persino ad incuriosire e a strappare un sorriso anche agli automobilisti costretti a fermarsi per lasciarla passare, che magari davanti alla scena finiscono per chiedersi se non sarebbe meglio lasciare l’auto a casa e unirsi alla pacifica e festosa protesta. Un modo semplice e coinvolgente per sensibilizzare i cittadini sulla mobilità ecocompatibile.

la città delle contraddizioni

la Megalopoli

A Caracas sembra non mancare nulla per essere considerata la metropoli latina più americanizzata del mondo. Ovunque si trovano Mc Donalds, centri commerciali, cafè to go, grattacieli, delivery pizza. Le palestre espongono in vetrina i loro prodotti: umanoidi siliconati intenti a sudare. Mi chiedo dove sono finiti i latinos. Spolvero la superficie delle cose e le scopro un po'. Entro in una gym carachena e mi sorprende il sabor tropical. Personal trainer, pilates, bodyfit ma soprattutto... baile! L'attività più popolare del momento è il baile. Ci vanno tutti e a tutte le ore (la prima lezione è alle 6:00 a.m.). Il format è quello classico di una lezione di aerobica, ma la musica, i passi e l'energia sono unicamente latino americani. Molti praticano questa attività per ritrovare le radici culturali dimenticate, altri perché ballando la mente si rilassa, la maggior parte lo fa per restare in forma. Qualunque sia la motivazione, tutti si divertono mucho! Si percepisce l'unicità di questa città contraddittoria, dove l'apparenza gringa baila con l'anima caraibica.

un luogo che contiene ogni luogo Varanasi è una città particolare e dare un'idea della sua vera essenza in così poche righe è impossibile. L’impressione che lascia ad ogni visitatore è talmente personale che diverse testimonianze si potrebbero attribuire a luoghi differenti. Qui gli estremi convergono e convivono, non esistono vie di mezzo. O piace o non piace. C'è chi anno dopo anno ritorna e chi invece scappa nell'arco di poche ore per non ritornarvi mai più. È una città caotica, sporca, rumorosa, un fiume di gente e di energie che ti attraversano ininterrottamente. Filosofi e cialtroni, città dei guru, città della musica, il centro dell'universo indù; è un luogo che contiene ogni luogo, è il luogo dove se si muore non si rinasce. Con questa coscienza si vive a Benares, in attesa della liberazione. Kashi, città della luce, città di Shiva. Tre nomi, centootto volti, una sola identità. Gli occhi raggiungono il sole, il respiro il vento, la persona gli antenati.

Com’è vivere a Shanghai? Vivere in questa città è come vivere in un continente. Nulla di strano nel conoscere una persona e rischiare di non incontrarla mai più. Qui la vita è semplice e comoda. Non importa dove sei e cosa vuoi, basta girare l'angolo o fare una telefonata e tutto ciò che ti occorre ti viene recapitato, senza limite di orari. A Shanghai molti tendono a smarrirsi nella trasgressiva ed eccitante vita notturna che inaspettatamente rivela tutto l’edonismo disarmante di una Cina ancora definita comunista. Ma questa è solo una delle tante facce della metropoli delle contraddizioni. Shanghai è rinomata anche come città dell’arte e del jazz. Ogni settimana offre una ricca varietà di eventi di ogni categoria: dalla moda al design, dagli spettacoli teatrali ai concerti di musica tradizionale cinese con degustazioni di tè. Insomma, ce n’è per tutti i gusti. Voi che ne dite, si vive bene a Shanghai?

È il simbolo della città. Paragonabile a un monumento italiano, la Московское метро è il mezzo di trasporto più usato al mondo, con circa 8/10 milioni di persone che lo impiegano ogni giorno per muoversi in città e fuori. Nasce negli anni '30 e, con le sue dodici linee e 182 stazioni in continuo rinnovamento, oggi ricopre tutta Mosca. Gli “appena” quindici milioni di cittadini moscoviti snobbano la macchina ed evitano di stare in superficie per il freddo. Vivono il cuore della Megalopoli, così chiamata per grandezza e vita, e hanno l’abitudine di darsi appuntamento in stazione, dove sembra sempre che ci sia una festa! Fiumi di persone che camminano a passo svelto in differenti direzioni, che rincorrono i tunnel della propria linea. Vi auguro di non sbagliare mai senso di marcia: verreste trasportati dalla folla. Agli angoli di ogni stazione vedrete gruppi di turisti intenti a far foto alle meraviglie che abbelliscono ogni stazione: statue, lampadari, affreschi, mosaici, colori e storia.


la Principessa e il Contadino tra i templi di Pagan testo e foto di Giona Peduzzi “Qui dentro è sepolta una principessa”, sussurra Koi picchiettando con la nocca sulla pietra. Di stupa ne ho visti a centinaia in Birmania, e nessuno che suonasse a vuoto. “Gli stupa non sono tombe”, ribatto io, fresco di letture sull’architettura buddista, “e non ci sono stanze all’interno”. Koi piega la bocca di lato, come fa quando qualcosa non gli torna: il sorriso che ne risulta mi mette quasi soggezione. “Qui dentro c’è una principessa e il nonno del nonno di mio nonno. Con un’arpa”. Ho conosciuto Koi due giorni fa, al campo nomade sulla secca dell’Irawaddy, il fiume che bagna la valle dei templi di Pagan: mi ha fregato dei soldi mentre scommettevo su Rocket in un combattimento di galli. In verità non mi ha fregato, mi ha vinto, ma ancora oggi non sono sicuro che il combattimento si sia svolto in maniera del tutto regolare. “Il mio antenato si chiamava Myo ed era un contadino, aveva le mani grosse ma un talento speciale per suonare l’arpa. Un giorno la principessa di Pagan sentì la magica melodia del contadino e abbandonò le sue preghiere per correre dietro a

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quel suono. Trovò Myo sotto un tamarindo lungo il fiume, e stette ad ascoltarlo per ore. La principessa si dimenticò di tornare a palazzo e Myo si dimenticò di tornare al campo”. Koi si interrompe e ferma un bambino che cammina con alcune bottiglie di plastica legate sulla schiena. In cambio di una moneta il bambino riempie due vecchie tazze con del liquido bianco. Koi ne porge una a me: “Vino di Palma”, mi dice prima di farlo sparire in gola. “Si raccoglie la mattina e si usa come zucchero, nel pomeriggio invece fermenta e diventa come birra, ma è meglio: aiuta l’immaginazione”. Il sapore è acido e dolce allo stesso tempo, e una volta sceso nello stomaco scalda. Rinato, Koi prosegue la storia: “Myo e la principessa erano come ubriachi di vino di palma ma in realtà erano solo ubriachi d’amore”. Ma come tutte le storie d’amore che si rispettino, anche quella di Myo era ostacolata da qualcuno: “Mia figlia con un contadino? Mai!” tuonò il Re. E così ordinò che Myo fosse ucciso, ma la principessa gli gettò le braccia al collo e promise

che non l’avrebbe lasciato mai. A questo punto del racconto Koi si toglie il cappello dei Chicago Bulls e si pulisce il sudore con la manica della camicia sdrucita. “Il Re in pochi minuti fece erigere uno stupa attorno ai due, minacciando la figlia di sigillare la costruzione per sempre. La principessa non si mosse dal suo abbraccio e il Re fu costretto a chiudere lo stupa con dentro i due amanti e l’arpa. “Quello stupa è questo dove sei appoggiato ora”. D’istinto mi stacco dal muro di pietra, e quasi cado a terra, barcollando per il troppo vino di palma. “È una bella leggenda”, borbotto. Koi a quel punto fa il suo sorriso con la piega della bocca e lentamente appoggia le mani alla pietra. Poi accosta l’orecchio allo stupa e chiude gli occhi. Faccio lo stesso. Sento il ruvido della pietra contro il mio viso. Ascolto. Un’arpa birmana suona un’incantevole melodia d’amore. a pagina 37: la Valle dei Templi di Pagan in Myanmar


visioni africane testo e foto di Stefano Carini

Avevo un grosso zaino con pochi vestiti, una zanzariera, due guide, due macchine fotografiche, cinque quaderni e poco altro. Ho viaggiato per sei settimane lungo la costa della Tanzania e del Mozambico, muovendomi lentamente, cercando di osservare ed ascoltare per poter poi raccontare. Mi sono immerso nel viaggio con tutti i miei sensi, spesso stordito dalla violenza della vita e dalla bellezza dei paesaggi. Poco alla volta mi sono trasformato, ho lasciato alle spalle i ritmi europei, la mia vita, la mia conoscenza del mondo, per cercare di ottenere il massimo dall’esperienza che stavo vivendo.


Ilha de Mozambique (Mozambico)

L’ho odiata l’Africa quando sperduto in un villaggio nel nord del Mozambico ho passato una notte intera seduto su un cesso, che altro non era se non un buco nella nuda terra, in preda a spasmi e crampi indicibili. Ho avuto paura e ho capito allora che non dovevo mai dimenticare di essere solo un osservatore. E ho ringraziato immensamente mia madre per avermi imbottito lo zaino di medicine! La maggior parte del tempo però l’ho amata l’Africa, ne ho amato la sincerità, l’immensità e la semplicità. La

realtà mi è apparsa più volte cruda, ma sempre affascinante. Il viaggio è iniziato a Dar Es Salaam, il rifugio della pace, una città dove quattro milioni di persone cercano ogni giorno di sopravvivere. A Dar ho girato per le vie del centro, perdendomi nei rioni del mercato più grande dell’Africa orientale, Kariakoo, un mondo magico di colori ed aromi lontani. Mi sono addentrato nelle cucine infernali di Kivukoni, il mercato del pesce, dove ho conosciuto enormi uomini diavolo che, avvolti da dense

nuvole di fumo nero, friggevano pesce, gamberi e polipi incessantemente, in un regno governato dalle fiamme e da un puzzo insopportabile. A Dar ho avuto modo di fare incontri interessanti, come Noah ad esempio, un giovane ragazzo Keniota conosciuto un pomeriggio durante una lunga camminata, che mi ha regalato sagge parole: “Se sei un uomo libero - mi disse - puoi camminare liberamente in ogni parte del mondo: l’Africa ti accoglierà come un fratello e ti nutrirà come un figlio”.

È con queste parole ancora nelle orecchie che sono salito su un autobus, in una notte nera come la pece, con il cuore colmo d’emozione. Con il sole rosso alla mia sinistra ho lasciato il rifugio della pace, diretto verso il remoto sud della Tanzania alla scoperta di terre sconosciute. A Kilwa ho scovato le origini del popolo Swahili: muovendomi attraverso le rovine ho chiuso gli occhi per immaginarmi la vita in quella che fu un tempo il centro del più ricco impero commerciale del mondo. Sono però state Ilha de Goa (Mozambico)

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Tangazo, villaggio di scultori Makonde (Tanzania)

le notti di Kilwa a regalarmi le emozioni più forti, facendomi comprendere il significato di una vecchia leggenda. Secondo gli antichi greci, mentre la dea Era stava dormendo, Zeus le mise in grembo un figlio illegittimo, di modo che questi potesse nutrirsi dal suo seno. Quando la dea si svegliò, respinse lo sconosciuto e, nel ritrarsi, uno spruzzo di latte si disperse nei cieli dando origine ad una scia luminosa, la Via Lattea. Alle nostre latitudini non è facile vederne lo splendore, ma in Africa è diverso. Di notte la volta ce-

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leste è uno spettacolo sconvolgente. La Via Lattea, immensamente vivida, squarcia l’oscurità in due e la visione di tanta bellezza toglie il fiato, rompendo gli equilibri delle emozioni. Circa 300 km più a sud, a Tangazo, sono stato il primo uomo bianco a vivere con alcuni tra gli scultori più sensazionali d’Africa. Antony era il mio oste, e osservarlo al lavoro è stato un gran privilegio. Le mani si muovevano sinuosamente, ripetendo gesti conosciuti alla perfezione. Negli occhi si leggeva una concen-

Tangazo, villaggio di scultori Makonde (Tanzania)

trazione assoluta. Mani e piedi sono il tramite tra il mondo magico degli spiriti ancestrali e quello materiale. Antony è un intagliatore di legno della tribù Makonde e la sua gente scolpisce l’ebano da sempre. Con i Makonde ho mangiato l’ugali, una polenta di manioca, prendendola con le mani da un grosso vassoio, seduto in terra insieme agli anziani del villaggio. In sella ad una bicicletta ho poi percorso gli ultimi chilometri della Tanzania e a piedi ho attraversato il letto del fiume Ruvuma che segna il confine con il Mo-

zambico. Dopo circa tre settimane stavo entrando nella seconda parte del mio viaggio: Pemba, la perla del nord, è la terza baia più grande del mondo, una tappa obbligatoria. Le sue spiagge sono fantastiche, e per questo motivo ho deciso di prendermi una pausa per rimettermi in forze e per godermi finalmente l’abbraccio rigenerante delle tiepide acque dell’Oceano Indiano. Concluso il mio breve periodo di riposo salgo sull’autobus per intraprendere il tragitto verso la Ilha de Moçambique. L’occhio si perde

all’orizzonte, negli sterminati spazi dell’Africa del sud, alla ricerca di un cambiamento nel paesaggio: senza ostacoli e senza barriere il pensiero può viaggiare liberamente nell’entroterra del Mozambico settentrionale. Ogni tanto un piccolo villaggio appare dal nulla e l’autobus si ferma, assalito da un’orda di bambini sorridenti che vendono banane, frittelle, galline, pesce secco, acqua e coca-cola. È la comodità degli autogrill africani: vengono loro da te, e la gente, villaggio dopo villaggio, può fare la spesa,

senza neanche scendere dalla corriera. La Ilha è divisa in due da una linea netta: da una parte è l’antica città coloniale, fatta di pietra bianchissima, solenne, imponente. Dall’altra è makuti town, la città di fango, un ammasso di capanne di fango dove vivono gli africani. Oggi la maggior parte dei palazzi di pietra sono disabitati, o riconvertiti in ostelli. Le piazze della città sono stupende, sospese nel tempo, sovrastate da chiese di rara bellezza: ce ne sono sette sull’isola, come sette sono le moschee. La popola-

zione è divisa tra Maometto e Gesù, ma unita da storia, origine ed orgoglio. È in un bar di fronte alla Chiesa della Misericordia che ho incontrato Janito, un giovane ragazzo dai modi gentili che mi ha fatto da guida. Con lui sono andato a visitare a bordo di una piccola barca a vela l’isola di Goa che prende il nome dalla lontana Goa, in India, dall’altra parte della rotta attraverso l’Oceano. Ritornati sull’Ilha, Janito ha trovato un pescatore che se ne andava in giro con dieci aragoste in mano. Le ho comprate tutte

pagando 400 meticash, dieci euro, e la sorella di Janito le ha cucinate sulla brace, aprendole in due e cospargendole di aglio e sale. Il gusto di quelle aragoste, sotto un’altra indimenticabile notte africana, circondato da gente di una semplicità struggente, sempre pronta a regalarmi amichevoli sorrisi, è ciò che mi sono portato via dall’Africa, quando salendo sull’aereo sono tornato alla mia realtà. a pagina 38-39: Piazza Della Misericordia Ilha de Mozambique (Mozambico)

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partire da Lipsia the Goth City testo e foto di Giulio di Mauro A change of scene, with no regrets, A chance to watch, admire the distance “New Dawn Fades” - Joy Division Un’accurata analisi di “The Guardian” sulla diffusione delle sottoculture giovanili in Europa ha stimato che ben il 5% della popolazione giovane della Germania è Goth. Si parla di circa duecentocinquantamila persone, sicuramente una delle identità subculturali nazionali più dense. Se la comunità Dance è spiccatamente trans-nazionale e nomade e, quella Hip Hop è diffusa su una superficie troppo ampia per tracciarne i confini, quella Goth ha invece una madre patria, la stessa in cui vissero i Goti. Una terra scura e ricoperta di boschi, dove le culture si sono stratificate l’una sull’altra come nel succedersi della flora in un sottobosco vivo, proprio perché marcescente. Andai a Berlino la prima volta per lavorare su una tesina di antropologia culturale in cui si cercava di capire perché la capitale tedesca fosse anche la capitale continentale del suicidio. Al mio ritorno non avevo dubbi: nelle grandi città tedesche, ed in particolare lungo l'asse Amburgo-Berlino-Lipsia, la gente non riesce a costruire una propria identità e a mantenerla per più di venticinque anni. Ogni generazione è stata e continua ad essere testimone di costruzioni e crolli. Einsturzende Neubauten: grattacieli che crollano. Stratificazione e putrescenza, eleganza e durezza. Ogni nuova generazione porta il peso di un ulteriore strato, di 44

una nuova cicatrice culturale. Per questa ragione ai ragazzi, allegri e pieni di energia come in qualunque altro posto, piace il nero. Il dinamismo e la spinta creativa che vengono dal basso, dall'adolescenza, hanno trasformato questo quadro solo apparentemente fosco in un disegno infantile, in sogno. Sì, perché ai gotici piace la vita, solo che la esaltano attraverso la rappresentazione grottesca (il più delle volte buffa) della morte. È una sottocultura estremamente semplice da capire perché fondata sulla rappresentazione stilistica della più ovvia semiotica del Romanticismo: amore e morte. Goti, romantici, gotici. Se si vuole esplorare la Germania bisogna farlo da est verso ovest, come nelle migliori tradizioni. Partire da Lipsia, dalla Sassonia, a fine Maggio - quando ha luogo il Wave Gotik Treffen. Treffen significa raduno. Lipsia è, una volta l'anno, il teatro del più grande raduno subculturale giovanile: uniforme, commovente, molto scuro. Circa trentamila persone arrivano da ogni angolo della Germania e del mondo (da Roma parte un pullman che passa per Firenze e Verona), e la città con i suoi tramonti gialli e le sue aiuole colorate si tinge di nero. Il raduno è in realtà un festival diffuso: tre parchi cittadini, due piazze, due chiese, tre teatri, due sale da ballo dei primi del secolo, due parchi monumentali, un cinema, quattro pub, un absintheria e l'intero polo fieristico con i suoi due mastodontici hangar. Tutte le scene oscure sono pre-

senti, e convivono gioiosamente, intrattenute da circa centocinquanta tra concerti, letture di poesie, rave party, picnic e spettacoli teatrali, e sebbene il dress code sia visto come garanzia di rispetto reciproco non è difficile socializzare. In quattro giorni è infatti possibile capire davvero una nazione, o almeno quel 5% costituito da punkabilly dalle creste viola, ragazze che vivono una seconda vita ambientata nell'Ottocento con tanto di trine e ombrellino, emo ribelli a cui non piacciono i Tokyo Hotel, uomini che indossano le più disparate uniformi e si tracannano bottiglie di met wein (vino di miele fermentato), vichinghi che arrostiscono maiali sulla brace, vampiri veri e falsi, raver nostalgici del più leccato cyber-punk anni '90, sadomasochisti con i figli nel passeggino, e sosia di Robert Smith in ogni fase della sua carriera. Giorni che sanno di DDR, di Afri Kola, di architetture razionali e interni nostalgici, con infinite lastre di cemento pulito che incorniciano parchi bellissimi, asparagi bianchi e salsa olandese, gelato alla crema e rabarbaro, odore di cerone che cola, Poison Hypnotique e sudore. Giorni che sanno di cambiamenti, senza rimorsi. Per info sul festival musicale: Wave Gotik Treffen wave-gotik-treffen.de Per assaporare la cucina sassone: Restaurant Weinstock restaurant-weinstock-leipzig.de


teatri d’invenzione di Gianluca Marziani

Untitled di C. Gavazzeni (2010)

Il progetto del 2010 per Pirelli, nato da una relazione privata tra Carlo Gavazzeni e il Teatro di Villa Torlonia, conferma il peso specifico di un’energia amorosa tra Roma e l’artista stesso. Carlo ha disvelato la solitudine selvaggia del teatro in squallido disuso, si è inerpicato nei suoi rumori bianchi, nel fragore muto del pathos notturno, nel graffitismo rude e purulento dei messaggi murali. Un luogo unico dentro una Roma residenziale e connotata, dentro una villa dalla memoria muscolare e dalla natura aristocratica. Villa Torlonia non è la più grande ma di certo la più speciale tra le antiche dimore che oggi ospitano il relax dei romani. Qui dentro si colloca un teatro di puro eclettismo ottocentesco, per decenni in stato di infecondo abbandono. Gavazzeni lo ha scoperto prima del filologico restauro, quando l’estasi del decadimento impollinava l’aria di esoterismi strozzati, silenzi tombali, storie furtive. Mi ha confessato Carlo di aver trascorso non solo ore diurne ma anche intere notti dentro le sale in forma di rudere. Nottate da fantasmi capitolini e da pericoli tipicamente metropolitani: un rumore cieco dell’oltretomba possibile e poi un rumore sordo di

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scarpe che camminano, di corpi dipendenti e in penosa pena. La violenza degli spazi in disuso e la durezza del pericolo reale: lo squarcio della bellezza che sanguina e stratifica graffitismi sporchi, ubriacature odorose, amplessi umani e animali, sonni incoscienti, ragnatele… Oggi il teatro sta riprendendo una vita contemporanea, pulito dalle sue scorie esteriori, rimesso a lucido per sfilare nei programmi culturali della città. Del suo passato virulento restano, per fortuna, le immagini dense di Gavazzeni, memoria vivente di un notturno catacombale che piacerebbe ad André Gide e Thomas Bernhard. La sequenza fotografica ci riporta nel paradiso perduto di un anfratto romano. Percepisci lo stridore dell’apocalisse da camera e il suono planetario della solitudine archeologica. Il teatro di Gavazzeni lascia parlare la natura che riprende lo spazio dell’istinto, racconta i colori del pulviscolo e delle lame di luce improvvisa. Le dissolvenze incrociate, la sensualità cromatica, i tonalismi armonici, il campo avvolgente delle inquadrature: ogni scatto ra-

giona con la stessa metrica della stratificazione archeologica, condensando l’eccesso e stringendo la moltitudine nel perimetro della vista. Sembra che Gavazzeni abbia ragionato da scacchista, dove alla singola mossa ha sostituito il singolo scatto, la tensione compressa di un clic che arriva dopo il galleggiamento nella noia (quella ultrapotente di cui parla Heidegger). Le immagini elaborano la provvisorietà del tempo con un’attitudine orientale, assecondando il quotidiano con la fermezza interiore della pazienza. Mi ha colpito la qualità del tempo interno, quel modo poco appariscente che mi ricorda la pittura cerebrale di Gerhard Richter, la fotografia in bianconero di Hiroshi Sugimoto, la scultura ambientale di James Turrell. Carlo Gavazzeni appartiene ad una razza creativa ormai rara, fatta di attese e calibratura del talento, di lentezza e improvvise partenze, di rigore e sottrazione continua. Tutto ciò produce qualcosa di unico, difficilmente paragonabile ad altre cose: perché il talento rigoroso, non dimentichiamolo, regala archetipi e non fotocopie. Quelle di Gavazzeni sono opere scivolose, nel senso

che vanno verso la pittura, la scultura, il movimento interno (da cui evocare immaginari video), come se la fotografia cercasse, nel suo educato mutismo, la molteplicità identitaria del proprio status contemporaneo. Quando a parlare sono gli archetipi, l’apertura linguistica nasce spontaneamente, senza margini di forzatura concettuale. Basti citare Gary Hill e Bill Viola, videoartisti che scivolano nel disegno, nella pittura, nella scultura. In quattro parole: slittanti per natura interiore. Ci vuole, ribadiamolo, il culto impaziente della pazienza, il senso del tempo aperto dentro lo spazio chiuso, la percezione delle imperfezioni, la paura che l’eccellenza sia un rischio. Ci vuole un’energia liberata e non solo liberatoria. Ci vuole il coraggio di uscire dalle consuetudini dei media e dalle somiglianze emollienti. Ci vuole la forza di parlare col silenzio, lungamente, amorevolmente, radicalmente.

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il miraggio de La Merica di Ivan Cortellessa foto di Cinzia Venezia e Ivan Cortellessa Quello che sto per raccontarvi è un viaggio tra il presente e il passato. Vorrei narrarvi di quell’America che ho immaginato tra le dita di mani operose, quelle mani che l’hanno costruita, di quelle persone che dopo un viaggio disperato hanno contribuito a creare quell’America che prima ho sognato e poi vissuto. L’America, o come spesso si legge-

va su lettere o manifesti propagandistici di inizio Novecento “La Merica”, quel posto lontano, quel mondo immaginato, sperato, romanzato, come un luogo colmo di speranza, per una libertà tanto agognata, patita, costruita su solide fondamenta e nuovi principi.


Times Square, di Ivan Cortellessa

Il mio viaggio, oggi, in questo presente scellerato, si svolge interamente a New York che è caos, è arte, è traffico, è fantasia, è rumori, è maestosità, è persone che si muovono, che vivono freneticamente la loro vita, senza sosta, crescendo, costruendo, distruggendo e ricreando. Questo è anche un viaggio in quel lontano passato, dove uomini e donne conducevano una vita umile e povera, con l’obbiettivo di sopravvivere alla giornata, ad un’esistenza senza futuro, senza speranze nel loro paese di

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origine. Si tratta di un viaggio fisico e immaginario allo stesso tempo, dove ho cercato di confrontare e collegare gli aspetti più interessanti della Grande Mela con tutto quello che la storia degli uomini mi ha insegnato. Ho visto superstrade e vicoli, case basse e grattacieli immensi, automobili, persone, semafori, tombini fumanti alla Blade Runner e venditori di hotdog. Tutto sotto un cielo minaccioso e plumbeo, come se già la città e le sue tentazioni non bastassero a confondere e coinvolgere irrimediabilmente ogni men-

te. Il mio sguardo ha seguito molte strade, ha attraversato molti incroci, ha percorso vie obbligate e senza scelte, cercando di ricreare mentalmente la situazione emotiva e fisica di quelle povere anime che un secolo fa hanno contribuito a ciò che oggi è sotto gli occhi di tutti. A testimoniare il loro passaggio restano non solo carta e ricordi, ma strade, ponti, palazzi, grattacieli che dall’inizio del secolo sorgono immensi come pilastri a sostegno del cielo. Oggi affiancati da torri infinite di vetro e acciaio,

sembrano voler raschiare un po’ di blu del giorno e un po’ di stelle della notte. Contrariamente a quegli emigranti, per quelle vie ho la possibilità di disegnare la mia strada in un viaggio verso “La Merica” e questi due aspetti, presente e passato messi a confronto, hanno generato in me pensieri, idee e storie che hanno fatto del mio incontro con New York un’avventura centenaria e surreale. In giro per Manhattan, terra della tribù indiana dei Lenape, porto marittimo per merci e persone, ho immaginato e

visto una madre imbarcatasi con i figli per raggiungere il marito. Lei ha trentotto anni, sciupata, povera, stanca e analfabeta. L’ho vista attraversare strade, provare a chiedere informazioni in uno stentato italiano perché l’americano di certo non lo sapeva. L’ho vista dormire per terra, chiedere l’elemosina agli angoli delle strade. L’ho vista bianca, nera, gialla, portoricana, africana, irlandese o australiana. Che importa? È sola con i figli, ma ad attenderla, qui, c'è La Merica. È partita insieme con me

dall’Italia, io in otto ore di aereo, lei in cento giorni di nave attraverso l'oceano, lungo un'avventura estenuante e a tratti terrificante, in condizioni penose, stipata come una sardina, tra vomito, malanni e sofferenze. Questa è la storia di tutte quelle madri e di tutti quei figli del Nuovo Mondo, che, oggi come ieri, cercano una nuova vita lontano da quella che era la loro casa. Cammino per la città e la vedo, spaventata, smarrita in profonde attese, ferma a riflettere su forti sospetti, davan-

ti a sensi unici e vie obbligate. Mi vedo perso tra una moltitudine di gente indifferente, seguo le auto sfreccianti lungo le grandi avenue, mi dirigo verso Downtown, verso la via del muro, Wall Street, per poi arrivare a Battery Park dove un affollatissimo battello mi aspetta per andare a visitare Liberty Island e Ellis Island. A Ellis Island ci è passata anche lei, come tutti del resto, dopo essere rimasta senza parole nel vedere la fiaccola della libertà che illumina il mondo. E come lei, anch’io non riesco a restare indifferente alla ma-

estosità di questo simbolo che orgogliosamente si staglia all’entrata del porto sul fiume Hudson. Tutti vengono in questa città almeno una volta nella vita. Ricordatevi che non potrete dire di aver visto “La Merica” se non visitate il museo di Ellis Island dove, vi avverto, vi mancherà l'aria, vi sentirete soffocare, avrete bisogno di sedervi, ma non per il caldo o per la fatica, no, per il dolore che quelle mura ancora trasudano, per l’angoscia che si respira, per l’amore che si è rafforzato nel momento più

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il Molo di Battery Park, di Cinzia Venezia

buio, quello della disperazione, a causa delle sofferenze che milioni di persone hanno lasciato in quel luogo, trascorrendo la loro quarantena. Usciti di li, credetemi, vedrete il mondo in modo diverso. Diceva bene Baricco, nel suo “Novecento”. C’è sempre uno che per primo la vede, “La Merica”. A me piace pensare che quella madre sia una di queste persone, che da sempre aveva già quell'istante stampato nella vita. Tanto che da bambina, se la guardavi negli occhi, se guardavi bene, già la vedevi,

“La Merica”. Seduto su una panchina del parco, guardando i gabbiani giocare con il vento, provo a pensare all'emozione, alla fatica ripagata ma tutt'altro che conclusa di chi, dopo aver viaggiato in condizioni estreme, al momento dell'arrivo, credendo che il peggio sia ormai passato, si ritrova a dover affrontare la prova più dura. Se non si era idonei per ragioni di salute fisica o mentale o si era riconosciuti come delinquenti dalle autorità, si veniva rispediti a casa. Chi riusciva a

restare, gente completamente impreparata ad affrontare il nuovo ambiente per via dell’incapacità ad esprimersi in inglese, si trovava subito alla mercé di connazionali senza scrupoli che speculavano sulla loro pelle truffando, affittando per malpagati lavori di “pick and shovel”, di picco e pala. “Mamma mia dammi cento lire, che in America voglio andar...”, imploravano una volta i giovanotti meridionali sull'aire di una canzone allora molto in voga. In quegli anni, “La Merica”

aveva un significato particolare: non era solo un luogo al di là del mare, era un sogno dall’altra parte della vita. E io, nel XXI secolo, giro per quelle strade, a piedi, in taxi, in metropolitana, al sicuro, senza preoccupazioni. Per quelle strade da dove non si vede l’orizzonte. Sognando ed immaginando altri tempi ed altre persone. a pagina 48-49: I Gabbiani di Liberty Island di Cinzia Venezia

Statue of Liberty, di Ivan Cortellessa

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il profumo dei colori

S.Cristobal de las Casas di Maddalena Finocchiaro foto di Angelo Simeoni La facciata barocca in pietra rosata e tutto il convento di S. Domingo mi indicano la via giusta verso il mercato, uno dei più grandi di questa selvaggia e magica regione: il Chiapas. A San Cristobal de las Casas, tra le montagne della Sierra Madre, il sabato mattina c’è grande movimento, e sin dalle prime ore del giorno i messicani fanno spese di ogni tipo. Camminano veloci tra i banchi, toccano, annusano, valutano e cambiano banco. Si perdono tra i colori. Sono quei colori. Io rimango lì, davanti alle scalinate del convento, per un attimo, ad osservare il movimento altalenante delle vendite, tra le bambine dalle lunghe trecce nere che corrono intorno a me e le loro mamme dalle lunghe gonne colorate che le guardano felici. Rimango immobile e, prima di prendere una delle piccole stradine che dalla piazza del convento si perdono tra le montagne di frutta e le vie del centro, noto che anche sui gradini e per terra i bambini ap-

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poggiano in fila i loro braccialetti, i padri le loro amache, le mamme piccoli grappoli di banane grandi come il palmo di una mano raccolti poco prima di venire. Non esito, e per due pesos compro una delle bananine, la mangio in due morsi scoprendo con stupore il sapore più dolce che abbia mai sentito. Tra i sorrisi di queste famiglie mi perdo tra i colori. Collane di semi a perdita d’occhio, tovaglie a quadri delle tonalità più accese, tessuti lavorati a mano, innumerevoli borse, bracciali e un artigianato fatto anche di gioielli di ambra, oro e altre pietre preziose, e ancora tanta, tantissima frutta. Ananas, mango sistemati in piccole e accurate piramidi, cocchi, avocado, pomodori e arance, banane grandi e piccole, lime, papaya già tagliate dentro i bicchieri in un’esplosione di spicchi rossi e profumati. Scorgo semi di ogni tipo, fagioli, mais, polveri che mi fanno bruciare gli occhi, pareti di fili di cotone colorati. Sento il profumo di pannocchie arrosto e

quello di chi, in luoghi appartati, prepara carne alla griglia. Ad indicare il percorso agli angoli della via sacchi di tortillas di mais di diverse qualità. Camminando al mio fianco, delle donne tengono legati tacchini e galline, appesi alle loro braccia e pronti per la vendita. Rimango a bocca aperta per lo stupore, per la forza e l’energia che riesce a darmi tanta vita, tanto movimento, tanta verità. Resto incantata dalla naturalità dei gesti, dal modo di prendere la frutta, tagliarla e farla provare ai curiosi, dai sorrisi, da chi passa veloce e ti sfiora con le buste della spesa. Abitudini e gesti già vissuti quando si va a comprare la frutta, ma decisamente nuovi. Cerco di mimetizzarmi e di non scattare troppe foto per non sentirmi una turista, una di passaggio. In quel momento io sono una indios.


sentimental Araki di Rebecca Vespa

Ha pubblicato più di duecentocinquanta libri. È considerato uno degli artisti più prolifici di sempre: oltre sedicimila fotografie scattate in un decennio, duecento mostre personali e centocinquanta collettive. Ha lavorato su riviste come “Playboy”, “DéjàVu” ed “Erotic Housewives”. Ha rischiato più volte di essere arrestato in Giappone con l’accusa di oscenità. Della sua città dice: “Paragonandola al corpo femminile, Tokyo è l’utero. È il luogo dove sono nato e cresciuto, ma in realtà mi sento come se fossi rimasto legato a quell’utero: un bimbo appena nato. Non so perché, ma Tokyo mi fa tenerezza”. Nobuyoshi Araki. Alto poco oltre il metro e sessanta, questo fuorilegge dell’obiettivo, dotato di uno straordinario carisma, nasce nel 1940 da una famiglia di fabbricanti di zoccoli tra le violenze e le depravazioni dei bassifondi di una Tokyo caotica, recalcitrante, inafferrabile. Nobuyoshi Araki è uno dei più controversi e rappresentativi fotografi della contemporaneità. In passato snobbato 56

e frainteso per il suo sguardo impertinente, per il suo voyeurismo sospeso tra poesia e morbosità, nell’ultimo decennio è stato riconosciuto come interprete scandalosamente acuto dei desideri repressi e delle ossessioni collettive. Studia fotografia a Tokyo, poi nel 1968 si trasferisce a Dentsu dove lavora per un’agenzia pubblicitaria di grande fama. Qui conosce Yoko Aoki, la sua futura moglie, figura simbolica e centrale nel suo percorso artistico e umano. Nel 1971 Nobuyoshi e Yoko si sposano. Viene pubblicato “Sentimental Journey”, una raccolta di fotografie scattate alla moglie che racconta la fisica e visionaria descrizione della luna di miele. È da questo evento privato che Nobuyoshi inizia ad approfondire sempre più l’erotismo e in particolare il corpo femminile. Le donne di Araki. Un’ossessione fortunata che lo ha reso celebre e che lo ha accompagnato sin dagli esordi. Donne dai corpi affusolati e dalla pelle chiarissima. Donne dal pube nero e aperto. Donne che si accasciano, donne che si allungano, donne che si allargano, donne che si fanno appendere e legare a

corde, come nell’antica arte del bondage. Figure domestiche, casalinghe, studentesse, impiegate, spesso alla loro prima esperienza, rapite dalla realtà e catapultate in un oscuro e intenso universo in cui la sola gravità è quella dello sguardo di Araki. “Non lavoro quasi mai con attrici. Scelgo una donna che vedo attraverso il finestrino dell’auto mentre sono fermo ad un semaforo, o una che si siede in treno davanti a me. Spesso sono persone che incontro per caso e che mi suscitano un’emozione drammatica o misteriosa… io non so nulla sulla natura delle donne. Sono tutte diverse, ognuna ha il suo fascino e per questo io le fotografo. Attraverso l’obiettivo cerco di estrarre il loro quotidiano, oppure la loro sessualità”. Una declinazione erotica del tutto personale - dirompente intensa - poetica. Yukaro Nykumizu nel 1976 scrive una recensione al libro “Journey to Photography” definendolo “un libro da amare” e affermando che “Ogni fotografo ha il suo stile personale, ma non conosco nessuno che sia devotamente sentimentale come Araki. La macchina

fotografica è uno strumento d’amore, e qualunque cosa Araki fotografi è un diario d’amore sottoforma di istantanea”. Una poesia visiva che avvolge i diversi contenuti del multiforme universo di Araki: dalla serie di reportage sul sottobosco dei locali hard di Tokyo al fittissimo mosaico di polaroid scattate, dalle foto che raffigurano fiori carnosi dai colori accesi, alla vita nelle caotiche strade di Ginza. Oggi Nobuyoshi continua ad essere l’omino carismatico che è sempre stato, nonostante la malattia. Le nuove muse, Kaori, Shino, Cosmoko, continuano a gravitare nell’universo visionario - erotico - sentimentale di Nobuyoshi. Ma l’opera più intensa è senza dubbio quella che racconta del rapporto con l’adorata moglie Yoko, narrato prima in “Sentimental Journey”, poi in “Winter Journey”, libro che rievoca con una poesia straziante e in tutta la loro agonia gli ultimi giorni della compagna morente. a pagina 57: la modella Tomone immortalata da Nobuyoshi Araki


gli ultimi indios

il Mato Grosso degli Xavantes testo e foto di Elena Adorni La prima immagine che si incontra entrando nell' “aldeia” di Sangradouro, in Mato Grosso, è una macchina carbonizzata che dorme silenziosa, facendo la guardia ad una Madonna scrostata ed annerita dal tempo. Le case rotonde costruite dai salesiani hanno tegole rosse e mura bianche, ma ognuna è affiancata da strane capanne barcollanti di legno e paglia. I cani randagi vagano in branco come lupi affamati tra i rifiuti sparsi sulle strade sterrate. La puzza fortissima mi ricorda che gli è stato dato il cemento ma non i bagni. Le parabole della televisione, ovviamente gratuite, spuntano in ogni angolo come funghi. Una donna cammina con il cesto tipico che pende dalla fronte fin dietro la schiena, portando un lettore dvd sotto il braccio. I bambini corrono scalzi e nudi, ma non amano farsi fotografare. Ora che guardo meglio, appena alzo l'obiettivo tutti distolgono lo sguardo, come se cercassero di sparire. “Gli rubi l'anima”, mi dice il mio accompagnatore. Gli indios Xavantes hanno contatti con il resto della popolazione brasiliana da circa cinquant'anni. Erano nomadi dal58

lo spirito guerriero che si spostavano per cacciare nelle regioni centrali e che si scontrarono con i coltivatori locali quando iniziò la coltivazione intensiva di riso e semina nelle terre che un tempo appartenevano ai Bororo, i nativi della regione. La riserva di Sangradouro quando vide apparire i primi Xavante era una missione salesiana che si occupava dell'educazione degli indios. Nel 1930 circa arrivarono alcuni di loro vestiti solo di frecce che chiedevano aiuto. Non riuscivano più a trovare il cibo attraverso la caccia poiché le terre erano o in mano dello Stato o in quelle dei fazendeiros, i grandi proprietari terrieri. Con il passare degli anni la FUNAI (Fundaçao Nacional do Indio) creò i confini della riserva e costruì le strade per collegarla con le città vicine. Oggi, “grazie” alla FUNAI, gli Xavantes hanno la carta d'identità segnata da nomi portoghesi e cognomi impronunciabili nella loro lingua d'origine. Hanno la possibilità di votare, senza avere nemmeno il miraggio culturale del significato della parola “Stato”. Hanno una pensione dalla nascita alla morte che permette

loro di avere la minima sussistenza necessaria per vivere senza lavorare, senza coltivare i campi, senza cacciare. Oggi gli Xavantes, nonostante siano cittadini brasiliani, qualunque reato commettano non vengono messi in carcere, come se non fossero capaci d'intendere e di volere. Nonostante possano votare vengono corrotti dai politici, vengono pagati dai candidati in cambio di voti. Nonostante abbiano una “pensione a vita” sono odiati dalla popolazione brasiliana perché sono visti come nullafacenti. E lo sono. Il problema è che nessuno di loro l'ha scelto. Sono stati catapultati violentemente in meno di mezzo secolo in una società già formata, quella che noi oggi conosciamo come moderna. Come potevano ambientarsi nella globalizzazione con l’arco e le frecce? La FUNAI, invece di proteggerli, di alleviare gli sconvolgimenti che questo passaggio avrebbe provocato loro, non ha fatto altro che aumentare il distacco, la reclusione, il rifiuto delle tradizioni e quindi anche la spaventosa rassegnazione che si legge sin troppo chiaramente negli


sguardi degli Xavantes. Li hanno resi cittadini brasiliani sulla carta, sperando in un'integrazione spontanea e apparente, ma sulla terra non sono altro che emarginati, poveri, persone marcate a vita dal pregiudizio. Il patrimonio culturale degli Xavantes è semplice e ben conservato in un piccolo museo all'ingresso dell' “aldeia”. Frecce ed oggetti rituali s'intravedono appesi alle pareti delle case, a fianco di calendari con l'immagine di santi cattolici e di Nossa Senhora Aparecida. Le abitazioni delle famiglie sono disposte a semicerchio, divise da una linea immaginaria che separa due gruppi di discendenza. Ciascun gruppo ha un antenato che determina i legami sociali tra i membri di ogni clan. L'etnìa

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Xavante è esogama, quindi i due gruppi si scambiano doni, beni e credenze tramite il matrimonio. Inoltre hanno le caratteristiche di essere patrilineari ma matrilocali. Tra tutti i riti di passaggio quello più praticato è il “Wapté Mnhono”, ovvero l'iniziazione dei giovani Xavantes. Il rito ha inizio nel momento in cui gli anziani decidono di far entrare i ragazzi nella “Ho”, la casa in cui gli iniziati trascorrono i cinque anni prima del rito finale, a stretto contatto con loro, e quindi con la parte più viva delle tradizioni. La “Ho” di Sangradouro è una casa rotonda, leggermente più grande delle altre. Entrando sono riuscita a scorgere una ventina di materassi anneriti dallo sporco sparsi sul pavimento, e qualche ragazzo che ascoltava musica anni '90 a

tutto volume, trasmessa da una piccola radio portatile. La conclusione del rito è la foratura delle orecchie con un sottilissimo stecco di corno, a cui segue l'applicazione di un piccolo pezzo di legno cilindrico, che rappresenta la donna e quindi l'età da marito. La verità degli Xavantes è che sono soli. Soli contro il mondo, soli nella lotta per diritti che non conoscono, perché nessuno glieli ha mai mostrati. Sono soli contro una società che li sta uccidendo a colpi di cachaça, di elemosina, di diabete e di endogamia. a pagina 59: villaggio di Sangradouro in Mato Grosso (Brasile)


c’era una volta

la moda in Italia… di Marianna Kuvvet

C’era una volta un tempo in cui Moda e Italia erano sinonimi, in cui lo stile era prettamente Made in Italy, in cui lusso ed eleganza volevano dire Gucci, Armani, Versace e chi più ne ha più ne metta. Cosa è successo poi? Che tutto si è fermato, che oggi ciò che abbiamo sono ancora questi grandi nomi che sovraffollano passerelle e pagine di riviste patinate da diversi decenni oramai. Nel frattempo città come Londra, New York e Berlino hanno dato spazio ai designer emergenti, sono andate avanti senza fermarsi e senza guardarsi indietro. I giovani che vogliono un futuro nel mondo della moda non sognano più Milano, vanno a Londra e si iscrivono alla Central St. Martins. Il Made in Italy, il terzo marchio più famoso al mondo dopo Coca Cola e Visa, rischia di perdere il suo significato più importante. A chi interessa se l’etichetta di una giacca di Alexander Wang riporta la scritta Made in China? D’altra parte, in questo alquanto triste scenario, qualcosa di interessante spunta fuori. Uno dei nomi giovani che si sono affermati in Italia negli ultimi anni è quello di Delfina Delletrez Fendi. Si, Fendi. Se lavorare nella mondo della moda è difficile e oltre al talento richiede tanta, tanta fortuna, possiamo affermare con certezza che la talentuosa enfant prodige di casa Fendi non ha avuto bisogno di questo magico elemento. Figlia di Silvia Venturini Fendi e del gioielliere francese Bernard Delletrez, quando Delfina ha annunciato il lancio della propria linea di gioielli la decisione è sembrata forse la più ovvia 62

e scontata. Cresciuta a suon di pietre preziose nel negozio romano del padre, il logo che ha scelto per la propria linea è stato disegnato per Bernard da Karl Lagerfield negli anni ’80 e la sua prima collezione è stata presentata nel 2007 con un grande evento organizzato al concept store parigino Colette. Oggettivamente, quanti designer emergenti possono fare lo stesso? Detto ciò, non bisogna neanche pensare che Delfina non meriti tutto questo. La più giovane di casa Fendi crea, dalla tenera età di vent’anni, pezzi di gioielleria dal sapore gotico - romantico, a volte quasi inquietanti. Lei stessa afferma di non creare gioielli tradizionali, le sue creazioni sono destinate a donne forti con un grande senso dell’umorismo. La sua collezione “My World” è stata ispirata dal calendario Maya, che prevede per il 2012 la celebrazione della rinascita del mondo. I pezzi includono orecchini che portano il messagio “2012 is now”, simboli tradizionali Maya, ragni e rane. E ovviamente teschi, un leitmotiv costante nei lavori di Delfina. Non soddisfatta, la giovane designer ha presentato una capsule collection in collaborazione con Giuseppe Zanotti. “Watch your step”, “Face to Face”, “Handle with care”, “Hold on”, “Finger Foot”: cinque ironici nomi per cinque scarpe che combinano l’artigianalità e la qualità di uno dei più grandi designer italiani con lo stile irriverente della collezione “Anatomik” di Delfina. A tre anni dal suo debutto ufficiale nel mondo del lusso la giovane designer è già

alla sua quinta collezione e molte cose sono cambiate nella sua vita, a livello professionale ma anche, forse soprattutto, personale. Delfina ha aperto il suo primo store a Roma, a pochi passi da Piazza Navona, un piccolo negozio arredato con i mobili di una farmacia del XIX secolo che donano al posto un’atmosfera quasi stregata, assolutamente coerente con lo spirito dei suoi gioielli. Ma, soprattutto, è diventata mamma e questa importante rivoluzione della sua vita privata ha ovviamente influenzato il suo lavoro, regalando una nuova dolcezza alle sue creazioni scure e gotiche. Essere la “figlia di” l’ha sicuramente aiutata nel suo percorso lavorativo, ma la giovane creativa è stata comunque in grado di affermare la propria personalità indipendentemente dal suo ingombrante cognome e di stupire e affascinare con ogni collezione. Parlando in generale, i designer emergenti non hanno vita facile. Spesso talento e anni di studio non bastano, la fortuna a volte manca e nella grande maggioranza dei casi purtroppo non si può sperare in un background pari a quello di Delfina Delletrez. In Italia bisognerebbe forse impegnarsi a non dimenticare che moda e arte sono stati a lungo il segno distintivo del nostro paese e cercare di coltivare questi settori che ora sembrano sopravvivere solo grazie al passato, avendo ben presente che sono i giovani a poterli far andare avanti. a pagina 63: Delfina Delletrez



l'ultimo Kaufman di Marco Costa

Questa è la storia di un film impossibile, obbligatorio e inedito per il mercato italiano. Questa è la storia di Charlie Kaufman, autore e regista di un’opera insieme minuscola e mastodontica. Questa è la storia di come l’arte tenti di sovrapporsi e fagocitare quell’insensata, fortunosa mollica temporale che la nostra cognizione chiama ragionevolmente vita. Che New York sia un monumento all’ispirazione cinefila è un fatto testimoniato da innumerevoli pellicole. Ultima, ma solo in ordine di tempo, “Synecdoche New York”, opera prima di Charlie Kaufman, già autore di sceneggiature ardite e originali come “Essere John Malkovich”, “Il ladro di Orchidee” ed “Eternal Sunshine of the Spotless Mind” (ignobilmente tradotto in Italiano con “Se mi lasci ti cancello”). Un’ opera tanto attesa quanto fraintesa che inizia una 66

mattina d’autunno a New York, immersa in un’atmosfera liquida e onirica, dove facciamo la conoscenza di Caden Cotard, interpretato dal premio Oscar Philip Seymour Hoffman, un regista teatrale sui quaranta, passivo e silente che si sveglia con una strana sensazione addosso ed un concreto problemino ai denti. La moglie interpretata da Katherine Keener, stimata pittrice intensa e bisessuale che dipinge quadri minuscoli, dopo la prima di un suo spettacolo decide di lasciarlo, trasferendosi a Berlino con un’amica misteriosa e Olive, la loro figlioletta ancora piccola e inconsapevole. Primo punto di svolta. Il tempo inizia a confondersi, la salute (mentale) abbandona il nevrotico regista che si rivolge ad una psicanalista interessata solo a promuovere i suoi farseschi manuali. Tra ipocondrie, impotenza e manie igie-

niste compulsive, l’uomo inizia a perdere il controllo del suo corpo. Fin qui scene di una depressione incipiente. Ma ecco che accade qualcosa di incredibile nello sgretolarsi delle certezze di Caden. Viene insignito di un premio prestigioso che gli permette di lavorare ad un nuovo, definitivo progetto teatrale; qualcosa di enorme, onesto e bellissimo, avendo accesso a fondi praticamente illimitati. Più che un’occasione di riscatto, per Caden è la possibilità di ragionare, riparare, ridefinire la sua stessa vita. Dopo essersi installato in un enorme hangar (che ricorda il set di “Dogville” di Von Trier), regista e collaboratori si lanciano nel maniacale tentativo di mettere in scena, attraverso una puntuale ricostruzione della città in scala 1:1, la biografia stessa dell’autore, in un continuo gioco metalinguistico, paradossale e infinito.

Questa la sineddoche - figura retorica simile alla metonimia che sta ad indicare la parte per il tutto - a cui fa riferimento il complicato titolo. Uno spettacolo teatrale che sia una parte (artistica) del tutto (oggettivo) che è la vita. Un’operazione che senza soluzione si dipana per decenni, in cui vediamo invecchiare la persona accanto al personaggio che la interpreta, mentre il copione si arricchisce perpetuo e labirintico dell’accadere esistenziale di tutti coloro che incrociano o hanno incrociato l’esistenza di Caden. Amori sfiorati e incompiuti, malattie psicosomatiche, specialisti che rimandano ad altri specialisti, i microscopici ritratti di sua moglie che impazzano nelle gallerie d’arte, notizie frammentarie di una figlia che adesso balla nei locali di lap dance. Attraverso un linguaggio decisamente simbolico e un montaggio anarchico che

Philip Seymour Hoffman in una scena di “Synecdoche New York”

mescola, confondendo, vita e rappresentazione, “Synecdoche New York” ci regala sprazzi visionari di una bellezza abbagliante, come quello di una nuova relazione che Caden ingaggia in una casa perennemente avvolta da fumo e fiamme con una tenera ragazza che invano cerca di incunearsi nel suo cuore torturato e pesantissimo. O l’incontro disperato con la figlia che lo odia, ormai adulta e in fin di vita per una misteriosa e allegorica malattia che fa appassire i fiori tatuati sul suo braccio. “Sono partito da

certi incubi che avevo avuto nel sonno - spiega Kaufman e in seguito ho aperto la mia immaginazione a tutto ciò che mi faceva paura: la morte, naturalmente, le malattie, l'invecchiare, il lasciarsi... Questo spiega l'insieme di fantasia barocca, emozione e fantastico, ma non ha niente a che vedere con il sogno in quanto tale. Non siamo in un'altra dimensione, ma nella vita vera”. I riferimenti vanno a Pirandello, Lynch e Fellini ma si perdono nella ragnatela postmoderna di una storia che non può terminare se non con

un crollo, molto 11 Settembre, e una perdita di orientamento, unanimemente avvertita a un passo dalla fine. Che sia possibile una redenzione degli errori fatti in vita attraverso la sublimazione artistica più schietta e autentica? Secondo una frangia di critica militante l’intellettualismo estetico e l’autoreferenzialità di temi da sempre cari a Kaufman - il doppio, il plurilinguismo, l’evasione e la catarsi - appesantirebbero il film di eccessivi tranelli ed escatologici significati, ma questo è vero solo in parte. Se il film

non riesce ad essere concluso o perfetto lo si deve alla scelta sacrilega di un tema da genesi, la creazione di un mondo identico e parallelo, che però permette all’autore di incamminarsi verso l’ignoto in cerca di un senso, in cerca di verità, che ancora oggi è l’unica vera avventura per un artista senza scrupoli.

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libri a cura di Claudia Bena

“Gli presentano il progetto per lo snellimento della burocrazia. Ringrazia vivamente. Deplora l’assenza del modulo “H”. Conclude che passerà il progetto, per un sollecito esame, all’ufficio competente, che sta creando”. Ennio Flaiano

“La concessione del telefono” di Andrea Camilleri Editore: Sellerio “Il processo” di Franz Kafka Editore: Adelphi Anno: 1925 Euro: 11 Pagine: 263 “La scrittura è immutabile e le opinioni esprimono spesso soltanto la disperazione che essa provoca”. Nei panni di un gigantesco insetto o inspiegabilmente sotto accusa, nell’universo kafkiano l’importante è riuscire a continuare a vivere come sempre. Sei sotto processo, niente è più uguale a prima ma tutto sembra esserlo. Chiunque ha a che fare con il processo ed è ovunque, come le stanze del tribunale, dietro ogni porta. La pubblicazione postuma e l’incompiutezza alimentano l’angoscia che accompagna le atmosfere oniriche e surreali. L’accettazione della condanna del protagonista e tanto inspiegabile quanto necessaria.

Anno: 1998 Euro: 16 Pagine: 269 Vigata, 1891. In Sicilia con l’Unità d’Italia è ancora più difficile. Le regole sono le stesse, in più c’è anche la legge, i cavilli burocratici, i funzionari incompetenti, i tutori dell’ordine che complicano il tutto. Quanta fatica per ottenere la concessione di una linea telefonica! L’interesse di Filippo Genuardi per la tecnologia è frainteso e malvisto. Tra cose dette e cose scritte, lettere, pizzini, spiate, si snoda un’esilarante commedia degli equivoci che ci riporta indietro di un secolo nell’isola che ha subìto mille conquiste e che ancora adesso rimane uguale a se stessa. Una lucida critica che abbraccia in realtà l’Italia intera, con la sua farraginosa burocrazia che, quando t’invischia nelle sue trame, non ti lascia più andare, e più ti muovi più stringe. Come la stupidità, è ovunque.

“La fattoria degli animali” di George Orwell Editore: Mondadori Anno: 1945 Euro: 8,50 Pagine: 112 L’utopia di una società più giusta è sempre smentita dal suo concretizzarsi. Come nelle favole greche o nelle parabole, questa storia resta senza tempo, ma il pensiero che dal 1937 (anno in cui fu scritto questo romanzo) ad oggi niente sembra cambiato, che i maiali stanno sempre al loro posto e che distinguerli dagli esseri umani risulta ancora difficile fa pensare. Pur riprendendo passo passo l’ascesa, il declino e la caduta dell’Unione Sovietica, la fattoria è un luogo distopico che rappresenta il contemporaneo. La paura dell’essere umano di fronte all’impegno che la libertà comporta lo spinge a preferire che altri scelgano per lui, opzione che inevitabilmente comporta la soppressione dei diritti.

“Racconti fantastici” di Michail A. Bulgakov Editore: Bur Anno: 1924 Euro: 9,40 Pagine: 328 La rivoluzione russa ha sconfitto i vizi del vecchio mondo, oppure li ha solo tramutati in una mostruosa parodia? Dovere di uno scrittore è sottolineare le evidenti contraddizioni. Nei suoi racconti fantastici affronta ciò che anche per Lenin rischia di essere la rovina della rivoluzione: la burocrazia. Impalpabile, irraggiungibile, ma onnipresente e necessaria. Un uomo senza documenti è un uomo senza identità, che combatte contro strani esseri dai toni dell’espressionismo tedesco e i ritmi del cinema muto. 69


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PEAKBOOK Via Arco dei Banchi 3/A

EXPLOIT Via Pioppette 3

PIFEBO Via dei Serpenti 141 Via dei Volsci 101/B

FONDAZIONE ARNALDO POMODORO Via Andrea Solari 35

RASHOMON CLUB Via degli Argonauti 16

F.R.A.V. Via Vetere 8 (ang. Corso Porta Ticinese)

BAYLON CAFÈ Via San Francesco a Ripa 151

IED Via Alcamo 11 Via Giovanni Branca 122

BOHEMIENNE Via dei Cappellari 98

IL BARETTO Via Garibaldi 27

RRTREK (Il Rifugio Roma) Via Ardea 3/A

BUCAVINO Via Po 45

IN-ES.ARTDESIGN Piazza della Suburra 6

SALOTTO 42 Piazza di Pietra 42

CAFFÈ FANDANGO Piazza di Pietra 32/33

JARRO IL QUATTORDICESIMO Piazzale di Ponte Milvio 32

SANTA SANGRE TATTOO Via dei Latini 34

CAFFÈ LETTERARIO Via Ostiense 95 ex Mattatoio

KOOB LIBRERIA Via Luigi Poletti 2

SOFA WINE BAR Via Cimone 181

LA MAISON RETROUVÈE Via Flaminia 479

S.T. FOTO LIBRERIA GALLERIA Via degli Ombrellari 25

LE TESTE MATTE Via dei Baullari 113/114

SUPER Via Leonina 42

LIBRERIA CAFFÈ BOHEMIEN Via degli Zingari 36

TAD Via del Babuino 155

LIBRERIA DEL CINEMA Via dei Fienaroli 31

TIEPOLO Via Giovanni Battista Tiepolo 3

LONDON CALLING Via XXI Aprile 2

TREE BAR Via Flaminia 226

MAXXI (LIBRERIA MONDADORI ELECTA) Via Guido Reni 4/A

ULTRASUONI RECORDS Via degli Zingari 61/A

CARGO Via del Pigneto 20 CIRCOLO DEGLI ARTISTI Via Casilina Vecchia 42 CIRCUS Via della Vetrina 15 CONTESTA ROCK HAIR Via del Pigneto 75 Via degli Zingari 9/10 CREATIVE ROOM ART GALLERY Via Tommaso Campanella 36 DEGLI EFFETTI Piazza Capranica 79 DELLORO ARTE CONTEMPORANEA Via del Consolato 10 DULCAMARA Via Flaminia 449 DUKE'S Viale dei Parioli 200 ECRU' Via Tommaso Salvini 37 ELEVEN Via Ezio 20/A Piazza Filippo Carli 11 EMPRESA Via dei Giubbonari 25/26

MOLLY MALONE Via dell'Arco di San Calisto 17 MONOCLE Via di Campo di Marzio 13 NECCI Via Fanfulla da Lodi 68 N’IMPORTE QUOI Via Beatrice Cenci 10 ODRADEK Via dei Banchi Vecchi 57

RGB46 Piazza di Santa Maria Liberatrice 46

URBAN STAR Via Enrico Fermi 91/93 VILLA BALESTRA Via Ammannati VOY Via Flaminia 496 MILANO BOND Via Pasquale Paoli 2

OMBRE ROSSE Piazza di Sant’Egidio 12

BITTE Associazione Culturale A.R.C.I. Via Watt 37

OSTERIA DEGLI AMICI Via Nicola Zabaglia 25

CALIFORNIA BAKERY Piazza Sant’Eustorgio 4

FRIP Corso di Porta Ticinese 16 HUMANA VINTAGE Via dei Cappellari 3 INTRECCI Via Larga 2 JAMAICA Via Brera 32 LA CASA 139 associazione culturale A.R.C.I. Via Ripamonti 139 LA SACRESTIA Via Conchetta 20 TAD Via Statuto 12 TRATTORIA TOSCANA Corso di Porta Ticinese 58 WOK Viale Col di Lana 5/A NEW YORK CONTESTA ROCK HAIR 535 Hudson Street EPISTROPHY CAFE 200 Mott Street INVEN.TORY 237 Lafayette Street THE BOX 189 Chrystie Street



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