The trip n°19 10 thailandia

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sawadee kha illustrazione di Nakarin Jaisue nakarinn.tumblr.com

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e mani sono unite, la testa inclinata lievemente, le labbra sorridono. «Sawadee kha». È il saluto che pronunciano le donne. Sawadee khrap quello pronunciato dagli uomini. In Thailandia funziona così. Rispetto, gentilezza e sorrisi a non finire, ti accolgono in questo modo i thailandesi, è il loro modo di fare, è il loro modo di essere. Non importa se stai per entrare al Wat Phra Si Sanphet ad Ayutthaya, dove un tempo era custodita l’enorme statua del Buddha ricoperta da duecentocinquanta chili d’oro rubato poi dai birmani, o in un bar di Bangkok per assistere a un incontro di Muay Thai tra bambini di otto anni. Uomini e donne ti saluteranno sempre in questo modo, quasi con reverenza. È il retaggio di un popolo con una cultura millenaria che negli ultimi trent’anni ha dovuto fare i conti con quelli che sono i tempi moderni. Una Bangkok sorvolata da un nuovissimo skytrain e una Bangkok colorata ancora dell’arancio dei monaci che pullulano per le strade della città. Una Thailandia fatta di miti e leggende ma soprattutto di storia dove si fa fatica a dimenticare il vecchio Siam, tanto che in molti si riferiscono al proprio paese ancora con questo nome. Una Thailandia ferita dall’ormai rinomato turismo sessuale che richiama ogni anno migliaia di persone, una Thailandia cosmopolita, moderna dove oggi sono i Lady Boy a fare la passerella sul ring durante i combattimenti di thai boxe. La Thailandia che abbiamo voluto raccontarvi noi di the trip è la vostra. Quella fatta di piccole curiosità che racchiudono un mon-

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eventi inviaci anche il tuo

scrivi a info@thetripmag.com

UBON RATCHATHANI INIZIO AGOSTO FESTIVAL DELLE CANDELE La cerimonia si tiene nello stadio municipale all’inizio del periodo quaresimale buddhista. Decine di artisti creano sculture di cera d’api che raggiungono vari metri di altezza come offerta a Buddha. Prima di essere portate al tempio, un centinaio di creazioni sfilano in cortei colorati per le strade ammaliando tutti gli spettatori.

a cura di Francesca Rosati

BAN TAI (KOH PHANGAN) DUE VOLTE AL MESE HALF MOON PARTY

SUKHOTHAI (MUEANG SUKHOTAI) FINE OTTOBRE – INIZIO NOVMEBRE LOY KRATHONG

Meno conosciuto e commerciale del Full Moon, il Half Moon Party si svolge nel mezzo della giungla e ospita un pubblico più ridotto. Oltre alla musica di alto livello, che è un mix interessante tra tribal house e trance, la festa prevede visual art, decorazioni fluorescenti e uno spettacolo di fuoco. halfmoonfestival.com

Il festival delle luci si svolge durante la notte di luna piena tra fine ottobre e inizio novembre ormai da ottocento anni. I festeggiamenti hanno luogo in tutto il paese, ma i più suggestivi sono senza dubbio quelli nel parco storico di Sukhothai. Il krathong è un oggetto a forma di fiore di loto fatto solitamente di foglie di banano sul quale si accende una candela per poi lasciarlo galleggiare liberamente con la corrente.

THAILANDIA 13 – 15 APRILE SONGKRAN

LOPBURI ULTIMA DOMENICA DI NOVEMBRE IL BANCHETTO DELLE SCIMMIE

Il più noto di tutti i festival del paese, Songkran è per chi ama le lotte acquatiche. è il capodanno thailandese, durante il quale si lavano le statue di Buddha, si onorano monaci e anziani spruzzando un po’ d’acqua e le strade si riempiono di persone armate di ogni genere di pistola d’acqua. Chiunque partecipa ne esce fradicio e purificato per iniziare al meglio il nuovo anno.

A Lopburi, la città delle scimmie, i machachi sono dappertutto. Ogni anno a fine novembre i thailandesi affollano il parco del tempio portando noccioline e banane, ma anche zucche, ananas, meloni e cetrioli, cavoli, uova sode e prelibati granchi per cibare le scimmie credendo che questo possa portare fortuna.

DAN SAI (LOEI) GIUGNO – LUGLIO PHI TA KHON

mappe di aleksandra e Daniel Mizielinscy electa kids

Phi Ta Khon è una tradizione del distretto Dan Sai della Provincia Loei in Isan. Meglio conosciuta come la festa fantasma, essa si verifica ogni anno ed è probabilmente la più colorata della Thailandia. Gli uomini si travestono da spiriti indossando maschere dai colori sgargianti. Oltre ai costumi, tanti balli e festeggiamenti.

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L’illustrazione è tratta dal libro Mappe di Aleksandra e Daniel Mizielinscy (ElectaKids, 108 pagine, 22 €), vincitore della trentaduesima edizione del Premio Andersen come miglior libro di divulgazione. Mappe conduce grandi e piccini in un viaggio fantastico attraverso cinquantuno tavole.



intervista a tew bunnag

fragile days introduzione di Andrea Berrini intervista di Claudia Bena

Tew Bunnag (1995)

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o sempre dichiarato con orgoglio che i romanzi di Metropoli d’Asia li scelgo sul posto. A Bombay, incontrando editor e giornalisti, ho scoperto chi erano Kiran Nagarkar e Cyrus Mistry, Annie Zaidi e Raj Rao. Nelle librerie indiane ho trovato la graphic novel di Amruta Patil. E sono volato fino a Seoul e Pusan per sapere chi fosse Kim Young-ha, o a Kuala Lumpur per ascoltare durante un reading lungo una giornata un brano di Malesia Blues, scritto da quell’incallito bluesman e inventore di locali underground che è Brian Gomez. La libreria di Yeng Pway Ngon è meta dei miei pellegrinaggi a Singapore, per non parlare degli autori di Pechino, dove ho speso dodici mesi nell’ultimo anno e mezzo - e le soprese arriveranno presto. Di questi incontri mi piace scriverne sul mio blog Indirettadallasia: mi interessano le persone, e soprattutto le persone che raccontano in forma scritta. Voglio vivere in quest’Asia in travolgente trasformazione, voglio vivere con i piedi ben piantati nel time-lapse che sconvolge la personalità dei più giovani e allontana da sé i più anziani. Ma che sicuramente produce scrittori che, discostandosene di un tratto, rinchiudendosi dentro al bianco di una pagina, possono raccontarlo. Produce cortocircuiti anche quando, come nel caso di Tew Bunnag, per la prima e finora l’ultima volta mi trovo a pubblicare un autore che mi è stato proposto mentre sedevo alla mia scrivania

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a Milano, da un giornalista italiano – Massimo Morello, di cui consiglio la lettura dell’ottimo blog, Bassifondi, da Bangkok – che è poi stato il traduttore del primo romanzo da noi pubblicato, Il Viaggio del Naga. Cortocircuiti dicevo: coincidenze strane. Quel primo romanzo conteneva una spruzzatina di realismo magico, il Naga, dio serpente che simboleggia l’acqua e la vendetta della natura sugli uomini: la complessa vicenda che vedeva tra i protagonisti un’ex attrice, un artista, un monaco spretato, uno scrittore si concludeva come in una catarsi con la catastrofica alluvione che sommergeva Bangkok. Scritto due anni prima, nelle mani di Morello in quell’autunno in cui stavo di stanza a Singapore. Preparavo dunque lo sbarco in città, volevo incontrare autore, traduttore e scenario del romanzo, e mi fermò l’alluvione: quella vera. Quella che Bunnag, per qualche suo motivo, aveva saputo intuire dentro al suo romanzo, che aveva chiuso l’aeroporto e bloccato la città. Così come dentro al suo romanzo – e a questo più recente Cortina di Pioggia, in uscita ad aprile contemporaneamente in Italia e in UK, presentato in gran pompa alla London Book Fair – ci sono gli scontri politici tra le due fazioni (allora i rossi e i blu, ora la situazione è più complicata) che fanno della Thailandia il paese più turbolento – ma preferirei scrivere turbato – dell’Asia del Sud e dell’Est in questo momento. Tew Bunnag avrà sicuramente raccontato di sé nell’intervista che segue questa mia nota. Mi sembra l’uomo giusto per guardare il suo paese con distacco e restituircelo con verità. Erede di una delle famiglie più importanti del paese, con un pedigree che lo avvicina alla famiglia reale, è il figlio che ha scelto di voltare le spalle alla propria condizione. Uomo mite, timido, che parla come fosse costretto ogni volta a spezzare una sua cortina di silenzio, maestro di Tai Chi Chuan, collaboratore attivo di numerose ONG, avulso dalle logiche del potere, per molti mesi dell’anno in esilio volontario in Spagna, ce ne rende una cifra sconosciuta, a noi consumatori occidentali di turismo e tropicalità esotica. Ci parla delle persone, degli individui, che è quello che dovrebbe fare ogni scrittore autentico.






iI mercati galleggianti di Damnoen Saduak e di Taling Chan my trip |

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Bangkok durante il Songkran

hanno con il loro fiume più importante. Si possono scrutare, con discrezione, alcune abitudini e assaporare le condizioni della quotidianità tipica, a volte atipica per noi occidentali, di una metropoli come questa. È un’angolazione inaspettata, fresca e autentica. Così come inaspettato è l’impatto con il quartiere Chinatown, punto di passaggio di qualsiasi itinerario thailandese. Quante Chinatown esisteranno al di fuori della Cina? Quale sarà la più antica e quale la più recente? Quella di Bangkok, nel quartiere di Samphanthawong, raggiungibile tranquillamente con autobus o a piedi dopo essere sbarcati dal fiume Chao Praya, è una delle più antiche. Un groviglio di viuzze caotiche, di odori pungenti, di negozi stipati e rumori assordanti. La Chinatown di Bangkok è un’esperienza sensoriale. Il quartiere è l’acme del caos. Rendersi conto di essere in un angolo cinese nel cuore della capitale della Thailandia è un po’ singolare per chi come me non aveva mai visitato il Sud Est asiatico. Quello che invece è meno singolare è lo stupore che mi ha suscitato: mi sono sentita magnificamente spaesata. Perdersi nelle sue vie e nei suoi innumerevoli angoli di mercato è quanto di più divertente e confusionario possa capitare. E se dopo chilometri di camminata i piedi non dovessero più rispondere agli stimoli nulla è più impagabile di un foot massage in uno dei piccoli centri estetici a conduzione familiare del quartiere. In trenta minuti, per circa quattro euro e una digito-pressione non propriamente rilassante, i piedi tornano come nuovi. Paghi, sorridi, esci e i clacson costanti e lo smog ti rientreranno di nuovo fin sotto la pelle. Se si visita questa città durante il Songkran la prospettiva cambia radicalmente. Finché non ci si trova non si può avere la minima idea di cosa sia questa antica tradizione buddhista. Il Songkran prevede un’azione purificatrice attraverso l’acqua: i fedeli devono lavare la casa e le statue di Buddha in segno di allontanamento dalle azioni cattive commesse. Una sorta di abluzione purificatrice. Ma dalla tradizione si è arrivati anche a un appuntamento più ludico e divertente durante il quale, per augurare buona fortuna, si finisce con il buttare acqua su tutti i passanti, senza alcu-

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na pietà, in ogni angolo: all’uscita dei centri commerciali, dai ponti sopra i tuk-tuk, dai balconi di casa, dalle macchine cariche di intere famiglie in tenuta da combattente. Trovarsi in una Bangkok umidissima e calda (aprile è uno dei mesi più umidi dell’anno) ed essere completamente travolti da questi festeggiamenti è un’esperienza che non si dimentica nella vita. La Thailandia per tre interi giorni si trasforma in un vero e proprio campo di battaglia e a farla da protagonista è l’acqua. Una dichiarata, squilibrata e folle guerra di gavettoni, mitra e secchiate d’acqua ovunque, da ogni balcone, negozio, casa e strade dove bambini, adulti e anziani diventano guerrieri divertiti e pronti a colpirti con le loro armi (acqua o farina). Stare al gioco è il modo migliore per vivere intensamente questa festa. E sotto la pelle si è annidato anche un luogo da sempre sognato, e caratterizzato anch’esso dall’acqua, quello dei mercati galleggianti, i famosi floating market. In Thailandia, come in altre aree del Sud Est asiatico, i mercati galleggianti sono l’espressione di una tradizione mai persa, un simbolo, una quotidiana abitudine che si spinge oltre il semplice acquisto di cibo. Questi mercati fluviali, a volte turistici, come il Damnoen Saduak, situato a circa cento chilometri da Bangkok e visitabile in mezza giornata, a volte meno, come il Taling Chan o il Khlong Lat Mayom, sfruttano le acque calme dei canali per popolarsi di voci, di odori, di cibo. Spesso quando si parla di mercati si finisce con immaginare le ordinarie e comuni bancarelle, ma qui parliamo di altro. Durante questo viaggio ho visitato diversi mercati galleggianti, più o meno grandi, più o meno improvvisati. Inseguivo questo desiderio da tanto, continuerò a inseguirlo finché non riuscirò un giorno a visitare quelli del fiume Mekong. L’eleganza, la dignità e la maestria con cui le donne si muovono sulle loro piccole barche lasciano senza fiato. È quella che amo definire l’eleganza della semplicità. Tutto viene meticolosamente preparato e cucinato da thailandesi seduti a bordo di barchini, senza perdere mai l’equilibrio. Piccole imbarcazioni condotte da signore, a volte non giovanissime, ma abili ed esperte. Passare con lentezza tra i canali. Una tranquillità che mi ha




theydrawandtravel.com

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Fermarsi a osservare le vecchie signore thailandesi che realizzano corone e composizioni di fiori per il Buddha.

di Krabi in 6 Dall’aeroporto circa trenta minuti si arriva

al molo per imbarcarsi su una delle long tail che arrivano a Railay o alle Phi Phi. Basta poco prima di partire: via le scarpe, pantaloni arrotolati sopra le ginocchia, valigie sulle spalle, gambe in acqua e tutti a bordo.

oscuro di Maeklong: 7 Ilunlato mercato sui binari di una ferrovia che si smobilita a ogni passaggio del treno.

Pad Thai è il piatto più 8 Ilconosciuto della Thailandia.

mercati galleggianti sono 14 Altro che per le zanzare! La 15 In aprile si tiene il Songkran, 13 Il’espressione il nuovo anno buddhista. di una tracitronella (lemongrass) è un dizione mai persa, una quotidiana abitudine che si spinge oltre il semplice acquisto di cibo.

ingrediente essenziale della cucina thai.

Con l’arrivo dell’anno lunare la Thailandia si trasforma, per tre interi giorni, in un campo di battaglia. Protagonista assoluto è l’acqua.

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storie profane di pachidermi sacri di Claudia Diaconale foto di Ilaria Di Biagio | ilariadibiagio.com

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tavamo semplicemente scherzando. Ridevamo, chiacchieravamo ed è venuto spontaneo portare una mano vicino al suo volto per fargli una piccola carezza. Per un attimo, meno di un secondo, nei suoi occhi è apparso del terrore, quasi reverenziale. Poi, quasi ridendo, ha detto che quella era la tipica eccezione che confermava la regola. Era il 2005, vivevo in Australia ed è stato il giorno in cui ho conosciuto il mio fratellino spirituale Om. Sapevo che in certe culture la testa è il punto del corpo più importante, ma non ho mai creduto si potesse considerare sacra. Si, proprio sacra. Al punto che neanche i genitori possono toccare la testa dei figli una volta superata la loro infanzia. Se si vuole offendere qualcuno e si vuole avere la certezza di riuscire nel proprio intento basta avvicinare un qualsiasi oggetto alla testa della persona in questione e il gioco è fatto. Sono seria. Non ci credevo, pensavo che Om mi prendesse in giro, ma sono bastati pochi minuti del suo racconto per farmi immergere nella magia che avvolge la cultura thailandese. Ammetto che a vent’anni mi veniva da ridere e quindi gli ho fatto la domanda più banale di tutte: ma perché considerate sacra proprio la testa? La sua faccia sprizzava gioia da tutti i pori e, allo stesso tempo, aveva assunto quell’aria di chi ti dice che una risposta netta non la ha, ma forse, se hai fatto quella domanda, hai voglia di sentire una storia. E lui ha scelto di iniziare la sua raccontandomi dei tanti miti legati al dio Ganesh (o Ganapati). Al di là delle centinaia di versioni che si possono sentire, in tutte c’è sempre la madre Parvati che genera questo figlio senza l’aiuto del padre Shiva. La notte del concepimento sogna un elefante che scende dal cielo, per questo prenderà il nome di Ganesh/Ganapati, Signore degli esseri celesti. Ma poi il figlio della dea, che aveva sembianza di un bambino, viene decapitato e per riportarlo in vita gli altri dei portarono la testa di un elefante da riattaccare al corpo. Ecco perché la testa è sacra in Thailandia. Già, ma perché l’elefante? La risposta è ovvia: perché anche gli elefanti sono sacri. Anzi, sono praticamente l’elemento fondante della loro mitologia, religione, cultura e perfino dello stile di vita. Si dice infatti che Buddha stesso scelse le sembianza di un pachiderma per scendere sulla terra. Senza contare che, ancora oggi, gli elefanti vengono utilizzati come mezzi di trasporto e per svolgere tutti quei lavori pesanti impossibili alle sole forze umane. Prima dell’in-

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dustrializzazione, erano anche l’unico mezzo di trasporto e strumento di lavoro. Un’ottima ragione per rispettare questa creatura. Ma quando Om mi raccontava del suo mondo, con gli occhi luccicanti colmi di amore per la sua casa e pieni di speranza per il futuro, in Thailandia c’erano ancora circa diecimila esemplari di elefanti. Oggi sono circa quattromila e sono meno di tremila gli esemplari allo stato selvatico. Il rischio estinzione è alle porte e la continua riduzione del loro habitat naturale, la convivenza sempre più forzata con l’uomo e il bracconaggio di certo non facilitano la situazione. Penso a nove anni fa, a quanti sogni non infranti Om e io dovevamo ancora provare a vivere e a quanto sono cambiate le cose. Mi chiedo come se la sta cavando lui in questo momento di crisi economica mondiale. Penso a quanto sono ammirabili quel migliaio di elefanti in cattività che, pur di non vedersi rimpiazzare da una macchina e ritrovarsi disoccupati, si rimettono ancora una volta alle decisioni dei loro mahout (addestratori) e si prestano a imparare improbabili acrobazie per il divertimento dei turisti. Rivedo ancora gli occhi di Om e spero con tutto il cuore che a lui vada meglio, risento nelle orecchie la nostra promessa e mi rendo conto che non sono l’unica che non si vuole accontentare del male minore. Ben vengano gli elephant camp per turisti o il famoso Thai Elephant Conservation Center (TECC) di Lampang, uno dei più attivi centri asiatici di conservazione della specie, se l’alternativa è l’estinzione. Ma queste iniziative non sono più sufficienti. Non si possono cancellare gli errori del passato ma si può cercare di far volgere al meglio il futuro. E, nonostante le immense difficoltà legate a questo nostro mondo e a questa nostra epoca così affascinante e contraddittoria, aumentano gli sforzi per rimpossessarsi di uno dei valori più importanti che stiamo perdendo: il rispetto per ciò che è diverso da noi. Ben vengano allora le iniziative come la Festa degli elefanti che si svolge a marzo nella città di Ayutthaya per promuovere una cultura pro elefante e sensibilizzare anche i turisti: forse rimane una goccia nell’oceano ma, sempre - come direbbe Om - se levassimo tutte le gocce l’oceano non esisterebbe nemmeno! Senza contare che possiamo sempre prendere spunto dal presente per imparare e migliorarci. Basta osservare quello che avviene nel villaggio di Ban Ta Klang, dove gli abitanti, i Suay, allevano i pachidermi come amici, animali domestici con cui condividere la loro vita.

curiosità |

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lungo il Mekong testo e foto di Albertina D’Urso | albertinadurso.com

una rudimentale casa di pescatori a Pakse in Laos

na, Birmania, Thailandia, Laos, Cambogia e CVietnam sono paesi molto diversi tra loro e spesi

so perfino contrapposti l’uno all’altro, eppure sono legati da un comune denominatore: il Mekong, il fiume più lungo e importante dell’Indocina, che garantisce la sussistenza di almeno settanta milioni di persone. è vitale per l’economia degli stati che tocca e in parte è anche linea di confine naturale tra essi. Le sorgenti, difficili da individuare, si trovano nell’altopiano del Tibet. Da qui il fiume scorre nella provincia cinese dello Yunnan, dove forma profonde gole tra le imponenti montagne, scende fino a bagnare il capoluogo Jinghong e prosegue verso Sud segnando per circa duecento chilometri il confine naturale tra Birmania e Laos. Attraversa poi la regione chiamata Triangolo d’oro, un’area multietnica e multiculturale compresa tra Birmania, Laos e Thailandia, nella quale convergono numerose comunità tribali, dedite soprattutto alla coltivazione dell’oppio, che non conoscono confini geografici e politici e sono fuori dal controllo dei rispettivi governi. Da qui il Mekong costituisce il confine tra Laos e Thailandia; si inoltra in Laos, per tornare poi a segnare il confine tra questi due paesi per diverse centinaia di chilometri, fino ad allargarsi sensibilmente forman-

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do la regione di Si Phan Don (quattromila isole) ed entrare in Cambogia dove, nella capitale Phnom Penh, confluisce con il fiume Tonle Sap. Infine sfocia in Vietnam, non lontano dalla città di Ho-ChiMinh, formando un enorme e popolatissimo delta. Il Mekong è da sempre un’importantissima fonte di comunicazione tra i popoli che vivono nel suo bacino. I milioni di persone la cui vita è legata ad esso sono accomunate non solo dalla dipendenza dalla pesca, dalla coltivazione del riso e da uno stile di vita simile, ma anche da continui scambi, resi molto più semplici dalla presenza del fiume, per lunghi tratti facilmente navigabile, rispetto a quelli con altre popolazioni che, pur appartenendo allo stesso paese, sono separate da montagne e da strade lunghe, tortuose e difficilmente percorribili. Nonostante i legami e le similitudini tra le persone che vi abitano, le sponde del Mekong sono state teatro di atroci guerre che hanno segnato profondamente sia la popolazione sia il territorio, ancora disseminato di mine inesplose, e attualmente le sue preziose acque sono al centro di violenti contrasti geopolitici per via dello sfruttamento dell’energia idroelettrica. Negli ultimi anni i rapporti tra i paesi rivieraschi si stanno nuovamente incrinando a causa dei progetti di dighe messi a punto sull’alto corso



Ayutthaya una città cosmopolita di Fiamma Creazzola vincitrice del casting Raccontaci il tuo Trip e vinci la Thailandia

© Azim Zainudin | azimzainudin.com

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on più di un milione di abitanti, Ayutthaya fu la gloriosa capitale del regno del Siam dal 1350 al 1767. Il suo nome ha origini leggendarie: proviene dal sanscrito, Ayodhya, che significa l’invincibile ed è riferito alla città del dio Rama, protagonista del poema indiano Ramayana. L’antico regno comprendeva gli attuali Laos e Cambogia, la parte sud-orientale della Birmania e alcune città della Malesia, e nel momento del suo massimo splendore il suo territorio occupava una superficie superiore a quella di Inghilterra e Francia messe insieme. Così Ayutthaya, con i suoi tre palazzi reali, trecentosettantacinque templi, ventinove fortezze e una posizione geografica strategica al crocevia fra Indonesia, India e Cina, divenne centro nevralgico degli scambi commerciali con l’Asia e punto di connessione tra Oriente e Occidente, diventando una città cosmopolita. Fu costruita in una posizione ideale, racchiusa e protetta da tre fiumi, il Chao Phraya, il Pa Sak e il Lopburi, creando una fortezza acquatica quasi inespugnabile e vantando una collocazione di riguardo sulla mappa dei grandi porti asiatici. I primi a insediarvisi furono i cinesi, seguiti dai giapponesi e dai persiani. Nel 1498 Vasco da Gama e i suoi vascelli portoghesi superarono il capo di Buona Speranza, aprendo una nuova rotta commerciale e inaugurando l’espansionismo europeo in Asia. Seguirono gli olandesi, gli inglesi della Compagnia delle Indie Orientali, i danesi e i francesi. Nel XVII secolo, sotto il regno del re Narai, il più aperto e cosmopolita dei sovrani, Ayutthaya intrattenne stretti rapporti con la Francia del Re Sole. I suoi contatti diplomatici interessavano la corte di Versailles, quella di Delhi e quelle imperiali di Cina e Giappone. Insieme con un milione di siamesi, i portoghesi, i francesi, gli olandesi e i britannici vivevano in enclave costruite secondo lo stile architettonico del paese d’origine, dove ognuno poteva esercitare

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la propria religione e costruire le proprie chiese. Dal punto di vista artistico veniva assimilata una gran quantità di influenze straniere, che si traduceva in un mix eclettico di stili ereditati in parte dal precedente impero di Sukhothai, in parte dal regno di Angkor, in parte mutuati dagli stili giapponese, cinese, indiano, senza contare gli influssi europei. Il declino cominciò nel XVIII secolo con l’invasione da parte dei birmani dopo due anni di assedio, cominciato nel 1767 e testimoniato ancora oggi dalle rovine. Ayutthaya venne rasa al suolo e smantellata per costruire i templi e le pagode di Bangkok. I suoi monumenti, quando non sono andati distrutti, sono stati invasi dalla vegetazione. Ne è un esempio il Phra Mahathat, uno dei templi più suggestivi della città archeologica, costruito nella seconda metà del XIV secolo. Ancora oggi porta i segni dell’incendio che appiccarono i birmani insieme alla decapitazione delle statue di Buddha, dove la natura diventa anch’essa protagonista con le antiche rovine. Lascia senza fiato la celebre testa di Buddha incastonata in un secolare intrico di radici di un bodhi tree, un albero simile a un fico. La leggenda vuole che, quando i birmani decapitarono le statue, una testa cadde ai piedi di un albero che la circondò proteggendola. Altro tempio simbolo della città è il Wat Phra Si Sanphet, il più grande di Ayutthaya, di cui oggi sopravvivono solo i tre enormi chedi che conservano le ceneri di importanti sovrani e al cui interno era un tempo custodita un’enorme statua di Buddha ricoperta da duecentocinquanta chili d’oro, distrutta e fusa dagli invasori birmani. Verso la parte Ovest dell’isola, sulla sponda del fiume, svetta il magnifico Wat Chai Wattanaram, costruito in stile khmer, simile ai templi di Angkor, ancora più suggestivo la sera, quando il sole tramonta dietro il chedi principale.



Quasi tutte le strutture religiose sono costruite secondo una fusione di elementi tradizionali del buddhismo Theravada con richiami al simbolismo e alla cosmologia indù. In Thailandia infatti il buddhismo è permeato dall’animismo ed è la cosmologia indù a dettare i principi per la struttura dei templi. Secondo la fede induista, che crede in universi separati e paralleli, una grande torre, che rappresenta il Monte Meru, dimora mitica degli dei, doveva trovarsi al centro, con trentatré piani simbolo dei trentatré livelli del paradiso, mentre i chedi avevano alla sommità un globo per rappresentare il nucleo del Nirvana, e

i fossati simboleggiavano gli oceani che separavano la razza umana dalla dimora degli dei. Oggi di quell’antico splendore rimane un’area archeologica (dichiarata dal 1991 patrimonio dell’umanità dall’Unesco), che comprende quattrocento siti di rilevanza storica. Passeggiando in bicicletta lungo le sponde del fiume Chao Phraya si prova la sensazione di trovarsi in un luogo leggendario, circondato da un’aura di misticismo, dove si respira lo splendore e la potenza di un impero che dominò il Sud Est asiatico per quasi quattrocento anni.

© Wilson Loo | goo.gl/jaoGiK

GLOSSARIO Chedi

Lo Stupa (dal sanscrito stūpa) è il monumento dove si conservano le reliquie. Letteralmente significa fondamento dell’offerta, simbolicamente rappresenta il corpo di Buddha, la sua parola e la sua mente che mostrano i sentieri dell’illuminazione. Dall’India lo stupa si diffonde in tutta l’Asia sud-orientale, in forme e modi diversi. Nel Sud Est asiatico viene chiamato chedi (dal sinomino in lingua pāli).

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Nirvana

La parola nirvana esprime un concetto proprio delle religioni buddhista e giainista, successivamente introdotte nell’induismo. Nel buddhismo ha un ruolo fondamentale in quanto possiede il significato sia di estinzione (da nir + √va, cessazione del soffio) che libertà dal desiderio (nir + vana). È uno stato di perfetta beatitudine consistente nel totale annullamento di ogni desiderio e realtà terrena.

Buddhismo Theravada

È l’unica delle antiche scuole buddhiste ad essere sopravvissuta fino ai nostri giorni. Letteralmente dottrina (vada) degli anziani (thera) quelli che più s’avvicinavano al Buddha Shakyamuni e che più di tutti rifuggirono da ogni innovazione di tipo teorico. È la forma di buddhismo dominante nell’Asia meridionale e nel Sud Est asiatico, in particolare in Sri Lanka, Thailandia, Camboracconto di viaggio | 29 gua, Myanmar e Laos.







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Quando un maestro del tatuaggio indossa una maschera ruesii sacra, si ritiene che diventi un medium per Por Gae Ruessii Ta Fai (occhio del vecchio padre) e per vecchi eremiti venerati dai thailandesi. Si dice che i tatuaggi hanno maggiori poteri quando applicati da Por Gae. Indicato come un uomo barbuto con i denti sporgenti e una postura ingobbita che indossa una pelle di tig re e cammina con un bastone da passeggio, il ruessii indossa un cappello che assomig lia a un casco con un grande tubo nella parte superiore. Le raffig urazioni del ruessii lo mostrano con un terzo occhio al centro della fronte.

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bio Cedric Arnold nasce nel 1976 per metà francese e per metà inglese. Inizia la sua carriera fotografica nel 1999 a Londra, poi a Belfast e infine con la famosa agenzia fotografica Sygma. Si è trasferito in Asia nel 2011 ed ha pubblicato i suoi progetti fotografici Domenica Times, FT, Time, Travel & Leisure, GQ, Wall Street Journal. Ha all’attivo diverse mostre. Attualmente vive a Bangkok, in Thailandia. Utilizza tutti i formati, dal digitale al 4x5. Dice di trovarsi a suo agio sia nel lavorare da solo in zone remote che con un team di creativi e un equipaggiamento adeguato per l’illuminazione. Cedric parla correntemente francese, inglese e thailandese. Ha collaborato con diverse importanti aziende come: Samsung, Rotary International, Le Nazioni Unite, l’Oreal, Sofitel, McCann, Erickson, Lafarge, Cartier, Thai Airways, National Geographic Channel, McAfee.

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fujifilm presenta

Fabio Camandona

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la materia dei sogni di Massimo Morello | bassifondi.com

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omani c’è la luna rossa. Andiamo a Koh Samet». È una frase che si sente ripetere spesso nelle serate di Bangkok, quando ci si ritrova tra expat, gli espatriati occidentali che vivono nella capitale thai. Farang, stranieri, li chiamano i thai. La luna rossa in realtà è un fenomeno astronomico che si verifica durante le eclissi lunari. Ma ormai è un modo di dire per la luna che si vede grande e bassa sull’orizzonte, rossa per una semplice illusione ottica. E comunque è un pretesto come un altro per un week end a Koh Samet (o Samed, come suona in thai). Il contrasto con la spiaggia bianca ha un che di elettrico. Anche perché è sottolineato dalle lampadine colorate dei ristoranti e dei bar beach style. L’isola - questo significa koh - sulla costa orientale del golfo di Thailandia è una delle più facilmente raggiungibili da Bangkok. Sono poco più di duecento chilometri sino al porto di Rayong (a sua volta vicino a Pattaya, una delle più note località turistiche thai: spiagge lunghe, grandi alberghi e molte luci rosse) e da là un breve tratto in barca. Due, tre ore in tutto per un costo che va da poco più di 500 baht (12 euro) a 3000 (66 euro). Dipende da come si viaggia: bus, minivan, taxi, traghetto o motoscafo. Ecco perché Koh Samet è tanto frequentata dagli expat: si decide la sera a cena e il giorno dopo si è in spiaggia per pranzo. Per gli stessi motivi è tanto frequentata dai giovani thai. Non i rampolli della Hi-So, l’alta società (come qui si definiscono senza alcuna ironia), che hanno altre destinazioni, ma i figli della nuova middle-class. Non a caso Samet è stata scoperta dai loro padri, all’inizio degli anni Ottanta, quando la Thailandia viveva il boom economico delle Tigri Asiatiche. Hanno scelto Samet come luogo di ritrovo per festeggiare qualsiasi ricorrenza personale o nazionale (il calendario locale è fittissimo d’occasioni) e celebrare i riti del sanuk, il divertimento, uno dei cardini della kwampethai, la “thailandesità”. Samet è anche il luogo perfetto nella visione romantico-pop nazionalpopolare: è lo scenario in cui si svolge Phra Aphaimani, poema di Sunthorn Phu (1786-1856) uno dei più amati poeti thailandesi, storia di un principe esiliato in un regno sommerso, che con l’aiuto di una sirena riesce a fuggire proprio in quell’isola. È una zona, invece, poco frequentata dai turisti in cerca di trasgressione o di una seconda gioventù, che normalmente si arenano a Pattaya. «Non c’è nemmeno il solito italiano “scoppiato” che apre una pizzeria con una ragazza thai che l’ha agganciato in un bar» dice una frequentatrice di Koh Samet. Lei ci va proprio per quest’assenza. Assente anche la tribù dei backpacker, dei lonely-planeter, i giovani occidentali in giro per le vie dell’Asia alla ricerca di The Beach. Forse perché Samet è troppo poco “remota”, o perché non è vero che tutti i giovani sono uguali e quelli thai si divertono in modo diverso. Il senso del pudore delle ragazze della borghesia thai è inversamente proporzionale a quello dei bar e il massimo dello sballo è un cocktail di whisky e red-bull (anzi, di krating daeng, che significa sempre toro rosso ed è la bevanda energetica che ha ispirato la sua versione occidentale). I party, poi, finiscono al massimo a mezzanotte e la musica è spesso del genere luuk thung, versione locale del country, e sempre intervallata da un chun rak ter, ti amo. Per i full moon party bisogna spostarsi molto più a Sud. La spiaggia, però, è proprio quella sognata: lunghissima, si distende su quasi tutta la costa orientale e, come in tutte le isole, è suddivisa da promontori e scogli: all’estremo Nord la più bella - e quindi la più frequentata - di Hat Sai Kaeo, poi Phai Beach, Tub Tim e Pudsa.

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©Riccardo Ghilardi

Tutte delimitate da una quinta di guest house e piccoli resort - non ci sono alberghi che superino l’altezza delle palme - a prezzi che variano da 900 a 20000 baht (da 20 a 450 euro) e ristoranti bordo mare che servono più o meno la stessa cosa: pesce, in genere fresco, quasi sempre al barbeque e volentieri accompagnato dalla nam pla, la salsa di pesce fermentato che dà odore e sapore ai piatti del Sud-Est asiatico. Anche il gusto del nam pla, come tutto il resto, trasforma Koh Samet nel micro teatro di un cultural clash tra Oriente e Occidente. E anche per questo l’isola diviene un esempio, degli equivoci, delle illusioni e disillusioni (concetto proprio della cultura orientale) che si alternano tra le isole come i flussi delle maree, elemento spesso trascurato. Secondo il sociologo francese Marc Augé, il viaggiatore contemporaneo insegue le immagini che hanno costruito il fascino di un luogo, cercando quello che è troppo bello per essere vero. Il desiderio del viaggio è quello di toccare l’immagine matrice. Se c’è un luogo al mondo in cui tale desiderio possa realizzarsi, questo è la Thailandia. Chiusa tra due mari, da migliaia di chilometri di costa che alternano distese di sabbia, specie a Est, e spettacolari pare-

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ti calcaree, a Ovest, che digradano in fondali corallini e acque disseminate da formazioni carsiche scolpite dal vento e dal mare, fronteggiate da una miriade di isole e isolotti riuniti in arcipelaghi o isolati nell’oceano, è una sequenza continua di immagini matrici. Qui, davvero, ognuno materializza il proprio sogno, che sia quello della spiaggia perfetta o dell’isola perduta, di una foresta vergine, di un panorama che sembra uscito dal pennello di un acquarellista orientale, ma anche il sogno della vacanza in un resort dal lusso esotico o in un centro turistico che offra ogni possibilità di divertimento e sport. Il problema è non perdersi tra tante suggestioni e riuscire e vedere anche al di là di quelle immagini, per scoprire aspetti di vita e di cultura che a volte restano celati: la tradizione, l’economia, i cambiamenti sociali. Ma il problema maggiore è di non valutare l’isola secondo quell’immagine matrice. Sarebbe come osservare il dito che la indica anziché la luna. Che sia rossa davvero o appaia tale. Alla fine, tanto per evitare sorprese: tra maggio e settembre Koh Samet è perturbata dal monsone. Per qualcuno è la stagione migliore.



Rama IX: il Re-Fotografo testo e foto di Gioia Di Biagio

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ama IX è il re della Thailandia dal 1946, ha ottantasei anni ed è il monarca che ha regnato più a lungo nel mondo. In Thailandia l’immagine del re è ovunque e onnipresente: gigantografie di Rama IX padroneggiano le porte delle città, poster e quadri raffiguranti la coppia reale sono appesi nei negozi, nei ristoranti e nei centri commerciali. Nei templi l’icona del re Bhumibol Adulyadej siede accanto a Buddha ed è considerato suo pari. I thailandesi venerano il proprio monarca incondizionatamente, è amato e va rispettato: come in un tempio non si possono volgere i piedi verso Buddha, allo stesso modo è offensivo pestare una banconota in cui è raffigurata l’immagine del re. Viaggiando per la Thailandia ho visto i sessantotto anni di monarchia di Rama IX attraverso poster e foto incorniciate. In un agriturismo vicino al Monte Doi Suthep il re giovanissimo sorride alla sua bella regina; nel wat di Chiang Mai il sovrano medita in veste monacale, nelle banconote tiene in mano la macchina fotografica. In moltissime immagini infatti re Rama IX è ritratto con la sua Leica, quasi a voler immortalare la sua presenza in ogni tempo e luogo del suo amato paese.

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Muay Thai di Valentina Diaconale foto di Vincenzo Floramo | floramo.it



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il tempio buddhista Wat Benchamabophit, detto Tempio di Marmo, realizzato da Mario Tamagno e Annibale Rigotti rubrica |

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Foto: Helmut Berta

Foto: Vanda Biffani

Foto: Helmut Berta




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